Manierismo di Kant. Studio di estetica politica 8860320321, 9788860320322

L'autore vede iniziare con Kant e con la filosofia professorale la parabola discendente del pensiero moderno. L

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Manierismo di Kant. Studio di estetica politica
 8860320321, 9788860320322

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Michele Barbieri

Manierismo di Kant Studio di estetica politica

Società

Editrice Fiorentina

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La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali dell’Università degli Studi di Siena e con fondi del piano di Ateneo per la ricerca

© 2007 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 [email protected] www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-032-2 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Jusepe de Ribera (1591-1652), Il tatto, 1615-1616 ca, olio su tela, 115,9 x 88,3 cm (Pasadena, CA, The Norton Simon Foundation)

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All’amico e maestro Claudio Annaratone

Non è soltanto nella poesia e nella musica che dobbiamo seguire il nostro gusto e il nostro sentimento, ma anche in filosofia. David Hume

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Indice

Presentazione

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Introduzione: Filosofia politica de la critica

27



28 31 36 41 48 53 59 62 64 67 69 71 75 77 81 84

Libri da ascoltare Manierismo, autismo Militarismo, revisionismo, moralismo Anarcosindacalismo, barbarie, pregiudizio Neokantismo Libertà e forma, egemonia Nozioni, istituzioni Filosofia politica, dottrine politiche Analogie Intellettualismo e caratteri Schemi, archetipi Impressioni originarie complesse Dogmatismo linguistico dell’empirismo Formule logiche secondarie, giudizi in concetto Intellettualismi rivali Bibliografie: nient’altro che percorsi di lettura

Parte prima: Avanti «La Critica»

87

i. Analisi tematica

89



Su di un profilo dossografico Su di un profilo stilistico Su di un profilo logico Su di un profilo esemplificativo Su di un profilo formale Su di un profilo metaforico e testuale Su di un profilo figurale

92 104 123 138 154 170 181

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ii. Analisi cronologica

189



190 206 240 262

«L’unico argomento» La «Teologia naturale» Le «Quantità negative» Le «Osservazioni», i «Sogni»

Parte seconda: «La Critica»

291

i. Una critica del testo

293



294 301 307 315 324 334 343

La città sensibile La città tralasciata La città antonomastica La città concreta La città nascosta La città celeste La città fondata

ii. Una logica del testo

351



353 363 370 379 391 396

La città animastica La città data La città intuitiva La città esterna La città svelata La città cosmica

Epilogo: Centralità logica di un problema lirico

407

indici

421



423 429

Indice onomastico Indice tematico

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Presentazione Mortali del tutto ignari vanno errando, dalla doppia testa: perplessità nei petti dirige infatti la lor mente vagante; e sordi insieme e ciechi, inebetiti, son trascinati senza criterio, tenendo l’essere e il non-essere lo stesso, oppure no, e pronti a rifare ogni strada a ritroso. Parmenide (DK 6) L’imitare è connaturato agli uomini sin da fanciulli, e in ciò si distingue l’uomo dagli altri animali: in quanto è un essere estremamente imitativo, e si procura per imitazione le prime nozioni. Aristotele, Sulla poetica

Desidero cominciare giustificando l’insolita ampiezza di questa Presentazione: tra le innumerevoli letture che spesso lo attendono, penso che il lettore abbia il diritto di annusare un libro, per capire nello spazio di poche pagine se valga la pena di perderci il suo tempo. Il titolo, Manierismo, significa per lo più: intellettualismo sensibilmente fondato – vale a dire: la pretesa di dare una fondazione sensibile all’intellettualismo, che contraddistingue Kant rispetto ai filosofi ‘intellettualisti’ da lui stesso come tali apertamente menzionati (Platone e Leibniz), o non apertamente menzionati (gli scolastici), o come tali non menzionati (Cartesio) nella Critica della ragion pura. Il sottotitolo, Studio di estetica politica, sta a significare la più scomoda espressione: Studio logico e ideologico, su base per lo più filologica, di filosofia politica. S’intende che le due espressioni valgono come equivalenti – solo, si capisce, non reciprocamente: con la filologia che sta all’estetica, e con questa che sta alla filosofia, come contenuto a contenente. E parlando di ‘estetica’ non intendo riferirmi ad alcuna pretesa scienza del bello, naturalmente, bensì alla disciplina di qualsivoglia sensibilità intelligibile, o almeno discutibile; né intendo per ‘filologia’ alcuna arte ricostruttiva del testo, bensì nient’altro che l’attenzione specialmente rivolta a percepire l’intenzione dell’autore, e il risultato del testo.

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10   presentazione

Comunque lo si vorrà giudicare, e sebbene io non pretenda di rappresentare nient’altri che me stesso, questo libro risulta essere di fatto il prodotto, non del tutto singolare, di un’Italia che «non s’inkanta»1. Ma il suo scopo non è quello di distogliere da false vie maestre né, tantomeno, di abbassare la statura di alcuno. Esso vuole offrire un contributo allo studio delle origini prossime di una mentalità nazionale, a cominciare dalle forme prime di mentalità dei ceti dirigenti intellettuali. Il caso tedesco è stato di eccezionale importanza per spiegare l’avventura del Novecento: la quale ha visto addensarsi nei piani dei circoli economici burocratici e militari aspirazioni e arroganze già da lungo tempo vive e sancite in ambienti accademici. Da simili aspirazioni e responsabilità Kant è stato di solito esentato, e fatto anzi lume in tempi di tenebre: lume irenico, oppure realistico. L’appello, in entrambi i casi, è legittimo – ma lo considero in ogni caso un errore. E in quanto è stato, in particolare, un errore ‘di sinistra’, considero il ritorno a Kant nient’altro che uno dei tanti fallimenti teorici della sinistra – il secondo, almeno, dopo la pretesa di fare del socialismo una scienza. E non basta: perché al di là del ripiegamento su Kant, che è piuttosto frequente negli hegeliani disarmati o pentiti (in coloro, insomma, che non si sono limitati a ripiegare soltanto sino a Fichte – per poi, di solito, riaprire la dialettica autistica del ciclo idealistico), c’è ancora un terzo errore, consistente nel gettare, al di sopra e a dispetto di Leibniz, più lontani sguardi sul retroterra strategico della metafisica spinoziana – vale a dire: sulle complicità che il primato teologico della Sostanza può offrire a un materialismo ideologico, avido di assoluto semplicemente perché stanco delle dialettiche. Dopo avere accolto l’invito kantiano col cercare di dare fondamento scientifico a un’ideologia della fraternità, della speranza e del lavoro, il marxismo si è reso responsabile anche di questo sconfinamento prospettico del socialismo, dal quale esso ha tratto i suoi veri paraferni totalitari, al di là degli armamentari hegeliani. E al di là dello spinozismo, su di uno sfondo ancora più remoto, s’innalza poi lo schema neoplatonico dell’unica emanazione graduata dall’alto: il quale costituisce, in definitiva, la legittimazione metafisica di ogni ideologia della politica intesa (la politica) come estensione e continuità dell’amministrazione – vale a dire: della politica concepita come negazione dell’essenza

1   Il giudizio di Melchiorre Gioia è tratto da Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, iii, p. 1071. Con sufficienza Garin rimprovera all’ambiente filosofico italiano d’avere esaurito un’esigenza antidogmatica in una «pura descrizione della vita psichica», incapace d’innalzarsi alla filosofia trascendentale e alla metafisica del «kantismo». Il biasimo si riduce, in definitiva, al fatto di non aver saputo cogliere tempestivamente l’occasione per salire sull’ultimo treno della Storia della Filosofia.

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presentazione   11

o forma della politica2, e come affermazione di un significato ‘forte’ (cogente sanzionatorio statualistico) dell’ideale di una umanità riunita nell’edificio amministrativo dell’Impero. Il neoplatonismo come tarda, e tardiva, ideologia cosmica dell’Impero concepito come uno Stato (basato, cioè, su una relazione di emanazione gerarchica, e di diretta partecipazione dell’autorità ai territori e ai soggetti, anziché, essenzialmente, su di un libero rapporto d’imitazione e di emulazione: come invece è stato tipico, per esempio, del feudalesimo, e come è ora tipico delle democrazie contemporanee in ciò che abitualmente chiamiamo Occidente); il neoplatonismo, dunque, è già nient’altro che una teologia della Sostanza estesa nei modi. E più indietro ancora, infine, c’è la pura e semplice confusione logica e terminologica della nozione di essenza con la nozione di sostanza, che è tipica di tutto il mondo antico. Il suo inizio può essere rintracciato nella gnomica oracolare di tipo eracliteo, nella quale si trova per la prima volta, accanto alla fisica e metafisica della multiforme e fluente Sostanza, anche l’intuizione dell’Essenza, ossia dell’unità ontologica come puro rapporto simbolico e come stabile forma sensibile – o come ‘senso’ dell’essere, insomma, che manca al pitagorismo. Una quantità di ragioni, storiche e non, ha poi fatto sì che il pensiero speculativo sull’Essenza, o sulla forma e sul rapporto, non abbia avuto uno sviluppo neppure lontanamente paragonabile ai grandiosi sviluppi sistematici della metafisica della Sostanza. Già il completo sacrificio del pensiero eracliteo all’idea del perpetuo divenire e del fuoco, che si consuma sin dai suoi primi imitatori e seguaci, sta lì a mostrarlo – insieme con la conseguente, inevitabile, polemica antiintellettualistica parmenidea contro uomini incapaci di darsi una qualsiasi ferma opinione: in balìa (diremmo noi) di tutti i regimi, indifferenti, ovvero pronti a correre in soccorso dell’ultimo vincitore. Il perpetuo fluire delle opinioni non è che successione ininterrotta di relazioni – ma è un errore credere che nulla ne rimanga di stabile: esistono anche le ferme e rette opinioni, le nozioni virtuali d’ordine superiore che si generano per via cinematica di narrazione – a partire, per esempio, dall’Umanità e dalla Giustizia. Il loro involontario scopritore è Hume, il quale credeva di potere, così descrivendole, soltanto smascherare come pure illusioni dell’immaginazione. Scrive egli infatti in una pagina del Trattato sulla natura umana: 2   Uso qui come altrove, per lo più, i termini ‘essenza’ e ‘forma’ come sinonimi; e intendo la forma come niente più né meno che l’aspetto sensibile dell’essenza. Dovrò precisare, all’occasione, che i termini non si equivalgono (nella Parte Seconda, al capitolo sulla Logica del Testo, per esempio, fra le note 16 e 17).

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12   presentazione La vera natura ed essenza della relazione è, appunto, di unire le idee le une alle altre, e all’apparire dell’una facilitare il passaggio all’idea correlativa. Il passaggio tra le idee in relazione è, quindi, così piano e facile, che produce ben lieve alterazione nella mente, e sembra la continuazione di un medesimo atto; e poiché la continuazione d’uno stesso atto è un effetto della continuata osservazione di uno stesso oggetto, questa è la ragione per cui attribuiamo l’identità ad ogni successione di oggetti in relazione. Il pensiero scorre attraverso quella successione con eguale facilità, come se considerasse un oggetto solo, e quindi confonde la successione con l’identità3.

Ma in tal modo Hume non faceva che togliere la maschera a una verità: dell’uomo come animale emotivo, mnemonico, immaginoso. Egli non conosceva ancora il cinema – ma è pur vero che il cinema è antico quanto la letteratura; e nelle opportune condizioni la letteratura è in grado di trasformare una successione ininterrotta di relazioni nello stabile rapporto che suggerisce il vero ‘senso’ delle cose. Perciò Eraclito ebbe, in definitiva, un unico torto: quello di non possedere il talento narrativo di un autore tragico; e per naturale conseguenza detestò i poeti, e immaginò che la metafisica fosse qualcosa di diverso e di superiore rispetto alla letteratura – inaugurando, così, una lunghissima e saldissima tradizione, che si spalanca con Platone. Ma il lettore si guardi intorno, e risponda oggi francamente: qual è ormai, per noi, la copia della copia, e qual è l’originale – le trattazioni dei filosofi sulle passioni, o la loro espressione nei poeti? Chi è più vicino all’originale: il secondo libro del Trattato di Hume, o il teatro di Metastasio? Qual è, dopo Shakespeare, il libro scritto a caratteri più piccoli e meno leggibili: quello della città, o quello del cuore? Quanto poi allo schema gerarchico dell’emanazione, ossia del perpetuo flusso dall’alto, è anche vero che esso è a suo modo una stabile forma conciliata con l’idea del perpetuo movimento – ma lo è in quanto questa forma è, per l’appunto, nient’altro che un semplice schema; mentre in quanto questo schema è gerarchico esso rappresenta la pura e semplice negazione del rapporto, e perciò della forma intesa essenzialmente come rapporto. Ma in ogni caso, chi spera o teme di trovare in questo libro una complicata giustificazione preliminare dell’uso di questi termini, o una successiva disquisizione in sede di trattazione, non le troverà: perché ne troverà invece assai di frequente nient’altro che il semplice uso – il più attento ed efficace possibile, ma soltanto un uso: non diverso, come spiegherò nell’Introduzione, dall’uso di nozioni estetico-politiche come ‘civiltà’ e ‘barbarie’ da parte, per notissimo esempio, del Burckhardt.   Libro i, parte v, sezione ii (a cura di Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1975, i, p. 217).

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presentazione   13

Fra un primato (diciamo così) spinoziano della Sostanza e un primato (diciamo così) leibniziano dell’Essenza Kant si trovò nella posizione di potere scegliere, e con la Critica sembrò anche mettersi su di una strada assai promettente; ma per difetto di una buona cultura della sensibilità finì per riaprire la via alla sistematica sostanzialistica. Sotto questo profilo il suo contributo si riassume, di fatto, in un impulso a quella ricostruzione (ma dal basso) di qualcosa di simile all’edificio neoplatonico, che avviene poi coi grandi sistemi dell’idealismo romantico. Nella genericità e nella vacuità degli assunti estetici kantiani questa metafisica di lungo ricorso non fa insomma che perpetuarsi in forme diverse, dando origine, proprio per difetto di vera cultura estetica, a nuove superfetazioni intellettualistiche; le quali sembrano essere, del resto, il complemento immancabile di ogni metafisica della Sostanza. *** Sotto il profilo più specifico della filosofia politica, considero l’appello o l’appiglio a Kant un errore, non già perché egli avrebbe avute aspirazioni e arroganze simili a quelle che animarono tutti coloro che, in ogni paese d’Europa, furono in qualche modo responsabili di una doppia guerra civile: se si bada ai soli enunciati del suo pensiero, filtrati nelle dottrine politiche, è infatti vero esattamente il contrario. E lo considero un errore non tanto perché giudico illusoria ogni fiducia irenica riposta nei dotti auspici delle sue formule, che valgono quello che valgono; ovvero perché ogni periodico ritorno a Kant consiste, per lo più, nel completarne la dottrina facendogli dire, in definitiva, ciò che non ha detto. No: il problema (per chi ama cercare i problemi, anziché trovare le soluzioni proclamate nei fini, o con le intenzioni) è altrove, assai più originario e riposto; ed è un problema logico, che viene in questo libro indagato con metodo filologico secondo un modo d’intendere la filologia come disciplina primaria della conoscenza sensibile. Il problema politico, logico e sociologico, diventa così un problema estetico. E l’estetica possiede tutti gli strumenti, logici e sensibili, per trasformare un pregiudizio in un motivato e discutibile giudizio. È un metodo faticoso; e non credo di sbagliare di molto affermando che per nove decimi la letteratura filosofica monografica ha trascurato, e ancora di solito trascura, la filologia, e spesso persino la lettura attenta dei testi: il pensiero dell’autore non è che un assunto complessivo, dove ciò che conta è un risultato già noto, per lo più, attraverso la mediazione di scuole e di maestri. L’attenzione rivolta ai problemi di testo e traduzione è per lo più lemmatica,

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e tendente alla sintesi concettuale, come accade per lo più nella letteratura delle riviste; e non cura, anzi evita di considerare nel testo delle grandi opere il ‘senso’ prosastico fortemente diseguale, cioè il valore topico e intenzionale, del materiale prescelto per la campionatura: ciò che fa sì, insomma, che a dispetto di ogni significato concettuale già acquisito da un lemma l’autore proceda, in ogni pagina, flettendolo e anche violandolo per ottenere il suo scopo. Trascurando questo valore topico intenzionale il lemma diventa concetto, e il concetto diventa a sua volta un assunto per la letteratura monografica e manualistica – come dire: pronto per la dottrina e per la scuola. La disunione tra filologia e filosofia risulta così, in definitiva, come discontinuità fra la letteratura monografica e la letteratura specialistica delle riviste, o fra l’esegesi di questa e le interpretazioni di quella4. Come si vedrà in questo libro, soprattutto nella Seconda Parte, questo materiale di campionatura mostra un Kant brancolante in una continua lotta fra scrittura e pensiero – e tuttavia ben deciso ad andare avanti, verso qualcosa che egli già sapeva e voleva. A differenza dei principali tipi d’interesse testuale più noti (praticati, per esempio, da uno Smith, oppure da un Vaihinger: la Critica della ragion pura fatta di contraddizioni a ogni pagina, oppure come costruzione di un prodigioso castello di carte), l’attenzione sarà qui rivolta, per l’appunto, al ‘senso’, o logica di tendenza, di questi brancolamenti: vale a dire, al ruolo istintivo di guida di una costruttiva sensibilità latente. Momento per momento, pagina dopo pagina, questa istintiva sensibilità sistematica dovette accompagnare come volontà organizzativa il raffazzonamento del Trattato. Perdendo di vista questa insensibile guida dell’istinto costruttivo, e dopo avere dato del pensiero kantiano un sunto che è troppo simile al pensiero empirico e relativistico di Hume5, allo Smith non resta che narrare le tergiversazioni della prima Critica. Egli fa largo e libero ricorso all’insieme delle opere di Kant, nonché alla letteratura monografica; e del resto non svolge alcun vero lavoro di attenta analisi su di un testo quanto più possibile raccolto, in se stesso unito e per se stesso significante – come qui, invece, si farà. Ma se è vero che Kant è farraginoso e dispersivo per natura, se è vero che la sua opera si presen4   Una recensione ai progressi del Kant-Index di Norbert Hinske, come quella di Hansmichael Hohenegger (Il ‘Kant-Index’: problemi di filologia filosofica negli indici computerizzati, in ‘Filosofia oggi’, 1992) illustra in poche pagine vizi e virtù della filologia statistica informatica, oltre a riassumere per sommi capi gli assunti principali dell’approccio filologico kantiano di tipo tradizionale. Con Text, Translation, and Tradition Moltke S. Gram apre la raccolta degl’interventi al convegno su ‘Rapporti tra filologia e filosofia nella tradizione kantiana’ della American Philosophical Association nel 1980 (Interpreting Kant, University of Iowa Press, Iowa City 1982). 5   Norman Kemp Smith, A Commentary to [on] Kant’s ‘Critique of Pure Reason’, The Humanities Press, New York 1950, specialmente pp. xxxv-xxxvi.

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presentazione   15

ta, nel complesso, come un affastellamento all’insegna del ‘Malgrado tutto!’, chi si propone di spiegarlo senza farne il solito sunto dottrinale non può, per giunta, farne schizzare le pagine, a ogni occasione, in tutte le direzioni. L’assunto della dottissima, incompiuta e di fatto inservibile opera del Vaihinger è invece, in definitiva, quello di negare al criticismo il significato storico di sintesi e superamento di dogmatismo e scetticismo: rispetto ai quali esso si collocherebbe piuttosto in un ruolo centrale di mediazione (Vermittlung) 6. Simile stabilizzazione orizzontale della tripartizione verticale hegeliana costituisce uno dei principali assunti teorici anche di questo libro, così come di altri studi che sono andato per lungo tempo svolgendo. Peccato però che, quanto a Kant, essa esista soltanto nell’immaginazione dei suoi interpreti: perché egli ragiona sempre, di fatto, in termini bipartiti – come spero si vedrà. La sua è, in realtà, un’arte del tutto instabile del contrappunto e della fuga, messa in logica e in prosa filosofica. Rinunciando al piacere, per leggere Kant bisogna immaginare di ascoltare Bach. Io mostro inoltre frequentemente come il nostro poco avventuroso eroe, anziché alzare gli occhi a rimirar le stelle, si sia assai più preoccupato di non cadere nei pozzi, muovendosi con circospezione fra le grandi alternative o le prospettive teoriche che gli si aprivano via via dinnanzi nel corso della scrittura. Frammezzo a quei vortici, egli si destreggiò alla meglio con la sua navicella, allo scopo di creare e di preservare l’originalità accademica del suo lavoro. *** Le bibliografie servono di solito a compensare il disinteresse per il testo. Le due cose vanno insieme. E se non si propone di fare storia della cultura, degl’intellettuali o delle scuole, perciò, chi predilige la lettura problematica (non confermativa) del testo con le bibliografie guarda e passa. Sto con Montaigne: «Ho visto fare dei libri con cose mai studiate né intese, l’autore affidando a diversi suoi dotti amici la ricerca di questo e di quest’altro materiale per metterlo insieme, accontentandosi per parte sua di averne progettato il disegno e accumulato con la sua abilità quell’ammasso di provviste sconosciute; almeno son suoi l’inchiostro e la carta»7. È troppo severo, Montaigne: a me basterebbe che fossero sue soltanto le idee. E chi crede di averne di proprie ha il dovere di non sacrificarle ad alcuna industria o comunità del commento – né mai lo 6   Hans Vaihinger, Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Union D. VG., Stuttgart Berlin Leipzig 1922, vol. i, pp. 49 ss. 7   Saggi, libro iii, cap. xii (a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992, vol. ii, p. 1412).

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16   presentazione

fa davvero, del resto: come i naviganti si giovano dei venti a favore, e anche a sfavore, per andarsene pur sempre dove vogliono. Cercare, come si dice, di ‘fare il punto delle ricerche’ significa offrire a un lettore, che si suppone ansioso di sapere a qual ‘punto’ siano le ricerche, una buona ragione per esimersi dal leggere l’autore seguendo liberamente una sua strada – ma un simile lettore non andrebbe certamente incoraggiato. Lo studioso, d’altra parte, si giova di simili esercizi cartografici per chiudersi rapidamente in una fitta discussione con i suoi simili – che è poi l’unica cosa che in definitiva gl’interessa davvero: perché da quando il mondo non è che rappresentazione, anche la volontà non è, per lo più, che la normativa accademica di questa rappresentazione – pena (sembra) il disordine delle opinioni e il dilettantismo delle ricerche. Ma una monografia dovrebbe invece servire innanzitutto come un invito a rileggere l’autore con altri occhi – e in ogni caso questo libro è stato concepito a tale scopo, oltre a proporsi di suggerire una risposta al quesito circa le origini teoriche e le responsabilità ideologiche della guerra civile europea. Il cosiddetto ‘punto’ delle ricerche, del resto, semplicemente non esiste; così come non esiste alcun pensiero come un tutto coerente: le due cose di solito vanno insieme. È questione tanto antica, da iniziare con Teofrasto; e non è raro imbattersi ogni tanto in qualcuno che ancora ci crede – col candore, per esempio, di chi spiega che la diligente e tendenziosa opera di Teofrasto non era una storia della filosofia alla maniera alla quale siamo abituati noi, in cui la dottrina di un dato filosofo è di solito presentata come un tutto coerente; ma piuttosto una storia dei vari modi, in cui i filosofi passati hanno tentato di risolvere certi problemi specifici, prendendo ognuno, per così dire, il problema al punto esatto in cui l’aveva lasciato il suo predecessore. (…) Questo … rende difficile agli storici moderni della filosofia trovare, partendo da Teofrasto, che cosa realmente era nella mente di quegli antichi filosofi (…). Ma è specialmente interessante, in quanto implica chiaramente l’idea di progresso8.

Appunto: senza fede nel progresso non c’è storia delle idee possibile – ma per farla bisogna dunque credere che la lettura di Heidegger, per esempio, sia per noi tutti senza alcun dubbio più interessante della lettura, per esempio, dei presocratici. E allora io chiedo venia sin d’ora al lettore: perché ne dubito. 8   Kurt von Fritz, Aristotle’s Contribution to the Practice and Theory of Historiography, University of California Press 1958, pp. 118 ss. (da: Eraclito, Testimonianze e imitazioni, a cura di Rodolfo Mondolfo e Leonardo Taràn, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. cxcv; a p. 23, nota 18, l’origine teofrastea dei due concetti di ‘punto’ e di ‘progresso’).

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presentazione   17

Rinunciando alla compilazione di alcun inutile élegchos, dunque, ma assumendo due semplici sponde dossografiche di partenza, e senza fare storia delle idee, bensì una semplice ordinata cronologia empirica della trattazione, quando serve, seguirò in questo libro la strada della lettura attenta, dedicando l’intera Parte Prima agli scritti cosiddetti precritici, senza sdegnarne affatto il modesto valore teorico: non c’è altro modo per mostrare che, eccettuate le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Kant giunse ben oltre la metà della sua vita senza dar segno di possedere alcuna vera creatività o talento. Ben pochi, del resto, si azzardano ad affermare che li abbia posseduti, mi pare; e infatti la letteratura di metodica trattazione di questi scritti, in una lettura critica in sé raccolta, com’è questa, non abbonda affatto. Ma l’esiguità della letteratura sull’insieme degli scritti precritici non significa che noi ci stiamo qui accingendo allo studio di quesiti che, in definitiva, nessuno ha posto: perché la Critica della ragion pura non può non essere sortita dalla personalità dell’uomo, dal suo Gemüth, specialmente dopo dieci anni di silenzio per le stampe. E che nella Critica Kant abbia per lo più evitato di spiegare proprio quel che sia il Gemüth non è buona ragione per trascurare di auscultarlo in lui. C’è modo e modo di farlo, però. Quest’unità radicale delle facoltà conoscitive nella psicologia della coscienza è proprio ciò che un uomo come Carlo Cantoni e la sua scuola, per esempio, hanno cercato di rendere meno fantomatica nella Critica – ma dubito che Kant avrebbe gradito un servigio, col quale si sarebbe semplicemente portata la distruzione nel suo edificio. I più pericolosi nemici di Kant, come spiegherò, sono i suoi soccorritori. La minuziosa lettura di alcune pagine della Critica della ragion pura, nel primo capitolo della Parte Seconda, con un lavoro di confronto fra le cinque traduzioni italiane, mostrerà fra l’altro, io spero, la debolezza o l’inconsistenza della distinzione basilare fra sensibilità e intelletto: con quella che, quando non è vuota (non cieca!) o non resta a mani vuote, giunge sempre a dare un ‘senso’, per lo più surrettizio, alle peregrinazioni e ai brancolamenti di questo. La sensibilità non può essere cieca, come Kant afferma, impostando malamente un problema con una delle sue più infelici formule – e infatti non lo è, neppure per lui: la scrittura lo rivela. Ed è la scrittura faticosa di un uomo che partì sempre col piede sbagliato, affardellandosi per via quanto più non poteva. È al tatto, è alla sensibilità epidermica che Kant pensava, in realtà, senza neppure sapere bene di che cosa parlasse (dal momento che egli parla di sensibilità senza mai fare alcuna menzione del corpo – salvo doverci ripensare con la tarda Antropologia pragmatica).

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18   presentazione

Ma allorché sul finire della Critica la sensibilità deve intervenire apertamente in forme quasi imponenti per sostenere il senso generale del discorso e il suo effettivo approdo teorico, l’analisi e la discussione di alcuni ampi costrutti metaforici (tempio, città, corte di giustizia, e simili) diverrà compito del capitolo conclusivo, dedicato alla Logica del Testo, nel quale bisognerà pure rialzare la testa per vedere, oltre ai moscerini, anche l’elefante. La favola di Krylov in epigrafe ha significato critico, ma anche autocritico, naturalmente, e chiede al lettore di apprezzare la pratica dell’autoironia. In quest’ultimo capitolo si tirano in qualche modo le somme dell’intellettualismo e del manierismo kantiani. Per il suo carattere (moderatamente analitico, e più ristretto intorno a un fascio di pochi sommi capi teorici), la sua lettura m’è parsa alquanto più limpida e agevole – persino orientativa, nel complesso, su tutto il resto. Qualora, al termine della lettura di questa Presentazione, il lettore fosse ancora preoccupato dell’economia del suo tempo, consideri egli perciò anche la possibilità di leggere questo capitolo fra i primi, scegliendo subito se cominciare dall’Introduzione, o dall’Epilogo (come anche s’usa), o proprio da uno sguardo alla Logica del Testo. La discussione delle origini tecniche dell’intellettualismo raggiunge qui il momento più fitto. Con l’introduzione del fondamento ontologico di materia e forma, infatti, che ne è più del fondamento sensibile di spazio e tempo? Kant, a questo punto, avrebbe dovuto scegliere fra l’ontologia e l’estetica, gettando magari il suo brogliaccio, oppure cercando una via di fuga. Non ebbe esitazioni: andò avanti, semplicemente, a forza di quelle qualità di volontà costruttiva e d’applicazione metodica che, trotz alledem, non potevano certo mancargli. E nell’Epilogo, poi, ognuno è invitato ad andarsene liberamente dove gli pare: nessuno studio dovrebbe pretendere di legarsi ad alcuna vera e propria conclusione, né tantomeno di vincolare il lettore ad alcuna deduzione successiva; bensì soltanto lasciargli delle forti e nette impressioni di una seria lettura. Il lettore potrà rimanere perplesso di fronte al bisogno, a quel punto, di ridare spazio all’immaginazione, formulando delle ipotesi generali che sembrano distogliere alquanto l’attenzione dai problemi del Novecento. Ma pretendere di declinare una risposta teorica generale (come l’intellettualismo costituzionale del soggetto, lo svuotamento della sensibilità, il manierismo sistematico, la massa di manovra accademica, e simili) entro i tempi lunghi e lontani della mentalità e del costume è come chiedere a delle nuvole di piovere a comando quando e dove si vuole. Il kantismo ha fatto strada in mille modi. Non sono tanto le ‘nuove’ conclusioni che ognuno trarrà per suo conto, perciò, che m’interessano, bensì i nuovi studi. Forse non è vero che la ripresa di sviluppo della letteratura metafisica sul finire del Settecento prende forze (anche) dall’esaurirsi della tradizione idillica e del genere pastorale, ossia della lirica

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politica messa in teatro; e che prende forze (anche) dalla riforma del teatro, con l’uscita della maschera e del suo ‘buon senso’ dall’immaginazione del pubblico; e che prende forze (anche) dal contemporaneo sviluppo del romanzo. Forse non è vero – ma chi può dimostrarlo? Tanto vale pensarlo. Forse non è vero che l’esaurimento drammaturgico del ruolo antropologico mediatore, centrale, della maschera può (per una sorta di effetto di conservazione energetica nell’immaginazione comune) avere prodotto lo sviluppo su estremi opposti del personaggio morale di carattere, da un lato, e del burattino, dall’altro, con gli automatismi della sua forza tellurica, nella forte sensibilità umorale e moralistica di tutto ciò che noi chiamiamo ‘pre-romanticismo’. Forse non è vero – ma io lo sospetto; e sospetto per conseguenza che le ideologie dei nazionalismi siano nate (anche) come conseguenza della riforma del teatro comico. Questa riforma era ormai indispensabile, certo – ma non furono meno inevitabili le sue conseguenze sulla mentalità. Lo studio di certi personaggi dell’opera lirica e della caricatura di John Grand-Carteret, per esempio, sarebbe utile, a questo scopo. La perdita, con la maschera, del centro antropologico non apre soltanto una violenta polarità fra estremi, ma attribuisce anche all’uno qualcosa dell’altro: cosicché il carattere morale acquista qualcosa dell’automatismo del burattino, e il burattino pretende di drappeggiarsi nei panni di uno stentoreo moralismo. L’uno vive per emanazione, l’altro per animazione. Entrambi parlano assai volentieri di ‘interiorità’. E non sarà evidente per tutti, infine, che la filosofia, checché ne pensino i filosofi di professione, sia un genere letterario, fatta di pura lirica di concetti in forma prosastica di romanzo – ma io lo credo fermamente9. Mi dorrei soltanto che qualcuno, arrivato a quel punto del mio Epilogo, pensasse d’avere sprecato il suo tempo. In tal caso rifletta: è proprio Kant che insegna a darsi il coraggio d’avere opinioni personali, indipendenti, purché giustificabili e discutibili. Che resta, se no, di meglio? Ma si badi, però: che la conoscenza si riassuma, in definitiva, in un’opinione libera e naturale, ossia in un’idea vivacemente risvegliata dalle impressioni e dall’immaginazione, e poi fissata dall’abitudine è, veramente, dottrina di Hume; Kant ci mette sopra, di suo, il puntiglio intellettualistico della legittimazione, e lo scrupolo moralistico della finalità: i quali finiscono per togliere all’opinione ogni naturalezza e probabilità – nonché, da ultimo, anche la libertà. 9   Quest’idea non è poi del tutto singolare, dal momento che è già stata applicata alla storiografia da Hayden White in Retorica e storia, Guida, Napoli 1973. Soltanto al momento di ricevere le bozze di questo libro apprendo da un articolo di Siegmund Ginzberg sul quotidiano ‘la Repubblica’ (27 luglio 2006) della pubblicazione del libro di Francis Wheen, Marx’s Das Kapital. A Biography (Atlantic Book, London), nel quale l’autore arriva a definire Marx, anche sulla base di testimonianze autentiche, «un artista creativo, un poeta della dialettica».

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*** Il quesito circa l’esistenza e le forme delle mentalità è tutt’altro che sconosciuto al mondo degli accademici; ma non si può negare che esso sia sempre stato il terreno privilegiato dei pubblicisti e del giornalismo. A differenza dei narratori, i giornalisti e i pubblicisti hanno il dovere di motivare le loro opinioni; e lo fanno di solito in modo brillante e piacevole, svolgendo la loro preziosissima e persino invidiabile opera di raccordo fra gli studi più astrusi e l’opinione pubblica. Ma una motivazione che abbia come primo scopo quello di rendersi leggibile non rende ancora un’opinione discutibile con qualcos’altro, che non sia semplicemente un’altra opinione. In nome di quello che considero un dovere professionale, chiedo perciò venia al lettore per la faticosa lettura di certe pagine di Kant, che verrà effettuata in questo libro. Troppo spesso, del resto, ‘Kant’ non è che un assunto legittimo: nient’altro che una nostra sintesi a priori, una dottrina o una sentenza, un nome e un pregiudizio, un libro, un richiamo un’esortazione un auspicio, fra la miriade di simili sintesi a priori nella quale ci troviamo immersi. Non intendo affatto rendere assurdo l’assunto, bensì tangibile. Si può definire l’intellettualismo, fra l’altro, come una spogliazione delle sintesi a priori della loro natura complessa e necessaria, ma soprattutto della loro natura sensibile. Uno dei postulati di questo libro consiste proprio nell’ammettere l’esistenza di una miriade di sintesi a priori in qualche modo già date, e piene di proprietà e di contenuti logici e sensibili a un tempo. Se l’uomo è per natura animale imitativo, tutti quanti i suoi a-priori sensibili sono già dati, in quanto è animale, con l’osservazione e nel silenzio, ben prima di quella miriade di sintesi convenzionali che sono le parole; ed essi costituiscono per lui, in quanto è uomo, nozioni formali di una sensibilità che è fin da principio d’ordine superiore. Le nozioni ci avvolgono come una seconda pelle, o un periéchon, e noi le respiriamo. Ma Kant credette invece di doversi interrogare circa la loro possibilità, e di poterle trovare dappresso, quelle sue sintesi, come nature formali semplici e vuote, partorendo così, per difetto di adeguata sensibilità, i due topolini della sua estetica trascendentale che dovettero sorreggere un’intera montagna. Un altro degli assunti di questo libro consiste nel sancire che la deduzione categoriale procede non già da un giudizio, bensì da un pregiudizio: per il semplice fatto (mi si perdoni il tono spiccio) che la cosa non può stare diversamente: inutile aver letto Hume, se no10. E nondimeno ecco Kant appron10   Le letture filosofiche di Kant furono sempre alquanto approssimative, o anche di seconda mano, come si dirà ancora nel seguito di questa trattazione; e Hume per lui non fece eccezione (cfr. Smith, Commentary, pp. xxvii-xxix).

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tare una tavola delle categorie senza prima curarsi di redigere una tavola dei pregiudizi. E un altro assunto, ben più importante, riguarda invece la falsa pista sulla quale Kant ha avviato gran parte della filosofia contemporanea mediante la distinzione fra noumeno e rappresentazione: perché questa distinzione, che con Schopenhauer e con la fenomenologia diventa semplicemente fatale per l’unità sentimentale della coscienza, ha avuto il solo merito di scatenare quella vera e propria sovrapproduzione di sistemi, di quesiti e di equivoci metafisici che ormai è abbastanza vasta da poter vivere soltanto di se stessa e da riprodursi, sembra, illimitatamente. È di qui che prende avvio in definitiva (a cominciare da uomini come Romagnosi e Heine, per esempio) tutto ciò che espone l’idealismo al sospetto di contraddizione logica, al ripudio per inconsistenza conoscitiva, e infine persino al dileggio per goffaggine e oscurità stilistica o per boria accademica: così che da noi lo si è potuto a ragione definire, nei suoi ultimi esiti gentiliani, come «niente più che un’aberrazione del pensiero filosofico, e la migliore dimostrazione di quel che può dare la fantasia speculativa abbandonata a se stessa, priva di ogni regola e misura»11. Anche la poesia di concetti deve pure avere i suoi stili! È una distinzione, quella fra rappresentazione e cosa in sé (o, peggio, fra soggetto e oggetto: che rende impossibile concepire esseri complessi, bisognosi di darsi una costituzione); è una distinzione, dunque, che non tiene in alcun conto l’idea dell’approssimazione infinitesimale alle cose, nonché (tantomeno) dell’approssimazione reciproca fra le cose: per cui non soltanto noi le conosciamo indefinitamente, ma esse stesse, poi, ci si rivelano gradatamente per lenta emanazione delle loro proprietà antiche e nuove. E se Kant non lo capì, questo, è semplicemente perché non fu mai in grado di capirlo: non fu mai all’altezza, insomma, di raccogliere l’eredità di Leibniz dopo avere preso in prestito quel che poteva da Hume. La faticosa lettura e commento degli scritti precritici è indispensabile, se lo si vuole ammettere con franchezza. E credo che la realtà noumenica come un qualcosa che per Kant non sarebbe, in sé, inaccessibile, ma che sarebbe invece «il termine ideale di una gradazione insensibile, di cui la realtà empirica costituisce il punto di partenza» sia esistita, purtroppo, soltanto nell’immaginazione di quella bella e dignitosa figura che fu Piero Martinetti12. 11   Francesco De Sarlo, Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un ‘superato’, Le Monnier, Firenze 1925, p. 198. Benvenuto è stato un libro come quello di Massimo Baldini Contro il filosofese, Laterza, Roma-Bari 1991. 12   Introduzione alla metafisica, Clausen, Torino 1904, p. 244. Nel suo libro su Kant ed Hegel in Italia. Alle origini del neoidealismo (Laterza, Roma-Bari 1996) Piero Di Giovanni offre un esame ordinato delle principali varietà di posizioni, come questa.

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Si vede qui uno dei più tipici caratteri di ogni ritorno a Kant: quando non si tratta di staccarsi da una qualche sua costola, oppure di eliminarne o di sanarne qualche incongruenza (come avviene di consueto con ogni grande filosofo), si tratta di metterci quello che non c’è. Rispetto alle operazioni di asportazione, di amputazione e di ortopedia, il trapianto e l’innesto della protesi con Kant sembrano avere sempre decisamente la meglio. Ma non esiste che l’oggetto si mostri a un soggetto senza riservargli la sorpresa di una sua nuova vita empirica, sensibile, soggetta a variazione, così da sfidarne l’interpretazione; e non esiste caso, in verità, che permetta di concepirlo come qualcosa d’inerte, e solo approssimando da parte di un soggetto: altrimenti esso non sarebbe mai problema alcuno per alcun soggetto. E replicare che il soggetto s’interesserebbe all’oggetto solo perché mosso da una sua propria (del soggetto) vita e motivazione ‘interna’, unica cosa viva e unica vera storia, significa praticare un sofisma, ovvero perpetrare un abuso diventato comunissimo proprio con il disinvolto impiego kantiano della coppia terminologica ‘interno-esterno’: perché il cosiddetto ‘soggetto’ non può non restare pur sempre ‘oggetto’ parzialmente inconoscibile anche di se stesso. L’idealismo romantico e lo storicismo hanno fatto di simile equivoco il loro principale caposaldo. Ma non conosco modo più succinto ed efficace per sbarazzarsi di questo sofisma, che citare la seguente osservazione di Hume: «Il calore del fuoco, quando è moderato, si pensa che esista nel fuoco; ma il dolore che cagiona nell’avvicinarsi troppo, nessuno pensa che abbia un’esistenza fuori della percezione»13. *** La cosa in sé, dunque, esiste, ed è cosa ben viva, sebbene per lo più taciturna. Che altro è, se no, una mentalità? Ogni corporazione ha la sua. E dallo studio della mentalità degl’intellettuali, filosofi o poeti padri della patria, la nozione di ciò che si chiama mentalità nazionale può sortire in qualche modo: per conseguenza, per deduzione, per congettura, per analogia, o per come altro si voglia. Ognuno lo vedrà da sé. Il quesito di una mentalità nazionale nel suo insieme è troppo complesso, e non può essere trattato direttamente, come qui, a partire da un solo ceppo di fonti. Se le forme prime di mentalità dei ceti dirigenti intellettuali di una nazione siano generatrici, oppure a loro volta generate da una fantomatica mentalità nazionale; se offrano col loro prestigio, insomma, nient’altro che la legittimazione di qualcosa che già esiste in tacite forme nel popolo, e quali   Trattato sulla natura umana, libro i, parte iv, sez. ii; e anche sez. iv (Lecaldano, i, pp. 208 e 239).

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siano queste forme, sulle quali abitualmente si diverte il pregiudizio comune, o infierisce la propaganda di guerra, io non so, e in questo libro non discuto. Ma per combattere un comune pregiudizio non mi sento di assecondarne un altro, affermando che la mentalità popolare sia soltanto il prodotto della mentalità dei ceti cólti, o almeno di una parte significativa di essi, a seconda dell’egemonia ideologica acquisita di volta in volta attraverso le epoche da questo o da quel gruppo dirigente: religioso accademico burocratico economico o militare. Non voglio affatto negare, insomma, che la mentalità dei ceti popolari possa fortemente influenzare i ceti dirigenti intellettuali, e neppure il contrario. Ma se mi rivolgo direttamente alle opere degl’intellettuali padri della patria, anziché svolgere indagini di costume, è perché ritengo che ogni mentalità corporativa sia prigioniera innanzitutto di se stessa, come e assai più di come ogni mente è prigioniera del suo corpo. E il corpo medesimo è anzi prigioniero e fatto schiavo dal moralismo di una volontà categorica: è la lezione antistoica del De voluptate di Lorenzo Valla; così che tanto l’uno come l’altra se ne stanno immersi nel loro blocco di marmo, dal quale emanano fremiti e barlumi di duratura verità. Credo perciò che un quesito circa le responsabilità degl’intellettuali debba essere loro posto direttamente, per auscultazione del mezzo tecnico, stilistico, corporativo, municipale, regionale o nazionale nel quale non possono negare di stare immersi. Che questa immersione corporea della mente sia un fatto innegabile è obiezione di Gassendi; che sia animata di vita in lenta emanazione è lezione di Lessing. I loro nomi torneranno perciò verso la conclusione dell’Introduzione, insieme con il nome di Valla: come a sottolineare la validità di una lezione e tradizione poetica o politecnica di ‘buon senso’ che, da un capo all’altro (il Leopardi dei costumi, il Romagnosi delle indoli e del giudizio pubblico), non è certo soltanto italiana, ma può essere considerata tipicamente italiana in quanto caratterizza in generale il nostro modo di vedere con una costanza e con un pregio che trova forse l’eguale soltanto nella tradizione russa. Romantici e pre-romantici non scoprirono dunque affatto l’immersione corporea della mente – solo, fecero di tutto per trasformarla in una muscolarizzazione dello spirito e della moralità, che vede Kant fra i suoi primi e massimi propugnatori. E che un moralismo categorico, vale a dire intellettualistico, possa fungere da seconda natura, assai meno duttile dei corpi fisici, e anzi pronto a sollecitarli con l’attivismo, è cosa niente affatto paradossale: ne nasce nientemeno che un materialismo delle idee, quando esse sono più solide e indistruttibili delle cose. Credo, del resto, che per spiegare la tragedia del Novecento la via dal basso verso l’alto, o la ‘via romantica’ (diciamo così), sia stata già battuta a sufficien-

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za dagli studiosi; e credo che i pregi dei risultati restino sempre in qualche misura diminuiti dal principale difetto di questo approccio, che consiste nell’aggrapparsi, prima o poi, a quella non-spiegazione che è l’irrazionalismo: in una specie di stato febbrile gl’intellettuali di Otto e Novecento avrebbero ceduto a spinte ‘dal basso’; e queste spinte, si sa, sono irrazionali – anche se nessuno sa come, però; ma intanto ci si serve di metafore patologiche, energetiche, spaziali, farmacologiche, così che la formulazione di un giudizio politico nei suoi termini più generali non può non essere che letteraria. Ma precisamente il fatto che nella formulazione di ogni giudizio politico si manifesta più o meno chiaramente l’esercizio della sensibilità è uno dei principali assunti di questo libro: il quale considera la filosofia stessa, come dirò a iosa, niente più che un genere letterario troppo spesso viziato da cattiva retorica. Occuparsene, dunque, non sarà sempre agevole. Appassionante sì, però, almeno qualche volta. Che senza gli strumenti sintetici della sensibilità non sia possibile formulare alcun tipo di giudizio, e tantomeno il giudizio politico, non è cosa che vada senza rischi, s’intende. Ma una critica letteraria tanto immaginosa quanto ben disciplinata può rendere discutibili le manifestazioni della mentalità, così che anche i caratteri nazionali si possono rendere intelligibili mediante l’auscultazione poetica. In questo libro io batterò questa strada, in senso conforme, però, alla natura speculativa del suo oggetto, del suo personaggio e della sua corporazione; e andrò in cerca dei rapporti di forza che s’instaurano tra le facoltà conoscitive, rendendo forse percepibile e discutibile l’intellettualismo di Kant, nonché la sua pretesa fondazione sensibile, che ho cercato di descrivere col termine di ‘manierismo’. *** La titolazione dei paragrafi nella Parte Seconda con un costante riferimento alla città; il finale richiamo all’analogia platonica fra i due libri della città e dell’anima; l’evocazione della città cosmica timaica nel corso dell’esposizione; sono tutti chiari segni dell’interesse filosofico-politico che mi ha mosso. Non si tratta di un interesse arbitrario. Ogni opera di filosofia è sempre, in modo più o meno involontario, opera di filosofia politica, non meno di ogni sua interpretazione: così che se avessi scritto questo libro rivolgendo costantemente il pensiero, per esempio, ai dinosauri, pur senza mai nominarli, ne sarebbe uscita per forza una lettura paleontologica di Kant. Ma un esplicito interesse politico nella lettura dei suoi scritti potrebbe già procedere dai voli giovanili della sua immaginazione cosmogonica e cosmologica, che testimoniano la precoce origine ‘politica’ della sua ispirazione speculativa; e si riferisce, innanzitutto, a quella città cosmica

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ch’egli giudicò impossibile o fallita in Leibniz, e che cercò di ricostruire a suo modo, a partire da una nuova concezione dello spazio e della realtà14. Che egli abbia definito la sua rivoluzione ‘copernicana’, anziché, come fu, ‘socratica’ e ‘tolemaica’, vale a dire gnoseocentrica, o antropocentrica, è curiosità che può trovare una spiegazione col manierismo stilistico e logico che Kant praticava volentieri: vale a dire col suo gusto colloquiale, distratto, delle inversioni, degli scambi di posizione e delle formule a corrispondenza. Di questo gioco, e dei suoi disgraziati esempi, egli restò vittima in più di un’occasione. Ma si vedrà in questo libro soprattutto, io spero, ciò che non va trascurato di dire sin d’ora, formulando un giudizio tra i più generali: come con Kant venga a esaurirsi nella filosofia moderna il gran tratto della virilità politecnica del pensiero. A dispetto delle poetiche sentenze sui cieli stellati, nei confronti della grande tradizione egli si adattò alquanto precocemente, in realtà, a fare la serva di Talete (vale a dire il cocchiere di Tycho Brahe15), avviandosi regolarmente per il cammino discendente, o minore, delle grandi dottrine.

14   Critica della ragion pura, B 293. Mi servo del testo Reclam a cura di Ingeborg Heidemann, Stuttgart 1966, che riproduce le prime due edizioni, con le varianti accademiche. Avverto sin d’ora che la prima Critica verrà talvolta menzionata come «la Critica» senz’altro. Renderò lo spaziato in corsivo. Salvo indicazione contraria, il testo originale di altri scritti, raramente menzionati, è quello della Edizione Accademica. 15   Sogni d’un visionario spiegati con i sogni della metafisica, in Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, p. 393. Salvo diversa indicazione, questa sarà l’edizione di riferimento.

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Dopo avere per lungo tempo pazientemente ascoltato le imperversanti divagazioni dalle quali è poi sortito questo libro, mia moglie Paola Luciani non si è neppure sottratta alla lettura dei manoscritti. Le sono grato.

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Introduzione Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Filosofia politica de la critica Quelli fra gli uomini che si comportano secondo princìpi sono ben pochi, ed è bene, del resto, che sia così, dal momento che può accadere con tanta facilità che uno sbagli a proposito di tali princìpi, e quindi ne derivi un danno che tanto più si allarga quanto più generale è il principio e costante la persona che lo ha presupposto. Kant, Osservazioni sul bello e il sublime Dai comandanti dell’esercito e della flotta lo spirito del bellicismo assoluto, politicamente cieco, si trasmette ai dirigenti politici, così da provocare infine la situazione storicamente nuova, e addirittura incredibile, che vede i militari doversi opporre al cieco militarismo dei capi dello Stato. G. Ritter

Questo studio intende rintracciare il significato generale dell’opera di Kant muovendo risolutamente dalle sue proprie origini verso il centro mediante un’interpretazione analitica. Ogni riferimento storico all’infuori delle opere sottoposte a esame è stato per quanto possibile evitato: perché intendo per significato generale qualcosa che della storia conosce anche, per così dire, il saldo precipitato anamnestico, e l’evocazione di un’antonomasia, oltre al perpetuo svolgimento; il colore complessivo permanente, oltre all’intreccio più fitto; e insomma la ferma impressione, o la muta opinione che rimangono di alcuno o di alcunché. Considero un errore il credere che questa impressione vada evitata o rigettata, come parvenza ingannevole dei sensi o dell’emotività dello studioso, il quale dovrebbe fingere d’ignorare le impressioni per dedicarsi ben presto allo smembramento dell’oggetto, o alla sua riduzione in filamenti bibliografici, lungo le più diverse direttrici biografiche o dottrinali: come farebbero delle larve su di un cadavere. Occorrono semmai, con misura, le due cose. Ma è una bugia patetica pretendere d’aver letto un autore partendo

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dalla sua bibliografia accademica. Prima ancora della storia, l’unità complessa dell’oggetto di studio, che si conosce innanzitutto soltanto con la lettura disinteressata, va in ogni caso fissata con un’attenta auscultazione, e il più possibile conservata nel suo primo barlume di verità, facendo esattamente ciò che Stanislavskij consigliava ai suoi attori nell’accostarsi a un testo: «La natura delle prime impressioni non è precostituita, filtrata dalla critica; tali impressioni dunque penetrano liberamente nella profondità dell’animo dell’attore imprimendovi tracce indelebili, che saranno la base della creazione e l’embrione del personaggio futuro»1. L’impressione va trattata e conservata come un primo giudizio in quella che è già un’opinione, ossia, innegabilmente, un muto pregiudizio. Confermata, smentita e corretta in ogni nuovo giudizio, questa opinione non è dunque che una sintesi a priori, fra innumerevoli. Stanislavskij insegna che il momento del primo incontro del lettore con l’autore e col testo è simile al primo incontro di due innamorati – delicatissimo, circondato di ogni attenzione e d’ogni più favorevole auspicio e condizione. Porre il problema in termini rigorosamente bipartiti fra rapinoso entusiasmo e scrupolo filologico, come fa il suo contemporaneo Vaihinger, è molto kantiano, è molto semplicistico, è molto accademico, ossia produttivo di una sequela interminabile di problemi e di relative esegesi e commenti. Si perde così l’unità sentimentale del centro dell’oggetto e della coscienza2. libri da ascoltare Comune all’uomo e all’animale (e dunque sorgente dalla natura corporea dell’uomo stesso), simile muta conoscenza depositata nel pregiudizio venne già contrapposta da Hobbes a quei prodromi intellettualistici dell’idealismo moderno che sono rappresentati dalle Meditazioni cartesiane. Poiché tuttavia questo mio studio non ha e non vuole avere, come ho detto, carattere storico (a parte l’ausilio di un indispensabile ordine cronologico), menzionerò all’occasione simili riferimenti soltanto appena quanto basta, per esempio, per distinguere l’intellettualismo cartesiano dal kantiano – lasciando per il resto facilmente intendere che tutte le obiezioni già mosse al cartesianesimo si possono considerare in generale ancora valide per il criticismo e l’idealismo   Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore sul personaggio, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 5.   Hans Vaihinger, Kommentar zu Kants Kritik dei reinen Vernunft, Union D. VG., Stuttgart Berlin Leipzig 1922, i, p. v. L’autore non fa mistero, del resto, dell’origine seminariale del suo commento, sortito dalla stratificazione d’innumerevoli letture didattiche. 1 2

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romantico. E senza porre tempo in mezzo desidero anche avvertire fin d’ora il lettore che considero le migliori fra esse proprio quelle obiezioni che Cartesio giudicò con più ostentata sufficienza: le obiezioni, vale a dire, di Gassendi; il quale, in definitiva, altro non volle che «conoscere come, entro le viscere, la ragione ci sia stata spartita»3. Opinioni, dunque. In riferimento a Platone, l’intellettualismo può consistere nel fatto che per lui le opinioni non sono che i pochi gradi della conoscenza verso la verità – il resto non conta. In riferimento a Leibniz, esso consiste nel fatto che la verità sta dappertutto: il mondo è popolato d’innumerevoli opinioni infinitamente graduate – il resto è possibile. Con la critica, e con l’antropologia, Kant ha voluto riproporre in due modi diversi il problema di questo resto. Il naturalismo rinascimentale italiano aveva già descritto le idee come corpi fisici animati, sorgenti migranti e soccombenti, ordinati gerarchicamente nel mondo secondo un’infinità di specie sensibilmente graduata; e si trattava di corpi animali, dotati di calore nonché, talvolta, di attività aggressiva. Leibniz capì che non occorre attribuire alle idee un corpo solido: in quanto hanno un «fondamento» in un perpetuo pregiudizio annidato nel «fondo» dell’animo, infatti, esse sono corpi assai più solidi e duraturi degli stessi corpi fisici. Egli pretese di rendere questo pregiudizio matematicamente sondabile, e solubile senza residui – ma la teoria immaginosa del rispecchiamento delle monadi continuava a testimoniare l’estraneità delle cose fra loro, con indiscutibile evidenza sensibile. Da questa evidenza, dunque, bisognava ricominciare – ma è chiaro che la contiguità antropologica e gnoseologica del «fondo» col «fondamento» solleva dei formidabili problemi4. L’intuizione sensibile di Kant, fatta d’imprestiti teorici, di edificazione pietistica e di manierismo accademico, non fu in grado di esercitarsi in un qualche simile prodotto di potente immaginazione, cosmica o matematica; né egli seppe o volle attingervi – allo scopo, per esempio, di segnare anche alle scienze sperimentali, che quell’immaginazione avevano bandita, i loro propri limiti dinnanzi ai quesiti dell’invisibile. Il suo fu dunque, e suo malgrado, un intel  Empedocle, Poema fisico (DK 4).   Nelle due lettere all’Arnauld del giugno o luglio 1686, e del 3 marzo 1690, per esempio, Leibniz si serve di un’identica espressione: «Ce qui arrive à l’ame, luy nait de son propre fonds»; e le azioni delle sostanze indivisibili che si trovano aggregate in un corpo organico «viennent de son propre fonds» (Die philosophischen Schriften v. G. W. L., a cura di C. J. Gerhardt, Berlin 1875-1890, ii, pp. 58 e 136). Del fondamento egli fornisce invece una vera e propria definizione nella lettera al Burnett dell’1-11 febbraio 1697: «J’appelle Establissement lorsqu’on determine et acheve au moins certains points, et met certaines thèse hors de dispute, pour gagner terrain et pour avoir des fondements, sur lesquels on puisse bâtir. C’est proprement la méthode des Mathematiciens» (ivi, iii, p. 192). Il «fondo» non conosce nel criticismo apprezzabili sviluppi – anzi: un notevole regresso nelle nebbie di rare allusioni, semmai; mentre il «fondamento» assume invece la dignità d’una pretesa tecnica. 3 4

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lettualismo per difetto di concezione e per eccesso d’argomentazione, come in questo studio analiticamente si vedrà. Kant si propose di combattere l’intellettualismo muovendosi, però, nella stessa direzione, e mise le mani indietro, procedendo polemicamente come a ritroso. Si servì di forme concettuali tratte di peso dal repertorio terminologico tràdito (con proprie superfetazioni abusate – prima fra tutte: ‘trascendentale’), e si espresse secondo le possibilità della sua scarsa cultura generale (che fu anche troppo varia, ma non profonda). Quanto allo stile dell’intellettualismo, alla farraginosa e gergale ridondanza della sua scrittura bisogna riconoscere l’attenuante, in verità, dell’effettiva inesistenza per la prosa filosofica di una disciplina tecnica consolidata del contrappunto e della fuga, che non è invece sconosciuta, per esempio, alla poesia e alla drammaturgia, o alle arti figurative; ed è disponendo di una simile disciplina che si sarebbe forse potuto intrecciare in un insieme ordinato il dialogo delle quattro figure logiche, o personaggi, della Critica: Sensibilità Intelletto Ragion pura e Ragione. Come in tante altre cose, anche sotto questo profilo Kant seppe talvolta andare, come si dice, ‘a orecchio’; e non ritengo per nulla azzardato affermare ch’egli ha inaugurato nel nostro mondo contemporaneo, specialmente di lingua tedesca, lo stile delle opere filosofiche che sono, in verità, libri da ascoltare – ossia da leggere non con la matita in mano (come si farà in questo libro), bensì rapsodicamente, per coglierne intuitivamente l’impressione sensibile generale non diversamente da come si fa con un romanzo. Assumendo il compunto contegno dei ritardatari nei confronti della cultura filosofica più rigorosa e creativa che l’aveva preceduta, con Kant la filosofia professionale comincia a rielaborare un suo speciale stile misto, desunto dagli approcci discorsivi della comunicazione orale, didattica, e dalla tecnica terminologica in codice, ossia codificata e insieme cifrata per allusioni. Proprio come avverrà in seguito con certi sviluppi in campo musicale, questo stile finirà per allargare smisuratamente il tradizionale Sonderweg filosofico dell’albagìa disciplinare e della loquela gergale nel nostro mondo contemporaneo. Ma non è così che leggeremo Kant in questo libro, bensì proprio con la matita in mano: le letture a orecchio non mancano. E del resto il testo musicale, come qualunque altro, non si studia diversamente. Ora, ‘fuga’ e ‘dialogo’ e ‘figura’ non sono che specie stilistiche già altamente evolute della sensibilità, musicale o drammaturgica o iconografica, e ancora capaci, all’epoca di Kant, di prodigiosi sviluppi. Sono sintesi a priori d’un ordine sensibile superiore, delle quali egli non ebbe il benché minimo sospetto formale o tecnico. Postulando invece un ruolo preliminare della sensibilità nella conoscenza meramente generico e vuoto Kant sortì precisamente

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il risultato opposto al voluto: contribuì in modo decisivo a fondare non già il pensiero sull’esperienza, bensì il ruolo tecnicamente supremaziale dell’intelletto tra le figure logiche, dotandolo di una legittimità cartacea, anagrafica, certificata, attraverso un’imponente trattazione che è, in definitiva, tutta quanta una ritrattazione del miglior pensiero moderno. Ritengo che in mancanza d’altre risorse dello studioso, la dottrinaria e deferente lettura delle sue opere costituisca una cattiva scuola prosastica, logica e terminologica. manierismo, autismo Dotandosi di fondamenti sensibili mediante il riconoscimento della determinazione empirica della coscienza semplice, nonché mediante un grossolano lavoro di frantumazione e di ricomposizione dei materiali della tradizione, l’intellettualismo diventa manierismo. Anche a tacer d’altro, la differenza dell’intellettualismo kantiano rispetto all’intellettualismo cartesiano (che si potrebbe anche definire tipico, o classico) consiste almeno in questo suo impegno sovrastrutturale in stile rococò, il quale s’innalza su di un basilare accoglimento e sulla semplificazione degli assunti sensibili. E non parlo di stile barocco, la cui grandiosa potenza non era alla portata di un uomo come Kant, bensì proprio di rococò: ossia di un barocco fatto a pezzetti e rimontato a piacere. Il medesimo accoglimento degli assunti sensibili era già stato largamente sperimentato dalla tradizione inglese, almeno a partire da Locke – ma il risultato, quanto all’intellettualismo, non era cambiato5. Bisognerà tuttavia ammettere che tutti i limiti e i difetti che conseguono dalla risoluta scelta dualistica cartesiana non possono impedirci, quanto allo stile logico e prosastico, di riconoscere alla lettura di Cartesio e dei grandi moderni un persistente valore formativo. Mi sembra francamente impossibile attribuire un identico riconoscimento alla lettura di Kant. Né gli si potrà mai perdonare d’avere sacrificato con una celia insulsa l’arricchimento del pensiero matematico sul riscontro commerciale di un effettivo consuntivo di cassa: allorché con uno dei suoi più noti e infelici esempi (quello dei cento talleri6) 5   Così Benedetto Croce, per esempio, usò il medesimo epiteto d’intellettualismo tanto per Cartesio che per Locke (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1912, pp. 237 e 241; 239). 6   «Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla più di cento talleri possibili. (…) Il concetto di un essere supremo è un’idea utile [!] per molti riguardi; ma, proprio per essere una semplice idea, essa è radicalmente incapace di estendere da sé sola la nostra conoscenza di ciò che esiste [ma con la

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egli riuscì in una volta sola a far torto alla fede, a Leibniz e a Cartesio, alla matematica, e persino a se stesso. Quanto al torto fatto a Leibniz, lo si vedrà a sazietà, io spero, in questo libro. Fece torto alla fede, perché tutta la logica della metafisica cartesiana si riduce a una tautologia, e la sua ontologia a una pura finzione, se non si ammette che ciò ch’è conosciuto fuori di sé tale è (fuori di sé) soltanto in quanto e fintanto che è così consapevolmente concepito. Le obiezioni e le risposte su uno dei più noti punti deboli del cartesianesimo non erano certo mancate, giungendo in qualche caso fino all’insolenza di Hobbes; e con disarmante franchezza in poche decine di pagine per ben tredici volte Gassendi aveva apertamente dubitato della sincerità dell’autore delle Meditazioni, facendone però una questione di lealtà scientifica, e non di cassa. Ma in entrambi i casi il discorso s’era piuttosto rivolto al rapporto della coscienza con la realtà dei corpi in genere, a cominciare dal proprio – vale a dire: esattamente verso ciò che Kant, sulla scorta di Hume, preferisce tenere accuratamente celato nell’ombra, senza muovere un solo passo oltre Cartesio e Hume (anzi!), e impostando il problema ontologico in termini teologici e gnoseologici anziché antropologici7. Nell’ultimo terzo del secolo questi termini erano già i più vecchi e provinciali che si potessero immaginare. E quanto alla matematica: dopo averla ririserva, aggiungerei: nisi in eodem intellectu!]. (…) Il celebre Leibniz fu ben lungi dal realizzare ciò che si propose, cioè la conoscenza a priori della possibilità di un essere ideale tanto sublime [e invece è proprio quel che fece!]. Tutti gli sforzi e tutta la fatica dedicati al così celebre argomento ontologico (cartesiano) dell’esistenza di un essere supremo in base a concetti, sono dunque stati vani; e un uomo, in virtù di semplici idee, potrebbe arricchirsi di conoscenze non più di quanto un mercante potrebbe arricchirsi di capitali se si proponesse di migliorare il proprio patrimonio aggiungendo alcuni zeri al suo attivo di cassa» (B 627, B 630). 7   Nel Trattato sulla natura umana Hume ripete a sazietà di non volersi curare di spiegare le proprietà originarie della natura umana, che restano insondabili: per esempio in libro i, parte i, sezioni iv e vii; parte ii, sezione v; parte iii, sezioni v, vii e xiv; parte iv, sezioni ii, v e vi (edizione a cura di Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1975, i, rispettivamente pp. 24, 36; 76; 97, 111, 184; 226, 244, 256, 265). Hume rinuncia infine a trattare delle impressioni primarie, che richiederebbero studi anatomici e naturalistici (ivi, libro ii, parte i, sezione i; Lecaldano ii, p. 290). Dovrò tornare a riparlarne più avanti, alle note 31, 32, 33 e 34, in relazione al problema della corrispondenza delle impressioni, rappresentazioni o significati dell’oggetto con l’oggetto stesso. Ma intanto va subito detto che Kant, come è noto, non conobbe che malamente il Trattato, e lesse invece la Ricerca sull’intelletto e sui princìpi della morale – vale a dire: l’assunto ridotto e pratico del pensiero di Hume. Ne seppe cogliere il solo scopo di propugnazione teorica, ossia la dottrina, e non il contenuto di rivelazione antropologica. Qui sta la differenza fra la sua reticenza sull’unità radicale della conoscenza nel fondo dell’animus, o Gemüth, del quale nulla seppe o si curò di dire, e il moderato scetticismo delle ripetute rinunce humiane, sempre consapevoli dell’esistenza di una emotiva, mnemonica, immaginosa unità antropologica oltrestante. Quando, più avanti, discuteremo dell’abbandono dell’oggetto nel neo-kantismo, non potremo dimenticare che esso fu già preceduto da questo abbandono dell’unità antropologica del soggetto in Kant. Questa perdita dell’unità antropologica è ciò che accomuna Kant al Goethe maturo: perché nel poeta essa si ritrova nei drammi giovanili, ancora fino al Goetz von Berlichingen compreso, e si perde poi rapidamente in quella lunga critica poetica della ragion pura che è il Faust.

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dotta a computisteria con un’arguzia da retrobottega, con uno dei suoi disgraziati esempi egli le fece poi un secondo torto, attribuendole una mai esistita pretesa di aggiungere alcunché di reale alle sue grandezze. E fece così un torto anche a se stesso, che l’aveva voluta per forza concepire come una disciplina di tipo sintetico. Ma, esattamente come la fede, essa non aggiunge alle grandezze alcuna realtà, che non sia la propria. Sebbene intellettualistica sotto il profilo dell’esito speculativo più generale, la posizione cartesiana di rottura teorica nulla affatto può avere di manieristico: per cui non sarebbe esagerato affermare, per esempio, che dallo studio delle Regole nasce la filosofia moderna, così come dallo studio delle Meditazioni nasce la storia della filosofia moderna. Ora, nessuno vuol negare a Kant una simile posizione capostipite riguardo alla storia della filosofia contemporanea, soprattutto com’è riprodotta e vigente nelle scuole; ma temo che ciò valga, nel complesso, soprattutto per quel costume oggidì non tanto raro, il quale fa sì che di dieci filosofi che discutono d’un libro nove credano di capire quel che si dicono, mentre uno ne è sicuro, e di solito scrive un altro libro8. All’analogo scopo di distinguere manierismo da manierismo, dopo avere distinto intellettualismo da intellettualismo, poi, non dovrebbe forse essere necessario specificare che l’epiteto di ‘manierista’ non vuol essere affatto un biasimo indirizzato verso l’origine storica del termine, e coinvolgente nel suo giudizio negativo gli alti prodotti figurativi dell’epoca post-michelangiolesca: perché essi rimasero per lo più affatto immuni da superfetazione e farragine, e ricercarono, semmai, proprio la semplificazione e la tipicizzazione stilistica di un genere moderno. Parlare di ‘manierismo’ nel nostro caso vuole dunque significare soltanto levare un biasimo circostanziato alle forme speculative, logico-prosastiche, sistematiche, kantiane e post-kantiane, nonché alle loro via via crescenti, smisurate pretese romantiche e neo-kantiane. Simili pretese furono del tutto ignote, in verità, agli artisti della ‘maniera’: i 8   Il giudizio non sembri troppo irriverente, perché esso è antico quanto i filosofi: come testimonia Platone nel Teeteto descrivendo vivacemente i settari eraclitei: ragionare con loro «è cosa più difficile che ragionar con persone che siano state morse dalla tarantola. Realmente questi uomini, d’accordo coi loro scritti, sono in continuo moto; e indugiarsi in un argomento e in una domanda, e quietamente domandare e rispondere, ognuno a sua volta, non è loro possibile in nessuna maniera; anzi, è già troppo dire in nessuna maniera, quando si pensi che c’è in essi stessi la negazione assoluta di ogni forma di quiete. Ebbene, se tu a qualcuno di loro domandi qualche cosa, ecco che costui cava fuori come da una faretra certe sue parolette enigmatiche e te le scocca come frecce; e se cerchi che ti dia conto di quello che ha detto, già sei colpito da un altro e nuovo scambio di parole, e così non concludi mai niente con nessuno. Ed essi pure fra loro non concludono niente; perché la cosa da cui si guardano con ogni cura è di non lasciare che niente nei loro discorsi e nei loro animi sia saldo e sicuro, reputando, io credo, che ciò appunto ch’è sicuro sia stabile; e a questa stabilità essi fanno guerra in tutti i modi, e da tutti i luoghi la scacciano via come possono» (179d-180c; Valgimigli). Kant non è meno severo: v. p. 220 nota 49.

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quali seppero invece sobriamente apprezzare il significato e il valore dell’età in cui vissero. L’intellettualismo bizzarramente combinatorio, e l’eco manieristica della recitazione e dell’ascolto, propri di una scienza accademica largamente basata su di un’intensa pratica didattica, sono già evidenti nella simmetrica e ben ritmata sentenza kantiana che fa cieca la sensibilità senza i concetti, e vuoti i concetti senza di essa. Ma non è proprio la vista la più eccelsa delle facoltà sensibili? Se parlare di concetti vuoti può forse avere, a certe condizioni, un qualche significato (pressappoco lo stesso che intendeva Bodin, per esempio, quando affermava che la filosofia muore d’inedia senza la storia), parlare di una sensibilità cieca non può invece averne semplicemente alcuno. Bisogna averla resa tale, semmai. Oppure bisogna parlare, senza neppure rendersene conto, di un essere speciale, dotato di una sua sensibilità speciale, come il mondo del Timeo; oppure di un essere metaforico come questo, di testo coevo a Kant: Die Welt kann ihre Lust und Freud, das Blendwerk schnöder Eitelkeit, nicht hoch genug erhöhen. Sie wühlt, nur gelben Kot zu finden, gleich einem Maulwurf in den Gründen und lässt dafür den Himmel stehen. Il mondo non può tanto esaltare sue brame e sue delizie, miraggio d’infìme vanità. Si rigira come talpa sottoterra per trovare soltanto giallo fango, e per simil profitto ignora il cielo.

L’idea del mondo timaico senz’occhi, o del pianeta animale dei naturalisti italiani, o dell’anima tattile di un Gassendi, per esempio, ricompare così, ridotto a una talpa, nel testo di una cantata di Bach9. Che nel formulare il suo enunciato Kant abbia avuto il benché minimo sospetto di simili implicazioni non è neppure immaginabile – mentre è chiaro che non volle soffermarsi a riflettere a lungo sulla plausibilità di una formula, che dovette sembrare ‘suonargli bene’10. Un intelletto cieco senza la guida della sensibilità, semmai, 9   BWV 94 (Bach 2000, ed. Teldec, Cantate sacre 2, p. 313). Il significato del testo va al di là dell’uso naturalistico biblico, che si riferisce alla talpa solo in senso meramente descrittivo o precettivo (Lv 11, 30; Is 2, 20). 10   In numerosi suoi ritratti di filosofi Giovanni Papini ha beffardamente svelato la puerile seduzione acustica di questo manierismo formulare, specialmente in voga nell’idealismo accademico più borioso.

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sarebbe, ed è, senz’altro plausibile: un intelletto che non si arrende mai – neppure davanti all’evidenza. Ma così si sarebbe perduto il gusto ridondante dello scambio delle relazioni fra i termini, e la meraviglia di tanta sentenziosa profondità. Esprimendosi con una formula a effetto (con un enunciato sensibile, per l’appunto, che lo tradisce), il culto manieristico dell’interiorità attribuisce disinvoltamente alla meditazione, e al raccoglimento a occhi chiusi, o nell’ombra, il ruolo che generalmente spetta alla contemplazione. È un tratto, questo, particolarmente vivo nella cultura tedesca11. Attraverso la massima paradossale semplificazione delle precedenti teorie sulla conoscenza indistinta, questa eccellenza del senso della vista diventa in Kant, senz’altro, una prerogativa dell’intelletto. E nulla meglio di una seducente formula estetica chiarisce la natura ridotta e il ruolo subalterno che la sensibilità viene in tal modo ad assumere nella massima kantiana. Un risultato opposto al voluto o professato, non diversamente, Kant ottiene sul piano della morale, facendone un’astratta moralità: della quale sancisce l’autonomia fondandola non già sugli scopi pratici suoi propri, bensì su intellettualistici presupposti categoriali. Le conseguenze di simili inversioni (che fanno parte integrante del suo procedere logico e dello stile discorsivo) sono, alla lontana, semplicemente disastrose. Un dipinto di Ribera, nel quale s’illustra la percezione tattile di un cieco, può riassumere in un solo istante questo atteggiamento, e lasciarne presagire gli effetti: i materiali della tradizione stanno fra le mani del cieco, ed egli, voltate le spalle all’osservatore, con l’aiuto dell’immaginazione se ne fa un’idea vaga e tutta sua. Si metta fra quelle mani

Ma se ne trova un esempio anche in un uomo insospettabile come Locke: «Senza la libertà l’intelletto non avrebbe alcuno scopo; e senza l’intelletto la libertà… non significherebbe nulla» (Saggio sull’intelletto umano, a cura di Marian e Nicola Abbagnano, utet, Torino 1971, p. 325). Leibniz aveva fatto cieco e sordo, piuttosto, l’intelletto non assistito dalla sensibilità, e combatté l’intellettualismo dei parolai e degli algebristi puri, che non si curano di gettare ogni tanto uno sguardo sulle figure geometriche di cui trattano: «L’origine della scarsa sollecitudine verso i veri beni deriva in gran parte da ciò: che negli oggetti e nelle circostanze nelle quali i sensi non agiscono i nostri pensieri sono, per così dire, sordi (in latino li chiamo cogitationes caecas), privi, cioè, di percezione e di sentimento, consistenti nell’impiego puro e semplice di caratteri» (Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici a cura di Domenico Omero Bianca, utet, Torino 1988, ii, p. 312). 11   Il manierismo di chi vuole per forza associare l’interiorità e la meditazione con l’oscurità ha avuto una delle sue manifestazioni più clamorose nella falsa lettera attribuita da Hugo Kehrer a Giulio Clovio, circa una sua visita al Greco: «Sono andato a trovarlo… per fare una passeggiata in città con lui. Il tempo era bello, con un delizioso sole primaverile che metteva allegria a tutti, e la città aveva un’aria di festa. Quale non fu la mia meraviglia quando, entrato nello studio del Greco, ho visto che le imposte delle finestre erano chiuse, in modo da lasciare scorgere appena quanto vi si trovava. Il Greco se ne stava su uno sgabello, senza lavorare, ma ben sveglio. Non ha voluto uscire con me perché la luce del giorno gli turbava la sua luce interiore». Ma la lettera fu fabbricata dal Kehrer nel 1923, e dimostrata falsa nel 1960 (L’opera completa del Greco, a cura di Tiziana Frati, Rizzoli, Milano 1978, p. 83).

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un mappamondo, e si otterrà l’emblema autistico dell’avventura imperiale tedesca nel Novecento. militarismo, revisionismo, moralismo Anche tralasciando le implicazioni politiche più o meno strettamente attinenti alle sue opere, si troverà poi in questo studio qualche raro riferimento più specifico al significato storico dell’intellettualismo come militarismo. Pur non ammettendo alcun vero e proprio sviluppo in sede di trattazione, l’accenno richiede almeno qualche spiegazione in sede d’introduzione – anche se potrebbe non esservene alcun bisogno, dal momento che allo hoc volo, sic jubeo di Guglielmo II seguiva un sit pro ratione voluntas. Secondo la comune opinione (e secondo l’interpretazione consegnata nella nota opera del Ritter sul militarismo tedesco, innanzitutto), nel 1914 le particolari caratteristiche di una mentalità strettamente tecnica e consequenziale, com’è quella militare, si sarebbero imposte, specialmente in Germania, sui consigli d’aleatoria saggezza moralità e prudenza della direzione politica, gettando le nazioni europee nella catastrofe del Novecento. In mezzo a tante esplorazioni sul tramonto della ragione nel corso del XIX secolo, e sul diffondersi dell’irrazionalismo nel mondo della cultura (esplorazioni utili, ma che in definitiva non spiegano niente), questa catastrofe trova così col Ritter, finalmente, delle origini prettamente e strettamente razionali. Oltre a questo suo inestimabile merito, simile interpretazione suggerisce tuttavia a una più profonda meditazione l’esistenza di due facce opposte del fenomeno del militarismo, che sembra storiograficamente istruito su di una contraddizione fondamentale: da un lato, puntando il dito contro i militari, essa fa della sociologia corporativa – e per un altro verso, però, additando le responsabilità dei dirigenti politici, essa scambia il genere con la specie. Nella ricostruzione del Ritter una deformazione professionale sembrerebbe avere cambiato, o anzi esteso la sua sede ad àmbiti costituzionali e sociologici diversi, impropri: dai militari all’intera società – così che il militarismo, secondo lui, va interpretato alla luce della generica nozione di «bellicismo», mentre dal militarismo tedesco si passa a un affatto imprecisato bellicismo «assoluto»12. Ritengo che in ciò consista il seme principale, il vero e proprio fondamento teorico del secondo revisionismo storiografico del Novecento, 12   I militari e la politica nella Germania moderna, Einaudi, Torino 1967, vol. i, p. xvi (prefazione del 1960).

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dopo quello di Versailles – anche se per quello che s’insinua lentamente nella storiografia degli anni Sessanta bisognerebbe parlare, veramente, di terzo revisionismo, con Versailles come oggetto, dunque, del secondo. Il ‘revisionismo’ infatti, due volte invocato dopo ogni catastrofe tedesca, nasce già con le rimostranze russe circa le brutali condizioni di pace imposte proprio dai tedeschi a Brest-Litovsk; e il Ritter ne parla, per esempio, nel capitolo su La Germania e la guerra civile russa usando proprio la parola Revision13. Qualunque sia il numero dei revisionismi, a ogni modo, col passare degli ultimi decenni lo spirito razionalistico della revisione ha preso via via più coraggio, assumendo in autori diversi caratteri ideologici più vari e particolari mediante l’uso degli argomenti giustificativi, per esempio, dell’antibolscevismo, o della teoria della risultante vettoriale delle forze di regime, ma evitando per quanto possibile le già consuete analogie teriologiche e farmacologiche sulla nazione imbelvita o avvelenata, e simili. Ciò non toglie che la stessa interpretazione razionalistica del Ritter presupponga l’intuizione patologica del tumore e della metastasi; e quest’intuizione presuppone, a sua volta, un’opposta intuizione d’integrità antropologica canonica, nonché l’uso d’una metafora antropomorfica applicata a cose politiche: quella che insomma si chiama la ‘sana costituzione’ d’una personalità nazionale statualmente organizzata14. Ora, interrogandoci su come il passaggio concettuale del Ritter sia possibile non già in sede storiografica, bensì teorica, logica e terminologica, a cominciare dal significato delle parole, possiamo supporre che il suo bellicismo stia al militarismo come il genere alla specie; e che «assoluto» significhi ‘sciolto’ da qualsivoglia legame politico, ideologico, nazionale o sociale, o comunque si voglia corporativo: così come si parla per esempio, in matematica, del valore assoluto di un numero né positivo né negativo, oppure del significato d’un valore frazionario. «Bellicismo assoluto» è dunque nozione dotata del significato di un puro pensiero; ed è, secondo il Ritter, opera o conseguenza d’esercizio meramente logico dell’intelletto – tutt’altro che astratto, però: come richiede 13   Ivi, iii, pp. 339 ss. Sebbene egli riconosca in numerose occasioni che il contegno dei tedeschi nei territori orientali seppe renderli presto odiosi anche agli occhi di coloro che ne avevano invocato l’aiuto, è notevole che nel caso dei russi la sua narrazione non riferisca alcuno degli episodi di brutalità sui quali, invece, s’era già soffermato a lungo trattando dell’occupazione del Belgio. 14   Qui, come pure assai spesso in seguito, preferisco l’uso del termine ‘costituzione’ all’uso del termine ‘struttura’. La ragione è evidente: più politico, più legato al grande pensiero moderno, il primo; più sociale, più legato al positivismo e al marxismo, il secondo. La legittimità dell’analogia fra la costituzione cittadina e la città dell’anima è platonica, naturalmente (Repubblica 368 d-369 a); ma essa non è rara nel pensiero moderno – come, per esempio, in questo passo di Leibniz: «Lo spirito può valersi dell’astuzia delle dicotomie in modo da far prevalere ora le une ora le altre, come in un’assemblea è possibile far prevalere un partito con una certa maggioranza di voti a seconda di come si formula l’ordine delle domande» (Nuovi saggi, Bianca, p. 319).

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la congruenza dei mezzi rispetto ai fini. Quale deviazione o iperattività di una generale facoltà conoscitiva e di giudizio, qual è l’intelletto, esso rappresenta la deformazione di una retta o normale costituzione psichica immaginaria applicata a relazioni costituzionali di Stato. Un tenebroso problema storiografico di dimensioni oceaniche, agitato da innumerevoli opinioni, trova dunque nel ricorso a una sintesi a priori di natura sensibile complessa, d’assai antica tradizione, qualcuno dei suoi fari e delle sue sponde, anche indipendentemente dalla volontà dell’interprete. La letteratura è più forte della storia, perché sta in tutti noi e nel pensiero stesso. Non diversamente i quesiti della metafisica si sciolgono con l’uso della metafora. Il problema non trova però nel Ritter tutte le sue sponde, e nemmeno le più importanti, mentre i fari brillano a malapena assai rari e lontani. Se infatti, nell’impianto kantiano della sua tarda storiografia, egli si dedica allo studio dell’iperattività della casta militare (corrispondente nella metaforica costituzione antropologica, vale a dire antropomorfica, al ruolo conoscitivo e giudicante del puro intelletto), trascura invece affatto, e volutamente, di considerare proprio il ruolo costituzionale della ragion pura e della Ragione generale o sovrana: ossia, rispettivamente, i sogni di potenza e i disegni d’egemonia europea, forse mondiale, dei dirigenti politici e degl’intellettuali accademici, per un verso (la ragion pura, insomma); e il peso dell’antica costituzione gerarchica e feudale dell’Impero, o la mentalità monarchico-conservatrice dei suoi funzionari statali, ch’egli pure occasionalmente menziona, per l’altro verso (la Ragione superiore o generale). Il puro e semplice accantonamento, senz’altro, del problema dell’esercizio di simili facoltà superiori nella sua opera è cosa grave e ben sostanziale. E non consiste nemmeno, come si potrebbe credere, e com’è, nell’effettivo esito storiografico della magra polemica col Fischer sull’assalto della Germania al potere mondiale; né in un’impossibile resa dei conti sul piano documentale con l’insuperabile ricostruzione dell’Albertini – no. L’accantonamento delle facoltà superiori consiste, per esempio, nel fatto d’avere inutilmente affidato a una sua studentessa, Ursula Tempel, una tesi di laurea, il cui accattivante titolo suona, nientemeno: Preussentum und Deutschland im politischen Empfinden des preussischen Offizierskorps von Jena bis Sedan15. Il tema assegnato ha l’evidente significato di ricercare una possibile legittimazione dell’azione militare attraverso l’appello a una qualche Ragione superiore; e simile appello può sorgere 15   Militari, vol. i, p. 155, nota 39. E non è l’unico caso, naturalmente. Non sono riuscito a leggere la tesi della Tempel, né sono al corrente di una sua pubblicazione. Qualcosa di simile si presenta nel lavoro accademico di Marzia Ponso, Cosmopoliti e patrioti. Trasformazioni dell’ideologia nazionale tedesca tra Kant e Hegel (1795-1815), Franco Angeli, Milano 2005.

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dall’identificazione sentimentale con un’immaginaria personalità dell’Impero, la quale può governare gli automatismi del dovere nella coscienza di uomini dediti al mestiere delle armi. Nessun diverso ruolo di legittimazione assume la Ragione nella Critica rispetto all’attività del puro intelletto e della ragione pura – ma il tema fu assegnato inutilmente: perché questo evidente significato di ricerca d’una legittimazione sentimentale non assume il benché minimo peso nell’economia dell’intera sua opera dedicata al militarismo tedesco. È come dire che la metafora antropomorfica dell’integra o sana costituzione politica del suo Impero perde, con l’immaginazione avventurosa dei sogni e con la memoria corporea delle ossa, quanto di più problematico sia insito nelle origini dell’azione. E se si perdono i sogni e le ossa dell’Impero (vale a dire: la sua Ragione formale e la sua Ragione sostanziale), a presiedere con rigore consequenziale all’esercizio dell’azione militare non resta nient’altro che l’intelletto – ossia la ragione efficiente e la ragione finale; e il problema del militarismo diventa perciò un problema d’intellettualismo dei gruppi dirigenti. Il Ritter ha avuto dunque il merito di riportare il problema delle origini della catastrofe del Novecento nel solco della sua discutibilità razionale; ed è pur vero che questa sua impostazione storiografica ci consente d’individuare la sede antropomorfica del problema nel puro e semplice (rein, bloß) uso, anziché nell’abuso, di una facoltà come l’intelletto. Facendo del militarismo una forma d’intellettualismo, e segnalando poi il trapasso e lo scambio delle forme d’una mentalità professionale meramente consequenziale, com’è (secondo lui) la militare, dalla sede sociologica loro propria, gli Stati Maggiori, a sedi improprie, come l’alta burocrazia e i circoli accademici, il Ritter ha anche indicato (alquanto sommessamente, in verità) l’origine d’una metastasi intellettualistica. Al duplice ruolo logicamente svolto da una ragione pura e da una Ragione generale corrisponde, del resto, il duplice significato ch’egli attribuisce alla politica: come pura e semplice lotta per il potere (una politica non diversa dunque, per natura, dalla vera o supposta ragione delle armi); e una superiore Politica come ricomposizione in un nuovo ordine dopo la lotta, ossia Politica come equilibrio generale – ciò che insomma della politica, sotto l’una e l’altra grafia maiuscola e minuscola, la Germania del Secondo Reich avrebbe trovato e poi perduto con Bismarck. Significa forse, tutto ciò, che se i circoli dirigenti tedeschi fossero stati più kantiani, e che se la loro ‘ragion pura’ fosse stata sottoposta al medesimo esame al quale l’aveva sottoposta la prima Critica, la Germania avrebbe potuto risparmiare all’Europa e a se stessa le sue catastrofi, spiegando le ali sui soli progetti realmente possibili? Forse sì – ma ciò riguarda, per l’appunto, soltanto gli slanci fantasiosi di quella mentalità egemonica, e quell’ossatura della costituzione po-

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litica imperiale, che il Ritter e il successivo revisionismo, con qualche immancabile sospiro nostalgico, rifiutano di esaminare come un non-problema storiografico dei ‘se’: la Germania, per loro, non poteva essere geworden diversamente. E una storiografia ‘di sinistra’, del resto, era stata fra le prime ad ammetterlo16. Che senso aveva dunque, per esempio, esecrare «l’orgoglio criminale dell’Impero tedesco», secondo la sentenza lapidaria scolpita nel bosco di Rethondes? Il problema delle responsabilità di una personalità storico-politica come l’Impero, distinta più o meno malamente dalla mentalità di un popolo, si dissolve per i revisionisti nel nebuloso quesito circa l’ammissibilità di metafore e personificazioni astratte nel giudizio politico – nonché, ovviamente, nel bando che sarebbe a priori sancito, per principio professionale, al pregiudizio. Con la personificazione, un problema storiografico diventa altresì un problema teorico generale concernente il ruolo della sensibilità nella conoscenza; e poiché senza forme sensibili non c’è giudizio possibile su nozioni d’ordine superiore, come le politiche, si tratta di sapere come deprimere la capacità della sensibilità di generare giudizi – senza peraltro rinunciare a servirsene. Problemi altrui, sembra, che non devono interessare lo storico17. Il filosofo tuttavia deve porseli - né ha mai mancato di farlo, in effetti. Fu proprio una bella scoperta, la terza Critica: che il giudizio sia lo scopo principale degli studi è la prima delle Regole di Cartesio! E bisogna dire, allora, che il silenzio critico di certa storiografia sulle ragioni non contingenti di una catastrofe ha anche un’altra spiegazione, oltre all’indebita estensione delle funzioni logiche del puro intelletto: la riluttanza ad ammettere che questo intelletto, pur esercitato nei limiti e nei modi delle sue strette competenze, sia in qualche modo viziato da un suo proprio difetto interno. Il significato logico del militarismo non consiste affatto in un volo impossibile della ragion pura assecondata da un ferreo raziocinio. Basta pensare che nell’una come nell’altra guerra la Germania non ottenne il risultato soltanto per puro caso: a causa della proclamazione della guerra sottomarina illimitata un solo mese prima della rivoluzione russa di febbraio, che l’avrebbe probabilmente evitata; e a causa dei ritardi, poi, che impedirono la costruzione in tempo utile della bomba atomica. Come intellettualismo, dunque, il militarismo non rappresenta affatto la cattiva metafisica della politica (che lo farebbe coincidere con l’esercizio della ragion pura), bensì una deforma16   Le Origini della Germania moderna di Geoffrey Barraclough, per esempio: che nel 1957, quando il Ritter era ancora nel mezzo del suo lavoro, aveva già raggiunto la quinta edizione. 17   Per nozioni d’ordine superiore intendo non soltanto le nozioni composte da nozioni relativamente più semplici, bensì soprattutto le nozioni che si generano per cinematografia nella nostra mente: quelle relazioni insomma, tanto per capirsi, che Hume aveva volute smascherare come puri e semplici inganni dell’immaginazione – come ho già spiegato nella Presentazione (alla nota 3).

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zione del ruolo costituzionale proprio dell’intelletto. Non è, dunque, su di un carente ruolo moralistico d’arbitrato e di vigilanza svolto dalla Ragione sovrana che va indirizzata l’attenzione; né sulla mancanza d’un solido fondamento della ragione pura nell’esperienza; bensì sulle relazioni statutarie che intercorrono fra intelletto e sensibilità, da un lato, e fra intelletto puro e ragione pura dall’altro – nonché, in generale, sul significato sensibile di tutti gli a-priori. Il militarismo è un modo di ragionare radicato in una speciale corporazione – e qui si può dunque chiamare in causa la prima Critica. Sarà così anche per la seconda? Il moralismo dell’etica categorica fattasi corporativa, o costume di casta (un aspetto, questo, che il Ritter, oltre alle cose già dette, trascura pure del tutto: la sociologia, la psicologia o il costume dei circoli militari), contribuisce di certo a intensificare potentemente le storture di una moralità tecnocratica: la quale si esprime, per esempio, con il darsi norma d’azione da pochi princìpi esclusivi, o anche da uno soltanto; col non arretrare e non smentirsi mai; con lo stabilire rapporti di forza verso i propri collaboratori e consulenti; con l’albagìa gerarchica o professionale che vizia il giudizio di merito; con il culto dell’unità dei corpi organici; e simili18. Ma sotto il profilo teorico (quello delle idee, e non della sociologia delle idee) simile moralismo non costituisce, a mio avviso, una vera e propria causa indipendente di queste storture mentali, bensì una causa derivata – ossia una deformazione, esso stesso, di qualcos’altro: un effetto e non la causa; e questa deformazione moralistica dell’etica professionale dipende teoricamente dal bando sancito verso i requisiti cosiddetti materiali della sensibilità nella conoscenza – sopra ai quali il criticismo pretende, peraltro, di gettare le sue fondamenta conoscitive. Nel rapporto strumentale dell’intelletto con la sensibilità, insomma, è già implicito il destino etico meramente edificante di quest’ultima. Senza intellettualismo non c’è moralismo categorico, e senza moralismo non c’è estetismo dei fini: l’ordine di comparizione della trilogia critica è del tutto necessario. anarcosindacalismo, barbarie, pregiudizio È ciò che in relazione alla sola prima Critica (poiché il problema, insisto, ha una prima origine strettamente logica e teorica) si dirà analiticamente in que18   Si ne veda per esempio la sintesi in un giudizio generale come questo, di Enzo Collotti: «In Germania semplicemente il rigido formalismo tradizionale nei rapporti tra l’autorità e il cittadino rende inconcepibile la ribellione all’autorità costituita, qualunque essa sia. Così si spiega l’autentico orrore per la guerra civile che trattenne alti ufficiali dall’aderire a iniziative tendenti ad abbattere il regime [hitleriano]» (La resistenza in Germania. A dieci anni dal 20 luglio 1944, in ‘Il Ponte’, 1954, p. 1714).

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sto libro. Ma intanto, visto che mi trovo a esporre le motivazioni di filosofia politica dalle quali esso è nato, voglio riconoscere che, sebbene teoreticamente acefala, un’opera come quella del Ritter, con la sua interpretazione socio-logica delle origini della guerra civile europea, va pur sempre presa così com’è. E mi preme affermare che essa, proprio così com’è, smentisce per l’appunto se stessa: perché come esercizio meramente tecnico della conoscenza e del giudizio, come ricerca e propugnazione della stretta congruenza dei mezzi rispetto ai fini, insomma, la forma logica del puro intelletto non cessa affatto d’essere una facoltà generale, ossia la mentalità diffusa in una qualsivoglia corporazione; e la deviazione intellettualistica di questa facoltà generale non diventa affatto necessariamente prerogativa di una qualche categoria sociale particolare, come sono i militari, benché riuniti in casta (fra altre caste, del resto, di uno Stato gerarchico). Ogni categoria professionale esercita il suo specialismo; e in ogni forma di specialismo può esservi intellettualismo. È vero dunque che il militarismo è soltanto una forma particolare dell’intellettualismo, e non viceversa; e i militari furono essi stessi vittime di una deformazione mentale che aveva già da tempo permeato i ceti cólti, specialmente accademici e poi burocratici. È con Kant che la filosofia comincia ad educare ‘le masse’. Sul piano storiografico è impossibile ignorarlo; così come sul piano teorico, d’altra parte, questa deformazione mentale non può essere fatta consistere soltanto nella stretta consequenzialità della scelta dei mezzi rispetto ai fini: perché in tal caso bisogna ancora supporre che l’azione possieda dei fini prefissi chiaramente determinati; ed è noto che una delle principali accuse rivolte ai dirigenti della politica belligerante tedesca del 1914 è stata proprio quella di avere avuto degli scopi indeterminati, o di averli tenuti celati, in modo da incoraggiare lo sviluppo di un’azione cieca e di reazioni smisurate, che hanno a loro volta suscitato l’accusa di barbarie. L’intellettualismo si manifesta dunque anche in ogni azione che, senza avere uno scopo, o tenendolo celato persino a se stessi, oltre che ad altrui, non bada a nient’altro che alla razionalità dei mezzi e allo sviluppo del movimento. Si tratta di un atteggiamento non contingente, non casuale, dei gruppi dirigenti nazionali, che sotto il profilo teorico prende forma nella storia tedesca contemporanea durante il decennio post-quarantottesco, muovendo da radici teoriche lassalliane19. Da una formazione strettamente hegeliana, veramente, Lassalle era andato orientandosi, proprio in quel decennio, ver19   Vedi per esempio l’interpretazione autentica del dramma Franz von Sickingen allegata alla lettera di Lassalle a Marx del 6 marzo 1859, e soprattutto parole come queste: «In simili circostanze appare un trionfo di superiore intelligenza realistica da parte dei capi rivoluzionari il fare i conti coi mezzi finiti disponibili, il tenere celati ad altri (e proprio perciò temporaneamente spesso persino a se stessi) i veri ed ultimi scopi del movimento» (Der Briefwechsel zwischen Lassalle und Marx, in Ferdinand Lassalle,

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so posizioni fichtiane; e non si può affatto escludere, mi sembra, ch’egli volesse guardare ancora più indietro, verso il cosiddetto formalismo del cieco imperativo categorico reinterpretato attivisticamente come un’arte del movimento e dell’azione. Il talento propagandistico e agitatorio di Lassalle sapeva avvantaggiarsi d’ogni genere d’ispirazione per volgerla soltanto in azione, non già in altro vero e proprio pensiero teorico. Sotto il profilo delle idee il suo pensiero non è che un punto d’arrivo, un binario morto di temi sparsi (per il quale, a differenza di Kant, non starei neppure a scomodare un’importante e nobile qualifica di genere come ‘manierismo’); mentre per la storia organizzativa delle idee lo studio dei suoi scritti, se non rimanda ben presto a Bismarck (come dovette accorgersi il nostro Gobetti, per esempio, che aveva preso Lassalle e il socialismo di Stato piuttosto sul serio), conduce più o meno direttamente a Sorel e alla Luxemburg – o insomma a nient’altro che all’anarcosindacalismo: vale a dire alla peste, e alla vera e propria negazione di ciò che si deve intendere per intelligenza politica. Ma che sotto il profilo culturale più generale il militarismo sia stato la variante statualistica tedesca dell’anarcosindacalismo, e che le sue origini seminali si trovino anche nella riduzione propagandistica e agitatoria del socialismo lassalliano, è cosa che qui non si può più lungamente discutere. E temo che del resto, come ho detto, anche facendolo non ne uscirebbe che molta storia delle idee con ben poche idee20. Inteso come una simile scienza dei soli mezzi, in uno dei più cólti popoli europei l’intellettualismo ha potuto dunque generare una nuova barbarie, ancora sconosciuta all’umanità – e perciò naturalmente non è vero anche l’inverso: ossia che la barbarie consista, in generale, del solo perfezionamento dei mezzi. Con la massima sicurezza noi parliamo infatti di ‘barbarie’ nel significato più comune allorché, senza prefiggersi alcuno scopo determinato, l’azione non conosce alcuna razionalità dei mezzi. Ma qui non si può più parlare di effetti dell’intellettualismo, bensì di semplice furia, ossessione, mania o demenza distruttiva doppiamente cieca: per l’assenza dei fini (il mero cosiddetto Nachgelassene Briefe und Schriften, a cura di Gustav Mayer, D. VA. – Springer, Stuttgart Berlin 1922, iii, p. 151). 20   Per avere un’impressione della saldatura che si viene a creare fra la tradizione agitatoria lassalliana e un certo spirito nazionale prussiano-tedesco bisogna leggere il breviario lassalliano curato proprio dal Ritter nel 1919 (Worte Lassalles, nella collana Weisheit der Völker. Eine Brevier-Sammlung, Minden). È vero che sotto il profilo ideologico il Ritter vedeva sintetizzato questo passato nazionale nell’eredità dell’idealismo hegeliano, e non kantiano (ivi, p. 19). Ma secondo un’evoluzione assai frequente tra gl’intellettuali della sua specie, con la sua storiografia del secondo dopoguerra, che è capostipite dell’attuale revisionismo storiografico, egli finisce per ritirarsi a ridosso di un generico impianto kantiano, non ideologico o dottrinale. Nella sua opera somma egli trova anzi nel pensiero di Fichte e di Hegel una delle origini del militarismo tedesco (Militari, i, p. xiii).

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‘vandalismo’) e per l’improprietà dei mezzi (distruggere una città per colpire qualche peccatore). E non si può ignorare che simile sorta di primitiva barbarie si sia pure manifestata, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in azioni marginali, ma non tanto rare, sulle quali ha finito inevitabilmente per appuntarsi gran parte dell’attenzione e del biasimo. Ciò chiama tuttavia in causa gli esecutori della politica e dell’azione militare (dai piccoli burocrati ai subalterni, alle spie, ai carcerieri e agli aguzzini, e simili), non i promotori; e porta il discorso della mentalità dei popoli su piani antropologici diversi, assai più vasti e profondi, ben più difficilmente sondabili (anche se i due piani non si possono mai separare del tutto, perché un intellettuale, un dirigente, un capo fanno pur sempre parte integrante del loro popolo). Un caso tipico, in cui si vedono le responsabilità di un intellettuale mescolarsi con azioni esecutive d’infimo grado, può essere quello, per esempio, di un uomo come Albert Speer: il quale a Norimberga giustificò l’uso di cavi metallici per la fustigazione di lavoratori indisciplinati con la momentanea indisponibilità di randelli, o d’altri strumenti idonei allo scopo21. Necessitas cogit ad turpia? Sebbene dotata di uno scopo razionale (l’efficienza sul lavoro), la brutalità di questa ‘barbarie’ non conosce, in questo caso, il perfezionamento dei mezzi idonei a conseguirlo; e sebbene non sia meramente distruttiva, ossia priva di alcuno scopo oggettivo, si tratta dunque ancora, qui, di un caso di barbarie ‘antica’22. Ma è proprio, invece, nel solo perfezionamento dei mezzi idonei a conseguire uno scopo oggettivo che consiste il criterio distintivo della nuova barbarie rispetto all’antica; e col perfezionamento dei soli mezzi strettamente idonei a conseguire uno scopo oggettivo si può dunque aprire, effettivamente, un problema d’intellettualismo23. E si può anche aprire un più generale quesito d’ordine filosofico: perché dopo l’esperienza delle guerre ideologiche del Novecento non è più possibile, infatti, porre il problema del male in termini agostiniani, concependolo come semplice assenza o carenza del bene. L’esperienza del perfezionamento scienti  Telford Taylor, Anatomia dei processi di Norimberga, Rizzoli, Milano 1993, p. 488.   Devo distinguere la natura oggettiva dello scopo dalla sua possibile natura soggettiva: come quando l’azione contro cose o persone assuma caratteristiche di sadismo, o come quando il suo scopo consista nel soddisfare un puro senso personale di frustrazione e di rivincita, o come quando si proponga di ottenere in un modo qualsiasi (razionale o non razionale) nient’altro che un’espiazione di colpe vere o immaginarie. In questi casi non è possibile tracciare alcuna distinzione fra una barbarie antica e una moderna, perché le passioni non conoscono il progresso. 23   Tra gli scopi ‘oggettivi’, distinti dai casi della nota precedente, annovero anche gli scopi ideologici: che ‘soggettivi’, mi sembra, non si possono davvero considerare. La ‘soggettività’ dell’azione diventa ‘oggettività’ nella campagna ideologica che fa agire tutto un popolo come un sol uomo. Il perfezionamento intellettualistico dei mezzi, dunque, è ciò che distingue la barbarie moderna di questo popolo dalla furia distruttrice dell’orda primitiva. 21 22

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Filosofia politica de la critica   45

fico dei mezzi rende ormai questa, e simili risposte, impossibili, dal momento che ogni scientifico perfezionamento dei mezzi non può essere concepito, in sé e per sé, che come un bene. La stretta, rigorosa, avalutativa conformità di questo perfezionamento dei mezzi con fini in larga misura razionali (vale a dire: corrispondenti alla propria volontà e ai propri bisogni, oltre che ai propri interessi) è ciò che fa dell’intellettualismo la nuova barbarie moderna, ancora del tutto sconosciuta alla storia24. La barbarie moderna è fatta d’intellettualismo, e la sua politica si nutre di filosofia: cattiva, di solito – ma anche buona, quando è troppa. Nel Novecento è toccato alla Germania di fare da campione d’indagine per l’inedita validità di una delle principali nozioni di filosofia politica, ‘la barbarie’, senza la quale non è ormai quasi concepibile alcuna basilare distinzione di giudizio politico. Il bombardamento di Dresda può conferire questo privilegio anche all’Inghilterra. Ma nel caso di Dresda il giudizio sul perfezionamento dei mezzi (la particolare tecnica del bombardamento, privo di alcun effettivo scopo militare) deve tenere conto dell’anomalia del fine: il quale non tanto fu posto da una volontà punitiva inglese quanto, io credo, delle insistenti richieste di massiccie rappresaglie «contro importanti luoghi [tedeschi] d’interesse culturale» indirizzate a Londra e a Washington dal Consiglio degli Ebrei Polacchi in Gran Bretagna, allo scopo di porre fine alle deportazioni, o almeno di vendicarle. Lo scopo ‘razionale’ dell’azione sarebbe consistito, in tal caso, nell’esaudimento di simili altrui bisogni e volontà di dissuasione o di pareggio – ma sotto la propria responsabilità quanto al solo perfezionamento dei mezzi: il quale resta dunque inspiegabile, se non con la nozione di una ‘barbarie moderna’25. La barbarie ‘antica’, intanto (occorre dirlo?), non è mai superata dalla Storia; e sopravvive, per esempio, nelle inutili e talvolta sadiche stragi italiane in Etiopia, o nei mitragliamenti sulle colonne di profughi in fuga dalla Parigi 24   Devo specificare che i fini sono ‘in larga misura’ razionali, e che comprendono anche i bisogni e la volontà, oltre agl’interessi: perché non si può sostenere che lo sterminio degli ebrei rappresentasse un vero e proprio interesse tedesco, paragonabile, per esempio, all’asservimento dei popoli di razza inferiore (atto a reperire forza-lavoro) o allo spopolamento delle provincie di confine orientali (atto a liberare spazi demografici e colture). E tuttavia quello sterminio era ‘in larga misura’ razionale, perché corrispondeva a un bisogno dell’immaginazione; e questo bisogno dell’immaginazione si tradusse nella volontà di perseguire razionalisticamente, intellettualisticamente, uno scopo ‘oggettivo’. Fra le caratteristiche dell’intellettualismo che verranno indagate in questo volume c’è anche, per l’appunto, la pretesa di considerare l’intelletto (il calcolo del proprio interesse, in questo caso) del tutto distinto, e persino separato, o immune, dagli umori corporei dell’immaginazione e della volontà. 25   La mia citazione di una di queste numerose richieste provenienti dalle comunità ebraiche britanniche, dell’estate 1942, è tratta da Richard Breitman, Il silenzio degli alleati, Mondadori, Milano 1999 (p. 185; e v. anche pp. 174-175, 209, 229). Fedele alla sua tesi della «responsabilità morale di inglesi e americani nell’olocausto ebraico», il Breitman insiste molto sulle resistenze opposte dagli alleati a questa e a simili richieste – ma non dice mai se, e come, esse siano state talvolta esaudite.

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occupata, nei quali gli aviatori italiani vollero distinguersi. Ma questa barbarie ‘antica’, priva di vero scopo e di alcuna intelligenza, conosce anche forme meno inutili, più politiche e più logicamente (giuridicamente) contorte: come, per esempio, l’affondamento senza necessità militare dell’incrociatore ‘Belgrano’ durante la guerra delle Falkland-Malvinas nel 1982, al solo scopo di rendere inaccettabile all’Argentina una proposta di mediazione peruviana. Il crimine di guerra si vorrebbe giustificare con la logica della guerra – che si propone per l’appunto di scatenare! Antica almeno quanto la freccia di Pàndaro26, alla mancanza di vera necessità di quest’atto si mescola dunque una logica illogica – ossia una scaltrezza provocatoria, puramente eristica, come una sorta di forma mista di barbarie antica e d’intellettualismo giustificazionista moderno. Si potrebbe continuare con gli esempi e con le classificazioni, secondo la congruenza dei casi tipici, perfetti e misti – ma non può essere questo lo scopo di un’introduzione allo studio delle radici teoriche di un problema di filosofia politica. E sarebbe, del resto, fatica poco utile al nostro tema: perché lo stesso Kant, come si dirà ancora in questa Introduzione e in questo libro, già conosceva, o credeva argutamente di conoscere, insieme con i suoi lettori, l’esistenza di un’intellettualistica barbarie moderna, com’era, per lui, la cultura filosofica delle scuole27. A noi basti dire, insomma, che per dovizia di materiali storici il compito del giudizio politico sembra oggi grandemente facilitato, purtroppo, rispetto all’istintivo giudizio che guidò, per esempio, il Burckhardt nell’attribuire a due nazioni i caratteri di ‘civiltà’ e di ‘barbarie’ nel Rinascimento. La giustificazione di simili termini non esiste in alcuna delle sue pagine – né lo può, trattandosi di quegli eleborati pregiudizi che, come altrettante sintesi a priori, guidano come fari da lungi il risoluto cammino della conoscenza. Ma sebbene sembri che il compito di distinguere e di giudicare sia diventato per noi, dopo l’esperienza delle due grandi guerre, alquanto più facile, io temo tuttavia che riscrivere un libro come il suo oggi sarebbe nient’affatto più semplice. Lo dimostrano, se non altro, i pochi esempi che ho esibito poc’anzi. Ciò non significa assoluta relatività o impossibilità del giudizio – se non altro, perché ‘relatività assoluta’ e ‘giudizio impossibile’ sono puri e semplici   Iliade, iv, 86 ss.   E non solo per lui e per i lettori delle due prefazioni alla Critica della ragion pura. Basta leggere Nietzsche: «I licei sono i luoghi ove si trapianta questa pinguedine erudita, quando non siano degenerati al punto da diventare le palestre di quell’elegante barbarie, che suole oggi pavoneggiarsi sotto il nome di “cultura tedesca dell’epoca odierna”» (Sull’avvenire delle nostre scuole, Terza conferenza, in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1980, p. 153). È un destino che entrambi abbiano contribuito a perpetuare ciò che si proponevano di combattere! 26 27

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ossimori; e nessuno può fingere d’ignorare che se l’avventura nazifascista non è giudicabile, nulla lo è più: essa ha innegabilmente assunto nella nostra epoca il valore di termine di confronto che quattro o cinque secoli fa poté ancora avere, per esempio, il Turco; e in tempi più recenti, forse, la barbarie russa o bolscevica. Ma la difficoltà di giustificare oggi simili giudizi significa, piuttosto, che è necessario riconoscere francamente l’indipendenza o l’autonomia del giudizio politico, il ruolo dell’opinione e del pregiudizio, nei confronti delle sopraffazioni relativizzanti dell’intellettualismo. E se questo ruolo viene, di fatto, innegabilmente svolto, e se quest’autonomia del giudizio esiste, compito dell’intellettuale non può consistere nel dedurre criticamente categorie logiche da un giudizio, che è poi, sempre, un pregiudizio; bensì nel dare educazione e forma non reticente al giudizio, in quanto esso è inevitabilmente destinato a diventare un pregiudizio nella comune opinione, servendosi degli strumenti di un’adeguata sensibilità che lo rendano discutibile. A chi sospettasse che qui, opponendo pregiudizio a pregiudizio, si annunci un programma di sopraffazione ancora peggiore dell’intellettualismo critico, non posso rispondere che con le parole di Locke: due uomini con idee diverse non possono avere nulla da dirsi (a meno che non si mettano d’accordo sulle parole)28. E se non hanno nulla da dirsi, perché mai dovrebbero combattersi? Le opinioni e i pregiudizi normalmente coesistono: essi sono per lo più muti. Se due uomini si combattono, le ragioni sono altre, assai poco teoriche. E in mancanza di queste altre ragioni, chi combatte lo fa proprio in nome della ragione, pretendendo di farsi capire con ogni mezzo, cercando di vincere la resistenza di un ‘materialismo’ delle ferme opinioni che è talvolta assai più tenace dell’impenetrabilità dei corpi e del materialismo molecolare. L’esortazione al dialogo infinito, il Calculemus! di Leibniz, ebbe la fine che non poteva mancargli. Ma la validità del suo insegnamento non sta tanto lì (anche; ma non tanto), quanto piuttosto nell’idea dell’osservazione reciproca fra le monadi, senza intromissione: la quale lascia tempo e modo di sviluppare forme d’imitazione, secondo il talento e il libero giudizio di ciascuno. Dalla partecipazione all’imitazione: tale fu, sin dal principio, lo sviluppo della filosofia politica delle idee nell’estetica platonica. Ed è facile comprendere perché la forma organizzativa per eccellenza di una politica basata sull’imitazione, ossia l’idea dell’Impero, sia naufragata ogni volta che si è resa succube di una volontà d’azione ispirata al principio amministrativo opposto, quello della partecipazione, il quale governa invece la vita dello Stato; o perché sia naufragata 28   «Ma se dovesse accadere che due persone riflessive avessero idee diverse, non vedo come potrebbero discorrere o discutere insieme» (Saggio, Abbagnano, p. 220; accordo sulle parole: p. 426).

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anche, viceversa, ogni volta che l’idea dello Stato ha avuto la pretesa di traslare sul piano di un impossibile ideale amministrativo imperiale. neokantismo Oltre alla pura logica dei mezzi nelle sue due forme (della sola congruenza dei mezzi rispetto ai fini, e del perfezionamento dei soli mezzi senza alcuno scopo prefisso), vi è poi l’intellettualismo che si manifesta nella logica sistematica dei disegni. La sistematicità costituisce un efficace surrogato intellettualistico alla mancanza di visibilità o di riconoscibilità di un pensiero: il quale, presentandosi sotto forma di dottrina, offre una possibilità d’identificazione agli artefici e di schieramento ai seguaci. Gli uni e gli altri, in tal modo, entrano a far parte di una città: il sistema è sempre politico, per eccellenza. Come si vedrà discutendo uno dei casi testuali fra i più interessanti, un pensiero im Sinne è un pensiero im System29. Attraverso una dottrina sistematica il pensiero speculativo, e in particolare la metafisica, innalza ed esercita un suggestivo sistema egemonico sulle singole discipline, proprio come su altrettante nazioni farebbe una di esse, che si presuma candidata a ottenere finalmente il suo secolo. Tranne che dopo il 1848, il 1918, il 1945, in un solo momento della sua storia il kantismo30 non è stato il rifugio dei vinti o dei pentiti: dopo il 1871. E quest’unica stagione trionfante della sua storia, che si apre con l’opera del Cohen (il quale volle fare di Kant, in qualche modo, il padrino del Secondo Reich), vede diffondersi l’idea che il ruolo logico costitutivo dell’oggetto, assolto dall’intelletto, sia anche ruolo storico, costitutivo di ordinamenti (i sistemi dell’oggetto) effettivamente validi per plasmare città cosmiche, o zolle continentali ideologiche. Non di rado sulla possibilità di erigere un sistema le nuove intuizioni scientifiche sono state messe alla prova; e nelle opportune circostanze sistematicità delle scienze e disegni d’egemonia culturale si accompagnano. Per il resto, neokantismo significa fenomenologia e filosofia dei valori. Il logicismo e lo psicologismo di Husserl nient’altro sono che le facoltà intellet  Nella Parte Seconda, Critica del Testo, alla nota 28.   Devo specificare che questo termine, riferito a Kant, non ha alcun valore teorico, e semplicemente non esiste, né può esistere: esigendo la dimostrazione dell’esistenza nel suo pensiero di una salda unità, per lo meno, fra i due grandi rami del criticismo e dell’antropologia. Quest’ultima si sottomise assai malamente ai suoi a-priori sintetici, così come ogni altra scienza (la geografia, per esempio) per la quale egli accarezzò l’idea di fornire il metodo. Parlo di ‘kantismo’ unicamente per indicare una posizione di storia della critica e un costume intellettuale. 29 30

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tuale e sensibile di Kant, unite mediante la volontà di Schopenhauer nell’intenzionalità del conoscere: derivazioni, sviluppi e montaggi nello stile molto professorale del Secondo Reich. Windelband e Ricker, d’altra parte, danno vita nei ‘valori’ a quei ‘prìncipi’ che nella Critica non hanno vita alcuna. Gli sviluppi del neokantismo riflessi sul piano dell’arte, nell’impressionismo e nelle avanguardie, come dirò, sono invece alquanto più interessanti. L’abbandono di quel solido ostacolo e limite al pensiero che, malgrado tutto, è pur sempre costituito dal mistero della cosa in sé può aver fatto credere che la realtà si possa plasmare a piacere, nel solo rispetto dei vincoli autonomi, logici e metodici, del solo pensiero stesso. Il voltare le spalle alla cosa in sé è foriero dei più gravi pericoli intellettualistici, e diventa senz’altro un postulato in clima di neokantismo – sebbene questa tentazione ricorra già di frequente in tutto il pensiero moderno, a partire da Hume31. Dove sta la differenza, però? La differenza sta nella reversibilità della relazione del soggetto con l’oggetto, a tutto vantaggio del soggetto e delle sue rappresentazioni, che si crea in clima neokantiano, e la cui legittimità Hume aveva invece risolutamente negata: Quando cominciamo a ragionare intorno ad un oggetto, è fuori dubbio che lo stesso ragionamento deve estendersi anche all’impressione: e ciò perché la qualità dell’oggetto, sulla quale il ragionamento si fonda, deve per lo meno essere concepita dalla mente, e non potrebbe essere concepita, se non fosse una qualità anche dell’impressione: poiché noi non abbiamo idee che non abbiano quest’origine. Così possiamo stabilire come massima sicura che non possiamo mai, per nessun principio, altro che per una specie di ragionamento irregolare, scoprire una connessione o una ripugnanza fra gli oggetti che non si estenda alle nostre impressioni, sebbene la proposizione inversa non sia egualmente vera [!]: che, cioè, tutti i rapporti delle impressioni siano comuni agli oggetti32.

Bisognerà tenere conto delle debite differenze, naturalmente, che corrono fra queste impressioni di Hume e quelle rappresentazioni, via via travolte dall’immediata irruzione della volontà, di cui si rese semplificante teorico Schopenhauer. Ma qui non intendo occuparmi di alcuna storia delle idee – tantomeno negli esiti della loro decadenza: Kant rappresenta già l’inizio del ramo discendente della parabola del pensiero moderno, e tanto basta per questo libro. Senza fare della storia, sarà sufficiente menzionare l’interpretazione 31   Con una sbrigativa conclusione come questa, per esempio, che può anche riassumere in buona sostanza il suo pensiero: «Né, infine, è necessario notare che non c’è bisogno di una piena conoscenza d’un oggetto, ma basta quella delle qualità che noi crediamo esistere in esso» (Trattato, libro i, par. iii, sez. xiv; Lecaldano, i, p. 187). Potremo osservare un esempio concreto di perdita dell’oggetto più avanti, nell’esame di un brano di traduzione di Gentile (Parte Seconda, Critica del Testo, alla nota 24). 32   Ivi, libro i, parte iv, sez. v (Lecaldano, i, p. 254).

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che ancora nel 1918, quando ormai l’epoca neo-kantiana aveva superato la sua fase culminante, Norman Kemp Smith volle dare della natura della prima forma di conoscenza, o coscienza originaria, in Kant. Lo Smith non ebbe pretese di originale pensatore, ma solo di lettore attento e d’interprete fedele. Tanto meglio, per farne un campione credibile della sua epoca33. Dopo avere riconosciuto che il problema della prima forma di coscienza giaceva irrisolto, da Cartesio sino a Hume, egli afferma che Kant avrebbe avuto l’inestimabile merito di scoprire che «la coscienza è in tutti i casi [!] consapevolezza di significato» (consciousness is in all cases awareness of meaning); che «il significato è un oggetto [!] di apprendimento altamente complesso» (meaning is a highly complex object of apprehension), il quale riposa sopra «una complessità di condizioni [!] generative» e implica una «varietà di fattori conoscitivi distinti» (a complexity of generative conditions; a variety of distinct factors), e che Kant rivendicò il merito d’avere distinto queste numerose componenti. Le cose riposano, per così dire, nel fondo di se stesse, mentre «il significato, d’altra parte, implica sempre l’interpretazione di ciò che è dato alla luce di più ampie considerazioni [?!] che gli attribuiscono un senso» (Meaning, on the other hand, always involves the interpretation of what is given in the light of wider considerations that lend it significance). Insomma: per Kant, secondo lo Smith, ogni consapevolezza, non importa quanto rudimentale o apparentemente semplice, è un atto del giudizio, e perciò coinvolge le categorie relazionali [!]. Non la contemplazione passiva, bensì il giudizio attivo [!], non la mera concezione, bensì l’interpretazione sintetica è la forma fondamentale, e la sola forma [!], in cui la nostra coscienza esiste34.

Il lettore dotato di un poco d’esperienza vede abbastanza facilmente quale sia il senso e la consistenza del discorso. Bastano i particolari logici e linguisti33   Il fatto che, avvicinandosi a Vaihinger, egli tenga a distinguersi dalla grande maggioranza dei neokantiani (Norman Kemp Smith, Commentary on Kant’s Critique of Pure Reason, The Humanities Press, New York 1950, p. xliv nota) non va sopravvalutato, perché il suo scopo, in realtà, è quello di distinguersi dagli hegeliani, e dal loro pretesa di monismo della conoscenza senza alcun residuo d’oscurità (ivi, p. xlv), che ancora evidentemente inquinava il kantismo rinato. Diciamo che lo Smith voleva assumere una posizione di kantismo coerente e radicale, contro le commistioni hegeleggianti del ‘neo’ kantismo. La sua posizione, per noi, è dunque tanto più preziosa. Vaihinger riconosce la continuità del suo metodo nel commento di Smith (Kommentar, i, p. iv); ma si tratta di due opere completamente diverse per origine e per leggibilità. 34   «All awareness, no matter how rudimentary or apparently simple, is an act of judgment, and therefore involves the relational categories. Not passive contemplation but active judgment, not mere conception but syntetic interpretation, is the fundamental form, and the only form, in which our consciousness exists» (Commentary, pp. xli-xlii).

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ci. Il tono esclusivo, innanzitutto: la coscienza è sempre e soltanto, «in tutti i casi», consapevolezza; la forma fondamentale è «la sola forma» in cui esiste la nostra coscienza. La sostituzione dell’oggetto, in secondo luogo, col «significato» dell’oggetto; il quale significato diventa esso stesso, senz’altro, «oggetto». La superfetazione terminologica, poi: la quale fa sì che il significato «complesso» dell’oggetto riposi (to rest) sopra «una complessità» di condizioni generative (e questa complexity non può significare semplicemente ‘un insieme’, o ‘un vasto numero’, o ‘un complesso’, secondo le più comuni espressioni: a whole, a set). Il mistero delle cose riposanti in se stesse, in quarto luogo, che diventa il mistero, a sorpresa, della loro interpretazione alla luce di non meno misteriose «più ampie considerazioni»: le quali altro non possono essere che le forme a priori della sensibilità! Ma lo Smith, tutto intento a discernere le forme intellettive (vale a dire: rappresentative, ma secondo un’ottica intellettualistica), abbandona con pie’ leggero al loro destino gli a-priori della sensibilità. L’atto del giudizio, per conseguenza, è secondo lui strettamente «coinvolto» con le categorie di relazione. Cosa significa questo verbo? Una sola cosa, temo: dal momento che Kant volle dedurre le categorie dell’intelletto da un primitivo giudizio, dopo avere assistito alla sostituzione dell’oggetto con il suo significato, o rappresentazione, che diventa ‘vero’ oggetto, noi assistiamo qui a un’analoga sostituzione, o all’inversione della relazione di dipendenza fra categorie e giudizio. La scelta di un verbo appiccicoso e scivoloso come to involve, allora, non sarà forse del tutto innocente. È mai possibile che uomini come lo Smith abbiano del tutto scientemente praticato l’intellettualismo – sebbene con una certa cautela evasiva? E perché, poi? La risposta è forse contenuta nella medesima pagina: là dove egli giudica insostenibile (untenable) la teoria cosiddetta della ‘coscienza diafana’, secondo cui la coscienza non sarebbe che un semplice mezzo (merely as a medium) di attraversamento per la manifestazione dell’esistente. Sono i cascami schopenhaueriani del nietzschanesimo insomma (tanto per capirsi) che preoccupava gli uomini come lui. Kant ha seminato, e ognuno ha poi raccolto il suo bottino. Ma di qui a dire che la forma di conoscenza fondamentale in Kant avrebbe, sin dapprincipio, natura complessa, ce ne corre. E anzi verrebbe voglia di esclamare: ‘magari!’. Magari fosse vero che Kant non ha preteso di stabilire alcun ordine di precedenza fra gli a-priori della sensibilità e dell’intelletto! Né, del resto, lo Smith porta alcun esempio di questa supposta complessità originaria: per farlo, egli dovrebbe mostrare, per lo meno, come in Kant le forme dell’intelletto, sia pure semplici, siano sempre inscindibili dalle forme

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della sensibilità, sia pure semplici – ma non può farlo, nemmeno se lo volesse, dal momento che non lo fa neppure Kant. E anche così, poi, i pericoli intellettualistici per il pensiero e per l’umanità sarebbero tutt’altro che scongiurati. Non deve infatti sfuggire al lettore l’importantissima trasformazione, nello spazio di una sola riga, dell’«atto del giudizio» in «giudizio attivo» – che significa, evidentemente, qualcosa assai di più: vale a dire, la forzatura attivistica dell’atto del giudizio, foriera già (nel 1918) dei suoi ultimi (o anzi penultimi!) risultati in filosofia politica. Così, un attento e agguerrito commentatore critico della prima Critica diventa involontario rivelatore delle ragioni spermatiche del criticismo, non meno che portavoce degli sviluppi intellettualistici e attivistici ormai tipici della sua propria epoca: non sempre, infatti, è possibile distinguere chiaramente le due cose. Per un’ulteriore conferma dell’attivismo, valga ancora questo passo: «Proprio perché ogni (all) consapevolezza è consapevolezza di significato, la nostra umana esperienza diventa intelligibile come attività rivolta a uno scopo (purposive activity), la quale si orienta secondo modelli ideali». È chiaro dunque che «ogni» consapevolezza può essere ‘soltanto’ consapevolezza di significato; e che l’umana esperienza diventa intelligibile ‘soltanto’ come attività consapevole – perciò ogni possibilità di contemplazione è del tutto esclusa. E per una conferma dell’intellettualismo kantiano, in qualche modo recepito in questa interpretazione critica della Critica, valga invece il passo seguente: Kant ha ammesso senz’altro che «quanto si è mostrato vero per certi tipi di relazione (per esempio, per le relazioni causa-effetto e sostanza-attributi) dev’essere vero per tutte le relazioni, persino per quelle che costituiscono lo spazio e il tempo». Povero Kant: se questo fosse vero, le sue forme della sensibilità diventerebbero perciò nient’altro che appendici delle forme categoriali dell’intelletto!35 Questo libro, fra l’altro, riuscirà a mostrare, spero, fino a che punto Kant abbia effettivamente meritato il destino di simili interpretazioni, rendendosene però anche in qualche modo responsabile. Qui dobbiamo ancora occuparci di conseguenze più generali per la filosofia politica – ma senza tralasciare di dire, almeno, che l’unità della conoscenza che va perduta nell’intellettualismo non può non avere una delle sue condizioni principali nella perdita dell’interesse per l’unità antropologica del soggetto. Ne ho già parlato36. Se ora ne riparlo, è solo per congedarmi dallo Smith citando queste sue parole: «La mente [per 35   Ivi, pp. xlii-xliii: rispetto a Cartesio «Kant … has carried the opposite view to an impossible extreme, assuming without further argument that what has been shown to be true of certain types of relation (for instance, of the causal and substance-attribute relations) must be true of all relations, even of those that constitute space and time». 36   Alla nota 7.

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Kant] può dispiegare i suoi contenuti alla luce solare della coscienza, soltanto perché le sue radici affondano in un terreno che la luce non riesce a penetrare»37. Questa è l’insuperabile linea di divisione del vero kantismo dal panlogismo hegeliano e da un neokantismo compromesso, così come di Aristotele da Platone38. La sola genuina dottrina critica, il fenomenismo, ammette come noto il mondo fisico, e fa dei nostri stati soggettivi (sensazioni, sentimenti, desideri) altrettanti stati di coscienza oggettivi: ecco i veri noumeni che sfidano la nostra interpretazione39. In realtà, come si vede, si attua qui una sostituzione del noumeno; e le profondità di quell’oscuro terreno insondabile alla luce, una volta ammesse, sono state abbandonate al loro destino, abbandonando per conseguenza al suo destino la cosa in sé mediante sostituzione della presa di coscienza all’esperienza. Ammettere come nota l’esistenza di un terreno, insieme con l’insondabilità, significa, in definitiva, negare il valore dei depositi della memoria e della tradizione, attivando l’inesausto grembo generatore d’infinite rappresentazioni e d’infiniti significati – tutti effimeri. All’intellettualismo hegeliano si vuole opporre «the ontological, creative, or dynamical aspect of consciousness» – vale a dire: l’attivismo; il quale non vorrà negare, parlando di Kant, di rileggere Spinoza attraverso Schopenhauer. libertà e forma, egemonia La liquidazione dell’oggetto e del problema della cosa in sé a tutto favore del suo significato, che avviene mediante quella che Hume chiama, nel passo sopracitato, «proposizione inversa», e che diventa tipica della rinascita criticista sul finire dell’Ottocento (il dotto libro sulla cosa è la cosa, senz’altro), può assumere un significato filosofico-politico: il significato, vale a dire, della liquidazione di quell’ostacolo, insormontabile per la conoscenza, che è rappresentato dalle evanescenti entità delle altrui personalità nazionali. Di esse non restano allora, per il cosiddetto ‘soggetto’ che ambisce alla conquista dell’egemonia politica e culturale, nient’altro che le proprie rappresentazioni: vale a dire la semplice fenomenologia dei costumi e la sociologia dei caratteri. Esse non sono più desunte, però, dalle osservazioni dei viaggiatori, per esempio, com’era avvenuto nel XVII e nel XVIII secolo, bensì dai repertori statistici e ideologici dei pubblicisti in clima di   Commentary, p. xliv.   Ivi, pp. xliv-xlv. 39   Ivi, pp. xlvi-xlvii. 37 38

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positivismo e di risorto criticismo. Una certa aggressività e arroganza nazionalista di tanti intellettuali tedeschi di prim’ordine si può spiegare anche, credo, con un simile clima culturale di pregiudizio ‘positivamente fondato’. La pretesa kantiana del fondamento, ossia un pregiudizio realistico di certezza, è ciò che distingue l’avventura imperiale tedesca dall’avventura napoleonica, guidata dalla ragione astratta o ragion pura. A fine secolo XIX la pretesa è ormai diventata sanzione. Comincia Cohen, affermando che il problema trascendentale è «nient’altro» che il modo di conoscere la storia e le scienze; e finisce più baldanzoso e riduttivo il nostro Croce, affermando che il conoscere è storia e «nient’altro» che storia. Nient’altro, appunto. Arroganze d’altri tempi a parte, la periodica reviviscenza di questa tematica ha conosciuto una nuova stagione durante i recenti anni Novanta, per ovvie ragioni, dopo la fine della guerra fredda e della politica dei blocchi; e questa reviviscenza (fortunatamente) non ha ancora affiancato all’interesse per le personalità nazionali un apprezzabile interesse per i caratteri e i patriottismi regionali e municipali. Il problema richiederebbe l’impiego di strumenti di sondaggio diversi dai noti: quelli, per esempio, di una filologia politica della letteratura su base analogica e caratteriologica, la quale riuscisse finalmente ad apporre alle numerose pubblicazioni sull’identità dei popoli ciò che loro manca regolarmente: le note giustificative a pie’ di pagina, che le rendano effettivamente discutibili. Senza analisi, niente sintesi, se non per mere opinioni o vivaci impressioni – che valgono comunque sempre qualcosa (e anche più di qualcosa: come mostrano, per esempio, i giudizi di Leopardi sul carattere degl’italiani); e senza filologia, niente estetica – talvolta, anzi, buone dosi di cattivo estetismo40. In tal modo si può scoprire che la natura di una personalità insondabile consiste di un’illimitata essenza narrativa. Come dice Goethe nella prefazione alla Teoria dei colori: la storia completa delle manifestazioni di una cosa ce ne dà l’essenza. Bene: narriamola dunque all’infinito, questa cosa, e sapremo che cos’è – ma non trascuriamo di ammettere che la sostanza del pensiero non è in definitiva nient’altro che letteratura. È questa una via non dottrinaria e non sistematica, che è 40   La tradizione degli studi tendenti a fare scaturire dall’analisi un giudizio di sintesi sulle personalità immaginarie e sulle mentalità è alquanto esigua, ma assai validamente rappresentata in quella disciplina che prende di solito il nome di ‘Storia della cultura’. Un recente esempio di un simile approccio analitico è rappresentato dal volume degli Atti dei Convegni Lincei su La cultura letteraria italiana e l’identità europea, A. N. L., Roma 2001. Dal 1975 l’editore Bulzoni di Roma pubblica una collana ‘Chi siamo’, fondata da Dario Sabbatucci e diretta da Gilberto Mazzoleni. Dal 1990 circa l’Institut Pierre Renouvin di Parigi conduce una ricerca sull’identità europea, con la relativa collana di pubblicazioni. Alla trattazione analitica del quesito dell’identità italiana sono dedicati, per esempio, i numerosi volumi della collana ‘Antica Madre’, editi dal Credito Italiano, oltre che il primo volume della Storia d’Italia Einaudi. Dopo il 1989 gli studi di tipo non analitico, d’altra parte, sono diventati quasi una moda.

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stata non di rado prescelta per giustificare ricerche sulle identità nazionali e sulle loro missioni storiche. Fra il 1871 e il 1918 anche il migliore criticismo non è rimasto certo insensibile alle lusinghe della filosofia politica. Basta leggere con attenzione, sin dalla premessa, quello che è uno tra gl’irenici frutti migliori di quell’età, Libertà e forma del Cassirer41: il quale (non diversamente da quel che aveva fatto il Burckhardt, come ho detto) rinuncia a dare una definizione preliminare delle coordinate teoriche costituite dai due termini ‘libertà’ e ‘forma’, nonché dell’assiomatica opposizione di tali e consimili «simboli concettuali», come li chiama, per mettersi poi alla ricerca narrativa della loro complementarità, o pura correlazione, ovvero opposizione e insieme conciliazione, nel quadro di un’unica «direzione dello sviluppo» del «tratto ‘metafisico’ dello spirito tedesco» – o insomma «della sua natura spirituale e della sua missione storico-universale». Spinto ancora dall’onda lunga degli ottocenteschi ‘primati’ nazionali, al Cassirer sembra indiscutibile che alla natura d’un popolo debba anche accompagnarsi una sua missione mondiale – ma forse che i boscimani o i calmucchi ne hanno una? E perché non parlare finalmente, nel 1916, e senza bisogno di molta antiveggenza, della missione mondiale russa o americana, ormai prossime a iniziarsi? Già nel 1832, dopotutto, Hegel non fu scusato per la miopia della sua boria da un Romagnosi, che pure non aveva ancora potuto leggere Tocqueville42. Tantomeno possiamo noi scusare il Cassirer di oltre novant’anni dopo, che dell’intero mondo anglofono nel suo libro non fa scientemente parola. A parte gli svolazzi della filosofia della storia passati dalle aule universitarie agli uffici della propaganda, nella sua terminologia il lettore riconosce già alcuni dei caratteri linguistici che in qualche pagina di questo mio libro gli torneranno familiari: dall’ibridismo logico-terminologico a dispetto del dualismo assiomatico (se si può parlare di «simboli concettuali», infatti, perché non sancire senz’altro fin dapprincipio la possibilità di una ‘libertà formale’, anziché il dualismo di ‘libertà’ e di ‘forma’?), alla semplificazione dualistica di una ridondanza nozionale che dilaga poi, discorsivamente, in ciò che dovrebbe restare escluso per assunto teorico: direzione e sviluppo (ossia movimento storico), tratto metafisico, spirito nazionale (tedesco), natura spirituale (altra ibridazione!), missione mondiale; e ancora: storia completa, antitesi genera41   Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale della Germania (1916), Le Lettere, Firenze 1999, pp. 41-46. In un frangente storico solo parzialmente diverso, Origini dello storicismo di Friedrich Meinecke (1936) può rappresentare un tentativo analogo, condotto però su un versante di ascendenza teorica leibniziana. Per un corrispondente francese di questa guerra di propaganda accademica si possono vedere i due volumi de La science française, a cura di Lucien Poincaré, Librairie Larousse, Paris 1915 e 1933. 42   Alcuni pensieri sopra un’ultra-metafisica filosofia della storia, lettera a Giovan Pietro Vieusseux in ‘Antologia’, 1832 (ora in Giandomenico Romagnosi, Scritti filosofici, a cura di Sergio Moravia, Ceschina, Milano 1974, ii, pp. 69 e 65).

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56   introduzione

lissima, legge fondamentale, piano comune di proiezione, rappresentazione indiretta, centro ideale, unità interiore, mediazione necessaria, punto focale e rifrazione, assimilazione e restituzione, autonomia e radicazione, disposizione intellettuale (ossia, detto francamente: pregiudizio!) – e numerosissime nozioni simili, più o meno nascoste nella sua prosa, e non ricostruibili affatto mediante due semplici assiomi originari assai vaghi e vuoti, come sono ‘libertà’ e ‘forma’ – esattamente come nessuna nozione disinvoltamente usata da Kant sarebbe ricostruibile a partire da ‘spazio’ e ‘tempo’. Forse, anche, l’aulica lezione goethiana sconsigliò al Cassirer l’uso dei più schietti e imbarazzanti termini corrispondenti di ‘barbarie’ e di ‘civiltà’, che sarebbero stati francamente più adatti a dirigere un’opera di propaganda d’una missione nazionale giunta, con la guerra nel 1914, per così dire, alla sua fase esecutiva. Fu dunque ritegno, fu pudore terminologico, quello del Cassirer; ma la sostanza del problema egemonico rimane la stessa: l’antica e naturale distinzione basilare dell’estetica politica fra civiltà e barbarie. Con la scorta di altrettante sintesi a priori, servendosene a piacere in complicità col suo lettore, Kant aveva preteso d’andare in cerca di quei paraferni del principio di ragion sufficiente che sono lo spazio e il tempo, gabellandoli per intuizioni primarie: perché lo ‘spazio’, in realtà, è mero dispiegamento di barbarie, ossia di libertà e di creatività, mentre il ‘tempo’ è principio della forma e del pensiero, ossia di civiltà. Simili nozioni della sensibilità sono assai più originarie di nozioni assai cólte, e acquisite con la formulazione di un problema teorico, come lo spazio e il tempo. Che fare dunque di due vuoti pilastri, oltre a collocarli in sede preliminare per pure ragioni di stile sistematico? L’inserimento a presidio d’un trattato di due vistose colonne di gusto spaziale, architettonico, come son queste, viene così ad aggiungersi (non a sostenere) alla sostanza narrativa, temporale, del pensiero, nell’edificazione e nello svolgimento di quello che è niente più e niente meno che un particolare genere letterario: la filosofia. Ma quale romanziere ha mai avuto bisogno, per ottenere il suo scopo, di porre due nozioni simili a presidio dell’opera? Si dirà che il romanziere non si deve giustificare – benissimo: allora si rilegga la Critica, e si vedrà che neppure Kant riesce a giustificare la collocazione dei presidi sensibili del suo edificio, e tantomeno chiamandoli sintesi a priori. La differenza tra il filosofo e il romanziere consisterà allora nel fatto che l’uno almeno ci prova, a definirli, e l’altro no? Ma allora il filosofo non sarebbe che un romanziere mancato, e il romanziere un filosofo fallito! Se, almeno sotto il profilo estetico-politico, spazio e tempo e libertà e forma non sono che gli equivalenti di una sostanziale distinzione fra civiltà e barbarie, ossia l’automatismo di un pregiudizio tecnicamente dissi-

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Filosofia politica de la critica   57

mulato, compito della critica non è soltanto di svelarlo, bensì anche d’invitare a riconoscere che senza il pregiudizio, o possesso di complesse nozioni, non c’è punto di partenza possibile per alcun lungo e alto cammino. A che serve, allora, cercare di definire la libertà e la forma quando dietro c’è già tutta quanta una filosofia della storia? Persino la Fenomenologia di Hegel, senza le giustificazioni e le pretese, diventerebbe forse leggibile quanto la trilogia del Meister, e il risultato ‘scientifico’ sarebbe pressappoco il medesimo. Se si è d’accordo, col Cassirer, che la direzione dello sviluppo della storia nazionale tedesca (solo tedesca?) è quella dell’opposizione e (peraltro) della conciliazione o correlazione tra libertà e forma, diventa effettivamente inutile (oltre che imprudente) definire in via preliminare ‘la libertà’ come negazione o antitesi o opposto logico de ‘la forma’, e viceversa. «Ma accanto a Goethe c’è Kant», esclama con premura il Cassirer – sì, certo: i due dioscuri della letteratura nazionale tedesca sono reciprocamente indispensabili come la sensibilità e l’intelletto, come la libertà e il senso della forma (omettendo di aggiungere, per edificante pudore: come la civiltà e la barbarie). Ma se è proprio vero (è proprio vero?) che «Kant ha assimilato dal contesto culturale della nazione nel quale è radicato [tutto] ciò che gli ha [poi] restituito di riflesso», ciò sarà pur vero, a non meno forte ragione, anche per Goethe. Il loro studio può dunque diventare un esercizio d’auscultazione, di captazione dal corpo delle loro opere di emanazioni sorgenti dalla penombra di un altrettale corpo fisico specifico, nazionale, immerso, oltre che nella luce, anche nella sua marmorea gravità e nelle sue proprie ombre. Faranno il medesimo, tra loro, le nazioni? Si auscultano e si contemplano, esse? Se sì, parliamo di Leibniz, allora, piuttosto che di Kant. È un’analogia nascosta e involontaria, questa, uditiva e visiva, un automatismo del pensiero (al quale presiedono altre più nascoste metafore: come la filtrazione circolatoria, il metabolismo vegetale, e simili), al quale il Cassirer non seppe rinunciare. Cedendo e riottenendo le sue linfe, la Germania ha scelto i suoi campioni – e le nazioni del mondo (ecco l’automatismo dell’intuizione, ecco l’analogia fra una costituzione interna e un’egemonia mondiale) faranno forse lo stesso con la Germania medesima, riconoscendole spontaneamente un meritato ruolo di guida con ciò che finalmente le spetta, dopo ogni altra grande nazione europea: il suo secolo. È così che terminando di presentare la sua opera Cassirer viene a parlare della rinascita di un germanesimo dotato della capacità «di cogliere e d’interpretare nella loro peculiarità le voci dei popoli». Già – ma se la supposta identità dell’idealismo tedesco, secondo una stanchissima formula, è consistita nell’insegnare al mondo il valore dell’autonomia, della spontaneità

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58   introduzione

e della legalità dello spirito; se ogni singola sfera dello spirito rivendica la propria indipendenza con «completa e assoluta» validità; se ogni emancipazione e ogni determinazione positiva vi si affranca da ogni legame, limitazione o negazione, per ripristinarsi nella «sua» gelosa totalità interiore più tipicamente tedesca – bene: che ne è della cordialità, della popolarità, della spontaneità del consenso ch’essa così dottamente reclama? Che ne è dell’amore, accanto alla forza? L’uno, o l’altra, non basta. Forse che dopo la letteratura italiana, la spagnola, la francese, l’inglese e infine anche la russa (le quali non hanno mai avuto la pretesa, mi pare, d’interpretare le voci dei popoli, dopo averle còlte, secondo la propria autonomia interiore, e secondo una propria indipendenza «completa e assoluta») – forse, dunque, che sarebbe dovuto toccare alla letteratura tedesca il compito inedito, del tutto particolare, d’interpretarle restando, essa sola, gelosamente qual è? La realizzazione di ogni ambizione d’egemonia è affidata alla soluzione del problema di conciliare la forza con l’amore. Cassirer non conosceva ancora abbastanza la potenza del cinema; e non si poteva ancora domandare, come noi oggi, che cosa mai sarebbe il secolo americano senza di esso. La forma egemonica del cosiddetto marxismo-leninismo, ossia dell’internazionalismo bolscevico, su partiti e movimenti socialisti e comunisti può forse dare un’idea della risposta. E non credo di sbagliare se affermo che, al di là dell’impiego della forza, la forma dell’egemonia tedesca sarebbe stata interamente mediata dai suoi intellettuali accademici, nonché basata su di un rapporto amministrativo di partecipazione, anziché d’imitazione. Ma non è soltanto di quesiti immaginari che dobbiamo occuparci. Nelle premesse teoriche di questo sunto propagandistico di filosofia della storia a prossimi scopi d’egemonia, che è il libro del Cassirer, la teoria platonica dell’imitazione e la teoria leibniziana delle monadi vengono piegate per dire quel che i due «grandi intellettualisti» (secondo Kant) Leibniz e Platone non si sarebbero mai sognati. Mentre insomma ogni grande nazione europea non ha fatto che esprimere liberamente e interamente se stessa, e con se stessa anche l’intero senso dell’umanità, semplicemente esponendosi alla contemplazione e all’imitazione, sembrò al Cassirer che alla Germania dovesse toccare il compito assai più ambizioso di portare in questa libertà il senso della forma – la propria: interprete immobile, «completa ed assoluta», dell’altrui. Egli intuisce il problema sorgente da quest’arroganza; e per risolverlo in via conciliativa si limita a riservare alla Germania il più modesto compito di rappresentare semplicemente «una delle mediazioni necessarie», attraverso le quali noi tutti siamo in grado di possedere

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Filosofia politica de la critica   59

storicamente l’intero mondo spirituale43. E in ciò, almeno, non s’è sbagliato davvero, se consideriamo tutto ciò che il mondo deve alla cultura tedesca. Ma nei maestri della Germania, come lui, che fu uno dei più miti, si nascondono vizi; e sono vizi di eccesso di ‘forma’, e vizi di muto pensiero – ossia di quella particolare sensibilità che sta raccolta nel pregiudizio. nozioni, istituzioni Questo libro tratta di filosofia politica ‘de la critica’, alla latina: intorno alla critica. Non c’è nessuna filosofia politica palese ‘nella’ o ‘della’ critica, naturalmente. E il lettore si domanderà certamente, a questo punto, perché mai uno studio di estetica politica su Kant non sia stato condotto sui suoi scritti politici. Devo innanzitutto confessare senza imbarazzo che dall’analisi degli scritti politici di Kant mi avrebbe in ogni caso distolto un franco giudizio sul loro valore – il quale è ben scarso: basta leggerli senza soggezione. Un intero secolo, almeno, di moralismo di costituzionalismo di cosmopolitismo viene a riassumersi nel povero sunto evaporato, nei pochi fondi d’un boccale federiciano, nei quali bisogna cercare per forza un sapore nuovo e antico fra i trepidi auspici, fra i timenda e i desiderata irenici alla portata del cuore speranzoso di chiunque – purché disposto a suonare il piffero per la pace di Basilea, e a farsi leale suddito d’una repubblica a rappresentante unico. Nel Flauto magico, se non altro, s’era già visto di meglio. Né la Società delle Nazioni, né le Nazioni Unite hanno avuto bisogno di simili ispirazioni, se non nell’immaginazione di maestri di scuola o di rivoluzionari di professione che hanno amato ripetersi le formulazioni d’ogni problema come fossero altrettante soluzioni. 43   Ma nel corso della trattazione il rapporto fra la singola personalità e la totalità del mondo non resta poi affidato a questo vago schema della ‘mediazione’, bensì a forme assai più energiche: demiurgiche e giudiziarie, per esempio, per Dante; e ottiche o prospettiche per il Petrarca – ma secondo un’interpretazione autoritaria e violentemente reattiva dello schema leibniziano del rispecchiamento. Come infatti si vede subito: allorché, dopo avere costituito «la pura interiorità soggettiva che... appartiene soltanto a se stessa» in «totalità del mondo spirituale», il Cassirer specifica che l’Io trova se stesso «nel dominio» del mondo; e che il suo rispecchiamento consiste nella «forza dell’azione» che esercita sugli altri, ma anche, al tempo stesso, nella «reazione che riceve dagli altri, dai quali si trova così a dipendere interiormente» (ivi, pp. 48-49). Quest’ultimo avverbio è tutto un poema tedesco: sembra proprio che l’instaurazione di rapporti di forza non possa andare disgiunta dall’edificazione. Il resto dell’opera non è che una lunga predica, sulla cui redazione non poté certo mancare di esercitare una certa influenza l’attività contemporaneamente svolta dal Cassirer, il quale si trovava arruolato negli uffici della propaganda di guerra antifrancese. Senza giustificazione alcuna, essa è interamente costruita sul trittico continentale italo-franco-tedesco, con esclusione dell’Inghilterra. Il tacito consenso degl’intellettuali tedeschi a progetti di spartizione europea fra mari e terre si espresse anche così. È una ragione di più per leggere quest’opera con la curiosità che meritano le idiosincrasie del Gemüth nazionale, e col rispetto dovuto alle mentalità. La filosofia è politica, lo si voglia o no.

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60   introduzione

Sotto il profilo della storia delle dottrine il contenuto di questi scritti politici varrà quel che vale; ma sotto il profilo della filosofia politica il loro valore va giudicato in modo diverso: perché la filosofia politica non tanto deve cercare i barlumi d’una filosofia nelle opinioni politiche d’un filosofo, bensì piuttosto la filigrana politica nella sua stessa filosofia. La vera ragione dell’interesse e della relativa popolarità di simili dottrine politiche fra gli studiosi va ricercata, io credo, nel clima degli anni della guerra fredda: quando le simpatie accademiche per il significato autoritario dell’impresa mondiale tedesca, già vive durante la prima metà del XX secolo, lasciarono il campo, nella seconda metà, alla ricerca di nuovi spazi d’autonomia degl’intellettuali delle scuole secondo una logica di ‘terza posizione’ fra i blocchi ideologici contrapposti. Kant poteva offrire i quartieri dove andare a svernare con dignità. La legittimità teorica e la giustificazione realistica dell’auspicio di solidarietà fra nazioni non sono di natura storica né logica, bensì letteraria. Sotto il profilo puramente teorico, infatti, all’origine di simili auspici dev’essere posta e discussa l’ammissibilità conoscitiva, narrativa e sentimentale di ‘nozioni’ in generale, e in particolare delle nozioni di Civiltà e di Barbarie, d’Oriente e d’Occidente, di Classico e Moderno, di Medioevo e Rinascita, dell’Europa e del Turco, e di simili altre città cosmiche della geografia e della storia, con tutto il corteo delle personalità immaginarie (a cominciare dalle etniche, razziali e nazionali) entro le quali effettivamente e intuitivamente si divide l’umanità, non meno che i giudizi e i pregiudizi tipici di tutte le opinioni di filosofia politica. Non meno dell’uomo comune, ma solo con qualche reticenza o qualche vanitosa pretesa di rigore concettuale, l’uomo di cultura si serve abitualmente di simili nozioni, e chiedergliene la giustificazione è di solito fatica sprecata – l’ho già detto e ripetuto: e Kant non fa eccezione. Ma questo, d’altra parte, è pur sempre il vero compito del filosofo che voglia fare il filosofo politico, se vuole essere giudicato come tale, e non come un pubblicista a tempo perso, o un costituzionalista dilettante, o un propagandista sentenzioso. La lotta al turco è vecchia quanto l’Europa, e con le sue Lettere dal Ponto Ovidio, per esempio, aveva già fissato ormai da un pezzo la frontiera verso una ‘barbarie asiatica’ che per i greci era sempre rimasta ancora soltanto un modo di dire. Superare quella frontiera non è affatto impossibile; ma occorre altrettanta letteratura. Ma quanto a ‘costituire’ intuitivamente e sentimentalmente in unità psichica queste città cosmiche, quando in modo intuitivo e sentimentale non siano ancora già date e riconosciute per senso comune; e quanto al costituirle autonomamente, poi, senza ricorrere al precario espediente dell’identificazione attraverso un nemico (noi siamo ‘noi’ perché ci sono gli ‘altri’), procedendo

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Filosofia politica de la critica   61

dunque direttamente dall’immobile dio maggiore del principio d’identità, e non dal dio minore del principio di contraddizione – bene, insomma: questo è tutt’altro compito, e richiede ben altro impegno e requisiti teorici. Per capirlo basta porsi pressappoco la stessa domanda che già inquietava Ernst Jünger negli ultimi giorni delle sue tempeste d’acciaio: dopo avere percorso più volte il tragitto fra la clinica e il fronte (al quale, da ferito, ritornava automaticamente senza il minimo barlume di quella coscienza che si risvegliò, per esempio, nel nostro Emilio Lussu), osservando i volontari neozelandesi nelle opposte trincee egli si domandava che cosa mai avesse spinto quei pezzi d’uomini sani e forti a venire fin lì, a gettare la loro vita, dall’altro capo del mondo. La consistenza aleatoria, la natura delle ‘forze deboli’ e consensuali che tenevano così saldamente unito e potente il fronte nemico gli rimaneva incomprensibile; e l’edificazione di un Commonwealth tedesco resterà in definitiva il desiderio inesaudito e il principale problema mentalitario e storiografico del secolo della Germania. Una retta costituzione dell’oggetto presuppone una retta costituzione delle facoltà conoscitive; e sotto questo profilo la Critica della ragion pura e il suo intellettualismo sono tutto quanto un problema di filosofia politica. Dopo la legittimità teorica, veniamo a considerare la giustificazione realistica dell’auspicio di fraternità continentale. Neppure questa forma ha natura logica o storica, bensì anch’essa sensibile, letteraria: e consiste, in definitiva, nella non plausibilità della metafora hobbesiana che vorrebbe l’uomo lupo all’uomo. È la constatazione dell’esistenza in natura d’una naturale aggregazione e solidarietà di specie (ossia del branco, proprio nel caso dei lupi) a sancire il fallimento retorico d’una legittimazione meramente disciplinare della politica e della sovranità. Lo stato di natura come guerra di tutti contro tutti può forse descrivere (sebbene mai del tutto) le relazioni fra le specie – le quali sono tuttavia pressoché sconosciute alla dottrina hobbesiana; ma non vale certamente per gl’individui, che sono gli unici soggetti ch’essa conosca. E del resto persino la tigre parcit cognatis maculis, secondo la teoria leibniziana delle verità percepite per istinto44. L’assolutezza del potere, poi, diventa un imbarazzante sofisma non appena si tratta (nel De cive, per esempio45) dell’efficacia del suo effettivo esercizio attraverso le istituzioni. Non meno di Machiavelli, che delle istituzioni romane fece in modo da capire ben poco, mentre delle veneziane non capì semplicemente nulla, anche Hobbes manifesta su questo contenuto sostanziale della politica tutta la sua idiosincrasia verso i poteri (al plurale). Il re può essere   Nuovi saggi, Bianca, pp. 213 ss.   x, 16.

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62   introduzione

un bambino o un pazzo – non importa: egli è il sovrano, il principio è salvo; l’effettivo esercizio della sovranità dipende poi dalla buona volontà dei cortigiani, ed è tutta un’altra faccenda, secondo lui, che non lo riguarda. L’inefficacia dell’esercizio della sovranità attraverso le istituzioni si spiega dunque, in definitiva, con questo brandello di teoria del complotto. Simile sordità per i corpi della politica nell’autore del De corpore è davvero paradossale; ma i suoi pregiudizi erano tutti rivolti a combattere i solidi aggregati attraverso i quali nello Stato può spegnersi la luce dell’autorità e del potere. filosofia politica, dottrine politiche La guerra di tutti contro tutti, come ho detto, diventa una favola non appena è dato constatare, proprio osservando la natura, forme di aggregazione e di sudditanza spontanea fra individui della stessa specie (a scopo di utilità, sicurezza, perpetuazione, o quant’altro). È proprio questo il principio dell’edificio teorico hobbesiano, del resto. L’ipotiposi della spogliazione dei diritti naturali e del conferimento della sovranità smentisce la plausibilità della metafora teriomorfa: è un conflitto d’immagini, una crisi retorica. Anche nelle relazioni fra nazioni e fra gruppi di nazioni è dato constatare il sorgere d’una virtuale sovranità per spontanea dismissione della relativa pretesa da parte di ciascuno dei tutti, meno uno. La bella figura del vecchio traduttore di Omero ne viene purtroppo impoverita: perché è proprio sin dalla lettura di quei poemi che noi conosciamo la possibilità di formazione di fronti opposti per spontanea aggregazione di tribù. Se il consenso è naturale, la dottrina dell’assolutismo non serve; e se non è naturale, la dottrina non è che retorica del consenso e della persuasione. È dunque da qui che bisogna partire, dall’esistenza o meno di simili sentimenti logicamente impuri quanto si vuole (che l’Italia ha ben conosciuto nella sua ultima guerra civile in pro dell’ex-nemico liberatore angloamericano, e dell’ex-amico occupante germanico); da simili sentimenti di fedeltà, sudditanza, simpatia, calcolo, fraternità, orgoglio, e quant’altro, dunque; da qui, e non dai progetti di federazione, di repubblicanesimo, di pace perpetua da parte di chi non conosce più la minaccia o lo scandalo dell’alleanza col nemico ereditario continentale, come il Turco, e non si cura della letteratura di cent’anni. Essi possono dilettare, come chiunque, anche il filosofo – il quale però nei suoi scritti politici non può essere chiamato a garantire interamente per le sue qualità di filosofo. Continuando a rispondere alla possibile obiezione posta più sopra, temo che la perplessità circa gli scritti politici negletti potrebbe nascere da una con-

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Filosofia politica de la critica   63

fusione disciplinare della filosofia politica con la storia delle dottrine politiche: la quale è effettivamente tutt’altra cosa, e si occupa per lo più di contenuti di pensiero politico testualmente sanciti, o sancibili, non diversamente da come la politica è per essa, in definitiva, un problema di effettiva sovranità e di ordinata vigenza del potere. Ma non si tratta, qui, di ricercare e di ordinare le risposte date a dei quesiti, bensì si tratta della formulazione dei quesiti stessi, nonché della loro possibilità teorica: il discorso si rivolge decisamente nella direzione della potenza contenuta nel pensiero, piuttosto che verso il suo atto; in direzione delle forme, in quanto sono contenuti, anziché dei contenuti in quanto sono forme. E la sussistenza della forma implica la sua massima disponibilità su versanti che non sono strettamente ‘politici’ nel senso corrente del termine (i versanti statuali, cioè, fatti di potere e di poteri, di sovranità, vigenza di leggi ed efficacia di sanzioni – in definitiva i versanti di una politica fatta d’amministrazione). Il senso ‘forte’ di questo modo d’intendere la politica, che nasce dottrinariamente con Machiavelli e con Hobbes, è ormai un fatto inoppugnabile: gli edifici dei poteri reali e normativi sono là, nessuno si può permettere d’ignorarli – ma non si può neppure fingere d’ignorare che la necessità del loro continuo perfezionamento presuppone, in definitiva, la corruzione dell’individuo. È all’esame di questa corruzione, allora, che bisogna rivolgersi. Si tratta, del resto, d’un senso ‘forte’ della politica come semplice fatto, o come enunciato del potere, che può ben poco interessare il filosofo; di un fatto e di un enunciato che hanno già storia, nonché dottrina politica, quanto più non si possono; di un fatto indispensabile, ormai, il quale obbedisce a una necessità di cogenza e di libertà normativamente, realisticamente condizionata a scopi d’utilità pratica, ma non di possibilità e di libertà reali. Questa reale possibilità e questa reale libertà, che non ammettono altre condizioni, se non quelle proprie della sola libertà e della sola possibilità, sono sempre state, e devono restare, i territori prediletti della sensibilità filosofica. Nell’analisi politica entrano così le forze deboli delle percezioni, distinte con gli strumenti tipici di cui abitualmente si serve l’educazione della sensibilità. Una terza ragione che può giustificare la negligenza degli scritti politici di Kant, dunque, facilmente deducibile dalla precedente, consiste nella mia convinzione che la politica in un filosofo si debba ricercare, innanzitutto, nella sua filosofia, non diversamente da come la politica in un poeta dev’essere ricercata, in definitiva, nella sua poesia. Non si tratta d’andare in cerca d’asserzioni, di confidenze, di aneddoti, di abbozzi dilettanteschi, di smentite o rinunce, di scappellate ai potenti e di rescritti, di gran rifiuti o di sottomissioni, di comuni

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opinioni origliate o raccolte dalla bocca dei dotti confidenti: le quali restano anche in bocca dei grand’uomini, quando non fanno il loro mestiere, opinioni del tutto comuni. Bisogna invece considerare che entrambi, il poeta come il filosofo, cercano in definitiva una soluzione, sia pure con mezzi narrativi diversi, al problema di come dare una costituzione a un essere complesso – sia esso Dio nella Natura, o un qualsiasi personaggio dotato di corpo pensiero e volontà, il quale cerchi la sua reale libertà ma sia anche, effettivamente, libero da tutto fuorché da se stesso. Ogni soluzione di un problema di costituzione è inevitabilmente politica. Presupporre l’oggetto speculativo o lirico organizzato come un essere complesso, o come una città, rappresenta per l’appunto la più originaria delle intuizioni politiche; le cui tracce si possono discernere, come nella trasparenza d’una filigrana, non già nell’opera di occasionale contenuto politico del poeta o del filosofo, bensì proprio nell’opera svolta con l’ufficio professionale poetico e speculativo. analogie Il problema teorico dei nessi che si vengono a stabilire fra mentalità corporative e mentalità nazionali non è meno arduo del corrispondente problema storiografico. Per potersi instaurare, e per poter essere discernibili e discutibili, quei nessi presuppongono un comune riferimento alla tipica costituzione d’una personalità immaginaria, la cui ben proporzionata integrità venga comunemente ammessa. La metafora antropomorfica in cose politiche, il teatro della filosofia politica funge così da comune riferimento assoluto, o da criterio di giudizio, o da pregiudizio, insomma, la cui sondabilità è campo all’estetica come scienza delle sintesi a priori d’ordine superiore e complesso. Se dunque si parla di una deviazione costituzionale in termini di iperattività d’una corporazione o funzione sociale, come qui ho fatto poco sopra, si parla per esempio (e ancora si parlerà in questo studio, nell’Analisi Cronologica, per esempio) di ‘attivismo’ di una personalità. E analogamente a quanto ho già detto circa il rapporto fra bellicismo e militarismo, l’attivismo sta perciò all’intellettualismo, in un certo senso, come il genere alla specie: configurandosi, cioè, come deviazione eccessiva anche del solo sentimento e della passione, oltre che del solo intelletto, ovvero di entrambi. L’instaurazione di un nesso tra speciali facoltà conoscitive e corporazioni sociali, e la sensibilizzazione del pensiero in un sistema che ne sia prosopopea implicano il ricorso euristico a presupposti analogici e letterari, antropologici

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Filosofia politica de la critica   65

e antropomorfici, che costituiscono il fondamento formale di quella che è dunque, in definitiva, un’estetica della politica. Ed ecco sorgere immediatamente due possibili obiezioni. La prima: le facoltà non hanno alcuna autonomia. La negazione dell’autonomia delle facoltà ha trovato in qualche pagina del Saggio di Locke, per esempio, toni derisori come questi: Se è ragionevole supporre e parlare di facoltà come enti distinti che possono agire … sarebbe anche giusto che ci raffigurassimo una facoltà parlante e una facoltà camminante e una facoltà danzante, mediante le quali queste azioni, che non sono altro che vari modi del movimento, vengono prodotte; come sarebbe giusto che ci raffigurassimo la volontà e l’intelletto come facoltà, mediante le quali vengono prodotte le azioni dello scegliere e del percepire, le quali non sono che vari modi del pensare. E potremmo dire che è la facoltà cantante a cantare e la facoltà danzante a danzare, con altrettanta proprietà di come si dice che la volontà sceglie e che l’intelletto concepisce; oppure, come si è soliti fare, che la volontà dirige l’intelletto, e che l’intelletto obbedisce o non obbedisce alla volontà46.

Ed ecco la seconda obiezione: parlare di ricorso ‘euristico’ a presupposti analogici e letterari nient’altro significa che fare, di nuovo, dell’intellettualismo. Sebbene il termine eúresis non significhi applicare sulle cose nozioni esterne, bensì quello, semmai, di escogitare relazioni astratte in occasione delle cose, resta per l’appunto evidente l’intenzione di offrire al pensiero una conoscenza parallela, artificiosa, di esse. L’uso del termine sembra insomma confermare che all’intellettualismo, in cose filosofiche, non si possa in nessun modo sfuggire: la cosiddetta forma non è che relazione puramente concettuale, e il cosiddetto formalismo si può combattere soltanto facendo dell’intellettualismo. Ma rispondo così alla prima obiezione: che non ha senso negare l’autonomia delle facoltà soltanto per ridurle, poi, a «vari modi del movimento» o a «vari modi del pensiero». Non soltanto il medesimo quesito si trasferisce, intatto, dall’autonomia delle facoltà all’autonomia dei «modi» (e con simili artifici terminologici Spinoza, per esempio, seppe innalzare tutto quanto un sistema); ma poi rinasce circa il significato che si debba attribuire al loro essere «vari». Locke si sarebbe sentito preso in giro se qualcuno gli avesse spiegato che la colonna è una cosa che poggia su un basamento, e che il basamento è quella cosa che sostiene una colonna47 – ma egli stesso mostra in più luoghi del suo Saggio di non essere affatto immune da simili trappole della logica discorsiva. La sua beffarda negazione dell’autonomia delle facoltà non fa che riprendere, ma per capovolgerne il   Saggio, Abbagnano, p. 289.   Ivi, p. 214.

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senso, una delle principali obiezioni di Hobbes alle Meditazioni di Cartesio: la quale aveva sarcasticamente preso di mira l’identificazione dell’Io pensante con l’attualità del suo pensiero48. Cosicché, avvicinandosi alquanto a certe posizioni spinoziane (almeno rispetto a Hobbes), l’argomentazione di Locke assume, a leggerla bene, il significato di una riaffermazione dell’unita posizione gnoseologica cartesiana; ed è evidente, del resto, di quanta soggettività sia seminato dappertutto il suo cosiddetto empirismo. La sua posizione media, tendente a sottolineare la distinzione dei diversi poteri, ma nell’unità «dello spirito, o dell’uomo»49 (come se fosse la stessa cosa; così che, restando prudentemente accostati, intellettualismo e antropologia sembrano poter andare d’accordo), è di quel tipo che, tanto per capirsi, fu di nuovo prescelto nel Novecento, per esempio, da Croce. Ma per quanto ci riguarda essa per Locke significa, insomma, che col costante riferimento all’unità del pensiero, della mente, o dello spirito che dir si voglia50, finisce il teatro delle facoltà, popolato dai personaggi dell’Io – a meno però (rispondo) che questo cosiddetto ‘Io’ non sia proprio nient’altro che il teatro del movimento e del pensiero, nel quale la letteratura filosofica allestisce le sue rappresentazioni. È tema saliente del grande pensiero moderno, del quale si parlerà in buona parte di questo libro – inutile insistere, per ora; ma si vedrà anche, io spero, che cosa ne divenga nella fitta ritrattazione del manierismo kantiano. E rispondo così alla seconda obiezione, circa il ricorso euristico a presupposti analogici e letterari: che un parallelo è sempre e comunque relazione tra due forme, e non tra una qualche ‘materia’ e una forma (così che si potrebbe parlare, piuttosto, di relazione tra ‘materiali’, semmai, e di una forma di forme); e che questa relazione di relazioni mantiene (e, per garanzia di fondamento, deve mantenere) la sua validità in direzione bilaterale e inversa. Questa reciprocità sta all’origine degli schemi; i quali non sono affatto degli schermi o dei monogrammi simbolici: così che, per esempio, la legge che presiede al galleggiamento dei corpi immersi in un liquido ha fra i suoi presupposti l’esperienza empirica del bagno, e diventa poi a sua volta traslato metaforico del peso specifico corporativo nell’assemblea, ma senza per questo cessare d’essere una legge fisica. Non si tratta di crearsi mediante l’intellet48   Obiezione terza: «Che se il signor Des Cartes mostra che colui che intende e l’intelletto sono la stessa cosa, noi cadremo in quella maniera di parlare scolastica: l’intelletto intende, la vista vede, la volontà vuole; e, per una giusta analogia, la passeggiata, o almeno la facoltà di passeggiare, passeggerà» (Cartesio, Opere, a cura di Eugenio Garin, Laterza, Bari 1967, vol. i, p. 349). 49   Saggio, Abbagnano, p. 289. 50   Avverto il lettore che per non appesantire la trattazione rinuncerò a ogni variazione giustificata, o a ogni considerazione di carattere terminologico riguardo a termini problematici usati in testi che non siano kantiani: prendendoli, per lo più, semplicemente così come li trovo. Così è, per esempio, con questo «spirito».

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Filosofia politica de la critica   67

to, sulla base dell’esperienza, una realtà parallela e fittizia dalla quale spiccare l’unico volo possibile, bensì di trovare un qualche tramite figurativo, in sé valido, adatto a rendere comunicabili e discutibili esperienze e realtà sensibili d’ordine superiore, non empirico, lasciandone intatta la riconoscibilità come natura immaginosamente derivata. intellettualismo e caratteri In ogni quesito ideale d’ordine superiore o complesso (cioè, in definitiva, politico: dal momento che due cose incompatibili, o due sostanze, non possono restare tenute insieme senza una ragione, senza una costituzione e senza un commento, vale a dire senza un’adeguata somministrazione d’energia narrativa; perché «anche il beverone, a non mescolarlo, si separa», dice Eraclito51); in ogni simile quesito, dunque, la relazione si riconverte sempre in forma, e la logica in retorica e fatto letterario. È come dire che l’intelletto si riconverte in sensibilità: il numero π non può esistere senza il cerchio, riducendosi a semplice grandezza algebrica derivata per calcolo; bensì l’intelligenza della sua natura di rapporto incalcolabile presuppone la conoscenza del cerchio e della sua proprietà più elementare. Il cerchio è conoscibile per intuizione, e la sua più elementare proprietà è conoscibile per spiegazione, ossia per narrazione: dunque per sensibilità, appunto. Non diversamente una nozione complessa come ‘la fermezza di carattere’, per esempio, perde ogni fermo significato senza la figura di un Catone; e col Giobbe kantiano, nell’ultimo paragrafo dell’Analisi Tematica, se ne dovrà riparlare. Che ogni spiegazione non sia che un’escogitazione di relazioni intellettuali non significa affatto che la forma, in sé, sia una ‘mera’ escogitazione relazionale (dal momento che ‘pura’ non può mai essere). È il termine stesso di ‘relazione’ che forse contribuisce a dare al discorso un significato riduttivo. Meglio sarebbe, allora, parlare di ‘rapporto’. Non nel senso sostanziale della semplice relazione, bensì in quello essenziale, inesteso e assoluto del rapporto, infatti, la forma è visibilità di nozioni d’ordine superiore: loro simbolo costitutivo, se sono nozioni di verità, in un numero trascendente come π, per esempio; oppure simbolo figurale, se sono nozioni d’opinione, in un’immediata evocazione onomastica. Basta fare in modo d’intendersi, comunque, perché l’intrico di una discussione sarebbe assai fitto, e d’altra parte non è il caso di dare delle definizioni52.   DK 125.   Tanto per capirsi, diciamo che la circonferenza, in senso sostanziale, è luogo geometrico di equidistanza di punti da un punto dato; mentre in senso essenziale il cerchio è puro rapporto fra diametro e 51 52

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E ancora a proposito dei significati terminologici non strettamente pertinenti a questo studio, ma dei quali il lettore dev’essere avvertito in quanto gli fanno da presupposto e da cornice; e poiché ho appena voluto menzionare, a titolo d’esempio, la fermezza di carattere; mi resta ancora da dire che il termine ‘intellettualismo’ serve anche a designare, com’è noto, una certa inclinazione all’infinito ragionare senza ferma opinione, senza scopo e senza azione. In questo senso, esso è diventato un tradizionale epiteto del personaggio di Amleto; e bisogna ammettere che esso ha dunque un significato diametralmente opposto al precedente: cosicché, se da una parte ‘intellettualismo’ è sinonimo di ‘attivismo’ specialistico rigorosamente logico e ideologico (come avviene ai tempi nostri non più con militari professori e burocrati, bensì con terroristi e con religiosi fanatici), si dovrà tenere conto che ‘intellettualistico’, d’altra parte, è pure sinonimo di ‘impotente’. Ora, non è luogo, questo, per baloccarsi con le parole: il cui significato opposto, del resto, non è raro nel caso di neologismi d’uso traslato. Oltre che come logico perseguimento dei fini secondo il criterio di una stretta conformità dei mezzi, l’intellettualismo può altresì manifestarsi, sul piano psicologico, come intero scambio dei mezzi coi fini; e oltre che come irresponsabile inettitudine all’azione, esso può altresì manifestarsi come inesauribile superfetazione dialogica. La celebre stroncatura di Papini del personaggio di Amleto, per esempio, prese di mira l’intellettualismo sotto questo significato – secondo, del resto, la generale posizione anti-intellettualistica che caratterizza la tradizione del pragmatismo italiano, in particolare in Vailati. Bene – nessuno me ne vorrà, spero, se affermo che in un uomo come Kant si trovano in qualche modo riuniti, per l’appunto, un po’ tutti gli aspetti del fenomeno. I vari aspetti dell’intellettualismo sono dunque strettamente congruenti alla problematica kantiana così come l’andrò tratteggiando. Anche l’amletico. Non per nulla, sin dalla Presentazione, ho parlato di libere e ferme opinioni: perché la propugnazione kantiana della loro legittimità in metafisica (ciò che insomma io considero essere il vero scopo e il vero valore dell’intera prima Critica) è preceduta e accompagnata da condizioni teoriche tali da prepacirconferenza, e π non possiede significato sostanziale alcuno. Ma se i due termini vengono fatti a ogni modo coincidere (secondo, del resto, l’originaria omonimia greca del termine υσα), quest’unità può chiamarsi Dio. Se poi Dio viene chiamato Sostanza, anziché Essenza, ciò serve per giovarsi delle proprietà estensive della sostanza, improprie all’essenza, che ne consentono la partecipazione ai singoli modi dell’essere. All’essenza si addice invece di entrare in relazione coi modi dell’essere per imitazione. Il pensiero di Platone conosce un impercettibile svolgimento dalla partecipazione per sostanza all’imitazione per essenza.

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rare, in realtà, proprio lo smantellamento di ogni genere di ferme opinioni personali, o di coscienza, in ogni circostanza pratica che reclami una risoluta volontà d’azione. Per ragioni di stile assai più che di dottrina (ciò che non si può dire di Spinoza, per il quale vale l’opposto: di dottrina, e non di stile), il manierismo criticista è pessima scuola pratica, perché prepara precisamente il disarmo intellettualistico dell’intellettuale. L’effetto morale di quella specie di Sturm und Drang mediante il quale, secondo il clima culturale dell’epoca, Kant investì la speculazione filosofica fu alla lunga, e proprio moralmente, controproducente. Intellettualismo poté anche significare, dopo di lui, disarmo dei comuni princìpi che ci fanno riconoscere d’istinto il vero il buono e il giusto – insomma: da che parte stare. schemi, archetipi Terminata la lettura, l’esperto si domanderà ancora, probabilmente, perché io non abbia posto al centro della mia analisi, per esempio, le pagine della prima Critica sulla dottrina degli schemi, contenute nell’Analitica dei princìpi. In esse sarebbe facile trovare testualmente sancita la supremazia deformante dell’intelletto; e dunque, volendo, si sarebbe potuto ambientare in quella sede tutto lo svolgimento della Critica del Testo e della Logica del Testo della Parte Seconda. Ma rispondo subito: che quelle pagine sono, a leggere davvero quel ch’è scritto, tra le più deboli e confuse della prima Critica – un vero e proprio fallimento logico e terminologico non meritevole di tanta attenzione; ed esse rimangono nell’economia dell’opera, non a caso, prive di un’apprezzabile svolgimento conseguente e costruttivo, se non per superfetazione, quasi sempre assai irritante; e io diffido di un attacco portato su punti deboli – né, francamente, lo considero un atto generoso. La dottrina degli schemi in generale, del resto, è già debolissima fin dal suo sorgere nel pensiero moderno: almeno, cioè, sin dalle pagine del Saggio di Locke dove si presentano gli archetipi. Da questi egli suppone che lo spirito prenda le idee; le quali, perciò, non sono «intese quali copie di cose realmente esistenti, bensì quali archetipi [esse stesse?!] foggiati dallo spirito al fine di elencare e denominare le cose» (così che le idee non sarebbero dunque nient’altro che nomi derivati, o sostituiti ad altri nomi; mentre alla superfetazione nominalistica si aggiunge la superfetazione sostanziale col parlare di «modi» accanto alle «cose»). Ciascuna di esse idee non può perciò difettare di «quella perfezione che lo spirito intendeva avesse: sicché lo spirito le [idee] accetta

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passivamente, e non può trovarvi nulla da ridire»53. Ed effettivamente sarebbe davvero sorprendente che così non fosse – mentre una vera ragione di sorpresa può sorgere, semmai, dal constatare quanta parte svolga (diciamo così) un tipico condensato idealistico dove meno lo si attenderebbe. Kant aggiunse, di suo, nient’altro che la modulazione e la fuga perpetua di pesanti tergiversazioni all’innocente imbarazzo del discorso ben concluso dalla mente assai limpida di Locke: il quale era venuto semplicemente a cimentarsi con un problema tra i più antichi della storia della filosofia; e parlando, a un certo punto, di «èctipi» non aveva neppure rinunciato a servirsi di un classico espediente, sempre buono in simili frangenti: quello del camuffamento terminologico dotto per glossema o neologismo54. Ma ciò che siano in definitiva i suoi schemi, a differenza dei kantiani, si sa facilmente: nient’altro che collezioni d’idee semplici, oppure idee astratte, ossia nomi di generi e specie55. Né si può dimenticare che su di un problema assai simile pressappoco nella medesima epoca arranca, per fare un esempio, Spinoza, con la sua astrusa teoria dei modi infiniti della sostanza quali forme mediatrici dell’infinito coi modi finiti. Ma le idee sono adeguate soltanto a se stesse, o inadeguate alle cose – ovvero queste lo sono a quelle: sulla base del chiaro e distinto dualismo antico e moderno (platonico e cartesiano-lockiano) la dottrina kantiana degli schemi fa una ben magra figura a fronte dei grandi tentativi di ricerca d’una via d’incontro graduata, rispettivamente neoplatonica e (soprattutto) leibniziana. A una pagana retorica cosmologica delle sostanze, ma poi, specialmente, ai raffinati disegni dell’immaginazione matematica che hanno saputo dare un ‘senso’ al nostro mondo contemporaneo, la trattazione kantiana non affianca che una cattiva retorica della terminologia logica specialistica; la quale non poteva giovare che ad alimentare se stessa in un corrispondente, altrettanto cattivo, professionismo filosofico senza vero mestiere. È diventata, questa, una delle caratteristiche della nostra filosofia di scuola. E non posso dunque evitare di menzionare qui, almeno di passaggio, le opinioni di coloro che, come Giovanni Vailati o Franco Lombardi, da noi si opposero alla diffusione dello studio della filosofia nelle scuole d’ogni ordine e grado; ma anche, soprattutto, si opposero al suo esclusivo indirizzo specialistico universitario: proponendo a più riprese, in epoche alquanto lontane, che, per esempio, la laurea in filosofia si potesse acquisire soltanto come secondo titolo accademico; oppure   Saggio, Abbagnano, pp. 438, 439.   Ivi, pp. 446, 447. Ectype è attestato in Inghilterra dal 1642 (Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia). Lo Webster’s Third New International Dictionary lo considera addirittura un Lockeanism. 55   Saggio, Abbagnano, pp. 450-451. 53 54

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Filosofia politica de la critica   71

che ne fosse ammesso lo studio soltanto dopo almeno un triennio in qualsiasi altra disciplina. E il fatto poi che due uomini come Vailati e Lombardi avessero opinioni diametralmente opposte sul significato generale della filosofia kantiana non significa assolutamente nulla – anzi: proprio questo particolare rafforza, semmai, il valore della polemica contro il carattere che la filosofia ha per lo più assunto nell’età contemporanea. È vero che il Whitehead, com’è noto, ha indicato invece l’origine di questo carattere nell’intellettualismo cartesiano. Bene – mi permetto di dissentire, in nome di una distinzione fra (diciamo così) l’intellettualismo autentico e il suo manierismo enciclopedico: nel senso che Kant sta a Cartesio, grosso modo, come Hegel sta a Spinoza56. impressioni originarie complesse Quali forme di mediazione tra gli oggetti delle opposte facoltà conoscitive, gli schemi kantiani conobbero una particolare fortuna nella trattatistica che va pressappoco dal Cohen al Cassirer; e si capisce facilmente il perché: in un clima di sfaldamento dello hegelismo parlare di mediazione serviva a evitare di parlare di sintesi, nonché a istruire un più libero costrutto logico bipartito, dotato di un centro virtuale, rispetto alla tripartizione con superamento obbligato. Ma la lodevolezza dell’intento liberatorio spetta qui soltanto agl’interpreti soccorrevoli della dottrina, e non alla dottrina stessa degli schemi – che del resto, in quanto vera e propria dottrina, non esiste neppure, o non merita il nome. Traendo ispirazione dal vichiano «particolare pregno», invece, alquanto più precocemente dei neo-kantiani il nostro De Sanctis s’era già aggirato attorno alla concreta virtù generativa (non confusamente mista, o mediatrice) dello stabile momento centrale che sempre deve sussistere nella relazione logica fra opposti: la cosa e l’idea; e aveva chiamato questo centro dotato di un’attività genetica: «idea vicina», o «idea media», o «idea madre»57. 56   L’opinione di Alfred N. Whitehead è sparsa nel suo saggio su La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino1979. Le opinioni di Giovanni Vailati (che egli riprese da un articolo di Edmond Goblot comparso sulla ‘Revue de Métaphysique et de Morale’ nel gennaio 1902) si trovano esposte in Scienza e Filosofia, sulla ‘Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali’ dell’aprile 1902 (ora in Scritti, a cura di Mario Quaranta, Forni, Bologna 1987, vol. i, p. 4). Franco Lombardi espresse le sue opinioni in forma di veri e propri programmi per il partito della sinistra socialista nel quale fu attivo durante il secondo dopoguerra. 57   Conferenze su Niccolò Machiavelli, in Opere, xiv, a cura di Maria Teresa Lanza, Einaudi, Torino 1972, p. 85. Più limpidamente che in Vico, l’idea del momento generatore centrale venne espressa da Goethe con la metafora del pleroma vegetale. Ma per allontanarsi dal costrutto logico tripartito hegeliano

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72   introduzione

Al posto di una gerarchia di nozioni verticale, inevitabilmente soggetta a continui rivolgimenti per derivazione, sostituzione o precedenza, tendeva così a sostituirsi un composto ordine orizzontale, stabile nella sua simmetria, la cui attività emana non dal vertice, bensì dal centro. La composizione bi- o tripartita degli elementi logici, e la sua disposizione verticale oppure orizzontale, è naturalmente uno schema di schemi che meriterebbe di venire ampiamente discusso – ma si tratta di questione troppo vasta per ottenere qui più di un semplice cenno: ci vorrebbe un altro libro. Sempre in riferimento alla constatazione di una supremazia deformante esercitata da un abuso del ruolo dell’intelletto, la stessa rinuncia a trattarne con gli schemi vale, in questo libro, per la dottrina della deduzione delle categorie dai giudizi; i quali meriterebbero di essere trattati per quello che effettivamente sono, e non possono logicamente che essere, in realtà: pregiudizi. Ma ammettere l’esistenza di pregiudizi nient’altro significa che ammettere l’esistenza di contenuti della sensibilità, ossia di forme già acquisite della conoscenza e del giudizio rinvenute, nel corso dell’idillio speculativo, imbattendosi nei reperti metropolitani della tradizione e della manifattura: dal primo balocco del bambino, al Muzio Scevola dei banchi di scuola, al grammofono in cui s’imbatte Hans Castorp nel romanzo che è, in definitiva, il grande idillio prosastico del Novecento. A-priori, schemi e pregiudizi sono, sì, manufatti; ma non come poteva intenderli un’intelligenza come quella di Kant, impegnata nel mirabolante tentativo di rifabbricarseli a piacere servendosi di tutta una batteria di princìpi e di deduzioni a cascata. Da dove ci derivano le vaghe ed elaborate nozioni di iattanza, di tracotanza, d’improntitudine, e simili (come il semplice ‘coraggio’, portato ad esempio di nozione comune da Locke), così difficilmente comunicabili sul piano del rigore concettuale, eppure immediatamente accessibili alla sensibilità di un bambino? Forse che la favola del lupo e dell’agnello ha mai costituito, per lui, un’effettiva esperienza empirica? Con le tergiversazioni del Lachete la definizione di che cosa sia mai il coraggio era già finita sulle secche pedagogiche dei maestri di scuola. Che ne sarebbe stato della iattanza e dell’improntitudine? Certo che quelle nozioni, sia pure ancora anonime, derivano dall’esperienza – ma non si capisce niente delle nozioni d’ordine superiore se non si ammette la natura letteraria di ciò che comunemente si definisce esperienza; e se anzi non si riconosce la letteratura come sede d’esperienza, o quale fonte autonoma e primaria della conoscenza mediante l’ascolto. Il Lachete del resto, in quanto dialogo, è nient’altro e dalla sintesi acentrica, mettendosi alla ricerca di un terzo elemento in posizione generatrice centrale fra opposti, il De Sanctis aveva tratto ispirazione anche da Proudhon.

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che questo, e solo così ottiene il suo scopo. Mi farò un’idea della fraternità, o almeno della fratellanza, o almeno della consanguineità, o almeno (via via semplificando) della semplice relazione tra fratelli, quando crederò che Sempronia abbia tirato fuori Tizio da sotto un cavolo, e poi Caio da sotto il medesimo cavolo; ma non sarò perciò debitore della mia conoscenza alla nozione archetipica di fratellanza prima di esserlo alla narrazione udita da Sempronia – né lo sarò, meno che mai, all’effettiva esperienza dell’orticoltura. Indipendentemente dall’osservazione della maniera in cui avviene effettivamente un parto, quella sua narrazione, quella sua letteratura, non meno d’un campo di cavoli, è il grembo fecondo della mia acquisizione d’una nozione; e dunque bisogna intendersi bene, quando si parla d’esperienza, e specialmente d’esperienza sensibile, anche per nozioni assai semplici58. Nulla stupisce dapprima un bambino assai piccolo che osserva: tutto è naturale per lui; e la narrazione fornisce l’accesso a nozioni d’ordine superiore mediante esperienze altrimenti inattingibili. Ma i sensi muti dello stupore di chi osserva non sono meno formativi dei sensi muti di chi ascolta. Einstein aveva dodici anni quando scoprì con meraviglia, da un libro di geometria, alcune proprietà del triangolo che gli parvero evidenti senza alcuna dimostrazione; ma ne erano già passati otto o sette da quando suo padre gli aveva mostrato una bussola. Il fatto che quell’ago si comportasse in quel certo modo non si accordava assolutamente con la natura dei fenomeni che potevano trovar posto nel mio mondo concettuale di allora, tutto basato sull’esperienza diretta del ‘toccare’. Ricordo ancora – o almeno mi sembra di ricordare – che questa esperienza mi fece un’impressione durevole e profonda. Dietro alle cose doveva esserci un che di profondamente nascosto. (...) Inoltre, mi sembrava che le cose di cui tratta la geometria non fossero essenzialmente diverse da quelle che si percepiscono coi sensi, ‘che si possono vedere e toccare’. Quest’idea rudimentale, probabilmente la stessa che sta alla base della ben nota problematica kantiana sulla possibilità dei ‘giudizi sintetici a priori’, si fonda ovviamente sul fatto che il rapporto esistente fra i concetti geometrici e gli oggetti dell’esperienza sensibile (asta rigida, intervallo finito ecc.) mi era inconsciamente presente59.

58   Parlando di un campo di cavoli mi riferisco all’esempio di Locke nel Saggio, adattando alla nostra tradizione la sua aiuola di prezzemolo (Abbagnano, p. 422). Egli riconosce poi che una bambinaia sciocca non ottiene un effetto diverso, quando parla a un bambino di spettri e fantasmi (ivi, p. 464); ma per un bambino spettri e fantasmi sono già in tal modo, per l’appunto, le prime nozioni d’ordine superiore – non diverse, per esempio, dai centauri (ivi, p. 459). 59   Autobiografia scientifica (1949), in Opere scelte, a cura di Enrico Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 64 e 65.

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È proprio così, infatti – ma cosa c’entra Kant? Sulla scorta di una tradizione moderna ormai imponente, e già riccamente discussa, Kant semplificò invece, e proprio in modo rudimentale, la distinzione fra esperienza sensibile ed esperienza concettuale; e la sintesi a priori della bussola, con l’intuizione sensibile delle invisibili forze che ne animano l’ago, non si saprebbe ricondurre con alcuna utilità al suo spazio e al suo tempo, più di quanto la letteratura delle proprietà del triangolo abbia bisogno della sua tavola delle categorie e dei concetti puri. Perché, allora, in questa narrazione Einstein si ricorda, currenti calamo, di Kant, e della sua «possibilità» di giudizi sintetici a priori, quando egli già aveva acquisito sintesi a priori come la bussola e le forze magnetiche, nonché formulato giudizi di verità e di evidenza che gli erano sembrati non essenzialmente diversi dall’esperienza sensibile? Rispondo: perché Einstein non si ricorda delle percezioni chiare e confuse di Leibniz, per esempio. E perché non si ricorda di Leibniz? Per uno spazio, per un peso, per un ruolo che Kant è venuto evidentemente a occupare negli automatismi di riferimento mentale del nostro mondo contemporaneo, specialmente quand’è fortemente scolarizzato. Le ragioni di questi automatismi e di questo ‘fare a capirsi’, dunque, bisogna che le conoscano gli storici della filosofia – ai quali però dovrebbero aggiungersi gli storici della mentalità e del costume, credo: perché chiunque sa per esperienza personale che ogni salumiere parla con timorosa venerazione d’una cosa importante e difficile come d’una ‘critica della ragion pura’60. 60   Chiunque conosce l’uso colloquiale enfatico del termine ‘trascendentale’. Ma l’ultimo esempio a me noto di una simile (diciamo così) deterrenza popolare kantiana è offerto dall’esilarante trovata inserita da Sidney J. Furie in un episodio del film meno fortunato della serie Superman (Superman IV: The Quest for Peace, USA 1987). Un intelligentissimo criminale tiene la sua bellissima donna segregata in una sontuosa dimora segreta; e durante le lunghe assenze di lui, anziché laccarsi le unghie o fare lunghi bagni, lei inganna il tempo leggendo la Critica della ragion pura – non senza pórsi inquietanti interrogativi. Credo che per rendere comprensibile a chiunque il senso comico della situazione lo sceneggiatore avrebbe potuto metterle fra le mani, se no, soltanto una Teoria della relatività: che è l’altro principale deterrente scientifico dell’immaginazione popolare contemporanea (anche se penso che nel 1987 sarebbe stato ancora possibile metterle fra le mani Il capitale). Per il resto, l’automatismo del riferimento a Kant scatta in genere negli ambienti di media cultura come, per esempio, del giornalismo. Commentando l’esito del rapimento di due volontarie italiane in Iraq Francesco Merlo così concludeva un articolo: «Alla fine della loro avventura irachena sarebbe stato sufficientemente coraggioso non tanto rifiutare quel pesante Corano che [esse] hanno avuto in dono [dai rapitori] insieme con le scuse e con i dolciumi, ma accettarlo a condizione: “Noi leggeremo la parola increata di Allah se voi leggerete la Critica della ragion pura [una bella pretesa, per dei terroristi islamici!]”. Libro contro libro. Lì ci sono loro, e qui ci siamo noi» («La Repubblica», 1° ottobre 2004, p. 17). Nella frettolosa immaginazione di un commento redatto, come si dice, ‘a caldo’, la Critica diventa così il biblion dell’Occidente. Alla cattura di simili automatismi dell’immaginazione mi sembra indirizzato il titolo di una tavola rotonda recentemente organizzata a Bologna fra Umberto Eco, Maurizio Ferraris e Piergiorgio Odifreddi: «Goodbye Kant! Hello Einstein!». E desidero infine aggiungere ancora un mio caro ricordo personale: sui pochi scaffali dei libri di mio padre Giacomo, ch’era uomo dotato di un modesto titolo di studio e di una illimitata venerazione per la cultura, specialmente tecnica e scientifica, non mancava un ampio compendio popolare della Critica della ragion pura – e nient’altro: tanto bastava, secondo lui, per la filosofia.

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dogmatismo linguistico dell’empirismo Le idee cosiddette naturali (ossia prime e d’ordine superiore) hanno origine dalla meraviglia, e da un parlar d’altro. E sotto questo riguardo bisogna però dire, almeno di passaggio, che la negazione dell’esistenza delle cosiddette idee innate e già complesse da parte di Locke è debolissima, almeno per tutto ciò che va oltre l’occasione dell’immediata esperienza linguistica o sensibile61; e anzi più che debole, come Leibniz ebbe ragione di notare, essa è semplicemente impotente anche sul piano linguistico62. La sua stessa dottrina della sensibilità è anzi minata alla base dal fatto che l’idea semplice del vuoto, o dello spazio puro, non ci viene trasmessa da alcun senso. La dipendenza cartesiana e l’intellettualismo dell’argomentazione nei primi capitoli del Saggio sull’intelletto umano sono pure evidenti, a dispetto di tutto, e sacrificano, con le idee cosiddette innate, l’origine di ogni nozione d’ordine superiore: così che, tanto per capirsi, egli avrebbe saputo spiegare l’origine della teoria della gravitazione universale soltanto a partire dall’enunciato della legge, oppure dalla caduta della mela. Attraverso un ristretto numero di asserzioni debolmente giustificate, Locke riduce senz’altro le idee a sensazioni e a proposizioni, e colloca perciò la sede originaria della conoscenza nell’atto della parola, anziché nella potenza della contemplazione e dell’ascolto, della meditazione e del silenzio; o anche dell’oblio, del sonno e del letargo, persino – forse perché la lingua inglese non ha alcun nome per la rêverie63.

61   Egli lo riconosce, a un certo punto, quando nega che si possa conservare a lungo nel pensiero un’unica idea invariata: «Di questo non posso dare altra ragione, se non l’esperienza: giacché non so in qual maniera vengano foggiate le idee del nostro spirito, di che materia siano fatte, donde traggano la loro luce e in che modo vengano a fare la loro comparsa» (Saggio, Abbagnano, p. 226). La discussione sulla prima origine d’idee complesse acquista brevemente una certa efficacia soltanto grazie agli esempi contenuti nell’ultimo capitolo del Libro Secondo del Saggio. Gli esempi di Leibniz sono sempre assai semplici ed efficaci. All’inefficacia degli esempi kantiani è dedicato un intero paragrafo nell’Analisi Tematica di questo mio studio. 62   Là dove nei Nuovi saggi lo pseudo-Locke Filalete afferma, per esempio: «Come le sensazioni del corpo, così i pensieri dello spirito sono o indifferenti, o seguiti da piacere o dolore. Non è possibile, però, descrivere queste idee più di quanto si possa fare delle altre idee semplici; del pari non è possibile definire le parole che si usano per designarle» (Opere filosofiche, Bianca, pp. 287-288). Non conosco un modo più efficace, più lapidario e quasi brutale, direi, di sintetizzare l’impotenza ideogenetica che può spingere un empirista a cercare la tutela di un legislatore dogmatico che intenda procedere, se non da esperienze empiriche, da definizioni. Sotto questo profilo non si potrà apprezzare mai abbastanza il carattere democratico della metafisica leibniziana; la quale deve riconoscere la medesima impotenza riguardo, semmai, alle sole percezioni indistinte. 63   Saggio, Abbagnano, p. 271. Egli la conosce, però, questa potenza ideogenetica della meditazione: come dimostra quando dice che, se il re indigeno della Virginia non aveva l’idea di Dio, era soltanto perché «non inseguiva quei pensieri» che l’avrebbero portato a essa (ivi, p. 117). Ma dopo aver compiuto un passo oltre Cartesio col riconoscere che il sogno è un modo di pensare, soltanto più sconnesso e

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Una volta ammessa l’origine acquisita delle idee per esperienza di parola e conferma d’uso, il loro valore naturale rimane intatto come stabile pregiudizio, e fa anzi da ostacolo allo sviluppo formale e mitopoietico del linguaggio: così che (per giovarsi di un suo esempio) una colonia insulare di bambini ai quali sia stata annunciata una volta l’idea di Dio, del numero o del fuoco, crederà poi non meno fermamente ai princìpi d’identità e di contraddizione; né dubiterà che il tutto sia maggiore della parte, secondo lui, o d’ogni altro principio che si pretende innato, e del quale è pur lecito dubitare. Per capire quale sia la vena di dogmatismo che viene inaspettatamente ad affiorare in questo empirismo, a dispetto della saggezza pratica che sarebbe più lecito attendersi, basta leggere questo giudizio: «Mi pare un ottimo argomento il dire: “Dio, che è infinitamente saggio, ha fatto così, quindi è per il meglio”. Ma mi sembra che sia presumere troppo della nostra saggezza il dire: “Credo che sia meglio così, quindi Dio ha fatto così”»64. La lezione assolutista di Hobbes, evidentemente, arrivava assai lontano, ben oltre la sua dottrina politica. E riguardo al puro momento sorgivo della conoscenza si deve per giunta notare che Locke intende per contemplazione la conservazione di un’idea «effettivamente» presente nello spirito, dopo che vi «è stata introdotta»65. In simile riduzione della potenza all’atto, o al fatto, dell’enunciato, della rivelazione o della sanzione esterna, brilla nella teoria gnoseologica un riflesso di dottrina politica assolutistica, una notevole traccia hobbesiana66. È vero che simili accenti svaniscono poi, nel corso del Saggio: quando, restringendosi la discussione alle sole idee chiare e distinte, e dato l’addio per sempre alla sostanza, l’origine di ogni conoscenza viene trovata nelle sole sensazione e riflessione (mentre d’ogni nozione complessa Locke vuole per forza sostenere la riducibilità alle idee semplici, trascurando, per esempio, le verità per definizione67). Ma è pur vero che, su rimbalzo (per così dire) dalla lettura incoerente, riafferma subito che il pensiero «è l’azione» dell’anima (ivi, p. 273). Questo attivismo viene addirittura teorizzato nella discussione che nega la libertà del volere. 64   Ibidem; anche se ha appena affermato soltanto due righe prima essere «meglio per gli uomini che ognuno per suo conto sia infallibile»! 65   Ivi, p. 185. 66   Un tratto inatteso di questo dogmatismo si rivela nella discussione di quelle strane cose che sono le idee dei modi misti. Dal momento che non possediamo alcun criterio sensibile per giudicarle, «non abbiamo quindi altro a cui riferire le idee dei modi misti, come criterio al quale le vorremmo conformi, se non le idee di coloro che si pensa usino quei nomi nel loro significato più proprio» (ivi, p. 453). Ma questo nient’altro significa che sancire, per ogni conoscenza d’ordine superiore, la necessità delle accademie e dei custodi dell’ortodossia delle dottrine! Leibniz diceva che le stesse leggi eterne della ragione non si possono leggere come l’editto del pretore (Nuovi saggi, in Opere filosofiche, Bianca, pp. 169 e 212). 67   Si veda per esempio la sua trattazione della definizione di ‘uomo’ («l’idea di un animale di una data forma»), dove ogni possibilità d’identificare «al di là d’ogni dubbio» un uomo, un gatto o un pappagallo si riduce all’osservazione del suo aspetto (Saggio, Abbagnano, p. 392). Resta sottinteso che noi siamo liberi di dare per verba la definizione che più ci piace.

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di Hume, simili caratteristiche dogmatiche dell’empirismo inglese passarono di peso e senza ambagi in Kant, che nulla seppe veramente aggiungere, né superare, con le asserzioni semplificate nei postulati della sua estetica critica, se non qualche sunto per immagini (la colomba, il contabile, e simili); così che soltanto in qualche luogo dell’estetica precritica trova un ben chiaro e distinto riconoscimento il ruolo autonomo dell’intuizione e della definizione nella conoscenza di nozioni d’ordine superiore. Dopo l’antropologia libertina, Kant perdette anche tutta quanta la dimensione linguistica dell’empirismo, oltre ai molti contenuti problematici più alti, sui quali era venuto a cimentarsi Leibniz68. formule logiche secondarie, giudizi in concetto Ma non allontaniamoci troppo da Kant, per non rischiare di perdere il senso di una Introduzione. Tanto nella Parte Prima che nella Parte Seconda questo mio studio si caratterizza per il netto rifiuto di applicare ai passi sottoposti a minuta analisi la tecnica implantologica, diciamo così, dei rammendi o delle toppe, delle sanatorie o delle trasduzioni, secondo una procedura che è piuttosto consueta nella storia delle dottrine; e ciò che in un passo non torna, logicamente o testualmente, viene dunque lì stesso discusso (se lo merita) come un problema generale, senza cercare rimedi o soccorsi altrove. Salvo sporadiche allusioni, più di qualcosa, dunque, rimane escluso da quest’analisi non soltanto perché giudicato non meritevole, o non idoneo a sostenere l’esercizio di un’attenzione troppo vicina, che non diventi semplicemente demolitrice (come ho detto per gli schemi e per gli scritti politici); bensì anche perché nel testo bisogna distinguere il nucleo di un pensiero più forte, che fa da guida e da asse principale, dagl’interventi soggiuntivi a scopo correttivo, integrativo, condizionale, che vanno spesso in direzione anche opposta. A torto o a ragione, ma perché il lettore ne sia almeno avvertito, tali io considero le teorizzazioni sull’immaginazione produttiva e riproduttiva, sull’appercezione, o su ogni sorta di cosiddetta categoria delle categorie, o rappresentazione di rappresentazioni, e su ogni altra misteriosa arte o 68   E su di un piano più tecnico perdette anche dell’altro, ben s’intende: a cominciare dalla perdita, dopo la dissertazione d’ordinariato del ’70, del primato dello spazio sul tempo, quale si trova sancita, per esempio, in questo passo di Locke: «La qualità di Pascal era, dopo tutto, limitata dai confini stretti dello spirito umano, cioè dall’avere una gran varietà d’idee soltanto successivamente, non tutte insieme. Mentre è probabile che i vari ordini di angeli abbiano vedute più larghe, e che alcuni di essi siano dotati di capacità che li mettono in grado di ritenere insieme, e di porre costantemente davanti a sé, come in un quadro, tutta la loro conoscenza passata» (ivi, p. 190). Il senso dello spazio domina incontrastato negli scritti precritici di Kant – sebbene in modo affatto diverso da come Locke ne parla in questo passo, naturalmente.

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risorsa celata nelle profondità dell’anima, o animo, umani: sulla quale arte Kant seppe tuttavia, non si sa come, ogni volta brevemente discettare, riservando al lettore, via via, non poche sorprese – che sono poi le uniche, in verità, a rendere talvolta avvincente la sua lettura. Tale altresì considero il sovraccarico, imposto a fonti di conoscenza sempre confusamente ritrattate, del corredo di assiomi, anticipazioni, analogie, sensibilità generale (distinta non si sa come, senza studi etologici, dall’umana), categorie schematiche, quasi-schemi, postulati, e quant’altro. Di tale natura logicamente soggiuntiva e superfetativa, infine, considero ancora, in particolare, il perpetuo rincorrersi di disegni, princìpi (che poi sono i prìncipi), giudizi e leggi, in continua dipendenza gli uni dagli altri, che forma in qualche modo il direttorio logico, il codice oligarchico, il consiglio notturno del processo trascendentale. Rappresentando non di rado le sue deliberazioni con un battibecco nella prima Critica (come si vedrà nell’esame di qualche passo), questo consiglio rivela tutta la sua piena vocazione dogmatica, direttoriale, soltanto nella seconda Critica. Anziché in una sede radicale, o infera, come le figure discorsive di natura logico-antropologica, questa sorta di camera stellata trova invece ospitalità nella vaga dimora superiore di una Ragione aulica. Kant non volle mai abbandonare il generale impianto tripartito del suo pensiero, che vede l’intelletto collocato al centro fra sensibilità e Ragione; ma è anche vero che il centro dell’unità conoscitiva, che non è mai in riposo, va in lui, talvolta bruscamente, a collocarsi verso una delle estremità del segmento logico, in un continuo rivolgersi come sotto l’azione di una coppia. È interessante mostrare come ciò accada ogni volta che il discorso categoriale, intellettualistico, tende a spegnersi per mancanza d’immediati apporti sensibili o morali. Infera o aulica, a ogni modo (perché dell’unità infinitesima Kant non ebbe mai la benché minima nozione), l’unità della conoscenza resta in lui sempre reticente, e singolarmente confusa – non certo nel senso tecnico delle idee ‘confuse’: altrimenti Kant avrebbe dovuto riconoscersi un ingrato debitore verso scritti di Leibniz che assai probabilmente non aveva mai letti69. Non nego, naturalmente, l’interesse puramente teorico, o storico, e soprattutto centrifugo, della folla irruente delle sue figure logiche secondarie: di spunti, cioè, dai quali distaccarsi per andare in cerca d’altri Kant, o per andare oltre Kant, o per fare di Kant il tempestivo profeta d’ogni penoso momento e d’ogni moda. Nego semplicemente il loro valore non ausiliario. Sono occasioni e risorse, ma non sono veri personaggi del dramma speculativo. Tolte di 69   Il Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo, per esempio, pubblicato nel 1695 nel ‘Journal des Savans’.

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peso dalla tradizione, cosmeticamente rimaneggiate e variamente composte fra loro, simili teorie e terminologie particolari, spesso d’uso momentaneo (dalle quali poi si ramifica, per smembramento, la storia della critica: il Kant degli schemi, il Kant dei princìpi, il Kant delle anticipazioni, il Kant delle idee, delle rappresentazioni di rappresentazioni e degli schemi di schemi...) tutte servono, in definitiva, a cercare di dotare quel tempestivo sostituto di Dio che è l’Io penso, o Soggetto universale, di una strumentazione flessibile di forme legittimanti l’esercizio d’intuizioni e di concetti nella loro concretezza. La folla dei personaggi secondari serve altresì a scongiurare la possibilità di affermare la spontaneità conoscitiva immediata dell’intelletto, ossia la natura intuitiva del concetto, e a circostanziare meglio tutto ciò che in definitiva segna l’autonomia e il primato dell’intelletto rispetto alla sensibilità nel quadro di una tendenziale coincidenza del giudizio col concetto. Ma inutilmente, io credo: perché a dispetto d’ogni interposizione di schemi, o d’ogni sorveglianza d’idee e di princìpi, questa tendenziale coincidenza del concetto col giudizio a spese della sensibilità, che costituisce il pregiudizio intellettualistico, rimane, malgrado tutto, l’asse della Critica, la vera direzione del discorso; il quale poi, come si vedrà nella Critica del Testo, procede dalla deduzione categoriale come può, destreggiandosi per tentativi d’analogia verso i concetti concreti e le idee concrete. Ma il segno intellettualistico del concetto sul giudizio rimane indelebile; né un simile problema si porrebbe davvero se l’attività concettuale fosse stata fondata con pieno successo su di una vera intuizione sensibile. Simile vero e proprio nucleo della Critica noi troviamo già stilato, quindici anni prima della sua pubblicazione, in un semplice programma didattico70. E chi se la prende col dogmatismo morale del criticismo dunque, come dirò più estesamente nell’Analisi Tematica, coglie un aspetto certamente importante del pensiero di Kant, e ricco altresì, purtroppo, di vaste ricadute che hanno pesantemente influito sulla mentalità e sul costume; ma deve considerare che, oltre a lasciarsi troppo influenzare dalla lettura della seconda Critica, il biasimo non coglie il torto più importante del criticismo: che va ricercato innanzitutto sul piano teorico delle figure logiche e delle loro relazioni già nella prima Critica. Per il motivo diametralmente opposto, d’altra parte, non ho voluto evidenziare e analizzare, per esempio, quei passi della seconda edizione della prima Critica relativi alla deduzione, nei quali vengono in qualche modo sanciti, per   Notizia sulle lezioni per il semestre invernale 1765-1766, nell’Edizione Accademica.

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l’appunto, il ruolo basilare nella conoscenza del (pre)giudizio, e la supremazia dell’intelletto sulla sensibilità: perché diffido anche dei passi troppo forti ed espliciti (e del resto arcinoti) – sebbene essi restino ovviamente dei traguardi importanti di una linea di tendenza, che deve tuttavia mostrarsi già fondata in solidi capisaldi non soggiuntivi (senza voler dire, con questo, che la prima edizione sarebbe la ‘vera’ Critica). Mi riferisco, per esempio, alla distinzione della relazione che s’instaura fra i dati della conoscenza nel giudizio, «in quanto pertinente [questa relazione] all’intelletto», rispetto alla relazione che s’instaura fra i medesimi dati secondo, invece, generiche «leggi dell’immaginazione riproduttiva»71. La prima relazione, naturalmente, secondo Kant è «oggettiva», mentre la seconda è soltanto «soggettiva». La relazione fra i dati della conoscenza può sì venire stabilita anche dall’immaginazione (non solo riproduttiva, ma anche produttiva) – ma soltanto «in conformità alle categorie», come si preoccupa di specificare con una lunga trattazione un intero paragrafo (il 24), il cui titolo è già tutto un programma: Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale. Forse che la nostra discussione sull’intellettualismo potrebbe dunque concludersi già qui? Se è vero che basta ‘applicare’…! Per saggiare lo sviluppo del pensiero kantiano verso le esorbitanti prerogative dell’intelletto sarebbe semplicemente bastato, allora, commentare passo per passo l’intera prefazione alla seconda edizione. Ma stilando un simile capo d’accusa contro l’intellettualismo nella Critica semplicemente in base a simile aperta dichiarazione noi perderemmo il senso dell’opera. È un Kant, questo delle soggiunzioni e moltiplicazioni terminologiche, in lotta con se stesso, e che deve riagguantare le proprie premesse dualistiche: le quali sembrano sfuggirgli in virtù di sviluppi logici e discorsivi. È un Kant anche, in un certo senso, anti-intellettualista, che dopo l’instaurazione del rapporto fra sensibilità e intelletto in termini di gerarchia, oppure di coesistenza, oppure di alternativa, riesce persino a recuperare da Leibniz, in qualche caso, l’idea di una loro relazione alquanto grossolanamente graduata. Perché dunque non occuparsene? Perché restringendo troppo l’analisi si rischia di tirare fuori ‘un altro Kant’ nascosto nelle pieghe delle sue vesti, e non è questo che voglio. Il suo intellettualismo si esprime, del resto, anche in simili continue tergiversazioni, che bisognerà sondare. Gli specialisti filtratori ed elaboratori di dottrine, alla cui specie non appartengo, danno giustamente una grande importanza a queste tematiche secondarie; le quali, oltre a offrire l’alimento di una perenne controversia scientifica, costituiscono il tessuto connettivo indispensabile alla confezione di nuovi sistemi.   B 141.

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Le opere di Leibniz, viceversa, mal si prestano a fare da solido retroterra, da quinta o da sfondo sul quale, in ogni discussione, andare a riposare, a nascondersi, a giustificarsi con un’allusione, e poi, magari, cambiare discorso. Kant si sbarazzò di Leibniz mettendo nel proprio noumeno tutto ciò che di vivo e profondo egli aveva vagamente intuito esserci nel suo pensiero infinitesimale; e il kantismo della rinascita durante il Secondo Reich, poi, si sbarazzò anche del noumeno, come ho già detto, approdando a un vero e proprio pregiudizio idealistico – se non altro, per tappare la bocca al positivismo, e compensare in qualche modo l’afflosciarsi dello hegelismo. intellettualismi rivali Occorre adesso spendere qualche parola su gl’intellettualismi rivali, platonico e leibniziano – ma specialmente su quest’ultimo. E va detto subito, a scanso d’equivoci, che a parte qualche indispensabile eccezione in questo studio si farà riferimento a un Leibniz ‘preso di peso’, alla maniera di Kant, senza addurre testimonianze testuali circa il suo ‘vero’ pensiero, che Kant non si curò di conoscere al di là di una sua generica opinione72. Di fronte a Kant, Leibniz non ha certo bisogno di testimonianze a discarico, e tantomeno delle mie. La porta che con la sua Estetica Kant pretese di riaprire al di sopra del cosiddetto ‘leibnizianesimo’ era già aperta, e il monismo intellettualistico leibniziano stava soltanto nella tradizione della ricezione accademica a lui prossima. Kant vi si adattò volentieri – scegliendo, anche in questo caso, la via più facile, con una compiacenza acritica che nulla veramente aggiunse alla scienza. E il fatto dunque che qui si parli di ‘intellettualismo platonico e leibniziano’, sull’esempio di Kant, non significa affatto un’adesione, nel complesso, a un simile giudizio riduttivo: si tratta semplicemente, per l’appunto, di seguirne le orme ammettendo l’assunto. Il compito di smentire il giudizio d’intellettualismo, in particolare per Leibniz (con una ricerca, per esempio, sulla non reversibilità dei giudizi analitici in sintetici, ossia sull’impossibilità di ricostruire l’oggetto d’esperienza a partire dai suoi singoli elementi logici, come s’usa negli indovinelli; oppure sulla natura sostanziale, non puramente mentale, della relazione fra oggetti semplici, nonché del legame degli aggregati; o ancora sulla non surrogabilità speculativa 72   Già nei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (§ 9), per esempio, Kant accenna a un teorema illustrato da Leibniz «da qualche parte della Teodicea». Tale, distratto e all’ingrosso, resterà sempre il suo rapporto con gli autori.

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dell’unità esteriore tattile, e sul costante ripudio del mero fenomenismo non oggettivo; e simili) – una simile ricerca, dunque, comporterebbe un’ampia trattazione separata, e anzi un’intera monografia in quello che sarebbe, in definitiva, uno sforzo incongruente di riabilitazione non richiesta. E neppure necessaria, credo: una lettura attenta del libro di Massimo Mugnai, per esempio, anche se non affronta direttamente il problema della fama, potrà bastare allo scopo73. È vero, d’altra parte, che Kant non se la prese con Leibniz, bensì proprio con la sua fama; e mancando di fonti di conoscenza adeguate, e completamente immerso nel suo piccolo ambiente, egli non si trovava nelle condizioni oggettive né soggettive adatte per procedere alla formulazione di uno scrupoloso giudizio – né, diciamolo pure, aveva interesse a farlo: perché mai chiudere la porta dipinta col bersaglio dell’intellettualismo accademico che gli stava aperta dinnanzi? Egli se la prese invece, come vedremo, con l’ipocrisia dei professori che pretendevano di procedere imperterriti sulla via di quell’intellettualismo, ma intanto tenevano d’occhio la realtà per non rischiare di restarne smentiti74. Nelle immagini di questo parallelismo e di questa doppiezza di costume scientifico delle scuole ci sono già i termini dell’impostazione dualistica del quesito critico tra le facoltà opposte dell’intelletto e della sensibilità; mentre nel biasimo rivolto all’ipocrisia accademica del clinamen, o dell’indispensabile sguardo in tralice, noi troviamo lo spunto della futura soluzione trascendentale di quel rapporto. E qui, allora, noi dobbiamo scegliere se fare storia, oppure discutere d’idee. E prenderemo risolutamente questa seconda strada – con una scelta, del resto, congruente con quella di Kant medesimo, il quale non si accorse mai che il cosiddetto ‘intellettualismo’ platonico e leibniziano altro non era che una delle innumerevoli sintesi a priori in cui egli venne a imbattersi insieme con gli uomini del suo tempo. Col loro costume questi insegnavano che, insomma, bisognava fare a capirsi; e anche Kant imparò a farsi capire: perché riferendosi con estrema prudenza alla vecchia cultura delle scuole in entrambe le prefazioni alla prima Critica egli comunicò ai suoi contemporanei, per esempio, una nozione allusiva, ironica e gergale di ‘barbarie’, che gli sembrava perfettamente comprensibile, perché desunta e tenuta d’occhio con la comune esperienza. Quando parlò dell’intellettualismo leibniziano fece lo stesso: ne parlò per 73   Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001. Già quell’insospettabile frutto di scuola gentiliana che è la chiara monografia di Giuseppe Carlotti, del resto, riconosce in Leibniz, senza mezzi termini, il valore insostituibile dell’esperienza come fonte di conoscenza (Il sistema di Leibniz, Principato, Messina 1923, p. 63). Non mi sembra del resto che le opinioni di Kant su Leibniz abbiano mai goduto di molto credito. 74   Nell’Analisi Cronologica, intorno alle note 140-143.

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Filosofia politica de la critica   83

accenni teorici il meno possibile impegnativi, ma intanto sapeva concretamente cos’era, e a questo pensava. I due grandi «intellettualisti» Platone e Leibniz avevano in realtà propugnato la riconducibilità delle nozioni d’ordine complesso a concetti semplici e primitivi, veri per definizione o per immediata esperienza75. E proprio qui si rivela la principale differenza del loro preteso intellettualismo rispetto al suo; il quale non consiste in una riconduzione logica di forme, presupposte (Platone) o lasciate intatte (Leibniz), a elementi convenzionali o intuitivi di prima conoscenza, bensì in una loro riduzione ‘formale’ agli strumenti delle sue facoltà: un’intera foresta vien fatta passare in una segheria per uscirne ridotta in tavole; e con esse sarà poi possibile edificare con sicurezza, secondo condizioni possibilità e limiti di queste stesse tavole. Intanto, però, s’è persa la foresta, e in simile pensiero si nasconde dunque una qualche barbarie. La via per Wagner è aperta; e, con la sua perdita dei limiti, anche la via del neokantismo76. Grazie a un’adeguata conoscenza proprio Leibniz diventa invece nel Novecento il padrino della lotta all’intellettualismo. È infatti con un riferimento a un auspice Leibniz che quasi un secolo fa Giovanni Vailati, per esempio, apponeva insieme con Mario Calderoni le sue ultime (in tutti i sensi) parole a Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo: il quale, diceva, non è in sostanza che un’amplificazione e un completamento del principio leibniziano di sostituzione del linguaggio concreto all’astratto77. Temo, in verità, di non essere sempre stato io stesso all’altezza di simile compito – se non altro, perché non condivido del tutto il richiamo alla concretezza in qualsivoglia frangente teorico; né credo veramente all’infallibile efficacia del principio di sostituzione. E bisogna anche dire che troppo spesso il biasimo a una dottrina viene rivolto, per così dire, dall’esterno verso l’esterno, ossia per contrapposizione all’oggetto di biasimo, reso in qualche modo tipico, con un qualche tipico qualcos’altro, che viene assunto come valido termine di paragone. Il risultato è un invito a schierarsi, voltando ben presto le spalle all’oggetto del giudizio considerato proprio nella sua concretezza. Nei confronti del criticismo (così come, a più forte ragione, nei confronti del75   Andando in cerca delle forme più semplici e primitive della conoscenza Leibniz s’era volentieri affidato all’esperienza: Itaque, si qua veritas constat, per experientiam constat, quia demonstrationem dare non possumus. Quae est causa quod Deus solus veritates contingentes a priori cognoscit. (Louis Couturat, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Alcan, Paris 1901, p. 121). 76   L’esempio della segheria e del legname ridotto in tavole è di Kant medesimo (ne L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, p. 152). 77   Carere potest abstractis in lingua philosophica; e ancora: Tutissime philosophabimur abstinendo ab abstractis (Il pragmatismo e i vari modi di non dir niente, in ‘Rivista di psicologia applicata’, luglio-agosto 1909; Scritti, Quaranta, i, p. 137 nota).

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84   introduzione

l’idealismo e del positivismo) il pragmatismo italiano non ha fatto eccezione, in questo senso: e troppo spesso la vera o supposta tradizione logico-empiristica anglo-francese, per esempio, vi assume il ruolo d’infallibile pietra di paragone. In questo studio, come si vedrà, ho preferito seguire invece un percorso alquanto più interno, analitico, che consente di formarsi via via un’opinione sulla concretezza dell’oggetto senza mai abbandonarlo al suo destino. Resta dunque ancora da dire che la vistosa estensione della Parte Prima, divisa nelle due sezioni dell’Analisi Tematica e dell’Analisi Cronologica, si spiega, per l’appunto, con la scelta del percorso interno. Questa scelta ha reso necessario premettere alla successiva analisi topica della Critica un’ampia dotazione di base, e ha fatto sì che ogni questione di profilo generale finisse consegnata all’Analisi Tematica. L’Analisi Cronologica assolve perciò a una funzione di raccordo; e un ruolo particolare vi assumono tre scritti redatti e pubblicati fra il ’62 e il ’63, che ho designati come ‘trilogia mediocritica’ per evitare la scomoda espressione: ‘trilogia medio-precritica’. Anziché sulla dissertazione d’ordinariato De mundi del 1770, che con troppa evidenza anticipa già, fin dal titolo, la successiva impostazione della Critica, ho preferito infatti concentrare la discussione sui tre studi dedicati a L’unico argomento per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, all’Indagine sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale, e al Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative. Nel primo scritto Kant mi sembra raggiungere la massima densità nella commistione di quasi tutti i suoi temi passati. Qui, meglio che altrove, egli sembra rivelare tutte le sue incertezze, e anche molti dei suoi limiti: da principiante smarrito più che mai in un oceano metafisico, che gli pare insolcato, e dal quale dovrà pure in qualche modo uscire. Nel secondo scritto mostra già d’aver trovato un lume con una prima, generale distinzione, che si consolida poi nel terzo. Dopo le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime egli entra in possesso, coi Sogni d’un visionario, di quasi tutti gli elementi che gli serviranno per allestire la Critica – salvo il primato del tempo. bibliografie: nient’altro che percorsi di lettura La scarsità dei riferimenti alla letteratura monografica in questo libro è il risultato di una scelta, evidentemente; e si spiega con la mia ferma convinzione della vanità delle bibliografie – le quali andrebbero piuttosto chiamate semplicemente: percorsi di studio e di lettura, casuali o vagliati. Tra migliaia di titoli,

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Filosofia politica de la critica   85

in ciascuno dei quali può trovarsi non soltanto un’autorevole interpretazione, ma anche una preziosa intuizione, uno spunto polemico, una buona idea, ogni studioso trova la sua storia, cerca la sua strada, e si sceglie qualche compagno di viaggio non troppo ingombrante e di umori simili: uomini liberi che non hanno nulla da dirsi vanno ciascuno per la propria strada. In una bibliografia altrettanto sterminata della kantiana, com’è quella sul militarismo tedesco, ho già giustificato, più sopra, la scelta di un riferimento come l’opera del Ritter con il postulato strettamente razionalistico della sua ricerca. Se Franco Lombardi assume talvolta in questo libro la posizione dell’interlocutore su Kant, ciò non avviene soltanto perché la sua esegesi è basata su una continua lettura dei testi. Al di là del problema storico circa le origini teoriche della tragedia del Novecento, può non essere del tutto inutile interrogarsi sulla possibilità di dare alla sinistra un orizzonte speculativo, che nella nostra epoca le manca ormai completamente, e non soltanto per sua disgrazia, dopo la fine dell’illusione del socialismo come esito scientifico di una filosofia della storia. E può non essere del tutto inutile combattere anche sul piano teorico le radici della mentalità anarcosindacalista, che fa la politica scaturente per via diretta dalle lotte sociali: la quale mentalità è sempre stata della sinistra e d’ogni autentica politica la vera e propria dannazione. Ora, sotto il profilo speculativo combattere ogni forma di anarcosindacalismo, e affermare il primato della direzione politica sulle cosiddette lotte di classi può significare, per esempio, propugnare il primato dell’Essenza sulla Sostanza, nonché il primato sulle forme e sugli scopi della politica del senso imitativo (non partecipativo e non emanativo – vale a dire: non invasivo e non autoritario). In termini dossografici significa, grosso modo, partire da Montaigne e da Cartesio prendendo la via di Leibniz e non quella di Spinoza. La ragione, dunque, per cui uno studioso come Franco Lombardi assume nell’Analisi Tematica una frequente posizione di riferimento monografico è spiegata in una sezione del paragrafo dedicato a un profilo dossografico78: là dove mi chiedo perché mai la tradizione di un certo radicalismo politico giacobino, il quale dovrebbe aggiungere alla dimensione orizzontale di ciò che sta ‘a sinistra’ anche la dimensione verticale di ciò che sta ‘in alto’, non abbia fatto di Leibniz, bensì di Spinoza, un suo punto di riferimento teorico. Il desiderio di combattere il pregiudizio idealistico ha spinto un materialista antropologico come Franco Lombardi a cercare in un ‘vero’ Kant un saldo retroterra speculativo per il marxismo – ma spingendosi, nel suo slancio polemico, anche più in là, contro Leibniz, nell’intento di recidere anche l’ultima radice idealistica.   Intorno alla nota 15 e seguenti.

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86   introduzione

L’antropologia accademica, del resto, deve trovare più consona alla personalità dello studioso la mite figura del provinciale regiomontano, e meno convincente la personalità dispersiva, politecnica, metropolitana, religiosa e diplomatica di un Leibniz. È vero che Leibniz è uomo dell’individualità e dell’unità, piuttosto che delle classi e della contraddizione – ma proprio alla prevalenza di queste ultime nozioni di classe e di contraddizione la cultura politica della sinistra (della sola ‘sinistra’, senza aggiungere ‘dall’alto’) deve, io credo, la sua fatale vocazione minoritaria. Prendendo le distanze da un intellettualismo individualista e insieme provvidenziale, immaginoso e insieme politecnico, com’è quello leibniziano, essa ha preferito, di solito, gettarsi nei flutti d’una tradizione linguistica della nozione teologica e ontologica della Sostanza, la quale inizia con Spinoza soprattutto, io credo, in conseguenza dell’insufficiente ruolo storicamente svolto dalle obiezioni di Gassendi a Cartesio79. Come già in tempi alquanto più lontani (coi dialoghi di Valla, per esempio), un diverso ruolo storico di questo tipo di obiezioni avrebbe forse potuto cambiare la storia degl’intellettuali europei nell’età moderna, esortandoli alla libertà di dovere soltanto volendo, e di concepire soltanto credendo, e di credere soltanto dubitando – così come, soprattutto, di riconoscersi ‘soggetti’ innanzitutto a se stessi. Rinunciando a dotarsi di autonomi postulati teorici e antropologici, adatti a concepire il primato della politica a cominciare dalle forme stesse dell’intuizione dell’essere, le aspirazioni del giacobinismo e della democrazia radicale e sociale non potevano non finire ideologicamente succubi di ciò che nell’insieme si può considerare l’ultimo e il più agguerrito prodotto della tradizione del manierismo terminologico e teologico spinoziano: il marxismo. La democrazia radicale non poteva non finire teoricamente succube, insomma, di una filosofia della storia tradotta nei termini di un’ideologia dell’azione che, nell’insieme, è tutta quanta una tedescheria80. Alla quieta, devota o rassegnata contemplazione dei modi dell’essere, ossia di come va il mondo lasciandolo andare, non mancava nient’altro che la volontà attivistica di reinterpretarli, quei modi, allo scopo di trasformare il mondo intero in virtù di un intellettualismo insieme moralistico e scientifico. Quest’ultimo ha finito per caratterizzare l’età contemporanea – ma non inizia col marxismo: inizia con la pretesa kantiana di dare alla conoscenza una fondazione certa, alla morale un dovere categorico, al mondo un senso sistematicamente plausibile.   Si veda la bella edizione della Disquisitio metaphysica curata da Bernard Rochot per Vrin, Paris

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1962.

  Uso un vecchio termine, che risale a Giovio e al Tassoni, o almeno alla Vita dell’Alfieri (a cura di Giampaolo Dossena, Einaudi, Torino 1974, p. 103). 80

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Parte prima

AVANTI «LA CRITICA»

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1. Analisi tematica La prudenza esige... di conformare alle forze il taglio dei disegni, e di limitarsi al mediocre se non si può raggiungere convenientemente il grande. Kant, Sogni d’un visionario Kant unternimmt ein schwer Geschäfte, der Welt zum Unterricht. Er schätzet die lebend’gen Kräfte, nur seine schätzt er nicht. (Kant s’accinge alle ardue dottrine del mondo. Forze vive egli sonda – solo ignora le sue). Lessing

Più di un’accusa o d’una riserva è stata avanzata nei confronti del criticismo kantiano. Con un epiteto generico il tradizionale biasimo di ‘formalismo’ ha avuto, tra gli altri, il pregio di riassumerle un po’ tutte. Esso ha pure, tuttavia, il grave torto di compromettere il significato della forma. Con simile denominazione, infatti, può sembrare che nel criticismo si trovi un esagerato senso della forma; oppure, peggio, che possano esistere, in generale, forme vuote; o ancora, e sempre peggio, che la forma stessa, come tale, sia cosa vuota. Nel primo significato null’altro si può intendere, per Kant, che un’esasperata ridondanza e superfetazione logica e dialogica – non, certo, la continenza di uno stile estremamente efficace, prezioso o forbito, che pure meriterebbe d’essere giudicato ‘formalistico’. Il secondo significato, storicamente il principale, accompagna da un capo all’altro la vicenda del criticismo, e ravvisa una sorta di formalismo nelle asserzioni dogmatiche di chi, voltate le spalle alla cosa in sé, ha fatto di un’impossibilità di vera conoscenza (di un moderato scetticismo, insomma) una virtù e una scienza. Che un moderato scetticismo possa e debba andarsi a cercare una tutela dogmatica è del tutto normale, direi. Ma Kant aveva anche assai prossimo l’esempio di Hume, che aveva concluso il primo libro del Trattato sulla natura umana con parole come queste: «Io posso, anzi debbo cedere alla corrente naturale, e sottomettermi ai miei sensi e al mio intelletto: con questa cieca sottomissione dimostro perfettamente la mia disposizione e i miei

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90   parte prima. avanti «la critica»

princìpi scettici»1. Tutto l’esito linguistico dell’empirismo di Locke, del resto, significava press’appoco la stessa cosa: nient’altro che sottomettere lo scetticismo alla certezza di definizioni terminologiche, convenzionali, del tutto relative sotto il profilo teorico e del tutto dogmatiche sotto il profilo pratico. Ciò che l’empirismo inglese guadagna in tal modo sul piano logico dei concetti, esso lo perde però sul piano narrativo delle nozioni, ossia d’ogni conoscenza d’ordine superiore o complesso. Hume si sottrae soltanto parzialmente a questo pericolo grazie all’analisi delle passioni – ma l’unico vero trattato sulle passioni non può essere che già offerto dalla critica letteraria: qualcosa che il mondo moderno cominciava appena a conoscere. L’accusa di formalismo rivolta a Kant non può avere questo significato, dal momento che egli non si curò di delineare gli elementi di un’antropologia animale e sentimentale, semplicemente perché essa non stava neppure alla sua portata; ma quell’accusa è stata giustamente rivolta soprattutto contro lo svuotamento delle dimensioni a priori della conoscenza sensibile e degl’imperativi morali – trascurando tuttavia alquanto, mi sembra, lo svuotamento categoriale degli a-priori intellettivi, che ha pure la sua importanza: perché con una completa noncuranza Kant vi ha sacrificato in blocco, in definitiva, i princìpi o i contenuti tràditi della ragione naturale. E tuttavia questi nient’altro sono che forme del senso comune. Nel terzo caso, della forma come cosa vuota in generale, il suo più alto significato come specificità di un contenuto, o come intatta potenza, o pieno sviluppo tipico e semiotico, di un individuo; la forma come genesi e come destinazione di un qualcosa; la sua storia dapprima immobile e muta, e infine di nuovo immobile perché esaurita in una completa attuazione; la cifra di questa sua natura, dunque – tutto finisce in questo biasimo per sortire svilito e annullato; così che insomma, paradossalmente, parlando di ‘formalismo’ ci si riduce ad accettarlo, e in qualche modo a praticarlo: tant’è vero che proprio come vuota struttura logica e morale il criticismo kantiano ha sempre mantenuto la sua rinascente vitalità, a dispetto d’ogni moto d’insofferenza2. Con 1   Libro i, parte iv, sez. vii (a cura di Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1975, i, p. 281). Il fatto che Kant non abbia conosciuto che malamente il Trattato, l’opera più rappresentativa del pensiero di Hume, nulla muta nella questione. 2   Basta leggere affermazioni come questa, di Max Scheler: «Sino a quando varrà quale unico risultato rigoroso ed evidente di ogni etica filosofica quella formula [kantiana del dovere] terribilmente elevata nella sua vuotezza, ci sarà impossibile cogliere la pienezza del mondo etico e le sue qualità» (Il formalismo nell’etica, San Paolo, Milano 1996, p. 26). Ecco l’alternativa tra formalismo ed etica materiale: vuotezza e pienezza. La forma è l’opposto ‘vuoto’ di una materia ‘piena’ – proprio come l’aveva intesa Kant! Lo Scheler, del resto, non fa mistero di volere «trasferire» sull’individuo l’interesse per la comunità; o di volere «sostituire» con premesse valide gli erronei presupposti kantiani; o ancora di volere «inserire» con auten-

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1. Analisi tematica   91

relativa facilità di epoca in epoca è stato possibile colmare questo vuoto del criticismo con i più diversi contenuti, resi eticamente imperativi: dagl’imponenti sistemi speculativi agl’integerrimi doveri amministrativi, dai progetti irenici e umanitari vagamente sentimentali agli spiriti di rivolta, fino ai disegni più arbitrari d’egemonia e di dominio, man mano che le filosofie della storia e della società sfornavano, di generazione in generazione, i loro prodotti più positivamente perfezionati o ideologicamente decadenti. Dal filosofo al funzionario, dal professore al pubblicista, dal poeta al carnefice, ognuno ha avuto il suo dovere da compiere, secondo una logica borussica d’educazione di perfetti maggiordomi e non di figli, come già lamentava Schiller – ma il senso della forma come ‘vuotezza’ non ne è stato per nulla responsabile: perché il ‘senso’ proprio della forma, semmai, in Kant è rimasto semplicemente ignorato. Ed è rimasto ignorato per il modo in cui essa è stata precocemente sancita, fuori e dentro la Critica, come un puro e semplice involucro: prima della Critica, per semplice noncuranza nei confronti di tutte le vere o presunte ragioni naturali; e dentro la Critica proprio allo scopo dichiarato, in verità, d’individuare e di combattere il formalismo e l’intellettualismo dei maggiori filosofi, Platone e Leibniz3. A semplice scopo di chiarezza, può essere utile delimitare sin d’ora un campo terminologico nel quale collocare ciò che considero essere il tratto più rilevante e costante della tradizione di biasimo nei confronti del criticismo, fissando i capi estremi di questa tradizione di biasimo nei sunti terminologici di ‘dogmatismo’ e di ‘formalismo’, prediletti da due critici che giudico fra i maggiori, benché filosofi relativamente minori, come Schulze e Scheler4. La posizione tico discernimento i valori etici nella vita dell’uomo (ivi, pp. 9-10, 25, 26). Nel corso di questo studio tornerò a parlare più volte di simili biasimi ortopedici, che rimettono il criticismo in cammino. 3   Affermando, per esempio, che «dai primi princìpi formali dei nostri giudizi di verità non nasce nulla, a meno che non siano dati i princìpi primi materiali» (Indagine sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, p. 251). Da simile assunto sprezzante o ignaro di ragioni naturali Kant non si discosterà mai. Se ne capirà l’importanza sul finire della Critica (e ne riparlerò nella Logica del Testo, che è interamente dedicata alla discussione della posizione kantiana sull’intellettualismo nei suoi maggiori rappresentanti, Platone e Leibniz). 4   Max Scheler in particolare, che fra i due può sembrare il maggiore, non riuscì mai a dare al suo pensiero etico un saldo fondamento speculativo, metafisico e logico – né lo avrebbe potuto, dal momento che i presupposti speculativi dell’etica dovevano rispondere per lui soltanto a una «volontà di sistema», contrapposta a una «volontà di anarchia» che gli era storicamente troppo contingente, e nella quale rivivono antiche ossessioni tedesche per il disordine. Egli s’era del resto comunque preclusa la possibilità di una vera fondazione speculativa dell’etica, malgrado le buone intenzioni, con asserzioni come questa: «Un fondamento spirituale del mondo (quale ne sia la natura) può essere definito in se stesso come ‘Dio’ solo nella misura in cui sia ‘personale’; la filosofia non è peraltro in grado, per ovvie ragioni [!], di dare una soluzione autonoma a questo problema» (Formalismo, pp. 3 e 10). Ma proprio la critica della soluzione autonoma kantiana era stato l’impegno prettamente speculativo di uomini come, per esempio, Gottlob

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92   parte prima. avanti «la critica»

dello Eberhard invece, per il suo carattere d’immediata reazione polemica in difesa dell’ortodossia leibniziana, mi sembra meno adatta a fornire un valido punto d’inizio – né essa, del resto, si è mai condensata in un qualche sunto terminologico orientativo per la storia della critica: in un qualche ‘-ismo’, insomma. E d’altra parte neppure m’interessa (per ragioni che non merita dire, perché si capiranno facilmente) la tradizione di critica al criticismo che fa capo ai filosofi maggiori, come Hegel e Heidegger. Senza minimamente pensare di dire cose nuove, ma tanto per intendersi e per trovare le sponde di una sorta di corsia d’accelerazione alla presente trattazione, mi pare che termini come ‘dogmatismo’ e ‘formalismo’ possano ben designare i due assunti fra i più chiari e accessibili di questa tradizione di biasimo. E come la tradizione compresa entro questi due termini compendia bene o male, ma nel modo più credibile, buona parte del significato di una dottrina e dei suoi limiti, così essa potrà fare da spunto e da traccia per un primo profilo dossografico. Contenendosi la prima discussione entro sponde alquanto convenzionali, come sono sempre due ‘-ismi’, il lettore capirà facilmente che sarà difficile, e anche inutile, tenere rigorosamente separati i diversi profili d’un uomo e d’un pensiero; ma senza alcuna curiosità di ricostruire una continuità storica dei termini e dei concetti attraverso gli scritti, questi profili potranno aiutarci a reperire semplicemente alcuni rispecchiamenti tematici in opere anche assai lontane fra loro. su di un profilo dossografico Il vecchio schema storiografico che vede nel criticismo il superamento di una prima fase razionalista, e di una successiva fase empirista, che Kant avrebbe attraversate, non è che un cadavere dialettico insepolto, che torna periodicamente a galla precisamente per difetto di peso specifico. Nelle ultime pagine di Kant vivo Franco Lombardi illustra la vicenda nella letteratura manualistica di quest’opinione, sempre più stancamente risorgente, ma mai esausta5. Il suo zelo nello sfatare il semplicistico schema triadico: ‘razionalismo – empirismo – criticismo’ è tale, tuttavia, da fargli ripudiare ogni benché minimo sospetSchulze, il quale non ebbe invece un apprezzabile interesse per l’etica kantiana, considerandola giustamente un problema derivato. Il meno noto dei due andò dunque alla radice del problema categorico, trattandolo come quesito categoriale; e nell’Enesidemo mostra dappertutto una larga autonomia rispetto a Kant, che allo Scheler difetta invece alquanto. Non è dunque per sole ragioni di simmetria cronologica che li ho prescelti come sommari riferimenti opposti e complementari per l’avvio di una critica della critica. 5   Kant vivo, Sansoni, Firenze 1968, pp. 482 ss.

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1. Analisi tematica   93

to d’idealismo nelle origini del pensiero kantiano; e questo ‘idealismo’ egli sembra individuare principalmente nelle posizioni leibniziane, che Lombardi scambia per l’origine dell’idealismo romantico: di modo tale che, attraverso un pregiudizio antiromantico, si viene ad avvalorare il pregiudizio kantiano circa l’intellettualismo di Leibniz. Accade così a Lombardi di ravvisare analogie bruniane in accenti giovanili, che sono invece chiaramente leibniziani: il paragone nella Teoria del cielo, per esempio, fra le dimensioni della Via Lattea per gli occhi di Dio, e le dimensioni di una pallina per i nostri; o ancora la gradazione nell’ordine delle creature, che vede l’uomo al suo centro6. Ora, Kant era uomo di ben scarsa immaginazione, e questa poca fu sempre alimentata soltanto per imprestiti contratti da lui stesso, ovvero elargitigli dai suoi interpreti; ed ebbe in genere un’invincibile ripugnanza, in particolare, per l’accesso agli autori della tradizione basato su di un serio studio – pari, almeno, alla ripugnanza che ebbe sempre nei confronti di un accesso empirico alle cose. La sua sensibilità pietista, probabilmente, lo induceva a percepire alquanto vagamente il carattere generale di un pensiero, senza minimamente curarsi di far torto (anzi!) allo scrupolo della lezione filologica luterana. Ma empirismo e razionalismo restavano in tal modo non già sanciti e poi superati (se non nei termini dossografici delle scuole), bensì semplicemente vanificati nella loro effettiva insussistenza in lui. E se l’intelligenza kantiana di Leibniz non poté dunque essere diversa da quella che fu (mediata, per giunta, e anche impedita dal wolffismo), ciò non giustifica la rimozione di Leibniz dalla collocazione che effettivamente gli spetta in una prospettiva storica generale: che lo vede concludere grandiosamente le avventure del pensiero di Galileo, di Bruno e degl’italiani7; né tantomeno giustifica la sua sostituzione, in questa posizione, con un Kant protagonista di uno sbalorditivo superamento, oltre che in avanti, anche all’indietro. Lombardi riconosce che l’inquietudine nei confronti di ogni manifestazione di libertà divideva Kant da Leibniz; e che la difficoltà di concepire l’origine della vita di un bruco strisciante sopra un cavolo fu ciò che lo spinse a cercare in Newton (anche qui, per interposizione di mediatori) una regolarità assoluta nei fenomeni naturali. «E quando egli non potrà più diversamente rifermarla [questa regolarità assoluta] di contro allo scetticismo proprio della filosofia empiristica, cercherà di rifermarla attraverso le dottrine dell’idealismo   Ivi, pp. 126, 129, 133 (Theorie des Himmels, pp. 309, 359-360).   È soltanto dopo la pubblicazione dei Nuovi saggi sull’intelletto umano, vale a dire dal ’65, che si può parlare, secondo Lombardi, di un Kant influenzato da Leibniz; ma egli ammette pure che certe sue idee si potevano facilmente respirare, quasi (e da un pezzo, aggiungerei), nell’aria (Kant vivo, pp. 260-261). 6 7

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94   parte prima. avanti «la critica»

trascendentale»8. È un’affermazione di gran peso, quest’ultima: con la quale si mettono in dipendenza i meriti metafisici di Kant dai suoi interessi fisici; ed entrambi, poi, in dipendenza dalla sua indole personale, o dalla sua mentalità. E in questo giudizio c’è senz’altro molto di vero. Ma è inspiegabile come Lombardi voglia fare di Kant, a tutti i costi, «non già un leibniziano, ma anzi, nel senso pieno della parola, un seguace della dottrina di Newton»9: quando, a parte ogni considerazione concernente i contenuti scientifici, i termini stessi di «seguace» e di «dottrina», proprio in riferimento a Newton, sembrano davvero inopportuni. *** Poiché ‘razionalismo’ ed ‘empirismo’ appaiono coordinate terminologiche e dossografiche alquanto deboli per descrivere la vicenda criticista, torniamo alle coordinate di ‘formalismo’ e ‘dogmatismo’, che ho creduto di potere prescegliere fra i numerosi biasimi. Nei tempi ben sospetti della prima catastrofe tedesca, ed europea, lo Scheler volle riproporre quello che era ormai già un vecchio problema; e nel 1921 tornò a pubblicare il suo Formalismus in der Ethik col quale, sin dagli ultimi anni di pace, aveva iniziato a discutere della vacuità del criticismo sul piano etico. Quella che volle redigere per colmare ciò che interpretò come un’assenza di contenuti morali, o come un vuoto imperativo etico, fu, in sostanza, una tavola categoriale di primi contenuti morali e di corrispondenti facoltà antropologiche, capaci di fare in qualche modo da contrappunto alla tavola delle categorie dell’intelletto. Nei confronti del criticismo questa era una posizione ideologica e pratica, naturalmente, non un problema storiografico accademico; e per smentire una simile accusa ideologica non basterebbe dunque fare della storiografia biografica: indicando, per esempio, quanta fosse la dimestichezza acquisita da Kant su temi d’etica assai comuni attraverso la sua lunga pratica didattica. Quei contenuti (il nonformalismo etico che gli era familiare, insomma) non si possono considerare senz’altro acquisiti al pensiero per il solo fatto d’essere stati trattati nel corso dei semestri. Il vero problema del ‘formalismo’ etico, dunque, non si risolve sul piano dei riferimenti storiografici e biografici, bensì proprio sul piano della teoria. È sul piano categoriale che esso esiste, dunque, nelle sue origini intellettualistiche; e questo non vide lo Scheler. Mirando ai risultati morali, egli trascurò   Ivi, pp. 123, 132.   Ivi, p. 136.

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1. Analisi tematica   95

di soffermarsi a sufficienza sulla condizione teorica preliminare che consiste nell’abuso logico categoriale, nonché sulla relativa sede, o facoltà disciplinare esercitata dall’intelletto; e dedicandosi a colmare il (diciamo così) difetto per eccesso del moralismo critico, trascurò di occuparsi principalmente dell’insieme delle relazioni sussistenti tra le diverse facoltà conoscitive, inteso come una loro retta costituzione, dedicandosi piuttosto a quesiti d’educazione e d’orientamento. Egli, insomma, pose alla personalità un problema di esercizio di governo, e trascurò la costituzione. In una Germania che già rimpiangeva il congedo di Bismarck, senza tuttavia minimamente dubitare dell’Impero, simile impostazione era del tutto naturale: talmente naturale, che ancora cinquant’anni dopo la medesima impostazione del problema è diventata la posizione storiografica con la quale il Ritter ha cercato di spiegare l’insorgenza del militarismo come un semplice fenomeno d’azione10. Ma in siffatta impostazione può rimanere, e infatti rimane, il dubbio che il cosiddetto ‘formalismo’ non sia in realtà nient’altro che intellettualismo, o una sua immediata conseguenza: vale a dire un difetto di costituzione, e non soltanto di direzione. È come dire che il difetto non sta nella personalità e nelle capacità di un cancelliere, bensì nelle relazioni che sussistono tra i poteri dell’Impero, o tra le facoltà antropologiche. C’è voluta una seconda catastrofe perché il Ritter cominciasse, con parzialità d’impostazione e con reticenza di stile, a porre seriamente un problema di disforme attivismo costituzionale nel modello di una personalità, là dove lo Scheler aveva indicato soltanto un vuoto di direzione. All’altro capo della storia della letteratura esegetica (non appena, o quasi, conclusa la trilogia critica) lo Schulze, invece, aveva subito indirizzato la sua accusa non già verso la guida etica, bensì proprio verso la stessa radice costituzionale del problema kantiano della conoscenza: proprio verso il ruolo mediatore dell’intelletto con la cosa in sé, e verso l’uso delle categorie, ch’erano state da Kant, secondo lui, dogmaticamente postulate come sede d’inizio del processo di conoscenza. Egli non sollevò, tuttavia, un quesito d’intellettualismo nel senso di un eccesso, o di una metastasi, o di un subentro dell’intelletto nei ruoli della sensibilità e del giudizio, come in questo libro si dirà, bensì anzi di un suo limite categoriale, col farsi esso tramite causale della cosa in sé entro 10   L’ho già detto nell’Introduzione, ma lo ripeto, a scanso d’equivoci: l’attenzione dedicata dal Ritter alla costituzione imperiale è pressocché nulla per tutto ciò che non ha attinenza diretta con l’organizzazione dei soli uffici militari; il corpo fisico dell’Impero nel suo insieme è bensì menzionato in rare occasioni, ma solo come una specie di fantasma «antico-feudale»; e la personalità ideologica dell’Impero, poi, che occupava l’immaginazione dei militari prussiani, e dunque ne legittimava sentimentalmente o istintivamente (esteticamente) l’azione, fu argomento di una tesi di laurea affidata ad un’allieva, senza il benché minimo effetto sull’intera o parziale trattazione de I militari e la politica. Perciò quest’opera è tutta una metonimia.

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le rappresentazioni; e il cosiddetto ‘formalismo’ etico viene in lui ad assumere il significato di una qualche dogmatica reazione a una mancanza di effettive possibilità della conoscenza. Al riconoscimento di simile debolezza speculativa, dovuta alla postulazione di un’inverosimile relazione categoriale di causa fra soggetto e oggetto, si sarebbe dovuto reagire, piuttosto, con la professione di un sano scetticismo. Aveva visto giusto, lo Schulze; e la conferma del valore della sua critica sta nella semplificazione e nello sviluppo all’eccesso della dottrina kantiana effettuati poi, per opera di Schopenhauer: perché nel travolgente avvicendarsi di effimere rappresentazioni sotto l’azione immediata della volontà nient’altro viene a esercitarsi che l’efficacia della relazione categorica causale fra l’intelletto e le cose in sé. Ora, però, a me pare che nell’uno e nell’altro caso la critica di una mancanza, di un’assenza, di un difetto nel criticismo resti pur sempre, in qualche modo, una critica per difetto. E se è pur vero che l’uno, Schulze, si dedicò a evidenziare la pretenziosa vacuità dottrinale delle forme logiche, mentre l’altro, Scheler, cercò di colmare con nuova dottrina il vuoto pressoché completo di cultura antropologica che sta alla base del criticismo (a dispetto degl’interessi manifestati da Kant in questo campo, ma senza la saldatura fra criticismo e antropologia che ci consentirebbe di parlare di ‘kantismo’); con tutto ciò, nondimeno, simili biasimi di ‘formalismo’ non fanno per l’appunto che accogliere e ribadire i limiti contenutistici del criticismo sul piano speculativo: perché difetto di contenuti del criticismo kantiano nient’altro significa che difetto di solide forme; e quest’ultime non possono essere, innanzitutto, valori etici o astrazioni logiche, bensì pregiudizi, ossia esercizi della sensibilità. Sebbene infatti tutti quanti gli a-priori (sensibili, intellettivi, morali) non siano per Kant, come tali, che delle mere forme vuote (secondo la sua nozione della forma), non c’è dubbio che il biasimo concernente i limiti delle possibilità conoscitive (secondo la posizione dello Schulze), o l’assenza di effettivi contenuti delle forme morali (secondo la posizione dello Scheler), finisca per penalizzare in primo luogo proprio le forme della sensibilità e del pregiudizio (che pur si dovrebbero trovare, se esistono), deviando di preferenza l’attenzione verso le forme e i contenuti di natura speculativa o morale, che sono invece proprio quelli prediletti da Kant. Per mostrare l’incertezza del bersaglio polemico dello Schulze (che del resto se la prese con Kant, veramente, attraverso Reinhold), credo possa bastare la lettura del seguente passo dell’Enesidemo: Quantunque lo scetticismo [che io professo] neghi di sapere alcunché sia positivamente che negativamente sulle cose in sé, e sebbene dichiari anche che la ragione filosofica

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1. Analisi tematica   97 non ha ancora dimostrato né stabilito nulla circa i limiti della facoltà conoscitiva umana, tuttavia sa moltissimo attorno alle rappresentazioni nell’uomo; ed è perfettamente d’accordo con i dogmatici, critici e non critici, circa la certezza di tutto ciò che si presenta immediatamente alla coscienza come un dato di fatto11.

Noi apprendiamo così con esultanza, ma non senza sorpresa, che per lo scettico esiste qualcosa capace di mettere d’accordo tutti quanti, e una volta per tutte: la coscienza «immediata» di un dato di fatto. In che cosa poi consista questa immediatezza, se non si tratti per lui di evidenza logica, ossia di evidenza per l’intelletto solo, è cosa che possiamo soltanto arguire. Ma dal momento che qualcuno potrebbe non trovare del tutto evidente che, per esempio, attraverso due punti passi una sola retta, se non a certe condizioni, con l’affermazione dello Schulze noi restiamo veramente certi, in realtà, di una cosa soltanto: dell’immediato «dato di fatto» (com’egli si esprime) che Schulze ha detto quel che ha detto, così come lo ha detto. E questa non è evidenza logica – è evidenza filologica: è insomma, per noi, primato del testo, evidenza intellettuale e insieme sensibile; la quale evidenza testuale non già della distinzione dottrinale fra sensibilità e intelletto, né dell’enunciato autistico del nostro ‘Io penso’, o di simili postulati speculativi, bensì della parola del nostro interlocutore medesimo fa l’atto certo d’inizio del pensiero; mentre poi, ancora al di là di quest’atto, il nostro silenzio nell’ascoltare è unica e ancor più certa potenza e garanzia di effettiva conoscenza12. Espresso in termini di dogmatismo o di formalismo, il biasimo tradizionale distoglie perciò la sua attenzione proprio e innanzitutto dalla sensibilità e dall’estetica. Sembra insomma, parlando di formalismo o di dogmatismo critico, che sia effettivamente possibile formulare un’intera, imponente dottrina della conoscenza a prescindere dalle forme specifiche della sensibilità: la quale rimane pur sempre, anche nei critici di Kant, così come in lui, paradossalmente relegata ad assolvere un indispensabile ruolo preliminare, anziché già dato, finito o finale, come invece vorrebbe il senso proprio della forma. Ma se questo fosse vero, sotto il profilo speculativo Kant avrebbe semplicemente conseguito a dispetto dei suoi critici uno stupefacente successo: ognuno dovrebbe arrendersi dinnanzi all’evidente sufficienza dei suoi ingombranti, e poi venerabili, risultati speculativi sistematici, che dopotutto hanno impresso il carattere prevalente a due secoli di filosofia professionale; e non potrebbe avanzare, per   A cura di Angelo Pupi, Laterza, Bari 1971, p. 133.   Accennerò ancora alla potenza del silenzio e dell’ascolto come fonte prima di conoscenza più avanti, alla nota 129. 11 12

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il resto, altro che obiezioni d’opinione (circa, per esempio, il pratico stile di vita risultante dalla morale categorica, gettando magari una buona volta fra le patenti sciocchezze il dovere che è potere, e simili). Ma resterebbero obiezioni tutto sommato marginali, esterne. Il termine ‘formalismo’, in fondo, è in Kant medesimo sinonimo di quella libertà d’opinione per mera possibilità logica che era praticata dai leibniziano-wolffiani: perché dunque usare il termine anche per lui, che ci sentiva l’arbitrio intellettualistico? Meglio allora, semmai, distinguere il suo intellettualismo dal loro. Lo Scheler volle corredare il criticismo di veri contenuti morali – come se questo fosse possibile senza rimetterlo tutto in discussione. Lo Schulze riassunse infine le sue posizioni sotto l’insegna assai generica di una critica della ragione «teoretica» senz’altro – la quale, però, è sempre esistita come un bisogno naturale non diverso dalla poesia. Se è con un bisogno tanto vago di far della teoria che dobbiamo prendercela, tanto varrebbe tacciare di dogmatismo ogni forma di letteratura: la filosofia non ne è che un genere particolare. Il dogmatismo, il formalismo si perpetuano dunque, di fatto, nel biasimo scettico dell’uno e pedagogico dell’altro. L’uno e l’altro biasimo, malgrado tutto, si rendono in qualche modo portatori sani di una tradizione d’intellettualismo che comincia veramente con Wolff, ma che mette la sua più insidiosa radice e realizza il suo più potente costrutto soltanto con Kant, il quale lo correda di condizioni adatte a sussistere. Kant ebbe così il merito non già di abbattere, bensì, come dirò, di semplificare e di rilanciare a dismisura una tradizione fondandone solidamente l’intellettualismo; e ottenne questo risultato anche suo malgrado, proprio corredando l’attività dell’intelletto con dei vuoti apriori della sensibilità. Formalismo, dogmatismo, scetticismo, pedagogismo, eclettismo, intellettualismo, moralismo, relativismo, agnosticismo, nominalismo, soggettivismo, irrazionalismo, fideismo; e poi ancora, in questo libro, manierismo (non ancora mai usato, per quanto ne so); e così pure attivismo (del quale parlerò nella discussione della Teologia naturale e delle Quantità negative, nella prossima Analisi Cronologica) – e altro, se possibile, ancora: tutti questi termini dossografici sono in qualche modo riferiti in biasimo al criticismo. Per quel poco che valgono, definizioni e dispute terminologiche possono essere utili per trovare ogni tanto un punto di riferimento, o una sponda di contenimento a trattazioni per natura alquanto disperse, come sono le introduttive. Ritroveremo perciò, all’occasione, i nostri ‘-ismi’ come altrettante sintesi a priori di un’esperienza discutibile, com’è quella che stiamo principiando. Il puro e semplice fatto che usando simili termini noi ci si capisca, se vogliamo

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1. Analisi tematica   99

fare in modo da capirci, costituisce un’evidente smentita della dottrina teorica del criticismo, e dei suoi a-priori intellettualistici: prescindendo dagli ‘-ismi’, infatti, nulla affatto si potrebbe mai effettivamente principiare, perché ogni dramma ha bisogno, per iniziare, d’ambientarsi fra delle quinte. *** La stretta fedeltà di Kant alla nozione di causa si presenta con disarmante evidenza in tutta la sua ricerca. Leggendo Leibniz, al solito, di seconda mano, attraverso Malebranche, Kant crede di potergli insegnare che l’equilibrio universale è fondato sulla dipendenza, e non già sul consenso13; e descrive questa dipendenza in termini che non sembrano neppure newtonianamente aggiornati: ossia come un «commercium per causas vere efficientes»14. Kant non prende dalle leggi delle forze gravitazionali ciò che avrebbe potuto farne una manifestazione della libera attività delle sostanze, nonché una conferma matematicamente sondabile della fluttuazione delle monadi nello spazio, o della loro contiguità nella discontinuità, e simili teorie, trovando insomma nella fisica il sostegno ai voli d’una libera immaginazione – no: assecondando, credo, umori di pubblico, preferisce in genere trovare l’unità e la continuità della creazione nella concatenazione degli esseri secondo una libertà che è coscienza di necessità logica ed energetica; per cui il principio di determinazione a priori, criterio d’umana conoscenza, si avvicina il più possibile al principio d’identità che è divina fonte della creazione. Qui egli non riprende Leibniz, è vero, bensì rifà il verso nientemeno che a Spinoza – come infatti è stato notato, non senza un certo entusiasmo ‘di sinistra’ per tutto ciò che suona premonizione del marxismo come inesorabile filosofia della storia, che contagia anche chi dovrebbe esserne immune. Il fatto che certe proposizioni di Kant in questo periodo avrebbero potuto essere sottoscritte anche da Spinoza15 dovrebbe costituire un motivo di perplessità, e un indizio della loro natura teorica alquanto disinvolta, alquanto prensile. È una disgrazia, bisogna dire, e forse anche un destino, che il nostro socialismo giacobino, o azionista, o democratico-radicale di ascendenza robespierrista, non abbia mai saputo dotarsi di una strumentazione teorica autonoma rispetto al marxismo. E anche quando ha voluto combattere l’at13   «Neque tamen praestabilita illa Leibniziana, quae proprie consensum, non dependentiam mutuam substantiis inducit, inde progignitur» (Nova dilucidatio, Carabellese, p. 46). 14   Ibidem. 15   Franco Lombardi in Kant vivo, p. 145.

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trazione esercitata dalle filosofie idealistiche o materialistiche o positivistiche (è lo stesso) della storia, appellandosi a princìpi logici e gnoseologici di ferma unità del pensiero come potenza libera e intatta, non ancora compromessa con sviluppi storici statualistici, autoritari o totalitari, con un ritorno a Kant e, più in là, a Spinoza non ha fatto che risalire a quelli che sono, in realtà, i motori immobili di questi medesimi sviluppi in senso autoritario o totalitario. Bisognerebbe domandarsi, invece, se una legittima ascendenza teorica per la democrazia radicale non andrebbe ricercata proprio in Leibniz. Soltanto più tardi, col tempo, dice Lombardi, Kant si deciderà a sancire «l’opposizione del concetto della umana e morale libertà al determinismo della natura»16. Già – ventisei anni prima della Critica la ragione determinante a priori dell’azione morale si presenta, con la causa efficiente, come una sorta di altra natura, logica e meccanica, strettamente legata al principio d’identità – e dunque come il più semplice rettore fisico e logico dell’universo; ma dove si andrà mai a parare tutte le volte che, in un mondo così concepito, si vorrà porre il problema delle ragioni contenutistiche di una morale che non sia ‘formale’, ossia puramente categorica? Il cosiddetto ‘formalismo’ ha bisogno di un indispensabile corredo di contenuti certi, almeno nell’etica: tant’è vero, che c’è stato chi ha cercato di fornirglielo, questo corredo. Una certezza morale puramente ‘gnoseologica’ non ha mai rassicurato nessuno, perché una logica causale ha dovuto attingere, volta per volta, a termini di scelta del tutto casuali. E i termini casuali di una scelta etica sono sempre quelli, tutt’altro che casuali, presentati da un qualsiasi potere vigente. Sul piano etico del costume e della mentalità il criticismo, lo si sa bene, ha dato vita e giustificazione a intere generazioni di personaggi che si reggono sulla loro moralità categorica come se avessero inghiottito un manico di scopa: i giudizi sulla supponenza dell’ordinario contegno kantiano (così diverso dall’insicurezza del suo creatore!) sono unanimi; ma la sorte di quei personaggi nei momenti decisivi, di crisi e di scelta, è stata nel complesso piuttosto misera: non ce n’è stato uno che non abbia fatto esattamente ciò che facevano tutti, se non peggio – a differenza, semmai, del professor Rath dell’Angelo azzurro di Heinrich Mann. L’etica kantiana del dovere categorico è il lasciapassare che ha consentito agl’intellettuali, ma specialmente al personale amministrativo del mondo della cultura, di attraversare indenne l’esperienza di qualunque regime conservando la dignità del ruolo e la stima per se stessi con la giustificazione abituale di ogni mediocrità militante: “ho fatto il mio   Ibidem.

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dovere”! Con Spinoza, il sogno matematico e il teatro linguistico di Cartesio e di Locke, entrambi soltanto convenzionali, diventano un’ontologia totalitaria; ma col ribellarvisi mediante il ricorso a una morale categorica Kant dimostrò soltanto di non avere saputo raccogliere l’eredità di una cosmologia diversa. Che nella maturità egli abbia sancito l’opposizione dell’umana libertà alla necessità delle cose non resta che un duro e vano auspicio, se questa libertà è categorica, e se la logica categorica resta, da un capo all’altro del suo pensiero, una logica causale. Chi invece nei momenti delle scelte decisive (come nella resistenza all’hitlerismo, per esempio) ha saputo distinguersi davvero, ha mostrato di saperlo fare attingendo alle risorse della propria coscienza religiosa, o della fede ideologica, e non già del moralismo categorico17. Sul piano del costume e della mentalità il criticismo ha costituito una formidabile macchina di consenso e di conformismo degl’intellettuali: ciò deve pure avere una ragione, e questa ragione dev’essere teorica. Del resto, se questa ragione di debolezza del criticismo è soltanto pratica, come credette per esempio lo Scheler, non è sospetto che con l’etica del dovere categorico ci si voglia dotare di una seconda colonna vertebrale? Essa dovrebbe sostenerne un’altra, già minata da uno scetticismo circa la conoscibilità delle cose – e dunque il vero problema sta lì, come riconobbe invece, per esempio, Schulze. A parte quesiti speculativi circa l’effettiva validità della soluzione spinoziana del problema dell’essere, dunque, bisognerebbe piuttosto domandarsi su quali distinti ‘modi della sostanza’ (su quali regimi attuali, effettivamente vigenti, insomma) vadano a precipitare, in ogni occasione di crisi, coloro che, fastum in naso ferentes, portano in giro la propria moralità categorica: perché sul presupposto di una stretta concatenazione causale degli esseri la caduta dai princìpi nella pratica dell’azione e della condotta di vita è, in definitiva, soltanto casuale; e ciascuno obbedisce ai prìncipi che si ritrova. Commette un errore in generale chi, come il Lombardi, crede di dover combattere nel cosiddetto intellettualismo leibniziano i germi del futuro idealismo romantico, trascurando di considerare che quest’ultimo nasce proprio dal seno intellettualistico della critica. Un simile errore va strettamente unito 17   Vale la pena di notare che nella più ecumenica delle storie della resistenza tedesca all’hitlerismo (nella quale, insomma, non c’è tedesco di qualche peso che non abbia bofonchiato almeno una volta contro Hitler) il nome di Kant non ricorre una sola volta (Eberhard Zeller, Geist der Freiheit – Der Zwanzigste Juli, Gotthold Müller, München 1963). Il solo Gerhard Ritter ne fa il generico ispiratore di Carl Goerdeler, insieme con tutto il liberalismo specificamente tedesco degli Humboldt, degli Stein, Dahlmann, Droysen, e di tutti «gli altri uomini di carattere della Paulskirche» – il che non significa certo elevare il ruolo di Kant come filosofo! (I cospiratori del 20 luglio 1944. Carl Goerdeler e l’opposizione antinazista, Einaudi, Torino 1960, p. 5).

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(tanto, da esserne risvolto o complemento) con l’errore di chi d’altra parte, più kantiano di Kant, vuol vedere nella critica lo spauracchio d’ogni metafisica dogmatica: fingendo d’ignorare che la critica può essere facilmente tratta (al di là delle sue intenzioni, che sono legittimatrici, semplicemente, di rette opinioni sull’invisibile) a proporsi di fondare saldamente una metafisica ‘scientifica’ – ossia la negazione di se stessa come pura letteratura, poetica e retorica, quale la metafisica è sempre stata; e che può ben diventare, così ben ‘fondata’, un potenziale flagello dei popoli. Sotto questo profilo, Kant volle fare con la metafisica esattamente ciò che Marx volle poi fare col socialismo scientifico. Riscaldarsi per Spinoza, a ogni modo, significa dimenticare che i biasimi e le integrazioni al formalismo kantiano sono sorti, per lo più, dal bisogno di dotare moralità e conoscenza di contenuti finiti; e allora non si può dimenticare che in Spinoza i modi finiti della sostanza procedono da un’assai nebulosa dottrina dei modi infiniti. Un certo formalismo è dunque sempre inevitabilmente insito in quello che è uno dei massimi problemi della filosofia d’ogni tempo, e in altri simili; mentre un certo dogmatismo è già insito nella riformulazione terminologica del problema cartesiano del dualismo sostanziale, così come, del resto, in ogni riformulazione terminologica o convenzione linguistica adatta a persuadere la mentalità d’ogni epoca. Un’accidentata dottrina dei modi finiti immessi o trasmessi nel pensiero da un’infinita causa prima si trova già nella terza delle (altrimenti limpide) Meditazioni cartesiane18. E così deve sempre accadere, ogni volta che si viene alle prese con qualcuno dei sommi problemi filosofici – se non anzi, forse, il sommo fra tutti. Il ‘formalismo’, allora, non è altro che un topos o una categoria generale della storia della dommatica filosofica, al quale Kant non poteva certo sfuggire. Si potrebbe dunque muovergli soltanto il debole rimprovero di non aver voluto o saputo avventurarsi sui malsicuri terreni che avevano già ospitato i tentativi alquanto impacciati di assai più illustri predecessori. Considerato l’uomo, non sarebbe generoso. Per dotare invece la trattazione di un qualche risoluto punto d’inizio, che non sia storia di storia d’altra storia, mi basterà qui parlare di ‘manierismo’: a cominciare, per esempio, da quella teoria della repulsione fra le sostanze enunciata nella Monadologia physica che giunge, un anno dopo la Nova dilucidatio, a completare l’operazione di conciliazione fra Leibniz, Newton e Cartesio iniziata sin dalle Forze vive: il raggiungimento del punto di equilibrio tra   Oeuvres de Descartes, a cura di Charles Adam & Paul Tannery, Vrin, Paris 1996, ix, pp. 40-43.

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1. Analisi tematica   103

due forze gravitazionali, ossia il luogo geometrico delle relative accelerazioni lungo un’orbita, viene interpretato come effetto di una nuova forza, la forza di repulsione, opposta alla forza d’attrazione. E ancora la fiducia nell’esistenza di questa forza viene ribadita una decina d’anni dopo, nei Sogni, mentre la dottrina della sostanzialità dello spazio uscirà riconfermata di lì a poco, col Primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio. Tutti questi scritti mostrano come l’abilità nel destreggiarsi senza esperienza alcuna con teorie altrui non andasse in Kant disgiunta da (diciamo così) una certa inventiva alquanto pedissequa: sorgente in definitiva dal fatto di non sapere ragionare se non in termini sostanziali, ossia tali da associare a ogni manifestazione l’azione di una forza e di una sostanza specifica, che agisca come causa produttrice di un effetto. Non siamo alla virtù dormitiva del papavero, ma poco ci manca. Dico che questa sua inventiva fu alquanto pedissequa perché è noto che nell’argomentare la sua fisica dei corpi e dello spazio egli tenne d’occhio soprattutto le dottrine del suo maestro Knutzen, così come, in genere, le posizioni dei suoi vicini contemporanei. Il distacco sul finire degli anni Sessanta dalle dottrine newtoniane non ha nulla di misterioso: e si spiega, probabilmente, con una migliore conoscenza di Leibniz. Così tutta la sua evoluzione cosiddetta precritica si presenta, nell’insieme, come un itinerario governato non già da una sicura ispirazione, o da una precoce intuizione strettamente personale, che egli abbia seguita come una vocazione (cosa che, del resto, egli non mostra o confessa mai d’avere avute); bensì dall’azione di un insieme d’influenze e di circostanze su ambizioni senza vero talento, con le quali egli seppe attingere ai materiali offerti dalla tradizione più prossima. Ma lasciando insomma andare, dopo tutto, ogni obiezione riguardante il possibile aggiornamento cosmologico del ruolo logico di quel ferrovecchio che è la causa efficiente; e lasciando andare anche il ricorso dei critici di Kant, per descrivere il nesso fra conoscente e conosciuto, a questo medesimo ferrovecchio; e prendendo insomma le cose così come sono, diciamo in due parole che ammettere quel nesso causale sul piano categoriale, proprio così com’è nella prima Critica, significa smentire ogni necessità d’inversione della relazione fra soggetto e oggetto – ossia l’inutilità dell’invito a effettuare una rivoluzione, copernicana o piuttosto socratica, della quale non v’è effettivamente alcun bisogno. Negare, viceversa, l’efficacia di un nesso causale fra la cosa in sé e il soggetto, e giudicarla impossibile, significa, d’altra parte, pretendere di costruire edifici logici semplicemente sul nulla – facendo dell’eticità assoluta, per compensazione, l’armatura esterna di tutto un formidabile cavalierato inesistente, in lotta perpetua contro la barbarie dello scetticismo – ma dopo

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averlo seminato. Tanto nell’uno, come nell’altro caso, dunque, intorno alla possibile sussistenza di un efficace nesso causale in sede gnoseologica scaturiscono inevitabilmente i biasimi del dogmatismo e del formalismo – non senza, direi, l’aggravante del moralismo. Ora, bisogna però anche aggiungere che (se si eccettua il moralismo) questi torti, in sé e per sé, non sono affatto dei torti: dogmatismo e formalismo non sono altro, da sempre, che la libertà e l’innocenza poetica del pensiero. Ma come in questo studio si vedrà, io sostengo precisamente questo: che con una sua certa mediocrità di spirito Kant ha finito per sopprimere ogni poesia nel pensiero; e che lo ha fatto proprio nell’unico modo plausibile: appellandosi cioè ai requisiti preliminari della sensibilità che sono invece, di solito, proprio il pascolo della poesia. Del resto, le monadi leibniziane nient’altro sono, l’una per l’altra, che cose in sé; e su di un presupposto d’inconoscibilità reciproca nient’affatto diverso dal kantiano, dunque, Leibniz aveva tuttavia saputo tessere le sue fiduciose non meno che rigorose divagazioni. I sarcasmi realistici sul migliore dei mondi possibili, poi, dipendono soltanto da una malintesa intelligenza della nozione di possibilità19. su di un profilo stilistico Il primo giudizio che va dato sulle opere di Kant è un giudizio di stile. Leggendolo, si ha frequentemente l’impressione ch’egli desideri sfuggire al lettore ogni volta che lo sente troppo vicino, e pronto a giudicarlo sollevando una qualche obiezione. La sua prosa si fa in certi casi girovaga o claudicante, e priva di basi intuitive sicure. E la lettura dei suoi primi scritti, in particolare, comunica l’impressione di un trentenne, il quale sembra avere avuta la disgrazia di non essere mai stato giovane. Lo stile della sua prima prosa non trova poi smentite nella maturità e nell’età avanzata – anche se noi dovremo constatare che ogni sorta d’intemperanze s’andò a raccogliere sotto la sua parrucca in un argomentato disordine. Così con Kant noi dobbiamo subito accingerci a fare i sarti, i parrucchieri e i calzolai, anche nostro malgrado, quando lo vediamo incedere su dei coturni, mettendo un passo avanti all’altro con qualche pretesa di disinvoltura. Sono le scarpe del metafisico ch’egli vuole calzare sin dallo scritto d’abilitazione, non quelle del contadino che debba rivoltare da capo a fondo il campicello avìto in cerca d’un tesoro, servendosi (ma ci sarà ancora   Ne riparlerò più avanti, dopo la nota 100.

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1. Analisi tematica   105

qualcuno che ne abbia la voglia? si domanda) del «celebre artificio» leibniziano20. Nel 1755, a trentun’anni, Esopo e i celebri artifici fanno già parte delle sue sintesi a priori – ma Kant non ha ancora bisogno di fingere, criticamente, di non conoscerle. In compenso farà di tutto per dimenticarsene, continuando per cinque lustri a parlare in prosa prima di annunciare, con la Critica, d’avere scoperto l’alfabeto. E mi riferisco, con quest’ironia, al problema che nella storia della filosofia viene formulato a cominciare dal Teeteto, circa l’inconoscibilità degli elementi primi del discorso, come le singole consonanti, che «hanno soltanto suono, ma nessuna ragione affatto»; e circa il valore conoscitivo originario, invece, della sillaba: la quale «non è gli elementi, ma una certa specie unica generatasi da essi, avente di per sé un’idea unica sua propria, ma diversa dagli elementi [singoli di cui si compone]»21. Mi si perdoni dunque l’ironia, e diciamo subito, tanto per capirci, che ogni nostra conoscenza attinge, sin dai primi passi, a caratteri complessi quali sono le forme date. La loro definibilità deve avere un limite; e oltre questo limite non vi sono che esperienza empirica, muta intuizione, percezione indistinta, senso comune, da cui neppure la matematica può prescindere: esperienza degli elementi, intuizione delle forme, senso comune circa l’uso analogico o traslato, figurale, delle forme – e percezione indistinta d’ogni cosa. ‘Comune’ non sta in alcuna contraddizione con ‘traslato’ o ‘figurale’, e non significa affatto ‘inferiore’ (secondo un ricorrente pregiudizio), bensì semplicemente ‘tràdito’, o assunto senza discussione. Ogni scolaro conosce il quinto postulato di Euclide sulle rette parallele, senza che esso si possa perciò considerare una nozione d’ordine inferiore, né empirica – al contrario: dacché si sa che la terra è rotonda sono proprio le nozioni di piano e di retta aperta o infinita che richiedono una dimostrazione, e che si rivelano come delle pure astrazioni, o dei casi-limite. Dovrò riparlare di questa concretezza delle geometrie non-euclidee, a proposito della loro pretesa anticipazione kantiana22. Comune o no, ogni conoscenza d’ordine superiore deve dunque presupporre la natura originaria delle forme; e la loro idoneità all’uso dev’essere verificata accompagnando la definizione con la costruzione, e l’analisi della forma, ricondotta ai suoi elementi primi, con la sintesi di questi elementi. Analisi e sintesi, definizione e costruzione, esperienza e intuizione, inseparabili, non sono che letteratura delle forme; e la letteratura diventa in tal modo sostanza d’ogni cosa di cui possa svolgersi un discorso spiegato e discutibile, ossia do  Nova dilucidatio, Carabellese, p. 8.   201e-203e. 22   Nella seconda sezione del Profilo Esemplificativo, in questo stesso capitolo. 20 21

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106   parte prima. avanti «la critica»

tato di una giustificazione razionale (dove ‘razionale’ significa semplicemente: comunicabile). Un problema mal posto sulla base di distinzioni arbitrarie, che diventano separazioni insostenibili e mal riaccomodate; una riduzione delle forme sillabiche, sonore, del pensiero a elementi muti, inarticolati e non ricostruibili; un continuo attingere occasionalmente e allusivamente al patrimonio del pensiero recente come a una riserva o a un magazzino di libero accesso e agibilità; tutto ciò, e altro ancora, imprime a una trattazione i caratteri dell’intellettualismo. Sono cose sulle quali tornerò di frequente, e che non richiedono una più estesa giustificazione preliminare. Per cominciare, dunque, teniamo unito il discorso esercitandolo concretamente sul corpo vivo di un testo, e sottoponiamo a esame uno dei primi scritti di Kant, la tesi d’abilitazione, per farne un solido punto d’avvio. L’analisi andrà poi spaziando liberamente sui primi scritti metafisici, allargandosi a ventaglio su dei temi, prima di restringersi di nuovo, nell’Analisi Cronologica, sugli scritti mediocritici ed effettivamente precritici. L’uso di questi ultimi termini è meramente pratico, e non implica alcun pregiudizio riguardo ad alcuna dottrina di sviluppo del pensiero, o di classificazione degli scritti: perché il lettore vedrà ben presto, sin dalla trattazione della sezione di paragrafo che viene immediatamente ad aprirsi, come già nella tesi d’abilitazione sia possibile rintracciare testualmente nientemeno che il presupposto realistico fondamentale della Critica, oltre alle coordinate principali dei suoi postulati sensibili. *** Cominciamo con la logica. I coturni sui quali Kant incede nella Nova dilucidatio sono i due princìpi classici della verità: la quale non può averne giammai uno solo, «assolutamente primo totale», o se si vuole anche «ultimo totale» – anzi, no: il principio è proprio uno solo, egli soggiunge, ma distinto in due formulazioni le quali, «prese insieme entrambe complessivamente» sono dette principio d’identità. L’ingresso del giovane Kant non è decisamente dei più sicuri – ma egli non ha ancora finito d’incespicare: perché a meglio considerare le cose il principio d’identità va effettivamente assunto come il primo principio, dice – anche se il capitolo dedicato alla trattazione è intitolato, invece, al principio di contraddizione, sebbene sin dalla Prefazione egli si proponga di smentirne il primato. Si ha effettivamente troppo spesso l’impressione ch’egli facesse economia di carta, ma non d’inchiostro, spingendosi continuamente innanzi e invertendo la direzione del discorso.

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1. Analisi tematica   107

Il principio d’identità, insomma, resta per lui il primo principio logico universale, e recita: «ciò che è, è» – solo, che esso si applica non già a ogni argomentazione affermativa, come potrebbe sembrare, bensì a ogni argomentazione «diretta»; mentre il principio di contraddizione (che recita, secondo lui: «ciò che non è, non è»; ma si tratta ancora, evidentemente, del principio d’identità riformulato: di qui nascono le sue incertezze) funge non già da criterio per le negazioni, bensì per ogni argomento «indiretto». Se i principi sono due, benché uno solo in due formulazioni, nonché un primo e un secondo in due distinti ruoli paralleli, o anzi complementari, basterà guardare bene «sotto» al principio di contraddizione per scoprire, alla fin fine, che si tratta pur sempre dello stesso principio d’identità in una duplice formulazione. Tutto ciò Kant riesce a dire in una mezza pagina, fra le prime che si presentano al lettore – non senza avere annunciato nella Prefazione di volersi avventurare «su un cammino mai prima percorso»23. Bontà sua: mai prima percorso da lui stesso, avrà voluto dire. Ma di lì a poche pagine il principio di contraddizione, sancito anch’esso in una duplice formulazione, tornerà a rioccupare il ruolo supremo del governo logico per le ragioni che presto vedremo24. Con Kant, contrariamente a quel che ci s’immagina, occorre fare l’abitudine alle sorprese; e nel corso di questo libro vedremo che esse non mancano davvero. È ben noto che l’autore dei primi scritti (e soprattutto, in generale, di tutti gli scritti con finalità accademica) è un uomo, secondo i commentatori, ‘unitario’, ossia conciliatore di posizioni opposte; e questo spiega il suo mettere un passo innanzi all’altro, come a saggiare la praticabilità di una linea di sutura fra scuole, dottrine e discipline. Negli scritti ufficiali, specialmente, non dovette mai sembrargli conveniente schierarsi; e in ogni circostanza, anche a cominciare da questa dissertazione, noi lo vedremo destreggiarsi e riprendere tacitamente vecchie strade non appena abbandonate, come rientrando ben presto per un’altra porta nella sua città, dopo esserne baldanzosamente uscito per un breve giro di mura. A dispetto di certe esclamazioni, da timido irrequieto, le sue pretese, del resto, non sono grandi. I due nuovi princìpi che la Nova dilucidatio intende sancire non sono i venerabili princìpi originari d’identità e di contraddizione, bensì i due nuovi princìpi di successione e di coesistenza, che sebbene meno famosi sono però, in compenso, più adatti all’uso25. Sono principi pratici, insomma, i suoi, del tutto conformi a una tipica vocazione teorica minore; e la trattazione del problema logico del principio   Carabellese, pp. 5-7, 4.   Ivi, p. 9. 25   Ivi, pp. 3-4. 23 24

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108   parte prima. avanti «la critica»

di ragione determinante o sufficiente stravaga infatti a un certo punto (con una delle sue caratteristiche modulazioni improvvise, non appena gli accade di sentire una nota o una consonanza morale, che gli sembra dominante sulla tonalità logica), nel problema teologico della predeterminazione del giudizio divino, ossia della predestinazione e della libertà. Ci sono evidenti fenomeni d’incontinenza, nel suo stile prosastico, che contrastano singolarmente con la compunzione del personaggio ch’egli ebbe la vanità di cucirsi addosso; e che sconsigliano decisamente l’uso dei suoi scritti (tutti quanti, nessuno escluso) a chi voglia apprendere a ragionare con ordine e chiarezza, se non creda di saperlo già fare da sé. È con una certa nostalgia che si ripensa alla piacevole lettura di un’opera come il De libero arbitrio di Lorenzo Valla, per esempio, durante lo svolgimento del dialogo contenuto nella Proposizione Nona di questo lavoro d’abilitazione. Prima ancora dell’argomento teologico, del resto, esso si giova d’un incongruo argomento cosmologico fin dalla Proposizione Quarta, allorché le eclissi dei satelliti di Giove vengono scomodate per esemplificare la diversa validità del principio di ragione determinante. La concretezza degli argomenti è ciò che Kant in tal modo cercava, evidentemente, per uscire dall’irrespirabile clima intellettualistico nel quale si trovava immerso; ma egli non disponeva d’alcuna vera risorsa teorica e scientifica per assecondare questo suo bisogno; né, d’altra parte, giudicò accademicamente conveniente muoversi in una direzione precisa, come dimostra l’uso disparato e disinvolto degli autori che scomoda e riaccomoda a suo piacere. Così egli dovette inventarsi uno stile, una retorica, praticando una sorta di manierismo nell’attingere coi suoi riferimenti agli autori e alle scuole, e ricadendo poi sempre nell’intellettualismo con l’argomentare retoricamente gli svolgimenti logici. Senza disporre di scienza alcuna Kant cominciò così a creare la scienza delle scienze, e senz’arte né mestiere dette vita all’arte dell’arti, e al mestiere dei mestieri. Vediamo dunque un saggio precoce di questo suo stile. Quanto alla logica dei famosi princìpi maggiori (diciamo così) d’identità e di contraddizione, la loro fisionomia viene alterata facendoli traslare verso il principio di ragione determinante attraverso le nozioni di possibilità e d’impossibilità: «Il principio di contraddizione, espresso dalla proposizione: è impossibile simultaneamente essere e non essere, non è, di fatto, che la definizione di impossibile; si definisce infatti impossibile ciò che contraddice se stesso, vale a dire che s’immagina simultaneamente essere e non essere»26. Presentandosi come impossibilità, la   Ivi, p. 9.

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1. Analisi tematica   109

contraddizione cessa d’essere una relazione puramente logica, e si espone alla prova della realtà, ossia della determinazione: ciò ch’è logicamente contraddittorio lo è sempre, mentre ciò ch’è impossibile simultaneamente può non esserlo successivamente. È facile capire che si tratta di cose diverse: l’essere di una cosa contraddice sì il non-essere di quella cosa, ma non la rende perciò impossibile; né l’essere di quella cosa è la sua semplice possibilità. I princìpi d’identità e di contraddizione ruotano effettivamente in due formulazioni autofaghe, dalle quali non s’esce verso alcunché di reale o di determinato; ma è pur vero, d’altra parte, che interpretandoli secondo la nozione di possibilità, diventa lecito introdurre un giudizio realistico: ciò che è, è attualmente possibile; ciò che non è, non è attualmente possibile – ergo: è una mera possibilità. Leibniz si sforzò sempre d’interpretare il principio di ragion sufficiente nel senso della prima di queste due formule: ossia come una giustificazione razionale dell’esistente che non prescinde affatto dall’esperienza – al contrario; Wolff si dedicò invece piuttosto allo sviluppo della seconda deduzione. Se il principio di contraddizione viene fatto coincidere con l’impossibilità, il principio d’identità deve venire a coincidere con la pura o mera possibilità logica, ossia con la ragione affatto ipotetica, immaginaria, dell’essere; e dall’autofagìa dei princìpi si esce in tal caso non già attraverso la realtà dell’essere, bensì attraverso la realtà del non-essere, ossia con gli a-priori di un’impossibilità attuale ch’è tuttavia possibilità potenziale. Destreggiandosi fra simili alternative, Kant mostra una certa tendenza a preferire la seconda, e a riformulare il principio di contraddizione secondo le varianti formulari del principio d’identità, come subito vedremo. In simile traslazione dei princìpi resta celato un vizio d’intellettualismo, che tende a trascurare il piano ontologico dell’essere identico in tutto (anche in realtà) a se stesso, a favore del piano logico dell’essere identico al se stesso meramente possibile. E la possibilità di una cosa viene interpretata (secondo il decadimento wolffiano della lezione leibniziana) in un senso del tutto separato dall’esperienza. L’esigenza realistica continua nondimeno a farsi sentire con una certa efficacia – non tanto sul piano logico, però, quanto sul piano teologico-morale, come vedremo più avanti. In ragione della sua vera, o supposta, maggiore versatilità, è comprensibile che il principio di contraddizione riacquisti assai presto quell’imperium (!) nella logica, che con varie vicende gli è stato in precedenza negato a favore del principatum (!) del principio d’identità. La Proposizione Terza s’intitola: «Per tener fermo al primato [principatum] del principio d’identità nell’ordine delle verità, stabilirne ulteriormente la priorità [praeferentiam] rispetto al principio di contraddizione»; e nello spazio di due soli capoversi essa culmina invece

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110   parte prima. avanti «la critica»

nell’affermazione, secondo la quale il principio d’identità (ma riformulato in termini di contraddizione: ciò, il cui opposto è falso, è vero – nientemeno!) «condivide con il principio di contraddizione il ruolo di principio supremo [cum principio contradictionis divisum habet imperium]»27. Anche la terminologia politica è significativa della gerarchia di fatto che si viene a stabilire nella città logica, dove sembra che le rivoluzioni siano all’ordine del giorno. Ma la cosa non è affatto priva di senso. Se infatti il principio di contraddizione non consiste, da un lato, che in una riformulazione del principio d’identità, mentre dall’altro non è, a ben vedere, che il criterio per giudicare dell’impossibilità d’una cosa, ossia della possibilità del suo contrario, è evidente che esso è in grado di assumere sotto di sé ogni criterio di giudizio: dell’essere e del non essere, come del possibile e dell’impossibile, come del determinato e del sufficiente. Il principio di contraddizione, non il principio d’identità, è il vero criterio basilare della logica di Kant. E se il principio d’identità s’era già espresso in due formulazioni, alla seconda delle quali (ciò che non è, non è) il principio di contraddizione in definitiva si riduceva, apprendiamo ora che un analogo privilegio compete al medesimo principio di contraddizione: il quale, per essere del tutto sufficiente, non si può riformulare come ciò, il cui opposto è vero, è falso, senza aggiungere ciò, il cui opposto è falso, è vero. *** Poiché è di uno stile che parliamo, e di cose non prive di ‘senso’, il lettore mi scuserà se cerco di spiegare brevemente questo modo di ragionare servendomi di strumenti estemporanei della sensibilità. Mi riferisco a ciò che Arnold Schönberg afferma, in alcune pagine del suo Manuale d’armonia, circa il sistema di potere che si viene a creare con la modulazione musicale, e circa le relazioni gerarchiche sussistenti fra i diversi gradi di una scala tonale: L’idea di concludere un pezzo con lo stesso suono con cui si è incominciato è indubbiamente in parte esatta. Infatti la [nota] fondamentale... ha un certo predominio sugli elementi che da lei nascono per il solo fatto che le sue principali componenti, essendo derivate dalla sua magnificenza, sono per così dire i suoi satrapi e i suoi paladini: Napoleone mette sui troni europei i suoi familiari e i suoi amici. Penso che questo dovrebbe bastare a giustificare l’obbedienza al volere della fondamentale, intesa [quest’obbedienza] come gratitudine verso la genitrice, e [a giustificare] la dipendenza da lei, che è l’alfa e l’omega di tutto. Finché non subentra una diversa morale, questa legge va rispettata: ma, appunto, le cose possono cambiare. Ammettiamo che il signore supremo si indebolisca e che i suoi   Ibidem.

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1. Analisi tematica   111 sudditi acquistino forza – cosa che in armonia avviene fin troppo spesso. Ma non è necessario che il conquistatore diventi un dittatore e nemmeno che la tonalità debba quindi dipendere da un suono fondamentale, anche se ne è stata dedotta. Anzi, la lotta di due fondamentali per conquistare il predominio, come dimostrano alcuni esempi dell’armonia moderna, ha qualcosa di attraente; e se la lotta termina con la vittoria di uno dei due suoni fondamentali, non è detto che anche questo debba essere indispensabile28.

No, infatti, non è indispensabile: tant’è vero che dopo avere iniziato sulla tonalità del principio d’identità, Kant finisce per sancire la condivisione del potere col principio di contraddizione. La modulazione logica non è tuttavia senza rischi e senza perdite – non diversamente da quanto accade in musica, del resto. È di nuovo Schönberg a spiegarlo: Restano ora [da trattare] le successioni alla quinta e alla terza sopra, che chiamo successioni discendenti. Eccone la descrizione: nel salto alla quinta sopra, un suono che prima aveva un’importanza relativamente subordinata diventa fondamentale. La quinta, ultima arrivata, è promossa fondamentale: ecco un fenomeno di decadenza. Si potrebbe obiettare che questa promozione testimonia della forza di un suono nuovo, e che la fondamentale viene qui superata. Ma la forza dell’ultimo arrivato consiste qui soltanto nel venir meno della forza della fondamentale, in un cedimento voluto a cui la fondamentale consente, per così dire, solo per dabbenaggine, dal momento che essa già contiene in sé la quinta: il leone fa amicizia con la lepre!29

Fa un certo effetto, bisogna dire, incontrare talvolta uno Schönberg così fedelmente conservatore del prestigio gerarchico della tonalità. Sebbene non altrettanto schietto, né immaginoso (perché non era nella sua natura), il più rivoluzionario fra i due è proprio Kant, che inverte il grado di prestigio fra i due princìpi logici. E come tornerò a dire più volte, quella della modulazione discendente, oppure della scelta del tono minore, è una delle note più caratteristiche dello stile kantiano. Giova dunque l’analogia con la musica, e la metafora ha i suoi riscontri. È un’arte logica e dialogica del contrappunto e della fuga quella che Kant pratica con imperìta disinvoltura in simili, assai frequenti svolgimenti: i quali altrimenti, anche senza pensare a Bach, resterebbero del tutto incomprensibili. Ciò, naturalmente, non li nobilita, né li scusa, 28   Arnold Schönberg, Manuale d’armonia, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. i, pp. 158-159. I riferimenti alla filosofia politica nel Manuale sono piuttosto frequenti. Vedi per es. p. 96: fra due suoni che tendono al predominio tonale, come il i e il v grado, prevale talvolta il iii; e «in questo caso i litiganti sono gli europei (corrispondenti al i e v grado), che si dilaniano tra loro, in pro della sottodominante (Giappone), della mediante (America), o di qualche altra forza mediatrice della civiltà». Il Manuale è del 1911, e fu riscritto nel 1921. 29   Ivi, p. 148.

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112   parte prima. avanti «la critica»

assolvendolo dagli spropositi sulla musica consegnati a qualche pagina della terza Critica. Non è la musica in questione, bensì un comune schema o un’intuizione della forma del potere, ai quali fanno ricorso tanto il filosofo quanto il musicista. Nella sua Poetica della musica Stravinskij, per esempio, descrive la modulazione musicale come un’attraversamento di campi gravitazionali, o come un’attrazione verso centri di convergenza30; e l’etnomusicologo Curt Sachs descrive la modulazione attorno a una nota centrale come un volo di farfalle attorno a un fiore31. Al senso delle forze forti si oppone, in esempi come questi, con il relativo corredo d’immagini, il senso delle forze deboli: ossia di quegli schemi comuni e d’ordine superiore, complesso, che sono per noi altrettante innumerevoli sintesi a priori, e che Kant pretenderà di ricercare o di ricostruire con lo stabilire una dottrina trascendentale degli elementi. Ma attraverso le rapide modulazioni prosastiche della Nova dilucidatio noi riusciamo già a scorgere una città logica governata dal principatum del principio d’identità e dall’imperium del condominio di potere – nel quale, in verità, il principio d’identità sembra detenere una presidenza puramente onorifica, mentre il principio di contraddizione esercita l’effettivo governo. Vedremo molto più avanti, nella Parte Seconda di questo libro dedicata alla Critica, come questa città sia agitata da continui tumulti, e come una ragione pura, impotente a governarla, debba rivolgere un appello di legittimità pratica a una salda Ragione superiore. L’idillio logico, sulla tonalità minore della lirica di concetti, non è destinato a durare. *** Al lettore che voglia a ogni costo diffidare dell’uso discorsivo, analogico e sensibile, del commercio tra le discipline, che s’è or ora praticato, va detto che non manca, in questa logica della Nova dilucidatio, un barlume realistico (non metaforico, non analogico) di sensibilità: perché ciò che non è vero oggi può esserlo domani, e nella formula del principio di contraddizione (‘è impossibile simultaneamente essere e non essere’) devono perciò entrare i presupposti indispensabili dello spazio e del tempo. Ma è come dire che il principio di contraddizione può e deve ammettere a condizione della sua esistenza, accanto al principio d’identità, anche le due dimensioni della sensibilità, che daranno una base alla Critica insieme con le forme dell’intelletto. Il principio di con  Igor Stravinskij, Poetica della musica, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1987, pp. 23, 27.   Curt Sachs, Le sorgenti della musica, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 189.

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1. Analisi tematica   113

traddizione, insomma, ‘ha un senso’ logico, mentre il principio d’identità è logica ‘senza senso’. Non sono proprio sicuro, tuttavia, che a Kant quest’interpretazione della sua predilezione logica, che ho dedotta dal suo pensiero giovanile, sarebbe piaciuta: perché il tempo, insieme con lo spazio, non gli serve qui (diciamo così) come una ‘Critica in nuce’; bensì gli serve, in realtà, soltanto per sancire i prediletti princìpi, più pratici e utili, più a lui congegnali, di coesistenza e di successione. Il tempo non è, in generale, che concatenazione causale32; ma quando si tratta di liberarsi di Crusius per tornare a Dio esso è anche «ratio actualitatis», ossia massima determinazione e contingenza, alla quale deve contrapporsi una «ratio veritatis» assolutamente necessaria, secondo il classico argomento a contingentia33. Il tempo è nemico di Dio, così come di chi voglia attingere alla Sua infinita intelligenza che non sopporta i limiti d’una cieca efficacia naturale; il tempo è dunque nemico del dotto: il quale non cerca la sua libertà nell’attualità contingente, ignara di disegni e di sviluppi, bensì (non diversamente da Dio stesso), nei motivi dell’intelligenza (motiva intelligentiae), nelle ragioni dell’intenzione e delle sue inclinazioni spontanee (rationibus [non] extra subiecti appetitum et spontaneas inclinationes positis), nell’àmbito della propensione del volere e dell’appetire (in ipsa volitionum appetituumque propensione), nella volonterosa obbedienza ai determinatissimi allettamenti delle sue rappresentazioni (allectamentis repraesentationum)34. Passiamo così dallo stile nella logica allo stile nella teologia. Se noi non conoscessimo Kant nemmeno per sentito dire (se Kant non fosse già una nostra sintesi a priori, insomma), una lettura ingenua di queste ultime parole potrebbe addirittura entusiasmarci: perché la libertà dell’uomo sembrerebbe fatta nientemeno che della volontaria realizzazione della sua integrità antropologica, o del suo complessivo sentire – sarebbe nientemeno che la libertà del ribelle, e del goethiano Götz von Berlichingen, che è nemico del tempo perché vive in un perpetuo presente. Basta rileggere il passo: motivi ragioni intenzioni inclinazioni propensioni appetizioni allettamenti rappresentazioni – non manca nulla, come si vede; e con una lettura soltanto un poco più scaltrita noi potremmo distinguere le più nobili e poetiche rappresentazioni (la nostalgia per la tavolata signorile d’altri tempi, la guerra al turco d’una Europa unita e pacifica, la fedeltà immediata all’imperatore, per esempio, che riempiono 32   È l’argomento di Caio: chi mi rimprovera i miei vizi, concatenati a ragioni remote, dovrebbe fermare il tempo; e Tizio lo concede (Carabellese, pp. 24-25). 33   Ivi, p. 21. 34   Ivi, p. 23.

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114   parte prima. avanti «la critica»

l’immaginazione di Götz) dalle più spicce appetizioni verso le donne il vino il bel canto, e magari anche verso la roba altrui. Ne verrebbe fuori una libertà ricercata sui pascoli della poesia e dell’immaginazione, nient’affatto intellettualistica, e anche non poco leibniziana, in verità: una libertà da sognatori che ha una ricca e deprecata tradizione in terra tedesca. Anche dopo distinti e tolti gl’impulsi passionali più spicci, che farebbero (e faranno) il personaggio, ciò che comunque resterebbe della libertà di questo ‘uomo rappresentativo’ del giovane Kant sarebbe davvero non poco. E invece no – ciò che abbiamo dinnanzi non è un precoce manifesto di libertà. Non passa attraverso i gradi di una sensibilità resa più eletta nell’immaginazione (la nostalgia, il vagheggiamento, che fanno di passato e futuro l’eterno presente dell’uomo libero, insofferente allo spazio e ribelle al tempo, come Dio è infinito ed eterno), non passa di qui il bisogno di libertà che si esprime nelle parole del giovane Kant; bensì passa attraverso le spontanee appetizioni umane: le quali non sono, secondo lui, che quei motiva intelligentiae che fanno la libertà di Dio, e che devono fare «parimenti» (ita etiam) la libertà dell’uomo. Se inclinazioni propensioni appetiti allettamenti e (forse) anche rappresentazioni fanno la libertà di Dio simile a quella dell’uomo, le ragioni dell’intelletto fanno divina la libertà dell’uomo. La decisione delle azioni umane è libera in quanto le loro ragioni «sono prodotte esclusivamente da motivi dell’intelletto applicati alla volontà (per motiva intellectus voluntati applicata)», mentre le azioni brute sono meccanicamente conformi a sollecitazioni e a impulsi «esterni»35. Oltre all’uso retorico risolutivo della nozione di ‘esterno’, che avrà grande fortuna nella Critica, e che qui serve a spogliare la libertà di ogni autentica motivazione impulsiva, si noterà poi, in questo giudizio, la ricca superfetazione terminologica (quanto mai ‘esterna’!): la quale fa della volontà un’applicazione dell’intelletto, il quale ha dei motivi, i quali producono le ragioni, le quali giustificano la decisione di compiere delle azioni. È quanto mai lunga la strada che dalla volontà porta all’azione; e quest’ultima è tanto più virtuosa quanto più la sua giustificazione è tortuosa. Kant, a ogni modo, riesce effettivamente a intricare insieme in una specie di teoria (che non sa, né mai saprà, essere dottrina) almeno tre, e anzi quattro esercizi della libertà: 1) la libertà impulsiva, per inclinazione intenzione propensione disposizione àmbito appetizione della volontà; 2) la libertà seduttiva, per allettamento della volontà mediante una rappresentazione; 3) la libertà intellettiva, per applicazione alla volontà dell’intelletto; 4) la libertà discipli  Ivi, p. 24.

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1. Analisi tematica   115

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nata, vale a dire possibile soltanto nel contesto di un mondo continuamente ordinato al meglio, anche attraverso il castigo del male: Infatti la compensazione [compensatio] consistente nel riportare al meglio quegli stessi mali ch’erano stati permessi [quorum licentia facta erat]; la compensazione che Iddio con strenuo affanno [strenua allaboratione] s’industria di realizzare ammonendo minacciando invitando fornendone i mezzi [media suppeditando]; [questa compensazione, dunque] è appunto il fine a cui mirava il divino architetto: il quale si è così mostrato odiatore di ogni pravità (anche se amante di ogni perfezione che si possa tuttavia ricavarne [quanquam perfectionum, quae nihilo minus elici inde possunt, amatorem]) a coloro ai quali vengono amputati i rami che danno frutti di male e che, pur nel massimo rispetto possibile dell’umana libertà, egli va castigando36.

Con una sintassi sermoneggiante, e infilando in un unico periodo un po’ tutto quel che gli riesce, Kant foggia un Dio affannato e ingegnoso, distratto e perfezionista, che deve indossare i panni del frutticoltore per non somigliare troppo a un orologiaio impacciato alle prese con un girarrosto. Non è difficile intravvedere qui il sedimento di un’assai antica e comune tripartizione antropomorfica: la libertà impulsiva delle viscere, seduttiva del cuore, intellettiva della mente, con una volontà finalmente disciplinata da una giustizia che assume anche, assai vagamente, il senso della forma. Ma la volontà, qui, è tutto, è sostanza, e il resto ne è svolto per mestiere, secondo uno stile. Si tratta soltanto di vedere che cosa ne sia nelle mani di Kant. La metafora del giardiniere rimane un espediente retorico senza seguito, e il suo problema tornerà a riproporsi veramente soltanto con la terza Critica. Lasciamo perciò la quarta forma d’esercizio, concernente il ‘senso’ finale della libertà, e soffermiamoci sullo stile delle prime tre. Entro un quadro d’integrità antropologica s’introduce con la terza forma (l’intelletto applicato alla volontà) un predominio dell’intelletto sull’insieme della personalità, una garanzia d’intellettualismo (secondo, del resto, i dettati di una lunga tradizione – stoica, se non altro), destinata a durare ben saldamente nel pensiero di Kant. Ma egli avrebbe anche potuto avere in testa l’idea che le rappresentazioni siano i motiva sensibili, schiettamente umani e determinati, corrispondenti agl’intellettuali motiva divini. Se non c’è che un solo intelletto, infatti, l’intelletto divino, questo non può disciplinare in ogni uomo nient’altro che le appetizioni della volontà che appartengono soltanto all’uomo: vale dire le seduzioni della sua immaginazione. La libertà del cuore e dell’immaginazione, con le   Ivi, pp. 29-30.

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116   parte prima. avanti «la critica»

sue seduzioni sensibili, è insomma la vera e propria libertà dell’uomo, o ciò che gli conferisce identità e centralità fra le creature. E questa libertà consiste perciò nell’esaudimento di una sensibilità non immediata, non meramente impulsiva o animalesca, nell’esercizio di una facoltà volitiva che è anche conoscitiva, d’ordine superiore. Con una simile legittimazione teorica, in anticipo di tre lustri, Götz, e non Faust, sarebbe forse diventato l’eroe dell’immaginario nazionale tedesco. *** Non fu questo, tuttavia, il senso della forma che prese vita dal giovane Kant, nè forse lo poteva essere – non tanto per i tempi, bensì per l’uomo ch’egli era. Una vera cultura della sensibilità non s’improvvisa; e se è pur vero che all’origine della letteratura nazionale i germi degli sviluppi effettivi si confondono ancora con i germi degli sviluppi possibili, è anche vero che non aveva la stoffa del precursore uno che imparò assai presto a ricalcare in senso inverso le orme altrui. Lo stile in lui prevalse fin dapprincipio sull’elaborazione del senso della forma. E così, purtroppo, Kant non parla di una libertà rappresentativa – proprio lui, che non seppe ragionare di matematica se non per geometria, ossia per rappresentazione: «Agire liberamente significa agire conformemente alla propria inclinazione [appetitui suo conformiter], e pertanto agire con coscienza [et quidem cum conscientia agere]»37. Non si può pensare conclusione più arbitraria di questa, che sacrifica d’un tratto l’intera antropologia della libertà, alla quale ci eravamo troppo speranzosamente preparati fidando nei soli enunciati. Kant parla della volontà di esseri intelligenti e dotati del potere di autodeterminarsi spontaneamente (ipsa sponte) in virtù di appetizioni consapevoli (e consciis appetitibus), come da un principio assolutamente interno (ex interno sane principio)38. Queste umane intelligenze non conoscono l’assistenza di una partecipazione dell’intelletto divino, dunque; e la natura carnale (che in Lutero invocava l’erogazione della grazia con la perentorietà di un diritto indiscutibile della fede per creature, se no, irrimediabilmente dannate), si presenta qui come una natura intellettuale sempre responsabile, e meritevole del solo castigo: Per quanto dunque una situazione sia stata stabilita da una qualche ragione anteriormente agli atti liberi, e per quanto l’ente intelligente sia vincolato nella struttura di tali   Ivi, p. 27.   Ivi, p. 28.

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1. Analisi tematica   117 circostanze al punto che risulti più certo della certezza stessa [?!] che da esso abbiano a derivare in futuro mali morali, e [che questi mali] si possano [per conseguenza] prevedere; [nondimeno] questo corso futuro resta comunque determinato da ragioni di tal fatta, che in essi il cardine è pur sempre la loro direzione volontaria al peggio [voluntaria ipsorum ad pravam partem directio]. E corrisponde pertanto a giustizia dichiarare causa dei fatti, che piacquero più di tutti ai colpevoli, i colpevoli medesimi, e punire così un piacere illecito39.

Il comune pregiudizio luterano di assoluta colpevolezza involontaria di ogni creatura, in quanto non è che semplice creatura, si aggrava qui di un’altrettanto assoluta imputazione di colpevolezza volontaria – non senza vizio logico: piacquero ai «colpevoli», ergo si puniranno i colpevoli! Sebbene egli abbia appena descritto un’immaginaria personalità complessa e tripartita, non sono più creature carnali quelle che Kant ha in mente. I motiva intelligentiae divini che dovrebbero fare ita etiam, «parimenti», la libertà dell’uomo rappresentano probabilmente, per lui, nient’altro che esemplari imitativi, sì, ma lontani – troppo lontani, anche per una cosmologia di rispecchiamenti. Non diversamente dalla carne, l’intelletto non può attingere la grazia – e Kant non parla certo, in compenso, di fede. Così, dove il contatto per partecipazione è impossibile, e il salto della fede è del tutto ignoto, non resterebbe per la salvezza che il rapporto d’imitazione attraverso la contemplazione e la gradazione – vale a dire, proprio quel tipo di rapporto che nel suo precoce dualismo egli mostra d’ignorare affatto. Il Kant ‘unitario’ non vale che per le scuole, mentre la filigrana del suo pensiero è già questa. Chiuse in se stesse, come sono, le intelligenze terrene non sono sostanze semplici puramente intellettive, perché la loro coscienza è qualcosa di misto: un conscio appetito, come abbiamo letto. E se questa non è un’assurda trovata discorsiva, esso deve rappresentare per forza un centro d’integrità antropologica. Ora, di che consiste questo centro? Di una «rappresentazione oscura», dice Kant; e rispetto alla facoltà superiore della mente questa rappresentazione oscura è, secondo lui, una facoltà non preliminare, ma semplicemente inferiore40. A parte quest’ultima, prevedibile conclusione moralistica, noi siamo con ogni probabilità in presenza di un ‘sentire’, che diverrà il futuro animus o Gemüth della Critica. L’introduzione di giudizi formulati secondo schemi gerarchici bipartiti è uno degli espedienti canonici del moralismo: il quale, dall’alto, non tarda certo a mettersi all’opera sulla facoltà inferiore. Dopo avere promesso di darci maggiori ragguagli su questa rappresentazione oscura, che è poi la fonte stessa   Ibidem   Ivi, p. 24.

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118   parte prima. avanti «la critica»

della nostra libertà, Kant ci ritorna effettivamente sopra con una breve teoria di ciò che chiama un corretto sentire: «In verità, se ci diamo cura di sentire in maniera corretta [si recte sentire allaboramus: notare la corrispondenza con la divina premura attraverso il medesimo verbo!]... ci sarà facile convincerci che devono senz’altro essere presenti ragioni che determinano il fatto [della nostra scelta] al punto che l’appetito venga indirizzato così, e non altrimenti». E in che cosa consiste questo recte sentire? In un esercizio, in una vera e propria ginnastica delle rappresentazioni «da sottoporre all’intelletto [intellectui sistenda]», le quali noi combiniamo in modo tale da controbilanciare l’allettamento delle une con l’attenzione verso le altre. È l’antico motivo stoico, questo degli esercizi spirituali, che comincia almeno con la cinquantaseiesima lettera a Lucilio41. Nel solco di un’antica tradizione, Kant mette dunque l’immaginazione alla prova dell’impostura della mente, secondo il seguente criterio: Fino a tanto dunque noi sentiamo di essere noi stessi gli autori delle rappresentazioni che contengono in un dato caso i motivi della scelta (così che siamo largamente in grado di applicare ad esse l’attenzione, oppure di sospenderla e di volgerla altrove; e di conseguenza siamo consapevoli di potere non solo tendere agli oggetti in conformità al nostro appetito, ma di potere altresì modificare le stesse ragioni oggettive variamente a piacer nostro): appena fintanto, che possiamo astenerci dal ritenere l’applicazione della nostra volontà esente da ogni legge e priva di ogni determinazione invariabile42.

Interpreto la coppia quatenus – eatenus vix come una specie di anafora, come una ripetizione, e l’insieme del passo come una proposizione affermativa seguita da una dimostrativa: l’accento principale cade sulla prima – ossia sull’incondizionata libertà, sull’autoinganno della mente, il quale può durare finché non trova un limite in leggi e determinazioni, ossia nelle condizioni indicate dalla seconda. L’autore della traduzione italiana, invece, interpreta il passo come una concessiva seguita da un’avversativa rafforzata dalla negazione («per quanto – altrettanto non», che valgono: ‘sebbene – d’altra parte’): l’accento principale cade così sulla seconda proposizione – ossia sul limite che si contrappone alla libertà, o col quale un’incondizionata libertà dell’immagi-

41   «Ecco da ogni parte mi risuonano attorno rumori d’ogni genere: la mia abitazione si trova proprio sopra i bagni pubblici (...) ed appunto perciò me ne andrò di qui. Volli mettermi alla prova ed esercitarmi: che bisogno c’è ch’io sia afflitto più a lungo», eccetera (Boella). 42   Ivi, p. 27. Ecco il testo: Quatenus itaque repraesentationum, quae electionis in casu dato motiva continent, nos ipsos sentimus auctores esse, ita ut attentioni ipsis applicandae, suspendendae aut aliorsum vertendae egregie sufficiamus, consequenter non solum in obiecta appetitui nostro conformiter tendere, sed etiam ipsas rationes obiectivas varie pro libitu permutare posse conscii sumus, eatenus vix possumus nobis temperare, quin voluntatis nostrae applicationem omni lege exemptam et determinatione stabili privatam arbitremur.

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1. Analisi tematica   119

nazione è destinata a scontrarsi43. Egli fa dire a Kant, insomma, che sebbene noi siamo liberi di agire come vogliamo seguendo le suggestioni delle nostre rappresentazioni, tuttavia lo siamo soltanto finché non dobbiamo ammettere che la nostra volontà conosce pur sempre dei limiti insuperabili. Ora, Kant era tutt’altro che premunito dall’incorrere talvolta in banalità – ma questa mi sembra grossa: perché in tal modo viene sancita una semplice constatazione, oppure un’alternativa, e non una condizione per il pensiero. Fra l’ovvietà dell’avversativa e la ridondanza sintattica della ripetizione mi sembra decisamente più probabile la seconda. Kant vuol dire che nel governo delle sue rappresentazioni ipsa sponte, ex interno sane principio, l’uomo è completamente libero. Non vi sono limiti interni alla sua libertà, se non quelli ch’egli stabilisce da sé; e Kant si spinge tanto innanzi da ammettere non soltanto che si possano evocare, sospendere e dissipare a piacere le rappresentazioni che suscitano i nostri allettamenti, bensì che la libertà di seguire i nostri appetiti possa estendere la sua efficacia al punto da modificare a piacimento le ragioni oggettive delle nostre scelte – fra le quali, per l’appunto, gli appetiti medesimi. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la libera disponibilità delle rappresentazioni ci può servire, sì, da palestra di virtuosa libertà; ma che essa è anche fonte di quella «tacita impostura» che consiste nell’illudersi d’avere le completa padronanza e disponibilità di ogni nostra facoltà – passioni appetizioni inclinazioni intenzioni propensioni comprese. È un’illusione. E quest’illusione dura eatenus vix noi possiamo considerare l’applicazione della nostra volontà esente da ogni legge e determinazione. Insieme col significato di ‘limite’ (che viene accentuato nella traduzione italiana), è anche di una ‘condizione’ nel futuro senso critico che Kant già parla; e la colomba della Critica, che s’illude di spiegare meglio le sue ali nel vuoto, è dunque a malapena percepibile sin d’ora. Ma non si può in alcun modo esagerare l’importanza premonitrice di questo passo: perché trovandosi completamente immerso in un discorso moralistico Kant non può ancora attribuire a limiti e condizioni della volontà nessun altro significato, se non quello di un pericolo e di un traviamento. L’esercizio delle tentazioni insomma (diremmo noi) presenta i suoi rischi. La segnalazione delle possibilità che mediante un’attenta lettura si aprono in questo e 43   Ecco la traduzione: «Per quanto dunque sentiamo di essere noi stessi gli autori delle rappresentazioni che contengono in un dato caso i motivi della scelta, tanto che siamo largamente in grado di applicare ad esse l’attenzione di sospenderla o di volgerla altrove e di conseguenza siamo consapevoli di potere non solo tendere agli oggetti in conformità al nostro appetito ma di potere altresì cambiare le stesse ragioni oggettive variamente a piacer nostro, altrettanto non possiamo astenerci dal ritenere l’applicazione della nostra volontà esente da ogni legge e priva di ogni determinazione fissa» (Scritti precritici, ed. ampliata a cura di Angelo Pupi, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 32).

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120   parte prima. avanti «la critica»

in simili passi può bastare, tuttavia, semplicemente per giustificare l’uso che talvolta farò delle mie parole, parlando di scritti ‘cosiddetti’ precritici. Bisognerà pure riconoscere che Kant è forse l’unico grande filosofo che goda della singolare distinzione di vedere l’intera sua opera divisa così nettamente in due fasi; e sarà pur lecito sospettare che ciò che vale soltanto per lui non abbia gran valore per sé. Ma poiché non sono la genesi e la storia di una dottrina che qui mi propongo d’illustrare, bensì soltanto i segni precoci di uno stile, preferisco lasciare che il lettore immagini da sé come avvenga che la Critica sortisca fuori da tutta quanta una farraginosa mole di pensieri come questi, e dalla silenziosa fermentazione degli anni Settanta. *** Se Kant mette subito in soffitta Leibniz (senza peraltro rinunciare a servirsene abbondantemente44), e se poi si attacca a Crusius (senza peraltro decidersi a seguirlo), trascura però di menzionare Agostino proprio sull’argomento del libero arbitrio. Ma l’argomento agostiniano della ricerca del bene e della virtù come sola vera libertà dell’uomo è, per l’appunto, l’unica ragione valida del dialogo kantiano: che per il resto, a parte qualche immancabile sciocchezza, qualche ovvietà in sospetto di tautologia, e qualche sofisma45, si riduce tutto all’affermazione secondo cui «Libere agere est appetitui suo conformiter et quidem cum conscientia agere»46. Dopo tutto ciò che ho detto, la definizione non dovrebbe neppure richiedere commenti: perché nello spazio di un et quidem si sacrifica il riconoscimento dell’integrità antropologica degli appetiti alla coscienza; ma soprattutto si sacrifica la teoria della gradazione universale 44   Con pensieri di puro imprestito come i seguenti, per esempio: descrivendo l’universo come un’infinita gradazione di esseri, «dal grado supremo di perfezione possibile... giù giù fino al nulla» (Carabellese, p. 29); ammettendo le rappresentazioni oscure, o segrete, o riposte (ivi, pp. 36 e 37); trattando di teodicea (ivi, p. 27); facendo dello spazio un insieme di puri rapporti e di relazioni (ivi, p. 44 – soltanto poco prima di conciliarne la nozione astratta con la concezione corporea cartesiana nella Monadologia physica); o ancora riacciuffando l’armonia prestabilita dopo averla clamorosamente sradicata dalle fondamenta (ivi, pp. 42 e 40). 45   Ecco le sciocchezze: «Allo stesso modo infatti che non si può pensare nulla di più vero del vero né di più certo del certo, così non si può immaginare nulla di più determinato del determinato»; ma alla pagina successiva compaiono, a smentita, ragioni divine che dirigono la volontà «in modo più certo della certezza stessa» (ivi, pp. 23 e 24). Ed ecco le ovvietà segnate da vizio logico: «è di per sé impossibile la prescienza di un accadimento futuro, la quale è uguale a zero qualora la sua [dell’avvenimento] esistenza sia totalmente per sé antecedentemente indeterminata» (insomma: non c’è predeterminazione di azioni libere, perché un’azione è libera se non è predeterminata; p. 30). L’uso sofistico o retorico degl’incisi a sorpresa «per sé», o «di per sé», o «in se stesso», e «totalmente», e simili, denota una certa abilità di costume dialettico, preso dall’ambiente. 46   Ivi, p. 27.

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1. Analisi tematica   121

degli esseri dall’oscurità alla luce, in un’unica città cosmica, che rappresenta l’unica vera novità rispetto alla concezione agostiniana, strettamente bipartita fra città terrena e città celeste. Se infatti et quidem ha valore rafforzativo (‘e in verità’, ‘e propriamente’), il suo scopo è elusivo o cosmetico circa la sussistenza di un’integrità antropologica; se ha valore concessivo (‘e almeno’), tiene fermo il riconoscimento dell’integrità, mentre apre una pericolosa incognita circa l’automatismo degli appetiti; se ha valore avversativo (‘e però’, ‘e tuttavia’), tiene ferma la concezione agostiniana, riunendone i termini. Oltre che sotto il profilo linguistico, anche sotto il profilo logico la posizione del Kant ‘unitario’ non è che intermedia, come di chi cerchi l’area di sovrapposizione fra due superfici, come mostra il passo seguente: «Che l’azione sia di per sé indeterminata si ricava dalla sua contigenza; che sia in ogni caso indeterminata antecedentemente è la tesi dei nostri avversari. È dunque del tutto priva di determinazione, ossia di predeterminazione nel futuro, in se stessa, e deve essere così rappresentata di necessità dall’intelletto divino [et a divino intellectu repraesentari necesse est]»47. Anziché sulla sovrapposizione o sull’addentellato logico, soffermiamoci piuttosto sulla conclusione che Kant ne trae. Necessità, rappresentazione, intelletto: le tre forme della libertà umana corrispondono dunque a tre forme della libertà divina (o viceversa), se soltanto si ammette che inclinazioni disposizioni appetizioni propensioni, e quant’altro, manifestino una nostra impulsività vegetale o creaturale, dalla quale non ci può distogliere che la grazia d’un giardiniere mosso da analoghi ‘motiva’ della sua infinita intelligenza. La ragione, e forse la necessità della grazia sta qui: in questi motivi Suoi ch’Egli riconosce negl’impulsi dell’uomo; e il problema della libertà diventa il problema della liberazione di entrambi: dell’uomo, come pure di Dio. Ma allora la libertà presuppone non solo una corrispondenza tripartita fra uomo e Dio sulla base di un’intuizione d’integrità antropologica, ma nasce da un’imputabilità di Dio medesimo nei confronti delle Sue creature – diciamolo pure: da un rimorso. È fonte d’intellettualismo la rinuncia a quell’intuizione d’integrità nell’uomo; è fonte di moralismo l’ignoranza di questa imputabilità o di questo rimorso in Dio. Dopo aver cercato una via più facile e pratica sul piano logico, con i suoi princìpi di coesistenza e di successione, Kant fa lo stesso sul piano teologico. Di una sua posizione in qualche modo minore rispetto a una maggiore tradizione di «ingegni più perspicaci»48, egli era cosciente e confesso – ma anche ben deciso a farne una virtù: Kant conosceva le proprie doti d’alacre applica  Ivi, p. 30.   Monadologia physica, Carabellese, p. 66.

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122   parte prima. avanti «la critica»

zione, non meno dei propri limiti teorici. A che serve, si chiede ancora nell’esordio della Nova dilucidatio, rovistare nelle casse dei filosofi? Basta giovarsi di assiomi e definizioni già fissati dall’uso corrente e dalla retta ragione. È un umore vagamente luterano, ma soprattutto cartesiano questo, naturalmente. Ora, Gottsched aveva da poco finito d’insegnare che lo stile della buona lingua si forma dalla triplice radice del migliore uso comune, della creazione per analogia, e della migliore letteratura. E Kant, come si vede, rinuncia volentieri al terzo incomodo, con un ricorso agli autori che non sarà mai analitico, bensì impressionistico, sommario e per lo più indiretto. Ma se rinuncia a spalancare le loro casse, con un altro movimento caratteristico del suo stile annuncia pure sembrargli superflua l’elencazione degli assiomi e delle definizioni d’uso corrente più ragionevoli, alle quali si riferisce: sarebbe un’inutile perdita di tempo!49 Non lo farà più, né qui né altrove; e si guarderà sempre bene dal fornire un repertorio dei princìpi di questa sana ragione, o del buon senso, come un cielo stellato già popolato di costellazioni. Ripetute invocazioni al buon senso contro l’intellettualismo dei dotti o dei raffinati aprono La nuova dottrina del moto e della quiete dell ’58, così come le ripudiate Considerazioni sull’ottimismo del ’59. Ma sono invocazioni a scopo meramente eristico, come più avanti si dirà. Sulla scorta della lezione empirista, i suoi riferimenti a tutto ciò che sarebbe conoscenza o sentimento naturale sono in generale assai rari, e del tutto privi d’un qualsiasi ruolo teorico non strettamente occasionale. Nelle Quantità negative del ’63, per esempio, lo sporadico accenno a una legge interiore, che poi chiama più precisamente legge «positiva» dell’amore per il prossimo, gli serve per trovare un riferimento assoluto in una sua bizzarra algebra della morale, che è lo «zero» dell’assenza d’azione50. Nel calcolo algebrico comparato delle virtù e dei vizi di due avari la carità è «regola del dovere», o «principio», o ancora «principio della norma», non sentimento spontaneo; mentre è l’avarizia, piuttosto, che si può forse considerare un vizio «spontaneo e naturale»51. E così quando parla di una «legge interiore» Kant si affretta a specificare che si tratta di una «legge positiva»52. Il bando precocemente sancito, oltre che alle idee innate, anche ai buoni sentimenti innati, non è che comune pessimismo antropologico di matrice luterana, e remissione dei princìpi ai prìncipi. Senza buona letteratura e senza buon senso, non resta a Kant che l’analogia   Nova dilucidatio, Carabellese, p. 5.   Tentativo d’introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, Carabellese, p. 275.   Ivi, p. 295. 52   Ivi, p. 275. 49 50

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1. Analisi tematica   123

– vale a dire uno strumento razionalistico che diventa inevitabilmente intellettualistico. L’adozione dei due «nuovi» princìpi pratici di coesistenza e di successione nella Nova dilucidatio risponde alla generica volontà di orientare l’attenzione teorica in senso descrittivo, verso il come, mettendo in secondo piano gli alti quesiti dei perché. E nel vederlo scostarsi così prudentemente dai più rinomati princìpi logici d’identità e di contraddizione, per accostarsi di preferenza ai versanti minori del pensiero, si avrebbe ragione di esclamare: Quanto son difettivi sillogismi Quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Kant non comincia davvero volando alto; e nei Sogni d’un visionario parlerà anzi con intensa soddisfazione di questo ripiegamento dei serici vanni: «noi ci vediamo di nuovo [ricondotti] sul basso terreno dell’esperienza e dell’intelletto comune – fortunati!, se lo consideriamo come il posto a noi assegnato, dal quale giammai si esce impunemente, e che contiene anche tutto ciò che può soddisfarci fintanto che ci atteniamo all’utile»53. Soltanto dopo avere razzolato per un buon tratto la colomba della Critica potrà spiccare il suo volo – ma il rischio è ch’essa faccia nell’aria, con l’appoggio dell’ali, pressappoco quel che faceva a terra. su di un profilo logico Sotto il profilo logico la tradizione del biasimo rivolto al criticismo ruota intorno al torto fondamentale che fu precocemente ravvisato nel nesso categoriale causale sussistente fra il soggetto e l’oggetto in sé. Non si tratta di cosa trascurabile (come a dire: di un dodicesimo dell’intero problema categoriale), perché la causalità è effettivamente di gran lunga il nesso più importante; e se la categoria puramente logica della relazione, per esempio, può servire a mettere in discussione l’intuizione cartesiana dello spazio come reale estensione, la categoria della causalità può farci risalire nientemeno che a Dio, alla libertà sua e delle sue creature, all’armonia prestabilita, al destreggiarsi di Kant fra Hume e Leibniz, nonché (sullo sfondo) Spinoza. Kant aveva trattato alquanto di logica nella Nova dilucidatio, come s’è già visto nel profilo stilistico; e qui basterà dunque precisare ancora meglio qualcosa.   Carabellese, p. 422.

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124   parte prima. avanti «la critica»

Distinguendo in quello scritto una ragione determinante propriamente intesa dalla ragione sufficiente comunemente intesa; e distinguendo ancora, nella prima, una ragione determinante «a posteriori» delle cose da una ragione determinante «a priori»; e insistendo poi sulle possibilità di quest’ultima, il giovane Kant aveva in qualche modo già proposta la cifra logica basilare della Critica. Sebbene avesse preso lo spunto delle sue distinzioni da Crusius, così facendo Kant non aveva affatto voluto (come si dice) muovere contro il ‘leibnizianesimo’ (se non, questo sì, contro l’invadenza del wolffismo, semmai; e la confusione, veniale in lui, diventa imperdonabile negl’interpreti); bensì aveva voluto, andando in cerca di una ragione determinante a priori della conoscenza, trovare una via media tra empirismo e dogmatismo logico, tra primato dell’esperienza e principio d’identità, tra il mondo e Dio stesso. Ciò gli permetteva di trovare un suo spazio tra le forze accademiche opposte. Prendeva da Crusius un postulato di contingenza, un auspicio di libertà e un’esortazione all’esperienza – che poi tuttavia gli toglieva, ripristinando di fatto il principio di ragion sufficiente. Accontentava poi, per un altro verso, il dogmatismo logico wolffiano mediante il riconoscimento di una facoltà logica intermedia fra cielo e terra, com’è la determinazione a priori, buona un po’ per tutti gli usi – ma ribadendo al tempo stesso la configurazione generale dell’universo concepito come una solida concatenazione di esseri in stretta reciproca dipendenza tra loro. E pensava infine di correggere il ‘leibnizianesimo’ giovandosi di una specie di newtonismo, ossia di fondare l’idea della corrispondenza e del rispecchiamento fra gl’individui sull’idea d’una gravitazione strettamente vincolata: una relazione mutuo nexo complexa fra le sostanze animastiche, che dovrebbe smentirne l’isolamento come monadi, e togliere ogni ragione di ricorrere all’armonia prestabilita – salvo però riaffermarla mediante l’universale presidenza dell’intelletto divino allo scambio (commercio connessione relazione dipendenza rapporto, o come si voglia chiamare) che intercorre fra le sostanze finite. Andando in cerca di una ragione determinante «a priori» Kant assume una posizione logica intermedia, suggeritagli da un istinto di destrezza dialogica e terminologica; il suo pensiero manifesta un talento di prensile abilità ‘unitaria’, come si dice, che poi non abbandonerà mai più: tanto è vero, che in certi momenti (come nei Sogni d’ un visionario) sarà possibile giudicarlo al tempo stesso più leibniziano, più humiano, più rousseauiano che mai54. Ma a simile logica di concatenazione nell’universale dipendenza tra gli esseri egli   Franco Lombardi in Kant vivo, p. 257.

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1. Analisi tematica   125

resterà, io credo, sempre fedele – e non si capirebbe se no, per esempio, la crisi dei rapporti con Herder. E la forma della stretta dipendenza, comunque la si voglia rinominare, è effettivamente nient’altro che la pura e semplice relazione di causa – sia pure concepita come causa reale, per trarla giù nel mondo: perché sin dalla Nova dilucidatio il meccanismo dell’universo non era sembrato a Kant convenire al decoro della maestà divina. Anche nei suoi scritti cosiddetti precritici (come nelle Quantità negative, per esempio) egli non manifesta alcun dubbio affatto sull’efficacia della causa; solo, domanda come una causa reale possa conciliarsi col principio logico d’identità; e come dunque (sembra dire) possa descriversi un mondo di quaggiù strettamente continuo e dipendente dal mondo di lassù, sembrandogli, piuttosto, di dover fare riferimento a due distinti ordini di grandezze e a due diverse nature di relazioni. A grattarla bene, dunque, la sua fisica rimane sempre e dappertutto una fisica cartesiana. La soluzione leibniziana, veramente unitaria, della contiguità infinitesima e graduata, non era alla sua portata; ma in questo scritto ci si trova qui a un passo dalla distinzione tra continuo fisico e continuo matematico. Del calcolo infinitesimale Kant mostra di non possedere mai la benché minima nozione. Qualche vago accenno di nessun valore teorico si trova nelle Quantità negative55. Dopo la pubblicazione dei Nuovi saggi, nel ’65, i Sogni di un visionario recano numerose tracce di suggestioni leibniziane, fra le quali anche l’atomismo animatore e la gradazione infinitesima56. Quanto alla saldezza della sua (diciamo così) logica reale, se è vero che il principio di causa resterà sempre, in generale, inconcusso, nelle Quantità negative si nota tuttavia qualche incrinatura della sua fiducia nei princìpi d’identità e di contraddizione. Sebbene non parli mai di sensibilità, e non menzioni esperienze, se non altrui, Kant si domanda, per esempio, «in che modo una cosa nasca da 55   Carabellese, p. 260, sull’infinitamente piccolo: «Anche il concetto dell’infinitamente piccolo, al quale tanto spesso arriva la matematica, viene scartato da costoro [i metafisici] come finzione, con altrettanta boriosa arroganza, mentre sarebbe assai più opportuno supporre che non se ne capisce ancora abbastanza [!]»; ivi, pp. 297-298, sull’infinita divisibilità: «se suddividiamo il concetto di uno spirito finito, vediamo che la fallibilità è contenuta in esso, e cioè è identica con ciò che è contenuto nel concetto di uno spirito [sembra voler dire che la ragione della fallibilità non consiste nella suddivisione, bensì nel contenuto del concetto]»; ivi, p. 294, sulla gradazione della chiarezza delle rappresentazioni leibniziane: «C’è qualcosa di grande e, a quanto mi sembra, di molto esatto in quel pensiero del signor von Leibniz: l’anima abbraccia l’intero universo con la sua forza di rappresentazione, sebbene solo una parte infinitamente piccola di queste rappresentazioni sia chiara». 56   Carabellese, p. 377: «quella scherzosa trovata leibniziana, che nel caffè s’inghiottivano forse atomi da cui sarebbero venute anime umane, non sarebbe più un pensiero per ridere»; e p. 381: «raccogliendo tutti i princìpi della vita in tutta quanta la natura come tante sostanze incorporee in reciproca comunione, in parte però unite anche con la materia, noi pensiamo un gran tutto del mondo immateriale: una immensa ma sconosciuta scala di esseri e di nature attive, dalle quali soltanto viene vivificata la morta materia del mondo corporeo».

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un’altra cosa, ma non seguendo il principio d’identità»57 – vale a dire: quale ne sia la natura già data, reale, ma non causale né logica. E quanto al principio di contraddizione, gli sembra che «il cadere non si distingua dal salire come nonA da A, ma sia invece altrettanto positivo come il salire», in quanto contiene in sé la sua causa58. È già il principio dell’opposizione reale. Sotto il profilo più generale, la trattazione di Louis Couturat su La philosophie des mathématiques de Kant mise a suo tempo bruscamente in luce il carattere semplicistico e popolare della logica kantiana, nonché le sue giravolte: che lo vedono adottare nella Nova dilucidatio del ’55 il principio d’identità, e non quello di contraddizione, tanto per i giudizi positivi che negativi; nella Teologia naturale del ’64 il principio d’identità per i giudizi positivi, e quello di contraddizione per i negativi; e nella Critica finalmente (B 190) il solo principio «supremo» di contraddizione per tutti i giudizi analitici, sia positivi che negativi59. Ma simile predilezione, che si conclude nella Critica, è del resto conforme a ciò che abbiamo già visto analizzando la Nova dilucidatio. Tornerò a discuterne a suo luogo, nell’Analisi Cronologica; ma intanto voglio dire che con tutta la sua spigliata intelligenza la discussione del Couturat costituisce un eccellente esempio di critica impressionista. E non manca neppure, in una nota, una benvenuta esclamazione sulla vanità delle bibliografie60. *** Non è tanto da Leibniz, bensì semmai dallo spinozismo che Kant poteva in tal modo cercare di prendere le distanze, manifestando disagio nei confronti dell’indefettibile saldezza di una mista, o doppia, concatenazione logica e reale. Da Hume, invece, non seppe prenderle che malamente – se non altro, perché lo conosceva in modo ben poco approfondito: non ne ebbe che una forte impressione. Ha perfettamente ragione il Lombardi, quando da un capo all’altro del suo libro, seguendo Cassirer, insiste sui domestici nomi di Rüdiger, di Lambert e di Crusius; e bisogna dire che in generale i riferimenti di Kant furono sempre assai prossimi, obbedendo per lo più a una sensibilità ambientale. Ma egli finì anche per attribuire a Hume precisamente ciò che questi negava. Hume aveva chiesto,   Ivi, p. 297.   Ivi, p. 267. 59   ‘Revue de métaphysique et de morale’, maggio 1904, p. 328. 60   Ivi, pp. 330-331 nota 1. Lo studio immediatamente successivo e contrapposto di Gérard Milhaud, La connaissance mathématique et l’idéalisme transcendental, è davvero poco convincente, dal momento che l’autore comincia subito col fare della conoscenza matematica in Kant una conoscenza concreta, interpretando come concretezza il suo carattere sintetico (ivi, p. 386). 57 58

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1. Analisi tematica   127

in definitiva, che la filosofia si decidesse a ragionare secondo due distinti ordini di relazioni, logiche ed empiriche; e Kant venne a dire nei Prolegomeni di non avergli mai dato ascolto per ciò che concerne il principio di causa inteso nella sua universalità, sia logica che empirica: ossia per ciò che concerne la possibilità di descrivere tutta quanta la realtà mondana e sovramondana come procedente dal divino principio logico d’identità, del quale il principio di ragion sufficiente sarebbe stato il vicario su questa terra. In ciò era tuttavia precisamente consistito il quesito sollevato da Hume; il quale si dissolve nell’abituale sfuocatura (anche stilistica, anche prosastica) della continua ritrattazione kantiana, maturata nell’arco di un quarto di secolo. La connessione tra causa ed effetto non è l’unica? – ed egli ne troverà altre undici. Il mondo non si spiega tutto quanto con un unico principio? – ed egli lo ripristinerà, questo principio, col giudizio. La concatenazione logico-analitica è in generale impossibile? – ed egli concepirà la deduzione trascendentale. Analisi e sintesi non vanno d’accordo sul piano logico? – ed ecco trasposto tutto quanto il problema sul piano terminologico, trascendentale, mediante il vero e proprio nonsenso di fare della matematica una conoscenza di tipo sintetico. Dovrò tornare a discuterne in seguito, nell’Analisi Cronologica, parlando del principale scritto al riguardo, la Teologia naturale. Ma poiché è di un tema generale che qui si tratta, e di capitale importanza (non in sé, bensì per la dottrina), occorre dedicargli fin d’ora almeno un capoverso. Parlando di matematica come di conoscenza sintetica Kant ricorre spesso (o anzi sempre, direi) all’espediente di trattarne in forma geometrica61. Anche così, però, il giudizio non vale. Se si dice che astraendo da molti coni empirici io mi rendo l’idea del cono geometrico, posso credere d’avere aggiunto qualcosa alle mie conoscenze; ma se si dice che nel cono io trovo il triangolo rettangolo in rotazione su di un cateto, non ho fatto in realtà che ritrovare analiticamente quel che ci stava già. E non avrò un tallero di più se aggiungerò un’unità a un numero definito nella serie naturale. Che la filosofia debba procedere ‘per analisi’, ma 61   In un solo caso, che io sappia, sembra preferire la matematica alla geometria – e subito fallisce: nel § 9 dei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive. Dice: «ho pensato di dimostrare la tridimensionalità dell’estensione da ciò che si percepisce nelle potenze dei numeri»; ma cent’anni dopo Cartesio e l’algebrizzazione dello spazio Kant ancora pensa che «la quarta potenza, in tutto ciò che ci possiamo rappresentare dello spazio mediante l’immaginazione, è un assurdo»; bisogna perciò tornare subito ad abbracciare la geometria, considerando la quarta potenza nient’altro che un raddoppio della seconda. È terrore da agorafobia, il suo, dinnanzi alle sconfinate possibilità che s’erano aperte per l’algebra. «La necessità della tridimensionalità si fonda … su una certa altra necessità, che non sono ancora in grado di spiegare». Infatti: è la psicanalisi, che dovrebbe spiegarla, insieme con la povertà della sua immaginazione. Il timor panico di Hobbes di fronte al disordine politico è niente, al confronto di quest’agorafobia matematica. Sulla personalità generale di Kant è assai utile leggere lo studio di Stefano Caracciolo, Con il cappello sotto il braccio. Un profilo psicologico di Immanuel Kant, Aracne, Roma 2005.

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sulla base dell’esperienza, e dell’intuizione sensibile, e di giudizi di percezione; e che la matematica proceda invece ‘per sintesi’ innalzando castelli in aria, che il filosofo deve ben guardarsi dall’imitare; tutto ciò significa semplicemente restare vittima di banali metafore – come, del resto, le sue sono sempre. In senso legittimo Kant può intendere (e all’occasione effettivamente intende) per ‘analisi’ quell’attività particolare del puro intelletto che consiste nella risalita ai principi logici più semplici della conoscenza per cause implicite; e la confonde con l’attività dell’intelletto in generale, che si giova di preliminari intuizioni sensibili62. La contiguità fra due distinte attività dell’intelletto, analitica e percettiva, crea l’illusione di una continuità del pensiero con l’essere, in un universo unitario. Cosicché possiamo dire che in simile suo equivoco l’intelletto soggiace a se stesso, o meglio a una particolare parte di se stesso, più strettamente consequenziale e obbediente al puro principio d’identità, di contro al suo procedere, invece, percettivo fra le cose di questo mondo. Accade così in seguito, in quel ben organizzato disordine che è la prima Critica, ch’egli tratti senza ambagi, dopo un’Estetica, non già di una Sintetica (la quale non potrebbe chiamarsi ‘trascendentale’), bensì di un’Analitica (che la qualificazione di ‘trascendentale’ dovrebbe spogliare dell’equivoco sorgente dal fatto d’essere, in definitiva, una facoltà esercitata secondo il divino principio dell’identità logica, ma collocata a posteriori negl’intelletti limitati di esseri sensibili). Ma l’equivoco terminologico sorge anche indipendentemente dal gergo tecnico. Se si dice, per esempio, che sin da giovane Kant «vuole stabilire una Analitica dell’intelletto muovendo dai dati dell’esperienza, per ritrovarne [dell’intelletto] di qui [dall’esperienza] i concetti primi e semplicissimi»63, bisogna intendersi: se la conoscenza è ‘analitica’, bisogna che i concetti primi siano già contenuti nei dati dell’esperienza; e poi, magari, mettersi a discutere sulla possibile differenza di significato di ‘dati’ e di ‘esperienza’. E non si contribuisce a far chiarezza neppure affermando, per esempio, che la polemica condotta da Kant nei Sogni d’un visionario non si rivolge contro il concetto stesso della ragione, bensì contro il concetto di una filosofia procedente «sinteticamente a priori, [ossia] da princìpi logici»; né ancora affermando che Kant si scaglia «contro il procedimento sintetico a priori» delle filosofie che 62   Anche un uomo assai largo di credito con Kant, come Lombardi, manifesta talvolta qualche aperta perplessità in proposito (Kant vivo, pp. 228, 249; e p. 263 per l’obbligazione morale basata sulla fisica newtoniana – che poi è leibniziana). Nel Saggio sulle malattie del capo (1764) Kant si fece beffe dei logici, secondo i quali la testa umana, come un tamburo, risuona soltanto perché è vuota. Non poteva immaginare quanto l’accusa sarebbe stata ritorta contro di lui, che come Socrate già insegnava ai giovani soltanto a pensare con metodo, piuttosto che a riempirsi la testa con questi o con quei determinati pensieri! 63   Franco Lombardi in Kant vivo, p. 278.

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1. Analisi tematica   129

credono di prescindere dall’esperienza, ritrovando i rapporti dell’anima con la realtà «per puri giudizi di ragione»64. In poche righe la sintesi a priori è fatta sinonimo, in simili giudizi, di principio logico, nonché di puro giudizio di ragione; e il giovane Kant, prima della Critica, sembrerebbe, per il resto, avere soltanto combattuto la ricerca di sintesi a priori. Ma si è visto che la ragione determinante ‘a priori’, sin dalla Nova dilucidatio, non può avere altro significato che quello di una sintesi a priori. Così, standogli troppo accosto, gli si va dietro nel suo destreggiarsi ‘unitario’. Il riferimento alla nozione di ‘esperienza’ è, come ho detto, ciò che può trarre in inganno, perché essa include, fra l’altro, i significati di ‘osservazione’ e di ‘esperimento’. Se una palla ne colpisce un’altra d’identica massa e volume in modo da far coincidere il prolungamento della propria traiettoria col diametro di quella dal punto di contatto; e se io mi attendo che la palla in movimento rimbalzi all’indietro lungo la medesima traiettoria con la medesima velocità, lasciando immobile la palla colpita; e se invece avviene l’opposto, e la palla in movimento si arresta e la colpita si mette viceversa in movimento lungo la medesima traiettoria con la medesima velocità posseduta dall’agente; tutto ciò non si chiama ancora esperienza: si chiama osservazione; la quale non ha evidentemente alcun significato se non è preceduta da un’aspettativa e seguita dalla meraviglia. Modificando l’angolo d’impatto una serie di esperimenti conduce facilmente all’analisi vettoriale delle forze, che è analisi logica e geometrica. Che cosa poi, e come, ‘passi’ effettivamente o si comunichi da un corpo in movimento a un corpo in quiete noi non sappiamo; e risolviamo il mistero terminologicamente, ricorrendo alle nozioni di energia, di quantità di moto, di forza viva, o quant’altro. Esperimento e osservazione hanno in Kant un modesto ruolo terminologico e logico: nella Nuova dottrina del moto e della quiete, per esempio, egli ci si baloccò per un poco, prima di rinunciare a portare degli esempi non elementari dei suoi ragionamenti. Ma quando in questo scrittarello tratta dell’urto di corpi perfettamente anelastici egli non trae le sue deduzioni dall’osservazione, bensì dal contrasto «con la legge» dell’urto dei corpi anelastici; e il fatto che corpi simili non esistano in natura non lo preoccupa minimamente: giacché «è sufficiente pensarli soltanto»!65 Dal momento che l’argomentazione ha lo scopo di controbattere la teoria leibniziana della continuità nella trasmissione meccanica del moto, noi troviamo qui, a paragone di Kant, un Leibniz addirittura empirista!

  Ivi, pp. 280; 281.   Nuova dottrina, Carabellese, pp. 83 e 84.

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Quanto alla forza viva, l’espressione compare, oltre che già nel titolo della tesi di laurea, anche, per esempio, nella bizzarra somma algebrica delle virtù e dei vizi contenuta nelle Quantità negative – ma in un significato evidentemente errato, secondo una frequente tendenza di Kant a intendere le cose a rovescio mescolando il moralismo alla fisica. Qui, dove per l’appunto le due cose coincidono, egli le separa. Un uomo ha dieci gradi d’avarizia, e si sforza di vincerli con dodici gradi di carità; un altro ha tre gradi d’avarizia, e si sforza di vincerli con sette gradi di carità. Il valore morale dei due gradi risultanti dalla somma algebrica applicata all’azione del primo è evidentemente maggiore dei quattro gradi risultanti dall’azione del secondo – «anche se», secondo Kant, «calcolandola come forza viva, la conseguenza nel secondo caso supera quella del primo»66. È un evidente sproposito: la forza «viva» non può consistere del risultato della somma algebrica, bensì proprio dell’energia interna ch’è stata rispettivamente impiegata; ed essa coincide dunque con lo sforzo morale dispiegato per vincere una resistenza o un ostacolo, ed è comunque maggiore nel primo dei due casi. Ma insomma, ciò che conta è quel che ho detto: il conflitto dell’intelletto con se medesimo in virtù dell’esercizio di una duplice funzione, analitica e percettiva, che lo rende mediatore conteso fra cielo e terra. Ora, in virtù dell’applicazione della metafora antropomorfica a cose politiche (il cui esercizio dipende da una libera ed esplicita scelta dell’interprete) – oppure, se si preferisce, in virtù semplicemente dell’ambivalenza semantica del termine ‘costituzione’, che è politica e antropologica insieme; per l’una o per l’altra ragione che il lettore preferisca, insomma, non mi dispiace davvero di poter descrivere il più puro intelletto, annidato nell’intelletto medesimo, come una cittadella logica: come una specie di casta o corporazione sempre pronta, a dispetto di precedenti enunciati estetici, a perseguire specialisticamente, tecnicamente, consequenzialmente, gli scopi generali dell’intelletto con più perfetta, più identica conseguenza logica; come una pura ragion di Stato nello Stato, o come la vera e propria sede o fonte del professionismo intellettuale (come anche si può definire l’intellettualismo); vale a dire simile, nello svolgimento politico del suo ruolo conoscitivo costituzionale, a uno specialismo ideologico o tecnico dell’azione, al quale hanno talvolta ambìto intellettuali, burocrati o militari in situazioni di crisi dello Stato. È questo, nell’insieme, l’aspetto che l’intellettualismo kantiano assume nel pensiero cosiddetto precritico, non ancora dotato di una significativa dimensione estetica: quello, cioè, di una divisione e di un potenziale conflitto del  Carabellese, p. 295.

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l’intelletto con se medesimo in forma algebrica. Vedremo invece in seguito, soprattutto nella Parte Seconda di questo studio, dedicata alla Critica, come, dopo la fondazione critica e l’apertura nella conoscenza così di un ruolo preliminare alla sensibilità nonché finale alla ragione, la divisione dell’intelletto permanga, sì (perché nulla viene mai del tutto soppiantato in Kant), ma assuma, piuttosto, l’aspetto di un ruolo drammatico in una vicenda che si svolge fra personaggi distinti. Sotto il profilo letterario, drammaturgico, possiamo dire in generale che nella fase cosiddetta precritica l’intelletto si presenta come un personaggio complesso, che porta una contraddizione in se stesso; mentre nella Critica avverrà una diversificazione di personaggi. Questa diversificazione è di gran lunga la più usata in drammaturgia, dove gli autori preferiscono conferire il massimo rilievo a caratteri e passioni separandoli in personaggi distinti; così che la ricerca di caratteri complessi, ossia di soggetti che siano ‘soggetti’ a se stessi, e liberi da tutto, fuorché da se stessi, può anche conseguire risultati letterariamente importanti, ma non numerosi. *** La conoscenza ‘puramente’ intellettuale, che è divina pensabilità dell’oggetto, e la conoscenza ‘generalmente’ intellettuale, che è la sua umana conoscibilità, andrebbero distinte anche sul piano terminologico mediante il cauto uso dei rispettivi termini di ‘rapporto’ e di ‘relazione’. Il primo ha significato essenzialmente matematico e assoluto, il secondo ha significato fisico. La nozione di spazio che ne risulta è diversa; e il fatto che Kant non abbia annoverato il rapporto fra le categorie della Critica è solo uno dei tanti segni dei limiti del suo pensiero, e non è una buona ragione per fare del rapporto un sinonimo della relazione. È interessante, in questo senso, vedere come il Lombardi, che fa di tutto per togliere Leibniz di dosso a Kant, non riesca neppure a levarlo di dosso a se stesso; come avviene, per esempio, in questo giudizio: «Kant scrive in questa occasione [cioè nella Nova dilucidatio] che “spatii notio implicatis substantiarum actionibus absolvitur”, dove non si presenta, come potrebbe parere a prima vista, il concetto leibniziano di una risoluzione dello spazio nel rapporto reciproco delle sostanze, ma invece si conferma quel concetto che Kant crede di presentare in questo periodo [giovanile, d’ispirazione ‘unitaria’] col ricondurre lo spazio al rapporto reciproco delle forze di attrazione e repulsione»67. A parte la dottrina leibniziana dell’attività delle sostanze,   Kant vivo, p. 148.

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che sono, per l’appunto, sempre forze – ma poi: se si vogliono mettere a confronto i due casi per contrapporli, perché usare la medesima parola «rapporto» piuttosto che, per esempio, ‘connessione’ o ‘relazione’? Tra sostanze sussiste un rapporto, tra forze sussiste un rapporto: la cosa fa la differenza, mentre il legame secondo Lombardi, a quanto pare, no: è identico. Se si parla di «rapporto» in entrambi i casi, per le sostanze e per le forze, senza ricercare un termine diverso, si dice senza volerlo che il giovane Kant ‘unitario’ ragiona in termini di comunicazione e di gradazione – ossia in termini teorici che sono, nel complesso, leibniziani. Che Kant non faccia uso di simili distinzioni non è una buona ragione per imitarlo. E poiché siamo venuti a esaminare i giudizi di un assai valido studioso, restiamoci ancora per un momento; e notiamo che la fastidiosa abitudine di Kant di rivoltare in continuazione i discorsi trascina con sé, talvolta, anche i suoi volonterosi restauratori, come per l’appunto il Lombardi; il quale, nel commentare per esempio i Sogni di un visionario, così scrive: «è facile riconoscere nelle proposizioni [qui esaminate] di Kant i tratti del posteriore pensiero kantiano, per i quali l’uomo sarebbe, quale individuo finito, un anello nell’infinita connessione causale o meccanica dell’universo, e sarebbe insieme (secondo che già ora Kant scrive) “membro del mondo spirituale”, cittadino di un superiore immateriale mondo razionale»68. Ora, qui bisogna intendersi bene, spendendo qualche parola di più, se non vogliamo finire per non capirci più niente. È vero (e lo si è appena detto, distinguendo le due figure dell’intelletto in conformità dell’assolvimento di due diversi ruoli) che Kant rende l’individuo finito logicamente partecipe di due mondi (anche se, per ragioni che presto dirò, non lo chiamerei proprio un «cittadino»); ed è vero altresì che la leibniziana continuità infinitamente graduata, o la contiguità infinitesima, tra questi due mondi non gli furono mai nozioni accessibili69. Ma dal momento che si tratta degli scritti cosiddetti precritici, e che s’è parlato a sufficienza di Hume, perché mai parlare fin d’ora di connessione «causale o meccanica», facendo della causa, in generale, un sinonimo della tipica connessione meccanica del mondo fisico? La connessione causale è puramente logica, non meccanica. Quella cosa che è analiticamente già implicita nell’effetto, la causa, non ha influenza dimostrabile nel mondo empirico; e il Kant che si vorrebbe ancora assopito nel dogmatismo sembrava averlo effettivamente capito. Se   Ivi, p. 262.   La breve menzione in una pagina della Critica (B 696) della gradazione leibniziana delle creature, che Kant sembra avere conosciuta, secondo il suo solito, soltanto di seconda mano, non smentisce, bensì conferma questo giudizio. Basta leggere, del resto, la pagina precedente (B 695), dove è empiricamente sancita la netta discontinuità delle specie in natura proprio come dato di fatto originario. 68 69

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1. Analisi tematica   133

viceversa il futuro Kant critico, e destato dal sonno dogmatico, è il Kant che continua a rimanere legato a un rozzo concetto meccanicistico di causa, allora bisogna dirlo, ammettendo che il suo dormiveglia continui, e che la Critica non segni proprio sempre e in ogni caso un progresso. Kant non conosce in genere che una sola causa: quella che viene prima dell’effetto. E rende empirico ciò che per Hume voleva avere un significato puramente logico: «Giacché la nostra regola di ragione riguarda soltanto il confronto secondo l’identità e la contraddizione. Ma in quanto qualcosa è una causa, viene da qualcosa posto qualcosa d’altro, e non si può quindi trovare alcuna connessione in virtù dell’accordo»70. Appunto: se qualcosa viene «posto», è logico che questo qualcosa abbia una causa. Se io metto una palla sulla superficie di un biliardo, e le imprimo un movimento colpendola con un’altra palla, io non compio affatto un’esperienza empirica – compio un’esperienza logica (come Kant riconoscerà poi chiaramente nella prima Critica, parlando specialmente delle esperienze di Torricelli). In questo senso la causalità è meccanica – ma bisogna intendersi, partendo da un primato della logica. Non diversamente, posto il cono, esso risulta essere l’effetto della rotazione d’un triangolo rettangolo. Ma se invece vedo un bruco strisciare sopra un cavolo, e affermo che ciò deve avere la sua causa, non so più quel che dico – e nondimeno posso continuare a ragionare secondo cause. Kant doveva tenersi più stretto, malgrado tutto, alla nozione meccanica di causa piuttosto che ai princìpi logici, perché questi ultimi non arrivano fin dove essa può arrivare. La causa può fare da vera guida alla metafisica, ossia a quell’arte che, non avendo più un oggetto suo proprio, scruta con la ragione le proprietà più recondite delle cose71. Essa è dunque il tramite alla cosa in sé – ma non si vede dunque come poi, nella Critica, la causa possa entrare a far parte delle categorie, che sono dedotte dal giudizio! All’obbiezione dello Schulze si può rispondere osservando che la nozione di causa assume talvolta in Kant un significato logico non obbligato e non obbligante, come si vede proprio in questo passo dei Sogni: quando io non voglio considerare la stessa cosa come causa, non ne nasce mai una contraddizione, giacché, posto qualcosa, non è contraddittorio togliere qualcos’altro. Perciò i concetti fondamentali delle cose come cause, quelli delle forze ed azioni, se non sono tratti dall’esperienza, sono del tutto arbitrari e non possono essere dimostrati, né contraddetti. So bene che pensiero e volontà muovono il mio corpo, ma tale fenomeno, in quanto

  Sogni d’un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Carabellese, pp. 423-424.   Ivi, p. 421.

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semplice esperienza, io non posso mai ridurlo ad un altro mediante l’analisi; perciò io posso certo riconoscerlo, ma non intenderlo72.

Il passo mi sembra notevole perché Kant, una volta tanto, vi svincola esplicitamente la causa reale dai princìpi della logica. La via che conduce al Dio che si nasconde nei cieli gli sembra talvolta meno interessante della via che conduce al dio che si nasconde nelle cose. Ma allora è chiaro che continuare a servirsi di un termine come ‘causa’, senza coniarne un altro più adatto, è fonte d’innumerevoli equivoci. Se si trascura di considerare i rari passi come questo, bisogna dire che la nozione di causa è generalmente in Kant così strettamente logica da saldare insieme nientemeno che il principio d’identità col principio di contraddizione secondo una deduzione, così che io posso dire: ‘Se A è A, ne consegue che A non è non-A’. Essa potrebbe dunque concepirsi, in un certo senso, come principio dei princìpi e motore immobile del divino intelletto, all’origine di una concatenazione mista o bipartita degli esseri dell’intero creato. Interpretato in senso strettamente logico, insomma, il principio di causa viene in definitiva a coincidere con la deduzione (come aveva effettivamente visto lo Schulze): nel senso che l’implicazione della causa nell’effetto è ciò che lega strettamente il principio di contraddizione col principio d’identità, facendone la sua immediata conseguenza. Il principio d’identità, da sé, sarebbe del tutto impotente, un immoto immobile o un’ovvietà inutile, una beffa, persino incapace di formularsi nell’estensione minima della tautologia73. Ma con l’immediata conseguenza, con l’effetto o con la deduzione dall’identità della non-contraddizione, invece, viene anche implicitamente sancita l’esistenza della contraddizione stessa, e può così iniziare un vero movimento della logica. Ciò mi sembra del tutto evidente; e lo dimostra il fatto che Fichte, per esempio, non appena lo capì pensò di costruirci sopra il mondo intero. Ed è soltanto poco meno evidente il fatto che la futura deduzione trascendentale della Critica rappresenta, per l’appunto, l’applicazione alle umane funzioni gnoseologiche del divino principio di causa (la quale, come la critica del criticismo ha giu-

  Ivi, p. 424.   In un passaggio dei Nuovi saggi sull’intelletto umano Leibniz accenna rapidamente alla sterilità del principio d’identità, preferendogli il principio di contraddizione come motore logico. Il primo è la massima generale, mentre il secondo, la negazione, ne è l’applicazione. E anzi, come dice Filalete (o pseudo-Locke): «Mi sembra che la massima [generale] dipenda da questa negazione che ne è il fondamento; e del resto è più facile ad intendersi che la medesima cosa non può essere diversa, anziché la massima che rigetta le contraddizioni» (in Scritti filosofici, a cura di Domenico Omero Bianca, utet, Torino 1988, ii, pp. 204-205). 72 73

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1. Analisi tematica   135

stamente notato, funge in un certo senso da categoria delle categorie, dotata di un ruolo speciale). Ciò che non è immediatamente evidente, invece, è la cosa forse di gran lunga più importante: e cioè, che con la deduzione dal giudizio delle categorie dell’intelletto nella Critica Kant pospone, nell’ordine del processo conoscitivo, quel principio di causa che, come implicita identità dei pensieri divini, negli scritti cosiddetti precritici era invece stato posto al vertice dell’unità logico-ontologica del creato. Nella prima Critica l’essere implicito dell’effetto nella causa non è più il primo motore immobile della creazione. È qualcosa che vi si ricollega sempre, certo; ma è l’intuizione a prendere stavolta il primo posto: ovvero non più l’essere implicita la contraddizione (attraverso la noncontraddizione) nel principio d’identità, bensì l’essere implicito del giudizio nell’intuizione sensibile. Ragionando a stretto rigor di logica l’uomo, prima, poteva esser simile a Dio, ragionando pressappoco come Lui – salvo la creazione immediata dal pensiero; ora no: con la Critica egli ragiona soltanto come un uomo, da quell’essere sensibile e limitato che è. In questo senso si può dire, ormai, che la relazione causale sia effettivamente sinonimo di relazione meccanica. Prima c’erano due mondi distinti verticali, e l’uomo poteva salire a Dio per almeno una scala; ora ci sono due mondi distinti orizzontali, e l’uomo farà da sé nel sottostante, agognando per il resto, con l’immaginazione metafisica, a tutto ciò che sta sopra, e sapendo, o credendo di sapere, ciò che fa. *** Parlare di progresso, qui, dipende dai gusti. Ciò che non mi sembra del tutto opinabile, invece, è il mutamento che bisogna riconoscere verificarsi nella mente umana che cominci a ragionare in questi termini: se non altro, perché l’implicazione del giudizio nell’intuizione sensibile non costituisce affatto una coincidenza d’identici; ed è lecito qui sospettare l’esistenza d’un problema logico d’ordine generale, perché tutte, o quasi, le principali condizioni della Critica sono già disseminate negli scritti cosiddetti precritici. Si tratta dunque d’implicazione del giudizio nell’intuizione, oppure, viceversa, dell’intuizione nel giudizio? Se spiegassimo l’implicazione mediante l’uso ingiustificato di termini come ‘analitico’ e ‘sintetico’, alla maniera di Kant, non faremmo che aggiungere problema a problema: perché un’intuizione sensibile, che è sintetica per sua natura, sarebbe analitica nell’implicare qualcos’altro che non sia l’oggetto; e un giudizio analitico implicante intuizione sensibile non sarebbe che una contraddizione in termini. Se è evidente, come ho detto, che il prin-

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cipio d’identità è implicito nel principio di non-contraddizione, non è affatto chiaro nella Critica quale delle due figure attive della conoscenza, intuizione sensibile e giudizio, sia implicita nell’altra. E non occorre, credo, significarne con molte parole l’importanza: si tratta di riconoscere nientemeno che la figura logica capostipite della conoscenza. O il giudizio è implicito nell’intuizione sensibile – e allora essa non è neppure intuizione, ammettendo un presupposto già dato in una forma ben complessa com’è il giudizio; oppure l’intuizione sensibile è implicita nel giudizio, che ne deriva come forma articolata – e allora non si vede la necessità di parlare di deduzione della causa e delle restanti categorie per costruire concetti. A cominciare dalla dissertazione per l’ordinariato, il De mundi, nell’arco dell’ottavo decennio del secolo il postulato della sostanzialità dello spazio si capovolgerà nella sintesi estetica, insostanziale, puramente relazionale o (come Kant l’intende) formale, dell’a-priori sensibile – non senza scontare la promozione gnoseologica col cedere al senso ‘interno’ del tempo il primato nella conoscenza. C’è qualcosa di simmetrico e di combinatorio in queste svolte dal senso intellettuale dello spazio del periodo precritico all’intuizione sensibile del tempo nella Critica. La nozione stessa del tempo del resto, come notò Bergson da qualche parte, vi fu desunta dal senso esteso e uniforme dello spazio. La posposizione critica dell’esercizio dell’intelletto rispetto all’intuizione sensibile (una posposizione in un ordine di precedenza conoscitiva che dev’essere necessariamente scandito dal senso del tempo, il quale nella Critica assume perciò il primato sul senso dello spazio per ragioni procedurali del tutto indipendenti dall’interiorità, come Kant invece getta là); questa posposizione, dunque, è soltanto il frutto di una naturale combinazione, vale a dire di un’applicazione all’intuizione e al giudizio del buon senso, che viene a sciogliere con la pomposa pretesa del ‘fondamento’ il misterioso vincolo di due semplici impossibilità: per il giudizio, d’essere intuizione; e per l’intuizione, d’essere giudizio. Che cosa, in realtà, li separa, se non il silenzio? Kant conosce in qualche modo per sentito dire le forze vive, ma di certo non conosce le forze mute. E l’intuizione sensibile per sua natura lo è, muta, nell’osservazione e nella contemplazione; mentre il giudizio per sua natura non lo è, nell’enunciazione e nel soliloquio della meditazione. Quella accomuna l’uomo al regno animale e alla natura del creato, questo ne lo separa chiudendolo in un suo orizzonte intellettualistico d’inesausta trattazione e comunicazione e discussione. Senza la pretesa di soccorrere la conoscenza corredandola di un fondamento, dalla critica sarebbe forse potuta scaturire una formidabile filosofia

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1. Analisi tematica   137

estetica, tutta quanta basata sul ruolo conoscitivo preliminare di una sensibilità recettiva, non immediatamente reattiva, bensì benintesa come raccolta d’innumerevoli sintesi a priori altamente e lungamente elaborate e tràdite, di contenuti intuitivi e di muti giudizi larvali, autogeni – ossia pregiudizi. Essa avrebbe potuto fare della mente umana qualcosa di lontanamente ma sostanzialmente simile alla mente divina – con la sola parziale esclusione della creatività reale immediata: perché quest’ultima soltanto qualche poeta se l’è attribuita, o vista attribuire. E quanto all’intelletto, poi, sulla base di simili presupposti sarebbe stato riconosciuto il ruolo collaterale, e solo successivo, e solo perfettivo che gli spetta, dai cui limiti formali esso ben difficilmente sarebbe potuto uscire – e il pericolo sarebbe stato in questo caso non già l’intellettualismo, bensì l’estetismo. Invece no. L’assunzione da parte dell’intelletto, con le sue categorie, di una posizione successiva rispetto al giudizio e all’intuizione sensibile, senza che fosse sciolto il problema del loro rapporto, fu soltanto il frutto di una combinazione di personaggi, e di un’applicazione delle loro relazioni preesistenti in ordine inverso. Fu la pretesa di raddrizzare l’intellettualismo leibniziano, insomma, mediante una sorta di manierismo. E non riesco a usare termini diversi da ‘combinazione’ e ‘applicazione’ per designare il ricorso a un espediente, il ribaltamento di posizioni, che spalancherà pressoché illimitate possibilità logiche e dialogiche all’intellettualismo idealistico. Così come fu concepito esso sortì il risultato opposto rispetto all’estetizzante: ossia quello di collocare il motore immobile della creazione speculativa nella sensibilmente limitata, ma causalmente presidiata, sede strettamente categoriale e concettuale dell’intelletto. Quest’ultima esercita sì la sua funzione logica come effetto di una causa, ossia come conseguenza di una deduzione dal giudizio (ossia dal pregiudizio) – ma lo fa essendo, al tempo stesso, innegabilmente, la facoltà statutariamente abilitata per eccellenza a esercitare proprio la deduzione logica medesima. Le forme dell’intelletto, dedotte, sono insomma gli strumenti medesimi secondo i quali può effettuarsi la deduzione! E quanto all’intuizione sensibile implicita nel giudizio (ossia, non lo ripeterò più, in quello che è di fatto un pregiudizio), bisogna riconoscere che la mancanza d’un suo svolgimento evidente nel giudizio medesimo fa sì che le rimanga assegnata una titolarità presidenziale, diciamo così, puramente onorifica, o cautelativa; la quale titolarità diventa, di fatto, a dispetto d’ogni pretesa trascendentalità, meramente preliminare o istruttoria. I due distinti mondi conoscibili, con le rispettive facoltà conoscitive, restano in tal modo con la Critica non più coordinati,

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bensì gerarchicamente subordinati secondo un ordine di procedura. E il centro forte di questa subordinazione è l’intelletto: il quale detiene le chiavi della procedura, dalla quale dovrebbe dipendere. su di un profilo esemplificativo Se si vuole veramente risalire fino all’origine formale, testualmente sancita, dell’inversione logica nel modo di pensare di Kant bisognerà riferirsi alle seguenti parole, contenute nel § 10 delle Forze vive, che già la rivelano come una delle forme più precoci e caratteristiche del suo stile: Siccome il tipo di Legge secondo cui le sostanze interagiscono deve determinare anche il modo dell’associazione e della composizione di molte di esse, allora la Legge, secondo la quale viene misurata un’intera raccolta di sostanze... deriverà dalle leggi secondo cui le sostanze cercano di riunirsi in virtù delle loro forze essenziali74.

È proprio una bella conclusione, mediante la quale ogni problema potrebbe diventare soluzione di se stesso. Insomma: siccome la Legge deve determinare le molte leggi, vorrà dire, secondo Kant, che la Legge potrà essere fatta derivare da queste molte leggi. La soluzione del quesito è trovata mediante una sua riformulazione in forma di deduzione a ritroso. Kant non aveva ancora venticinque anni, e già praticava quest’arte della capriola, fatta di opposizioni e di capovolgimenti, di disgiunzioni e di relazioni inverse fra presupposti e false deduzioni. Nel prossimo capitolo, dedicato all’Analisi Cronologica, trattando delle Quantità negative osserveremo il fenomeno anche sotto gli aspetti realistico e letterario: non c’è alcuna Legge a capo di questo universo, che è forma di un sostanziale disordine delle molte leggi individuali. Ma ciò che intanto dobbiamo osservare con preoccupazione, qui, è il ben organizzato disordine esistente nella testa di Kant medesimo: perché la trattazione principale delle Forze vive, svolta nel secondo lungo capitolo, non è che una raccolta di autentici spropositi elencati in forma di continue tergiversazioni allo scopo, dichiarato fin dal principio, di trovare «una certa proposizione media» fra le opposte tesi 74   Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, a cura di Ivano Petrocchi, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2000, p. 61. Per rendere più chiara l’interpretazione del passo mi sono giovato della libera maiuscolazione del sostantivo, che non è purtroppo ammessa nell’uso tedesco, il quale la impone in ogni caso ai sostantivi. Il problema della Großschreibung si riproporrà, come vedremo nella Critica, fra ragione e Ragione.

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1. Analisi tematica   139

cartesiana e leibniziana, o «la via più sicura nell’adottare un’opinione in cui entrambi i grossi partiti trovino il loro tornaconto»75. Mediante un procedimento sic et non, e distinguendo il corpo matematico dal corpo fisico Kant, nell’insieme, vuol dare ragione a Cartesio col secondo capitolo, e a Leibniz col terzo. Le rispettive equazioni di primo e di secondo grado, per giunta, risultano entrambe ammissibili per la mancanza di una chiara distinzione preliminare dei moti corrispondenti: non accelerato e accelerato. La ragione di questa mancanza o reticenza c’è: Kant pensa a un corpo fisico come a un corpo «libero»; e sebbene non si curi di spiegare veramente in che consista questa sua libertà, che gl’imprime una forza «viva», gli sembra naturale credere che essa non possa esercitarsi che dall’interno, mediante ciò che chiama «intensione». Una forza esercitata su di esso dall’esterno ne fa una cosa morta – ergo: non ne rende concepibile l’accelerazione. «La legge leibniziana, che quanto al resto è corretta, dovrà [dunque] apparire in questa forma: un corpo che si trova in movimento reale e libero ha una forza che è uguale al quadrato ecc. ecc.»76. Ma così si comincia subito col sancire l’autentico azzardo di fare di un corpo in moto rettilineo uniforme, procedente per pura e semplice inerzia, non soggetto all’azione di alcuna forza secondo la prima legge della dinamica, un essere libero e vivo – e tuttavia dotato di una quantità d’energia calcolabile mediante una semplice equazione di primo grado; mentre un corpo in moto uniformemente accelerato, soggetto all’azione costante di una forza in conformità alla seconda legge della dinamica, sarebbe cosa morta – e tuttavia dotata di una quantità d’energia calcolabile mediante un’equazione di secondo grado. Così Kant può illudersi d’aver dato a ciascuno qualcosa dell’altro. Non tanto c’è intellettualismo, qui, dove la principale preoccupazione di Kant è proprio, semmai, la ricerca della concretezza, della realtà, che gli sembrano meglio garantite dal dualismo cartesiano, piuttosto che dalla gradazione leibniziana fra opposti77. C’è manierismo, piuttosto: c’è, vale a dire, il gusto dell’incrocio delle nozioni, e l’applicazione alla fisica di pregiudizi relativi alle dimensioni ‘interna’ ed ‘esterna’ delle cose (i quali gli derivano, come cosa 75   §§ 20 e 21. Nell’Introduzione all’edizione italiana del Petrocchi, del resto, dopo il sunto delle posizioni di Cartesio Newton Leibniz e d’Alembert, manca completamente proprio il sunto della posizione kantiana, che resta contenuto nella varietà dei giudizi dati sull’operetta dai posteri. 76   § 23. Il corsivo originale è diverso, più esteso; io mi limito ad usarlo per evidenziare la sola integrazione di Kant. 77   È vero che sporadici accenni alla gradazione infinitesima si trovano qua e là, come s’è già visto, ma essi non riguardano l’unità di sostanze o grandezze diverse, bensì sempre della medesima (come al § 26, per esempio, dove lo stato di quiete è descritto come nient’altro che un movimento infinitamente piccolo).

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140   parte prima. avanti «la critica»

naturale, dalla sua educazione religiosa); e c’è l’esercizio nell’argomentazione di una tecnica modulare di composizione di assunti tràditi e finiti, senza l’aggiunta di alcuna originale esperienza empirica o di pensiero: una forma d’autismo, o di omofagìa logica, che rimarrà poi una delle condizioni forse più generali e radicate del suo pensiero. Intanto, però, poiché l’intellettualismo è anche negazione della concretezza e dell’evidenza e del buon senso, vediamone alcune forme sparse negli esempi fisici ai quali Kant saltuariamente ricorre. Ciò potrà consentirci qualche osservazione anche sul suo profilo scientifico. È proprio di un profilo esemplificativo che si deve parlare, e non di un profilo sperimentale, perché Kant condivise del tutto col cartesianesimo il costume di compiere esperienze unicamente in forma di trattazione – diciamo pure: a parole. Né le parole, in compenso, costituirono mai per lui un’esperienza: nel senso che la sua conoscenza degli autori che talvolta menziona, e più raramente discute, rimase sempre alquanto esterna, attenta a captare il significato generico delle loro dottrine; così che la filologia, intesa come esperienza condotta sul testo, subì la medesima sorte dell’applicazione kantiana del metodo sperimentale in campo scientifico: egli non ne ebbe semplicemente alcuna. La questione degli esempi andrebbe presa in considerazione con una speciale indagine, poi, anche perché l’esempio è di per sé, per così dire, il rilievo sensibile del testo, o un testo nel testo: col quale lo spessore filologico cambia d’aspetto e di consistenza, passando dallo svolgimento lineare del filo del discorso al nodo in cui, esponendosi per più lati, l’evidenza si fa in un certo senso duplice, solida. Kant se la cavò talvolta abbastanza bene con le rapide immagini, ma evitò quasi sempre gli esempi concreti; e quelli che portò furono sempre di scarso rilievo e di corta misura, tagliati sempre allo scopo conclusivo immediato. Lo sconsigliavano dal darne, del resto, le sue scarse competenze tecniche in ogni campo. Le esperienze ch’egli menziona nelle Quantità negative, per esempio, sono tutte altrui; e usando i verbi al condizionale egli confessa che desidererebbe veder compiuta una qualche sua immaginaria esperienza, i cui effetti si dovrebbero poi senz’altro verificare. Ma non si tratta che di applicazioni per analogia78. Per approfondire la sua problematica bisogna addirittura aiutarlo, esemplificando a nostra volta; ed è proprio ciò che farò nell’Analisi Cronologica, avviandomi a concludere la discussione della Teologia naturale. 78   Carabellese, pp. 278-281 e nota. Edotto da esperienze altrui sulle polarità elettriche e termiche compiute con tubi e aste, per esempio, egli vorrebbe accendere ad un’estremità un tubo pieno d’alcool per verificare con un termometro l’abbassarsi della temperatura all’estremità opposta. L’esperienza dovrebbe confermare l’ipotesi schematica con la quale egli vi si accingerebbe.

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1. Analisi tematica   141

I casi delle Forze vive non sono esempi, del resto, bensì esperienze immaginarie. Ho già menzionato nel precedente profilo stilistico lo sperticato e ben confuso esempio delle eclissi dei satelliti di Giove per spiegare con la propagazione della luce la differenza tra ragione «antecedentemente» e ragione «conseguentemente» determinante. Ma esso, per lo meno, è svolto – a differenza dell’esempio tratto dall’ars combinatoria nella proposizione Seconda della Nova dilucidatio79. Da nessuna parte, in nessuno dei suoi scritti, del resto, Kant dà mai l’impressione d’avere compiuto studi approfonditi sulle cose concrete di cui parla, bensì, semmai, d’averle rasentate quanto basta per servirsene e ragionarci sopra. Un altro caso di apparente rilievo porta il titolo di «Esempio», ma non lo è: si tratta in realtà d’una trattazione speciale sulla natura dello spazio e delle rappresentazioni annessa come appendice alla Seconda Meditazione della Teologia naturale80. Il valore intrinseco degli esempi elencati nelle Quantità negative è persino inferiore rispetto a quelli della Nuova dottrina; e dopo il calcolo comparato delle virtù e dei vizi degli avari, che abbiamo già visto, bisognerà per forza ricordare anche il caso della madre spartana che gioisce in misura 4a per l’eroismo del figlio; che tuttavia si addolora in misura a per la notizia della sua morte; e che gioisce perciò, in totale, in misura 3a81. Ma indipendentemente dalla loro destinazione, simili esempi restano comunque più interessanti dei frequenti esempi tratti dalla contabilità monetaria. *** Restando qui ancora sulle generali, bisogna dire però che in un caso il prudentissimo Kant s’arrischiò a dare un vero e proprio intero saggio di argomentazione esemplificativa: nella (non tanto) giovanile Nuova dottrina del moto e della quiete; e si tratta di prova davvero scarsa: una baldanzosa illustrazione di esperienze raccogliticce, disorientanti e paradossali, che invoca tuttavia la preliminare legittimazione del semplice senso comune (gesunde Vernunft, bloße gesunde Vernunft) contro i giudizi concordi della «rispettabile moltitudine», o della «gran folla» dei filosofi82. Col negare all’inerzia il significato di forza («inventata senza necessità»83), e negando il principio leibniziano di continuità   Ivi, pp. 7-8.   Ivi, pp. 236 ss.   Ivi, pp. 272-273. 82   Ivi, p. 75. Un successivo riferimento a «i più celebri naturalisti» nel secondo capoverso della terza parte (p. 83) resta invece di significato confuso: non si capisce se Kant ironizzi su di loro, o se ne cerchi piuttosto la tutela. Il disdegno tentato, snobistico, è un’altra caratteristica della sua personalità che vedremo meglio nell’Analisi Cronologica. 83   Ivi, p. 80. Ma non era già stato definito lo stato di quiete nelle Forze vive come un movimento 79 80 81

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142   parte prima. avanti «la critica»

nella trasmissione del moto, Kant si crea un universo fisico estremamene reattivo e violento, in cui all’azione non corrisponde una reazione, bensì azione e reazione sono tutt’uno, in una reciproca collisione ignara dei rispettivi stati di quiete. In un mondo che sembra tutto quanto istantaneamente scosso e accelerato l’inerzia, in definitiva, non esiste, neppure come termine estremo di una gradazione: il movimento originato dall’urto di corpi perfettamente anelastici è in realtà il movimento del mondo (o del sistema di riferimento) rispetto a due oggetti che nella collisione hanno annullato le loro apparenti velocità relative. Alle forze gravitazionali, che rispetto alle forze meccaniche istantanee possono produrre i loro effetti «soltanto in un tempo molto più lungo», e dunque gradatamente, non è riservato che questo brevissimo cenno84; e per il resto dunque lo scritto non è che un’improvvisata teoria dell’attivismo fisico, in cerca di trovate sorprendenti. Il non più giovanissimo Kant sembra deciso a combattere col senso comune l’intellettualismo dei sapienti – e lo fa con l’eristica, e coi sofismi di «nuovi concetti» di moto e di quiete che vanno precisamente contro il senso e il linguaggio comuni. C’è qualcosa d’impudente in questo tentativo di farsi strada smentendosi, e invocando in nome di Cartesio il senso comune – a onta, però, «di ogni pedanteria linguistica», e a dispetto del «senso proprio della lingua». Moltitudini e folle non sono fatte di volgo, per lui, bensì di dotti, che sembrano ancora confidare in un’antiquata possibilità di capirsi, com’è offerta, per esempio, dalla proprietà di linguaggio – lui no; e il senso dell’intera argomentazione è quello di privare ogni esperienza dinamica del suo sistema di riferimento per gettarsi in uno stato di vertigine, dal quale uscire con la clamorosa scoperta che le espressioni di quiete e di moto non valgono in senso assoluto, bensì soltanto in relazione a sistemi di riferimento – e che per il resto è meglio fidarsi del nostro buon senso. Ma anche le pure relazioni a sistemi di riferimento, del tutto aleatorie, non gli bastano; e del cartesianesimo il ‘giovane’ Kant (che si trovava in quest’epoca, veramente, quasi nel mezzo del cammino della sua vita) accetta volentieri, com’è noto, la nozione sostanziale dello spazio fisico, come ribellandosi all’idea che la realtà si possa ridurre a formule matematiche: «Giacché come ne distinguerei [altrimenti, i.e. nello spazio] le parti e i luoghi diversi, non occupati da nulla di corporeo?»85. infinitamente piccolo? Analogamente l’inerzia dovrebbe essere qui descritta non come negazione della forza, bensì come una forza infinitamente piccola. 84   Ivi, p. 84. 85   Ivi, p. 77.

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1. Analisi tematica   143

C’è qualcosa di bizzarro e d’invertito nello scombussolare tutto per tenersi attaccati alle solide cose corporee. Non è gran colpa, questa, se si pensa nell’insieme alla fisionomia materialistica e sensistica del suo secolo; e quando poi, con l’avvento dell’astratto cittadino della democrazia, le dispute accademiche di fisica gravitazionale si trasformeranno in lotte ideologiche di filosofia politica, a un altro grand’uomo come Marx non bastò la vita intera per rassegnarsi a vedere scomparire la sostanza sociale del lavoro nell’essenza politica dello Stato, e il valore d’uso nel valore di scambio, e l’insieme di variopinte relazioni che fanno il valore dell’uomo nell’astratta aridità del rapporto garantito dall’impersonalità delle leggi. In questo senso il pensiero di Leibniz va annoverato fra le principali radici della democrazia moderna; e ciò spiega, io credo, la pervicace tendenza della sinistra radicale d’ogni tempo (che è stata, sempre, più sociale che politica) a finire regolarmente per cercare le proprie remote ascendenze ideologiche su lidi preferibilmente spinoziani: sostanziali, dunque, anziché essenziali. È insomma un gratuito, istintivo bisogno di cose solide, quello manifestato da Kant in questo scritto, non motivato da alcuna vera necessità logica o efficacia di evidenza sperimentale. Il postulare la concretezza senza riuscire a evidenziarla nell’esempio è fallimento anche letterario, oltre che logico (basterebbe confrontare gli esempi di Kant con quelli, chiarissimi, di Hume e di Leibniz); ed è naturale, perciò, che questo suo bisogno si giustifichi intellettualisticamente con un risultato, in verità, altrettanto bizzarro, quanto può esserlo una necessità superflua: col praticare cioè una sorta di ‘intellettualismo empirico’. Nessuno gli sa dire, per esempio, in quale direzione e con quale velocità l’intero sistema solare si muova nel cielo delle stelle fisse – e dunque egli pretende di non saper più dire se una pallina disposta sopra il tavolo di una nave sia in quiete, oppure in movimento. Una palla di cannone sparata verso occidente, in senso diametralmente opposto alla direzione di rotazione della terra, e alla sua identica velocità nel punto latitudinale di stazione, non si avvicina al suo bersaglio più di quanto quest’ultimo non si avvicini a essa: l’esplosione della carica di lancio non fa che annullare la velocità di rotazione terrestre. È un argomento che sembra tratto dall’Antiaristarco di Froidmont, o dall’Anticopernicus Catholicus di Giorgio Polacco86. E Kant è troppo accorto per trarre l’ovvia conclusione che il lettore si attende: in conseguenza dello 86   Una raccolta dei loro esempi, che vorrebbero smentire l’ipotesi della rotazione terrestre (come quello del vento, che dovrebbe soffiare sempre dall’oriente; o degli uomini che dovrebbero avere artigli, come i gatti, per tenersi aggrappati alla superficie terrestre allo scopo di evitare di essere proiettati nello spazio; o della freccia che, scoccata verso occidente, dovrebbe ricadere alle spalle dell’arcere; e simili), si trova in Andrew D. White, A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, Dover, New York 1960 (ma già 1896), i, pp. 139, 146.

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144   parte prima. avanti «la critica»

sparo il proiettile resta immobile, in realtà, per sottrazione dell’accelerazione terrestre, mentre il cannone se ne allontana insieme col suo vincolo terrestre, e il bersaglio altresì, ugualmente vincolato alla terra, gli corre incontro. Se Kant non trae questa conclusione, arrivando tuttavia quasi al punto di enunciarla, è perché non ci crede. Non è sincero: recita coi paradossi. Altrimenti avrebbe proseguito i suoi studi di balistica – che veri e propri studi, del resto, non furono mai, bensì, come ogni altro suo interesse, per lo più divagazioni ipotetiche su studi altrui. Con la perdita del sistema di riferimento cosmico egli faceva torto anche a se stesso, e alla teoria del piano unico attraversante l’intero universo che aveva enunciata nella Storia della natura e teoria del cielo del 175587. Qui non c’è affatto, come qualcuno avrà pure creduto, l’intuizione con un secolo e mezzo d’anticipo della teoria della relatività da parte di un piccolo genio: c’è solo un uomo insicuro, afflitto da agorafobia, che vuol fare il disinvolto e sorprendere; e che prepara, semmai, la breve stagione della prossima rivolta letteraria dei giovani sturmiani. Il loro decennio, gli anni Settanta, sarà anche il periodo d’incubazione della prima Critica. Perciò non vale nemmeno la pena di scomodare Gassendi, mi pare: il quale nelle obbiezioni mosse alle Meditazioni cartesiane aveva insistentemente gettato con disarmante franchezza sul suo condiscendente interlocutore, che pretendeva di dubitare dei sensi, il sospetto di mancanza di buona fede, e di volere semplicemente sostituire a un antico pregiudizio sensistico un altro pregiudizio, intellettualistico. All’occasione, col pubblico adatto, Kant può pretendere di dubitare della scienza stessa, tenendosi saldamente a un prudente moralismo. Come ancora si vedrà negli scritti che verranno esaminati nella prossima Analisi Cronologica, e come mostra qualche nota bizzarrìa del suo comportamento (l’abituale puntualità cronometrica, per esempio, con la quale cercò di stabilire un rapporto sicuro con la sua comunità), il suo vero sistema di riferimento non è che il pubblico. 87   Per capire quale sia l’irritante vanità superficiale, a scopo occasionale, di simili argomenti, basterà confrontarli, per esempio, con la pagina del Saggio sull’intelletto umano in cui Locke discute della posizione d’una scacchiera alloggiata nella cabina d’una nave. La posizione in cui essa si trova è certamente relativa. «Ma poiché la distanza da certe parti della scacchiera è ciò che determina il luogo dei pezzi, e poiché la distanza delle parti fisse della cabina … è ciò che determina il posto della scacchiera, e poiché ancora le parti fisse della terra sono quelle mediante le quali abbiamo determinato il luogo della nave, si può dire che, sotto questo rispetto, tutte queste cose si trovano nello stesso luogo» (ed. a cura di Marian e Nicola Abbagnano, utet, Torino 1971, p. 208). Convertendosi in pragmatismo attraverso le nozioni di scopo, fine, utilità, uso, l’empirismo trova anche un sistema di riferimenti assoluto: così che su qualunque scaffale si adagino le opere di Virgilio, l’episodio di Eurialo e Niso si troverà sempre verso la metà del ix libro dell’Eneide (ivi, p. 209).

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1. Analisi tematica   145

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*** È impossibile evitare, a questo punto, di dedicare almeno qualche pagina all’opinione di chi ha voluto trovare in qualche riga giovanile di Kant la precoce intuizione della possibilità di geometrie non-euclidee. Considerato lo spessore scientifico dell’uomo, come s’è appena visto, si tratta di un riconoscimento del tutto inverosimile. Un cenno episodico a una forma geometrica non-euclidea si trova (forse) nello scritto Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio88. Ma per giudicare il possibile significato di simili giudizi, sempre assai vaghi, bisogna risalire più indietro, alle tesi di laurea e di abilitazione. Non mi sembra proprio che lo scarso cenno alla possibilità d’altri tipi di spazio nel § 10 delle Forze vive significhi alcuna brillante intuizione precorritrice delle future ricerche sulle geometrie non-euclidee89. Kant pensa infatti ad altri mondi separati e lontani dal nostro, inconoscibili, e non a dimensioni diverse, conoscibili e pensabili, del nostro mondo, come dice nel successivo § 11: «spazi siffatti non apparterrebbero affatto al nostro mondo, ma dovrebbero costituire universi propri». Ciò distingue la sua posizione anche dalla ricca tradizione letteraria che fa capo, per esempio, allo Swift. La tesi di abilitazione, poi, mostra che la sua è un’ipotesi teologica, e nient’altro: la quale trova una vaga giustificazione in una delle ultime pagine della Nova dilucidatio, là dove si dice che soltanto un unico Dio può tenere uniti mondi del tutto isolati in se stessi e staccati dal nostro. La pura possibilità di questi mondi inconoscibili viene dunque insistentemente ammessa da Kant allo scopo di produrre una dimostrazione dell’esistenza di Dio che «superi di molto la solita dimostrazione basata sulla contingenza»90. I teorici o precursori delle nuove geometrie, a cominciare da un uomo come Gauss, non conobbero alcuna distinzione fra matematica ed esperienza (geodetica e cartografica, per esempio) – al contrario; e le rette chiuse che s’incontrano all’infinito non sono altro che i cerchi massimi dei meridiani terrestri, e non d’un qualche altro mondo o dimensione. I triangoli di grandi dimensioni non appartengono ad alcun altro mondo diverso dal nostro, ma hanno 88   Carabellese, p. 438: «Un triangolo sferico può essere completamente uguale e simile ad un altro, pur senza coprirlo». Non è chiaro che cosa intenda Kant, né si capisce perché due triangoli sferici uguali o simili non siano sovrapponibili; e se pensa, in tal caso, a dei solidi, il triangolo sferico è nient’altro che porzione della superficie laterale del cono. 89   Così l’editore Ivano Petrocchi, p. 62 nota 13, su sollecitazione di Silvestro Marcucci (Prefazione, p. 9) e suggestioni di Cassirer, di Adickes, di Tonelli (Introduzione, pp. 28, 29, 31). Marcucci è tornato sull’argomento nel suo contributo al volume di Studi italo-tedeschi, XXV simposio internazionale: “Immanuel Kant nel 200° anniversario della morte”, a cura di Roberto Cotteri, Accademia di studi italo-tedeschi, Merano 2004, pp. 35 ss. 90   Carabellese, p. 44.

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146   parte prima. avanti «la critica»

semplicemente vertici orografici o stellari, e le proposizioni di simile geometria ‘immaginaria’, ossia non contraddittoria in sé, ma pur sempre fisica, cosmica, si rendono comunicabili e discutibili soltanto riconducendole alle regole della geometria ordinaria. I modelli applicativi delle geometrie non euclidee restano pur sempre quelli a noi familiari; e l’indimostrabilità del quinto postulato euclideo del parallelismo rende la geometria ordinaria il semplice caso particolare discriminante fra due spazi contigui, ellittico e iperbolico, desunti non già da volumi dotati di un numero illimitato di dimensioni, come Kant immagina, bensì da relazioni assiomatiche fra angoli, punti, rette e superfici: ossia dai primi princìpi astratti della nostra esperienza. Finché si è partiti dal presupposto che la terra è una superficie piatta e infinita, la complanarità dei punti estremi di un segmento non ha richiesto alcuna dimostrazione, e la geometria non-euclidea è rimasta davvero una pura immaginazione; ma dacché la terra viene conosciuta come una sfera, la geometria non-euclidea diventa la realtà, ed è la complanarità che diventa un caso limite e che richiede una dimostrazione, insieme con la necessità propriamente fisica di tutta la geometria euclidea. Quest’ultima, d’altra parte, non può più pretendere di essere l’unica geometria capace di descrivere lo spazio fisico nei limiti delle possibilità dell’esperienza; e quanto alla natura dello spazio in sé – bene: «Forse in un’altra vita penetreremo la natura dello spazio, che per ora è irraggiungibile. Fino ad allora dovremo porre la geometria non nella stessa classe dell’aritmetica, che è puramente a priori, ma in quella della meccanica»91. Gauss rinunciò a pubblicare i suoi studi per timore delle «strida dei beoti» del campidoglio kantiano92. La lettura dei Nuovi princìpi di Nikolaj Lobačevskij può dare un’idea di quanto potesse essere radicale la ricerca di concretezza nei nuovi teorici: In effetti: come è possibile rappresentarsi con chiarezza la misura di una lunghezza, quando ancora non si sa che cos’è la linea retta? Come è possibile parlare di larghezza, di altezza, non avendo detto precedentemente nulla sulle perpendicolari, sul piano, [su] come sono poste le perpendicolari in un medesimo e in diversi piani? Infine, se nel punto non vi è nessuna dimensione, che cosa resta mai dopo di ciò in esso da rendere possibile che esso sia un oggetto di giudizio? Ammettiamo pure che ognuno si rappresenti chiaramente la linea retta, benché non possa ancora con ciò rendere conto del suo concetto; si chiede però in qual modo con l’ausilio della retta dovrebbe ora assegnare una dimensione alla linea curva, [e] due alla superficie curva?93 91   Lettera di Carl Friedrich Gauss a Heinrich Olbers del 1817 (Morris Kline, Storia del pensiero matematico, Einaudi, Torino 1999, ii, p. 1018). 92   Lettera a Friedrich Bessel del 1829 (ivi, p. 1016). 93   Nuovi princìpi della geometria, a cura di Lucio Lombardo-Radice, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 57.

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1. Analisi tematica   147

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Ma poiché neppure la sfericità terrestre è veramente alla portata della nostra diretta esperienza, se vogliamo attingervi dobbiamo essere ancor più radicali: Nella natura noi abbiamo cognizione, propriamente, soltanto del movimento, senza il quale le impressioni sensoriali sono impossibili. Pertanto tutti i rimanenti concetti, per esempio quelli geometrici, sono creazioni artificiali della nostra mente, tratte dalle proprietà del movimento; ecco perché lo spazio in sé, separatamente [preso], per noi non esiste. Dopo di che nella nostra mente non vi può essere nessuna contraddizione, se supponiamo che talune forze nella natura seguono una geometria, altre una [altra] loro particolare geometria94.

Movimento, forze; e «le forze da sole generano tutto: movimento, velocità, tempo, massa, perfino distanze e angoli»95. Ma questo riferimento all’esperienza non basta tuttavia ancora: perché «l’oscurità nei concetti è prodotta qui dall’astrattezza», e «invano si vorrebbe esaminare analiticamente casi siffatti». La geometria possiederà sempre qualcosa di specificamente suo: «la sfera della sintesi»96. Ecco dunque finalmente, a quanto pare, una somiglianza di vedute con Kant, il Kant del volume a infinite dimensioni. Ma essa non è che apparente – è vero semmai l’opposto: perché, come fa notare giustamente il curatore dei Nuovi princìpi citando il Dictionnaire encyclopédique des mathématiques del d’Alembert, proprio sulla scìa del migliore pensiero illuministico Lobačevskij non intende affatto la sintesi come una costruzione resa arbitrariamente possibile in base a semplici definizioni astratte, bensì come quei concetti che noi traiamo dalla natura per mezzo dei nostri sensi. La ragione può e deve ridurli al minimo numero possibile, perché essi servano dopo di ciò da solida base alla scienza. Tuttavia per solito nessuno segue il procedimento sintetico in questa forma, con l’osservazione di tutte le regole qui enunciate, preferendosi d’introdurre l’analisi, benché prima del tempo, e assumendo come presupposto lo sviluppo, anche se non completo, di quei concetti che costituiscono la nostra mente innata, e ai quali non resta altro che dare un nome, senza dilungarsi molto nei chiarimenti e senza preoccuparsi dell’esattezza nella definizione97.

Kant effettivamente aveva dato i nomi, ma s’era anche dilungato molto nei chiarimenti; e quanto all’esattezza delle definizioni, se n’era talmente preoc  Ivi, p. 51.   Ivi, p. 52.   Ivi, pp. 59-60. 97   Ivi, p. 60. 94 95 96

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148   parte prima. avanti «la critica»

cupato da darne più che a sufficienza in pasto agli storici delle dottrine. Passando da forme geometriche familiari, razionali e finite, al movimento e alle forze, come se il bisogno di concretezza e di evidenza non gli bastasse mai, Lobačevskij giunge a parlare di sintesi, di evidenza, di esperienza nientemeno che in termini di corporeità: Le superfici, le linee, i punti così come li definisce la geometria, sussistono soltanto nella nostra immaginazione; mentre noi operiamo la misura delle superfici e delle linee servendoci a questo scopo di corpi. Ecco perché è il caso di parlare di superfici, linee e punti solo nel senso in cui esse debbono essere intese nelle misure effettive; verremo in questo modo ad attenerci proprio a quei concetti, che sono immediatamente congiunti nella nostra mente con la rappresentazione dei corpi, ai quali la nostra immaginazione è avvezza, che possiamo controllare direttamente nella natura, senza prima ricorrere ad altri concetti, artificiali ed estranei (...) D’altro lato, nella natura non vi sono né rette né curve, né piani né superfici curve: in essa troviamo soltanto i corpi, di modo che tutto il resto, creato dalla nostra immaginazione, sussiste nella sola teoria98.

Ecco, dunque, di che consiste la nostra più prossima esperienza degli spazi della geometria comune e immaginaria, nei quali siamo completamente immersi: di corpi! In tempi di positivismo montante non dovette sembrare vero ai filosofi puri di poter trovare in un giovane metafisico un precursore delle nuove teorie matematiche. Ma al tempo di Kant le geometrie non euclidee avevano già una storia, della quale egli poteva anche avere orecchiato o immaginato qualcosa, per giovarsene all’occasione nel suo solito prudentissimo uso esemplificativo. Sul valore scientifico (non teologico) della sua ipotesi di spazi a molte dimensioni, dunque, possono ancora valere queste parole consegnate da Lobačevskij in una lettera: «Mi sembra però che noi, se prescindiamo dalla sapienza verbale dei metafisici, vuota di qualsiasi significato, sappiamo molto poco o addirittura nulla dell’essenza dello spazio: non possiamo confondere ciò che a noi sembra innaturale con l’assolutamente impossibile»99. ***

  Ivi, pp. 58 e 61.   Ivi, p. 55 nota 1. Carl Boyer liquida l’argomento affermando che «la scoperta della geometria non euclidea inferse un colpo mortale alla filosofia kantiana» (Storia della matematica, Mondadori, Milano 1990, p. 621). Un giudizio simile si trova in Eric T. Bell, I grandi matematici, Sansoni, Firenze 1950, p. 365; e a p. 244 il seguente giudizio di Gauss in una lettera a Heinrich Christian Schumacher del 1° novembre 1844: «Secondo me la sua [di Kant] distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche è una di quelle cose che cadono nella banalità, o sono false». 98 99

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1. Analisi tematica   149

È un civettare con le idee e con la fisica, quello di Kant: il quale nella Nuova dottrina tiene d’occhio, più che l’invocata gesunde Vernunft, o il richtiger Verstand, il suo pubblico e la moralità, con un senso di vigilanza non privo, in verità, di toni inquisitori. È quel che si vede nelle successive Considerazioni sull’ottimismo del ’59, dove l’argomentazione logica delle prime pagine viene ben presto abbandonata da chi finalmente esclama di non sapere che farsi, a ogni buon conto, d’una divina libertà (Dank für eine solche Freiheit!) di scegliere un mondo diverso, sia pure peggiore. Come già la forza d’inerzia nella Nuova dottrina, anche qui qualcuno s’è inventato senza necessità una simile specie di libertà (questa erdichtete Art Freiheit), e l’ha voluta mettere in voga. A Kant il mondo sembra pieno di «persone di gusti raffinati» che, anziché accontentarsi della «verità a buon mercato» (con la sua teoria del miglior mondo possibile, dopotutto, «anche Leibniz non ha creduto di dire nulla di nuovo»!), vanno in cerca di novità «non perché siano esatte, ma perché ci costano fatica». Non è ironia, la sua – altrimenti questo scritto non sarebbe stato ripudiato. Forse per il giovane Kant la libertà è soltanto una nuova moda; e gli sembra che si sia tanto impertinenti, annoiati o faziosi da pensare che Dio segua le mode. Meglio allora, secondo lui, attenersi a «una necessità che, nullificando la libertà, impone di scegliere ciò che chiaramente e giustamente si riconosce essere migliore». Sono toni e argomenti, come si vede, da precettore che tiene d’occhio un pubblico allarmato; e che non rinuncia, stavolta, a civettare con la logica per difetto di cultura teo-cosmologica. Sembra impossibile che un uomo simile abbia scritto la Nova dilucidatio. Ma dal momento che così è, invece, occorre sospettare che tutta quella molteplice libertà di Dio e dell’uomo fosse semplicemente un’argomentazione destinata a un pubblico diverso; e che, nonché mancare di studi approfonditi in alcun campo, a Kant difettassero anche delle profonde convinzioni. È un suo pregiudizio il concepire la possibilità soltanto come astratta libertà di scelta e non, anche (e prima di tutto, direi), come limitata disponibilità di mezzi, secondo la posizione del creatore nel Timeo, per esempio. Ma si può concedere che Kant ignorasse simili precedenti, o non ne facesse alcun conto: buon senso e sano intelletto, anche qui, sono invocati a scacciare l’intellettualismo100. Dei diversi modi secondo cui si può concepire la possibilità (come sufficienza della causa all’effetto; come limitata disponibilità di mezzi; 100   A dottrine timaiche, o piuttosto neoplatoniche (è tipico di Kant attaccarsi ai grandi pensatori prendendoli per le falde) si accenna nell’Ottimismo vagamente una sola volta, con queste parole: «Queste cose si possono immaginare nei riguardi di qualche favolosa deità di second’ordine, ma al Dio supremo non si possono attribuire se non le opere che sono degne di lui, che sono cioè le migliori tra tutte le opere possibili» (Carabellese, pp. 96-97).

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150   parte prima. avanti «la critica»

come libero concepimento a priori dell’inesistente; come ragione giustificativa a posteriori dell’esistente; come scelta arbitraria fra proposizioni logiche) Kant non sembra conoscere che quest’ultimo, il più grossolano – e lo ripudia. È un uomo assai diverso, quello che ci troviamo dinnanzi: non era proprio lui, soltanto l’anno prima, andato in cerca di nuove possibilità di concepire il moto e la quiete? Non aveva portato esempi dinamici paradossali contro le opinioni dei sapienti, che ora ripudia come sottigliezze blasfeme? È una condizione d’instabilità teorica, la sua, che dipende da un’evidente condizione d’instabilità psicologica e professionale. Dio, secondo lui, non può avere sacrificato l’ottimo mondo soltanto per conquistare la propria libertà: perché Kant non immagina che Dio possa cercare, prima d’ogni altra cosa, un ottimo se stesso. Egli vorrebbe che Dio fosse il primo soggetto dell’universo, nel senso che sarebbe ‘soggetto’ a questo medesimo universo come alla sua ottima creazione – ma non è così: perché Dio è, sì, il primo soggetto dell’universo, ma in quanto è ‘soggetto’ innanzitutto a se stesso non in quanto creazione, bensì in quanto creatore; e la creazione non è perfezione, se non in quanto perfezionamento di Lui stesso – che non può avere, evidentemente, uno scopo più importante fuori di sé. Questo è il segreto dei motiva intelligentiae della Nova dilucidatio. Kant lo riconosce nell’unico passo ben chiaro e valido dello scritto sull’Ottimismo: «L’indipendenza, l’autosufficienza, l’ubiquità, la potenza creativa ecc. sono perfezioni che nessun mondo può avere»101. Sono dunque perfezioni divine. Non è la necessità del mondo ciò che può negare la libertà di Dio, bensì la necessità della creazione, o l’atto che segue immancabilmente alla sua potenza; vale a dire, non il significato logico del principio d’identità, bensì il suo contenuto ontologico: il quale fa sì che A ‘sia’ A nel momento stesso in cui viene pensato. Dio non ha requie, e le Sue opere gli sfuggono di testa accrescendo in continuazione il corpo cosmico che l’imprigiona pesantemente. Da nessun’altra parte io credo, meglio che sullo sfondo di questa mentalità teologica tedesca, poteva sorgere la deificazione del Lavoro promosso a Sostanza, insieme con la dottrina scientifica della liberazione del lavoro che è anche, soprattutto, una liberazione dal Lavoro. L’Ottimismo segna una tappa importante per una sola ragione: perché dopo due terzi circa della sua breve trattazione Kant annuncia, come ho detto, di volere rinunciare a proseguire con l’esposizione di argomentazioni logiche di-

  Ivi, p. 95.

101

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1. Analisi tematica   151

mostrative di una tesi per affidarsi, piuttosto, alla salda tutela della moralità102. Si apre, da questo momento, un altro dei tanti spiragli verso la Critica, con le argomentazioni alternative e agnostiche dei paralogismi, dove la fede viene semplicemente posta a libero traguardo opinabile in una logica di opposti reali. Nel dormiveglia teologico egli seppe voltarsi sull’altro lato con le sole sue forze, senza bisogno di Hume, a quanto pare. Ma intanto noi lo vediamo, qui, stentare alquanto con argomentazioni che non sembrano davvero il frutto d’un logico di talento. Kant vuol dire, per esempio, che è possibile pensare un mondo del quale non esiste il migliore; e preferisce argomentare per assurdo, così: «Se non può [i.e. potesse] essere pensato alcun mondo al di sopra del quale non se ne possa pensare uno migliore, è [i.e. sarebbe] impossibile per il sommo intelletto avere la conoscenza di tutti i mondi possibili: – ma quest’ultima affermazione è falsa, dunque è falsa anche la prima»103. A parte il fatto che la conclusione avversativa è basata su un articolo di fede; e a parte il fatto che la conoscenza di tutti i mondi possibili al di sopra di uno non implica affatto l’esistenza di un solo mondo migliore possibile al di sopra di tutti; ma poi la formulazione per assurdo dell’ipotesi è una banale ovvietà involontaria: di un mondo mediocre si può certamente pensarne sempre uno poco meno mediocre. Non sarà certo di un qualsiasi mondo mediocre che si va in cerca, ragionando per assurdo. Nell’unica nota dello scrittarello, poi, si ripropone in qualche modo l’ennesima versione dell’argomento ontologico applicato alle cose: «In senso assoluto... una cosa è perfetta soltanto in quanto il molteplice in essa contiene in sé il fondamento di una realtà [vale a dire l’essere]. La grandezza di questa realtà determina il grado di perfezione. E poiché Dio è la realtà somma, questo concetto viene a coincidere con quello per cui si dice che una cosa è perfetta nella misura in cui si accorda con le qualità divine»104. Chi andasse in cerca di un Kant spinoziano potrebbe dire, qui, d’averlo trovato. Ma egli non si accorge di porre discorsivamente, insieme con l’essere, un qualcos’altro da cui la perfezione assai più dipende: la grandezza, o il grado e la misura della partecipazione all’essere. Sebbene non sappia concepire l’approssimazione alla perfezione che come sovrordinazione gerarchica, sembra essergli del tutto ignota e inaccessibile, neppure per minimi accenni, la grandiosità di concezione che una teoria graduale della partecipazione delle creature all’essere 102   Già nel corso dell’argomentazione principale, tuttavia, ci si imbatte in una deduzione che dev’essere tratta per fede «da ogni buon credente» (ivi, p. 92). 103   Ibidem. 104   Ivi, p. 93.

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152   parte prima. avanti «la critica»

comporterebbe, e che anzi aveva già ben comportato in sistemi la cui esistenza egli finge d’ignorare. Che il suo senso della perfezione sia fin d’ora esclusivamente gerarchico non mi sembra dubbio. La limitazione di una cosa reale va, qui e in seguito, strettamente congiunta col grado: «le negazioni non possono mai far parte delle qualità di un reale, ma soltanto lo limitano e ne determinano il grado»105. La seconda conclusione è arbitraria, e mostra com’egli fosse per istinto logico (perché esiste un istinto logico!) lontano da una concezione leibniziana di libertà. Kant non sa concepire i numeri irrazionali, per esempio, come individui tesi al perfezionamento di se stessi, o come l’unità essenziale sulla quale si costituiscono secondo un rapporto nature diverse o complesse; bensì mostra di sapere intendere soltanto l’irrazionalità dei numeri come abisso d’incommensurabilità fra Dio e mondo – come si vede bene in questo passo: «Quel mondo che si trova su quel gradino della scala degli esseri da cui s’innalza l’abisso divisorio [wo die Kluft anhebt] che contiene i gradi incommensurabili della perfezione i quali sollevano l’Eterno al di sopra di ogni creatura, quel mondo, io dico, è la cosa più perfetta tra tutte le cose finite»106. Nell’immagine non proprio felice d’un abisso che s’innalza dal piano c’è tutta la goffaggine non proprio disinteressata del suo stile, che nel linguaggio del razionalismo tiene ancora, e terrà sempre, nascosta in serbo qualche sorpresa, qualche colpo di scena terminologico, grammaticale o sintattico. Non siamo più agli esempi scientifici, o alla scienza delle immagini, bensì alle immagini della scienza; e sono immagini nascoste. Ma ecco – nel capoverso immediatamente successivo egli definisce l’unità del Creatore col creato come la «massima somma» che mai possa esistere: così che l’abisso divisorio infinitesimale come cifra irrazionale e trascendente di perfezione che unisce la creatura in un rapporto con l’intero creato si perde, in realtà, soltanto nell’aritmetica. Non è ancora regìa barocca di una teatralità prosastica del meraviglioso, la sua, come la vedremo nell’Unico argomento – no: qui è semplice originalità momentanea di una corta poetica del colorito, che cade immediatamente nella banalità: in fondo a quel bizzarro ‘abisso che monta’ non c’è che una somma. Se di una simile addizione consiste l’intero universo, è davvero impossibile soffermarsi commossi sulla celebre e sospirante sentenza conclusiva dello scritto, la quale fa tutto buono quel Finito che abbia un senso nell’ottimo Intero – anche se è da questa costola che si staccherà, trent’anni dopo, la terza Critica. In un caso, però, un suo equivoco mi sembra in parte scusabile: quando,   Ivi, p. 94.   Ivi, p. 95.

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1. Analisi tematica   153

acconsentendo a un vecchio vizio logico allo scopo di polemizzare con qualcuno, egli nega che dei reali d’eguale grado possano distinguersi tra loro per la qualità – dal momento, dice, che in ragione della loro indipendenza reciproca essi si distinguerebbero mediante le determinazioni di A e non-A107. È questo un antico sofisma terminologico incomprensibile (e sul quale lo stesso Kant non dovette avere le idee del tutto chiare, dal momento che qui egli promette al suo lettore di dare maggiori spiegazioni in proposito in un’altra occasione). La determinazione opposta e indipendente di A è, per esempio, B, insieme con tutto quanto divide B da Z108. Il cosiddetto ‘non-A’ non può essere il tutto meno qualcosa, ossia un non-tutto, oppure un altro tutto: esso va bensì esemplificato in una molteplicità di termini – ma questa esemplificazione viene a mancare quando si parla di un ‘non-A’. Proprio Kant, che nella medesima pagina dà poi ragione a Leibniz sulla questione del numero massimo, e del moto più veloce, e di simili concetti fallaci, parla tuttavia già di un altrettanto inesistente ‘non-A’, il quale sarebbe privo delle determinazioni di A, così come questo di quelle. Ma quelle determinazioni di ‘non-A’, in realtà, non esistono più di quanto esista la cosa stessa; e i romantici non fecero, poi, che ingigantire e sostanzializzare l’equivoco logico trasformandolo in ontologico, allorché posero lo stesso dilemma nei termini di Io e di non-Io, o peggio ancora di Io e di Mondo. Il principio di non-contraddizione non può affatto avere il significato di creare un’alternativa o, peggio, un’antitesi rispetto al principio d’identità: esso ne è piuttosto la conferma per deduzione e moltiplicazione; e parlare di una contraddizione fra A e un inesistente iperbolico ‘non-A’ significa soltanto montare un equivoco fra i due princìpi, che annulla d’un tratto la deduzione e la moltiplicazione che li lega, e genera ogni possibile e impossibile meraviglia. Il realismo degli universali potrebbe così diventare, nientemeno, il realismo del realismo di un’idea delle idee, la Contraddizione: la quale non ha minor diritto all’esistenza di ‘non-A’, del ‘Non-Io’, o del cosiddetto ‘Mondo’. Un’ipostasi come ‘non-A’ deve infatti generare un numero illimitato di simili. E il titanismo idealistico romantico scaturirà, anche, dall’attivistica perpetuazione logica di un sofisma come questo, che qui vediamo svolgersi in forma dialogica – non senza qualche esitazione. Ma bisognerà pur vincere quest’esitazione, per uscire in qualche modo a riveder le stelle: è solo questione di tempo. Ed è   Ibidem.   O come dice Teofilo nei Nuovi saggi di Leibniz: «mi sembra che ci sia più libertà nell’affermare che A non è B, che nell’affermare che A non è non-A» (Scritti filosofici, Bianca, ii, p. 205). Che nel ’59 Kant non avesse ancora potuto leggere questa pagina di Leibniz (pubblicata nel ’65) non mi sembra affatto importante: l’obbiezione all’assunto logico aristotelico è facilmente accessibile a chiunque. 107 108

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soprattutto una questione di sensibilità: la quale nei grandi sistemi metafisici deve trovare di lì a non molto, in qualche modo, il suo appagamento, riuscendo finalmente a vedere quel confuso ‘non-A’, o cosiddetto ‘Mondo’, contro cui vorrà ergersi l’autismo caratteriale dell’Io. Con Kant quest’Io muove i primi passi, nel chiuso angolo della sua provincia. su di un profilo formale Ho parlato più sopra, come si ricorderà, dell’opportunità di distinguere la relazione (o l’esteso, o il sostanziale) dal rapporto (o l’inesteso, o l’essenziale); e poi, poco sopra, anche della mutua dipendenza che deve sussistere fra i due princìpi d’identità e di non-contraddizione. Ho detto altresì che il numero irrazionale può essere interpretato come cifra d’una perfezione individuale, come illimitata soluzione del rapporto fra le diverse dimensioni di un essere complesso, o fra esseri di diversa natura. Intendo dire che mentre la relazione sussiste sempre unicamente in dipendenza delle specifiche sostanze connesse, il rapporto se ne rende invece indipendente: come mostra, per esempio, la natura assoluta del rapporto frazionario. Ma qui bisognerebbe parlare, veramente, di ‘nature’ del rapporto frazionario, che sono diverse: perché se il rapporto di ‘tre quarti’ descrive nella sua cifra la composizione di un cesto di frutta contenente due specie differenti secondo quella proporzione, così come la composizione di un organo amministrativo secondo rappresentanze corporative diverse, il rapporto designato col numero π descrive invece unicamente l’unità della circonferenza col suo diametro in ogni possibile cerchio. In quanto il senso della forma può trovare soluzione in un rapporto di tipo matematico possiamo distinguere almeno quattro casi: il rapporto razionale sostanziale, nel quale, delle quattro fette di una torta, se ne prendono tre; il rapporto razionale assoluto, nel quale si descrive la diversa composizione di un’unità; il rapporto geometrico irrazionale, algebrico; il rapporto geometrico trascendente, non algebrico. La matematica mostra l’esistenza di specie originarie, ossia di forme sostanziali, anche fra i numeri. Le accezioni non matematiche del lemma, d’altra parte, ampliano il significato del rapporto in senso narrativo, come ‘resoconto’; in senso gerarchico, come ‘convocazione’; in senso gnoseologico, come ‘trasmissione’ attraverso le facoltà conoscitive; in senso analogico, come ‘confronto’; in senso anamnestico, come ‘richiamo’; in senso relativo, come ‘punto di vista’ e dunque ‘opinione’; in senso sociale e giuridico, come ‘norma’ o ‘costume’. Tale è la folla

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1. Analisi tematica   155

di significati che fluttua come un’autentica città intorno al centro politico virtuale denominato ‘rapporto’109. E la città della nozione è anche nozione di città – come in queste parole di Leibniz: «Ces volontés du particulier ne différent de la volonté du General que par un simple rapport, et à peu pres comme la situation d’une ville considerée d’un certain point de veue différe de son plan geometral; car elles expriment toutes tout l’Univers, comme chaque situation exprime la ville»110. Si può parlare anche (e si parla, con terminologia giurispolitica) di costituzione nel significato di composizione di organi, così come d’altra parte si parla di costituzione per designare quel carattere o cifra d’una personalità che la fa essere proprio quel tipico ciò che è. Il termine ‘costituzione’ viene ad assumere perciò il doppio significato, contraddittorio e impossibile, di essenza e di dosaggio. Dosaggio è ‘giustizia’, ossia giustezza distributiva fra sostanze o facoltà antropologiche: appetizione volizione contemplazione, o industria fermezza e conoscenza, e simili, come si vuole; così che meglio di ‘essenza’, insomma, il termine ‘costituzione’ può rendersi adatto a descrivere l’unità, la ragione di sussistenza insomma, di personalità reali e immaginarie, di città micro- e macrocosmiche. La millenaria metafora antropomorfica di chi tratta di cose politiche, nel senso di concepire ogni essere complesso come una città, diventa con questa comune ‘costituzione’ la cifra di un’estetica della politica. E questa cifra sensibile è nient’altro che una forma. È chiaro che non si può fare troppa confusione coi termini. Non si può parlare, in questo caso, di ‘costruzione’ del cerchio in base alle distinte definizioni di segmento e di luogo geometrico; e la ‘sintesi’ della figura geometrica consiste perciò, in questo caso, nel suo essere cosa data non già, come Kant vuol credere, secondo il metodo costruttivo della matematica, bensì secondo l’assunto intuitivo della metafisica. La sua definizione come luogo geometrico ne esprime la sostanza spaziale, ma non l’essenza. Insistere perciò col parlare genericamente di ‘sintesi’ e di ‘analisi’ quando si tratta invece di tipi diversi di sintesi e di analisi, o ancora di proprietà essenziali descritte mediante apposite definizioni, è del tutto fuorviante. Se ne dovrà riparlare nel prossimo capitolo, dedicato all’Analisi cronologica, discutendo la Teologia naturale. Ma diciamo 109   Le accezioni del lemma sono tratte dal Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Trascuro naturalmente di considerare altre accezioni, che mi sembrano superflue, o improprie. 110   Lettera di Leibniz a Ernst von Hessen-Rheinfels del 12 aprile 1686; e il medesimo concetto si trova espresso in queste parole indirizzate a Thomasius, nelle quali ‘rapporto’ assume senz’altro il significato sensibile di ‘forma’: «Hinc et patet, formam esse divisibilem, et totum in toto produci in momento esse fontem affectionum seu qualitatum sensibilium: quae qualitates sensibiles ita se habent ad formam ipsius rei, uti se habet ad ipsum urbis situm varietas apparentiarum, quae mutato intuentis situ multipliciter variantur» (Gerhardt, ii, p. 19; i, p. 10).

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intanto che tutto ciò distingue l’essenza di un essere dalla sua legge: per cui la composizione di un cesto di frutta o di un organo amministrativo richiede per sussistere una legge, della quale il cerchio non ha invece, essenzialmente, alcun bisogno. Lo stesso vale, rispettivamente, per lo Stato e per l’Impero. Benché utili per riuscire a capirsi, simili distinzioni sono tuttavia momentaneamente del tutto irrilevanti, per la nostra analisi: perché qui desidero soltanto affermare che Kant non è mai riuscito da nessuna parte, che io sappia, a rendersi ragione della diversa natura del rapporto matematico, la quale sta all’origine del concetto di legge fisica nonché di legge politica. Questa natura assoluta e sensibile del rapporto riassume in sé, in definitiva, tutto quanto il senso della forma, che gli è sempre sfuggito – tanto che a differenza della ‘relazione’ il ‘rapporto’, per l’appunto, non entrerà a far parte del novero categoriale. Né l’avrebbe potuto, del resto, proprio per la sua natura d’ordine superiore, non logicamente derivata per deduzione. *** La lettura di un lungo e contorto passo dei Sogni d’un visionario può dare l’idea della penosa fatica che costa a Kant addentrarsi nel concetto spaziale di legge, ossia di forma come essenza sensibile, destreggiandosi come può fra ‘leibnizianesimo’ e newtonismo. Non è l’unica cosa notevole, in questo passo; ma ho già cercato di dare un’impressione del suo profilo stilistico, logico, esemplificativo; e poiché i diversi profili vengono frequentemente a intrecciarsi e a ripetersi, qui sarà inutile riparlarne. Argomentando le cose secondo l’intuizione cartesiana dello spazio, Kant afferma dunque: Ora, se io pongo, presenti nello spazio, sostanze d’altra specie, dotate di forze diverse da quella forza motrice [treibende] da cui consegue l’impenetrabilità, io certo non posso pensare in concreto una loro attività, che non ha analogia con le rappresentazioni della mia esperienza; e, togliendo loro la proprietà di riempire lo spazio nel quale operano, mi vien meno un concetto, per mezzo del quale sono per me pensabili le cose che cadono sotto i miei sensi, e necessariamente deve scaturire da ciò una specie d’impensabilità. Ma questa non può essere perciò considerata come un’impossibilità riconosciuta [vale a dire: l’impensabilità di ciò che non cade sotto i miei sensi non è insuperabile, non mi fa rinunciare a pensare a cose insensibili], appunto perché il contrario [la pensabilità delle cose sensibili], sebbene ne cada sotto i sensi la realtà, quanto a [pura e semplice, a mera o gratuita, a del tutto libera] possibilità rimarrà ugualmente sconosciuto [sebbene pensabile in base ai suoi requisiti sensibili]111.

  Carabellese, p. 373.

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Parafrasiamo alla meglio questo passo intricato, che richiede l’azzardo di non poche interpolazioni, spiegandolo così: l’analogia con le rappresentazioni dell’esperienza è condizione per la pensabilità delle sostanze dotate di una forza particolare, qual’è la forza motrice112; questa forza a me nota è a sua volta condizione dell’impenetrabilità o corporeità delle sostanze, che ne fa qualcosa d’immerso nello spazio. Bene – cominciamo dunque con l’osservare che analogia rappresentazione impenetrabilità corporeità forza moto concretezza esperienza sono, evidentemente, condizioni specifiche per questa pensabilità delle sostanze; e sono condizioni assai numerose, alquanto ben definite e non meno importanti dell’essere quelle sostanze genericamente immerse «nello spazio». Senza attendere perciò d’essere dedotte, le categorie sono già nell’uso di termini come questi, e d’innumerevoli altri. Tutto ciò me ne dà insomma «un concetto», dice Kant, come avviene con ogni cosa sensibile in genere. Che egli qui associ alla conoscenza sensibile in genere il concetto, anziché l’intuizione, è per noi certo assai degno di nota – ma lo è ancor più il fatto che le sintesi a priori della conoscenza sensibile medesima sono già per lo meno una mezza dozzina (senza contare il porre, il riempire, l’operare, il togliere, e simili – i verbi, insomma, che però regolarmente mancano nei lessici terminologici del suo pensiero). Una certa ricchezza distingue perciò il contenuto di un passo come questo da ciò che Kant si limiterà ad affermare nella Critica, dove tutte le concrete, logiche, specifiche condizioni d’intuibilità dello spazio si dissolveranno nella vuota forma dello ‘spazio’ medesimo. Ma dice Kant, ad ogni buon conto, che l’assenza di questo concetto mi priva d’una condizione generale di pensabilità delle sostanze, senza la quale non può esservi neppure la pensabilità (diciamo così) speciale, precedentemente indicata, ossia rappresentativa e analogica. È chiaro infatti che fra questi numerosi apriori dovrà pure esservi una qualche classificazione o precedenza, un ordine di procedura fra grandezze diverse, e che analogia rappresentazione e concetto non si potranno mescolare con la forza e col moto, o con l’impenetrabilità dei corpi. La qualità degli a-priori dev’essere per forza diversa, e per lo meno duplice. Ma noi dobbiamo purtroppo restare a ciò che Kant dice, senza troppo cercare negli scritti cosiddetti precritici le possibili ragioni spermatiche o ‘cellule’ della Critica. Queste ragioni spermatiche, del resto, non sono affatto l’unico motivo d’interesse di questi scritti, secondo una logica analitica puramente storicistica che miri soltanto ai traguardi sistematici – al contrario: perché Kant vi manifesta una sua piena libertà di pensiero, non ancora angustiata dalla ricerca d’una cre  Lombardi (Kant vivo, p. 259) traduce «repulsiva», Carabellese «impulsiva».

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dibilità dottrinale. Questa pensabilità dunque, resa impossibile dalla mancanza di un requisito generale com’è il concetto, secondo Kant non si può senz’altro escludere per il fatto che quelle sostanze non sono sensibili, e che le loro emanazioni energetiche sono invisibili – perché? Perché (sembra voler dire, in modo in verità tutt’altro che chiaro) anche tutto ciò che, viceversa, è sensibile rimane non diversamente sconosciuto se appena noi c’interroghiamo circa le sue invisibili proprietà, ossia circa le sue pure possibilità. Se al concetto manca insomma qualcosa per un verso, qualcosa manca anche all’intuizione per un altro verso, e siamo pari. È un ragionamento davvero curioso, questo del pareggio, che nasce da una sua mentalità contabile. Nel passo si noterà, fra l’altro, il triplice rivolgimento logico: per cui l’intuizione sensibile come condizione della pensabilità vien posta, vien tolta, e infine riammessa per argomento a contrario, e tuttavia estromessa in virtù della pura possibilità del pensiero113. Ma insomma: quando Kant dice, ben confusamente, di voler porre nello spazio delle sostanze che sono forze; e di voler poi togliere loro la proprietà di riempire lo spazio, constatando così una specie d’impensabilità di quelle forze, così che lo spazio, con almeno una mezza dozzina d’altre cose, si rivela essere condizione di pensabilità di quelle forze; le quali tuttavia, quanto a possibilità del pensabile, non sono più sconosciute di ciò che viceversa cade sotto i nostri sensi – bene: oltre ad avvolgersi nella sua prosa, finendo per aspera col riaffermare l’assunto d’un dualismo sostanziale del parimenti opinabile (che sarà poi lo scopo ultimo della prima Critica), va comunque in cerca, in definitiva, di forme di conoscenza d’ordine superiore. Ma egli mostra anche, tuttavia, di non intendere che una legge come quella di gravitazione, per esempio, una volta formulata e data, è precisamente una ragione determinante a priori della conoscenza intellettiva d’ordine complesso, ossia sensibilità d’ordine superiore in quanto narrazione matematica e geometrica suscettibile di dimostrazione e discussione. Egli mostra di non intendere che questa legge, come ogni altra, e proprio in quanto legge, viene formulata sulla base dei presupposti sensibili dei corpi e delle loro emanazioni energetiche (le forze di attrazione e repulsione) come un rapporto assoluto di natura frazionaria e invisibile. Ma un sensibile invisibile, un’impossibilità logica dotata di valore assoluto, ma intelligibile e discutibile, nient’altro è che una forma. È questa comunissima natura frazionaria, per nulla misteriosa nella sua schietta pensabilità matematica, a stabilire un’unità razionale fra le diverse sostanze di ciò ch’è immerso nello spazio mediante un vincolo formale; il quale 113   Ai suoi abituali capovolgimenti di pensiero (Umkippungen) Kant accenna in una lettera a Lambert del 31 dicembre 1765.

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1. Analisi tematica   159

dell’estensione spaziale conserva, nel pensiero, la narrabilità, ossia la necessità della formulazione e della comunicazione, insieme con la discutibilità dimostrativa che è esperienza, insieme, empirica e di pensiero. Se una comunicazione fra sostanze c’è, se una ghiandola pineale c’è, se un amore intellettuale c’è, consiste nel senso della forma. La quale, come legge, vale anche in senso politico di rapporto assoluto fra quelle sostanze di diversa specie che sono gl’individui corporativi, i più diversi, non ancora divenuti i cittadini astratti della democrazia. Perciò la teologia si fa politica proprio perché l’astrattezza dei citoyen è forma assoluta come ‘senso’ del rapporto. Ciò che Kant mostra qui di non capire, e non capirà mai, circa l’unità di sensibilità e d’intelletto nel senso della forma, e della legge come costituzione, appare meno grave, se si pensa che Marx, per esempio, s’ingegnò per l’intera sua vita a non capirlo: andando in cerca, nella sua lotta contro la democrazia e lo Stato moderni, del ripristino per ogni personalità di una perduta sostanza specifica, o del suo essere sociale, concreto e professionale, nel quale la politica fosse immediatamente contenuta e manifesta. In quella sostanza specifica e in questo essere sociale, non nel primato della politica, doveva stare, per lui, il senso della forma: nella solida, sensibile, estensione della relazione personale, e non nell’evanescenza del rapporto impersonale114. Che cosa, poi, avrebbe tenuto insieme un mondo tanto variopinto di molteplici sostanze Marx non riuscì mai a dire – se non sospirando talvolta sulla perduta bella unità della città antica o del feudalesimo, e nel sogno dell’Internazionale: nei quali sogni e sospiri nient’altro si esprime, in definitiva, che un’inconfessabile sentimento dell’Impero da parte di un renano, fatto neoprussiano per forza. Ma a Marx il primato della politica rimase sempre ignoto, oppure ostile, non solo nella sua dimensione statuale, bensì anche nella dimensione pratica dell’azione di partito, che per lui non scaturì mai dalla volontà, bensì sempre dalle circostanze. Kant non aveva di questi problemi – e tuttavia anche per lui il senso della forma non assunse mai il significato di un rapporto fra sensibilità e intelletto, così nell’oggetto della conoscenza, come nel soggetto conoscente: semplicemente perché il significato del rapporto, come tale, gli rimase ignoto. E dunque la strada che porta alle costituzioni e alla democrazia non passa, almeno teoricamente, da lui, per le stesse ragioni

114   Se non altro, perché l’estensione che è propria della relazione (quantitativa, gerarchica, funzionale, causale, per esempio) doveva sembrargli offrire, in qualche modo, una garanzia di materialismo. Ma anche in questo si sbagliava: perché un’idea può essere, per un’altra idea, altrettanto irriducibile quanto la materia. Esiste un ‘materialismo delle idee’: nei pregiudizi.

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che fanno dualistico, e risolto per illimitate superfetazioni teoriche, l’impianto di tutta quanta la Critica. *** Sotto un profilo formale, la premonizione della Critica nel passo poco sopra esaminato dei Sogni è riduttiva e inversa. È riduttiva, perché da forme di conoscenza rappresentative e analogiche, qui, si passerà, là, alle concettuali ed empiriche. Si tratta di un evidente regresso. Ed è inversa, questa premonizione, perché la Critica ordinerà il discorso in senso diametralmente opposto: dall’esperienza sensibile alle rappresentazioni ai concetti alle analogie alle idee – proprio andando in cerca d’una ricostruzione della pensabilità come pura possibilità, una volta ammesse le condizioni realistiche di questa pensabilità. E in un altro senso ancora questa nostra pagina ha un significato anticipatore – anche se, veramente, più che di anticipazione bisognerebbe parlare di campionatura: nel senso, cioè, di presentarsi come una ‘cellula’ contenente, se non tutto, buona parte almeno del codice genetico del futuro trattato. Quasi tutto ciò che conterà logicamente davvero nella Critica è qui menzionato – ma ciò non significa davvero che questo passo abbia una qualsiasi importanza speciale, tutt’altro: perché il ritrovamento di simili ‘cellule’ è frequentissimo in ogni opera di Kant; e mi azzarderei addirittura d’affermare che non esiste quasi pagina della prima Critica, nella quale non sia in qualche modo contenuta l’opera intera. Allo scopo di completare il discorso resta ancora da aggiungere un’osservazione. La nozione di forma come assolutezza di rapporto, come essenza insomma, non era affatto sconosciuta a Kant – solo, essa gli rimase sempre, come ho detto, pressoché inintelligibile. Basta leggere il De mundi per capirlo, là dove Kant distingue dalla coordinazione, dalla reciprocità e simmetria reale e oggettiva fra le sostanze, o dal «tutto della rappresentazione», insomma, un nexus come forma essenziale immutabile del mondo e identità del soggetto115. Il «nesso», dunque, è rapporto, è cifra, soluzione, totalità immediata o «rappresentazione del tutto» – come si vuole; ma è anche concepito da Kant, si badi bene, come rapporto di subordinazione; e questa subordinazione è concepita, in particolare, come subordinazione causale. Interviene per giunta a intromettersi una teoria delle forze transitive e degl’influssi tra le sostanze che non ha alcuna vera congruenza col significato generale del discorso, e risponde 115   De mundi, § 2, ii (Pupi, pp. 424-425; ma leggo il testo originale con la traduzione nell’edizione di Raffaele Ciafardone, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002).

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1. Analisi tematica   161

unicamente al suo bisogno di destreggiarsi fra le scuole – del che consiste, del resto, tutto lo scopo accademico del De mundi. Ma noi pensiamo a ciò che conta. Preoccupa Kant la possibilità che la totalità assoluta delle parti, o il Mondo, o come lo si voglia chiamare, si riduca a una cifra simbolica, o a una pura immaginazione; e la teoria degl’influssi fisici (actuales) gli serve proprio a sventare la possibilità di cullarsi in un’unità cinematografica dell’universo116, che ne faccia «nulla più [nihil amplius] che una pluralità di mondi abbracciati con un solo pensiero», e ne ignori la possibile «ragione reale... costante, invariabile, come principio perenne di qualsiasi forma contingente e transitoria». Ecco dunque al solito, con lui, trattando di forma, comparire la superfetazione col parlare di un ‘principio della forma’! E poiché al di sopra della forma sembrerebbe esistere questo fantomatico ‘principio’ della forma, o solida forma delle forme, il significato della forma, tanto permanente che transitoria, rimane del tutto sostanziale, non essenziale: così che l’identità del tutto non è dovuta a una sua ‘costituzione’ risolta in un simbolo, in una legge o in una personalità, che non vengono menzionati, bensì a una ‘composizione’ caratteristica del tutto – come sarebbe, per esempio, quella di un farmaco, o di una qualunque miscela sapientemente dosata. «L’identità delle parti non è sufficiente per l’identità del tutto», dice Kant; e certo, che non lo è: si richiede insomma la giustizia o giustezza delle parti, si richiede nient’altro che la forma – ma la forma non è per Kant nient’altro che un dosaggio117. Ma da dove trarla, l’identità del tutto, se non per analogia dallo studio e dall’applicazione della forma delle parti stesse? Come scrutare i piccoli caratteri invisibili del libro lontano, se non attraverso la lettura dei grandi caratteri del libro vicino, ossia proprio dallo studio dell’identità delle parti? Ma ben lontano dal saper trarre profitto da immagini platoniche, Kant non sa pensare alla forma del nesso, ossia al suo principio della forma, se non in termini aritmetici. E quanto alla ‘costituzione’, il termine compare, sì, ma nel significato sostanziale di Beschaffenheit, e non di Verfassung, come più avanti si vedrà. 116   Come ho già detto e ripetuto sin dalla Presentazione (alla nota 3), Kant riprende così da Hume la segnalazione del pericolo insito in una conoscenza cinematografica di relazioni virtuali scambiate per stabili identità, o insomma per vere e proprie cose reali. 117   Per descrivere il suo modo di concepire le cose nel De mundi ho usato il termine ‘composizione’ in alternativa a ‘costituzione’. Mi rendo perfettamente conto che il termine ‘composizione’ possiede anche un altro significato, più alto, di valore artistico, il quale non merita d’essere ridotto ad una farmacologia degl’ingredienti; ma proprio di questo significato della ‘composizione’ (che in definitiva fa del mondo un’opera d’arte più o meno riuscita, secondo l’utopia del mito timaico) Kant diffidava: a causa, io credo, di un suo morboso bisogno di solidità e di concretezza, unito ad una manifesta deficienza di educazione in cose sensibili – vale a dire ‘esteriori’.

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162   parte prima. avanti «la critica»

Nella Sezione Terza della Nova dilucidatio si tratta già del nesso fra le sostanze, in modo tale da suggerire interessanti confronti con la trattazione del De mundi. Perciò la nozione della forma potrebbe fare da accademico termine iniziale e finale dell’intera vicenda precritica. Nella Nova dilucidatio il nesso (che è sempre ‘esterno’) è funzione del moto, e lo sono, di conseguenza, anche la successione e il tempo; nel De mundi, viceversa (dove, malgrado tutto, si tiene ancora fermo il primato dello spazio), la forma essenziale del mondo è immutabile, e non è soggetta ad alcun cambiamento: innanzitutto perché «un qualsiasi cambiamento presuppone l’identità del soggetto»; e poi, «soprattutto [potissimum autem]», perché la «natura» del mondo è «naturalmente» immutabile. Lasciamo andare la ‘natura naturalmente’ immutabile, secondo il suo solito stile; e constatiamo semplicemente che col potissimum autem la ragione reale, sostanziale, della forma insita nelle cose prevale ancora sulla ragione logica – sebbene quest’ultima tenda già chiaramente a diventare una ragione gnoseologica. *** Trattando in genere della forma, dobbiamo porci un quesito che poi, sotto vari aspetti, tornerà innumerevoli volte in questo libro: quello della personalità del soggetto come insieme delle relazioni instaurate fra le sue principali facoltà, o come sua costituzione. I poteri costituzionali maggiori sono il teoretico e il pratico: a chi spetta il primato? Avanzare l’ipotesi che mettendo i concetti in dipendenza dai giudizi (ossia da pregiudizi) mediante la deduzione categoriale, Kant abbia ardito trasformare una posizione di moralismo etico in posizione d’intellettualismo teoretico non mi sembrerebbe affatto peregrino. Ma è proprio così? Leggiamo un passo – ma prima diciamo che facendo della filosofia politica noi non possiamo leggere Kant, né chicchessia, con una logica e una filologia restaurativa, integrativa o venerativa del testo, lasciandoci prendere nelle sue stesse pastoie: quelle stesse, per esempio, che già nell’87, dinnanzi al mistero della cosa in sé, e con lo scetticismo e l’idealismo alle porte, lo spinsero a invocare il soccorso della moralità sin dalla Prefazione alla riedizione della prima Critica – ma già pensando all’instaurazione di quel borussico Comitato di Salute Pubblica che sarà, di lì a poco, la seconda: Sussiste un uso pratico, assolutamente necessario, della ragione pura (l’uso morale), nel quale essa si estende inevitabilmente al di là dei limiti della sensibilità, ma senza avere tuttavia alcun bisogno di ricevere aiuto, nel far ciò, dalla ragione speculativa – anzi:

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1. Analisi tematica   163

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dovendo piuttosto farsi tutelare contro la sua [della ragione speculativa] reazione [Gegenwirkung], per non finire in contraddizione con se stessa118.

Il passo è terminologicamente incongruo, all’uso di Kant, perché la «reazione» della ragione speculativa, come dice, non può consistere affatto, letteralmente, in una ‘azione contraria’ alla ragion pura morale, bensì, semmai, in un eccessivo incoraggiamento dato al suo volo – se no, il problema non sussisterebbe neppure. A ogni modo, se per superare i limiti della sensibilità la ragion pura morale dispone già di suoi propri mezzi, ciò significa che, mentre la ragione speculativa è certamente ancora una ragione ‘precritica’, questa ragione, diciamo così, ‘puramente pratica’ non è la medesima ragione ‘pura’, in quanto la ragione speculativa è stata purificata attraverso la critica prima d’essere esercitata nell’uso morale, bensì già, in se stessa, altra cosa. E per superare i limiti della sensibilità essa non ha bisogno d’aiuto alcuno, in realtà, semplicemente perché si trova già al di là di questi limiti. Nella testa di Kant la ragione puramente pratica esiste già fin dalla prima Critica, dunque, prima ancora che sia stato sancito e promulgato il suo principio di legittimità e d’autonomia categoriale con la seconda Critica. Esso è surrettizio – ma certamente esiste: e questo principio, se esiste già nella prima Critica, non può essere che l’intelletto categoriale, il quale si appresta così ad assumere, fin dalla seconda edizione della prima Critica, un categorico ruolo pratico, morale, che occorrerà disciplinare entro le condizioni e i limiti della sensibilità. La fede nella provvidenza, evidentemente, non poteva bastare a esaudire il bisogno di sicurezza e di tranquillità di Kant contro quella violenta guerra civile fra concittadini, ch’era un ingrediente indispensabile della sua immaginazione (e che tornerà fuori verso la conclusione della prima Critica, come vedremo minutamente al termine della Parte Seconda di questo studio). Non c’è moralismo senza intellettualismo, dunque, né slanci illimitati della volontà senza un problema logico. È vero che dovrebbe poter valere logicamente anche l’inverso: ossia che non può esistere intellettualismo senza presupporre il moralismo. Ma mi sembra difficile sostenerlo in generale (il mero giocare coi concetti può essere occupazione del tutto innocente, bizzarra, estrosa, e persino cinica, moralmente neutrale, o del tutto immorale), e mi sembra quasi altrettanto difficile dimostrarlo in particolare per Kant: il quale scrisse la seconda Critica, per l’appunto, dopo la prima, e non viceversa. A questa semplice constatazione   B xxv.

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164   parte prima. avanti «la critica»

noi siamo purtroppo costretti ad attenerci – anche se sarebbe troppo bello riuscire a dimostrare, con la semplice evidenza di un passo testuale, che fu il suo moralismo personale, unito al senso pànico del disordine, a guidare gli sviluppi della sua logica. Un’analisi psicologica dell’uomo non è alla mia portata, se non come mera opinione personale; ma in una bibliografia sterminata si troverà sicuramente qualcuno che ci ha provato. Le nozioni di moralismo e timor pànico, d’altra parte, non si potrebbero meglio definire senza qualche escursione sulla mentalità nazionale, o almeno regionale – e questo non faciliterebbe certo il nostro compito! Nell’immediata perentorietà dell’imperativo kantiano non fa che risorgere, con l’enfasi dottrinaria del ritardatario, l’istintività dell’agire morale sotto il celato comando della ragione, o sotto l’implicito giudizio dell’intelletto, già sanciti da Leibniz. Giustamente nella sua Introduzione alla filosofia di Leibniz Massimo Mugnai parla una sola volta del carattere intellettualistico «dell’etica» leibniziana119: con una specificazione che lascia intendere come la comune accusa d’intellettualismo mossa a Leibniz, diffusa tra i posteri, abbia avuto il torto di prendere la parte per il tutto; e non curandosi affatto, per il resto del suo libro, di soffermarsi su di un biasimo, che merita di appartenere piuttosto alla storia della recezione. Fuori dal piano etico, d’altra parte, egli sa perfettamente che anche sul vero e proprio piano conoscitivo Leibniz aveva già subordinato le percezioni oscure e indistinte forniteci dai sensi «a un atto di giudizio»120 (esattamente come poi, assai farraginosamente, farà Kant); ma per designare la riduzione leibniziana del fisico nello psichico sullo sfondo metafisico della costituzione ultima delle cose egli non usa il termine ‘intellettualismo’, bensì «idealismo»121; e sotto il profilo strettamente teoretico quella d’intellettualismo risulta anzi essere un’accusa mossa dal medesimo Leibniz nei confronti dell’atomismo classico122. *** Cercando soccorso nella matematica dinnanzi al mistero della cosa in sé, Leibniz non aveva fatto dell’idealismo, bensì semmai (proprio secondo il giu  Einaudi, Torino 2001, p. 222.   Ivi, p. 73. 121   Ivi, p. 151. 122   Ivi, p. 159. Per il resto, sotto il profilo più generale, è vero che Leibniz ha una certa tendenza a sovrapporre senza residui la mera possibilità logica alla possibilità reale; ma si vorrà pure considerare che ogni definizione del principio di ragion sufficente in Leibniz vuole semplicemente sancire la reperibilità di una qualche ragione soltanto per ciò che già risulta effettivamente esistente – compreso il pensiero. 119 120

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1. Analisi tematica   165

dizio di Kant) dell’intellettualismo; ed è da questo assunto che noi dobbiamo partire. Non poteva essere quella ancora una strada praticabile per far luce nelle oscurità, dunque? Nel corso della trattazione mostrerò, in qualche passaggio di critica del testo, che una certa continuità logica con il ‘leibnizianesimo’ e il wolffismo effettivamente continua a sussistere anche sul piano filologico della sensibile evidenza testuale, a dispetto d’ogni proclamazione contraria; e così, del resto, non poteva che essere (tant’è vero, che Kant stesso riconobbe la continuità del suo pensiero col ‘leibnizianesimo’, in qualche polemica). Che poi in qualche scrittarello, rimasto incompiuto e inedito, egli abbia risposto a un quesito accademico circa gli avvenuti progressi della metafisica dopo Leibniz e Wolff in senso affermativo, sottolineando tutto ciò che lo divideva da loro, mi sembra naturale. L’opinione che aveva di se stesso non dimostra niente; né smentisce, anzi conferma la sua inclinazione ad accordarsi con gli umori ambientali della sensibilità accademica. Per il resto, però, non sarà male dare sin d’ora un sommario profilo dei riferimenti al ‘leibnizianesimo’ contenti nella sola prima Critica, trascurando per il momento i passi che verranno esaminati nel seguito di questa Analisi Tematica, e poi nella Logica del Testo della Parte Seconda. In breve: 1) Kant dichiara il suo esplicito consenso coi filosofi leibniziani circa l’irrealtà oggettiva dello spazio (non esiste uno spazio assoluto al di là del mondo reale, perché «lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna, non quindi un oggetto reale, suscettibile d’essere intuito esternamente, e non è un correlato dei fenomeni, bensì la [semplice] forma dei fenomeni stessi»123. 2) Accetta d’interpretare il mondo come regno della grazia, alla maniera di Leibniz, perché questa «è un’idea praticamente necessaria della ragione»124. 3) Prende nettamente le distanze, invece, dall’idea della gradazione infinitesima delle creature, che resta smentita dalla loro appartenenza a specie che sono evidentemente troppo diverse: Se assisto alle dispute di persone cólte intorno ai caratteri distintivi degli uomini, degli animali e delle piante, o dei corpi del regno minerale, nel corso delle quali alcuni fanno, ad esempio, leva su particolari caratteri nazionali, trasmessi per discendenza, e anche su nette distinzioni ereditarie fra le famiglie, le razze, ecc., mentre altri pongono mente solo al fatto che la natura, a questo proposito, ha proceduto ovunque allo stesso modo, sicché ogni differenza non si fonda che su accidentalità estrinseche – non ho che da prendere in 123   B 459. La nozione critica dello spazio e del tempo è di derivazione e natura leibniziana; e non è quel newtoniano sensorium Dei che, come si dice, egli avrebbe genialmente attribuito alla mente umana, facendone la forma trascendentale dell’intuizione sensibile. Di geniale in questo scambio d’attribuzione ci sarebbe soltanto, se fosse vera, l’abilità manierista. 124   B 840.

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166   parte prima. avanti «la critica» esame la costituzione dell’oggetto [Beschaffenheit des Gegenstandes] per rendermi subito conto che esso si trova così profondamente celato agli sguardi degli uni e degli altri da togliere ai loro discorsi ogni possibilità di fondarsi su un’effettiva comprensione della natura dell’obietto [Natur des Objekts]. Tutto si riduce al duplice interesse della ragione», eccetera125.

4) Conclude, infine, tracciando il sommario profilo genealogico di due millenarie tradizioni di pensiero, sensista e intellettualista, sempre opposte 126; e incurante della loro antichità, la prima Critica annuncia in explicit di ambire di superare entrambe: «Solo la via critica continua a restare aperta… per condurre a completa soddisfazione l’umana ragione» – nientemeno che prima della fine del secolo! Ben prima di Hegel questo timido provinciale sancisce la fine della filosofia con se stesso – solo, di lì a poco. Non solleviamo grosse questioni su ogni piccolo dettaglio del suo stile, che conosciamo (come, per esempio, quello spazio che non esiste «al di là», e che però è forma dell’intuizione «esterna», ma senza poter essere intuito «esternamente»; e simili), e badiamo ai significati principali in relazione al senso generale della forma. È chiaro che rispetto ai leibniziani l’insensibile gradazione degl’individui o, viceversa, l’intuizione dell’evidente discontinuità delle specie continua a rimanere, insomma, il punto di divergenza fondamentale – il resto non è che opinione cólta, giustificata dalla moralità o dal prestigio delle scuole. Sui caratteri sessuali e nazionali Kant aveva pure avuto delle opinioni, espresse nel terzo e quarto capitolo delle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime: la forma del mondo è varietà di specie. Destatosi dal sonno dogmatico, egli annuncia di non sapere più quel che valgano certe distinzioni, se non per uno scopo morale o accademico. L’ambizione millenaria del criticismo, di superamento del sensismo e dell’intellettualismo, è frustrata in partenza dalla confessa inconoscibilità della «natura» o «costituzione» specifica dell’oggetto, e dal fronteggiarsi di quelle che non sono, e non possono essere, in verità, due vere posizioni conoscitive denominate ‘sensismo’ e ‘intellettualismo’, bensì due posizioni morali, pratiche o finalistiche, destinate a rimanere distinte per un «duplice interesse [i.e. morale e accademico] della ragione»127. Le specie sono dunque solubili o insolubili in individui, a seconda di come ci vogliamo immaginare il mondo secondo i nostri ragionevoli interessi morali o gli scopi classificatòri. Di questa Beschaffenheit o Natur dell’oggetto, e della sua traduzione italiana, dovremo riparlare nel seguito di questa medesima   B 695.   B 881 ss. 127   B 695. 125 126

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1. Analisi tematica   167

Analisi Tematica; e vedremo che nell’Estetica Kant non s’era affatto preoccupato di distinguere terminologicamente la «costituzione dell’oggetto» dalla «natura dell’obietto», come fa qui, con una doppia distinzione che i traduttori italiani accolgono soltanto sul primo termine, traducendo tutti (in questo caso) «costituzione» e «natura» dell’oggetto. Come anche più avanti vedremo, essi hanno probabilmente desiderato venirgli in aiuto: perché non è senza qualche imbarazzo che, udendolo parlare d’intuizione degl’individui, oppure delle specie, noi lo vediamo associare il termine «natura» a qualcosa che non sta dinnanzi a noi, o fuori di noi, come un Gegenstand; mentre a quest’ultimo termine si associa piuttosto un derivato pluricomposto di quella creazione di tutte le creazioni che è la Schaffung. Ma ripeto: non lasciamoci prendere dal gusto di fare rilievi su tutto, e restiamo all’impressione dell’insieme. Se si trascura il biasimo d’intellettualismo, da quest’impressione risulta che le divergenze con il leibnizianesimo si riducono a una questione d’opinione. Il destino delle ambizioni critiche di superamento del dualismo tra le specie filosofiche del sensismo e dell’intellettualismo è già scritto qui, con parole sue: è di un superamento pratico e morale, che Kant parla, non teorico; e gli strumenti di questo superamento nei liberi territori dell’opinione sono tolti di peso dal ‘leibnizianesimo’. È un superamento che vorrebbe essere logico, o anzi ‘trascendentale’, e finisce per essere meramente pratico. Anche se si sforzò di attribuire all’immaginazione un ruolo logico, Kant non ne disponeva tuttavia a sufficienza per continuare a percorrere la strada segnata da Leibniz – neppure con le risorse della sua cultura naturalistica, che preferì ridurre, a suo modo, in una logica e in una metafisica della natura mediante il talento (che veramente, questo sì, non gli mancava) d’imbastire trattazioni su quanti problemi gli offrisse la cultura del giorno, o reclamasse l’impegno didattico. Ma appunto per questo non si può certo dire che cercò soluzioni nel senso della forma, anziché nell’esercizio stilistico di un ruolo manieristico dell’intelletto. *** Se il problema principale del criticismo consistesse nel fatto che Kant ha fabbricato delle scatole vuote, chiamandole forme, da riempirsi a piacere, basterebbe riempirle coi giusti contenuti; e per il resto basterebbe trovarci d’accordo sui termini con cui designare le forme stesse, così trattate, mediante una semplice rettifica terminologica – parlando, per esempio, di schemi. Ora,

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168   parte prima. avanti «la critica»

sebbene quest’ultimo termine sia usato da Kant, non si può tuttavia ignorare (come ho già detto nell’Introduzione) che sulla schematica mediazione fra sensibilità e intelletto la critica offre l’esempio di uno dei suoi principali insuccessi; e chi vorrà applicare alla dottrina degli schemi il metodo di lettura seguito in questo studio se ne accorgerà facilmente da sé. Del resto, Kant cercò la vera soluzione del rapporto tra le due facoltà sensibile e intellettiva non già nella mediazione degli schemi (o in altri simili sporadici tentativi di coordinazione o confronto delle facoltà), bensì in un loro ordine gerarchico di subordinazione e di successione; e poi, soprattutto, lo cercò nella concretezza dei concetti e delle idee medesime, senza alcun ricorso a figure logiche ibride, intermedie e surrettizie, dotate di una specifica pretesa tecnica. La rappresentazione, semmai, assolve a un compito di mediazione tra le facoltà; ma essa, per l’appunto, non assume mai nella Critica il peso e la pretesa di vera e propria figura tecnica, come lo schema (semplicemente perché non ammette un suo ‘-ismo’, forse), bensì, assai spesso, quello di ausiliare terminologico, o di sponda logico-discorsiva. Ma la vera difficoltà della Critica non sta nemmeno qui, ossia nell’insufficiente ruolo teorico svoltovi dalla rappresentazione: perché la debolezza del criticismo non può essere imputata a una qualsivoglia difettosa figura logica e terminologica, sia essa la forma, o lo schema, o la rappresentazione, o quant’altro, bensì al ruolo di una sede o funzione logica principale della personalità, qual’è l’intelletto puro. E questa tara costituzionale consiste dunque piuttosto, come qui si dirà, in un eccesso, conseguente a un restringimento categoriale dell’àmbito di competenza dell’intelletto, con l’aggravante della pretesa di solidità e di certezza che, così ristretto, gli sarebbe preliminarmente garantita dalla sensibilità. In quanto sono tutti delle forme senza contenuto, in Kant gli a-priori della sensibilità, dell’intelletto e della ragione pura, in quanto semplici a-priori, non si lasciano distinguere l’uno dall’altro. Parlando di ‘formalismo’ si incorre nel grave inconveniente di confondere ulteriormente fra loro questi a-priori conoscitivi (già confusi, nell’insieme, con l’a-priori della moralità), non individuando le facoltà logiche rispettivamente corrispondenti – le quali hanno per giunta una comune sede antropologica nel misterioso animus che le congiunge alla radice. Lo stesso Kant, invece, individua una sede logica potenzialmente deviante, e tratta della relativa deviazione, mediante una critica della sola ragione pura; e bisogna dire, allora, che l’accusa rivoltagli di generico ‘formalismo’ si trova in un certo senso su posizioni relativamente più arretrate rispetto al bersaglio polemico che fu già suo. Il quesito concernente lo stato radicale di fusione, oppure, viceversa, di basilare distinzione delle forme logiche, o

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1. Analisi tematica   169

comunque delle facoltà antropologiche di conoscenza e di giudizio, è assai arduo, come s’è già visto con l’accenno a una pagina di Locke nell’Introduzione a questo libro; e sta all’origine, per esempio, della separazione fra le due principali correnti dell’idealismo italiano del Novecento. Con ‘formalismo’ si può dunque intendere il problema logico di questa radice antropologica lasciato aperto nella Critica, o malamente sepolto in qualche sua pagina; oppure si può alludere a quella mancata saldatura fra criticismo e cultura antropologica che, se fosse avvenuta, ci autorizzerebbe a parlare di ‘kantismo’. In ogni caso, però, il termine torna a essere in qualche modo sinonimo di una mancanza, di un difetto; ed è inevitabile, allora, che ci si debba dedicare a sanare, colmare, completare, lavorando per aggiunte di sistemi al sistema. Ma perché non parlare invece francamente per tutto quanto il criticismo, in generale, dell’onesto dottrinarismo di mestiere di un principiante in ogni disciplina? L’essere dei principianti può suonare offensivo soltanto per chi abbia una patetica venerazione nei confronti del professionismo filosofico. Per ragioni d’ufficio, se non altro, questo professionismo filosofico fu soprattutto, per Kant, il dignitoso frutto accademico dell’assolvimento dei suoi doveri didattici: nel quale egli seppe esercitare le sue doti, diciamo così, di prensilità nei confronti della tradizione. Con la tradizione egli dovette moltiplicare i suoi contatti, per giovarsene liberamente secondo assunti semplificati; e questa semplificazione, che sortì l’effetto di un potenziamento di ruolo logico e tematico dell’intelletto, come ho già detto, si accompagnò con l’abbandono o col capovolgimento di numerose intuizioni giovanili – come, per esempio: la natura complessa degli esseri viventi, il primato dello spazio sul tempo, la verità di ciò che accade rispetto a ciò che dovrebbe, l’esercizio della critica successivo alla scienza, l’insofferenza per la concettosità e la verbosità irrequieta, l’esistenza come condizione della possibilità, il sentimento alla radice della sensibilità – e altri simili. In simili intuizioni si condensa il significato effettivamente ‘precritico’ del suo pensiero, nel senso che esse ‘non’ sono già la Critica, nè la diventeranno. Prima ancora che alla tradizione, insomma, col preteso risveglio critico egli fece un torto a se stesso – senza, peraltro, uscire affatto dal sonno dogmatico. E se il rapporto con la tradizione fu pilotato soprattutto dall’esercizio della professione, il rapporto con la sua propria immaginazione e buon senso precritici fu invece castigato, credo, da una lettura disciplinare e moralistica di Rousseau, che risvegliò tutti i suoi compunti istinti edificatôri e censôri – anche se non gl’impedì, naturalmente, di consegnare confuse divagazioni sul ruolo conoscitivo dell’immaginazione a qualche pagina della prima Critica: nella quale l’im-

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170   parte prima. avanti «la critica»

maginazione fa la stessa fine dei figlioli che il maestro, intento a scriver libri sull’educazione, spediva uno dopo l’altro all’orfanotrofio. Non solo la critica non costituisce, come ogni tanto si dice ancora, una dottrina ben definita, che attende soltanto la sua toponomastica: per il semplice fatto che proprio questa inesauribile toponomastica costituisce la dottrina stessa; e il preoccupante numero di guide alla lettura della Critica della ragion pura lo dimostra: nessun’altra opera filosofica ne dispone. Ma poi la Critica non può neppure venire considerata né come un traguardo di tutto il suo pensiero cosiddetto precritico, né come un risveglio dal sonno di quest’ultimo. Lo stile prosastico di Kant, come si vedrà con gli studi filologico e ideologico dedicati nella Parte Seconda alla Critica, suggerisce piuttosto l’idea di uno stato di dormiveglia. Ed è in questa sua penombra che noi, leggendolo, dobbiamo immergerci, se vogliamo capire dov’egli andasse vagamente gravitando o modulando col pensiero. Gravitazione e modulazione, tuttavia, non sono forme arbitrarie, bensì sono forza e disciplina razionalmente descrivibili e sondabili secondo le leggi e le regole di una scienza e di un’arte, delle quali il suo stile prosastico incontinente non sapeva disporre. su di un profilo metaforico e testuale Sotto il profilo teorico il manierismo kantiano, come ho già detto, consiste nella pretesa di fondare sensibilmente l’intellettualismo moderno, di origine cartesiana. Ma esso ha pure origini e forme pratiche: con lo svolgimento dottrinale dell’ufficio didattico, innanzitutto, che lo fissano in una voluminosa e temibile trilogia; con l’issare venerabili vessilli di moralità pedagogica indicandone, insieme, gli scopi estetici enciclopedici; e con l’esercitarsi nella riesumazione di vecchi e facili temi, sempre seducenti, come i sogni di pace perpetua di più robusta tradizione francese, che già Leibniz e l’arguzia popolare avevano finalmente abbandonato alla quiete dei cimiteri. Esercitandosi in simili forme, il manierismo kantiano è venuto a formare il terreno di coltura di buona parte del nostro pensiero contemporaneo, che ne ha conservato il carattere accademico generale. Soprattutto in questo senso si può dire che Kant ne sia il legittimo capostipite – tenendo conto tuttavia che, come ho accennato nell’Introduzione, un certo manierismo speculativo inizia già, in forme assai più semplici e potenti, con Spinoza128. 128   Non mi posso qui permettere una lunga digressione, e d’altra parte non desidero lasciare un simile grave giudizio del tutto privo di giustificazione. Per capire ciò che intendo spero dunque che il lettore si accontenterà, se mi riferisco alle affermazioni contenute nella seconda delle Meditazioni metafisiche

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1. Analisi tematica   171

Per ciò che riguarda l’intellettualismo, però, e non la manieristica pretesa di una sua fondazione sensibile, il problema di questo mio studio riguarda l’individuazione della facoltà speculativa responsabile di una qualche deviazione, mancanza o eccesso, nella costituzione della personalità critica, e fa del ruolo dell’intelletto puro la sede logica centrale di questo problema. Dedicandosi a una critica della ragione pura, invece, Kant, nella gradazione delle sue sedi o facoltà logiche, è andato troppo in là. La sua posizione rispetto a Platone e, soprattutto, a Leibniz mostra che il suo problema stava già al di qua di essa: non nel puro esercizio della ragione, bensì nell’ordinario esercizio dell’intelletto, dove egli non poté risolverlo, se non per ingigantirlo, a spese di forme concrete della sensibilità – le quali restano tuttavia sempre latenti e risorgenti nel pensiero e nella scrittura. La Critica del Testo nella Parte Seconda mostrerà analiticamente a sufficienza, spero, quale sia il ruolo ubiquo del puro intelletto, e la consistenza nascosta delle risorgenze sensibili: essa ha il compito d’indicare infatti, oltre a ciò che in Kant è mal detto e difettosamente concepito, anche quello che effettivamente c’è, ma non facilmente si vede. Terminando di presentare la prima edizione de La religione nei limiti della semplice ragione Kant scrive: «Il teologo biblico può trovarsi d’accordo col filosofo, oppure può credere di doverlo contraddire – non importa: l’importante è che lo ascolti». Sante parole! – ma da un capo all’altro della sua intera opera il lettore non ha mai l’impressione che questa posizione d’ascolto possa costituire, al di là del richiamo moraleggiante, una vera e propria condizione teorica della conoscenza, né una disciplina da imporre a se stessi; e l’attivismo di quell’inesausta Buchmacherei che talvolta rinfacciò ad altri, unita a difetti personali di prolissità stilistica, sono tratti d’intellettualismo dai quali egli stesso non andò certo immune. Ma non diversa da ogni altro genere letterario, la filosofia nasce invece come necessità di raccontare dalla capacità d’ascoltare. E la filologia ne narra a sua volta il come. Per Leibniz l’osservare era cosa del tutto diversa dal giudicare; e anzi il conoscere giudicando era per lui cosa del tutto impossibile, oltre che nefasta. Se non avviene per approssimazione infinitesimale, il dialogo tra le sfere chiuse si svolge attraverso la muta osservazione, ossia la contemplazione delle superfici – alla quale possono far seguito la riproduzione o l’imitazione reciproca a scodi Cartesio: là dove egli fa del dubbio, dell’intendimento, dell’affermazione e negazione, della volontà, dell’immaginazione e della sensibilità altrettante specificazioni o attributi del pensiero; oppure nella terza, dove l’idea è detta modo, maniera o foggia del pensiero. Ritengo che Spinoza abbia teologizzato e ontologizzato l’intellettualismo cartesiano, anche facendo uso di un certo talento linguistico. «Aussi peut-on dire que Spinosa n’a fait que cultiver certaines semences de la philosophie de M. des Cartes»: è un giudizio espresso da Leibniz nella lettera a Claude Nicaise del 15 febbraio 1697 (Gerhardt, ii, p. 563).

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172   parte prima. avanti «la critica»

po di perfezionamento. Con la dottrina della Critica, Kant assume invece una posizione diametralmente opposta; e con una contraddizione senza dubbio assai grave, mi sembra, egli annulla così proprio la dimensione temporale del suo prediletto senso interno della conoscenza, in quello che tende a diventare un puro atto istantaneo di conoscenza. Facendo della conoscenza intellettuale un atto logicamente privo d’attesa e di contemplazione, ma coincidente col giudizio, infatti, Kant la trasforma insomma in una facoltà orfana di qualsivoglia muta potenza, non deposta nella quiete raccolta di alcuna sede psichica, o stabile forma sensibile; e riduce il rapporto tra conoscente e conosciuto alla vera e propria partecipazione del logos – la quale è talmente invasiva da finire per diventare costitutiva dell’oggetto129. Né Leibniz né Platone (occorre dirlo?) erano mai arrivati a tanto, né avrebbero ritenuto ammissibile un simile attivismo. Ora, è vero che l’essenza di una cosa è la sua costituzione secondo il pensiero; ed è pur vero che la nozione di essenza resta in Platone (e in tutto il pensiero antico) confusa, anche terminologicamente, con quella di sostanza, mentre in Leibniz essenza non è che gradazione reciprocamente inversa del rapporto fra sostanze. Posto il problema della conoscenza in termini soltanto sostanziali, è perciò inevitabile che si finisca per parlare di partecipazione. Ma sia che essa si presenti come l’azione dell’impronta sulla cera morbida, oppure della gradazione matematica, l’oggetto è comunque presente come un destinatario sempre riconoscibile. Kant osò andare più in là. La sua partecipazione del pensiero all’oggetto è talmente invasiva da essere non solo costitutiva, ma anche ricostruttiva: basata, vale a dire, su di una previa decostruzione dell’oggetto e del pensiero medesimo. E questa previa decostruzione viene operata dall’intelletto nei termini delle ben scarse condizioni della sensibilità, postulati nella prima Critica. Proprio qui gli fece difetto una vera cultura della sensibilità, come tesoro di forme essenziali e sostanziali del visibile e dell’invisibile; e tutto ciò che egli non poteva capire di queste forme, moralismo a parte, è consegnato, nell’insieme, alle discettazioni della terza Critica. Invasiva, decostruttiva, ricostruttiva che sia, parliamo in ogni caso di costituzione del pensiero e dell’oggetto. Nel reciso ripudio dell’estetica leibniziana 129   L’inizio della conoscenza dallo stato di potenza della quiete, del silenzio e dell’ascolto, anziché dall’attività del logos, è cosa che andrebbe studiata con una lunga indagine. In tutto quanto il pensiero di Kant non c’è, che io sappia, una vera e propria nozione della potenza conoscitiva del silenzio e dell’ascolto. Tutto si riduce immediatamente all’alacrità logorroica dell’atto, fin già nella fisica delle Forze vive. Basta leggere il § 12, dove la forza è definita «un’aspirazione al movimento», ovvero «un’aspirazione perpetua ad agire». La quiete non è il lui potenza del raccoglimento, bensì indifferenza di direzioni o equivalenza di contropressioni. Non diverso, in generale, è lo stato irrequieto del conoscere nella terra del ver-stehen.

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1. Analisi tematica   173

(che egli sa intendere soltanto attraverso Wolff, secondo il suo costume prediletto di attaccarsi ai rami più bassi o discendenti, con un approccio che condizionerà tutta la successiva interpretazione idealistica del leibnizianesimo) Kant ne ignora completamente, fra l’altro, la dottrina dell’attività, virtualità, oscurità, emanazione delle sostanze – che è poi la loro potenza: impossibile ridurla all’andirivieni ‘trascendentale’ fra soggetto e oggetto! Lungi dal fornire la soluzione di tutti i problemi, come frequentemente si riscontra nella letteratura critica, la nozione di trascendentalità costituisce invece un costrutto logico assai precario, dal significato alquanto evanescente e dall’efficacia discorsiva troppo spesso cosmetica; dall’abuso della quale, sull’esempio di Kant, gl’interpreti dovrebbero dunque piuttosto guardarsi. Quello che si dice ‘a-priori di un’esperienza possibile’ (che è, pressappoco, il più valido dei molti significati di ‘trascendentale’ in Kant) è infatti trittico terminologico implicante una doppia contraddizione del suo termine centrale coi due termini che lo affiancano: ‘a-priori’ fa a pugni con ‘esperienza’, mentre ‘esperienza’ nega o rende superfluo ‘possibilità’; ma quest’ultimo termine è l’indispensabile inveramento del primo attraverso la momentanea immersione nel secondo. Nulla manca, o è di troppo. Si tratta, come si vede, di un ingegnoso manufatto già potenzialmente capace d’ogni meraviglia dialettica – e fonte, in realtà, di permanente instabilità del pensiero già lanciato su mete grandiose. La cosa cambia aspetto se, per esempio, si vuole interpretare l’esperienza come una nostra costruzione o costituzione della realtà nel pensiero, così che ‘trascendentale’ viene a significare un ‘ritrovamento’ del pensiero nell’esperienza – ma siamo già alquanto lontani da ciò che Kant effettivamente ne dice. E ancora più lontano e volonteroso si mostra l’interprete che indica nella legge di Newton un esempio dato di trascendentalità: perché è vero, anzi, che l’enunciazione di qualsivoglia legge non può non costituire per noi una sintesi a priori già data; e tutto lo studio che andrò svolgendo afferma e ribadisce in definitiva proprio questo: che noi ci troviamo già immersi in una miriade di sintesi a priori, che siamo in grado di cogliere per intuizione; e che le intuizioni intellettuali, non immediate, come la legge di Newton, tendono a diventare immediate e di fatto sensibili semplicemente con l’uso. Ma l’indirizzo del pensiero di Kant, viceversa, è orientato in senso decostruttivo sul piano gnoseologico, mentre è moralistico sul piano ricostruttivo. A che pro il moralismo categorico, se il metodo conoscitivo è sicuro? Ma evidentemente perché il metodo non è affatto sicuro! E Kant lo sapeva perfettamente. Egli si guardò sempre bene dal legarsi le mani col fare delle intuizioni sensibili o intellettive delle sintesi a priori dotate di contenuti complessi; e negli scritti

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precritici preferì quasi sempre giovarsi di esempi d’intuizione assai semplici, sempre più deboli e rari man mano che si avviava verso la Critica, dove essi diventano rarissimi e debolissimi. *** Anziché al ‘ritrovamento’ del pensiero nell’esperienza, nella seconda prefazione alla prima Critica Kant si affidò piuttosto alla prediletta e arcinota metafora giudiziaria dell’escussione di testimonianze da parte del magistrato130. Questa metafora, del resto, non è che l’ultima di una serie, fitta e insistente, zoomorfica antropomorfica e scolare, che nel medesimo capoverso vede la ragione presentarsi in poche righe sotto l’aspetto del cavallo guidato per le redini dalla natura, dell’operatore ingegnoso dotato di due mani, dello scolaro dinnanzi al maestro, e infine del magistrato inquisitore. Nella seconda delle quattro metafore la ragione compie con una mano, nella quale tiene l’esperimento, ciò che ha escogitato (ausdachte) mediante ciò che tiene nell’altra: i princìpi. Ma l’illusione d’avere trovato in questa mano e in questi princìpi il bandolo trascendentale della matassa aprioristica è assai effimera: perché il lettore ha già appreso che procedendo «a disegno» la ragione si giova dei «princìpi dei suoi giudizi basati su stabili leggi». Ecco i giudizi, ed ecco le leggi, dunque. Disegni princìpi giudizi leggi formano una specie di Direttorio della strumentazione logica, generato per superfetazione terminologica, o un laboratorio di sintesi a-priori nel quale occorrono, in verità, ben poche mani: tant’è vero, che le metafore non ne usano, se non (con le redini) per ripudiarle131. Le somme forme logiche dello spirito si presuppongono l’una con l’altra, e si richiamano e rincorrono nell’animus come divinità in una specie di Olimpo, o nell’idillio di una favola boschereccia. Questa messinscena offre da sempre un cibo prelibato a ogni stroncatore dell’idealismo. E dove non c’è rincorsa, c’è sostituzione o subentro: come, per esempio, in un caso come questo, che ci capita sotto gli occhi nell’Unico argomento. Venendo a trattare delle azioni governate da libertà, e non soggette a concatenazione causale, Kant scrive: «le forze degli esseri agenti con libertà in connessione col resto dell’universo non   B xiii.   Ibidem. A complicare le cose il Gentile (e Chiodi, che lo segue, abbandonando l’esatta traduzione del Colli) traduce ausdenken con «immaginare», dal momento che non poteva ammettere l’esistenza di una ‘escogitazione trascendentale’. Bene la Marietti e l’Esposito che seguono invece il Colli (rispettivamente Laterza, Bari 2005, p. 16; UTET, Torino 1986, p. 43; Adelphi, Milano 1976, p. 21; bur, Milano 1998, i, p. 114; Bompiani, Milano 2004, p. 31). Sulle traduzioni avremo modo di lavorare nell’intera Critica del Testo della Parte Seconda, e in parte della Logica del Testo. 130 131

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sono sottratte completamente a tutte le leggi, ma sono sempre soggette a princìpi che, sebbene non costrittivi, pure sono tali che assicurano in altro modo, secondo le regole dell’arbitrio, l’attuazione di quelle forze»132. Ecco il suo stile: l’abuso logico desunto dall’uso metaforico, dove alla sostituzione e alla cosmesi terminologica si accompagna il nonsenso. C’è cosmesi in espressioni come «libertà in connessione» e «completamente a tutte»; c’è sostituzione allorché princìpi «non costrittivi» prendono il posto di leggi costrittive; e c’è infine puro e semplice nonsenso quando si parla di «forze» e non (come sarebbe logico attendersi) di leggi: perché la frase ha un senso se vuol dire che i princìpi son fatti in modo tale da assicurare altrimenti dalle leggi, mediante l’arbitrio di libere forze, l’attuazione di quelle medesime leggi, in modo che il mondo stia in piedi sulla necessità delle leggi e sulla libertà delle forze giovandosi di queste agli scopi di quelle. Da collaboratori delle leggi (poiché restano anch’essi in qualche modo leggi: «completamente a tutte»!) i princìpi vengono poi invece a significare «regole dell’arbitrio», ossia regole di quelle libere forze, la cui attuazione, stando al nonsenso letterale, sarebbe il loro scopo; cosicché a presiedere il governo del mondo noi troviamo nella seconda parte della proposizione, in definitiva, un dualismo (leggi per la necessità e princìpi per la libertà), mentre nella prima parte non avevamo che leggi di diverso ordine o grado. Per potersi realizzare in quattro righe, questo è un piccolo capolavoro; e il nonsenso è artefatto perché il gioco delle simmetrie e delle sostituzioni terminologiche obbedisce a un istinto retorico combinatorio. Quanto poi alla natura delle forze libere in generale, non governate dalla legge di causalità, anche se gettò ogni tanto dei rapidi sguardi sulla natura organica, riconoscendo l’enigma delle sue leggi (il bruco che striscia sopra un cavolo, e simili), Kant preferì sempre occuparsi, piuttosto, della più rassicurante azione e natura della personalità divina. È probabile che sia avvenuta in tal modo una trasposizione edificante; e la cosa andrebbe analizzata sul piano psicologico e testuale, vale a dire come fenomeno letterario. Kant, che muove all’insù, si trova in questa trasposizione a incrociare Goethe, che muove all’ingiù: gli anni d’incubazione della Critica sono pressappoco gli stessi che vedono innalzarsi la fabbrica del Faust; e chi distoglie gli occhi dal disordine della vita organica guardando in alto, e chi in basso – ma il problema è lo stesso. E i risultati, pressappoco, anche: le Fame usurpate di Vittorio Imbriani possono bastare, almeno per il mio giudizio sul valore complessivo del Faust.   Carabellese, p. 154.

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*** Ma insomma, restando alla metafora giudiziaria della seconda prefazione alla Critica, che è quella che ora conta, Kant non può fingere d’ignorare che un magistrato conduce la sua inchiesta in modo tale da accertare la conformità delle azioni, esperite in istruttoria, con quel ricchissimo repertorio di pregiudizi che è rappresentato da ogni codificazione di leggi; al quale andranno ad aggiungersi i pregiudizi del suo animo personale, nonché della comunità di cui fa parte – sortendo così giudizi talora del tutto inattesi, che costituiscono la beffa del diritto oppure, con la giurisprudenza, una delle sue fonti133. Ma sono proprio le sorprese ciò ch’egli vuole cercare di evitare: è un mondo senza incognite, il suo, e senza meraviglia, senza curiosità né osservazione. Il celebre paragone giovanile di una metafisica oceanica nella prefazione all’Unico argomento può servire a mostrare tutta la debolezza della sua immaginazione: Oceano tenebroso senza sponde e senza fari, in cui bisogna condursi come chi, navigando in mare ancora non solcato, non appena metta piede su una qualche terra, esamina il suo cammino, e cerca se mai delle inavvertite correnti marine non abbiano deviato il suo corso, nonostante ogni precauzione che possa mai prescrivere l’arte di navigare134.

Dopo venti secoli di metafisica questo novizio navigante si crede primo esploratore135 e comincia, ottimisticamente, con l’escludere il naufragio; possiede carte e strumenti, lui, fabbricati da chissà chi, e non vuole, in realtà, scoprire alcunché: anziché rallegrarsi d’essere in qualche modo approdato non si sa dove, si vuol persuadere d’aver trovato, piuttosto, quel che cercava; e se no, come e non cosa. Su questo oceano senza sponde qualche raro navigante è nondimeno in grado di gettare «arditi sguardi al tutto»; ed esso è tanto poco 133   Al riconoscimento di un ruolo conoscitivo del pregiudizio nel giudizio accennerò nell’Analisi Cronologica. Qui basti dire che esso è in generale ben scarso, e che diventa nella Critica semplicemente inesistente. Alcune prime menzioni nella prefazione alle Forze vive (§§ iii, iv, x, xiii) riguardano i pregiudizi altrui, dei quali occorre liberarsi: nientemeno che la «disposizione d’animo» di tutta la Germania a favore del partito accademico leibniziano (§ viii); mentre alla debolezza del pregiudizio la metafisica deve purtroppo la forza maggiore delle sue dimostrazioni, alle quali bisogna dare piuttosto un fondamento (§ 19). Già nella Teologia naturale, come vedremo nell’Analisi Cronologica, la metafisica trova un autonomo principio di conoscenza, diverso dalla matematica, in giudizi intuitivi – che ovviamente per Kant non sono pregiudizi, né altrettante sintesi a priori. 134   Carabellese, p. 104. 135   Vedi anche la sconcertante affermazione conclusiva contenuta nella Prima Meditazione della Teologia naturale: «Senza dubbio la metafisica è la più difficile di tutte le scienze umane – solo, che non ne è stata ancora scritta mai nessuna» (ivi, p. 231). Non di rado, bisogna dire, i timidi si fanno avanti come temerari.

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1. Analisi tematica   177

tenebroso da trovarsi anzi affollato da una moltitudine cavillosa di teologi «impotenti a guardare complessivamente tutto un nesso d’idee». Allo scopo di «salire alla conoscenza di Dio mediante [il metodo de] la scienza naturale» Kant preannuncia (anche qui, come in occasioni precedenti già viste) di volersi giovare della naturale intelligenza comune e del buon senso136. Tanto rumore, per così poco? L’insofferenza per le scuole aveva cercato ben altre semplicità, almeno sin da Cartesio. Sappiamo già quel che valgono i suoi ripudi delle «sottigliezze di fini ragionamenti»: ci basterebbe, credo, che il buon senso riuscisse a esprimersi in buona prosa e in esempi e in immagini plausibili. Se così non è, a parte l’insofferenza verso il soffocante strapotere della censura teologica, il richiamo all’intelligenza naturale significa soltanto, in verità, che la meraviglia, per lui, è figlia d’ignoranza e non madre di conoscenza137. Il suo buon senso è un fatto prosaico, non prosastico. Sebbene nei suoi scritti le sorprese non manchino affatto (anzi! – e lo vedremo trattando proprio dell’Unico argomento nell’Analisi Cronologica), è un mondo il suo, tuttavia, nel quale un sonno sotto il melo non teme acuti risvegli, né lampade oscillano con profitto dell’ozio d’alcuno; e nel quale la nostra sensibilità è nondimeno concepita come mera recettività, o «modo in cui noi siamo modificati» da un corpo – e da un corpo soltanto! Le sorprese non mancano, dunque. E di sorpresa in sorpresa sembra a Kant, d’altra parte, che su questa nostra sensibilità la nozione astratta di diritto, per esempio, non abbia alcun potere. Il diritto, insomma, non è per lui un corpus iuris. ‘Un corpo’ e ‘il diritto’ sono dunque oggetti conoscibili mediante facoltà rigorosamente distinte, dal momento che «il diritto non può fenomenizzarsi, ma anzi il suo concetto risiede nell’intelletto [soltanto]»; mentre invece «la rappresentazione di un corpo nell’intuizione non contiene nulla affatto che possa esser proprio di un oggetto in se stesso, bensì semplicemente il manifestarsi di un qualcosa [Etwas; etwas], e il modo in cui noi ne siamo affetti»138. Domando: che cosa resta mai di un corpo, dopo che l’abbiamo ‘rappresentato nell’intuizione’ – sempre che l’operazione non sia, logicamente e terminologicamente, una semplice assurdità? E che la rappresentazione non contenga nulla affatto dell’oggetto «in se stesso» è un’ovvietà, o una tautologia, che descrive la reciproca assenza della rappresentazione, in quanto tale, dall’oggetto in se stesso, e l’assenza dell’oggetto dalla rappresentazione, in quanto esso è in se stesso. Né si vede perché il manifestarsi di un misterioso qualcosa sia modo   Carabellese, rispettivamente pp. 105, 106-107, 103.   Ivi, p. 136. 138   B 61. 136 137

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della nostra affezione soltanto, e non anche modo dell’oggetto. Nella prima edizione della Critica quel già povero Etwas si presentava ancora con l’iniziale maiuscola del sostantivo; nella seconda edizione Kant gli ha voluto togliere anche quest’ultima prerogativa, e «Un» qualcosa diventa semplicemente ‘alcunché’: l’oggetto svanisce dinnanzi all’attività rappresentativa del pensiero. *** L’affermazione secondo la quale sarebbe la sola sensibilità a patire affezioni, mentre l’intelletto ne sarebbe esentato per non si sa quale privilegio, è del resto gratuita. Ma è proprio così, poi? Vediamo ancora, in questo medesimo capoverso, dove sembra che le sorprese non finiscano mai: La diversità di una rappresentazione oscura [undeutlich] dalla chiara [deutlich] è meramente logica, e non riguarda il contenuto. Senza dubbio, il contenuto del concetto di diritto, di cui fa uso il buon senso, coincide con ciò che la più sottile speculazione può trarne – sebbene [nur daß] nell’uso comune e pratico non si sia consapevoli di simili molteplici rappresentazioni, contenute in questo pensiero [del diritto]. (…) [Per quanto concerne, invece, i corpi] questa recettività della nostra capacità conoscitiva prende il nome di sensibilità; la quale, se [anche] si potesse [ob man möchte] scrutarlo fino in fondo [i.e. il fenomeno], resterebbe purtuttavia remotissimamente [himmelweit] distinta dalla conoscenza dell’oggetto [com’è] in se stesso.

Lasciamo pure andare il fatto che qui non si parla del diritto, bensì del «concetto» di diritto; e che la sua conoscenza, come tale, non può dunque essere che di competenza dell’intelletto. Da un capo all’altro la prima Critica è piena zeppa di simili espedienti discorsivi, in verità alquanto irritanti. Ma al lettore basterà aver letto con attenzione queste poche righe, piuttosto, per capirne il vero significato: nel momento stesso in cui Kant pretende di prendere le distanze da Leibniz, in realtà gli lascia spalancate le porte. O mostra, piuttosto, di non sapere come liberarsene. La designazione terminologica della diversità fra le rappresentazioni è affidata a un unico aggettivo, deutlich, corredato di un prefisso avversativo. È la stessa cosa, insomma, cambiata di segno. Si tratta dunque dei due estremi opposti di una gradazione. E la sensibilità può, sì, restare remotissimamente distinta dalla conoscenza dell’oggetto in sé, come il cielo dalla terra – ma ciò non toglie che pur sempre di una semplice distanza si tratta. La gradazione trova conferma in ben due concessive, simmetricamente collocate presso la sanzione delle prerogative dell’intelletto e presso la sanzione dei limiti della sensibilità (ma non fu scritta, la Critica

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1. Analisi tematica   179

della ragion pura, per sancire esattamente l’opposto – vale a dire, per sancire soprattutto i limiti dell’intelletto nei confronti della sensibilità?): esiste un uso comune e pratico, vale a dire una comune opinione del diritto, che ne vive inconsapevolmente la dottrina più astratta; ed esiste una sensibilità, alla quale non viene senz’altro negata, sia pure in forma ipotetica concessiva, la possibilità di conoscere le remotissime cose in sé. Nient’altro tuttavia, per l’appunto, aveva voluto dire Leibniz, per il quale questo ‘nient’altro’ era anche stato, mi sembra, qualcosa di più. È divertente vedere come Kant venga assecondato dai traduttori, che fanno tutto il possibile per legarlo alla sua volontà e al suo destino. Colli e Chiodi traducono himmelweit (letteralmente: ‘lontano come il cielo’) con: «radicalmente» (e così il cielo finisce sottoterra, mentre l’Esposito preferisce il mare: «abissalmente»; meglio la Marietti con «immensamente»). Gentile, secondo il suo stile, aveva preferito un disinvolto «toto coelo», che mette a posto ogni cosa, celando il problema non sottoterra, ma nel dizionario. La sua traduzione è tuttavia diversa anche in un altro caso. Nel paragrafo immediatamente successivo a questo appena esaminato Kant rimprovera a Leibniz (menzionato in compagnia di Wolff) di non avere distinto origine e contenuto delle conoscenze, ma d’averne fatto una semplice questione di grado logico della forma, chiara oppure oscura. La debolezza del discorso è tradìta, mi sembra, sin dall’imbarazzo ortografico: che permette a un periodo affannato di snodarsi per un’intera mezza pagina senza un punto (tanto, che il Gentile ci s’è un poco perso). A parte questo, l’obiezione di Kant a Leibniz è comunque debole per due ragioni. Innanzitutto, perché non è di carattere negativo, bensì integrativo: diverse origini e diversi contenuti si vogliono aggiunti a specificare una nozione di forma intellettuale, la quale resta, come tale, indiscussa; e che anzi con Kant perde, per giunta, ogni forma di se stessa (come gradazione). L’obiezione diventa poi ancora più debole col rimprovero di non aver posto Leibniz il quesito in termini kantiani, ossia trascendentali; e in tal modo si manifesta (rilievi d’opportunità a parte) il secondo carattere, elusivo, dell’obiezione: perché Kant non può fingere d’ignorare il problema della relazione che occorrerà poi stabilire fra distinte origini e distinti contenuti della conoscenza, così ben separati – un problema, che lo impegnerà per buona parte del resto della Critica, con i risultati che vedremo. E aggiungiamo pure che contrapporre il trascendentale alla gradazione insensibile (da parte di chi pretendeva essere Leibniz regredito dall’orologio al girarrosto) è come contrapporre l’andirivieni dello stantuffo alla turbina. Ma non è neppure questo il punto più importante; ed ecco il passo: Mediante la sensibilità, noi non ci limitiamo a conoscere la natura [Beschaffenheit]

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180   parte prima. avanti «la critica» delle cose [come sono] in se stesse in modo semplicemente confuso, ma [anzi] non la conosciamo per nulla; e appena prescindiamo dalla nostra natura [Beschaffenheit] soggettiva, non si trova, né può trovarsi, in alcun modo l’oggetto rappresentato, con le caratteristiche che gli attribuiva [beilegte] l’intuizione sensibile; e ciò perché è proprio questa natura [Beschaffenheit] soggettiva a determinare la forma dell’oggetto in quanto fenomeno139.

All’affanno ortografico generale si aggiunge qui una certa confusione grammaticale: perché temo che quel beilegte vada interpretato come beilegen würde – altrimenti il discorso non ha senso. Secondo un vizio d’invasività che non è soltanto logico, ma anche dialogico, nei discorsi altrui, Kant vuole riferirsi alle caratteristiche che l’intuizione sensibile ‘attribuirebbe’, o ‘avrebbe attribuito’, o ‘avrebbe potuto attribuire’ all’oggetto secondo una comune opinione viziata da pregiudizio logico-ontologico. Si tratta di proprietà che ‘sarebbero’ proprie dell’oggetto in virtù di una sensibilità realistica. Bene hanno fatto Gentile e Colli a lasciare il verbo incerto così com’è140. Il fatto è, invece, che essi traducono diversamente il termine Beschaffenheit – perché? Letteralmente corrispondente al significato di ‘conformità alla propria creazione’, Gentile ed Esposito rendono regolarmente con «natura» la sua triplice ricorrenza; la Marietti osserva la stessa regolarità, ma usando il termine «costituzione». Colli e Chiodi, invece, no: distinguono; e rendono sì con «natura» la Beschaffenheit delle cose in se stesse, ma con «costituzione» la nostra Beschaffenheit soggettiva. È una premura verso Kant, la loro. Non sta forse sforzandosi Kant di distinguere le due nature? Essi dunque lo soccorrono con una non richiesta distinzione terminologica, che forse l’autore avrebbe anche volentieri accettata. Ma resta il fatto che la sua parola, invece, è una sola; e che con la fedeltà del suo calco il Gentile ha rivelato la debolezza di questo ripudio dell’intellettualismo leibniziano: perché a Kant, malgrado tutto, non riesce di trovare, nella medesima proposizione, due parole diverse per designare il modo d’essere delle cose, e il modo d’essere del pensiero. E se in questo, come in quello, tutto non è che una sola e identica «natura» – bene, diventa questione di lana caprina poi, mi pare, cimentarsi in poderose dispute sulla distinta natura di quest’unica natura. La costituzione, o natura, dell’oggetto passerebbe direttamente nella   B 62.   Gentile e Colli: «con le proprietà che gli attribuiva l’intuizione sensibile» (risp. pp. 69 e 98); Chiodi: «con le caratteristiche che gli erano attribuite dall’intuizione sensibile» (p. 116); Marietti: «con le proprietà assegnategli dall’intuizione sensibile» (p. 179); Esposito: «assieme alle proprietà attribuitegli dall’intuizione sensibile» (p. 151). L’imperfetto di Gentile e di Colli è giustamente il più vago, mentre le restanti traduzioni danno per effettivamente compiuta l’assegnazione o attribuzione all’oggetto di caratteristiche o proprietà da parte dell’intuizione sensibile. Ma Kant afferma proprio il contrario, e l’equivoco nasce dalla sciatteria della sua prosa. 139 140

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1. Analisi tematica   181

costituzione, o natura, del pensiero, e non si vedrebbe di che cosa mai i filosofi siano stati a discutere per due dozzine di secoli. E se qualcuno (immancabilmente) sollevasse poi obiezioni di spinozismo – bene: in tal caso non si traduca Beschaffenheit con «natura», ma si adotti in tutti i casi, viceversa, il termine «costituzione». È per l’appunto ciò che fa la Marietti. Dell’essenza di un rapporto quest’ultimo termine esprime se non altro, oltre alla complessità, anche un’inseparabile implicazione politica che fa della conoscenza un fatto ‘cittadino’: l’invisibile città delle cose e la spiegata città del pensiero si affacciano l’una sull’altra. Letteratura a parte, il lettore capisce bene quale sia il vero problema di un traduttore: da un calco, soltanto i veri grandi escono più grandi – e se no, escono piuttosto malconci. su di un profilo figurale L’abbozzo dei diversi profili elencati in questo primo capitolo di Analisi Tematica ha lo scopo di tracciare delle sommarie linee di congiunzione fra gli scritti cosiddetti precritici e la Critica, in modo da dare un’impressione ferma, e soprattutto il più possibile unita, della personalità teorica di Kant. Lo scritto che mi accingo a esaminare fra poco è invece l’unico che non rientra in questi limiti cronologici, perché posteriore non solo alla Critica, ma anzi di poco posteriore alla stessa trilogia critica. Il quesito di profilo figurale che in esso si pone non è infatti rintracciabile in alcuno degli scritti cosiddetti precritici. Sarà dunque bene spendere subito due parole per accennare almeno alle origini del problema figurale. Come abbiamo appreso da lui stesso nell’Unico argomento, Kant parte pressappoco dalla constatazione che se io so che cos’è ‘il diritto’, non riesco però a vederlo; e se invece vedo ‘qualcosa’, non ne so nulla. È già il seme della futura disgraziata formula critica della sensibilità cieca e dell’intelletto vuoto – solo, che qui la cosa ha un senso perfettamente plausibile, rendendo giustizia alle proprietà naturali (diciamo così) delle facoltà sensibile e intellettiva: la sensibilità qui vede, insomma, e l’intelletto ancora sa; mentre nulla di più infelice egli poteva concepire, al suo risveglio, impostando il problema critico sullo scambio delle proprietà naturali delle due facoltà. Ma insomma: nell’Unico argomento Kant doveva pur credere di conoscere qualcosa pensando a Catone, e menzionandolo. E poiché Catone non è visibile più di quanto lo siano il suo ‘senso della legalità e del diritto’, o la sua ‘integrità morale’ e la sua ‘fermezza di carattere’, è piuttosto di ‘un’ Catone che si deve discutere – vale a dire di un’antonomasia; e però con l’antonomasia si presenta al pensiero tutto

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uno sterminato repertorio di sintesi a priori, depositate nel giudizio cólto e comune come altrettanti materiali. La possibilità di simili immagini in generale, ossia dell’estensione senza materia, significa nientemeno che la possibilità della comunicazione fra sostanze, o almeno la possibilità del ritrovamento d’un punto d’incontro e d’equilibrio nel dualismo sostanziale: la soluzione di un rapporto che sarebbe logicamente impossibile, insomma, o una sintesi fra opposti che realizza un’idea senza superare alcunché. I materiali devono entrare in un problematico rapporto spaziale con l’interiorità dell’immaginazione. La storia dottrinale della relazione fra senso interno e senso esterno inizia con i primi paragrafi delle Forze vive (in particolare col § 6) – e si tratta di un inizio alquanto zoppicante. La trattazione si riassume, per così dire, in un anacoluto logico, o come Kant stesso deve ammettere, in una «proposizione paradossale». L’anima, egli dice, è in grado di mettere in movimento la materia grazie alla dottrina cartesiana della sostanzialità dello spazio («l’anima deve poter agire verso l’esterno per questa ragione: perché si trova in un luogo»). Ma anche la materia può, viceversa, agire sull’anima imprimendovi immagini e rappresentazioni: Infatti la materia, che è stata posta in movimento [dall’anima], agisce su tutto ciò che è collegato ad essa [materia] nello spazio, quindi anche sull’anima; cioè essa [l’anima] muta il suo [dell’anima] stato interno nella misura in cui esso [lo stato interno dell’anima] si relaziona con l’esterno [ossia con la materia]. Ora, l’intero stato interno dell’anima è nient’altro che l’insieme di tutte le sue rappresentazioni e concetti...; perciò la materia, per mezzo della forza che essa ha nel movimento [ma è il medesimo movimento che le è stato impresso dall’anima, si suppone] modifica lo stato dell’anima mediante cui essa [l’anima] si rappresenta il mondo141.

Ogni commento sulla consistenza logica del passo mi sembra superfluo: basta sciogliere i pronomi relativi. Ma per il problema che in questo paragrafo c’interessa, ossia per un profilo della sensibilità figurale di Kant, bisogna tuttavia sottolineare l’unica cosa che in questa pagina conta davvero, e che conserva un valore di testimonianza inestimabile: vale a dire l’associazione del senso interno della coscienza alla dimensione dello spazio, dalla quale scaturiscono ogni sorta di rappresentazioni (e di concetti!) d’ordine figurativo, sensibile sebbene immateriale, esteso e insieme unito, archetipico. La loro possibilità teorica andrà svanendo rapidamente nel corso degli anni: nei Sogni d’un visionario, per esempio (come vedremo nel relativo capitolo dell’Analisi Crono  Petrocchi, pp. 58-59.

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1. Analisi tematica   183

logica), diventerà un problema di rette parallele collegate da un accademico clinamen, da voli di farfalla e da serici vanni; e finirà poi del tutto sacrificata in vuoti postulati sensibili allorché la Critica vorrà sancire l’associazione del senso interno della coscienza alla sola dimensione del tempo. Oserei persino affermare che in Kant non si può neppure parlare di una vera e propria evoluzione della possibilità teorica di una dimensione figurativa del pensiero: essa rimane niente più che una fugace intuizione giovanile. Ma il dissolversi sotto il profilo teorico di questa possibilità non esclude un suo uso episodico. E in un solo caso veramente importante, che io sappia, Kant volle effettivamente servirsi di una di quelle sintesi a priori della sensibilità, discutibili e complesse, tràdite per letteratura, che si chiamano figure – e precisamente della figura di Giobbe: la quale costituisce, per l’appunto, l’essenza figurale «trovata» (come Kant medesimo riconosce) dell’altrimenti invisibile nozione di ‘onesta sincerità di cuore’, contrapposta all’altrettanto invisibile ‘ipocrita eccellenza nel conoscere’ degli amici di Giobbe (che è solo un altro modo di chiamare il loro intellettualismo). Sarà un caso che lo scrittarello Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791) offra alcune delle pagine più leggibili di Kant?142 La coscienziosità «formale» di Giobbe, tuttavia, non è tale (come vuole Kant, andando dietro alle sue solite distinzioni grossolane) perché egli riponga ciecamente nei disegni imperscrutabili del Creatore la «ragion pratica sovrana» delle sue disgrazie, contro la coscienziosità «materiale» dei suoi amici che ci arzigogolano sopra (non potrebbe essere infatti esattamente l’opposto: formale la loro, e materiale la sua?) – no: è coscienziosità ‘formale’ proprio perché l’essenza di una nozione complessa viene (finalmente, per una volta!) a esistere sensibilmente, visibilmente, in Giobbe stesso. Una volta trovata nella tradizione letteraria la sua figura, non è più Giobbe a essere sincero, bensì è ‘la sincerità’ che ormai è diventata visibile in lui, in una memorabile sintesi a priori che è forma (come Kant direbbe) trascendentale. E poiché ‘la sincerità’ è un concetto, la sua forma sensibile non è distinguibile dalla forma intellettiva – esattamente come Kant aveva già detto sin dal passo delle Forze vive che abbiamo appena letto, parlando di un’anima che contiene «rappresentazioni e concetti». Nel suo pensiero le due cose, dapprincipio, non sono affatto logicamente o storicamente separate. Non si saprebbe altresì distinguere in questa sintesi lo spazio dal tempo, ossia l’estensione narrativa dall’estensione esegetica, e la filologia dalla storia. Né l’evocazione anamnestica, per forza d’antonomasia, dallo studio della tradizione letteraria può am  In Scritti di filosofia della religione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1989.

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mettere la distinzione fra un senso ‘interno’ e uno ‘esterno’ della coscienza. Né, ancora, si saprebbe distinguere da questa ‘forma’ la sua ‘materia’: per il semplice fatto che la figura di Giobbe è d’ordine complesso – vale a dire: che noi non possiamo ammettere l’esistenza de ‘la sincerità’ come forma, e di ‘un Giobbe’ e della sua vicenda come contenuto, o materia, di quella forma. Poiché la sua sincerità è altresì «onesta» e «di cuore», dovremmo infatti ammettere l’esistenza, accanto alla ‘sincerità’, delle forme della ‘onestà’ e della ‘cordialità’, o della ‘schiettezza’, e così via elencando tutto un catalogo nozionale. Senza un punto figurale di condensazione inizierebbe, insomma, un gioco di rinvio all’infinito per definizioni: perché la figura di Giobbe possiede ben altre qualità, che la narrazione ci rivela a un’attenta lettura, come l’amarezza, il risentimento, la recriminazione, e quant’altro – tutte nozioni altrettanto invisibili quanto ‘il diritto’, con le quali Giobbe volle sollevare, per l’appunto, un problema di giustizia. E ciascuna di queste sue qualità sarebbe dunque forma di questo problema di giustizia – ma tutte dotate però, queste forme, di un medesimo contenuto e dell’unica materia della sua vicenda. Com’è possibile, questo? Dobbiamo dunque pensare che sia vero il contrario: che l’esperienza d’oggetti d’ordine complesso dev’essere di pari natura, adeguata – ossia che la vera esperienza conoscitiva d’ordine complesso per oggetti d’ordine altrettanto complesso è la vicenda letteraria di Giobbe non in quanto essa è una ‘vicenda’ (la cosiddetta ‘materia’ della ‘sincerità’, o d’altre simili nozioni), bensì in quanto essa è ‘letteraria’: ossia in quanto è forma intesa come a-priori di un’esperienza possibile non già nel futuro, bensì nel passato e nel presente, già discussa e tuttora discutibile. Ma Kant non poteva possedere la nozione di esperienza letteraria, vale a dire della letteratura come prima esperienza. Ed è altresì vero, d’altra parte, che con le sue abortite teorie intermedie, accessorie o soggiuntive, di schemi, e di quasi-schemi, e di schemi di schemi, e di rappresentazioni, e simili, Kant andò alla ricerca di qualcosa di simile a ciò che sin dapprincipio s’era precluso di trovare in forme e figure, proprio per difetto d’intuizione sensibile adeguatamente educata. *** Problemi conoscitivi a parte, una sommaria lettura del libro di Giobbe può essere utile anche per intendere, in un caso ben raro, il modo come Kant si pose in relazione con le figure della tradizione secondo i suoi scopi pratici. Giobbe non è, innanzitutto, antonomasia della laconica sopportazione delle sventure inviate da Dio. Il versetto citato da Kant sull’incondizionata remis-

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sione di Giobbe alla volontà di Dio («Egli è unico, e fa ciò che vuole»; Gb 23, 13) è del tutto fuorviante, perché quella di Giobbe è in effetti tutta quanta una recriminazione: «Egli [i.e. Dio] infatti è solo, e nessuno può mutarne i propositi; e quale cosa la sua anima volle, tale fece. Poiché s’adempie su di me la sua volontà, e molto altro simile ancora gli sta pronto dinnanzi. Perciò sono atterrito al suo cospetto; e se lo penso, ne ho spavento. Dio ha fiaccato il mio cuore, e l’Onnipotente m’ha affranto» (13-16). Quell’edificante schiettezza, che è tutta un’invenzione kantiana, scaturisce dunque, in realtà, da un cuore affranto, prostrato, e nondimeno assai eloquente; è una lunga recriminazione blasfema, quella di Giobbe, del divino e meschino cinismo: «Se flagella, che [almeno] lo faccia in un istante; e che non rida [per giunta] delle pene degl’innocenti» (9, 23). Gli amici gli rinfacciano la sua querimonia vittimistica: «Forse che staremo ancora ad ascoltare chi la fa tanto lunga? O che il loquace dovrà avere ragione?» (11, 2). E per il resto la loro è una lunga e ripetuta requisitoria alla ricerca delle possibili ragioni del castigo: egli avrà pure peccato, dal momento che neppure gli angeli sono perfetti; la sua pietà non era premio a se stessa, bensì ansia di remunerazione (primo discorso di Elifaz); le sventure son sempre esistite (primo discorso di Bildad); la punizione è stata anche mite (primo discorso di Zofar); e così via – inutile continuare. Kant ha privato Giobbe d’ogni risentimento e d’ogni amarezza, d’ogni empietà blasfema o sospetto di colpa; ne ha fatto un suddito esemplare della miseria e della sventura, senza più alcuna memorabilità letteraria e senza alcun bisogno di esame e di pentimento. Somiglia, in queste poche pagine, a quel famoso Stilbone che s’era guadagnato l’indignazione di Epicuro, e il plauso, invece, di Seneca: «La sua patria era stata occupata, aveva perduto la moglie, i figli, e se ne usciva dal fuoco, ovunque divampante, solo, ma col volto sorridente. Ed ecco che, alla domanda di Demetrio… se avesse perduto qualcosa, rispose: “I miei beni son tutti con me… niente ho perduto… quanto mi appartiene è con me”»143. Ahimè – bisogna proprio che lo stoicismo educhi piromani, dal momento che vive di simili roghi; ma nulla di tanto epico è necessario invocare per la quieta impeccabilità del Giobbe kantiano. Il Giobbe biblico, però, come tutta la sua invettiva dimostra, e come gli viene rinfacciato nel mezzo del dolore dalla tempestiva petulanza degli amici giunti al conforto, talvolta non è più padrone neppure di se stesso, perché Dio stesso l’ha confuso, ed egli lo sa: «Anche se sarò stato schietto, la mia anima non lo saprà [neppure], e io odierò la mia vita» (9, 21).   Seneca, Lettere a Lucilio, i, 9 (Boella).

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Perciò, proprio la recriminazione contro Dio rende la sua fiducia in se stesso indefettibile: «Lungi da me ch’io vi dia mai ragione; e fino alla morte non rinnegherò la mia integrità. Mi terrò saldo nella mia indefettibile giustizia, né il cuor mio mi rimprovera alcuno dei miei giorni» (27, 5-6). Kant interpreta quest’ultimo passo nel senso che Giobbe «mostrava di non fondare la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità», ossia sulla buona condotta senza richiesta di alcuna remunerazione144. Ora, a parte il fatto che il lamento del Giobbe biblico consiste proprio, tutto quanto, in un quesito di teodicea posto in termini di remunerazione (sia pure iniqua, negativa), è poi evidente, soprattutto, che la fede di cui egli parla è la fede in se stesso. La fondazione della Moralità e della Fede non c’entra affatto. Tra l’affidarsi ai disegni del supremo consiglio, e l’affidarsi all’integrità della propria coscienza, il Giobbe biblico ha scelto – e ha scelto se stesso. Anche il kantiano dovrà pure farlo – ma le due scelte sono diametralmente opposte. Rimettendo nelle sventure ogni umana confidenza alla volontà di Dio il Giobbe kantiano, assai più del biblico, ha fatto storia del costume e della mentalità. Kant era uomo nient’affatto alieno dal mettersi al riparo d’una Ragione sovrana, né immune dalla tendenza, diciamo così, a identificarsi con l’istituzione. Tantomeno dovette esserlo, allorché il «tribunale della filosofia» si trovò in conflitto con «qualche tribunale di teologi dogmatici»145 – vale a dire: quando il suo essere ‘un Giobbe’ venne a contrasto con ‘gli amici di Giobbe’, i cultori di teodicea delle facoltà teologiche (o insomma i propagandisti togati e custodi di Stato dell’ottimismo migliormondopossibilista). L’invito del filosofo ad affidarsi ai disegni divini è un invito rivolto ai teologi affinché cessino d’argomentare circa le ragioni e le infallibili finalità del Creatore. In modo alquanto edificante, e anche un tantino ipocrita, uno dei grandi temi culturali del secolo si appresta così a ridursi, di lì a pochi anni, a un accademico Conflitto delle Facoltà. *** Non è con l’autentico ottimismo del leibnizianesimo che Kant in tal modo se la prende, in realtà, ma con i suoi cascami disciplinari accademici, in una battaglia minore ingaggiata dal pietismo contro la confessione ufficiale: difendere la metafisica contro la teologia significava in qualche modo stare all’opposizione, essere ‘di sinistra’; ma rimettere ogni conflitto al giudizio di un’istanza   Scritti di filosofia della religione, Riconda, p. 61.   Ivi, pp. 58 e 61.

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superiore con edificante compunzione dice pure di che tipo di ‘sinistra’ si tratti. Toccò a Kant di vivere, del resto, in un’epoca di generale riflusso speculativo, in cui si miete più che seminare; ed egli fu mietitore, ingaggiando per lo più battaglie applicative o di retroguardia. Ma se, d’altra parte, ogni tribunale di teologi dogmatici, ogni sinodo, inquisizione, assemblea di dignitari o altro qualsivoglia concistorio supremo «del nostro tempo» in definitiva, secondo Kant, si somigliano, è tuttavia prudente farne salvo almeno uno; ed essi sono sì tutti uguali, com’egli dice, ma «ad eccezione di uno», per l’appunto, riferendosi probabilmente all’arbitrato dello Oberconsistorium di Berlino, al quale rimetteva l’esecuzione d’ogni divina provvidenza. Emerge così un tratto della sua personalità che non può veramente interessare il filosofo teorico e lo storico del criticismo, ma che presenta un certo interesse per il filosofo politico: perché è, e resterà sempre, caratteristica del cosiddetto kantismo il costume di propugnare fieramente l’autonomia della coscienza individuale come valore supremo, salvo poi affidarsi in ogni circostanza al decreto autoritario di una pratica Ragione sovrana per dirimere ogni immediato conflitto di coscienza. Sotto questo profilo il suo Giobbe, che si affida alla «incondizionatezza del divino consiglio»146, non è dunque affatto un Giobbe minore – semplicemente, perché non è Giobbe affatto: è soltanto il Giobbe inventato da Kant. Non cogliendo il significato recriminatorio delle sue parole, Kant attribuisce alla serena rassegnazione di Giobbe, in realtà, quell’enfatica propugnazione della sottomissione incondizionata alla volontà suprema che è contenuta, semmai, nella requisitoria di Eliu, il quarto e più giovane interlocutore sopraggiunto nella narrazione biblica. Costui si considera incorrotto: «Non guarderò in faccia ad alcuno, non adulerò nessuno» (32, 21); si annuncia ispirato: «Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell’Onnipotente mi dà vita» (33, 4); s’insedia quale inquisitore: «Bene, Giobbe sia esaminato fino in fondo per le sue risposte da uomo empio» (34, 36); garantisce divine remunerazioni: «Se ascoltano e si sottomettono, chiuderanno i loro giorni nel benessere, e i loro anni nelle delizie» (36, 11); parla infine proprio come Kant crede che abbia parlato il suo Giobbe: «L’Onnipotente non lo possiamo raggiungere, sublime in potenza e rettitudine, e grande per giustizia: egli non ha da rispondere» (37, 23). Insomma: in questo scritto Kant ha reinterpretato la figura di Giobbe, facendone una figura impoverita, secondo i suoi scopi pratici. Il suo non è uno schema, naturalmente, bensì piuttosto uno schermo. E come nel testo biblico la figura di Eliu assolve una funzione letteraria di mediazione, pro  Ivi, p. 60.

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feticamente preparatoria all’intervento di Dio stesso, così nel testo kantiano sullo schermo dell’impoverita figura di Giobbe si proietta già un barlume della zelante perorazione di Eliu: quella sua povera antonomasia predispone l’invito all’obbedienza incondizionata e (paradossalmente, dopo tante concitate parole) al silenzio. Su quesiti dell’invisibile imparare a tacere, dunque? Quando Kant così bene predicava, l’inchiostro della terza Critica s’era appena asciugato: egli aveva appena terminato di dare un ‘senso’ al mondo mediante un giudizio. Qui, invece, pretende di rimettere il giudizio. Malgrado l’ipocrita compunzione deve tuttavia inevitabilmente risorgere, anche in questo scritto religioso, il medesimo interrogativo finalistico circa il possibile accordo fra la «saggezza artistica» del creatore e la sua «saggezza morale». Come sia possibile che Kant riesca a tessere l’elogio di Giobbe facendo intanto, per il resto della vita, l’amico di Giobbe, è compito che toccherebbe agli psicologi d’indagare. Gli amici di Giobbe cercano, in definitiva, nient’altro che le ragioni della volontà di Dio. Dov’è finita, nell’invito a rimettersi alla Sua volontà che Kant fa pronunciare a Giobbe, la definizione dell’Illuminismo come coraggio di ragionare in ogni caso con la propria testa? Questo, in definitiva, è proprio ciò ch’essi fanno, e che non fa lui. Proprio la teologia accademica, insomma, pretendeva non doversi ricercare ragione alcuna che non fosse testualmente sancita e discutibile, mentre la terza Critica aveva già trovate a iosa sue proprie giustificazioni al mondo. Forse che in tal modo, con la conclusione della sua trilogia, Kant s’era talmente rassicurato e inorgoglito da credere che con essa fosse stata detta, per un pezzo, l’ultima parola sulle ragioni della creazione? È un’ipotesi plausibile: quella dell’insicuro e del timido che si fa tutt’a un tratto patriarca delle scienze. Si manifesta qui, in modo assai sottile, un aspetto poco simpatico della sua personalità. Dal novero degli ‘amici di Giobbe’, al quale in definitiva apparteneva (conflitti tra Facoltà a parte), Kant volle insomma cominciare ad appartarsi, con un improbabile invito a tacere. Ma non è questo, il silenzio che fa conoscenza – né il silenzio ch’egli aveva mai praticato, del resto. Le sue polemiche giovanili non hanno mai destinatari remoti, come i suoi principali assunti teorici non procedono mai da lungi, se non sommariamente. Non è dunque possibile ignorare che la sua polemica contro l’intellettualismo teologico mirava in alto per colpire in basso, e che parlando di Leibniz egli ebbe costantemente presenti, in realtà, soltanto i cascami del leibnizianesimo, ovvero i suoi rappresentanti saldamente insediati nelle facoltà teologiche.

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Ii. Analisi cronologica Le conoscenze filosofiche hanno per lo più il destino delle opinioni, e sono come meteore il cui sfavillìo non promette lunga durata. Esse scompaiono, mentre la matematica resta. Kant, Teologia naturale Se i giudizi matematici non sono sintetici, all’intera critica kantiana della ragione viene a mancare ogni fondamento. R. Zimmermann Nella matematica si seguono due procedimenti: l’analisi e la sintesi. N. Lobačevskij

Sebbene importanti, e anzi proprio per questo, i medi o tardi scritti cosiddetti precritici sono stati sin qui appena menzionati, o trattati di sfuggita. Quest’omissione si deve allo sforzo di conciliare nell’esposizione il principio della libera trattazione tematica ‘a bersaglio’ (diciamo così), sui caratteri originari e più generali, con un minimo di ordine cronologico nella menzione dei testi. Si tratta d’un avvicinamento all’oggetto di studio di tipo impressionistico e centrale, basato sul senso dello spazio, il quale deve però tener conto anche del fatto che la scrittura non ha che un’unica dimensione lineare, la quale chiede che venga rispettato il suo senso intrinseco del tempo. Alla lunga, simile compromesso si può realizzare perciò soltanto con sempre maggiore difficoltà, via via che il numero dei temi principali caratteristici si esaurisce, e che il numero e l’importanza degli scritti da trattare, invece, aumenta. Una buona soluzione per mantenere un certo ordine nella trattazione mi sembra, ora, quella di dedicare a questi medi e tardi scritti cosiddetti precritici una discussione separata e riunita in un’apposita Analisi Cronologica: in modo che con qualche novità, e anche a costo di qualche ripetizione, i temi già trattati possano venire ad avvilupparsi insieme in un passaggio alquanto più stretto e ritmato verso la Critica. Vogliamo discutere i principali scritti compresi fra L’unico argomento del ’63 e la dissertazione De mundi del ’70, con la quale inizia poi il decennio

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d’incubazione della prima Critica. Il punto di stretta non è scelto a caso, naturalmente: perché ritengo che L’unico argomento rappresenti, più che un punto di svolta, o di decisione effettivamente precritica (com’è il De mundi, semmai), un momento, piuttosto, di massimo imbarazzo nell’orizzonte teorico di Kant; il quale, a parte qualche raro segno premonitore di un mutamento d’indirizzo, vi appare più del solito intento a rivoltare di continuo la sua materia, senza seguire una direzione precisa. Ma già nella Teologia naturale, del ’64, egli mostra di sapersi giovare con una certa sicurezza dei suoi materiali logici e terminologici. «l’unico argomento» Una certa remissività puerile e ossequiosa sarebbe trascurabile, e forse anche scusabile, in questo scritto, se non ci dovessimo imbattere continuamente nei segni di un fastidioso e talvolta patetico moralismo. Oltre che assurdo, secondo lui, il materialismo di Democrito e di Epicuro rappresenta un «deliberato inganno»; e Kant ci assicura che se ne avesse voglia saprebbe anche dimostrarlo – ma prudentemente vi rinuncia. «Si deve essere ben maligni» per negare che negli animali gli organi di senso siano stati perfettamente collegati agli organi di locomozione per opera di un sapiente artefice; cosicché i virtuosi deisti si trovano trincerati fra bastioni, nei quali «i maligni nemici della religione» vorrebbero far breccia. Che fare, per resistere, se non confidare nell’ottimismo? Perché, si sa, «gli intrighi e la malizia finiscono per naufragare, e l’onestà è sempre, in ultima analisi, la migliore politica»1. La banalità pedagogica di questo moralismo, non scevro da qualche patetica ingenuità da scolaro2, è incomprensibile, dal momento che tutto lo scritto, implicitamente indirizzato contro i teologi accademici, si rivolge al pubblico alto dei metafisici, i quali non devono aver avuto bisogno, io credo, di simili avvertimenti. Col suo lavoro Kant non cerca l’approvazione dei revisori cavillosi che vanno a caccia d’eresie, bensì di quella piccola parte del pubblico capace di lanciare «arditi sguardi sul tutto di una ricerca»: i cui assunti fon1   Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, pp. 168, 169, 195, 148. 2   Nello spazio di poche righe egli afferma di non poter presentare ai suoi lettori un elaborato alquanto più rifinito, a causa del tempo sottrattogli da altre incombenze; e d’essersi però presentato al loro giudizio in simili precarie condizioni con una intenzionale omissione (ivi, p. 104). Questo era l’uomo, assillato dai suoi quotidiani doveri, che lo resero sempre incapace di vero raccoglimento: un uomo che in tutta la sua vita non cambiò mai stile, e cercò la salvezza dal suo disordine nel rispetto della puntualità.

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damentali «potrebbero» dar forma a una solida costruzione, «se [soltanto] si colmassero certe mancanze e si correggessero certi difetti». Con parole simili Kant non si limita semplicemente a rivolgersi ai metafisici – mette anche a loro disposizione gl’imperfetti risultati del suo lavoro, affinché con «mani più esperte» gli diano «l’ultimo tocco dell’artista». È allarmato: «una delle parti più eccelse della filosofia» è stata tratta a conclusioni erronee da «una troppo sottile indagine». I maestri dell’arte, avvertiti, sapranno certamente far meglio: «Io mi contento di portare a termine il principio d’una dimostrazione. Il mio scopo, qui, non è quello di presentare una dimostrazione formale» – e con «formale» egli intende ‘sistematica’: «Dovrei far ciò, se volessi trattare sistematicamente il mio oggetto. Ciò che io qui presento vuol essere l’analisi con cui ci si può render capaci di una dottrina formale»3. Che cos’è mai quest’analisi che precede la dottrina formale – forse il suo ‘fondamento’ nel futuro significato critico? Ma no: è molto di più. Mentre altri, ubi maior, enuncerà questa dottrina «formale», egli intanto non farà che portare «un materiale [Baugeräth] faticosamente raccolto», per presentarlo «all’esame del conoscitore, affinché con i pezzi che possan servire compia l’edificio secondo le regole della solidità e dell’armonia»4. Appunto: il Kant cosiddetto precritico, tutto immerso ancora nel suo sonno dogmatico, aveva già fra le mani tutte le solide sintesi a priori che gli servivano; e le utilizzava e le recava non già come condizioni formali della scienza, né come una generica e misteriosa ‘materia’ a venire, con la quale riempire delle forme; bensì, proprio come dice, le recava e utilizzava per quello che effettivamente esse sono: dei materiali – ossia forme intese come altrettanti contenuti finiti d’ogni specie. Una corriva nozione generica della forma lo spinse dunque in seguito alla ricerca di ciò che non aveva alcun bisogno d’essere cercato, e gli fece credere d’averlo trovato nella pura e semplice (e paradossale, anche: Baugeräth!) decostruzione d’ogni contenuto e d’ogni specie finita. Non è l’unica sua corrività. La seconda parte de L’unico argomento si conclude con un sublime elogio dell’accezione «comunemente in uso» della nozione di ‘infinito’: sebbene poco conforme all’esattezza logica (che vorrebbe si parlasse piuttosto, dice Kant, di ‘onnisufficienza’: ecco il leibniziano di scuola!), «pure la denominazione di infinità è bella e propriamente estetica. L’estendersi al di là di ogni concetto di numero commuove, e attraverso un certo imbarazzo pone l’anima in stupefazione»5.   Ivi, pp. 104, 105, 109-110, 130, 131.   Ivi, p. 104. 5   Ivi, p. 202. 3 4

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Il sublime (qui ancora confuso col bello) è ammesso secondo il significato che il termine assume, secondo lui, nel senso comune – e l’effetto non può essere che doppiamente stupefacente, se solo si pensa all’insistenza con la quale negli scritti precedenti Kant aveva tanto spesso invocato il buon senso per evitare di sfuocare l’oggetto del discorso; e ciò che Leibniz aveva insegnato sul sofisma degl’inesistenti numeri massimi viene tranquillamente ignorato – anzi: con una specie, nientemeno, di doppio numero massimo l’onnisufficienza divina è definita come un concetto «esteso a tutto il possibile e [a tutto] il reale [esistente]». In questo infinito ci sono dunque, sembra, due «tutto». Non è impossibile che Kant fosse in qualche modo a conoscenza del paradosso galileiano della corrispondenza biunivoca fra la serie dei numeri naturali e la serie dei loro quadrati, che fa del tutto e della parte due infiniti di pari estensione. Ma credo proprio che sia inutile guardare tanto lontano, e che il significato di questo ‘infinito onnisufficiente’, reale e possibile, sia molto più spiccio: non era già consistita l’unità dell’universo, come s’è visto nelle Considerazioni sull’ottimismo, in una semplice addizione? Lo è anche qui: il Kant ‘unitario’ non rinuncia mai a fare le somme. A Kant, che pure raccomanda ancora di tenersi attaccati alla navicella della logica, dovette sembrare, spiegando al vento simili gualdrappe discorsive, di uscire dal suo oceano tenebroso a riveder le stelle. Chissà se alla luce di certi lampi quest’oceano acquisterà anche sponde, e qualche faro – se non per lui, almeno per noi che lo seguiamo. Vediamo. È uno stato d’imbarazzo, il suo, dal quale il lettore che lo voglia seguire attentamente non resta davvero immune, allorché lo sente dire qualcuno dei suoi incomprensibili spropositi, o lo vede rifugiarsi in qualche reticenza o nube terminologica – magari per semplice corrività o sciatteria stilistica, talvolta. Il titolo del primo paragrafo della Prima Meditazione, per esempio (che recita: «L’esistenza non è affatto predicato, o determinazione di una qualche cosa»), andrebbe a rigore riformulato, e va comunque rettamente inteso, nel senso che l’esistenza non è affatto predicato ‘necessario’, o determinazione ‘necessaria’, di una qualche cosa. Che egli, contrariamente al solito, abbia proprio qui rinunciato alla sua solita ridondanza terminologica, risparmiandosi l’uso di un aggettivo? No, perché quando poi parla di «necessità», nella Terza Meditazione, si riferisce nientemeno che alla necessità di un’esistenza «in generale» e «assoluta» com’è quella dell’Essere supremo, e a nessun’altra. La necessità è dunque nulla nelle cose finite del mondo fisico (dove però non esiste, secondo lui, che la pura possibilità logica dell’immaginazione, mai il semplice caso) – oppure è fin troppa cosa nell’Essere supremo, che senza essere dotato di

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Ii. Analisi cronologica   193

alcuna possibilità dell’immaginazione rischia di coincidere (spinozianamente) con la Necessità. Kant non sembra rendersi minimamente conto dell’importanza di certe possibili implicazioni terminologiche; ma è la sua abituale logica prosastica a non avere, in verità, proprio nulla del rigore matematico. E sebbene nel primo paragrafo della Terza Parte egli prometta di voler procedere non già con argomenti verosimili, bensì con evidenza matematica6, è proprio alla verosimiglianza che poi si affida dappertutto; e alla matematica, anzi, ha già preferito rinunciare in omaggio alle ragioni di un conoscere sentimentale che è insieme più grande e più piccolo della mera conoscenza intellettiva – oppure che è superiore alla sua stessa personale intelligenza, come ha l’onestà di ammettere: Queste analogie [che è dato riscontrare fra cose diversissime di questo mondo] sono anche aiuti necessarissimi della nostra conoscenza; la matematica stessa ne offre alcune. Io mi astengo dall’addurne esempi, giacché è da temere che per il modo diverso in cui tali somiglianze sono sentite, esse possano non produrre lo stesso effetto su ogni altro intelletto; e del resto il pensiero che io qui frammischio è incompleto, e non ancora sufficientemente intelligibile7.

Ma quale pensiero e quali esempi, insomma: quelli delle ‘somiglianze analogiche’ in generale (è lui stesso che assimila i due termini, dei quali non sa fare un uso tecnico distinto); oppure il pensiero e gli esempi matematici di queste «analogie», ovvero «somiglianze», ch’egli dice sentire, e che potrebbe produrre se soltanto ne fosse all’altezza; o gli uni e gli altri? Noi non capiamo se Kant ci voglia confessare di non saper fare l’onesto mestiere di logico e di matematico, oppure di non saper dire ciò che sente. Il genere saggistico non era il suo forte (e le Osservazioni sul bello e il sublime restano semplicemente un miracolo), ma il talento accademico non gli sarebbe dovuto mancare. Le omissioni intenzionali qui sono tre, e non due; e la terza è di gran lunga la più importante: perché (in ordine crescente d’importanza) Kant rinuncia a dare l’esempio matematico dell’analogia; afferma e poi tralascia il ruolo conoscitivo ausiliario dell’analogia stessa in generale; e afferma e poi tralascia il ruolo conoscitivo preliminare del sentimento individuale rispetto a un intelletto che non sembra poter possedere i requisiti di una facoltà generale (le analogie o somiglianze, infatti, sono sentite da ciascun singolo intelletto). Ora, non si dica che qui si esagera nel voler essere dei lettori attenti ed   Ivi, p. 203.   Ivi, p. 178.

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esigenti: perché dopotutto Kant è già un uomo di quarant’anni, che si decide a giocare una carta forte cimentandosi nientemeno che col problema dell’esistenza di Dio. Quanto poi agli spropositi, che sono altrettanti segni di una mente che si giova frettolosamente di osservazioni altrui, e che non sa portare casi propri, mi basta segnalarne due soli: quello delle brezze marine, e l’esempio di Giulio Cesare. Qualcuno potrebbe pensare, dice Kant, che una divina saggezza abbia predisposto le cose in modo che le coste marine dei paesi tropicali (che secondo lui dovrebbero essere più calde del territorio interno) vengano rinfrescate da periodiche brezze, spiranti in direzione alterna dalla zona relativamente più fresca verso la più calda – ma non c’è bisogno di alcuna divina saggezza: perché la fisica dei fluidi può spiegare tutto con i rapporti di temperatura e densità dell’aria sul mare e sulla terra, rispettivamente, nelle diverse ore della giornata. E quali sono dunque, secondo lui, questi rapporti? Eccoli: «Siccome però, facendo di notte molto più presto freddo sul mare che sul continente...», eccetera; o ancora: «e l’aria marina che di giorno, per le stesse cagioni, non si era riscaldata così fortemente come quella di terra, si raffredda più celermente di notte, si contrae...», eccetera8. Ma è vero, com’è noto a chiunque, esattamente il contrario. E non è dunque l’oceano della metafisica a essere tanto buio e sconfinato – se non per chi, come lui, non possiede neppure le più elementari nozioni sicure di meteorologia e di navigazione. *** Con l’evocazione a mo’ d’esempio della figura di Giulio Cesare, d’altra parte, Kant mostra quanto poco capisse di letteratura, oltre che di matematica e fisica. Sembra un destino che le due cose debbano andarsene zoppicando insieme. Il lettore avrà notato che, a parte qualche sporadico riferimento alla Critica, nella precedente Analisi Tematica ho voluto violare l’àmbito del sommario ordine cronologico precritico in un solo caso: soffermandomi cioè, nelle ultime pagine, sull’Insuccesso in teodicea (chiamiamolo così) del 1791, con un’ampia discussione del profilo figurale di Giobbe. La ragione c’è: ho dovuto farlo. Perché tanto negli scritti cosiddetti precritici che nella trilogia critica non esiste effettivamente prima di quel Giobbe, che io sappia, alcun riferimento figurale che valga la pena di discutere – tranne che, per l’appunto, nel caso di questo Giulio Cesare portato malamente ad esempio; ed è un caso talmente malsicuro da venire immediatamente accantonato per cercare qual  Ivi, p. 140.

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Ii. Analisi cronologica   195

cosa di più convincente nella zoologia. Perché, poi, non sia stato senz’altro espunto è cosa che si spiega, forse, col bisogno che Kant dovette sentire di tenerlo in serbo, per ripensare al valore conoscitivo delle figure storiche. È della possibilità che non implica alcuna necessità dell’esistenza ch’egli sta trattando – vale a dire: qualcosa di pensabile con tutte le sue possibili determinazioni o predicati (a cominciare da Dio stesso, che tutti li deve possedere), non è detto che debba necessariamente esistere. Ora, se Kant avesse menzionato a mo’ d’esempio, che so?, Simplicius Simplicissimus, oppure Candide, o qualsiasi altro personaggio dell’immaginazione letteraria, il discorso avrebbe un senso – mentre con Giulio Cesare, le cui determinazioni reali sono storicamente accertate, evidentemente esso non ne ha alcuno. Ed ecco così comparire al soccorso dell’esempio del principe, appena menzionato e subito accantonato, l’esempio del liocorno di mare, al quale spetta l’esistenza, e del liocorno di terra, che invece ne è privo9. Kant non avrà amato le cancellature – ma di certo non amava neppure rileggersi: non ne avrà avuto il tempo. Noi potremmo qui cominciare a sovraccaricare il discorso con un’infinità di questioni future, e tipiche, specialmente, della rinascita del kantismo di fine Ottocento: prima fra tutte la rimozione della misteriosa cosa in sé quando se ne conoscano tutte le determinazioni o i predicati; e una volta rimossa questa, l’oggetto è posto dal pensiero, eccetera. Non è forse andato a finire con Kant nel problema ontologico l’antico problema teologico: dall’esistenza di Dio all’esistenza del noumeno? E il problema ontologico, a sua volta, non s’è forse creduto risolto col gnoseologico? L’irriverenza condiscendente del neo-kantismo nei confronti d’ogni mistero non fece che trarre baldanzosamente le conclusioni gnoseologiche dalle premesse deistiche del caposcuola. L’argomento di Anselmo d’Aosta è in realtà pericolosissimo; e se viene coerentemente svolto esso conduce a conclusioni del tutto opposte alle desiderate: perché se è vero che la perfezione e l’infinità dei predicati devono implicare anche quello dell’esistenza, ciò che vale per Dio non può valere per alcuna delle Sue creature; e l’unico argomento possibile per dimostrare la Sua esistenza sancisce al tempo stesso l’irrealtà del mondo come ‘irrealtà’ d’un semplice sogno matematico, o d’un trattato di metafisica. ‘Reali’ essi restano effettivamente soltanto come tali, sogno e trattato, senza bisogno di ulteriori giustificazioni: per passione, per diletto, per fede in una letteratura. Ma Kant non la pensa affatto così, e la matematica viene qui chiamata in causa del tutto a sproposito: perché prendendosela col sicuro incedere mate  Ivi, pp. 111-112.

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196   parte prima. avanti «la critica»

matico dei metafisici, e cedendo all’abuso corrivo di una similitudine, Kant la porta ad esempio di quell’intellettualismo ingannevole che consiste in una supposta «maggiore acutezza di mente», la quale di nient’altro è capace che di condurre dall’errore altrui soltanto nel proprio10 (a credere cioè esistente una cosa soltanto perché logicamente possibile) – come se precisamente la matematica non fosse per l’appunto quella scienza dell’immaginazione che, con tutte le sue possibilità, esclude anche, e a priori, proprio l’effettiva esistenza delle grandezze che tratta! E poiché egli ne ha già fatta (e persisterà poi nel farne) una disciplina di tipo sintetico, la quale aggiungerebbe qualcosa di reale alle nostre conoscenze, l’equivoco rimane doppiamente inspiegabile. Se egli qui, con la sua ‘matematica’ intellettualistica (che è poi quella in uso presso i suoi bersagli polemici), andasse ancora in cerca di una metafisica puramente analitica, oppure se volesse già trovare a questa metafisica delle solide basi logiche e cosmologiche, mi sembra impossibile dire; ma la spiegazione più probabile mi sembra offerta dal puro e semplice gusto d’instaurare in modo maldestro una similitudine fra cattiva metafisica e cattiva matematica. Con l’escludere a priori l’esistenza la matematica, tuttavia, non esclude l’esistenza a priori – anzi l’afferma: essa è in certo qual modo l’esistenza a priori stessa in quanto disciplina conoscitiva analitica per eccellenza; e non esito perciò ad affermare che se soltanto Kant avesse avuta qualche più felice intuizione, avrebbe trovato ogni sorta di sintesi a priori già data anche nella matematica, oltre che nella letteratura dei suoi Cesare e dei suoi Giobbe. E un accenno abbastanza preciso alla possibilità di procedere da sintesi a priori già date come nozioni comuni si trova, effettivamente, sin dalle prime pagine di questo scritto. Già la Prima Meditazione della Parte Prima afferma la legittimità di procedere senza curarsi di definizioni, qualora i semplici concetti chiari e comuni non diano luogo a malintesi: così, per esempio, le comuni nozioni di spazio, e di rappresentazione, nonché di esistenza, di esterno, e simili. È nozione preconcettuale d’uso legittimo, in generale, tutto ciò di cui si possa «dir molto con la più grande certezza»: questo semplice fatto rende superflua ogni preliminare definizione formale. E non mancano qui, in stretta connessione, gli accenni all’antropologia della conoscenza, ossia a quella sintesi a priori che è la realistica natura complessa in cui l’intelletto affonda le sue radici: Il desiderio [Begierde], sia esso checché si voglia, si fonda su una rappresentazione, presuppone un piacere [Lust] della cosa desiderata, ecc. Spesso da ciò che di una cosa sappiamo con certezza già prima di ogni definizione [was man vor aller Definition von der   Ivi, p. 110.

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Sache gewiß weiß], si può dedurre con tutta sicurezza quanto riguarda lo scopo [Absicht] della nostra ricerca; e ci si avventura [man wagt sich] in tal caso entro inutili difficoltà, se ci s’inerpica [versteigt] fino a [cercare] quella [sicurezza]11.

Sono parole, queste, che, come quelle già udite nella Nova dilucidatio12, non si possono leggere senza uno speranzoso entusiasmo: perché noi apprendiamo non solo che la metafisica si pone anche dei problemi inutili; non solo, che la sua ricerca astratta non è affatto pura, dal momento che è motivata da una passione e mira a uno scopo; ma poi, che è fatta da uomini in carne e ossa. La terminologia (Begierde, Lust) non lascia dubbi in proposito; e non manca neppure la menzione di una «Beschaffenheit der obersten Ursache»: vale a dire di una «natura» o «costituzione» della causa prima in senso prettamente creaturale13. Parole come queste venivano scritte solo cinque anni prima che un giovane talento, neppure ventenne, cominciasse a scrivere le sue prime commedie, L’umore dell’amante, I complici, Götz von Berlichingen, dando inizio alla letteratura nazionale tedesca con la sicura intuizione e la risoluta affermazione dell’integrità antropologica del personaggio. Fu breve passo, ahimé, per entrambi: perché l’immaginario soggetto protagonista della poetica goethiana divenne ben presto sempre meno ‘soggetto’ a se stesso, trasformandosi piuttosto in demiurgo, e somigliando sempre più all’universale e posticcio ‘Io penso’ della critica kantiana. Poetica e metafisica si tennero così per mano nell’imprimere i sigilli letterari agli statuti istintivi, agli automatismi, per così dire, di una mentalità nazionale. E rispetto a Goethe il passo di Kant fu anche assai più breve. Perché a distanza di una sola pagina noi troviamo già qui, appena velatissimamente accennato, e non sviluppato, l’indizio dal quale dovrà scaturire la sua futura magìa (e nei drammi giovanili di Goethe un’attenta lettura, analogamente, può permettere d’intravvedere la filigrana poetica della viziata fisionomia antropologica successiva). Dice dunque Kant sul principio de L’unico argomento che non è lecito dedurre l’esistenza di Dio, o «l’esistenza assolutamente necessaria», da un concetto semplicemente possibile; ma che ciò si può fare «sicuramente e senza inquietanti errori» per le cose del parlare comune – badando tuttavia che in questo caso l’esistenza «non è tanto [nicht sowohl] predicato della cosa, quanto piuttosto [als vielmehr] del pensiero che se ne ha»14. Sebbene il linguaggio tra  Ibidem.   Nell’Analisi Tematica, dopo la nota 34. 13   Carabellese, p. 208. Il problema del significato del termine Beschaffenheit è stato discusso in una pagina dell’Analisi Tematica (dopo la nota 140). 14   Ivi, pp. 111-112. 11 12

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198   parte prima. avanti «la critica»

disca una certa esitazione, e introduca anzi una dose di relatività e di misura, il significato della proposizione mi sembra del tutto chiaro: dedurre l’esistenza di una cosa che non sia Dio dalla possibilità, o non contraddittorietà, del suo concetto significa semplicemente dedurre, sì, l’esistenza, ma come realtà del solo pensiero. Il quale è dunque la sola cosa certamente esistente. Al capo opposto dello scritto, e anzi proprio nelle sue ultime parole, noi troviamo seminata un’affermazione simile, ma assai più sicura, e foriera di potenti sviluppi – così che, insomma, si può dire che tutta quanta quest’opera stia appesa come un festone a questi due capi estremi: «La differenza dell’esistenza di Dio dall’esistenza propria delle altre cose sta unicamente in questo, che la negazione della divina esistenza è completamente il nulla. Ora la possibilità intrinseca, gli esseri delle cose sono ciò, la cui soppressione distrugge ogni pensabile. In ciò dunque consisterà la nota propria dell’esistenza dell’essere di tutti gli esseri»15. L’intrinseca possibilità di una cosa, il pensiero di questa cosa, è il suo essere; e quell’essere di tutti gli esseri, che Kant si ostina a credere Dio, è in realtà semplicemente il pensiero senz’altro – il Pensiero che si prepara a farsi Dio. Ora, la divinizzazione del pensiero è svolgimento inevitabile di tutta la metafisica moderna, così almeno com’essa è contenuta nei suoi primi fondamenti cartesiani16. Si tratta di notare le sfumature. Qui il pensiero s’è già fatto Dio. Perché se è vero che la negazione della divina esistenza dimostrata è il nulla, non c’è dubbio che questo ‘nulla’ è pieno, in realtà, del suo essere negazione largamente argomentata. Soltanto nelle righe precedenti si parla brevemente dell’evidenza dimostrativa dell’esistenza di Dio con «quella necessità che annulla assolutamente ogni opposizione»; ma che potrebbe scaturire «immediatamente anche dalla natura dell’oggetto» – ossia per intuizione sensibile. Il pensiero, dunque, non è tutto, e per farne un Dio serve dell’altro. Occorrerebbe, a questo punto, ricominciare tutto da capo, domandandosi quale sia mai la natura complessa dell’oggetto assolutamente necessario di cui s’indaga l’intrinseca possibilità: che se è natura complessa di Dio, è anche natura complessa del pensiero medesimo, nel quale il concetto nasce per intuizione sensibile. Sono, come si vede, le sue solite sorprese: negare ciò che annulla ogni opposizione non significa precipitare nel nulla, se questa negazione riguarda la   Ivi, p. 211.   Lo riconobbe subito Caterus nelle prime obiezioni alle Meditazioni: «Illa autem mens & cogitatio... istud porro a quo? Si a se est, ergo Deus est» (Oeuvres de Descartes, a cura di Charles Adam & Paul Tannery, Vrin, Paris 1996, vii, p. 94). 15 16

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sola evidenza logica. E se la prova ontologica segna, in definitiva, nient’altro che la divinizzazione della logica, in che cosa consiste tutta la prova cosmologica, se non nella divinizzazione dell’intuizione estetica? Kant preferisce la divinizzazione della logica, sebbene la divinizzazione dell’intuizione gli sembri più bella, perché quella gli sembra più sicura; e comincia così a ordinare sin d’ora la sua costituzione gerarchica delle facoltà, subordinando la sensibilità all’intelletto. *** L’unica possibilità per dimostrare l’esistenza di Dio consiste dunque, in definitiva, nell’attribuire al pensiero i Suoi medesimi caratteri. E dal Pensiero questi caratteri finiscono per comunicarsi alle cose, facendo dell’ontologia, da disciplina teologica speciale ch’era per lo più sempre stata, una scienza generale ordinaria. Che Dio ridiventi così, al solito, il mediatore e il garante d’ogni nostra conoscenza non mi sembra tanto importante, quanto il fatto che tra un capo e l’altro dello scritto si perde il senso comune, ch’era sembrato inizialmente poter bastare a un giudizio su cose comuni. D’ora in avanti alle cose comuni, e a vederle con gli occhi e col senso comune, non si potrà più tornare. L’intellettualismo si fa avanti con lo speciale statuto della conoscenza teologica, il quale fa sì che in ogni singola cosa si debba ravvisare il frammento di una logica spoglia divina. Nient’altro che questo significa: «riconoscere Dio dalle opere». Nient’altro che questo significa affermare che «non è possibile altro argomento in favore dell’esistenza di Dio, fuorché quello in cui l’intrinseca possibilità di tutte le cose viene anche considerata come qualcosa che presuppone un’esistenza»17. La sola possibilità presuppone l’esistenza, sì – ma Kant si affretta a specificare che si tratta di una possibilità «intrinseca». Che cosa significa questo termine insolito? Significa che egli preferisce non usare termini equivalenti, più espliciti e comuni, parlando, per esempio, di una possibilità ‘perfettamente sufficiente’: col che tornerebbe daccapo alla logica del principio d’identità e di contraddizione degli scritti precedenti, e al wolffismo; né vuol parlare, d’altra parte, di una possibilità ‘sostanziale’, per non portare il discorso a scivolare su improvvidi lidi spinoziani. E si tratta (si badi bene) della possibilità non già di ciascuna singola cosa, che fa esistente quella singola cosa, bensì della possibilità «intrinseca» di «tutte» le cose: per cui non c’è argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio che non   Carabellese, p. 208.

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debba presupporre la contemplazione del mondo intero; ed è perciò proprio l’argomento ontologico (che Kant considera, invece, il più rigoroso) a zoppicare, richiedendo in verità un inseparabile presupposto cosmologico18. Non si può scegliere liberamente fra i due argomenti, qui, secondo la personale preferenza, com’egli mostra disinvoltamente di voler credere: e la meditazione logica, ontologica, deve procedere da una preliminare contemplazione estetica, cosmologica. Spiega Kant: «Quando io dico: Dio è onnipotente, viene pensata soltanto questa relazione logica fra Dio e l’onnipotenza, giacché quest’ultima è una nota del primo. Nulla più è qui posto»19. Ma viene voglia di soggiungere subito, come già Leibniz a Locke: nulla più è qui posto – nisi il pensiero che pone. Ed è naturale che, per il resto, alla duplice natura divina corrisponda una duplice natura del pensiero – vale a dire, della conoscenza (le due cose sono ancora mal distinte20). Da un capo all’altro dello scritto, Dio è necessità e volontà; da un capo all’altro, il pensiero è possibilità ed esistenza. L’una va con l’altra, e l’Uno con l’altro. E bisogna tenere presente che la necessità non ha assolutamente nulla a che fare col mondo fisico, gravitazionale o meccanico, reso esistente dalla libera volontà divina: perché s’identifica proprio con la semplice possibilità intesa come stretta attinenza o implicazione o conseguenza logica21. Dio è per necessità; ma conferisce l’esistenza non più per questa Sua necessità che governa il creato (la quale che lo renderebbe soggetto 18   Kant è così poco convinto della solidità dell’argomento ontologico, da abbandonarlo proprio con le ultime parole dello scritto: le quali suonano semplicemente a beffa del lettore che l’abbia seguito con attenzione: «È in tutto e per tutto necessario che ci si persuada dell’esistenza di Dio, ma non è proprio così necessario che la si dimostri» (ivi, p. 211). L’uso della parola «intrinseco» ritorna più avanti (ivi, p. 205), come si dirà alla nota 32. 19   Ivi, p. 113. 20   O sono distinte per accenni passeggeri, anche se in verità non tanto rari, e in compenso assai sfuocati per il consueto irritante espediente d’introdurre vaghe approssimazioni. Per esempio: «Quando si pensa che tutta [!] la nostra conoscenza alla fin fine termina in concetti non analizzabili, si comprende anche come se ne diano alcuni [?] che sono quasi [?!] non analizzabili» (ibidem). I concetti ultimi (o primi) non analizzabili sono insomma concetti non riducibili ad altro, sono pensieri d’identità, sono il pensiero che pensa se stesso e che dunque nulla conosce. Come comincia allora la conoscenza? Con «alcuni» concetti, che per nostra fortuna sono «quasi» non riducibili. La difficoltà di passare dall’identità del pensiero alla vera e propria conoscenza di qualcosa aveva già seriamente impegnato menti di prim’ordine, come quella di Cartesio, nonché la più prossima mente dello Spinoza, con la sua teoria dei modi infiniti della sostanza: alla quale tutto si può negare, tranne la serietà del tentativo. La gradazione insensibile degli esseri su di una scala universale e la riducibilità infinitesimale delle sostanze concepite da Leibniz, invece, non rappresentano soltanto un semplice tentativo; ma Kant non mostra comunque d’averne mai avuta la benché minima nozione. 21   Vedi, per esempio, l’uso dei termini ‘possibilità’ e ‘necessità’ come sinonimi: «si è condotti ad un primo principio non soltanto dalla esistenza, ma anche da ogni possibilità: dalla unità necessaria, che si percepisce nella natura, dall’ordine essenziale delle cose», ecc. (ivi, p. 160). Vedi ancora la loro equivalenza: «Ciò che, nelle possibilità delle cose, si offre alla perfezione e bellezza in piani eccellenti, è stato considerato come un oggetto per sé necessario della divina sapienza» (ivi, p. 199).

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alla Sua medesima creazione), bensì per una possibilità che vuol essere libera volontà. L’evidente pericolo di prossimità di un qualche spinozismo viene giustamente esorcizzata (sebbene con scarse ed enigmatiche parole, che sembrano riferire un pensiero d’imprestito) con l’anatema dell’instabilità terminologica. Poiché, secondo Kant, nulla più è posto con un’affermazione dell’esistenza di Dio (se non, aggiungo io, l’affermazione stessa), e poiché nessuna esistenza è effettivamente contenuta in quest’affermazione (se non, aggiungo io, l’esistenza dell’affermazione), «questo essere», dice, «è usato esattissimamente proprio [selbst] nelle relazioni che le non-cose [Undinge] hanno tra loro. Per esempio il Dio di Spinoza è assoggettato a continui cambiamenti»22. E così, senz’altro, con l’aria di volerci dare una spiegazione servendosi di un esempio, Kant ci pianta in asso con un giudizio cifrato; il quale ha tuttavia il pregio, almeno, di riconoscere il carattere fondamentalmente terminologico, linguistico, della soluzione spinoziana del dualismo sostanziale – se almeno è lecito arguire, come sembra, che quelle ‘non-cose’ che sono le parole su Dio e sulle cose trovano il loro essere nelle relazioni di un discorso, il quale è sempre assai variabile, per quanto rigoroso. La possibilità, sembra, governa il mondo: la libertà di un Dio che da Pensiero si fa linguaggio. Ma egli ci pianta in asso soltanto per poco: perché gli espedienti delle soluzioni linguistiche e terminologiche non sono sconosciuti a Kant medesimo; e noi apprendiamo dunque subito che pensando a una «serie delle cose»23 Dio non la crea affatto, la pensa semplicemente come un intero mondo dotato di tutte le sue possibili determinazioni. Quando la pone, fa ciò «assolutamente o senz’altro [absolute oder schlechthin]»24. Ora, oltre a significare ‘senz’altro’, schlechthin significa anche: ‘per antonomasia’; e senza che Kant lo sospetti Dio sta dunque in relazione con la serie delle cose, col mondo, attraverso un’intuizione disciplinata da una figura retorica, nella quale la cosa e la parola vengono a confondersi. Kant usa il termine schlechthin per significare la pura sufficienza logica, senza minimamente sospettarne il significato sostanziale, che farebbe fallire tutto il suo discorso portandolo alle conseguenze che teme: Dio e il mondo esistono nient’altro che come parola, come discorso e come regola d’artificio. Non diversamente che per ogni altra cosa, l’unico argomento per dimostrare la Sua esistenza non è che l’argomento della Sua esistenza! E che Kant faccia qui del  Ivi, p. 113.   L’espressione Reihe der Dinge accentua proprio l’aspetto della creazione della serie, e non delle singole cose, come invece traduce il Carabellese («serie di cose»). Kant specifica anzi che ogni singola cosa è posta «soltanto relativamente a questo tutto» (il tutto della serie, e dell’intero mondo possibile). Il mondo è insomma pensato soltanto come un tutto. 24   Ibidem. 22 23

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202   parte prima. avanti «la critica»

l’antonomasia l’equivalente (oder) di una qualche buia, non si sa quale, ‘assolutezza’, non è che un primo importante annuncio di un suo abituale ricorso all’artificio terminologico, col quale egli vorrebbe, e ancora vorrà25, sfuggire al significato obbligante, tecnico, conclusivo dell’artificio retorico che mostra la cosa esistente con la sua parola. Si mostra qui già un esempio del pessimo vizio di un abuso gergale, destinato a conoscere mirabolanti successi con gli ‘assoluti’ dell’idealismo romantico. Per il resto, il suo non è che un destreggiarsi col dualismo. E l’abilità non consiste soltanto nella (di solito prevalente) moltiplicazione dei termini, bensì anche nella loro riduzione. Affermare che l’effettiva esistenza di una cosa è «posta» dalla volontà divina dopo che essa è stata interamente «posta» come possibile nel pensiero, per esempio, nient’altro significa, evidentemente, se non che essa è stata in realtà ‘presupposta’ nel pensiero. Dove dovrebbero esserci due termini se ne trova invece uno solo. Una simile reticenza terminologica si manifesterà anche nella Critica, allorché, procedendo alla deduzione dei concetti puri dal giudizio, per esempio, Kant fingerà di non dover ammettere che essi traggono così origine, in realtà, da un pregiudizio. Se il verbo ‘porre’ qui, contrariamente al suo solito, non si moltiplica in suoi simili dotati di prefisso (presupporre, supporre, anteporre, disporre), ciò dipende dal fatto che Kant vuole evitare di dirci che cosa mai ci stia a fare un bel mondo nell’immaginazione di Dio; e come Dio decida di metter fine ai suoi trastulli immaginosi con un atto di volontà creatrice che, col bisogno stesso d’affermazione di potenza, è una confessione di privazione: un mondo effettivamente esistente, in effetti, gli manca. Assai meglio aveva risolto il quesito chi prima di lui, sulla scorta della tradizione aristotelica, aveva fatto di Dio un infinito perpetuamente in atto, e un nulla la potenza. A un solido dualismo di coordinazione o di parallelismo delle sostanze estesa e inestesa, o degli attributi e dei modi delle sostanze (come si vuole), basato sull’intuizione spaziale, sulla contemplazione, sull’integrità delle creature come esseri complessi nonché contemporaneamente dotati di entrambe le sostanze; a un dualismo di quest’impianto, dunque, tende qui a sottentrare un dualismo di subordinazione e di successione (che dualismo, veramente, non è più), il quale dovrà per forza finire per propugnare nella Critica un’intuizione temporale, cosiddetta ‘interna’, e privilegiare una forma di conoscenza discorsiva, per meditazione. Con la perdita del dualismo, della coordinazione, del senso dello spazio e della contemplazione sarà così possibile, in futuro, spogliare un essere dei suoi   Se ne riparlerà nella Critica del Testo, alla nota 21.

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Ii. Analisi cronologica   203

modi o delle sue forme sensibili, corporee, mettendone intellettualisticamente a nudo l’astratto significato puramente discorsivo, capito soltanto in monologhi: la narrazione dilagante dell’essere, senza limiti che non siano editoriali, e di saturazione, estenuazione del lettore. Iniziano grandi trasformazioni del gusto, inizia una letteratura molto parlata, la cui dote non sono l’efficacia, la visibilità e la concisione. Con i suoi interminabili monologhi e dialoghi Faust potrà dire d’avere nientemeno che «due anime» che gli si combattono in petto – non più un corpo, un istinto, una natura. Ecco il conflitto inedito nella storia del pensiero: a null’altro egli si pretende soggetto, che alla sua propria ragionante loquela. La tradizione della maschera, soggetta agli automatismi del corpo, o del burattino, deve esaurirsi con lui, e la moralità diventare il moralismo del cosiddetto ‘stupido Ottocento’26. Quest’anima doppia, mai prima conosciuta (se non a malapena, nella tradizione platonica, per esempio, e intellettualizzata del tutto nei gradi del neoplatonismo), che prende il posto del tradizionale dualismo fra anima e corpo, è dunque il pleroma intellettualistico dal quale si genera la natura puramente dialogica, logorroica, degli esseri, pronta a trasferirsi in corpi librari. Ma perché mai questo pleroma sarà l’astratto, se il pensiero della possibilità è inseparabile dall’effettiva esistenza, in una continua e immancabile attuazione della parola? Perché mai la forma sensibile, che dovrebbe esprimere il pieno assolvimento delle possibilità dell’intelletto divino, è destinata invece proprio essa a cadere, come un tegumento, per lasciare libero sviluppo agli ormai sicuri (perché ‘fondati’) disegni dell’intelletto? Perché il ‘senso del mondo’ della terza Critica dovrà lasciarsi alle spalle, come un guscio vuoto, il generico ‘senso delle cose’ della prima Estetica trascendentale? Bene – se non suona semplicistico, direi: perché negli scambi occorre pure una compensazione. E lo scambio, per Kant, avverrà intorno al 1770, in gran fretta, col De mundi, mentre ne L’unico argomento il primato intuitivo è decisamente assegnato allo spazio, alla relazione cosiddetta ‘esterna’, mentre il tempo e il senso cosiddetto ‘interno’ non vi hanno ancora alcun ruolo. È vero che qualcosa si sta muovendo; e per 26   Come già ho accennato nella Presentazione, uso i termini ‘carattere’, ‘maschera’, ‘burattino’ come paradigma in una tripartizione antropologica, che vede il primo vivere di un’astratto conflitto di moralità, il terzo di puro e semplice automatismo tellurico (agitato dal basso, mentre a marionetta è governata con fili dall’alto), e la seconda come luogo di mediazione, ossia come vero ‘soggetto’. Il carattere è un essere soltanto complicato, il burattino è un essere sostanzialmente semplice, mentre soltanto la maschera può vivere come un essere complesso. Ciascuno rappresenta a suo modo una sintesi a priori per la giudicabilità di esseri d’ordine superiore (specie, nazionalità, corporazioni, ordini, caste, e simili) di natura corrispondente. La riforma goldoniana del teatro, che si compie negli anni della prima maturità di Kant, e della prima giovinezza di Goethe, è una riforma dell’immaginario antropologico foriera d’inestimabili conseguenze sul piano della storia della cultura e della politica.

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capirlo basta notare l’invito di Kant a considerare meglio per il futuro «anche» le proprietà dello spazio come principio unificatore del gran molteplice, così da rendere intelligibili le ragioni dell’accordo del particolare, necessario e geometrico, con l’ottimo tutto27. È già, questo «anche» (che in verità dovrebbe essere superfluo), la premonizione del senso dello spazio come una delle due forme in cui si articola l’intuizione estetica nella Critica. Ma ciò non impedisce qui a Kant, naturalmente, di continuare a servirsi a piacere della teoria della sostanzialità dello spazio, nonché della semplice meccanica come scienza più filosofica. Circa la natura dello spazio, basterà confrontare questi due passi – il primo: «I pianeti si muovono tutt’insieme… come corpi trascinati da una materia che, riempiendo tutto lo spazio, effettui il loro movimento»; e il secondo: «Mentre ora gli spazi sono vuoti, prima devono essere stati pieni, altrimenti non avrebbe potuto mai aver luogo un effetto esteso delle forze motrici orbitali»28. Pensando a uno spazio sostanziale Kant, in questo secondo caso, si riferisce evidentemente alla teoria della condensazione planetaria di polveri cosmiche, le quali in origine dovevano averlo riempito interamente; mentre nel caso precedente, con lo spazio trascinatore, la materia cosmica, a condensazione planetaria avvenuta, rimane del tutto misteriosa. Delle due ipotesi, però, non può valerne che una. La sua prensile ingegnosità argomentativa sembra esercitarsi meglio proprio in quest’abilità di farcire il discorso con spunti ipotetici diversi, e tratti a buon fine per l’occasione. In una delle prime pagine, per esempio, dove non vuole arrischiare una definizione concettuale, lo spazio è già detto d’altra parte, e «con la più grande certezza», sede di relazioni esterne29. Ma non sarà prematuro mettersi subito nelle mani di un Dio fromboliere, e giocoliere gravitazionale, facendo «un passo troppo ampio per poter rimanere nell’ambito della filosofia», rinunciando alle cause meccaniche?30 Kant combatte le vuote sottigliezze dell’intellettualismo teologico e metafisico in nome di un «purissimo» significato comune dell’esistenza31, ma non può nascondere di avere, in realtà, un problema di pànico con se stesso e con la moralità riguardo alla concepibilità di uno spazio vuoto. Tutto ciò dimostra, nell’evidenza sensibile del testo, che il Kant precritico non soffrì affatto di letargìa, bensì semmai d’insonnia; dimostra che assai prima di ricevere «una gran luce» nel 1769, come disse, egli aveva in realtà gli occhi bene aperti – ma anzi spalancati nell’oscurità del suo   Carabellese, p. 172.   Ivi, pp. 188 e 192. 29   Ivi, p. 110. 30   Ivi, pp. 191-192. 31   Ivi, p. 109. 27 28

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pànico; e se ne serviva per destreggiarsi alla meglio con un’abilità prosastica girovaga e farraginosa, senza solide fondamenta tecniche in nessun’arte, che gli restò come una dote di carattere, e che non perdette mai più. I riferimenti visivi e le metafore luminose o tenebrose, il bisogno di luce, insomma, nei suoi scritti precritici superano di gran lunga la (più unica che rara) menzione del sonno. Questa menzione, del resto, è sospetta: perché parlare di ‘sonno’ precritico, infatti, quando la tradizione aveva parlato per lo più di sogni? Dopo l’attribuzione al pensiero dei caratteri divini, l’intuizione spaziale (vale a dire: dello spazio) rappresenta qui dunque un’altra importante premonizione della Critica. Con una premonizione invece meno esplicita egli accenna, in un punto, a condizioni della possibilità della conoscenza; o più esattamente a una «possibilità condizionata», ovvero a «ciò che è possibile solo sotto certe condizioni». Il senso del discorso, qui, non è ancora quello della prima Critica – anzi: la condizione della conoscenza è riferita direttamente alla possibilità in quanto tale, e non all’effettiva esistenza (vuole dire, insomma, che una cosa resta soltanto puramente possibile appunto perché soggetta a condizioni, e non che la sua effettiva esistenza si rende accertabile soltanto entro certi limiti e a determinate condizioni). Il discorso è uno dei più contorti; e inizia dal piccolo capolavoro di una tautologia che, anziché autoconfermarsi, come dovrebbe, riesce nientemeno che a smentirsi; e dopo aver sancito la natura condizionata della possibilità finisce, poi, col sancire l’autosufficienza incondizionata della possibilità medesima in quanto essa sarebbe «intrinseca», grazie all’abbandono dell’unica realtà certa ch’egli sembra conoscere: la relazione fra la causa e l’effetto32; bene – tutto ciò nonostante, insomma, a me sembra che il semplice parlare in qualche modo di ‘condizioni’ della conoscenza costituisca una premonizione critica alquanto significativa. E così come avverrà con lo spazio e con la contemplazione, che in sede critica cederanno senza giustificazione alcuna il primato alla conoscenza interiore segnata dal tempo della meditazione, nella prima Critica non sarà neppure difficile sancire la priorità dell’effettiva esistenza, sensibilmente accertabile, che qui resta invece ancora assegnata alla condizione logica della semplice pos32   Ecco l’intero passo: «In questo caso è anzitutto chiaro come io non dalla possibilità condizionata possa concludere ad una esistenza, quando di ciò che è possibile solo sotto certe condizioni non presupponga già l’esistenza; poiché la possibilità condizionata fa intendere unicamente che qualcosa può esistere soltanto in certe connessioni e della causa è provata l’esistenza solo in quanto esiste la conseguenza, laddove qui la causa non deve essere conclusa dalla esistenza della conseguenza; perciò tale prova, se veramente ha luogo, può essere portata soltanto dalla possibilità intrinseca» (ivi, p. 205). Come già nel caso precedente dello spazio, sembra inevitabile che a grovigli irrespirabili come questi si debba dare un taglio; e che la Critica, insomma, debba germogliare da una sorta di esaurimento logico e di macerazione terminologica, oltre che da una complicità con se stesso che presuppone la complicità di un suo pubblico.

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sibilità. Diciamo, tanto per capirsi, che l’acquisto di un ruolo di precedenza della sensibilità si paga, nella Critica, con la perdita di un primato logico. L’ho già detto: c’è qualcosa di simmetrico e di combinatorio, in tutto ciò, che fa il gioco dell’intellettualismo. Riassumendo per sommi capi in che consista il profilo precritico di questo scritto, direi che a parte l’incipiente frequente ricorso a nozioni generiche come ‘formale’, ‘interno’, ‘esterno’, ‘assoluto’, e simili, che nella prima Critica diventerà consueto, le principali premonizioni degli svolgimenti critici ne L’unico argomento mi sembrano i tre suddetti per quanto concerne la prima Critica: pensiero divinizzato, ruolo dello spazio, condizione della possibilità; mentre una premonizione più generale, del tutto evidente, riguarda invece la terza Critica, e consiste nella celebrazione della percepibile finalità esteticoarchitettonica dell’ordine naturale. Checché Kant ne abbia detto (come se soltanto dopo le prime due Critica ne avesse scoperto il problema), la terza Critica ha un passato in verità più remoto; e nasce per diretta continuità dal suo preteso dormiveglia dogmatico, che fu sonnambulismo, semmai; dal quale invece la prima Critica scaturisce piuttosto per aggiunta, capovolgimento o combinazione di alcuni temi o figure logiche. E sebbene il moralismo non manchi mai, se si considera l’ordine d’anzianità, diciamo così, è la seconda Critica a venire per ultima: come sorgendo da un appello disciplinare di salvezza coi barbari alle porte, ch’egli stesso ha oramai scardinate. La seconda Critica arriva dunque per ultima, ma non del tutto a sorpresa, però: perché un’incipiente trattazione particolare dei princìpi della morale si trova già nelle pagine conclusive dell’Indagine sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale, del 1764, che subito mi accingo a esaminare. la «teologia naturale» Quasi d’un tratto è con un uomo diverso che abbiamo a che fare, in questo scritto: e talvolta non sembra nemmeno lui, quando pare ormai ben deciso a governare la navicella del suo ingegno. I tentennamenti e le giravolte de L’unico argomento si fanno più rari – anche se ci sono, e assai importanti; gli spropositi più grossi scompaiono. Nell’esempio (che esempio, poi, non è) annesso a mo’ d’appendice alla Seconda Meditazione noi lo sentiamo persino dire di volersi lasciare qualche inutile quesito alle spalle, come le definizioni preliminari: «Se ora mi domando: che cosa significa occupare uno spazio? mi accorgo, senza darmi pensiero dell’essenza [Wesen] dello spazio» – eccetera; e

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alla pagina successiva: «Se ora domando: cosa s’intende per toccarsi? mi rendo conto che, senza por mente alla definizione» – eccetera; e ancora, stavolta su assai più grave oggetto, e con un tono deciso e una conclusione banale: «Allorquando i filosofi seguiranno finalmente la via naturale del buon senso, ricercando in primo luogo quel che sanno di certo circa il concetto astratto di un oggetto (per es. lo spazio o il tempo), senza sollevare altre pretese di spiegazioni; allorquando fonderanno le loro deduzioni soltanto sopra questi dati sicuri;... [allora] può darsi bensì che essi non riescano più a fornire tante conoscenze a buon mercato, ma quelle che presenteranno avranno almeno un valore sicuro»33. Lasciamo perdere le conoscenze sicure fondate su dati sicuri – è il suo stile. A che cosa Kant è pronto a rinunciare senz’altro, in definitiva, in questioni filosofiche? Alla definizione preliminare dei loro elementi logici, che è tipica del procedimento matematico, mentre in metafisica (e da ultimo anche nella morale, cui è dedicata la Quarta Meditazione) si è costretti a procedere da intuizioni di entità già date, e non riducibili a postulati logici elementari, comuni, convenzionali, come ad altrettanti fattori primi. Ma qui bisogna subito chiarire una possibile fonte d’equivoco, che potrebbe nuocere alla nostra esposizione e discussione di questo scritto altrettanto quanto giova, in definitiva, alla stessa trattazione di Kant. Fin dalla Prima Meditazione egli pone alla base della matematica non già definizioni di singoli elementi, mediante i quali costruire per sintesi proposizioni composte, bensì alcune proposizioni indimostrabili come: «l’intero è uguale alla somma delle parti; tra due punti vi può essere soltanto una linea retta, ecc.»34. Ora, è bene capire subito che, anche a prescindere dal loro valore, queste proposizioni indimostrabili non sono, in realtà, che giudizi logici generali per così dire ‘naturali’, e nient’affatto definizioni matematiche (tant’è vero ch’egli stesso le chiama «princìpi»), dai quali la matematica trarrà poi tutto il resto mediante le sue rigorose dimostrazioni. A dispetto d’ogni distinzione fra matematica e filosofia, dunque, una medesima facoltà intuitiva generale presiede agli svolgimenti di entrambe; le quali procedono, per il resto, da entità rispettivamente diverse e diversamente percepite o concepite. Tutto l’andamento della trattazione, con le sue distinzioni, dovrebbe tener conto di questi comuni giudizi generali in cui esse finiscono per riassumersi – un po’ come nella lettura della prima Critica il lettore dovrebbe sempre tener presente la fantomatica esistenza del Gemüth, o animo, come unica e integra radice an  Carabellese, pp. 236, 237, 239.   Ivi, p. 228.

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tropologica della conoscenza. Ma anche là, come qui, Kant conduce le cose come se, così facendo, dovesse rinunciare a ogni divertimento, a ogni scoperta e sorpresa. E così è, effettivamente, anche per la fortuna di chi è ben deciso a leggerlo con attenzione, riuscendo raramente ad annoiarsi35. Le entità semplici che noi percepiamo immediatamente di una cosa in metafisica, dunque, non sono tutta la cosa stessa, che ne contiene un numero pressoché illimitato e praticamente inaccessibile; bensì rappresentano soltanto alcuni suoi connotati (Merkmale) caratteristici, grazie ai quali noi possiamo riconoscere la cosa, e giudicare che essa è ciò che è, così com’è. Simile conoscenza è di tipo analitico, spiega Kant, perché i soli suoi pochi connotati immediatamente riconoscibili non sono che una traccia delle innumerevoli caratteristiche o determinazioni che si trovano in essa implicite; e non è, né dev’essere considerata, una conoscenza di tipo sintetico, perché non è lecito utilizzare quei pochi connotati caratteristici intuitivi, che ce la rendono immediatamente riconoscibile e giudicabile, come altrettante definizioni, all’uso matematico: esse ci permetterebbero di operare collegamenti e confronti, sostituzioni, addizioni e sottrazioni, e soprattutto costruzioni di nuovi oggetti, se non anzi la vera e propria ricostruzione del nostro medesimo oggetto in base all’esiguo numero di quei sicuri princìpi. La matematica garantisce che 35   Col sottolineare il ruolo dell’intuizione per la prima conoscenza di nozioni filosofiche non mi trovo perciò d’accordo con affermazioni contenute nell’utile trattazione di Louis Couturat (La philosophie des mathématiques de Kant, in ‘Revue de métaphysique et de morale’, maggio 1904, già citata nell’Analisi Tematica). Questa trattazione presenta, in generale, un andamento e un valore molto diseguali, tendendo a giudicare la logica di Kant soprattutto alla luce degli sviluppi della logica successiva a Kant, e contemporanea al Couturat: i quali hanno dato ragione a Leibniz. Ma il punto, per noi, non è questo. Il Couturat ha il pregio e il difetto di contrapporre fra loro passi delle opere di Kant molto, e anche troppo distanti, mostrandone l’inconsistenza logica generale. Da buon logico, egli perde così il senso del brancolamento verso la Critica (nella quale peraltro, com’egli mostra, Kant non cessa poi di brancolare). Ma sbaglia del tutto quando, per esempio, non trova all’origine dei giudizi kantiani, tanto analitici che sintetici, nient’altro che definizioni (p. 330); o quando non riconosce alcun ruolo logico all’intuizione nella Teologia naturale (p. 332). Sarà vero che soltanto con la Differenza degli oggetti nello spazio del ’68 Kant scopre la natura intuitiva dei giudizi matematici – ma ciò non significa che non avesse già ammessa da un pezzo la natura intuitiva dei giudizi filosofici. Né si vede come sia possibile supporre che Kant parli di una spiegazione di un qualcosa senza averne ammessa una precedente intuizione. Simile posizione del Couturat ha un unico merito: quello di svelare non già l’origine non intuitiva della spiegazione nella Teologia naturale, bensì la natura non sensibile (e dunque intellettualistica) dell’intuizione stessa. Ma insomma: distinguendo i concetti (o definizioni) matematici e metafisici dai giudizi (o proposizioni) sintetici e analitici, il Couturat formula facilmente con una sintesi logica, sin quasi dall’apertura del suo studio, il chiasmo o scambio che io vado qui cercando per via logico-filologica (nonché, vagamente, psicologica) – vale a dire: «i concetti sintetici sembrano dover dare luogo a dei giudizi analitici, e i concetti analitici a dei giudizi sintetici» (p. 333). Ma basterebbe (rispettando il testo della Teologia naturale) sostituire in questa sua formula «concetti sintetici» con «definizioni», e «concetti analitici» con «spiegazioni» (o intuizioni), per conferirle un’effettiva solidità: nel senso, cioè, di rivelare il gioco di distinzioni, di scambi, di simmetrie e d’avviluppamenti che Kant impara lentamente a praticare su basi logiche assai povere, e via via terminologicamente arricchite.

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nella cosa è contenuto niente più di ciò ch’è contenuto nella sua definizione, mentre la metafisica, viceversa, non può dare affatto la medesima garanzia – anzi: i segni visibili e immediatamente evidenti della cosa sono piuttosto garanzia dell’esistenza in essa di ben altro; e per la sua estensione e molteplicità questo qualcos’altro è destinato a rimanere di fatto insondabile. Una pretesa di certezza (e, aggiungo io, di libertà dell’immaginazione) si trasformerebbe in tal caso in generazione di chimere, di assurdità e di mostri: i quali non scaturirebbero, dunque, dal sonno, bensì semmai proprio dal sogno della ragione; e anche se Kant non parla d’intellettualismo, è tuttavia ben chiaro che proprio questo è il suo bersaglio. Anche se egli non è disposto a sviluppare imprudentemente oltre il minimo indispensabile una distinzione tra le discipline che riprendeva dall’uso comune, la sostanza del discorso resta tuttavia questa: i connotati intuitivi del giudizio metafisico non possono e non devono ammettere quei collegamenti e quelle composizioni, ossia quell’uso sintetico e reversibile, del quale la matematica si serve per innalzare i suoi edifici mediante definizioni preliminari. E qui c’è già, mi pare, un vizio terminologico evidente: perché l’edificio matematico è in tal caso tutto quanto implicito nella definizione preliminare dei suoi elementi, che non sono perciò meno intuitivi; oppure, viceversa, questi sono impliciti in esso. In ogni caso, trattandosi d’implicazione, è di conoscenza analitica che si tratta. E a più forte ragione il ragionamento vale per la geometria, ossia per l’unica matematica che, a parte un po’ d’aritmetica, Kant sembra conoscere: vale a dire che la definizione di angolo, di segmento, di punto, o d’equidistanza è possibile soltanto con la preliminare intuizione del cerchio e del triangolo. L’intuizione dell’intera figura non è affatto subordinata all’intuizione dei suoi elementi primi impliciti, né tantomeno alla loro definizione preliminare. Proprio ciò ch’è dato come tale, e non ammette composizioni costruttive alle quali resterebbe subordinato come loro semplice elemento predefinito, o ciò che può essere semplicemente accostato ad altra simile natura figurativa, insomma, può ben essere conosciuto, semmai, mediante una conoscenza di tipo sintetico, qual è, in definitiva, la conoscenza intuitiva. Ma una cosa è parlare della conoscibilità o riconoscibilità e giudicabilità dell’oggetto considerato come un’intera figura, altra cosa è parlare della conoscibilità dei suoi connotati caratteristici o delle sue innumerevoli proprietà implicite. La sintesi intuitiva che pone tutto l’oggetto non ne pone tutte le proprietà, che vanno per quanto possibile analizzate a partire dai connotati primi; e l’analisi dei connotati caratteristici definiti indipendentemente dall’intuizione dell’intero oggetto può assicurare sì costruzioni di figure, ma non necessariamente la

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ricostruzione di quell’oggetto. Kant, questo, lo riconosce, e anzi lo afferma – ma ciò che non capisce è che questo vale anche per la geometria, oltre che per la metafisica e per la morale. Soltanto nella Critica farà un importante passo in direzione dell’intuizione dell’intero anche geometrico36 – ma a quel punto le forme generali dell’intuizione sensibile saranno già state preliminarmente sancite nell’Estetica come esercizio di una facoltà ben distinta dall’intelletto e, per l’appunto, malamente distinte soltanto per definizione. Poiché in tutta questa sua trattazione Kant confonde o scambia costantemente l’analisi e la sintesi e la definizione e la spiegazione e l’intuizione, occupiamoci dunque ordinatamente dapprima della sua argomentazione, o del come insomma vengono sancite le distinzioni d’analisi e sintesi, e poi di definizione e spiegazione; dei possibili modi, inoltre, di concepire la scomponibilità e insieme la contiguità o continuità di un oggetto nello spazio; e nell’ultima parte di questa nostra discussione ci occuperemo della distinzione tra matematica e filosofia, semplicemente in quanto essa è stata sancita. Si tratta, come si vedrà, di esercitare rispettivamente la logica, la filologia, la sensibilità, l’esemplificazione. *** Se il sunto del quesito posto da Kant è proprio quello che ho dato poco più sopra (se dunque Kant è pronto a rinunciare, in metafisica, alla definizione preliminare degli elementi logici), bisogna dire che esso non sembra affatto male impostato – a prescindere dalle innumerevoli formulazioni e riformulazioni, secondo il solito, dell’intero problema, o anche di qualcuno dei suoi singoli elementi (come, per esempio, la natura del giudizio), che non giovano affatto alla continenza logica. Allo scopo di distinguere il giudizio di un uomo sulla diversità di due metalli simili (come l’oro e l’ottone, per esempio, secondo il criterio della densità) dalla scelta di un animale circa la commestibilità di due cibi (la quale azione sarebbe, secondo lui, priva di giudizio!), nella Seconda Meditazione Kant si arrischia in uno dei suoi soliti debolissimi esempi37; il quale sancisce intellettualisticamente proprio l’opposto di ciò ch’egli vorrebbe affermare, ossia la natura istintiva del giudizio: dal momento che il paragone 36   Nel passo che ho già citato nell’Analisi Tematica, e che per comodità riproduco nuovamente: «assumete la proposizione che da tre linee rette è possibile costruire una figura [il triangolo], e tentate [di costruire un triangolo] partendo semplicemente da questi concetti. Tutto il vostro sforzo è vano e voi vi vedrete costretti a rifugiarvi nell’intuizione [del triangolo], come del resto ha sempre fatto la geometria» (B 65). 37   Carabellese, p. 234.

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tra i due casi non si riduce a un sofisma, soltanto a condizione che l’oggetto del giudizio sia il medesimo per entrambi, e che interessi le medesime facoltà (cibi diversi anche per l’uomo; oppure, quanto alla densità o consistenza, il bastone e la frusta per l’animale); e a condizione, altresì, che attribuendo all’uomo un criterio di giudizio come ‘la densità’, si attribuisca un analogo criterio anche all’animale – ciò che invece Kant omette d’indicare, per potergli negare il giudizio. Forse che questi analoghi criteri potrebbero denominarsi, rispettivamente, ‘la gustosità’ per l’uomo e ‘la pavidità’ per l’animale? Chi volesse sbizzarrirsi ad applicare il suo metodo potrebbe qui scoprire, anche dopo il discredito della vecchia ‘virtù dormitiva’ degli scolastici, tutta una serie di cause sostanziali dell’azione e del giudizio. La storia della sua mirabolante scoperta delle sintesi a priori è piuttosto lunga, come si sa, ma altresì, come si vede, alquanto bizzarra – anche se ‘la densità’ non entrerà, però, nella sua tavola delle categorie critiche. E a voler essere maligni bisognerebbe anzi sfidare chiunque a ricostruire un criterio di giudizio come ‘la densità’, per esempio, a partire dai concetti puri della Critica. A voler essere pignoli, invece, dovremmo poi domandarci anche questo: com’è possibile che si possa definire analitica, ossia procedente per implicazioni (com’è la causa, per esempio, che è già contenuta nell’effetto), la conoscenza di qualcosa come la molteplicità insondabile di «tutte» le caratteristiche o proprietà di un oggetto metafisico – il quale oggetto, tuttavia, è già stato riconosciuto e giudicato ciò che è in virtù dell’elencazione di ‘alcune’ soltanto tra le più evidenti di queste sue proprietà o caratteristiche? Forse che l’intero è contenuto in alcune delle sue parti? Esso non è implicito in esse, né esse in lui. La relazione che lega dunque l’oggetto insondabile ai semplici connotati della sua riconoscibilità non è affatto analitica – anzi (sembra proprio) all’opposto sintetica, ossia possibile soltanto per addizione e congettura. Al di là della prima nomenclatura dei connotati ci sarà, sì, qualcosa di finalmente insondabile – ma ciò costituisce un limite meramente pratico della nomenclatura stessa, non una diversa posizione della cosa rispetto ai suoi connotati: essa non vi è mai implicita; e basterebbe proseguire all’infinito l’elencazione delle sue proprietà o caratteristiche per avere la cosa stessa. Eppure Kant ragiona sempre in termini d’implicazione, perché ragiona sempre, in realtà, in termini di causa e d’effetto. Suscitando non poco e, in verità, non sempre sgradito stupore nei suoi tenaci lettori egli confessa candidamente sembrargli «il vero metodo metafisico in fondo uguale a quello introdotto da Newton nelle scienze naturali» – ossia basato sulla causalità meccanica. Gli sembra altresì che con esperienze sicure

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(«interne», dice), e non senza l’ausilio delle esperienze geometriche (‘esterne’, dunque, sarà lecito supporre), si debbano ricercare intuitivamente i connotati sicuramente presenti «nel concetto» di una cosa – così che, prendendo il concetto della cosa (sorto non si sa come: prima, o dopo, o insieme col giudizio) il posto della cosa stessa, si risolve alla meglio il problema dell’implicazione analitica fra la cosa e i suoi connotati. Il concetto non ne è che una parte essenziale, in definitiva, proprio come i suoi connotati; e noi restiamo perciò col sospetto che il concetto di una cosa non sia per Kant che l’insieme racimolato di questi suoi connotati. Egli conclude finalmente affermando che pur non conoscendo in tal modo «l’essere intero dell’oggetto, pure ci si potrà servire con sicurezza di quei connotati per derivare [herleiten: ‘ricavare’, e soprattutto ‘dedurre’] molto [di ciò ch’è contenuto] nella cosa»38. L’alquanto buona impostazione di un problema viene così, in questo passo come in numerosi altri, a sfaldarsi sotto i nostri occhi. I confini sicuri della distinzione fra procedimento analitico e sintetico, insieme con le rispettive discipline, si confondono in un procedimento imitativo fra metafisica e geometria; il quale procedimento si suppone (senza che Kant si preoccupi mai di domandarselo) poter avere validità reciproca: non dovrà forse la geometria nelle sue forme più evolute imitare a sua volta la metafisica, mediante lo svolgimento di uno studio analitico? Kant non era in condizione di rispondere a questa domanda, che doveva sembrargli (diremmo noi) puramente accademica – ossia (per uno come lui) un quesito professionale; e perciò non se la pose, intento com’era nella ricerca di condizioni teoriche sicure anche per la moralità (in tutta la sua vita il ‘dove s’andrebbe a finire, se’ non gli uscì mai, nemmeno per un momento, dalla testa). Egli mirava allo scopo ancora lontano (ma raggiungibile, in verità, con la terza Critica) di riuscire a procedere per sintesi costruttive e sicure, come quelle della matematica, anche in metafisica: «soltanto dopo che [in metafisica] l’analisi ci avrà dato concetti chiaramente e compiutamente [und ausfürlich] intesi potrà intervenire la sintesi, per subordinare, come in matematica, i concetti composti a quelli più semplici»39. Und ausführlich: una bella pretesa! La meta del raggiungimento dell’«essere intero» (nientemeno!) dell’oggetto metafisico non era poi tanto lontana, se simili progressi millenari si misurano nello spazio di pressappoco tre lustri. Tanto poco occorrerà, dunque, per esaurire «compiutamente», ausführlich, l’inesauribile ricchezza di determinazioni dell’oggetto, per accingersi poi a mettere insieme in pochi mesi la Critica? Quest’uomo sembra assillato dall’ansia di   Ivi, p. 235.   Ivi, p. 240.

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Ii. Analisi cronologica   213

vedere raggiunto un traguardo epocale nello spazio della sua propria vita. E frattanto non rinuncia a ricorrere a qualche espediente terminologico: come quando, dopo il programma di lungo termine appena enunciato, riprende il discorso nel suo bel mezzo esatto, alla Terza Meditazione, con un titolo, che fa della certezza filosofica qualcosa di natura überhaupt diversa rispetto alla certezza matematica: vale a dire, di natura ‘tutt’affatto’, ‘radicalmente’, ‘assolutamente’ diversa (secondo gli enunciati fin lì sanciti) – ma al tempo stesso (secondo l’altro significato comune della parola) di natura soltanto ‘in generale’ diversa, secondo le incipienti prospettive mimetiche fra i due metodi e le due discipline, che egli si propone di dischiudere40. Puntando decisamente alla semplificazione, in questa nuova prospettiva mimetica fra metafisica e matematica Kant mette ordine tra analisi e sintesi instaurando un ordine di procedura, e mette ordine tra i concetti semplici e i composti instaurando una gerarchia. La forma logica operativa così della precedenza come della subordinazione (la forma logica più generale, dunque, sulla quale si basa tutta la sua argomentazione) è la deduzione – ossia, in definitiva, ancora e sempre il principio di causalità o quello d’implicazione. Il testo parla chiaro in numerosi luoghi, mi sembra. Ne menzionerò soltanto alcuni. La nostra nozione del tempo è ben chiara, dice Kant, sebbene nessuno abbia mai saputo darne una definizione, come lo stesso Agostino non esitava ad ammettere; e perciò «se si avessero davvero tante definizioni esatte quante ne stanno scritte nei libri sotto questo nome, con quanta mai sicurezza si potrebbero far deduzioni e trarne le conseguenze [schließen und Folgerungen ableiten]!»41. E analogamente nel capoverso seguente, per spiegare la nozione di ‘desiderio’: è vero ch’esso si accompagna con una rappresentazione dell’oggetto agognato, con una previsione del futuro, con un senso di piacere, eccetera; ed è pure vero che un’intera tavola di simili osservazioni potrebbe alla fine darci una definizione di che cosa sia ‘il desiderio’ – ma insomma: «quando tuttavia, anche senza definizione, si può dedurre [folgern] ciò che si va cercando da alcuni connotati immediati e sicuri della cosa, è inutile arrischiarsi in un’avventura così difficile». Si potrebbe domandare: in presenza di connotati «immediati e sicuri», che bisogno c’è mai di una deduzione? E questa dedu40   Quest’ambiguità nell’uso del termine si perde nella traduzione del Carabellese, il quale legge per distrazione überhaupt ist anziché ist überhaupt, e traduce: «La certezza filosofica in genere è di natura diversa rispetto a quella matematica» (ivi, p. 241). Ma, anche leggendo correttamente, è praticamente impossibile tradurre il doppio senso col quale Kant si barcamena: la certezza filosofica «è assolutamente» diversa – oppure: la certezza filosofica «è in generale» diversa. Bisogna per forza scegliere, in mancanza di un’espressione italiana equivalente. 41   Ivi, p. 233.

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zione scaccia poi la «tavola delle osservazioni» – e scaccia dunque il romanzo: a che pro? Siamo appena all’inizio della Seconda Meditazione; e nelle ultime righe di essa, invece, noi apprendiamo che sarebbe bello poter fare, in tempi non troppo lunghi, ciò che qui, da principio, si considera del tutto vano: ossia dedurre rigorosamente da alcunché ciò che siano, per esempio, nozioni come ‘tempo’ e ‘desiderio’. Bisogna farci l’abitudine: è il suo stile. E ancora, alla pagina successiva: la massima certezza possibile in metafisica si può raggiungere rispettando due regole. La prima e principale è questa: «che non si cominci mai dalle spiegazioni [?]», ma «si cominci invece a ricercare con cura quegli elementi del proprio oggetto di cui si è sicuri in modo immediato, ancor prima di averne una definizione [?]. Se ne traggano poi le conseguenze [man ziehe daraus Folgerungen], e si cerchi di acquistare innanzitutto giudizi [?] veri e certissimi dell’oggetto»42. Ora, è ben vero che le sorprese sono l’unica cosa che possa tenerci avvinti a una simile lettura – ma bisognerebbe che non fossero irritanti, come queste. Credevamo d’aver capito che la metafisica, a differenza della matematica, non può procedere da definizioni – e qui ci si raccomanda di non cominciare dalle spiegazioni, che sono invece proprio la sua caratteristica; credevamo di dover mirare, se possibile, a un’esauriente spiegazione della cosa a partire da prime intuizioni, e ci si raccomanda d’avere sicure intuizioni della cosa prima ancora di possederne un’impossibile definizione; credevamo di dover dedurre dalle prime sicure intuizioni della cosa, raccolte in un giudizio indedotto, alcuni puri concetti (come poi, del resto, Kant ripeterà nella Critica col ridondante misterioso sovrappiù ‘trascendentale’ della deduzione), e questi concetti sono qui, viceversa, dei giudizi dedotti. Ma quanto al discorso sull’impianto esclusivamente deduttivo del suo pensiero, mi sembra che con l’enunciato della seconda regola della metafisica esso si renda del tutto evidente. Questa regola raccomanda infatti: «che si contrassegnino in modo speciale i giudizi immediati [non dunque dedotti da prime intuizioni, secondo l’enunciato della prima regola!] dell’oggetto riguardo a ciò che in esso si scopre subito con certezza; e quando poi si è sicuri che [questi giudizi immediati] non siano contenuti l’uno nell’altro, li si premetta come fondamento per tutte le deduzioni [als die Grundlage zu allen Folgerungen], così come si fa per gli assiomi in geometria»43. Fugando i dubbi in cui ci aveva gettati la prima regola, noi veniamo così rassicurati circa l’esistenza di «giudizi» fondamentali indedotti, dai quali si traggono per deduzione, semmai, i concetti – ma non possiamo ancora riposare, dal momento che apprendiamo,   Ivi, p. 234.   Ivi, p. 235.

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proprio in ultimo, il procedimento metafisico, in tal modo condotto, essere del tutto comune in geometria. È ciò che Kant aveva già detto nella Prima Meditazione, del resto, circa quelle proposizioni indimostrabili che sono, in realtà, generici giudizi di una ragione naturale ch’egli, tuttavia, si guarda bene dal menzionare. *** Non si può a ogni modo negare che stabilendo un ordine di precedenza (prima l’analisi, poi la sintesi) e una gerarchia (prima i concetti semplici, poi i composti), e affidandosi per il resto del procedimento alla deduzione, Kant metta un certo ordine nella prospettiva gerarchica ‘unitaria’ (come si dice) verso cui, malgrado ogni incipiente dichiarazione distintiva fra le discipline, desidera muoversi. Dove invece non mette affatto ordine è fra le nozioni di definizione e di spiegazione – come s’è appena visto, per esempio, in una delle ultime citazioni della sezione paragrafica precedente. Nel volere a tutti i costi (anche a dispetto di sue sporadiche dichiarazioni) concepire la matematica come una conoscenza di tipo sintetico e puramente definitorio, elementare, non intuitivo, in Kant la distinzione dei due procedimenti (sintetico per la matematica, analitico per la metafisica e la morale) non soltanto fa assumere alla discussione un’andatura impastoiata e una prospettiva, almeno apparentemente, realistica e modesta (tesa, cioè, a tarpare le immaginose ambizioni dei filosofi), ma resta poi terminologicamente viziata dal fatto che in modo non innocente egli confonde, appena può, la definizione con la spiegazione. Il termine tedesco Erklärung (da klar) non possiede la spiccata evidenza distintiva del termine italiano (da piega); e dunque proprio per questo si presta meglio ad associare come sinonimi due termini che indicano operazioni del tutto opposte, come sono la spiegazione e la definizione. Esso si presta perciò a far da tramite, in una prospettiva gerarchica ‘unitaria’. Con la sua radice di fine, o di termine limite conclusione estremità esclusione, e simili, la parola ‘definizione’ esprime perfettamente il significato di garanzia che Kant le attribuisce col neolatino Definition (secondo insomma la formula caratteristica della matematica: null’altro esiste della cosa, che non sia già contenuto nella definizione). Se ora Kant avesse voluto esprimere in modo anche terminologicamente esatto l’operazione opposta, indicante la ‘spiegazione’ (ossia lo sviluppo dell’implicazione: piega, plica) di tutto quanto è contenuto non già nella definizione della cosa, bensì nella cosa stessa, e soltanto parzialmente noto per evidenza intuitiva (secondo insomma la formula caratteristica della

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metafisica: ben altro esiste della cosa, che non sia già contenuto nella sua spiegazione), egli si sarebbe dovuto servire, per esempio, di un termine come Entfaltung, destinandolo ad assurgere alla dignità di un termine tecnico. Invece no, se ne guarda bene, e preferisce parlare di Erklärung. È vero che in tutti gli scritti giovanili e precritici egli sembra ancora poco disposto a indulgere all’abuso del gergo filosofico tecnico, o ad arricchirlo d’un suo talento nomopoietico (e ciò torna a suo onore, mi pare); ma qui, dove semmai proprio ci voleva, esso non c’è. Ed è pur vero che il ‘chiarimento’ o lo ‘schiarimento’ (come, meglio di ‘spiegazione’, andrebbe tradotto Erklärung) rappresenta in qualche modo un’addentrarsi nelle innumerevoli proprietà della cosa, lumeggiandole dal punto di vista di un osservatore esterno; ma a parte il fatto che così si perde del tutto il significato dell’aprirsi della cosa nei contenuti delle sue pieghe, o insomma si perde quella sua progressiva rivelazione che ne fa per l’osservatore un perpetuo mistero di cosa in sé; ma poi quell’addentrarsi nella cosa è vero, per l’appunto, soltanto in qualche modo. Ed è proprio di questa ambiguità del termine che Kant si serve, in una maniera (perché è proprio di un’incipiente ‘maniera’ linguistica che si tratta) che a un’attenta lettura a me sembra intenzionale, e che rivela già una buona dose di destrezza. Come semplice confusione, simile scelta terminologica assume il significato d’indizio d’una distinzione metodica mal concepita e mal condotta, la quale mina alla base tutto questo suo ragionamento; e come ambiguità, d’altra parte, essa diventa però lo strumento linguistico che gli consente di preparare quella via verso la Critica che, proprio secondo questo scritto, la filosofia non avrebbe mai dovuto imboccare, se non in un lontano futuro44. Uno spoglio testuale, anche sommario, consente di stabilire che ci troviamo qui di fronte a una sua costante logica e terminologica, un vero e proprio manierismo di stile. Andiamo per ordine, e soffermiamoci sul primo caso importante. Dice Kant per esempio: Prima ancora che io mi accinga a spiegare [erklären] cosa sia lo spazio, vedo chiaramente che, poiché tale concetto mi è dato, debbo anzitutto ricercare per suddivisione quei connotati che vengono quivi pensati per primi e immediatamente. Osserverò quindi che in esso molte cose sono l’una esterna all’altra, e che queste molte cose non sono sostanze,

44   Quanto all’uso dei termini, va detto che nella Critica egli descriverà l’operazione di scomposizione dei giudizi analitici in concetti semplici con l’immagine organica dello «smembramento», o Zergliederung (per es. B 11). Andando dietro al Gentile, e traducendo con «analisi», Colli e Chiodi perdono completamente il significato sensibile, fisico, del termine. Esposito e la Marietti conservano invece l’astratto significato matematico di «scomposizione».

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Ii. Analisi cronologica   217 ché infatti io non voglio conoscere le cose nello spazio, ma lo spazio stesso; osserverò inoltre che lo spazio può avere soltanto tre dimensioni, ecc. Tali proposizioni si possono bensì chiarire [erläutern], considerandole in concreto per conoscerle intuitivamente; ma non si possono mai dimostrare. Perché da dove potrebbe mai venire questa dimostrazione, visto che esse costituiscono i primi e più semplici pensieri [Gedanken] che io posso avere del mio oggetto quando comincio a pensarlo? In matematica le definizioni sono il primo pensiero [Gedanke] che io posso avere della cosa chiarita [erklärt], appunto per il fatto che il mio concetto dell’oggetto nasce primissimamente [allererst] dal chiarimento [Erklärung], e perciò è un nonsenso considerare quest’ultimo come dimostrabile [erweislich]. In filosofia [viceversa], dove il concetto della cosa che io debbo spiegare mi è dato, ciò che di esso viene percepito immediatamente, e sùbito, deve servire per un giudizio fondamentale indimostrabile [unerweislich]45.

Ho voluto inserire in corsivo fra parentesi unciate due interpolazioni della traduzione del Carabellese di significato avversativo (invece, in-), e una di significato rafforzativo (appena). Come mai il Carabellese, che può incorrere talvolta in qualche distrazione, come noi tutti, si permette qui però ben due interpolazioni allo scopo di capovolgere addirittura il significato del testo? La cosa non può essere casuale; e non è casuale, perché il Carabellese s’è trovato costretto ad attribuire forzosamente al testo un significato, secondo lui, il più logico; e vi s’è trovato costretto, perché il testo questo significato, supposto il più logico, non ce l’ha affatto. Vediamo. Ma prima ancora di venire a questo significato, notiamo qua e là tutto quel che si può, compreso ovviamente ciò che può divertire o disorientare l’interprete – per esempio, per divertirsi: lo spazio è sostanza, e le cose sono accidenti; e per confondersi: lo spazio è ancora per Kant, evidentemente, la principale nozione metafisica di riferimento, di gran lunga più importante del tempo, ma esso, come sostanza, non è forma dell’intuizione (né ancora si dice mai, da nessuna parte dell’intero scritto, mi pare, che l’intuizione sia intuizione ‘sensibile’, se non vagamente: «in concreto»); tuttavia lo spazio è un «concetto», dato per intuizione di un esiguo numero di suoi connotati. Questi connotati sono, per esempio, l’esternità delle cose fra loro (ossia l’essere separate dallo spazio), la non-sostanzialità delle cose (ossia il loro essere immerse nello spazio), le dimensioni dello spazio stesso, eccetera – così che, insomma, io conosco lo spazio per (diciamo così) ‘nonintuizione’ delle cose, e per diretta intuizione, invece, dello spazio medesimo! Dopo la già vista ‘densità’ dei corpi, dunque, ecco presentarsi con ‘le dimensioni’ dello spazio, e con il loro ‘numero’, altre sintesi a priori intellettuali che non meriteranno d’essere accolte nella tabella categoriale della Critica. Ma   Carabellese, p. 229.

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esse si presentano in compagnia, per giunta, di una davvero strana serie di ‘non-intuizioni’ delle cose. Forse che la volontà di conoscere si serve, oltre che del giudizio, anche di un non-giudizio, dotato delle relative non-categorie? Avanti, dunque, e avviciniamoci all’equivoco. I connotati caratteristici di una cosa sono ricercati per suddivisione, dice Kant, e tuttavia pensati immediatamente. Ora, se ricercare può significare suddividere a nostro piacimento, così che le cose non ci s’impongono come altrettante sostanze o contenuti (non è forse la nostra volontà di conoscere a muoverci?; e non abbiamo forse già deciso che è lo spazio il nostro ‘vero’ oggetto?), quel «pensare immediatamente» dovrebbe poter significare ‘intuire’. Ecco perché il Carabellese traduce per ben due volte Gedanke con «idea», e si preoccupa di fare dell’oggetto un qualcosa di «appena» (ossia, diciamo meglio, di ‘non appena’) pensato. È zelo volonteroso di soccorso, il suo, col quale vuole attribuire anche terminologicamente a questo ‘pensiero immediato’ una qualche caratteristica dell’intuizione. Ma chissà se questo soccorso sarebbe mai stato gradito! Kant sembra avere, in realtà, un ben scarso interesse all’uso proprio e univoco dei termini. Tutta una ormai vecchia e infinite volte ritrattata problematica filosofica viene qui a ridursi a un pantano terminologico per il semplice fatto ch’egli sa di comunicare il suo pensiero a chi sa per lo meno quanto lui, e pratica la medesima complicità; e in tal caso la comunicazione è intuitiva, impressionistica: di un discorso non si colgono più tutti i singoli termini, bensì soltanto gli accenti principali. Si fa a capirsi, insomma. Ma si fa anche a ingannarsi. Perché dire che in matematica le definizioni sono il primo pensiero della cosa chiarita, come se il chiarimento stesso non fosse pensiero? Perché, se non è pensiero, ed è invece intuizione della cosa stessa, non si vede la necessità d’introdurre l’intuizione preliminare dei suoi connotati. Bisognerebbe dire che in matematica le definizioni sono il primo pensiero della cosa definita; e questa è una tautologia bella e buona – a meno che non s’introduca una distinzione di grado fra le cose: e allora la definizione è il primo pensiero della cosa matematica semplice (data, forse, per intuizione), e dopo viene il chiarimento, o pensiero, della cosa matematica composta. Ma che la cosa semplice, l’elemento, il connotato, siano dati per intuizione resta da vedere, dal momento che il chiarimento altrimenti denominato (Erläuterung) serve stavolta proprio per poterli conoscere intuitivamente. E quanto invece alle cose composte, resta ancora da vedere quale necessità vi sarebbe mai di chiarire qualcosa che si è composto, ossia la necessità del chiarimento di una sintesi che s’è effettuata per addizione di elementi intuitivi semplici in un’intera figura geometrica. Qualcuno potrebbe sospettare che anche le

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nozioni matematiche (le composte, almeno) siano intuitive, e percepite come degl’interi ricolmi di proprietà, non meno delle metafisiche, e che la distinzione fra i procedimenti sintetico e analitico debba perciò andare semplicemente tolta di mezzo! Infatti: questo sospetto è, per l’appunto, del tutto giustificato. Senza specificare se la cosa chiarita «primissimamente» sia il connotato elementare oppure la cosa intera stessa, è impossibile distinguere la matematica dalla filosofia: esse vengono a rendere fungibili i rispettivi metodi. Ed è così che si spiegano le volonterose interpolazioni del Carabellese: il quale pensa bene di giungere al soccorso per tenere distinto ciò che effettivamente rischia di confondersi – anche se Kant non sembra minimamente preoccuparsene, anzi! E nella fretta di prodigarsi il Carabellese distingue, sì, ma all’opposto: e non solo aggiunge un invece avversativo per la matematica, che va piuttosto riferito, semmai, alla filosofia; ma rende per giunta in-dimostrabile ciò che effettivamente lo è, sì, ma soltanto perché la dimostrabilità è del tutto superflua e anzi assurda per qualcosa di già dato per definizione. Bisogna dire che i traduttori, anche più degl’interpreti, sono stati troppo buoni con Kant: per essere cattivi, con lui, basta rendergli un omaggio ch’egli avrebbe difficilmente gradito: quello di essergli strettamente fedeli. Indugiamo ormai, ancora per poco, su qualche altro esempio. Dopo l’analisi precedentemente svolta del passo più ricco, questo giudizio in apertura della Seconda Meditazione non dovrebbe neppure richiedere un commento: «In matematica comincio dalla spiegazione del mio oggetto, per es. un triangolo, un circolo, ecc.; in metafisica non posso mai cominciare dalla spiegazione, e anzi la definizione [?!] è talmente lontana dall’essere la prima cosa che conosco di un oggetto, da essere piuttosto quasi sempre l’ultima»46. Sospettando che figure geometriche composte possano essere oggetto d’intuizione, e perciò di spiegazione, non meno delle metafisiche, avevamo dunque visto giusto: quella che Kant chiama matematica, la geometria, non comincia da definizioni; le quali, semmai, arrivano per ultime. Se non che, la definizione diventa qui sinonimo equivalente di spiegazione. Avanti ancora, con l’apertura della Terza Meditazione: La matematica perviene ai suoi concetti per via sintetica, ed è in grado di affermare con certezza che ciò che essa non ha voluto rappresentare nel suo oggetto mediante la definizione non vi è contenuto di certo. Infatti il concetto di ciò che si spiega nasce pri-

  Ivi, p. 232.

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missimamente [allererst] con la spiegazione stessa, e non ha altri significati se non quello conferitogli dalla definizione47.

A parte la bizzarria di sancire il non-contenuto di una non-rappresentazione mediante quella che dev’essere per forza una non-definizione, di nuovo spiegazione e definizione vengono usati come sinonimi equivalenti; ma poi, soprattutto, il concetto viene di fatto a coincidere con l’intuizione per virtù linguistica dell’avverbio composto superlativo. Non ritengo necessario proseguire in quest’esame, che rischia di diventare semplicemente crudele. Dopotutto nessuno ha mai detto, mi pare, che si studia Kant per imparare a ragionare con proprietà di linguaggio e con rigore logico; e a noi basta osservare quale forma e disciplina e dignità letteraria debba assumere il disordine per potersi installare saldamente come un’arte e come una scienza, proprio per un bisogno d’ordine e di moralità, nella testa di un intero ceto cólto nazionale, facendosi mentalità pratica. Passiamo dunque ad altro: ai postulati sensibili della conoscenza. *** Venendo ad aggirarsi sul problema dell’estensione e dell’inestensione delle sostanze Kant preferisce non trattarle come tali, per non finire sui binari obbliganti del solito dualismo, e parla vagamente di «essenza» dello spazio, nonché dell’impenetrabilità dei corpi e dei loro elementi. Poiché «l’impenetrabilità è una forza» (sia pure una forza che si manifesta come resistenza)48, con simile attivizzazione generale dello spazio egli si svincola abbastanza facilmente dalla prigione delle sostanze, mettendole forse (forse: perché la conclusione manca!) in comunicazione non già per via infinitesimale matematica, bensì per via infinitesimale energetica. Il debito (sebbene inconfessato, oltre che assai confuso) resta comunque leibniziano; ed è quasi naturale che al creditore venga riservata una semplice menzione di sufficienza per essersi inventato un atomismo psichico, che è semplice nominalismo. È così che i filosofi, secondo Kant, hanno talvolta preteso di dare spiegazioni sintetiche: senza aggiungere alcunché di dato ad alcunché, se non loro invenzioni terminologiche ad altrettali determinazioni grammaticali che non ci fanno conoscere nulla di nuovo49. Senti chi parla. E qui vien subito da   Ivi, p. 241.   Ivi, p. 236. 49   Ivi, p. 224. 47 48

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obiettargli leibnizianamente ancora una volta: nulla di nuovo, sì – nisi la capacità d’invenzione terminologica ipsa. L’ambiente nel quale Kant s’era venuto formando era talmente saturo di questa capacità d’invenzione terminologica praticata dalla retorica metafisica accademica (verbale, non matematica, per quanto almeno egli poteva capirne: tant’è vero che le due cose per lui si equivalgono); quell’ambiente ne era talmente saturo, dunque, ch’egli non sapeva più che farsi di una simile intellettualistica risorsa teorica. La sua reazione ha dunque delle spiegazioni – ma non ha delle vere giustificazioni; e bisogna pur dire che la sua fu, tutto sommato, la reazione provinciale a una situazione provinciale; e che la matematica, qui, c’entra davvero ben poco. Inventare dei semplici «nomi» per dei concetti ch’egli giudica «arbitrari» è precisamente il compito della matematica in quanto essa è conoscenza sintetica: i numeri immaginari valgono da esempio per tutti; e dopo avere postulato la natura soltanto sintetica della conoscenza matematica, senza peraltro mai dare alcuna convincente spiegazione, proprio come conoscenza di tipo solamente sintetico egli la ripudia: semplificata, e perciò rimossa proprio nelle sue forme intellettualmente più raffinate. In quanto essa può avere qualcosa in comune con la conoscenza analitica, d’altra parte, Kant ne fa una linguistica generale vuota, o superflua, sotto un’insegna onomastica semplicemente ridicola: Ammetto d’altra parte che i matematici hanno talora dato spiegazioni analitiche, ma [questo] è sempre [!] stato un errore. Così Wolff in geometria ha considerato con occhio filosofico la somiglianza, onde classificare sotto il concetto generale della medesima [somiglianza] anche quella [somiglianza] che si riscontra in geometria [die in der Geometrie vorkommende]. Ma egli avrebbe potuto benissimo farne a meno... [perché] il geometra non ha alcun bisogno di una definizione generale della somiglianza50.

Certo, che non ne ha bisogno: ma è lui, però, è Kant che ne ha bisogno per crearsi o cercarsi il problema da risolvere. I suoi matematici, come li chiama, gli stanno a portata di mano; ed egli ha la bontà di ammettere che matematici essi, poi, non sono, bensì pretesi filosofi della geometria. Ma insomma, trascurando pure tutto ciò che offre di decisamente irritante una lettura seria e attenta, esigente, diciamo che per Kant una qualche somiglianza tra la filosofia e la sua matematica-geometria è, come dice, effettivamente riscontrabile in quest’ultima; l’errore consiste soltanto nel pretendere di fare di questa somiglianza una scienza generale, comune a entrambe le discipline. Si tratta, come   Ibidem.

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si vede, di tutt’altro problema: perché la pretesa di fare di una somiglianza fra due scienze una terza scienza, che non sia semplicemente arte di tessere e di ricavare delle somiglianze, è arbitrio di dilettanti. Ma simile arbitrio, promosso ad autentica e ‘fondata’ disciplina, diventerà poi precisamente l’illuminante soluzione del suo risveglio critico: perché nient’altro che una ‘sintetica’ capacità d’invenzione terminologica egli andrà largamente praticando nella Critica, quando vorrà imperversare con la nozione, per esempio, di ‘trascendentale’. Di nient’altro consisterà la sua ricerca di nozioni sintetiche a priori, che dell’effettiva possibilità di una scienza generale comune tra metafisica e matematica, già ripudiata in questo sonno che lo vede, in realtà, ben deciso a sbarazzarsi con sufficienza di una dogmatica asfissiante, più che a combatterla. Ma egli non aveva alcuna scienza da opporle. Nel suo procedere teorico e prosastico da sonnambulo Kant non dovrà fare altro, in sede critica, che ripensare a ciò che aveva già male interpretato e semplificato, all’unico scopo d’intenderlo meglio coi mezzi che effettivamente possedeva. E quella possibilità di un’unità logica generale che qui viene respinta col nome di somiglianza fra opposte discipline, nella Critica andrà invece tormentosamente ricercata sotto la guida dell’analogia. Ma restiamo a noi. Vi sono proposizioni vere per definizione, ch’egli giudica sintetiche; e altre, date per intuizione, che giudica analitiche. Le prime, secondo lui, sono matematiche, le seconde filosofiche. La storia delle idee avrà già fatto il suo lavoro, qui, per dirci da dove egli abbia preso simili triplici associazioni (definizione-sintesi-matematica; intuizione-analisi-filosofia) che gli sembrano tanto naturali ed evidenti; ma a noi bastano le sue due menzioni onomastiche di Leibniz e di Wolff: con Kant non si deve mai cercare molto lontano; e comunque, storia o no, il problema teorico, per noi, resta intatto. E restano intatte anche quelle non piccole sorprese, che offrono in verità l’unica remunerazione alla lettura – come questa, per esempio, che arriva subito: «Il matematico opera con concetti che spesso [öfters: per lo più] sono suscettibili anche [noch: per giunta] di una spiegazione filosofica, come avviene per esempio per il concetto dello spazio in genere. Egli però [allein: solo che] considera questo concetto come dato secondo la sua rappresentazione chiara e comune»51. Non sottilizziamo, con lo öfters e col noch, sulla comune possibilità di spiegazioni doppie, o magari successive, delle stesse cose, e teniamoci stretti alla conclusione; la quale vuol dire in tono limitativo o concessivo una cosa sola: che il matematico prende le cose anche, o per lo più, così come sono   Ivi, p. 225.

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date per comune intuizione. Ossia le prende (a modo suo) in senso filosofico, simile, non diverso da come in metafisica si devono prendere le innumerevoli entità irriducibili a ulteriori fattori più semplici, e impossibili a darsi per definizione. Il matematico può prendere queste cose, a suo modo, esattamente all’opposto di come s’era inizialmente ammesso. Egli (diciamolo pure) può concepire lo spazio «in genere» mediante l’esercizio di quella facoltà che di lì a una quindicina d’anni farà proprio dello spazio una delle sue forme a priori: vale a dire mediante l’esercizio della sensibilità intuitiva. Ora, che cosa dev’essere più importante, per giudicare i casi come questo: trovare i controsensi interni al discorso presente, oppure le premonizioni di una dottrina a venire? Viviamo nel presente: a me sembra più importante giudicare i controsensi. Le cosiddette premonizioni di una dottrina futura sono in realtà le principali contraddizioni dell’oggi destinate a diventare le soluzioni del domani. Dove andrebbe a finire se no, in un’ottica precorritrice che setaccia pagliuzze nel fango, la ricchezza di spunti che càpitano sotto le mani di un uomo che brancola nel buio? E come si capirebbe il significato di semplificazione, compensata da pesante superfetazione, che la Critica e l’intera trilogia assumeranno nei confronti di questi scritti cosiddetti precritici? Sarebbe come leggere il primo Faust alla luce del secondo. Basterà soltanto, all’occasione, non fingersi ingenui, immaginando, per esempio, che Kant sia morto di agorafobia subito dopo la conclusione di ogni suo scritto. E poiché siamo in tema di premonizioni, ricordiamo che in questo scritto fa capolino finalmente qua e là, e ben timidamente, anche il tempo, non senza il patrocinio di Agostino, come s’è già detto, e senza tuttavia riuscire ancora a svolgere alcun ruolo. Ma proprio perché non è a caccia di premonizioni che andiamo, desidero subito notare che vi si menziona anche fuggevolmente qualcosa che poi nella Critica, a differenza del tempo, non assumerà invece alcun ruolo teorico apprezzabile: la memoria, il ricordo. È vero che anche qui non si tratta affatto di uno spessore anamnestico della conoscenza (che in Kant, a oltraggio di tutta la sua ‘interiorità’, è in generale praticamente sconosciuto); ma sebbene concepito in senso strettamente tecnico e ben pratico, il riferimento al ricordo è comunque inserito in un contesto generale che conferisce al senso dello spazio visuale quella dimensione interiore, che poi perderà completamente. Ecco il passo, che merita d’essere riportato per intero, dal cui commento tralascerò ormai le osservazioni più minute, segnalando solamente in corsivo tra parentesi unciate un’interpolazione del Carabellese: Nelle sue deduzioni e dimostrazioni la matematica considera la sua conoscenza generale sotto i segni in concreto, mentre la filosofia continua sempre, accanto ai segni, a

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224   parte prima. avanti «la critica» considerarle in abstracto. Ciò costituisce una differenza notevole nei due modi di arrivare alla certezza. Visto che i segni matematici sono mezzi conoscitivi sensibili, si può sapere, con la stessa fiducia con la quale si è certi di ciò che si vede coi propri occhi, che non si è trascurato alcun concetto, che ogni singolo [einzeln] raffronto è avvenuto secondo regole facili [?!] ecc. Col che [wobei dadurch] l’attenzione è assai facilitata dal fatto che essa non deve concepire le cose nella sua [in ihrer: dell’attenzione] rappresentazione generale, ma i segni nella sua [in ihrer, c.s.] singola [einzeln: di ciascuno di essi segni] conoscenza, che in tal caso [die da] è sensibile. Le parole, invece, che sono i segni della conoscenza filosofica, non servono ad altro che a far ricordare i concetti generali che si vogliono indicare, e occorre sempre averne immediatamente [unmittelbar] dinnanzi agli occhi il significato. L’intelletto puro è sottoposto ad uno sforzo continuo di attenzione, e in tal modo è facile che non si accorga che gli è sfuggito un connotato di un concetto isolato, visto che nessun elemento sensibile ci indica questa trascuranza; ma in tal caso cose diverse vengono giudicate uguali [?], e così nascono le conoscenze errate52.

Il Carabellese legge in ihren, e traduce: «concepire le cose nella loro rappresentazione generale»; è differenza quasi irrilevante, perché va un po’ perduto il protagonismo dell’attenzione come attività nella rappresentazione. Ma egli omette la specificazione unmittelbar dalla visione mnemonica dei segni, e perde poi completamente il da; e sarebbe interessante sapere che cosa, secondo Kant, accada con la conoscenza matematica damit, o dabei, o dadurch; e per saperlo bisognerebbe sapere a cosa si riferisce il da: ai segni come tali, oppure alla loro singolarità? Dice Kant, insomma, che la conoscenza matematica è conoscenza sensibile in quanto si riferisce ai segni delle cose (anziché ai loro nomi, alle parole, com’è costretta a fare la filosofia), oppure in quanto si riferisce ai «singoli» segni delle cose considerati in «singoli» raffronti? Anche le parole della conoscenza filosofica sono segni, egli dice; forse dunque che la loro natura astratta è dovuta al fatto d’essere i segni della filosofia meno univoci, meno einzeln, dei segni matematici? Mi sembra di poter capire che con i suoi nomi la filosofia ci offre delle rappresentazioni generiche delle cose (un nominalismo, insomma), mentre la matematica ci offre dei segni corrispondenti ad altrettanti individui. Questi ultimi sono dunque più univoci, più concreti: la matematica è conoscenza sensibile. Ecco la sorpresa dell’autore: pensavamo che grazie all’intuizione della cosa intera da spiegare la filosofia fosse conoscenza sensibile, e che la conoscenza per definizione di fattori primi della matematica fosse intellettiva – no: è esattamente l’opposto. Ed ecco la sorpresa del traduttore: il quale crede d’interpretare a dovere facendo di questa matematica, conoscenza sensibile, una conoscenza «soltanto» sensibile – in   Ivi, p. 242.

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Ii. Analisi cronologica   225

obbedienza, evidentemente, a un criterio gerarchico di giudizio circa il valore che può avere, in generale, la sensibilità. Ma Kant vuol dire (e il più malamente che gli riesce dice, effettivamente) esattamente il contrario: che la filosofia, così essenzialmente diversa dalla matematica, deve purtuttavia imparare dalla matematica; e che la relazione fra sensibilità e intelletto va instaurata nei giusti termini di estensione, non di gerarchia o procedura o metodo della precedenza. Se l’interpolazione del Carabellese vuol dire che la sensibilità della matematica è «soltanto» preliminare all’attività dell’intelletto filosofico, nel senso cronologico della procedura, egli instaura un semplice rapporto di precedenza, una condizione preliminare (che è poi effettivamente la strada che Kant prenderà con la Critica). Guardando avanti, al dopo, egli perde di questo Kant l’effettivo insegnamento attuale: secondo cui l’intelletto deve imparare dalla sensibilità, contenendosi nei limiti d’individuazione del concreto. È ancora di limiti d’estensione di facoltà parallele, messe a confronto, che qui si tratta, e non di successione in un’unica procedura di metodo di una conoscenza criticamente depurata e che si pretende, per conseguenza, sicura. Il problema delle relazioni tra le facoltà conoscitive riguarda le relazioni dell’individuo concreto con un genere – e questo genere, per Kant, non è individuo e non è concreto. Con l’intuizione dell’intero la filosofia non intuisce che una molteplicità d’individui sotto l’unico segno del medesimo genere, e rischia perciò di scambiarli o trascurarli. Questa intuizione non merita d’essere chiamata sensibile – non è che intuizione d’un puro intelletto; e il tesoro linguistico che bisogna costantemente «avere immediatamente dinnanzi agli occhi» non è fatto d’immagini delle cose stesse, bensì di semplici connotati delle cose: intere, o ridotte in fattori geometrici primi. Queste sono le garanzie che lui cerca, qui; questo il suo modo, qui, di cercarle. Non si sospetterebbe che sotto la sua parrucca quest’uomo possa avere una simile scapigliatura; né che lo Sturm und Drang abbia conosciuto simili dimensioni di tumulto logico e metafisico – ma ancora più logico che metafisico. *** Comunque se ne voglia giudicare il valore quanto all’argomentazione, e presa invece soltanto nel suo valore intrinseco generale, la distinzione inizialmente sancita d’un procedimento matematico basato su definizioni, e d’un procedimento filosofico basato invece su intuizioni, contiene una fondamentale verità – che è, poi, nient’altro che un lascito problematico di Leibniz circa

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226   parte prima. avanti «la critica»

la possibilità di un’illimitata riducibilità delle nozioni d’ordine superiore o complesso: su prospettive ben più grandiose s’era trattato, per Leibniz, di riconoscere intuitivamente l’esistenza di fatto di personalità diverse (civiltà religiose diverse, per esempio), per poi tentare di ricondurne i profili a una fittissima segmentazione che portasse i rispettivi poligoni, diciamo così, a coincidere sul medesimo cerchio. La filosofia, e in particolare la filosofia politica e religiosa, trova simili nozioni sul proprio cammino, e diciamo anzi pure che s’imbatte in personalità collettive o nozioni antiche e nuove come in altrettante solide realtà; le quali circondano il pensiero come una città cosmica dalla quale esso trae i suoi materiali per imitazione, o per scomposizione e successiva ricomposizione. Le specie in natura, e tutti gli ‘-ismi’ o i tropi del linguaggio, e tutti i più radicati pregiudizi, soprattutto, nei quali si realizza un coerente traslato ideologico d’origine antropologica – tutto ciò, insomma, dà vita a una sorta di materialismo delle idee assai più solido, assai meno malleabile, assai più (talvolta fanaticamente) reattivo del materialismo delle cose fisiche. La conversione dei barbari al cristianesimo, una dozzina di secoli or sono, fu fatica da nulla, a paragone della resistenza insuperabile reciprocamente opposta dalle ben canonicamente stabilite, filologicamente verificate, dottamente argomentate e commentate ideologie politiche o religiose del nostro mondo contemporaneo. Il costume le rende altrettanto ben fondate per un altro verso. In nient’altro che nel fornire un ‘fondamento’ consiste, per l’appunto, la pretesa del criticismo. Una volta escogitato il fondamento, la cosa e il suo pregiudizio diventano insolubili, irriducibili, inespugnabili, e possono tuttavia reclamare la giustificazione dell’altrui pregiudizio – quanto di peggio un Leibniz si sarebbe mai prefisso, insomma. In qualche modo la scienza, o la pretesa della scienza, ha fondato, in definitiva, il pregiudizio che doveva combattere intervenendo con metodo su di un corpo sentimentale (diciamo così) già esistente – e il socialismo ‘scientifico’ ne è l’esempio più clamoroso. Essa ha anche saputo far di più, fabbricando pregiudizi suoi propri – e il ‘nazional’-‘socialismo’ è l’esempio terminologico più clamoroso di questa seconda specie di manufatto ideologico. Nel primo caso si tratta semplicemente di aggiungere un aggettivo a un sostantivo trovato: un modo a una sostanza, insomma. Nel secondo caso si tratta di saldare insieme due sostantivi, o sostanze entrambe trovate. Ora, nel formarsi un giudizio di nozioni d’ordine complesso la filosofia risale alle sostanze semplici e prime, riconoscibili per intuizione del buon senso, dice Kant53 – e lì, di solito, si arresta (nei nostri esempi: si arresta alle nozioni 53   Anche se non dice assolutamente mai (se ho letto bene) che quest’intuizione filosofica è di natura sensibile: dice soltanto che la filosofia tratta di rappresentazioni «generali», distinte dalle rappresentazioni

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Ii. Analisi cronologica   227

di socialismo, di scienza, di nazione, oltre le quali il senso comune non può andare senza dissolvere la nozione stessa); mentre oltre a scomporre nozioni d’ordine superiore o complesse nei loro fattori primi la matematica, secondo Leibniz, attua per giunta, mediante il calcolo infinitesimale, un’approssimazione a un limite. Ciò che Leibniz però, per quanto ne so, non ha mai detto, invece, è quel che Kant verrà ad annunciare al mondo dopo il suo risveglio critico: vale a dire, che la scomposizione di un oggetto in fattori primi giova a una sicura ricostruzione di quell’oggetto medesimo – o peggio, come gli sarà fatto dire dal neokantismo, che la scomposizione giova alla ricostruzione d’altri e nuovissimi oggetti a partire dai fattori primi. È vero che con la terza Critica Kant aveva messo su questa strada i suoi futuri baldanzosi seguaci – ma s’era trattato di dare un ‘senso’ al mondo intero, non già di ridarlo ad alcunché di particolare. Con la perdita della presenza dell’unità nascosta nel buio della cosa, e del sostanziale mistero della cosa; con la dissoluzione fenomenologica nomenclativa semiotica terminologica del contenuto ontologico animastico religioso linguistico d’essa cosa; con ciò, insomma, si finisce proprio per agire «dimenticando completamente le cose stesse», come qui Kant ammonisce, pensando all’intellettualismo tipicamente basato sull’imprestito matematico54. Ancora nella Teologia naturale la filosofia, secondo lui, dovrebbe arginare questa pericolosa tendenza o pretesa – mentre invece con la Critica riuscirà poi, proprio grazie a lui, a fondare la pretesa della ricostruzione dell’oggetto su degli a-priori ritenuti sicuri. Il cimento kantiano della Critica non è, in definitiva, molto diverso dal tentativo marxiano di fornire al socialismo un fondamento scientifico. Ma un altro paragone è forse ancora più fruttuoso, proprio pensando alla terza Critica piuttosto che alla prima. Quando per loro conto, senza aspettare i filosofi pifferai di Sedan, e anzi per lo più disprezzandoli, le avanguardie artistiche fra Otto- e Novecento tenteranno nella poesia e nella pittura la scomposizione dell’oggetto, lo faranno proprio per dare un ‘senso’ complessivo, unitario, all’insieme delle sue relazioni col mondo, lasciando l’oggetto così com’è, senza alcuna pretesa di smembrarlo per ricostruirlo; mentre i frutti del cimento con la ricostruzione dell’oggetto medesimo in altra possisemiotiche della matematica, ma senza specificare la natura, sensibile o intellettiva, di entrambe, se non per l’origine. Riprendendo una comune nozione leibniziana Kant parla talvolta di rappresentazioni oscure o confuse; e bisogna tenere presente che questo ‘senso’ comune o buon ‘senso’ è in realtà, testualmente, la gesunde Vernunft; e che perciò la ‘salute’ di questa ragione è metafora antropomorfica igienica in grado di mescolare in un tutt’uno e nella penombra, o addirittura nella «oscurità della rappresentazione che è nell’animo», o «nel sonno più profondo» (ivi, p. 240), le facoltà conoscitive sensibili e intellettive. 54   Ivi, pp. 225-226.

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228   parte prima. avanti «la critica»

bile cosa rappresentano, invece, proprio il lato satirico, o caduco e bizzarro dell’esperienza novecentista – lo sberleffo patafisico e dadaista. Tralasciando gl’inizi (che ovviamente non conobbero teoria) nonché le poetiche dell’ermetismo lirico (per ragioni di brevità), il lascito generale dell’Impressionismo e la teoria del suo più legittimo successore, il nostro migliore Futurismo, non lasciano dubbi in proposito, mi pare. Gl’impressionisti, dice il Venturi, «avevano trascelto soltanto un elemento della realtà, la luce, per interpretare tutta la natura». Essi venivano accusati di dipingere soltanto frammenti. «Ciò è abbastanza divertente. Quando mai è esistito un pittore che della natura ha rappresentato tutto? Naturalmente ogni artista rappresenta frammenti. I veri pittori condensano in un frammento il senso di tutta la natura, che è natura esso stesso. Così fecero gli impressionisti»55. L’esperienza futurista si svolse in modo assai più tumultuoso, portandosi dietro le scorie più diverse – tanto da generare anche, diciamolo pure, l’arte della scoria; e qui vi furono sì, effettivamente, i marinettiani che proclamarono: «Scomponiamo e ricomponiamo così l’universo secondo i nostri meravigliosi capricci»56. Ma il senso migliore del futurismo non sta certo lì, nella compiaciuta barbarie dell’esplosione dell’oggetto: bensì proprio, al contrario, nella ricerca delle forze centripete che convergono sull’oggetto, dandogli un senso ambientale generale. Basta leggere Boccioni: Noi dobbiamo partire dal nucleo centrale dell’oggetto che si vuol creare, per scoprire le nuove leggi, cioè le nuove forme che lo legano invisibilmente ma matematicamente all’infinito plastico apparente e all’infinito plastico interiore. La nuova plastica sarà dunque la traduzione nel gesso, nel bronzo, nel vetro, nel legno, e in qualsiasi altra materia, dei piani atmosferici che legano e intersecano le cose. Questa visione che io chiamo trascendentalismo fisico… potrà rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che creano le reciproche influenze formali dei piani degli oggetti57.

Oltre all’imprestito terminologico ‘trascendentale’, il lettore trova qui l’analogia col procedimento matematico non già nel senso sostitutivo, o decostruttivo e poi arbitrariamente ricostruttivo dell’oggetto, che nella Teologia naturale Kant vuole ancora per l’appunto scongiurare; bensì proprio nel senso geometrico che 55   Lionello Venturi, La via dell’impressionismo. Da Manet a Cézanne, Einaudi, Torino 1970, pp. 131 e 137. 56   La cinematografia futurista, in ‘L’Italia futurista’, 1916, n. 9 (ora in Archivi del futurismo, a cura di Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, De Luca Editore, Roma 1958, i, p. 99). Firmato anche da Marinetti, il manifesto non è tuttavia firmato da alcuno dei futuristi maggiori – se non da Giacomo Balla, che futurista, veramente, non fu. 57   La scultura futurista, 11 aprile 1912, in I manifesti del futurismo, Firenze 1914 (ora in Archivi, i, pp. 68-69). Nell’originale i corsivi sono maiuscolati.

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Ii. Analisi cronologica   229

ne fa un’unica rappresentazione intuitiva insieme con tutto ciò che lo circonda, e gli dà un ‘senso’. Questa è proprio l’idea migliore dello scritto sulla Teologia naturale – ma condotta da Kant in modo tale da far prendere poi, con la Critica, a lui e a chi lo seguirà, la strada diametralmente opposta. Alla terza Critica toccherà il compito della restaurazione, al termine di un lungo percorso ellittico. È un pericolo sempre imminente, questo, o una possibilità logica sempre aperta che insidia ogni scomposizione in fattori primi, specialmente (perché la scomposizione del calcolo infinitesimale, invece, non è qui in discussione: dal momento che Kant non ne ebbe mai la più pallida idea; e che essa non fu praticata dall’avanguardia novecentista, bensì, semmai, dalle precedenti esperienze impressioniste, puntiniste, e simili; mentre alla scomposizione in fattori primi corrispondono, semmai, le esperienze divisioniste e macchiaiole d’ogni specie). Trattando di scomposizione dell’oggetto secondo le sue linee di forza, o secondo le forze circostanti agenti su di esso, o secondo le sue analogie, o secondo le sue forme elementari, o come si vuole – insomma: quando e perché arrestarsi, rinunciando a procedere? E perché, poi, non ricostruirlo a piacere? Nel passo appena citato di Umberto Boccioni al lettore attento non sarà certamente sfuggito quel riferimento alle «nuove» leggi e alle «nuove» forme. L’implosione dello spazio nell’oggetto ha i suoi rischi – e sono rischi di una barbarie attivistica che né Kant né le avanguardie potevano neppure immaginare, ma ch’era già lì prossima e ventura: lo stesso lasso di tempo, pressappoco, separa lui e loro, rispettivamente, dall’avventura di un’intera generazione di rivoluzioni e di guerre per l’egemonia europea, prima francese e poi tedesca, nei due rispettivi secoli. Si può credere di rifare a piacere, con un oggetto qualsiasi, anche l’uomo, anche l’umanità, anche le nazioni. La carta d’Europa può allora diventare assai simile, per esempio, ai quadri di Kandinski degli anni Dieci: nei quali è già contenuta, col senso geometrico dell’integrazione centripeta e il senso energetico opposto dell’esplosione, anche tutta quanta una tragica premonizione storica. Leggiamo ancora Boccioni, dunque; il quale scrive, sì: «Proclamiamo che tutto il mondo apparente deve precipitarsi su di noi, amalgamandosi» – ma poi aggiunge: «Un insieme scultorio, come un quadro, non può assomigliare che a se stesso, poiché la figura e le cose devono vivere in arte al di fuori della logica fisionomica». Oppure leggiamo questo lapidario incipit di Severini, dove c’è tutto: «Noi vogliamo rinchiudere l’universo nell’opera d’arte. Gli oggetti non esistono più»58. 58   La scultura futurista, p. 71; Le analogie plastiche del dinamismo. Manifesto futurista (settembre-ottobre 1913), in Archivi, i, p. 76. Questi sparsi riferimenti agli sviluppi del neokantismo nelle intuizioni delle avanguardie si riferiscono, per lo più, allo spazio e all’oggetto, e toccano in modo completamente diverso il problema affrontato da William Mcgrath in Arte dionisiaca e politica nell’Austria di fine Ottocento (Einaudi, Torino 1986).

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230   parte prima. avanti «la critica»

Il lettore capirà che continuare su questo argomento significherebbe, semplicemente, scrivere un altro libro circa le possibili influenze reciproche tra Neo-kantismo e Avanguardia; e lo scriverà, se non l’ha già fatto, chi crede nella climatologia o nell’epidemiologia delle idee (due scienze che si riducono poi di solito, in verità, a quegli orari ferroviari editoriali in cui amano esibirsi gli specialisti eruditi della storia delle dottrine). Per ragioni di spazio e di congruenza a me basta qui ripetere ciò che Goethe scrisse da qualche parte: che nella giusta stagione gli stessi frutti maturano e cadono insieme anche in giardini diversi. Ma desidero aggiungere ancora, a scanso di equivoci, che in tutto ciò Kant non ci fa per nulla la figura del profeta della modernità, il quale avrebbe formalizzato a livello teorico, con un secolo d’anticipo, un costante problema di pensiero e d’azione. No: con gli strumenti di cui disponeva (i quali non andavano, sotto il profilo tecnico basilare, al di là di una preparazione scolastica) egli riprese ciò che il tempo e l’ambiente gli offrivano con la massima notorietà ed evidenza; e seppe poi svilupparlo con un duro lavoro, questo sì, di lunga lena, nel quale finì per riperdersi a causa della mancanza d’adeguate risorse. Il resto, la boria del neokantismo e lo spirito dell’avanguardia, vennero da sé. *** Ma intanto, però, bisogna pure riconoscere che nella Teologia naturale il suo senso dell’identità spaziale dell’oggetto, o del nesso inviolabile del particolare col tutto, è ben chiaramente sancito fin dal motto lucreziano in epigrafe: Verum animo satis haec vestigia parva sagaci sunt, per quae possis cognoscere caetera tute.

Vale a dire: «Ad un ingegno sagace queste tracce tanto esigue sono in verità sufficienti per conoscere tutto il resto con certezza». E se questo è il suo senso antidecostruttivo e, in definitiva, anti-intellettualistico, del ‘Tutto’, bisogna poi aggiungere che non gli manca neppure il senso dei molti ‘tutti’, ossia di quell’infinita molteplicità che rende superflua ogni tentazione o bisogno di ricostruzione arbitraria dell’oggetto: il quale va preso così com’è. Per capire facilmente ciò che intendo, visto che mi sono da poco giovato di esempi tratti dalle arti figurative, basta pensare ancora alla pittura di Kandinski – ma degli anni Venti e specialmente Trenta, questa volta; e se no, per un caso più estremo, bisogna pensare all’esperienza dada e degli objets trouvés, dove cade

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Ii. Analisi cronologica   231

la distinzione fra la natura elementare o non elementare di un oggetto. Ma anche senza giovarci di sviluppi futuri noi leggiamo talvolta con speranzoso entusiasmo, per esempio, parole di Kant come queste: «Ma si può prevedere sin dall’inizio che è inevitabile arrivare in questa suddivisione [filosofica, e specialmente metafisica, non matematica] a concetti insolubili, che tali sono a sé e per se stessi, oppure per noi; e che di questi concetti [non ulteriormente divisibili] ce ne devono essere moltissimi, visto che è impossibile che la grande molteplicità di conoscenze generali possa essere composta di pochi concetti fondamentali. Perciò molti non si possono risolvere quasi affatto» – eccetera, con il seguito del suo piccolo elenco: rappresentazione, contiguità, successione, spazio, tempo, sublime, bello, disgustoso59. È un po’ scarso, questo elenco, e anche un po’ troppo omogeneo: questi concetti fondamentali non sembrano davvero infiniti e disparati, come Kant stesso ha affermato. È già intervenuta una riduzione secondo criteri impliciti e arbitrari, evidentemente. Saranno dunque, questi criteri di riduzione, i concetti fondamentali dei concetti fondamentali? Saranno i princìpi dei princìpi, le idee delle idee, gli schemi dei princìpi e delle idee, o quant’altro, ancora? Andiamo! Chi non ha voluto credere a questo gioco a rimpiattino (che il neokantismo cattedratico ha saputo spogliare di tutta la sua sprovveduta e un po’ goffa innocenza, innalzandolo a stentorea dottrina) ha beffardamente negato ogni speciale statuto di legittimità alle idee superiori, ai valori, ai princìpi assoluti, ai concetti fondamentali, ai criteri metodologici, e simili; e ne ha trovati tanti, quanti sono gli oggetti nei quali c’imbattiamo. Vogliamo fingere di non saperlo? Rispettiamo i morti, allora, e storicizziamo – ma prima assicuriamoci che Kant vada proprio trattato come un morto. Domandiamoci, invece, se non si nasconda in questa riduzione una sua reticenza, o un’intenzione, o almeno una sua qualche limitatezza di vedute. La conferma del sospetto arriva infatti quasi subito, poche righe più sotto. In matematica, sembra voler dire Kant, tutto è piuttosto facile. L’intero è uguale alla somma delle parti, e fra due punti passa una sola retta: su poche evidentissime proposizioni come queste, postulate senz’altro come vere, i matematici costruiscono tutta quanta la loro scienza. Se ora si fa il confronto con la filosofia [Weltweisheit], e particolarmente con la metafisica, sarebbe interessante veder compilata una tavola delle proposizioni indimostrabili che stanno a fondamento di queste scienze in tutta la loro estensione [durch ihre ganze Strecke]. Certo questa tavola diventerebbe immensa, eppure è appunto nella ricerca di   Carabellese, p. 228.

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queste verità fondamentali indimostrabili che consiste il compito principale della filosofia [Philosophie] superiore; e tali scoperte [Entdeckungen] non avranno mai fine finché il campo di questo genere di conoscenza sarà ampliato60.

Kant non ebbe certo il merito d’ampliarlo, questo campo; né di curarsi di ciò che, come la letteratura e l’arte, da sempre l’ha spalancato e continua ad ampliarlo; né riuscì mai a capire che i giudizi indimostrabili d’ordine superiore vengono presentati all’intelletto da una sensibilità formale d’identico ordine. ‘Essere un Don Chisciotte’ o ‘un Don Abbondio’; ‘fare la fine di Rigoletto’: quale messe d’innumerevoli determinazioni è contenuta in simili giudizi indimostrabili – la storia di uno, che vale per tutti! No, nelle sue mani la tavola dei giudizi fondamentali indimostrabili non diventerà immensa, come sappiamo, bensì composta di sole dodici caselle ben suddivise per tre e per quattro su due vuote colonne. Chissà che la matematica non ne avesse già persino qualcuna di più, per quanto almeno ne sapeva lui. Bisogna proprio dire che, a dispetto della lentezza di pensiero e della goffaggine prosastica, con Kant è difficile annoiarsi. Non appena messici in cammino in una direzione, apprendiamo che sarebbe bello se ci fossimo mossi nella direzione opposta, la quale è anzi la principale – ed è poi quella che prenderà lui. Ci sono matematica e filosofia, dice – anzi no, ci sono due filosofie, che portano infatti due nomi diversi, e una di esse (vera e propria Philosophie) è superiore (mentre di matematica, evidentemente, non ce n’è che una sola: quella dei suoi banchi di scuola). Ricorrendo a un’invenzione credevamo di dover compilare con lungo lavoro una tavola per nostro comodo uso alla maniera, che so?, di Linneo; e ci accorgiamo invece di dover fare delle continue scoperte. Due discipline sembravano doversi spartire il mondo della scienza a metà, senza contaminazioni a rischio d’intellettualismo per sostituzione, o per arbitraria estensione dei princìpi dell’una all’altra – e invece no: è proprio questo che sarebbe bello riuscire a fare, prima o poi. E se noi continuiamo perciò a meditare con lui, secondo gli assunti, per i restanti nove decimi dello scritto, è soltanto in via provvisoria, a quanto pare. Malgrado le sorprese ch’egli via via ci riserva, è proprio questo che noi vogliamo continuare a fare, per l’appunto; e in via il più possibile definitiva, ossia prendendolo molto sul serio. Restando dunque ancora vicini a quello che è il contenuto principale del suo pensiero consegnato in questo scritto (vale a dire alla distinzione, anziché all’agognata contaminazione della filoso  Ivi, pp. 228-229.

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Ii. Analisi cronologica   233

fia con la matematica), noi veniamo a conoscenza di un’ulteriore limitazione. Alle parole di Kant sulla miriade di concetti fondamentali noi pensiamo infatti immediatamente all’uso che facciamo abitualmente di nozioni complesse non definite che per intuizione comune; pensiamo che senza quest’uso la formulazione e la comunicazione del giudizio in quesiti d’ordine superiore (e morale, soprattutto) non sarebbe possibile; pensiamo alle nozioni, che so?, di Medioevo e di Rinascimento, per esempio, o d’Illuminismo e Romanticismo, di Tradizione e Avanguardia; pensiamo ancora agli epiteti spregiativi di ‘medievale’ e di ‘gotico’, già correnti al suo tempo, e a quelle incipriate allusioni alla ‘barbarie’ contenute in entrambe le prefazioni della Critica. È sulla scorta di una lunga tradizione melodrammatica, in particolare metastasiana, che ancora nel 1790 l’epiteto di ‘barbaro’, per esempio, viene scambiato nel Così fan tutte per ben quindici volte, in una mezza dozzina di significati: improvvido o avverso, crudele, sconveniente, cinico, ingrato, infedele; e quando poi al colmo della collera la cipria non basta a nascondere il rossore, ecco l’improperio effettivamente equivalente: «briccona assassina furfante ladra cagna». Son forse queste, dunque, altrettante riduzioni a fattori primi della nozione di ‘barbarie’? O non si riassumono piuttosto in essa medesima i più diversi significati o epiteti possibili? Se il nostro mondo finisse in una catastrofe, risparmiando quest’unico reperto (il libretto di Così fan tutte), potrebbero mai le lontane generazioni future ricostruire la nozione di ‘barbarie’ sulla base di simili fattori primi? Essi non sono che un ben povero lacerto della cosa; e la pretesa di ricostruire la nozione sulla base del preteso ‘fondamento’ sarebbe semplicemente aberrante. Non diversamente l’intellettualismo è capace di riportare la facoltà dell’intuizione attraverso le percezioni allo stato cavernicolo, in nome, magari, dell’ordine e del progresso illuminato61. Simili posizioni non possono storicamente giovare che a suscitare violente reazioni, che avranno gli esiti imprevedibili e grotteschi di tutte le reazioni. Lo spirito volterriano, almeno, è leale e divertente – ma qui è di metafisica, di logica e d’ontologia che si tratta. La cosa è seria – è gründlich. L’indimostrabilità di una nozione primaria d’ordine superiore nell’uso traslato del giudizio morale non la rende collezionabile in uno sterminato repertorio alfabetico, o 61   Qualcosa di simile costituisce il tema del fantasioso film Zardoz (John Boorman, Gb-USA 1973). Dopo una catastrofe che nel 2293 riduce l’umanità allo stato primitivo, unico reperto della civiltà libraria rimane soltanto la copertina del racconto per l’infanzia Il mago di Oz, di Lyman F. Baum. Essa è tuttavia lacerata in modo tale da rendere leggibile soltanto la parte destra delle due linee sovrapposte del titolo (The Wizard of Oz): così che il frammento presenta soltanto il misterioso nomignolo «ZardOz». Su simile venerabile testimonianza dell’esistenza di un mitico demiurgo s’innalza, in nome della conservazione della civiltà, un intero sistema di potere, una teologia terroristica, intorno alla quale fantasticheranno i futuri neo-cavernicoli (i quali però, non si sa come, sapranno ancora leggere). Vedi già p. 83 nota 76.

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stampabile su di una semplice tavola categoriale, come Kant qui riconosce, e poi vagheggia ingenuamente; bensì la inserisce in un circolo di rispecchiamenti, di rinvii, di reciproci significati e di mutue riducibilità, che al di là della matematica e della filosofia spalancano un terzo campo all’esercizio di una facoltà che non è mero distinto intelletto né mera distinta sensibilità, bensì facoltà sentimentale adeguata alla nozione, d’ordine altrettanto complesso. L’intero repertorio delle umane passioni può ridursi alle cinquecento parole del melodramma metastasiano – non sono molte, d’accordo; ma almeno quaranta dozzine di categorie sembrano rappresentare il corredo indispensabile per la ricostruibilità di un oggetto dotato d’un sia pur minimo interesse problematico. E sarebbe vano distinguere, fra esse, la sensibilità dall’intelletto, o (come anche si dirà poi) la poesia dalla non-poesia. Pur senza aver nulla di misterioso, l’esercizio di simile facoltà letteraria rimase sempre inaccessibile a Kant – il quale, del resto, non andava tanto spesso a teatro. Il valore conoscitivo primario della poesia gli fu anche negato, per l’uomo che era, nella forma involontaria del sogno. Con la dottrina degli schemi, nella prima Critica, egli andò in cerca di qualcosa di simile alle forme miste nell’unica maniera che poteva riuscirgli concepibile: quella di una natura intermedia, o mediatrice, o doppiamente partecipante, tra facoltà opposte. Ma un simile procedimento somiglia a quello di chi volesse partire dall’assunto che tutta la matematica si compone, in definitiva, soltanto di numeri pari o dispari; e andasse poi alla ricerca di uno speciale numero intermedio, partecipe di entrambi. E se ancora (vogliamo insistere?) io dicessi che una cosa è conoscibile soltanto nelle sue opposte dimensioni spaziali di destra e sinistra, di alto e basso, davanti e dietro, dentro e fuori; e se poi mi domandassi che cosa tiene uniti simili opposti, null’altro troverei che l’oggetto stesso. I cosiddetti schemi sono in realtà proposizioni logiche private della loro tipica evidenza sensibile originaria; e la dottrina degli schemi non può stare che in opposizione con la dottrina dei connotati reali che abbiamo sopra discussa. Il giudizio di ‘barbarie’, da storico che è (o che sembra essere: perché i giudizi di civiltà e di barbarie, che sono in definitiva i più generali e per così dire canonici in filosofia politica, sono sempre giudizi istintivi, estetico-antropologici, che sorgono spontaneamente ben prima che ci si faccia un dovere di giustificarli storicamente o logicamente); il giudizio di ‘barbarie’, insomma, nasce descrittivo, sulla base di una distinzione spaziale, e si fa poi morale; e acquista in tal modo una sua diversa autonomia, o indimostrabilità, che non costituisce più il fondamento per un giudizio del solo intelletto matematico o della sensibilità metafisica. Noi abbiamo la fortuna di sapere che opere capitali di storia della

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cultura, come quelle del Burckhardt e dello Huizinga (e come del resto, al tempo di Kant, già del Gibbon, del Muratori o Denina), sono state scritte senza minimamente curarsi di definire che cosa siano civiltà e barbarie, autunno, ascesa e caduta, antichità e rivoluzione62; dobbiamo poi aggiungere che tanto meno dimostrabili sono i giudizi morali traslati che ne derivano per applicazione a personalità immaginarie, come le nazioni: la civiltà del Rinascimento ‘in Italia’, per esempio, senza curarsi di specificare che cosa s’intenda per ‘Italia’. Cosicché noi assistiamo a un fenomeno paradossale: insieme con l’allungarsi della catena di specificazioni d’una nozione primaria, che la rende sempre più cosa data, indefinibile, univoca, cresce anche il suo smagliamento, che a ogni specificazione reclama invece, a più forte ragione, la definizione. Come si risolve questo paradosso? Senza veramente sapere di che si parla, noi c’intendiamo perfettamente per senso comune. Con la scarsa immaginazione che l’affligge, la tavola kantiana dei cosiddetti concetti fondamentali è in simili casi, dunque, semplicistica, quasi puerile – d’accordo. Ma non è che appena abbozzata. Eppure non possiamo credere ch’egli, benché ristretto nel suo piccolo mondo municipale, non potesse pensare alla giustificazione teorica di espressioni come, che so?, potere papale e chiesa invisibile; giustificazione per mezzo della grazia; riforma protestante e pietà evangelica; spirito dottrinario tridentino o luterano – e simili nozioni già date, tutte d’ordine superiore. Perché una cosa bisogna pur osservare: incapace, com’è, di portare avanti per suo conto il problema leibniziano della riducibilità delle nozioni, non solo Kant evita accuratamente, secondo il solito, di lavorare su degli esempi, e passa subito prudentemente a elencare il suo ristretto numero di nozioni semplici (quando non prende invece addirittura la strada diametralmente opposta, nella pagina conclusiva, e menziona come indimostrabile nientemeno che «il composito e confuso concetto del Bene»63: ossia nientemeno che la nozione delle nozioni – che è un altro modo per svignarsela); ma è ovviamente ancora più lontano dal porsi il problema delle nozioni composte (di quelle nozioni, cioè, che non implicano necessariamente contraddizione o incongruenza fra i loro elementi semplici, come avviene con le nozioni complesse). Se le nozioni di pietà e di spirito, per esempio, possono essere assunte come date in una miriade di riferimenti e di specificazioni, è vero che una sola loro specificazione mediante attributo (pietà ‘evangelica’, spirito ‘tridentino’) o mediante 62   Nella prefazione alle Rivoluzioni della Germania il Denina soltanto specifica essergli sembrato il termine «rivoluzioni», malgrado pareri contrari, non soltanto più preciso, ma anche più usato. Così anche questa sua sintesi a priori fu trovata, e prescelta come pienamente adeguata, nell’uso del senso comune. 63   Carabellese, p. 252.

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preposizione (giustificazione ‘per mezzo’ della grazia, e simili) le rende immediatamente univoche e non ulteriormente solubili o dimostrabili – se non (s’intende) per narrazione storica: la quale apre tutto un altro discorso, non più logico, su di un piano completamente diverso. Per quanto ulteriormente solubili se prese singolarmente, due nozioni affiancate e rese interdipendenti per forza d’uso comune sono sufficienti a rendere univoco e non ulteriormente solubile il significato logico della cosa. È ciò che accade in una miscela chimica. E tanto più forte si fa il significato intuitivo, naturalmente, quanto maggiore è il numero delle specificazioni atte a dar vita a una nozione. Sarebbe stato inutile, per esempio, chiedere al Burckhardt di dimostrare quel che aveva in mente quando parlò, senza darsi pensiero, di una civiltà del Rinascimento italiano: egli, piuttosto, non fece che l’unica cosa possibile: mostrare quel che aveva in mente; e altri non poté correggerlo, se non mostrando d’avere in mente dell’altro, o di avercelo in altro modo. Accingersi perciò a mostrare, non a dimostrare, è requisito preliminare per affrontare il problema di nozioni d’ordine superiore; e le varie discipline dell’evidenza, come la filologia, per esempio, vanno intese, in quest’ordine di problemi, secondo questo spirito. Ma ciò nient’altro significa che attribuire alla letteratura un valore ontologico, un potere costitutivo, e dunque politico, un significato come scelta d’una soluzione nei limiti finiti della forma. È pur vero che l’educazione pietista doveva avere insegnato a Kant a dissolvere intimamente le definizioni dottrinarie ortodosse delle nozioni religiose, ‘sentendole’; ma anche così nulla cambia, in realtà, se non il loro modo d’essere ‘date’. Per il modo come Kant si esprime, nell’intelletto metafisico avviene insomma qualcosa che assomiglia decisamente a ciò che avviene nella penombra del cuore. Sono parole sue, che in parte già conosciamo: In filosofia, dove il concetto della cosa che io debbo spiegare mi è dato, ciò che di esso viene percepito immediatamente, e sùbito, deve servire per un giudizio fondamentale indimostrabile. Infatti, visto che non ho ancora il concetto intero e chiaro della cosa, ma lo sto appunto cercando, esso non potrà mai dimostrarsi sulla scorta di quello stesso concetto, dato che anzi serve appunto a far nascere questa chiara conoscenza e questa definizione. Quindi dovrò essere in possesso di giudizi fondamentali primi, innanzi ancora di procedere alla spiegazione filosofica delle cose64.

Nello spazio di tre soli brevi periodi siamo passati, con piè leggero, dai concetti fondamentali (dati, o non dati, con i connotati) ai giudizi fondamentali   Ivi, pp. 229-230.

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primi, indimostrabili, precedenti le spiegazioni filosofiche. È già, questo, il nucleo imbozzolato della deduzione trascendentale, sebbene ancora vagamente allocato in un fondo sentimentale, che all’unità della conoscenza presuppone un’unità antropologica del conoscente. È lui stesso, nello spazio di poche pagine, a sbarazzarsi di questo ‘fondo’ (che poi ritornerà ad aggirarsi per la Critica col fantasma del Gemüth, naturalmente); e già nella Quarta Meditazione conclusiva apprendiamo d’una grande recente novità: «Solo nei nostri giorni, infatti, si è cominciato a capire che la facoltà di rappresentare il vero è la conoscenza, e la facoltà di sentire il bene è il sentimento, e che le due cose non vanno confuse in nessun caso»65. No, non vanno confuse – ma soprattutto perché Kant non ha ancora deciso quale delle due facoltà, nell’intimità del buio, debba dettar legge all’altra: «i difetti della filosofia pratica sono ancora maggiori di quelli della filosofia speculativa, visto che ancora si ha da stabilire se decida di questi primi princìpi la sola facoltà conoscitiva, ovvero il sentimento»66. Per governare un essere politico, com’è necessariamente ogni essere complesso, ci vuole una costituzione, dunque; e ci vuole un governatore. Uno sguardo generale a tutto il pensiero di Kant permette di descrivere facilmente questa sua incertezza: egli avrebbe preferito non scegliere – ma alla fine scelse l’intelletto. Sin dall’inizio dello scritto noi dovevamo tenere ben separata la matematica dalla filosofia, per non cadere nell’intellettualismo di chi in precedenza le aveva unite – anche se abbiamo confidenzialmente scoperto che sarebbe bello poter fare, o rifare, con la filosofia ciò che si fa con la matematica. Ma ora apprendiamo per giunta che una seconda unità tradizionalmente ammessa, e anzi assai celebrata, può essere altrettanto pericolosa: l’unità d’intelletto e di cuore; e che per fortuna qualcuno (adorabile modestia dell’anonimato!) è giunto di recente a metterci in guardia, anche se ancora non sa bene come cavarsela. Ironia a parte, simili indizi prosastici a me sembrano mostrare come Kant venisse via via scoprendo effettivamente un pensiero nel corso della scrittura, intesa proprio nel senso materiale della congruenza nel corso della stesura, nonché delle possibilità che vi si aprono con la sorveglianza della redazione manuale. E ciò, beninteso, è cosa assai comune, ed è anzi una delle principali risorse della creatività. Ma mi sembra altrettanto chiaro che l’origine di questa scrittura non sta in una vera e propria, solida e incrollabile, intimità di regìa o ferma opinione. Il supposto uomo dell’interiorità, così assorbito e disperso nell’assolvimento dei suoi uffici, non sembra affatto   Ivi, p. 251.   Ivi, p. 253.

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aver compiuto intimamente alcuna scelta ben risoluta verso alcuna direzione. E finirà per fare il contrario di quel che dice, portando in filosofia la tavola dei fattori primi della metafisica, dedotti dal giudizio indimostrabile. Ossia da nient’altro, che da un pregiudizio. Ora, poiché il riconoscimento della natura o del significato pregiudiziale del giudizio categoriale è inevitabile, oltre che innegabile, potrà sembrare che in fondo basti intendersi, e che qui non si tratti che di una questione di parole. Dopotutto, Kant non avrebbe fatto nient’altro che edificare la pesante dottrina della Critica su di un principio del senso comune, il quale di solito non distingue il giudizio dal pregiudizio; e avrebbe evitato di parlare di pregiudizio soltanto per evitare spinose complicazioni, che non avrebbe saputo come governare. C’è molto di vero, in questo, ma non è tutto e non è così semplice. Il pregiudizio non è semplicemente un giudizio distratto, abituale o indifferente: perché in esso si esprime anche una volontà di credere che va contro una volontà di conoscere. Esso sorge dunque da un conflitto di facoltà in un essere complesso non ancora dotato di costituzione, nel quale la facoltà più precoce e tempestiva, più libera e più estesa dell’intelletto, la volontà, impone la rimozione del dubbio in quanto essa è volontà di credere – ossia fede. Cartesio aveva trattato il problema nella quarta delle sue Meditazioni metafisiche, dove la volontà giungeva con tempestività fulminea a sbarazzare il campo dalle pastoie dell’intellettualismo, incapace di compiere una libera scelta fra indifferenti: «Questa indifferenza non si estende solamente alle cose di cui l’intelletto non ha nessuna conoscenza, ma generalmente anche a tutte quelle che esso non scopre con una perfetta chiarezza, nel momento [stesso] in cui la volontà ne delibera»67. Nel momento di massimo impaccio dell’intelletto, «la volontà ne delibera» – ne ha già deliberato, anzi. Un’attenta lettura di Cartesio ci porterebbe a notare che la natura logica della volontà, intesa come facoltà antropologica, si accompagna alla sua natura puramente intellettuale di derivazione divina; e che questa natura logico-antropologica della volontà di credere non sta nella disponibilità di Dio stesso. Essa costituisce dunque il fondamento del libero arbitrio: ossia di quel qualcosa che nei suoi scritti teologici Kant, muovendo da presupposti cosmologici, può permettersi tranquillamente d’ignorare. Ma un’attenta lettura di Cartesio è proprio ciò che qui purtroppo non ci possiamo permettere. 67   Adam – Tannery, ix, p. 59. Ciò non impedisce, ma anzi reclama, naturalmente, che nemmeno venti righe più sotto egli sancisca la corretta procedura: «perché la luce naturale c’insegna che la conoscenza dell’intelletto deve sempre precedere la determinazione della volontà». È la dottrina, questa; la quale ripristina le rassicuranti prerogative dell’intelletto sulla libera volontà; e casi come questo possono ben mostrare quanto vada perso di filosofia nelle dottrine.

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Nessuno vuole rimproverare a Kant d’avere letto poco o male Cartesio, naturalmente: si tratta soltanto di capire che cosa vada perso col parlare di giudizio senza accennare minimamente a ciò che in ogni giudizio sempre si nasconde come volontà di credere, ossia con una buona misura di pregiudizio. Ed è nientemeno che la responsabilità della libera scelta, ciò che vi si perde – ossia qualcosa ch’era già andato perduto fra Cartesio e Spinoza. È vero che in secoli di scienza meccanica il problema del libero arbitrio doveva aver perduta molta della sua ricorrente attrattiva per scienziati e filosofi; ma sembra anzi che esso interessi ancor meno i filosofi, che gli scienziati; e la dose d’automatismo animale della volontà che in Cartesio sempre incombe, o si risveglia nel giudizio, e che salda fra loro le sostanze estesa e inestesa assai meglio d’ogni ghiandola pineale, è cosa da nulla, a confronto del prossimo intellettualismo spinoziano: il quale non può veramente conoscere responsabilità alcuna, e parla della volontà in termini di amore – ossia di qualcosa che non può avere scelta alcuna, se non di promozione e d’intensità. Senza scelta alcuna, ma anche senza amore, sarà pure la morale kantiana del dovere categorico, nella quale risorge affannosamente una libertà ch’era stata abbandonata per via senza rimpianti, come ben si vede ne L’unico argomento: là dove s’era detto, per esempio, che «tutti i mutamenti che nel mondo sono necessari meccanicamente, e dunque per le leggi del moto, devono sempre essere buoni, perché necessari per natura» e non perfettibili; cosicché «anche l’esperienza concorda in questa dipendenza da una grande regola naturale persino delle più libere azioni»68. Ci sarà inevitabilmente del pànico nel risveglio dal placido sogno di questo paradiso terrestre già affidato alle mani di Dio, e trasformato per propria responsabilità, nello spazio d’una generazione, in un mondo affidato alle mani dei filosofi, dal quale la critica ha scacciato l’innocenza, e il problema del libero arbitrio non esiste più semplicemente perché l’arbitrio stesso è bandito. Ma da una morale allarmata dell’emergenza nello stile della seconda Critica le prossime filosofie romantiche della storia sapranno cavar via facilmente ogni ultimo residuo di responsabilità e d’inquietudine. E così l’intellettuale neokantiano potrà tornare a camminare a testa alta, sicuro d’avere sempre fatto il suo dovere nel ‘senso’ della storia. Così come, perciò, l’innesto della filosofia della ragione su di un moralismo francese segnerà il destino dottrinario dell’Ottocento, così l’innesto della filosofia della storia su di un moralismo tedesco segnerà invece il destino attivistico del Novecento.   Carabellese, pp. 153 e 155.

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le «quantità negative» La relazione che intercorre fra intelletto e sentimento o immaginazione non è diversa dalla relazione che lega o separa la matematica dalla filosofia: per sostituzione, per estensione, per surrogazione, per riduzione, per semiosi, per analogia o terminologia, per sofisma o per semplice logorrèa, o come ancora si vuole, il pericolo di sopraffazione intellettualistica del sentimento e dell’immaginazione è a ogni modo il medesimo. Nell’età moderna questa sopraffazione si propaga da una solida base cartesiana – la quale tuttavia, a differenza dell’intellettualismo kantiano, come una volta ho già detto, non ammette fondamento in postulati sensibili. Ma qui, nel campo morale della Quarta e ultima Meditazione della Teologia naturale, c’è anche tuttavia qualcosa di nuovo, di diverso che preoccupa Kant, sebbene egli non lo veda con chiarezza; e questo qualcosa non è intellettualismo, bensì ciò che chiamerei, piuttosto, ‘attivismo’. Per capire il vero significato del termine nella sua forma morale tedesca bisogna allontanarsi alquanto dalla sua epoca (che conobbe in verità l’attivismo, semmai, nella forma rivoluzionaria francese). Di un termine come Tätigkeitsdrang il Ritter, per esempio (dopo avere finalmente rinunciato a servirsi della nebulosa nozione di ‘demoniaco), si serve per descrivere la personalità di un uomo come Carl Goerdeler69. Dalla lettura della sua biografia si evince il significato di uno zelante, petulante sentimento tecnico e gerarchico del dovere, unito a una forte immaginazione e a una talvolta patetica ambizione – nonché, infine, anche all’istinto di sopravvivenza, che portò il presunto massimo rappresentante della resistenza anti-hitleriana a redigere programmi di transizione per i suoi stessi carcerieri, e in definitiva per Himmler. L’attivismo può essere bensì una forma di arido intellettualismo raziocinante, e teso ai fini secondo una pura logica di congruenza dei mezzi, così come (viceversa) un rinnegamento sentimentale dell’intelletto da parte di chi si affida semplicemente all’istinto – o entrambe le cose. L’esuberanza del sentimento e dell’immaginazione può essere altrettanto pericolosa quanto l’esuberanza dell’intelletto; e ammettiamo dunque che un termine come ‘attivismo’ possa descrivere un simile squilibrio costituzionale biunivoco quando sia fomentato dalla volontà, o dal semplice senso inflessibile del dovere. E non occorrerà dire, credo, che lo studio di una personalità afflitta da un simile squilibrio può offrire le evidenze sensibili della mentalità tipica di tutto quanto un ceto dirigente nazionale. Ma sebbene lontanamente 69   I cospiratori del 20 luglio 1944. Carl Goerdeler e l’opposizione antinazista, Einaudi, Torino 1960, p. 62. Enzo Collotti traduce: «istinto attivistico».

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collegato alla mentalità di questo gruppo dirigente attraverso la tradizione corporativa mai interrotta del funzionariato tedesco, o Beamtentum, l’oggetto del nostro studio, qui, resta pur sempre soltanto Kant. E resta qui fuori discussione anche il quesito inverso, di storia della cultura, circa il se e il come le idee di Kant non siano esse medesime, piuttosto, il riflesso di una diffusa mentalità di funzionari – ossia d’intellettuali che debbono tutto ciò che sono unicamente allo Stato: perché la discutibilità filologica d’un qualsiasi problema richiede il consapevole ricorso a un artificio prospettico, che consiste nel fingere di considerare le idee depositate nei libri con le parole come altrettante origini delle idee circolanti nella vita. È soltanto la loro positiva evidenza ad assegnare la precedenza alle idee nella trattazione dello studioso; ma non si deve dimenticare che l’evidenza testuale non può avere un valore costruttivo (se non modesto, per la sola storia degl’intellettuali), né tantomeno causale, bensì archeologico. E quanto poi allo studio della mentalità nazionale (ossia popolare) in genere, la quale spesso è soltanto un riflesso della mentalità o dello stile dei gruppi dirigenti (i quali svolgono effettivamente, in questo caso, una qualche azione causale); e quanto, insomma, all’automatismo che spinse la donnetta, già conoscente di Goerdeler, e che già ne aveva ricevuto dei benefici, a mettere la Gestapo sulle sue tracce per un istintivo senso del dovere dell’azione, piuttosto che dell’omissione; bene – quanto a questo, credo che si dovrebbe arrivare a portare l’indagine filologica fin sui banchi di scuola e sui catechismi delle aule parrocchiali. Ma non si può discutere ogni questione nazionale, e in particolare ogni questione tedesca, in quanto è tedesca, finendo sempre col parlare di Lutero – e magari d’Arminio. Ciò che accade dappertutto non è un problema per nessuno; e ciò che accade con qualche spiccato carattere diventa un problema esemplare per tutti, dal momento che ogni personalità rispecchia in vario modo tutte le altre. Ciò che a noi interessa, qui, è soltanto il fatto che come forma patologica specifica della moralità, o come moralismo dell’azione, questo attivismo pone un problema altrettanto specifico e uno specifico antidoto: il dovere dell’omissione. Sebbene non menzioni ciò che ho chiamato ‘attivismo’, ma intravedendo assai malamente (e per poco) il problema, è tuttavia proprio di un dovere di omissione che Kant giunge a parlare nel concludere la Teologia naturale: «Mi sono convinto che la regola: fai la cosa più perfetta che sia possibile per tuo mezzo, è il primo principio formale di ogni normatività di azione; così come la proposizione: ometti di fare ciò che per tuo mezzo è d’impedimento alla massima perfezione possibile, lo è nei riguardi del dovere

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di omissione»70. Questo brandello o rimasuglio di dottrina potrebbe dimostrare che Kant aveva orecchiato o leggiucchiato, per esempio, la quarta delle Meditazioni di Cartesio, dove questi dice che «ci si deve astenere dal formulare giudizi ogniqualvolta la verità della cosa non risulti trasparente»71. Ma là si trattava chiaramente di un dovere d’omissione per l’intelletto, non per la volontà; all’impulsività della quale, anzi, si può supporre che fossero da Cartesio riservati per legittima competenza i giudizi (ossia i pregiudizi) sulle «nozioni confuse ed oscure», del tutto liberi72. Che cosa intenda Kant con questo «dovere di omissione» appena accennato senza sviluppo alcuno, come un’idea di frettoloso imprestito, non è ben chiaro. Sembra chiaro soltanto che «omissione» è l’opposto di «azione». Ma azione di chi, e ‘opposto’ in che senso? Allo scopo forse di allegare alla Teologia naturale un’appendice di chiarimento Kant dedicò l’intero Tentativo d’introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative alla definizione del concetto di ‘opposizione reale’; e ne fece una nozione fisica, una vera e propria azione uguale e contraria, diversa dalla nozione matematica dell’annullamento in una somma algebrica a risultato zero. Non già un’astensione insomma, o negazione dell’azione, bensì un’azione d’identica natura, ma esercitata in direzione opposta. Già nella Teologia naturale, del resto, il «dovere» conferma e rafforza questo significato attivo dell’omissione come esercizio di un’effettiva opposizione. Così com’è formulato, dunque, esso parrebbe sancire un dovere di opporre resistenza, configurando un universo morale retto dall’equilibrio di due princìpi, che fungono da altrettante forze fisiche, secondo uno scopo generale di perfezione: l’agire e il co-agire d’un medesimo soggetto – e il risultato sarà. Ma quest’interpretazione non è del tutto convincente. Essa presuppone infatti, secondo l’aperto dettato della sentenza contenuta nella Teologia naturale, un’unica sorgente d’azione, vale a dire la medesima per l’azione come per l’opposizione. Ma il dettato aperto non è, in realtà, che apparente: perché a intendere meglio il riferimento all’uso dei mezzi si capisce che esso sottintende l’esistenza di due diversi soggetti, gerarchicamente ordinati. Mentre il primo precetto consiglia a qualcuno di rendersi mezzo, strumento o condizione   Carabellese, p. 251.   Adam – Tannery, ix, p. 62. Oltre alla regola che qui impone di agire soltanto per proprio mezzo (e dunque vieta di servirsi d’alcuno ai propri scopi), anche l’altra futura regola pratica della seconda Critica, che impone di dare all’azione scopi universali, è di origine cartesiana; e prende spunto precisamente dalla Parte Sesta del Discorso sul metodo, là dove si parla di «quella legge che ci impone, per quanto è in noi, di procurare il bene generale di tutta l’umanità» (Adam – Tannery, vi, p. 62). 72   Adam – Tannery, ix, p. 62. 70 71

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d’una sua propria azione di perfezione, il secondo gli vieta di rendersi mezzo d’impedimento a una qualsiasi azione di perfezione, di qualsivoglia origine. Il primo precetto nasconde certamente un’ovvietà; ma quest’ovvietà diventa senz’altro palese, con l’aggravante della ripetizione, qualora nel secondo precetto si ammettesse che la sorgente dell’azione rimanga la medesima: e Kant direbbe insomma a qualcuno d’agire perfettivamente per mezzo di se stesso, e poi di non ostacolare per giunta questa sua propria azione, esercitata per suo proprio mezzo. No – il significato vero non può essere questo; e l’ambiguità del secondo precetto è nascosta nella parola «mezzo»: la quale vale in tedesco, come in italiano, tanto per significare ‘strumento’ che per significare ‘medium’73. Col secondo precetto Kant invita insomma a non ostacolare, a non frapporsi, a non resistere ad alcuna azione altrui vòlta al conseguimento d’uno scopo di perfezione. Comanda insomma, diciamo un po’ alla spiccia, di togliersi di mezzo: di non opporre resistenza al potere illuminato. Questo dovere d’omissione, che alla luce delle considerazioni poi svolte nelle Quantità negative si potrebbe interpretare come comando di esercitare un’azione reale opposta, ossia un’effettiva opposizione, o almeno un’attiva resistenza, può essere dunque altrettanto bene interpretata come un comando di astenersi dall’azione; e se quest’astensione vuol essere anch’essa un’azione, com’è sempre in qualche modo implicito nel senso del «dovere» di astenersi, nient’altro significa quest’omissione che l’esercizio di una vera e propria collaborazione. È infatti proprio questo che Kant afferma al capo terzo delle Quantità negative: «ché infatti la questione è proprio questa: in che modo ci si possa astenere dal compiere un’azione che avviene realmente: in che modo, cioè, essa possa cessare di essere»74. Prima di dedicare al concetto d’opposizione reale l’intera trattazione delle Quantità negative, sul finire della Teologia naturale Kant non menziona che 73   È alla luce di questo duplice significato del termine che va dunque rettamente intesa, per esempio, la celebre formula clausewitziana della guerra come proseguimento della politica con altri ‘mezzi’. Il Trattato sulla guerra, e più ancora i resoconti storici delle grandi campagne, sviluppano una vasta ricerca sulle oggettive possibilità e resistenze del ‘mezzo’ militare di cui la politica si serve, nonché sui limiti dei più vari strumenti di cui l’azione militare medesima si serve come ‘mezzi’ tattici. Sotto la Restaurazione Clausewitz andò soprattutto in cerca di un’intrinseca o circostanziale ragione di moderazione dell’azione bellica, indipendente dai sempre possibili intellettualismi, per loro natura logicamente estremi, della politica. Una volta impadronitesi delle masse, le geometrie ideologiche della politica nazionale erano venute a costituire un pericolo ben più minaccioso della non meno politica prudenza dei governi assolutisti, che l’aveva indignato in gioventù. La soluzione del problema per lui andava trovata non già nella ‘politica’, dunque, dove gli studiosi cercano di solito la sua grandezza, bensì proprio nella natura dei ‘mezzi’ studiati dallo scrittore militare ch’egli fu, effettivamente. La sua fortuna aforistica, che ne fece l’involontario mediatore del militaristico rovesciamento della formula a fine secolo (‘la politica è proseguimento della guerra’), non è neppure lontanamente paragonabile alla sua sfortuna come scrittore militare. 74   Carabellese, p. 283.

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fuggevolmente il dovere d’omissione in un contesto prettamente morale, non fisico o metafisico. Della logica empirica dell’opposizione reale esso avrebbe potuto costituire il tempestivo presupposto morale: il quale avrebbe saldato l’equilibrio energetico dell’universo fisico alla corrispondente armonia d’azioni e reazioni responsabili uguali e contrarie. Ma è proprio questa, evidentemente, la possibilità che Kant cominciò a intravvedere, e che lo preoccupava. Anziché attraverso il mezzo opaco e neutro del mondo, anziché attraverso la chiesa visibile della natura in quiete, la differenza di potenziale accumulata alle estremità opposte in Dio e nell’anima, così cara all’ispirazione pietistica, si sarebbe non già flemmatizzata e arricchita, bensì scaricata attraverso un conduttore omogeneo, un moltiplicatore energetico carico d’infinite polarità: l’avversione ch’è un desiderio negativo, l’amore un odio negativo, la bruttezza una bellezza negativa, il biasimo una lode negativa, il male un bene negativo, il togliere un dare negativo, l’errore una verità negativa, la confutazione una dimostrazione negativa75. È un universo inquieto, non in quiete, che si viene in tal modo scoprendo, dove per giunta non si capisce bene dove risieda, con gli opposti, la loro unità: non vi sarà forse, con tanti opposti reali, anche un altrettale numero dimezzato d’individui o di personalità? Kant è ben lontano dal saper concepire degli esseri complessi, ossia delle viventi contraddizioni, e lo sarà sempre: l’unico suo caso di soluzione d’un conflitto interiore si riduce, come s’è visto, alla somma algebrica dei punteggi della carità e del vizio nella parabola degli avari76. È vero che assegnando alla conoscenza, con la prima Critica, una duplice radice sensibile e intellettiva, egli sarà poi costretto a trovare una soluzione al problema della relazione tra facoltà reali opposte; ma sarà, per l’appunto, sempre e soltanto una soluzione gnoseologica di nessun conflitto, che varrà quello che vale, e che non diventerà mai vera e propria costituzione di un soggetto inteso come essere complesso, ossia riconosciuto come ‘soggetto’, innanzitutto, a un conflitto con se stesso. Nel concludere la Teologia naturale egli lasciò momentaneamente cadere un discorso morale che nelle Quantità negative si apre con larghezza sul piano fisico e metafisico, ma che sul piano dei precetti pratici si presenta già pieno di pericolose incognite. Kant non rinunciò a dare al secondo dei suoi precetti, concernente il dovere d’omissione, una formulazione reticente, buona forse per il suddito come per il ribelle, ma sostanzialmente disciplinare. Senza   Ivi, pp. 274-275.   Ivi, pp. 295. La madre spartana, invece, non è che un semplice bersaglio di forze opposte (ivi, pp. 272-273). Ho già menzionato i due esempi nell’Analisi Tematica, alle note 51 e 66. 75 76

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Ii. Analisi cronologica   245

un’adeguata attenzione questo magro accenno finale della Teologia naturale resterebbe alquanto trascurato, ma acquista il suo rilievo soltanto alla luce della trattazione successiva, la quale potrebbe anche lasciare sperare ben diversi sviluppi. *** Con un’attivizzazione generale e una polarizzazione estrema delle forze fisiche e morali dell’universo (che corrisponde assai bene all’immaginosa sensibilità pietista) qualcosa certamente si guadagna nel concepire la realtà degli opposti com’è descritta nelle Quantità negative – ma qualcosa, anche, si perde: e si perde, quanto meno, il senso dello zero come neutralità, come equilibrio e come centro. Lo zero, per Kant, è un risultato nullo, nel senso che la nullità è un qualcosa di assente o d’inesistente. Come l’esistenza di Dio, anche l’inesistenza dello zero non conosce che un unico argomento. Sebbene ci si possa attendere che lo svolgimento della sua trattazione si discosti dallo zero come semplice risultato di un’operazione aritmetica e di una contraddizione puramente logica; sebbene ci si possa attendere che essa tenda a evidenziare, per esempio, l’effettiva esistenza dello zero concependolo come una qualche terza grandezza fra gli opposti reali (come sarebbe, per esempio, la solida unità di un magnete; e non manca qualche vago accenno in tal senso); pure l’attenzione di Kant è continuamente e irresistibilmente ricondotta verso una concezione dello zero, e della neutralità, dell’equilibrio, del centro, concepiti come altrettanti termini di annullamento nel quale ogni esistenza svanisce. Impegnandosi a distinguere le contrapposte forze reali, fisiche e morali, dalle astratte grandezze matematiche, e riconoscendole come delle effettive realtà coesistenti, sebbene opposte, Kant continua tuttavia a confondere lo stato di quiete fisico e l’annullamento metafisico con lo zero matematico. Dove ci si attenderebbe l’apertura di una logica reale tripartita, insomma, continua a sussistere una logica puramente bipartita, fortemente instabile. Perché parificare il risultato zero dell’operazione algebrica fra grandezze identiche di segno opposto, che è nulla, con l’esito del concorso di due azioni uguali e contrarie in fisica e nella morale, che è invece qualcosa? Nei suoi bizzarri calcoli di opposti fattori morali Kant usa anche grandezze diverse d’identica natura, e in tutti i casi il risultato dell’azione e della passione è sempre positivo. In generale però, quando il discorso non si giova di moraleggianti e zoppicanti esempi concreti, non è così. Generalizzando, l’entità delle grandezze opposte per Kant diventa sempre la medesima: cosicché il risultato,

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com’è di preferenza lo zero in aritmetica, così è l’annullamento o l’equilibrio delle forze in fisica; e questo stato d’equilibrio si confonde nel suo pensiero con l’annullamento, e perciò di nuovo con lo zero aritmetico. È lui stesso ad affermarlo con una duplice sentenza, quando enuncia solennemente le leggi d’equilibrio e d’annullamento delle forze dell’universo. Esse recitano, pressappoco, l’una: «in tutti i mutamenti naturali che avvengono nel mondo, la somma... non aumenta né diminuisce»; e l’altra: le somme di «tutte le cause reali dell’universo... danno un risultato che equivale a zero»77. Ma no, evidentemente: esse danno un risultato che equivale piuttosto all’universo stesso! Più avanti dovremo ritornare a esaminare meglio queste formule; ma ora occorre dire dell’altro. Benché il calcolo algebrico delle passioni morali presenti, negli esempi di Kant, un risultato che è sempre positivo, se le due leggi fisiche e metafisiche anzidette sono vere è evidente che nessuna gioia di madre, nessuna carità vittoriosa sul vizio può alterare il risultato della somma delle gioie e delle virtù nel mondo. Perché agire dunque in un senso o nell’altro, o perché, viceversa, farsi un preciso dovere dell’omissione, nelle piccole vicende di questa terra? La rassegnazione oppure l’attivismo sono le naturali conseguenze delle due leggi. Azione e omissione servono allo scopo, forse, di conservare un equilibrio costante e sempre precario del mondo, oppure, viceversa, per gettare se stessi nella fornace di un’addizione a somma zero. Che questa somma sia rappresentata da una costante oppure da uno zero non è certo indifferente; ma noi vedremo meglio che Kant, come ho già detto, vuole identificare le due cose. Ma perché agire, dunque, se non per il dovere puro, categorico, dell’azione o dell’omissione? È una teoria del dovere puro che già s’intuisce dietro queste formule. Rileggendo le due massime contenute nella conclusione della Teologia naturale ci si accorge che la parola «dovere» si associa proprio a «omissione», piuttosto che ad «azione». Quest’ultima è soggetta a una generica «normatività» che può anche essere semplicemente ipotetica o finale o condizionale o strumentale. L’omissione no: essa è vero e proprio «dovere» senz’altro, il dovere di farsi tramite e mezzo senza frapporsi, come solido medium d’ostacolo, all’esaurimento di una differenza di potenziale. Ora, passando dalla Teologia naturale alle Quantità negative, e dalla morale pratica alla fisica, dove finisce mai questo dovere? Dopo avere sancita in qualche modo nelle prime tre Meditazioni della Teologia naturale l’autonomia della filosofia e della metafisica rispetto alla matematica (che è, in definitiva, autonomia dell’intuizione dell’oggetto rispetto alla sua definizione; e che   Ivi, pp. 288 e 291.

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potrebbe ancora diventare, ma non diventerà, autonomia della sensibilità rispetto all’intelletto), con questo conclusivo «dovere di omissione» della Quarta Meditazione si comincia a sospettare il bisogno, per Kant, di rendere la morale a sua volta autonoma rispetto alla fisica; e s’intravede pure il carattere già dogmatico, imperativo di tale speciale autonomia pratica. Il dovere, qui, non è un fantasma. A profilarsi come un fantasma, semmai, è l’impercettibile secondo attore della seconda norma pratica, l’azione del quale è dovere omettere d’ostacolare. E non mi pare dubbio che si presenti qui, dietro le quinte o sopra il sipario logico e linguistico, la Ragione sovrana della futura Critica. Essa non ha ancora un nome, non è che un misterioso demiurgo malamente indovinabile, ma ci deve pur essere, affinché la resa alla volontà sovrana di un Dio lontano dell’universo possa prendere pratica forma nell’ottemperanza ai comandi del dio vicino dei regi decreti. Il dovere di omissione come vuoto dovere d’ottemperanza serve a scongiurare il pericolo del disordine universale: il quale conseguirebbe alla teoria dell’opposizione reale con la stessa necessità con cui l’annullamento a zero consegue alla contraddizione logica. L’attivizzazione dell’universo in una miriade di polarità reali e opposte ricorda la decisa propugnazione nelle Forze vive degl’influssi corporei sulle anime allo scopo «di rendere compiuto il trionfo dell’influsso fisico sull’armonia prestabilita»78; e lascia già indovinare quel tumulto delle molte ragioni passionali che la letteratura sarebbe venuta rappresentando di lì a pochi anni. La prima redazione del Götz von Berlichingen è del ’71; ma già nel ’69, coi Complici, Goethe faceva dire a qualcuno: A vivere non serve l’essere tanto prode: si fa strada nel mondo anche con furto e frode. Armato di pistola uno tenta la sortita per prendervi il danaro, e forse anche la vita. E grida: Qua la borsa! Qua! Senza farvi pregare! Così, a sangue freddo, quasi a voler brindare. L’altro s’aggira lesto, e con magica mano vi sottrae l’orologio come fulmine a ciel sereno; e se voi l’acciuffate lui vi grida sul muso: Io rubo, state attento! Lui ruba: il caso è chiuso.

Ora, con la vita del vecchio Sacro Impero di Nazione Tedesca, e con la vicenda del suo Götz, al disordine della vita cittadina presente il giovane Goe  Forze vive, § 6.

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the seppe trovare un fondale vagamente cosmico nel passato storico nazionale – vale a dire: seppe trovare una qualche ragione generale, finita e discutibile, in una forma e in una legittimazione, o almeno in una plausibilità estetica; una Ragione d’ordine superiore, appunto, che per Götz von Berlichingen prende forma nell’idea dell’Impero e nel rapporto immediato del cavaliere col sovrano. E lo spirito sturmiano giunse persino a rasentare la non-giudicabilità morale dell’azione spontanea, così che questa Ragione superiore del mondo così com’è fatto non ebbe nulla di moralistico. Kant non ha un problema diverso – ma non lo affronta da poeta. Già nel Profilo Logico dell’Analisi Tematica abbiamo letto le parole del § 10 delle Forze vive79. La ricerca di una forma generale teorica, non mai sensibile, di una Legge, insomma, che serva a fronteggiare l’incombente disordine delle molte ragioni passionali opposte come altrettante leggi, diventerà il suo futuro compito critico. In questa fase essa non si mostra ancora alla sua portata – anzi: nel capo terzo delle Quantità negative egli è persino costretto a riconoscere apertamente che «è proprio in questo conflitto di cause reali opposte che consiste in gran parte la perfezione del mondo in genere»!80 E per quanto riguarda la non-giudicabilità delle azioni spontanee, ritengo ch’egli pure abbia forse rasentato simile passeggera tentazione con gli scapigliati paradossi dinamici della Nuova dottrina del moto e della quiete: nei quali non è sempre chiaro se egli voglia davvero ripudiare la relativizzazione d’ogni moto attraverso il cambio dei sistemi di riferimento, o se invece la cerchi. Se dunque con la dottrina dell’opposizione reale81 si profilava un serio pericolo di legittimazione teorica del disordine generale, non si capisce perché, già 79   Le riporto di nuovo, per comodità del lettore: «Siccome il tipo di Legge secondo cui le sostanze interagiscono deve determinare anche il modo dell’associazione e della composizione di molte di esse, allora la Legge, secondo la quale viene misurata un’intera raccolta di sostanze... deriverà dalle leggi secondo cui le sostanze cercano di riunirsi in virtù delle loro forze essenziali». Se qui non viene semplicemente sancita la promozione del disordine a Legge, ma anche qualcos’altro, questo qualcos’altro non può essere che un’ottimistica legge dell’equilibrio delle specie in natura, secondo l’immaginoso stile vegetale settecentesco, oppure secondo lo scientifico stile zoologico preferito poi dall’Ottocento. Un’altra possibilità, di tipo geometrico e meccanico, può essere rappresentata dall’idea che nella Legge universale si riuniscano le molte leggi sostanziali come altrettante componenti vettoriali su di una risultante. L’importanza di simili passi non va sottovalutata: la concezione cosmologico-politica che v’è implicita costituisce lo sfondo ideologico delle dottrine anarchiche, oppure di quelle liberali – nonché, persino, della teoria marxiana dell’estinzione dello Stato, che in qualche modo ne dipende. Ciò nulla toglie alla debolezza dell’enunciato kantiano, naturalmente, della quale mi sono già occupato. 80   Carabellese, p. 293. 81   Di questa dottrina, o abbozzo di dottrina, contenuto nelle Quantità negative non voglio occuparmi, né lo ritengo necessario nell’ottica di uno studio come questo, che non è di storia delle dottrine. Una sua esposizione (che sarebbe, in realtà, una faticosa ricostruzione per virtuosismi congetturali) ci costringerebbe a seguire Kant in tutto il suo destreggiarsi malamente tra fisica e morale: come là, per esempio, dove definisce omissione l’azione effettiva e non meritoria che nell’avaro serve a contrastare il sentimento

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Ii. Analisi cronologica   249

nel sancire sul finire della Teologia naturale il dovere di non ostacolare l’opera d’un demiurgo, Kant, questo demiurgo, l’abbia poi tenuto così bene nascosto. Ma la guerra dei Sette Anni era appena finita, e Federico aveva da poco impegnato il suo voto per l’elezione imperiale di Giuseppe II. Di lì a pochi anni Goethe non metterà in scena soltanto un Götz, con la sua idea dell’Impero, ma anche un Weislingen, con la sua idea del Principato territoriale. È certamente possibile che nel 1764 la sensibilità politica di Kant fosse ancora così scarsa, esitante o ritrosa da non menzionare nella sua vaga formula del dovere d’omissione alcuno dei due possibili demiurghi perfettori, ai quali liberare la via: il Principe o l’Imperatore. E gli esempi che raccoglie nelle Quantità negative procedono tutti, come sappiamo, soltanto dalle leggi «positive» del cuore e del sentimento morale. Il fatto è che nelle Quantità negative i sentimenti di Kant verso il mondo che lo circonda sembrano alquanto diversi dai sentimenti espressi ne L’unico argomento. Essi sono decisamente opposti a quelli, sebbene altrettanto chiari. Senza un demiurgo vicino non c’è perfezione (ossia perfezionamento) possibile – a rischio di abbandonarsi, se no, semplicemente al Demiurgo lontano dello spinozismo; ma egli non sa ancora bene chi possa essere questo demiurgo vicino. E l’unica autorità visibile è per lui, a quanto sembra, l’autorità accademica. Dopo L’unico argomento è ormai un dio vicino, un dio pratico, ch’egli cerca; e se questi non è l’Imperatore e non è il Principe, non si vede ancora chi possa essere, se non una fantomatica Ragione superiore – che verrà con la prima Critica. Ma la figura di questa Ragione va pure definita, almeno sotto il profilo teorico, ed evidentemente non lo è ancora (né, poi, lo sarà mai). Una superiore Ragione sovrana, come vedremo nei due capitoli della Parte spontaneo della carità, sconosciuto all’animale. Ciò gli permette di designare col termine di «privazione» (Beraubung) un’opposizione reale come azione moralmente giudicabile, e come «assenza» (Mangel) una non-azione moralmente non giudicabile (ivi, p. 275). Così la natura dell’azione, e anzi la sua stessa sussistenza, nell’opposizione reale viene a dipendere da un giudizio morale; e in un’azione moralmente giudicabile l’opposizione reale diventa omissione nel significato di attiva resistenza all’opera di perfezione. Il «dovere d’omissione» perfettiva della Teologia naturale non si sa dove vada a finire – se non, per l’appunto, in una dottrina moralistica del puro e semplice dovere per il dovere, e non dell’opposizione o dell’omissione. E se il caso qui prescelto per illustrare la debolezza di una dottrina dovesse sembrare troppo complicato, mi basterà richiamare l’attenzione sul capo primo delle Quantità negative: là dove Kant elenca, dopo l’enunciato della regola fondamentale per il riconoscimento dell’opposizione reale, anche i suoi princìpi dimostrativi (ivi, p. 268). Dice l’enunciato che perché vi sia opposizione reale tra due cose, in quanto sono cause positive, l’una deve annullare le conseguenze dell’altra. L’enunciato della formula è corretto, perché se vi fosse annullamento non delle conseguenze, bensì delle cause stesse, si avrebbe invece una contraddizione logica. Ma bisognerebbe dirlo, mi pare. Quanto ai princìpi dimostrativi, che secondo Kant sono quattro, essi andrebbero ridotti a tre, dal momento che il terzo («una determinazione non può mai negare qualcosa di diverso da ciò che è posto dall’altra») non è che una riformulazione del primo («le determinazioni contrastanti fra loro debbono trovarsi nello stesso soggetto»).

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Seconda di questo studio, giungerà effettivamente con la Critica a ricoprire l’indispensabile ruolo logico di questo fantomatico personaggio del dramma speculativo kantiano. Ma qui, nella formula della Teologia naturale, esso non s’affaccia ancora; e il motivo della reticenza consiste semplicemente, io credo, in un’idiosincrasia, in una situazione di disagio personale: in considerazione del fatto che la Ragione sovrana non può essere ancora nient’altro che l’universale concreto e prossimo della corporazione degl’intellettuali accademici; e che verso questa corporazione i giudizi di Kant suonano, nelle Quantità negative, assai diversi dai pressoché contemporanei giudizi di umile sudditanza contenuti ne L’unico argomento. Al di sotto di una personalità così striminzita, come la sua, fatta domestica e quasi proverbiale dalla bonaria tradizione delle nostre aule, si rivela perciò l’esistenza, in realtà, di un temperamento fortemente umorale. Non è raro, del resto, che le due cose si accompagnino. Basta leggere. I metafisici, nella loro boriosa arroganza, non vogliono imparare nulla dalla matematica. Soltanto rinunciando alla loro pretesa acutezza e dotta scempiaggine essi potrebbero stabilire filosoficamente la natura di un concetto, la cui esattezza è già garantita dalla matematica; e non è perciò di simili giudici che Kant dichiara d’andare in cerca, bensì di uomini d’intelligente buonsenso (allgemeine Einsicht). Nelle sue spiegazioni egli è costretto a dilungarsi, dice, perché esiste tutta una categoria di lettori assi poco accessibili a ogni insegnamento, i quali passano tutta la loro vita in compagnia di un solo libro, e non capiscono nient’altro che quello. Egli si rende conto che il suo tentativo è assai incompleto, ma del resto non intende nemmeno strombazzarlo ai quattro venti, raccomandandosi a gente che chiede in garanzia un tono borioso e dogmatico. Poiché sembra che il numero dei filosofi profondi vada aumentando ogni giorno, egli si augura sarcasticamente che l’altissima saggezza di tanti spiriti magni gli giunga presto in soccorso, per colmare le lacune della sua intelligenza. E a loro sono dedicate persino le sue ultime parole, che suonano in verità alquanto curiose: Kant promette di riuscire a esporre più compiutamente, un giorno, i risultati delle sue meditazioni sui nostri giudizi concernenti cause ed effetti; vedano nel frattempo coloro, la cui intelligenza non conosce limiti, fino a che punto si possono spingere da sé82. Il sarcasmo delle ultime parole è curioso, non soltanto perché la modestia vi si mescola malamente all’orgoglio di un traguardo ch’egli confessa di non avere ancora raggiunto, ma anche perché la teoria della distinzione fra matematica e metafisica contenuta nella Teologia naturale corrisponde davvero   Ivi, rispettivamente pp. 260, 262, 277, 282, 297, 299.

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Ii. Analisi cronologica   251

malamente, in senso addirittura inverso, ai termini teorici delle Quantità negative. Il rapporto tra una causa reale e il suo effetto, annuncia Kant in quest’ultimo scritto, non si può esprimere mediante un giudizio, bensì mediante un concetto, «il quale si può senz’altro [den man wohl] ricondurre per suddivisione a concetti più semplici di cause reali: cosicché [so doch] alla fine tutte le nostre conoscenze di questo rapporto terminano nei concetti semplici e non più divisibili delle cause reali, i cui rapporti con l’effetto non possono più esser chiariti»83. Ora, la suddivisibilità puramente logica del concetto astratto è teoricamente illimitata, e risale nientemeno che al principio d’identità. Se il concetto, però, come concetto di causa reale e di rapporto reale, è concetto anch’esso reale, allora la sua riducibilità non è illimitata fino all’identità logica, ma si arresta in concetti più semplici come in altrettanti fattori primi; e i concetti più semplici ai quali esso è riducibile sono essi stessi, rispetto al concetto reale, altra cosa (vale a dire che non ne dipendono, ma sono liberamente già dati). Kant chiama qui concetti semplici e non più divisibili, in realtà, quegli elementi tipici della matematica che nella Teologia naturale ha già chiamato «definizioni»; e non curandosi più di distinguere la metafisica dalla matematica, scambia il concetto col giudizio – negando comunque il giudizio. Ma il rapporto reale tra una causa reale e il suo effetto reale è un rapporto, come già sappiamo, metafisico di spiegazione, esplicazione, dispiegamento o chiarimento di una nozione intuitiva d’ordine superiore, che è data in filosofia, a differenza che nella matematica, proprio come giudizio, e non come concetto. Kant sembra essere qui decisamente regredito, o sembra non essere del tutto lucidamente padrone del suo pensiero. Egli scarica dunque sui sapienti altezzosi una frustrazione polemica dovuta, almeno in parte, anche alla consapevolezza d’una sua personale impotenza teorica. Ma proprio in un momento come questo ecco presentarsi, diversamente dal solito, una piccola piacevole sorpresa, col ricorso a un’immagine (che, non a caso, non è un esempio) finalmente azzeccata: «Secondo i miei concetti invece la causa reale non è mai una causa logica, e la pioggia non viene posta dal vento in conformità al principio d’identità. La suddivisione... tra opposizione logica e [opposizione] reale è parallela a questa fra causa logica e causa reale»84. È evidente ch’egli ragiona nei consueti termini del dualismo e parallelismo cartesiano fra sostan83   Ho ritradotto il passo perché, inserendo un concessivo «pur» e un avversativo «tuttavia» nei luoghi evidenziati in corsivo tra parentesi quadre, la traduzione del Carabellese trasforma una semplice ripetizione in una catastrofica tautologia. 84   Ivi, pp. 298-299.

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ze, che vorrebbe provarsi a rilanciare; è evidente che non sa concepire altra ragione d’azione diversa dalla causa sull’effetto; è evidente che le nozioni di pioggia e di vento sono in qualche modo liberamente già date, e che una loro suddivisione non consentirebbe mai di passare, oltre che a un’unica comune sostanza logica (come dice), nemmeno dall’una all’altra (e questo non lo dice: ma sarebbe stata una preziosa obiezione da muovere ai leibniziani – ai quali, d’altra parte, sarebbe stato facile rispondere con una teoria graduale della condensazione). Ma intanto, con la pioggia, Kant sceglie almeno l’immagine giusta: ossia quella di una nozione composta, analizzabile per spiegazione, infinitamente suddivisibile fino ai suoi elementi primi, i quali non sono mai in alcun modo definiti, come in matematica, bensì già dati anch’essi per intuizione, come in metafisica. Non è gran che, come immagine: perché la nozione composta della pioggia si può formare agevolmente per semplice aggregazione di elementi identici (e la fisica molecolare non poteva ancora fornire al filosofo le sue analogie intuitive). Ma intanto qui, come altrove (con la colomba della Critica, per esempio), si vede come Kant riesca meglio a rendere il ‘senso’ del suo ragionamento mediante il rapido ricorso a immagini e a similitudini di sapore letterario, piuttosto che con la costruzione dei suoi malaugurati esempi. Si tratta tuttavia di una nozione composta, non complessa (nella quale cioè alla composizione di elementi semplici si accompagna la contraddizione). Kant non ignorò affatto l’esistenza di esseri complessi, soggetti a un conflitto con se stessi, e delle relative nozioni; ma non fu mai in grado di concepirli come tali, e cercò sempre in tutti i modi di ridurli a esseri composti, non ammettendo mai la contraddizione quale sorgente di vita. In ciò, del resto, egli fu né più né meno che all’altezza del suo secolo. *** Con la teoria dell’opposizione reale la percezione del ‘senso’ del mondo non sembra offrire a Kant gli auspici più ottimistici per un equilibrio e per un’armonia universali. Alla matematizzazione dell’universo dei leibniziani egli sembra replicare con una semplice aritmetica, nella quale la contraddizione logica è descritta in modo tale che il mondo, matematizzato, semplicemente si annulla. Per lui lo zero non ha, e non avrà mai, alcun altro significato che il risultato d’una somma algebrica, o d’un prodotto decimale, o di un’operazione contabile – mai quello, per esempio, di un limite o di un’illimitata approssimazione. Dell’infinitamente piccolo è prudente non giudicare, dice

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nella prefazione alle Quantità negative, perché «non se ne capisce ancora abbastanza»85. Richiamando l’attenzione sull’opposizione reale, e affiancandola o anche sostituendola alla contraddizione logica, egli non dispone tuttavia ancora di alcuna forma immaginosa idonea a descrivere l’insieme; e questo insieme può ben essere dunque il puro e semplice disordine attivistico di un illimitato numero d’individualità scisse su di un equilibrio polare sussistente in esse medesime. Ma per Kant quest’equilibrio è tensivo e (come dice) «potenziale», concentrato cioè nelle estremità opposte e rivolto verso l’esterno; perché in quanto sono rivolte verso l’interno, o verso il solido centro individuale, o l’una verso l’altra insomma, le forze opposte per lui semplicemente si annullano in un’opposizione ch’egli chiama «attuale»86. La ‘attualità’ di una cosa consiste dunque nel suo annullamento istantaneo, mentre la sua potenza rappresenta una costante minaccia per il tutto. È lo strano magnetismo, il suo, di un universo assai violento, simile a una nuvola di gas compressi, nel quale il centro non esiste, e la circonferenza passa per gli estremi in fuga di una continua espansione. Non esiste in lui alcuna apprezzabile intuizione, né tantomeno teoria, di personalità coerentemente, stabilmente viventi nell’unità raccolta e finita di un’intima contraddizione che valga come forma di vita; e le sue monadi fisiche conoscono relazioni reciproche ben diverse da un pacifico rispecchiamento contemplativo, imitativo e musicale: la lotta inesausta di tutti contro tutti, e l’abbandono del tutto al caso. Non l’intuizione della fisica gravitazionale, bensì l’intuizione della fisica molecolare dei gas presiede a queste elucubrazioni. Che lo Sturm und Drang sia nato prima in filosofia che in letteratura? Ma la filosofia è nient’altro che letteratura! Sono le sue facoltà sensibili superiori che in questo compito sintetico dell’immaginazione vengono messe alla prova; e nulla mostra meglio, a mio giudizio, quanto poco profondamente egli avesse assimilata la lezione newtoniana, ch’egli aveva in qualche modo sovrapposta al pregiudizio antileibniziano: perché precisamente con un poco d’immaginazione e d’ardimento gli sarebbe già stata messa lì, a portata di mano per virtù d’analogia, la possibilità di descrivere le relazioni morali e sociali nei termini metaforici dell’equilibrio gravitazionale, anziché secondo la fisica polare e molecolare degli estremi opposti, o secondo l’ancora più vecchia idea del meccanicismo causale. Era stato Leibniz, invece, a sapersene giovare. Né Kant ebbe mai alcuna percezione, ch’io sappia, dell’incipiente diffondersi nella pubblicistica della sua epoca dei suggestivi sviluppi della metaforica vegetale applicata alla società, all’antropologia   Ivi, p. 260.   Ivi, p. 287.

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e alla storia – così che un certa mancanza d’immaginazione si accompagnava in lui anche a una qualche inattualità o intempestività di pensiero. Nessuno, del resto, ha mai sostenuto il contrario, mi sembra; e di veramente attuale e tempestivo egli conobbe soltanto il quotidiano appuntamento igienico coi suoi concittadini. Il punto non è questo. Il fatto è che il ricorso alla facoltà dell’immaginazione richiedeva, innanzitutto, l’ammissibilità dei relativi strumenti operativi, come l’imitazione, la similitudine, l’analogia, insomma la retorica, con l’iconografia, e simili. E poi, soprattutto, bisogna notare che la mancanza d’immaginazione conobbe in Kant, oltre al difetto e anzi al ripudio più o meno istintivo della sensibilità iconografica, anche una radice logica nettamente regressiva; e regredire nient’altro significa, nel suo caso, che ricadere in un intellettualismo aritmetico – con l’aggravante, per giunta, di non avere mai saputo intendere né praticare un grande intellettualismo matematico. Vediamo dunque per ordine i due aspetti. Quanto all’immaginazione che serve per dare forma all’universo mondo, e quanto ai suoi strumenti sensibili, nella Teologia naturale Kant viene ripetendo, con qualcun altro, che nulla è stato più dannoso della metodica «imitazione» della matematica in filosofia, dove l’imitazione non può «mai» servire; ma aggiunge che la sua «applicazione», invece, può tornare alla filosofia d’immensa utilità87. Questo giudizio costituisce, del pari, l’esordio delle Quantità negative – le quali trattano invece, a ben vedere, proprio della possibilità d’introdurre in filosofia il concetto matematico delle quantità negative non già, come Kant vorrebbe, per via di un’impossibile ‘applicazione’, bensì proprio per ‘imitazione’. Pochi equivoci terminologici, più di questo, hanno nuociuto all’orientamento generale del suo pensiero; e Kant sembra essere proceduto nella sua ricerca senza conoscerne con sicurezza il ‘senso’, anche terminologico, preciso; e anzi secondo una frequente tendenza all’inversione e allo scambio delle proposizioni disgiuntive, che gli è caratteristica, e che è sintomo del suo manierismo teorico. Riflettendo appena un poco sulla sua sentenza circa l’applicabilità e la non imitabilità in filosofia della matematica, si capisce presto che si tratta, innanzitutto, di un evidente sproposito sotto il semplice profilo logico. L’applicazione presuppone la continuità, o almeno contiguità, delle discipline; l’imitazione, invece, la discontinuità. Se qualcosa non si può immediatamente utilizzare ai propri scopi, si potrà forse in qualche modo imitare, almeno, con un’osservazione a distanza e mediante un’applicazione analogica: l’effetto dell’esposizio87   Ivi, p. 232. L’applicazione della matematica in filosofia servirebbe a una misteriosa «conoscenza delle grandezze», che non trova poi alcun chiarimento o ruolo teorico nella trattazione.

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ne al calore solare di un panno umido, per esempio, mediante la sua esposizione o contatto con altra fonte di calore. A Kant sembra invece vero il contrario. Ma non si può nemmeno dire che l’applicazione, se è possibile, escluda affatto l’imitazione. Considerando i termini nel loro significato più generale noi non possiamo, per esempio, applicare ai nostri scopi l’artiglio dei felini, e ogni sorta d’ingegnoso strumento col quale la natura ha dotato ogni specie a propria difesa, ma possiamo senz’altro imitarlo dove serve. Anche considerando la matematica senza relazione con la filosofia, non esiste alcuna possibilità di applicarne i teoremi senza imitazione, vale a dire senza un modello che cerchi nell’applicazione la sua conferma. E considerando invece la matematica in relazione con la filosofia, l’imitazione-applicazione è precisamente l’arte ch’egli tenta e pratica da un capo all’altro di questo scritto, a dispetto d’ogni sua distinzione programmatica. In un punto egli stesso riconosce, del resto, che l’applicazione delle proposizioni matematiche in filosofia può avvenire «in senso proprio, ovvero soltanto per mezzo di una qualche analogia»88. Sarà uno dei tormenti della futura Critica: imitazione, applicazione, analogia sono forme di pensiero modulari che in varie guise, e a partire da modelli e schemi già dati, costituiranno poi alcuni degl’ingredienti indispensabili del suo manierismo critico. Anziché spigolare nel testo le numerose testimonianze, mi basterà invitare il lettore a rileggere, questa volta per intero, le due proposizioni che racchiudono solennemente la sua sintesi formale dell’universo. «La prima proposizione è questa. In tutti i mutamenti naturali che avvengono nel mondo la somma di ciò che è positivo, calcolandola in modo da addizionare le posizioni concordanti [einstimmige] (non opposte) e da sottrarre tra loro [von einander] quelle in opposizione reale, non aumenta né diminuisce»89. Si tratta di una formula assai sibillina, come facilmente si capisce, tratta da un armamentario «già dimostrato e accettato da lungo tempo»90, alla quale Kant non sa aggiungere la minima dose di chiarezza – col dirci, per esempio, che cosa mai siano, almeno secondo lui, le einstimmige misteriose vires corporum in easdem partes; o se eas quae vergunt in contrarias neutralizzino von einander l’opposizione reale eventualmente sussistente entro esse stesse, oppure sussistente fra esse, reciprocamente. Egli traduce di peso una vecchia sentenza, e ci lavora poi sopra (aggiungendo incertezza terminologica di suo, bisogna dire, col fare delle vires altrettante più misteriose Positionen). Ma insomma: non vi sono soltanto opposizioni reali nel mondo, dice Kant; e poiché   Ivi, p. 295.   Ivi, p. 288. 90   Ivi, p. 289. 88 89

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queste comunque si annullano (in se stesse, o fra loro), rimane quel resto, positivo e costante, delle vaghe entità che tendono nella medesima direzione (né Kant vuole fare lo sforzo di supporre, almeno, l’esistenza di un resto di altrettante entità, orientate concordemente nella direzione opposta). Il mondo insomma, gli sembra di capire, è pieno di qualcosa; e la misura di questo qualcosa rimane in ogni caso costante. Il maligno vorrebbe domandare: secondo temperatura e pressione, forse? – ma sarebbe crudele. «La seconda proposizione è la seguente. Tutte le cause reali dell’universo, se si sommano quelle che concordano e si sottraggono quelle che sono opposte fra loro, danno un risultato che equivale a zero». Manca qualcosa, in questa formula: perché fuori di essa noi subito apprendiamo che «la totalità del mondo in se stessa è nulla [ist an sich selbst Nichts], se non nella misura in cui è qualcosa per la volontà di un altro Qualcosa [außer in so fern es durch den Willen eines andern Etwas ist]»91. Questa sentenza, che a differenza della prima non conosce l’equivalente latino sancito dalla tradizione dimostrata e accettata, sembra rappresentare il contributo personale recato alla teoria da Kant medesimo; il quale non vuole appositamente inserire nella formula chiusa del suo universo chiuso la volontà di Dio, perché in tal modo essa verrebbe immediatamente a identificarsi con quel resto positivo di vaghe entità, tutte orientate nella medesima direzione, di cui la prima proposizione suggerisce l’esistenza. E questo sarebbe, però, attivismo spinoziano di perpetua natura naturans. Dio va dunque tenuto fuori dall’universo, come pure dalla sua definizione energetica. Ammettere un resto positivo interno senza ammettere anche un equivalente resto negativo, d’altra parte, rende le due proposizioni evidentemente incompatibili fra loro: perché il risultato sia uguale a zero, secondo il dettato della seconda legge, bisogna che esista infatti un resto energetico negativo, identico al resto positivo che è stato sancito nella prima – ma conciliare le due proposizioni in questo modo significherebbe fare nientemeno che del materialismo! Tenendone fuori Dio, però, si rischia di fare del mondo un sistema energetico in equilibrio che, se è qualcosa, può ben sussistere anche senza Dio. Bisogna dunque che il mondo sia qualcosa, anche per Dio, ma nulla senza Dio – e però senza farcelo entrare: «l’esistenza di ciò che nel mondo è fondato [was in ihr gegründet ist] risulta, in sé, uguale a zero. Perciò la somma di ciò che esiste nel mondo nei riguardi di quella causa che è al di fuori è positiva, mentre nei riguardi delle cause reali interne, considerate fra loro, è uguale a zero»92. Il mondo è insomma nulla senza Dio, che ne costituisce la polarità opposta ed   Ivi, p. 291.   Ibidem.

91 92

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esterna. Si capisce, finalmente, a che cosa tendesse la sua inquieta potenza gassosa, e il significato della nullità del suo centro interno. Il dualismo pietistico non poteva trovare una strada più arida e complicata per esprimersi in una cosmologia metafisica decisamente estremistica e assai poco seducente, del tutto spogliata di tutta la sensibilità del suo credo. L’età migliore del pietismo, del resto, era da un pezzo passata. A noi non resta che notare il significato di nullità di quel «essere fondato nel mondo» (in der Welt gegründet sein) senza Dio, tanto diverso dal futuro significato del fondamento critico. *** Come l’anno precedente con la Quarta Meditazione della Teologia naturale, Kant non poteva concludere il Capo Terzo delle Quantità negative senza domandarsi dove si sarebbe andati a finire con l’anima. Le sue due proposizioni vogliono dire, in buona sostanza, che il mondo è qualcosa con Dio fuori di esso, e nulla con Lui dentro. Tutti gli sforzi della sua immaginazione seppero dunque per il momento descrivere l’unità dell’universo governato dai princìpi dell’opposizione reale nient’altro che mediante le nozioni formali di ‘interno’ e di ‘esterno’. E, se no, di ‘nulla’. Questo nulla, per Kant, è fatto uguale a un familiare, rassicurante zero aritmetico. Veniamo così a parlare del suo regresso logico: che nell’impossibilità di forgiare, divinare, captare, imitare o comunque accedere a nuove forme immaginative, corrispondenti alla nuova logica dell’opposizione reale, lo vede costretto a praticare le forme aritmetiche proprie della testé ripudiata logica della contraddizione. Anziché avviarsi fin d’ora, risolutamente, in cerca di forme dell’intuizione sui sentieri ancora sconosciuti della sensibilità, dopo averli aperti egli torna a praticare le vie più sicure dell’intelletto. E con la Critica, poi, non farà diversamente. Bisogna dire che si nota come nelle Quantità negative Kant abbia ormai abbandonato la fastidiosa insolenza disorientante delle esemplificazioni contenute nella Nuova dottrina di cinque anni innanzi; e la ragione è evidente: là egli aveva ragionato (o finto di ragionare) ancora nei termini della pura contraddizione logica. Sebbene con le Quantità negative egli sacrifichi completamente il calcolo vettoriale, e descriva esperienze che si basano tutte soltanto su forze diametralmente convergenti oppure opposte (così che i vettori fisici o morali, comunque orientati, giacciono entrambi sulla medesima retta); a dispetto di questa ricorrente semplificazione, dunque, non si può tuttavia negare ch’egli sembra avere finalmente trovato nell’universo un punto di riferimento, comune alla miriade dei suoi abitatori (ciò che gli sfuggiva ancora nel

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descrivere, per esempio, la migrazione cosmica del sistema solare verso altre costellazioni e galassie). La sua attenzione si concentra ormai sugl’individui; e ciascuno di questi individui reali sembra dotato in qualche modo di una forma d’equilibrio, a tutti comune. Ora, come ho detto, troppo spesso questa forma d’equilibrio individuale assume l’aspetto della convergenza, ossia dell’opposizione «attuale» (com’egli dice), nell’annullamento; e però sempre l’annullamento finisce per assumere il significato di uno zero aritmetico. Che ne sarà, dunque, del centro di consistenza dei singoli individui concepito come un terzo reale o immaginario fra due opposti? E che ne sarà del significato teorico del momento della neutralità o della sosta? Sotto un profilo di filosofia politica il problema è, alla lontana, di capitale importanza: perché noi, ormai, sappiamo che per ben due volte nel XX secolo i disegni d’egemonia tedeschi sono naufragati scontrandosi, sul piano diplomatico e militare, non già coi diretti avversari, bensì proprio contro l’attiva opposizione di potenze neutrali. Sotto un profilo teorico recuperato a ritroso dalla filosofia politica, dunque, non si può negare al luogo e al momento della neutralità tutte le caratteristiche della potenza. Che ciò non curando si possano, nondimeno, elaborare intere dottrine politiche dal piglio (diciamo così) assai baldanzoso, basate sul solo presupposto logico del rapporto attivistico fra amico e nemico, con esclusione dei momenti della neutralità e della potenza, dimostra soltanto che il problema kantiano è in realtà semplicemente un vecchio problema di mentalità tedesca – oltre che d’infantilismo teorico di tanti studiosi. Anche in questo caso ci basterà leggere per discutere. La conseguenza della contraddizione logica è un nihil negativum; la conseguenza di uno stato di opposizione reale è un nihil privativum. Lo stato di quiete, per esempio, non è un nulla, bensì un qualcosa: perché generato da un’opposizione vera fra due forze uguali e contrarie. Perciò la conseguenza è nulla, ma in un significato diverso rispetto alla contraddizione; e a questo punto Kant prosegue senz’altro: «d’ora in poi chiameremo zero = 0 questo nulla, e il suo significato equivale a quello di negazione (negatio), mancanza, assenza, termini già usati in filosofia [ossia presi a prestito dalla consueta terminologia della contraddizione logica]». Allo stesso modo, spiega, chi si trovasse a essere contemporaneamente debitore e creditore per l’identica cifra di cento talleri dovrebbe, secondo lui, «non ricevere né dare denaro alcuno» (ma a patto, aggiungo io, che sia la medesima anche la persona del debitore e del creditore: è uno dei suoi soliti disgraziati esempi!). In questi due casi reali noi abbiamo dunque un «nulla relativo», che d’ora innanzi verrà rappresentato mediante la cifra zero. Ora, con una sconcertante confusione di termini Kant spiega che «nell’annullamento

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per contraddizione [logica] invece c’è il nulla assoluto. Perciò il nihil negativum [ossia questo nulla assoluto, puramente logico] non si può esprimere mediante lo zero = 0 [come s’è convenzionalmente appena stabilito per il nulla relativo, o nihil privativum, preso a prestito dall’uso tradizionale e ‘applicato’, come vuole lui, all’opposizione reale], poiché questo [nulla puramente negativo] non contiene una contraddizione», bensì, spiega Kant, una pura e semplice impossibilità, o inconcepibilità93. Vale a dire insomma, se abbiamo capito bene: il nulla assoluto, logico, puramente negativo e algebrico non conterrebbe (contrariamente alla nostra aspettativa) una contraddizione puramente logica – ossia non conterrebbe quella forma di opposizione non-reale che «è la sola di cui si sia tenuto conto finora», e che Kant si propone di completare. E poiché s’è appena stabilito che la cifra matematica 0 (contrariamente a ogni aspettativa, dopo gli ammonimenti sulla pericolosità delle imitazioni filosofiche della matematica!) verrà assunta come rappresentazione non già del nulla assoluto o logico o matematico (come pure sarebbe stato logico attendersi), bensì assunta, viceversa, come rappresentazione del nulla relativo o fisico o privativo della quiete, o dei cento talleri dovuti e contemporaneamente riscossi; ecco che noi non possiamo evidentemente servirci della cifra 0 per rappresentare un nulla, che «non» contiene una «contraddizione». A rigor di logica, veramente, Kant avrà voluto dire piuttosto: ‘non contiene un’opposizione reale’; e così il discorso potrebbe anche filare, per quanto discutibile ne sia il simbolo convenzionale prescelto: quello dello zero; il quale troverebbe, a ogni buon conto, le sue appropriate corrispondenze terminologiche. Ma così non è. Non è questo che Kant dice; e dice invece proprio che lo zero non si addice al nulla logico perché, a differenza del nulla fisico, esso «non» contiene la «contraddizione». La psicanalisi, credo, potrebbe aiutarci a dissipare un notevole sconcerto – magari con uno di quegli studi, per esempio, che Sebastiano Timpanaro dedicò al lapsus freudiano94. Ma il lapsus kantiano non è involontario, non è innocente: è maldestro, piuttosto; è goffo, tuttalpiù. Se qui vi fosse un semplice scambio di termini fra ‘contraddizione’ e ‘opposizione’, la sua non sarebbe che una semplice distrazione; e sulle ragioni inconsce della distrazione la psicanalisi potrebbe anche fare, poi, il suo lavoro. E se anche tutto dipendesse semplicemente dalla mediocrità della sua immaginazione, incapace di trovare per uno stato di quiete, dinamica o contabile, una   Ivi, pp. 263-264.   Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974. Esaminerò più avanti un altro lapsus contenuto nel Primo fondamento. 93 94

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qualche rappresentazione terminologica originale, foggiata allo scopo, senza ricorrere a un prestito simbolico aritmetico già vecchio, e veicolo per giunta d’equivoco per inversione, non saremmo neppure a mezza verità: perché ne mancherebbe ancora la parte più importante, in quanto Kant aggiunge ai termini del discorso (come ho accennato in fondo al passo citato) anche l’impossibilità o inconcepibilità della cosa. Le ultime due righe del capoverso, subito dopo le parole già lette, dicono infatti, a mo’ di spiegazione: «È concepibile che un certo moto non sia, ma che esso sia e non sia allo stesso tempo è inconcepibile». Il principio di contraddizione sarebbe dunque, secondo Kant, la ragione per cui il nulla assoluto, che è pura contraddizione, non si può rappresentare mediante il simbolo prescelto per rappresentare l’opposizione: perché esso non contiene una contraddizione! Lasciamo andare il significato delle singole parole, e badiamo all’insieme del discorso. Il fatto è che simile evocazione finale, a sorpresa, del principio di contraddizione, presentato come ragione d’impossibilità logica o d’impensabilità di una cosa, non ha nulla a che vedere con la contraddizione logica intesa come somma algebrica, o contraddizione assoluta di cui qui si sta trattando. Un’operazione matematica a risultato zero, qualunque essa sia, è sempre possibile, è sempre pensabile – anzi: è proprio la matematica il regno di questo ‘sempre possibile’. Con simile ultima precisazione è dunque poco plausibile supporre che Kant sia incorso in uno scambio accidentale fra i termini ‘contraddizione’ e ‘opposizione’, dal momento che mostra di volere precisare proprio il significato del termine «contraddizione», del quale s’è appena servito. Perché quest’ultima aggiunta a sorpresa, così ridondante? Forse per ricordare al lettore di che consiste, in generale, una contraddizione: c’è sicuramente una dose di zelante goffaggine, nella precisazione estemporanea, non necessaria e non richiesta. Ma non credo neppure ch’essa sia estemporanea. La sua ragione principale è probabilmente un’altra, ma ugualmente psicologica: e consiste in un bisogno di giustificazione, che si accompagna con un maldestro scambio dell’oggetto bisognoso di giustificazione. Kant dovrebbe, in verità, giustificare la sua scelta dello zero, ossia del simbolo del risultato di un’operazione matematica, per esprimere il risultato di una dinamica nient’affatto matematica, la quale non andrebbe scambiata con la matematica, la quale ha una logica del tutto diversa dalla matematica – e nella quale però si devono, secondo lui, ‘applicare’ le proposizioni della matematica come a un oggetto della filosofia, senza tuttavia ‘imitarle’. Il suo metodo è incerto, l’imbarazzo è grande, e si percepisce in ogni pagina, mentre quest’oggetto d’applicazione, in verità, è ben meschino:

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non è l’anima, né la giustizia, né il mondo, bensì una nave che naviga coi venti e le correnti, o il portafoglio di un commerciante. A descrivere il loro stato di quiete può ben adattarsi il punto del navigatore o il saldo finale del contabile (fin dapprincipio Kant viene trascinato in basso dalla qualità dei suoi esempi95), ma la fonte formalizzata d’un possibile equivoco, una volta aperta, va pure rimossa – e Kant si affretta a rimuoverla sul versante sbagliato del discorso: non dalla parte, cioè, dell’incongrua assunzione terminologica convenzionale dello zero per indicare l’opposizione, bensì dalla parte della contraddizione logica. La quale è stata dapprima malamente utilizzata con un poco plausibile imprestito simbolico, in mancanza di nuove risorse espressive che indichino il nulla reale del rapporto d’opposizione; e viene infine sacrificata nel suo specifico significato matematico, sempre possibile, a favore di un generico significato logico, sempre impossibile. Quello di Kant è vizio incipiente di maniera per arte di scambio, d’inversione, di superfetazione. Ed è anche l’effetto più o meno involontario dell’abitudine di rasentare cognizioni non sue, secondo un percorso alquanto poligonale, aggiungendo di suo, per il momento, ancora ben poco. Dell’inversione, o convertibilità, fra il nulla e lo zero offre una prova evidente il confronto tra i due enunciati fondamentali della opposizione reale. La prima regola recita: «La repugnanza reale ha luogo soltanto in quanto fra due cose, in quanto cause positive, l’una annulla le conseguenze dell’altra». E la seconda, «che in fondo è soltanto l’inverso della prima», è questa: «ovunque, pur essendovi una [!] causa positiva, la conseguenza [?] è zero, si ha opposizione reale; e cioè questa causa è unita a un’altra causa positiva, che è la negativa della prima»96. Kant vorrà dire, semmai, che quest’unica causa apparente ‘presuppone necessariamente l’esistenza’ di un’altra causa, d’identica natura, la quale ‘va considerata’ opposta. La terminologia matematica di positivo e negativo andrebbe evitata, come possibile fonte di equivoci; ma questa è proprio la cosa che sembra preoccuparlo meno, impegnato com’è nelle sue ‘applicazioni’. La solennità degli enunciati contrasta singolarmente col disordine del loro dettato. Ma, insomma, ciò che conta è, come m’ero proposto di mostrare, la convertibilità fra i termini di ‘nulla’ e di ‘zero’, rispettivamente fisico-metafisico e matematico. Kant non dispone di risorse intuitive adeguate per descrivere l’esistenza reale, sensibile, di un qualcosa; e in mancanza di tali risorse il centro, il punto d’equilibrio, la zona neutra, il raccoglimento, la potenza come 95   I casi dell’annullamento o dello zero nei più nobili conflitti di coscienza verranno soltanto dopo, al Capo Secondo (per esempio: Carabellese, p. 275). 96   Ivi, pp. 268, 270.

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intima e intatta risorsa d’ogni possibile qualcosa sono per lui, in definitiva, zero e nulla; gli estremi reali opposti e attivi, invece, sono tutto. E il Tutto è qualcosa con quel qualcosa che è Dio, che deve starne fuori; è Nulla, invece, senza il Suo essere nulla. L’attivizzazione dinamica dell’universo fisico che nei suoi scritti inizia con le Forze vive approda qui, vent’anni dopo, a una violenta semplificazione teologica, carica d’ogni possibile esito. le «osservazioni», i «sogni» Dobbiamo a questo punto domandarci, io credo, se e come valga la pena di continuare. Noi disponiamo ormai di buona parte dei criteri pregiudiziali che ci possono consentire di procedere a una rapida discussione degli scritti successivi, alquanto più noti dei precedenti, nonché, poi, alla diretta lettura della Critica in termini non didascalici, né ingenui o meramente ossequiosi. Tornare a leggere le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime dopo una minuta analisi della (chiamiamola così) trilogia mediocritica è come uscire all’aperto in una bella mattina di sole dopo una notte di nebbia o di pioggia. Non che manchi qualche ultima nuvola, o qualche nebbia di nuovo incipiente all’orizzonte. Ecco, per esempio, la nuvola: «È cosa insopportabile poter fare del male, anche non volendo, perché persino l’omissione del male in tal caso è sempre una virtù assai ambigua»97. Kant sta discutendo circa l’opportunità di esprimere un giudizio sul contegno di donnine alquanto riluttanti (diciamo così) a imitare la sorte virtuosa di Lucrezia. Questo giudizio non richiesto, e su faccende private che non ci riguardano, non potrebbe che nuocere alle interessate. Basterebbe dunque ometterlo. Ma è lui che non può omettere di domandarsi, in modo alquanto nebuloso, se in certi casi l’omissione d’un giudizio indiscreto, ma sincero, non equivalga a una menzogna. Qualcuno dovrà pur dire che sono delle cortigiane, insomma: dove se ne andrebbe la verità, se no? Un’eco del dovere d’omissione sancito nelle due massime della Teologia naturale ritorna qui a farsi udire, non senza una buona dose di quel medesimo imbarazzo reticente. Molière aveva rappresentato il quesito nel Misantropo facendone un caso d’indole personale, prima ancora che di coscienza morale o di disciplina dei costumi – ma Kant, lo sappiamo, non andava tanto spesso a teatro; e col sancire la categoricità del dovere per il dovere nella Critica della ragion pratica troverà il suo modo per tagliare il nodo di ogni pratica difficoltà. Ma non è che   Ivi, p. 336.

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un’illusione disciplinare: perché le due massime di contegno pratico della seconda Critica (che sono poi ciò che conta davvero) non troverebbero in questo caso alcuna possibilità d’applicazione – anzi: una smentita, semmai. La prima (‘agisci in modo da essere d’esempio a tutti’) è smentita dal fatto che circa l’opportunità di giudicare un contegno moralmente sconveniente egli non sa indicare, né ora né mai, alcuna massima di valore universale; e ciò dipende dal semplice fatto che, in quanto universale, essa rappresenta la pura e semplice negazione d’ogni considerazione d’opportunità. D’altra parte è evidente che la formulazione d’un giudizio non richiesto trasformerebbe il prossimo non già nello scopo, bensì nello strumento dei nostri fini moralistici o pedagogici; e così resta impotente anche la seconda massima (‘agisci in modo da fare del prossimo un tuo fine, e mai un tuo mezzo’). Il dovere d’omissione nega insomma l’indispensabilità del giudizio, e non si accorda con la pura moralità – ma questo è come dire che uno sviluppo in dottrina del dovere d’omissione avrebbe minato nientemeno che i due rispettivi capisaldi della prima e della seconda Critica (centralità del giudizio e dovere categorico); simile dottrina avrebbe semplicemente fatto del Kant precritico un Kant anticritico – un altro Kant, per noi neppure immaginabile. E l’unico modo, invece, per riuscire a immaginarcelo, è dare l’interpretazione che ho già esposta più sopra: la quale fa del dovere d’omissione un dovere di collaborazione, per lo più passiva, per lo più non resistenziale, con l’iniziativa dell’autorità (in quanto il dovere è un’omissione); e a certe condizioni, però, ne fa anche un dovere di collaborazione attiva (in quanto un dovere è pur sempre un dovere). E dopo la nuvola, come ho detto, ecco la nebbia, proprio sull’orizzonte delle ultime parole di congedo, in un periodo chilometrico nel quale si affastellano via via le cose più diverse: Finalmente, dopo che il genio umano, in seguito ad una sorte di palingenesi fortunata, si è di nuovo sollevato da una distruzione quasi totale [nella quale sarebbe stato gettato dalle frascherie scolastiche diffuse nel mondo da quelle schiere oziose di diligenti perdigiorno che sono i monaci], noi vediamo ai nostri giorni il retto gusto di quel ch’è bello e nobile rifiorire così nelle arti e nelle scienze come nella moralità, né più ci rimane da desiderare altro, se non che il luccichìo fittizio, che così facilmente inganna, non ci allontani impercettibilmente dalla nobile semplicità; ma, soprattutto, che il non ancora scoperto segreto dell’educazione venga strappato all’antico errore, perché sia per tempo tramutato in abitudine il sentimento morale che alberga in petto ad ogni giovane [?] cittadino della terra, perché ogni finezza non si esaurisca solo [!] nel piacere fuggitivo ed ozioso di giudicare con più o meno gusto quello che avviene intorno a noi98.   Ivi, p. 361.

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264   parte prima. avanti «la critica»

Fin dal primo capoverso del primo capitolo Kant aveva cominciato col prometterci di voler guardare alle cose di questo mondo con occhio «più da osservatore che da filosofo»99. Qui, con le sue ultime parole, apprendiamo ch’egli s’è preso uno svago, e che però l’intervallo è finito. Sebbene il giudicare con retto e semplice gusto cose nobili e belle vada considerato una decisiva conquista per l’umanità, che l’avrebbe sottratta alla barbarie oziosa dell’intellettualismo scolastico (vale a dire: dell’intellettualismo accademico; secondo, del resto, il medesimo giudizio di ‘barbarie’ intellettualistica consegnato a entrambe le prefazioni alla prima Critica); ciò malgrado noi non possiamo credere che i nostri compiti si esauriscano «solo» nel coltivare oziosamente gli effimeri territori che con le Osservazioni si sono or ora spalancati dietro questo traguardo. Non appena varcatolo, bisognerà pure tornare al lavoro, insomma. Per il momento ci si potrà amenamente intrattenere su di una sensibilità dell’anima dotata di «capacità e privilegi intellettuali» adeguati, sì, ma neppure eccessivi; e perciò «toccare soltanto i sentimenti di cui sono capaci anche le anime più comuni»: perché un sentire intellettuale come quello di cui era capace un Keplero, per esempio, è troppo raffinato per rientrare nel disegno100. Si ode qui risuonare una nota che costituisce una delle caratteristiche più ricorrenti del pensiero e della personalità di Kant (dopo, almeno, i baldanzosi esordi delle Forze vive): la tonalità minore, diciamo così, il volgersi a valle, l’istinto d’imboccare il ramo discendente dei percorsi più adatti per della gente comune. Le cime, dopo averle guardate per quel poco che basta (e anche, talvolta, che non basta), gli appaiono sempre troppo alte, lontane, ed egli non le considera che come dei punti d’orientamento. Gli sembra di vivere, non a torto, in un’epoca in cui cose già tanto più grandi si vengono a riassumere in dottrine pratiche, in cui gli enunciati degli spiriti magni si vengono a condensare in sentenze e in assunti. Ed egli si dedica a trattarli con la sua abilità combinatoria e stilistica, con quell’alacrità minuziosa e opprimente, un po’ caliosa e talvolta pasticciona, dell’orologiaio il quale, però, infine sacrifica sempre, persino nello stile prosastico, la precisione del meccanismo interno al senso di rotazione delle lancette: il quale, in definitiva, è l’unica cosa che conta. Qualcosa dell’occhialaio Spinoza era anche in lui – ma senza la filologia; qualcosa del teologo Leibniz era anche in lui – ma senza l’ingegneria. A contemplare le stelle bastano gli occhi, per poi discorrerne col cuore, come del resto hanno sempre fatto tutti i poeti – compresi, specialmente, i poeti senza talento.   Ivi, p. 305.   Ivi, p. 306.

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Ii. Analisi cronologica   265

Sensibilità e sentimenti hanno dunque conosciuto delle eccellenti forme d’esercizio, alle quali non è affatto rimasto estraneo il contributo dell’intelletto. Di che forma di collaborazione si tratta? Kant è consapevole della possibilità di realizzare un’unità delle diverse facoltà conoscitive, strette insieme in alto, al vertice, in un unico nodo, il quale potrebbe anche fare da principio di legittimazione e regolazione di un modello di costrutto antropologico. È un’idea, questa della saldatura delle facoltà, che nella Critica tornerà effettivamente a circolare, sebbene non nella forma aerea della conquista della sintesi letteraria, verso la quale intelletto sentimento sensibilità convergono da origini separate e ignare o ribelli l’una all’altra; bensì nella forma sotterranea e (forse) umorale della radice: così che nella Critica una supposta unità antropologica della conoscenza è sporadicamente ammessa soltanto nei sottosuoli, o nei vaghi territori preliminari della coscienza. *** Parlando di una saldatura delle facoltà ‘aerea’, o ‘al vertice’, intendo riferirmi (tanto per capirsi) alla ben nota immagine, contenuta nella VII lettera di Platone, della verità che dopo una lunga dimestichezza con gli studi «brilla improvvisa nell’anima, come la fiamma dalla scintilla, e di se stessa in séguito si nutre»101. L’illustre tradizione di questa dottrina dell’accensione per lunga consuetudine, alla quale tutto l’essere e tutte le facoltà dello studioso finiscono per contribuire, prende massimo sviluppo nella mistica medievale, e riprende poi forza in età moderna, per esempio, con l’amore per la poesia di Cartesio e con l’entusiasmo dello Shaftesbury. Le parole di Platone trovano anzi in Cartesio una qualche casuale corrispondenza in una sua lettera, nella quale egli afferma che «proprio indugiando abbastanza a lungo su questa meditazione si acquisisce poco a poco una conoscenza assai chiara, e oserei dire intuitiva, della natura intellettuale in generale»; e non manca poi d’insistere sul diu terenda est et repetenda nella ricerca della verità102. A simile posizione di origine classica si affianca in età moderna una posizione diversa, di marca specialmente tedesca, e fortemente improntata dal  341 d (Adorno).   Lettera a Silhon oppure a Delaunay da Leida, marzo 1637 (Adam – Tannery i, p. 353); a Mersenne, 28 gennaio 1641 (ivi, vii, p. 131). Dico che la corrispondenza platonica è casuale perché nelle sue obbiezioni alle Meditazioni Caterus non riuscì a spiegarsi l’ostinazione di Cartesio nel voler concepire Dio in modo chiaro e distinto, rinunciando a giovarsi proprio della via del pensiero chiaro, prolungato e confuso che pure era già stata indicata da un’illustre tradizione (Damasceno, Boezio, Tommaso). Ma è noto che Cartesio era uomo di scarse e di brevi letture. Per la scarsità Kant se ne distingue un poco, mentre per la brevità, invece, gli somiglia del tutto. 101 102

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266   parte prima. avanti «la critica»

l’antropologia luterana, la quale tende a suggerire o addirittura a propugnare l’esistenza di un’unità delle facoltà conoscitive in una sede oscura e sotterranea, radicale o umorale, la quale produce le sue manifestazioni non già per lunga consuetudine e forbitura, bensì per potenza istantanea d’impulso. La riottosità impulsiva di una parte dell’anima, alla quale la personalità obbedisce con l’automatismo di un burattino, era pure stata ammessa dalla tradizione, s’intende – ma proprio come parte, per l’appunto, e non come unità; e la sua descrizione era stata per lo più affidata a chiare metafore energetiche, senza alcunché di misterioso e di sotterraneo. In Kant non v’è nulla di tanto chiaro; ma come un cadavere insepolto, o come un fantasma, l’assunto dell’unità radicale del Gemüth affiora, o talvolta si affaccia con una certa discrezione, qua e là, nella prima Critica (insieme con le più fastose vicende prosastiche della cosiddetta unità appercettiva, o anche di una qualche arte schematistica che si troverebbe celata nel profondo dell’animo umano: le quali, nelle pagine acrobatiche di qualche volonteroso esegeta di Kant, diventano semplicemente esilaranti). Pur senza conoscere alcun apprezzabile svolgimento teorico, ma già come semplice riconoscimento del fatto dell’esistenza di una reale unità antropologica della conoscenza, l’assunto assume un significato di una certa importanza: perché serve, quanto meno, a risolvere in termini non intellettualistici e non sofistici l’immagine già cartesiana della «quasi» unità della conoscenza, che vede il puro intelletto starsene chiuso dentro il corpo «come un nocchiero dentro la sua nave»103. Perché quest’unità possa fungere da forma, ossia da principio di legittimazione e disciplina d’un modello di costrutto antropologico (insomma: da principio costituzionale della personalità), s’intende facilmente che essa dev’essere in qualche modo ordinata. E altrettanto facilmente s’intende che il principio d’ordine d’una costituzione, il quale richieda a sua volta un ordine o una costituzione, non li può trovare (salvo risalire o circolare all’infinito) che fuori del modello medesimo, o della personalità tipica, ai quali si deve applicare. Sopperiscono a questa esigenza, di solito, l’ordine della natura, o 103   Meditazioni, vi (Adam – Tannery, ix, p. 81). Senza ricorrere all’aiuto d’immagini, già nella quarta delle Regole egli aveva affermato che «con il medesimo» lume della mente i rudi e schietti antichi avevano saputo conoscere anche le vere idee della filosofia e della mathesis, oltre all’onestà e alla virtù (ivi, x, p. 376). Sebbene l’immagine del nocchiero e della nave porti in quest’unità teoretica e morale del lume una qualche diversificazione, non mi pare tuttavia che si trovi mai in Cartesio la nozione di una costituzione dell’intimità intesa come un’unità complessa di facoltà diverse. Essa si trova dispiegata, per esempio, in Montaigne, la cui lezione rimane dunque imprescindibile. S’intende poi che la tarda immagine, ospitata nella prefazione ai Princìpi, dell’albero della fisica che affonda le radici nel suolo della metafisica e della psicologia, tendendo verso l’altro i rami della meccanica della medicina e della morale, nulla può significare per l’unità.

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dell’universo, e Dio stesso (ammesso come privo di costituzione, di solito, come principio assoluto), nella descrizione di quella che viene a essere un’unica città cosmica del mondo e dell’anima, la quale ha pure la sua illustre tradizione. Dall’immagine puntiforme della scintilla, a quella appena più estesa della fiamma, l’unità antropologica della conoscenza trova così nella città una vera e propria estensione diversificata e discutibile. Visto che l’abbiamo appena menzionato, sarà interessante notare che soltanto poche righe prima di mostrare l’intelletto come un nocchiero chiuso nel ventre della sua nave Cartesio aveva già rinunciato a instaurare la connessione o corrispondenza fra i due libri della città cosmica, con queste parole: «per natura, considerata in generale, io non intendo adesso altra cosa che Dio stesso, oppure l’ordine e la disposizione che Dio ha stabilito nelle cose create. E per mia natura in particolare non intendo altro che il complesso o la riunione di tutte le cose che Dio m’ha dato»104. Se non s’identifica con Dio stesso, insomma, la natura in generale è dunque un preciso ordine e una disposizione di cose create, mentre la natura del soggetto conoscente non è altro che un generico complesso o riunione di cose date alquanto confusamente. Casi come questo (e simili, ancora più significativi105) possono venire senz’altro interpretati, io credo, come sintomi di un certo imbarazzo nell’affrontare il quesito della forma che dovrebbero assumere l’unità delle facoltà nella costituzione personale; e simile imbarazzo dipende probabilmente dal timore di vedere messo in discussione il primato dell’intelletto in questa sede, e nella primissima conoscenza: dove esso si trova «quasi» confuso e «quasi» mescolato con il corpo. A Eugenio Garin, curatore e commentatore di una raccolta di opere cartesiane, è invece sembrato che «una costituzione nativa della mente» sia descritta o ammessa nel seguente passo della quarta delle Regole cartesiane: «L’umana mente ha un qualcosa di divino, in cui i primi semi di pensiero utili sono sparsi in maniera tale che sovente, quantunque negletti e soffocati da mal diretti studi, producono messe spontanea»106. Ciò che intendo in questo mio studio col termine ‘costituzione’ (tanto per intendersi) nega recisamente quest’esistenza o ammissibilità in Cartesio: dal momento che una costituzione ha a che fare con l’essere, e non con utilità alcuna; e che essa consiste di un chiaro rapporto essenziale fra sostanze distinte. Essa è nient’altro che la natura poli  Adam – Tannery, ix, p. 80.   Ne L’homme, per esempio, la corrispondenza col mondo varrà per il corpo, non per l’anima, la cui trattazione resterà inevasa. 106   Adam – Tannery, x, p. 373; La vita e le opere di Cartesio, introduzione a Opere, Laterza, Bari 1967, i, p. lxi. 104

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268   parte prima. avanti «la critica»

tica del soggetto – qualcosa di faticosamente acquisito; e la stessa espressione «costituzione nativa» del Garin allora, in quest’ottica, è logicamente impossibile. Una costituzione si deve dare e mantenere, non può essere cosa trovata. Cartesio, del resto, non avrebbe avuto alcun bisogno di ricorrere a immagini per descrivere con chiarezza e distinzione una costituzione personale già data, naturale, nativa – a meno che non avesse voluto rendere questo rapporto fra sostanze chiaro, sì, ma non distinto. È così, infatti. La «quasi» confusa mescolanza dell’intelletto col corpo, sancita nelle Meditazioni, non fa che confermare laconicamente l’immaginosa soluzione delle Regole, e ribadisce un atteggiamento di reticenza, un imbarazzo107. Nel commentare la teoria della memoria contenuta nelle Regole quarta e dodicesima il Garin afferma giustamente che vi si trova «lo sforzo di ridurre la memoria corporea a memoria intellettuale, ossia a intelletto [senz’altro!]». Sì: insieme con la spogliazione dell’osservazione dai dati sensibili, e con il procedimento di ricerca dell’unità attraverso la ricomposizione logica di realtà già presupposte come separate, è questa riduzione della memoria all’intelletto, infatti, il terzo dei principali aspetti dell’intellettualismo cartesiano; e contro Leibniz Kant si farà riesumatore di questo intellettualismo seguendo un percorso in verità non semplice: col non ammettere, innanzitutto, la spogliazione dal pensiero della sensibilità; con l’ammettere invece il procedimento di separazione preliminare fra sensibilità e intelletto per poi cercarne la ricomposizione; e col praticare la riduzione della sensibilità (senza la memoria) all’intelletto con procedimenti e forme inevitabilmente di gran lunga più complicate e insidiose, come vedremo meglio nella Parte Seconda di questo studio. Ma Garin prosegue senza esitazione, affermando anche che in questo sforzo di riduzione si mostrerebbe insieme «la ricchezza interna all’intelletto [?] stesso, il suo [dell’intelletto!] complesso patrimonio nativo»108. Ma no: questo è, piuttosto, l’intellettualismo innalzato a principio di vita del soggetto per mezzo di un giudizio di commento, il quale confonde pensiero e storia del pensiero facendo dire a Cartesio ciò che forse egli avrebbe anche voluto dire, sì, ma che non ha detto. Un intelletto già dotato di un «complesso patrimonio nativo» potrebbe fare da sé tutto quello che vuole, non ha bisogno d’altro che di se stesso, è una sostanza, è la soluzione del problema dell’unità, del rapporto e dell’essenza mediante la tipica cosmesi terminologica che intende riproporre 107   Con le prime parole de L’homme Cartesio salterà oltre l’ostacolo, annunciando di voler trattare del corpo «à part», poi dell’anima «aussi à part», e infine di come queste due parti debbano essere congiunte e unite per formare un insieme (Adam – Tannery, xi, pp. 119-120). Kant nulla ha imparato, né dimenticato. 108   Vita e opere, p. lxix.

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Ii. Analisi cronologica   269

il problema come una soluzione. C’è l’intellettualismo cauto, ingegnoso, reticente e anche pudìco, magari anche prosasticamente un po’ goffo, delle opere dei grandi maestri del pensiero; e c’è poi l’intellettualismo disinvolto e leggero, terminologicamente sorvegliato e compunto, non meno che perentorio nelle sue conclusioni semplificatrici, degl’interpreti d’ottima scuola. Con quelli, i conti non tornano mai, con questi tornano sempre. Cartesio parla proprio di una memoria che si riduce a intelletto – ossia parla proprio di una memoria che è, essa, complessa, e di un intelletto che è esso, invece, semplice. Questa riduzione alla sua semplicità avrebbe risolto, secondo lui, ogni problema della science curieuse, la quale ancora si ostinava a concepire esseri complessi, immersi nelle loro materie. Proprio la semplicità dell’intelletto era, secondo Cartesio, la soluzione entusiasmante della mathesis universalis e della nuova scientia admirabilis. Ma egli era perfettamente consapevole che d’una riduzione si trattava; e che la via sulla quale aveva deciso d’incamminarsi d’écart non avrebbe risolto il problema antichissimo dell’unità, bensì avrebbe soltanto permesso di formularlo in altri termini. Per il momento, lui volle soltanto scrollarselo di dosso, in attesa di vedere quel che sarebbe successo109. Un ridurre qualcosa a qualcos’altro esclude già, di per sé, la complessità del patrimonio nativo, e dunque la possibilità e anzi la necessità stessa d’instaurare una costituzione. È la memoria semmai (nella sua duplice forma corporea e intellettuale, istantanea e narrativa) che in Cartesio viene a presentarsi come figura complessa, o facoltà internamente divisa, e dotata di un patrimonio nativo e di un patrimonio acquisito. Lavorando un poco sulle pagine cartesiane non sarebbe difficile ricavarne una teoria, diciamo così, soggettuale, che vedrebbe la memoria assumere una posizione di saldatura radicale fra tutte le facoltà antropologiche della conoscenza, della volontà e del giudizio: l’automatismo animale con il sentimento, la sensibilità con l’intelletto, la realtà col sogno. Il Regio e il More, per esempio, ci provarono, partendo rispettivamente dal corpo e dall’anima. Ma oltre a far dire a Cartesio ciò che non voleva, ciò significherebbe scrivere un altro libro; ed è impossibile qui menzionare, neppure per accenni, le principali soluzioni date in età moderna al problema 109   Nell’esposizione di Garin il problema è toccato di nuovo più avanti. Trattando della memoria concepita da Cartesio nelle Meditazioni come elemento irriducibile all’intuito, o come memoria puramente intellettuale, a Garin «verrebbe voglia di dire: [che vi si trova] la componente psicologica irriducibile al movimento logico, e, a un tempo, l’insufficienza del puro movimento della mente (e, infine, la fragilità della distinzione fra le due ‘memorie’)» (ivi, p. cxl). Grazie alle ripetute soggiunzioni («e a un tempo»; «e infine»), non manca proprio niente, mi pare; e l’intellettualismo del commento si foggia due memorie, oltre la riduzione della memoria all’intelletto e le rispettive insufficienze delle facoltà. Le denominazioni delle facoltà si scambiano, in cerca d’una qualche corrispondenza terminologica come succedaneo dell’unità.

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270   parte prima. avanti «la critica»

della costituzione intima delle facoltà del soggetto, per trovarvi, poi, la collocazione kantiana. Diciamo soltanto che la soluzione cartesiana del problema dell’essere come soggetto (‘soggetto’ a se stesso) tende a vanificarne la natura complessa, politica, di città intima; mentre questa natura politica, questa soggettualità e costituzione si devono per forza ripristinare con la postulazione kantiana degli a-priori sensibili rispetto all’attività dell’intelletto. Ma nessuno può credere che un uomo come Kant sia andato più in là dei limpidi motivi dell’antropologia cartesiana e moderna, sebbene così fitti di problemi, se non per tornare ad affastellarli in quella che è poi diventata una nuova città scolastica. L’intellettualismo e il sofisma si riproducono, con lui, in forme di gran lunga meno letterarie e innocenti. Che l’intellettualismo cartesiano abbia finito per instaurare una nuova scolastica accademica al posto dell’antica è ben vero – ma la sua rottura sul piano storico fu rottura, innanzitutto, sul piano logico: allorché Cartesio insegnò, per esempio, a «diffidare dei giochi intellettuali che, col pretesto di scoprire il significato profondo di una filosofia, cominciano col trascurarne il significato esatto»110. Qualcuno si arrischierebbe a ripetere queste parole per Kant? Sono intellettualismi del tutto diversi, dunque. Un fascio di luce variamente proiettato su un monumento ne altera i rilievi e persino la forma – ma «i giochi dell’illuminazione lasciano intatto il monumento»111. Qualcuno si arrischierebbe a ripetere queste parole per i neokantiani? Ciò che essi guadagnarono in chiarezza dottrinaria sul maestro fu tuttavia pagato proprio con la perdita del monumento, ossia con un intellettualismo d’altra specie ancora, ignaro o noncurante dei limiti o della natura della cosa. E le filosofie dei valori si videro infatti costrette a realizzare un’unità della conoscenza al vertice senza alcun reale fondamento. *** Torniamo a noi – il bel tempo delle Osservazioni ci ha consentito di effettuare una breve ma importante escursione. Qui, nelle Osservazioni, subito dopo avere accennato a un’unità aerea, cosmologica e poetica, della conoscenza nei cieli stellati di Keplero, a una discussione appena più ampia di quest’unità delle facoltà conoscitive Kant rinuncia senz’altro, considerandola come un privilegio riservato a pochi, che non può fare legge comune; ed egli si volge piuttosto riso110   È un giudizio di Victor Delbos che trovo tratto in Garin da un’opera di Martial Gueroult (ivi, p. clxxxii). 111   Ibidem. Il giudizio, stavolta, è del medesimo Gueroult.

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Ii. Analisi cronologica   271

lutamente a considerare quel distinto esercizio, quella vera e propria separazione gerarchica delle facoltà che è, secondo lui, la norma per quasi tutti i mortali. Se dunque nella Critica egli farà ogni tanto comparire l’unità sotterranea del suo animus, o Gemüth, qui si allontana intanto rapidamente dall’unità celeste112. Non parla neppure di un ‘sentire intellettuale’ (come poco sopra io mi sono preso la libertà di dire di Keplero, con un’espressione che a Kant sarebbe parsa troppo spinoziana), bensì menziona separatamente «la tendenza all’elevata cognizione intellettuale, e la sensibilità» di cui era capace un uomo come Keplero. Le due facoltà restano distinte, e non verranno mai veramente a confondersi in una vera e propria dottrina antropologica dell’unità della conoscenza. Poche pagine più innanzi egli giunge addirittura a parlare di opere dell’intelligenza e dell’acume, le quali offrono i loro argomenti come «materia al sentimento»113. Non è sorprendente? L’intelletto che porta materia al sentimento! Il rapporto gerarchico tra le facoltà che, mediante le consuete nozioni di ‘forma’ e di ‘materia’, viene qui stabilito fra la sensibilità e l’intelletto, risulta invertito rispetto alla loro consueta destinazione, che vede, semmai, sensibilità e sentimento portare materia all’intelletto. Ma bisogna intendere bene la cosa: un intelletto che porta materia al sentimento significa qui, in realtà, che l’attore principale ha già svolto il ruolo conoscitivo più importante, e lascia ad altri di che dilettarsi. In ogni caso, sebbene invertito questo rapporto gerarchico è dunque perfettamente compatibile con il bando sancito, e mai più revocato, a una qualche chiara e distinta unità antropologica della conoscenza. Ma il bando vale anche per le sensazioni più vaghe racchiuse nel sentimento. Neppure ora, neppure dopo avere scoperto con le prime parole d’esordio che le sensazioni di piacere e dispiacere dipendono dal nostro sentimento, e non dalle cose esterne, neppure adesso quel Dio che nelle Quantità negative doveva starsene fuori dal mondo, perché il mondo fosse qualcosa per Lui, e se no un Nulla, può essere ammesso in qualche modo a farne parte, almeno con i suggerimenti bisbigliati nell’intimità da quella che si chiama, di solito, una ‘coscienza’ . Aggiungendosi alle nozioni di ‘forma’ e di ‘materia’, le nozioni di ‘interno’ e di ‘esterno’ vengono perciò a costituire l’orizzonte strumentale di un automatismo di pensiero, del quale Kant si servirà liberamente senza darsi mai più la minima pena di giustificarlo. È il dio minore dell’intimità inculcata. 112   Bisogna riconoscere però che nelle Forze vive Kant aveva già accennato vagamente a «un giusto equilibrio delle inclinazioni dell’animo» (Prefazione, par. xiii), come fa giustamente notare Ivano Petrocchi nella sua edizione (Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2000, p. 52 nota 10). Ma esso si riduceva soltanto a un «equilibrio dell’intelletto» (§ 58). L’intellettualismo, fin già da questa sede, sembra davvero irremovibile! 113   Carabellese, p. 315.

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272   parte prima. avanti «la critica»

Se la ricerca dell’unità non riesce a conseguire una vera e propria dottrina antropologica, essa non può tuttavia fare a meno di un principio psichico; e se un gran Dio lontano resta escluso dalla guida della conoscenza, bisognerà pur trovare un dio vicino, un dio minore della sicura «proporzione»; e poiché l’osservazione delle vicende umane esclude che il motivo determinante delle azioni sia l’universale amore fraterno degli uomini114, bisognerà che questo dio vicino, coi suoi suggerimenti, s’installi in un fondo dell’anima con qualche buona giustificazione. Comincia così nel mezzo del Capitolo Secondo la ricerca dei princìpi che possano «inculcare» la vera virtù. Ecco la sua tipica soluzione disciplinare: inculcare un senso di umanità! E questi princìpi, a scanso d’equivoci, non sono ancora, beninteso, regole speculative o imperativi, bensì depositi di un vago sentimento comune relativo alla bellezza e dignità della natura umana115. Non dall’esperienza esterna, o dal miserando spettacolo dell’umanità, bensì da questo intimo e vago sentimento comune bisogna dunque partire – cosicché il Dio lontano delle Quantità negative brilli almeno d’un vicino barlume. A simile principio obbediscono anche gl’istinti che la Provvidenza ha collocato in noi a mo’ di «supplementi» (!) della virtù, per renderla più efficace, insieme col sentimento dell’onore, e del pudore, e di quant’altro giovi, insomma, a una sommaria dottrina raccogliticcia d’un moralismo pratico e nomenclativo che si pretende senza storia, e che non aggiunge del suo che la farmacologia degl’ingredienti116; cosicché è d’una legislazione mondana che noi dobbiamo metterci in cerca, in definitiva – ma senza mai ammettere che questa legislazione sia in qualche modo naturale. E leggendo Kant non si capisce mai bene se egli sfugga alla natura per sfuggire all’unità delle facoltà, salvaguardandone la distinzione, oppure se sfugga all’unità delle facoltà per sfuggire alla natura. Ciò ch’egli invoca è un principio superiore, il quale non vada soggetto all’incostanza del sentimento. Che farà, infatti, l’allegro e socievole Alceste quando sua moglie non sarà più bella? Meglio Adrasto, che l’ama soltanto perché ella è sua moglie117. Ahimé! – e che faremo noi, nel tedio di simile lettura, giudicando la sincerità d’un «affettuosissimo e composto» Adrasto il quale «pensa fra sé»: se lice piace (mentre Alceste, evidentemente, non fa mistero con alcuno di praticare il se piace lice)? Nel segreto della sua coscienza l’impeccabile e decoroso Adrasto pratica effettivamente con compunta ipocrisia la virtù kantiana dell’omissione! Resterebbe da vedere perché mai egli dovrebbe limi  Ivi, p. 316 nota.   Ivi, p. 317. 116   Ivi, pp. 318 ss. Il pudore, per esempio, è un supplemento «necessario al massimo grado» dei princìpi (superiore dunque a essi, o no?), per evitare le astuzie casistiche del vizio (p. 337). 117   Ivi, p. 321. 114 115

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Ii. Analisi cronologica   273

tarsi a pensare fra sé le sue virtù, anziché affliggere il mondo con un trattato di morale. Kant saprà ben colmare la lacuna di questa inspiegabile omissione. A dirimere simili tergiversazioni sui princìpi (delle quali, io credo, Kant fu a malapena consapevole, praticandole come un’arte contrappuntistica della scrittura involontaria) arriverà, con la Critica, l’evanescente figura di una Ragione superiore finale, la quale avrà il compito di assolvere, in definitiva, al ruolo registico sovra- e retrostante di principe e di demiurgo, di giudice e di macchina. Per ora non ci sono che tentonamenti dottrinali; i quali finiscono involontariamente, in una logica insistentemente binaria, persino col farci supporre in qualche passo la plausibile esistenza di due Ragioni superiori: perché accanto ai princìpi ‘legali’ del bello dovranno pure esserci infatti i principi ‘sentimentali’ del sublime, a me pare. È tutto lo scritto che dovrebbe portare per forza di logica a questo risultato, che darebbe anche ad Alceste qualche buona giustificazione (con gli argomenti epicurei del De voluptate di Valla, per esempio). E invece no. Ma non è la dottrina che conta, qui, come altrove; perché, se la congruenza della dottrina contasse qualcosa, noi potremmo facilmente liberarci di questo scritto con un giudizio su di una semplice proposizione: là dove Kant afferma, cioè, che «siccome nel miscuglio che compone il temperamento flemmatico non possono entrare affatto in misura particolarmente notevole particelle [!] di sublime e di bello, questa qualità dell’animo non rientra nel campo delle nostre considerazioni»118. Vale a dire, che siccome ha già deciso quali sono gl’ingredienti delle sue passioni, questo fervido osservatore delle umane nature non può curarsi di esaminare un composto, come la flemma, che sfida pacificamente la solidità della sua dottrina. E nella prima Critica, vero emulo del virtuoso ipocrita Adrasto, Kant si guarderà poi bene dal confessare l’impossibilità di una conoscenza che sia, come l’amore, puramente legale, ossia puramente rispettosa dei princìpi della dottrina, per ciò che non dovesse contenere sufficienti «particelle» di sensibilità e d’intelletto. Ma insomma ciò che conta qui, invece, è il teatro; è la drammaturgia della morale; sono le antonomasie e le allegorie seminate qua e là. E non mancano Esopo e Licurgo, con la parabola teriomorfa e la legislazione, nonché (menzionati a sproposito) neppure Robinson e Catone. Con i Sogni, poi, arriverà anche Candide. Ciò che conta, nelle Osservazioni, è ch’egli mostri d’aver appreso dalla lettura di Buffon anche i rudimenti di un’antropologia psicologica degli archetipi119 (oltre ad averne già preso, a suo tempo, il materiale congetturale per le sue teorie cosmologiche, che furono in verità più fortunate che soli  Ivi, p. 325.   Ivi, p. 340.

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274   parte prima. avanti «la critica»

de). Fra intelletto e sensibilità si svolge, nelle Osservazioni, una vita coniugale del tutto reale, fatta con i due generi dell’uomo e della donna: non già una vita in unità fittizia, dunque, come sarà poi nella Critica (dove le due facoltà conoscitive avranno la pretesa di sussistere, come in una relazione fraterna, per pura logica e gnoseologia), bensì una vera vita di coppia «animata e governata dall’intelligenza dell’uomo e dal gusto della donna»120. Ciò che ancora conta in questo scritto (oltre al repertorio caratteriologico delle nazioni e delle rispettive facoltà antropologiche) è il riconoscimento del ruolo del pregiudizio nel giudizio: perché apprendiamo, per esempio, che «chi si annoia ad ascoltare una bella musica dà adito alla supposizione che su di lui avranno scarso potere le bellezze letterarie e il sottile fascino dell’amore»121. E ancora: c’è qualcosa di più profondo delle sensazioni, ed è un misterioso «sentire» dal quale la conoscenza e la comunicazione dipendono122 (e si affaccia dunque vagamente l’idea dell’unità radicale); e se per dottrina nulla sappiamo delle mentalità dei sessi e delle nazioni, la loro narrazione ci offre però la spiegazione, l’esplicazione, il dispiegamento, il repertorio d’innumerevoli intuizioni sciorinate su quella tavola delle proposizioni indimostrabili, la cui redazione egli aveva già auspicata nella Teologia naturale. In mancanza di meglio, e a costo di contraddirsi clamorosamente, egli fa di questo comune «sentire» un istinto, attraverso il quale si attua la grande intenzione della natura. Gli uomini che vivono secondo princìpi sono ben pochi – ed è bene che sia così, perché i princìpi potrebbero anche essere errati; gli uomini che vivono d’affetti sono assai più numerosi – ma questo non è bene, né male, perché ciò li accomuna semplicemente agli animali123. Irresponsabili e impunibili questi, ingiudicabili e incolpevoli quelli, vuol dire Kant, con un’ottimistica ed ennesima nota cartesiana124. Senza volerlo ammettere, e praticando la virtù legalitaria di Adrasto, egli introduce così nel suo discorso un tacito principio d’ordine gerarchico vigente nella natura e nell’umanità: la distinzione fra uomini eletti e uomini comuni. Alceste si sarebbe forse beato, invece, della contemplazione dei caratteri e della varia geografia nazionale testé sciorinata al lettore per sommi capi europei. Adrasto no, non si accontenta: e vuole ordine e senso in questa contemplazione della   Ivi, p. 346.   Ivi, p. 326. 122   Ivi, p. 328. 123   Ibidem e anche pp. 338, 342, 345. 124   Ma a p. 334 ribadisce il valore della vigente legislazione provvidenziale dei princìpi: la quale è evidentemente in grado di trasformare gli esseri sensibili animali in veri uomini. Kant non è uomo che sappia rinunciare alla ricerca di una qualche tutela legalitaria. 120 121

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Ii. Analisi cronologica   275

varietà delle specie. Come con materia e forma, o con interno ed esterno, simile principio gerarchico di distinzione di ciò ch’è ‘comune’ da ciò ch’è ‘illuminato’ e ‘virtuoso’ non conoscerà mai alcuna significativa giustificazione speculativa nella Critica, e rivelerà il suo esplicito significato filosofico-politico soltanto con la terza Critica e con la tarda Antropologia pragmatica: dove nello Stato gli uomini eletti fanno da intelletto, e gli uomini comuni fanno da passioni, secondo la sempre buona metafora antropomorfica del corpo sociale. *** Con le Osservazioni è come se fosse passato l’occhio d’una perturbazione; e il piacere ozioso e fuggitivo di giudicare con gusto tutto quanto avviene intorno a noi presto dilegua, conformemente all’impegno assunto con le ultime parole, per lasciare di nuovo il posto alla metafisica. L’apprezzamento della varietà e complementarità dei principali caratteri nazionali europei (che lascia a malapena intendere l’esistenza nell’immaginazione di Kant dell’idea appena abbozzata di una personalità dell’Europa) svanisce immediatamente nelle acide battute d’esordio dei Sogni d’un visionario: la santa Roma, con le sue pingui province, possiede chiavi più adatte ad aprire i forzieri piuttosto che le porte dell’aldilà. Due secoli e mezzo dopo Lutero, in una terra che non è proprio di frontiera religiosa, Kant vuole captare di primo acchito la benevolenza di un pubblico assai ordinario, evidentemente; e noi possiamo paragonare le sue parole alla tirata di un prete di campagna contro i comunisti. Ma bisogna pur dire che proprio sentendo di godere d’una maggiore libertà d’esprimersi, e trovandosi lontano, per una volta, dallo sguardo di giudici togati e da dispute scolastiche125, la materia del discorso gli si semplifica e ricompone più facilmente tra le mani, e comincia a trovare la via per ordinarsi in un abbozzo su principalissimi capisaldi. In ciò consiste, io credo, il ruolo dei Sogni nell’economia generale della sua vicenda teorica: la quale esce da questo momento dai pruneti del periodo medio, e può chiamarsi effettivamente precritica. Oltre che rispetto alle Osservazioni, si nota subito, infatti, che il clima è cambiato anche rispetto alla precedente trilogia mediocritica. Sebbene il tono sia spesso beffardo e anche scurrile, sotto il profilo teorico esso è freddo e distaccato, alquanto disperso. Cominciando a capire qual è la sua strada Kant dà segni d’insofferenza, si sente costretto a lavorare suo malgrado. Le considerazioni svolte in un capitolo, dice, rendono del tutto superflue le profonde supposi125   Ivi, p. 377. Ma ciò non gl’impedisce di applicare il dotto procedimento sic et non (sic il secondo capitolo, non il terzo capitolo della Parte Prima).

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276   parte prima. avanti «la critica»

zioni del precedente; con un lazzo plebeo egli ammette che dalle profondità degl’intestini i meteorismi degli spiriti corporei possano liberarsi rumorosamente verso il basso, oppure salire in sante ispirazioni verso l’alto; ma tutto ciò non lo riguarderà più; non sa neppure se ne valga la pena, non ne ha più voglia, ormai ha rivelato il segreto dei gran dottori delle scuole126. Nei Sogni d’un visionario le semplici premonizioni critiche sono talmente numerose ed evidenti che non varrebbe nemmeno la pena d’indicarle. Meno evidenti e di grande momento teorico sono però alcune passeggere intuizioni divagatorie, che vi si trovano frammischiate. Vediamole perciò distintamente. Per cominciare dalle semplici premonizioni principali basterà dire, per esempio, che nell’intero primo capoverso del secondo capitolo della Parte Seconda esse si raccolgono in un breve arco abbracciante sommariamente, come con un tratto di penna, nientemeno che i capi estremi della futura trilogia critica: dal postulato delle due distinte facoltà conoscitive razionale ed empirica, sino alla ricerca di una finalità generale del pensiero, o insomma di un perché della filosofia e di un ‘senso’ del mondo. Sotto i due capi estremi di quest’arco, spaziante fra prima e terza Critica, potrebbe starci, veramente, anche la seconda, con un qualsiasi riferimento a doveri morali; ma è un fatto che simili gravose premonizioni qui non compaiono affatto. Non sono cose che possano interessare le signore, quelle; e Kant sembra qui assai poco disposto a sottomettersi a una logica del dovere, prolungando così con qualche sprazzo di sereno il bel tempo delle Osservazioni. Accenni morali di natura diversa compaiono, tuttavia; ed essi mi sembrano veramente interessanti, anche se non sembrano interessare altrettanto Kant medesimo. Si riferiscono tutti quanti a pregiudizi – vale a dire: a ciò che nella prima Critica resterà poi del tutto trascurato, così da richiedere la stesura della terza. Tale è, per esempio, il riconoscimento della persistenza, nella formulazione del giudizio, di «più segreti motivi»127; e tale è, altresì, il riconoscimento d’un peso o d’un vantaggio meccanico che la speranza nel futuro esercita sulle speculazioni di un intelletto soppesante ragioni in parità128. Tale, ancora, è il pregiudizio pragmatico dell’utile che guida insensibilmente le nostre ricerche, e che ci distoglie saggiamente dal perdere tempo con tutto ciò che ignoriamo senza sapere che farcene129. E poi, ancora, «i più segreti motivi» dei nostri giudizi; e ogni «inclinazione insinuatasi prima dell’esame»; e ogni «simpa  Ivi, pp. 399, 400, 404, 418, 419, 412.   Ivi, p. 401.   Ivi, p. 402. 129   Ivi, p. 422. 126 127 128

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Ii. Analisi cronologica   277

tia con una inclinazione decisa sin da prima»; e tutto ciò che tiene «l’animo impegnato già da prima»; e insomma tutte quante «le questioni della natura spirituale, della libertà e predestinazione, dello stato futuro, e simili, [le quali] a principio mettono in moto tutte le forze dell’intelletto, e con l’eccellenza loro traggono l’uomo alla gara della speculazione»130. Sebbene episodica, l’attenzione dedicata al ruolo del pregiudizio e della finalità nell’attività dell’intelletto è tale, in questo scritto, da sembrare quasi contendere alla sensibilità il futuro ruolo critico di presupposto realistico e di scopo creativo del pensiero; ma è pur vero, d’altra parte, che la novità più rilevante di questo scritto consiste proprio nel mettere avanti il ruolo della sensibilità immediata e dell’esperienza concreta, come finora non era ancora accaduto – con parole, per esempio, come queste: «Ma quando infine si arriva ai rapporti fondamentali, finisce il compito della filosofia, giacché è impossibile conoscere mai con la [sola] ragione come qualcosa possa essere una causa o avere una forza: questi nessi devono semplicemente esser presi dall’esperienza»131. Diciamo dunque, molto in generale, che con pregiudizi finalità sensibilità intelletto Kant avrebbe forse potuto sin da questo momento cominciare a concepire un vasto disegno critico su base quadruplice, anziché duplice, imboccando la via che gli avrebbe permesso di scrivere la terza Critica avanti la prima – ovvero, meglio ancora, entrambe in una. Ciò avrebbe risparmiato, a lui e a noi, l’inutile finzione della scoperta, a pensiero fatto, della necessità di dare al pensiero una finalità e un ‘senso’; e avrebbe soprattutto risparmiato, a lui e a noi, la seconda Critica. Ma così non fu; e dinnanzi a simile constatazione a noi non resterebbe che prendere atto del suo pensiero in atto, nel suo effettuale svolgimento: non ci resterebbe dunque che rifarne la storia, e poi la riduzione a dottrina – come se esse non si fossero già fatte a sazietà. Ma la cosa in atto, almeno sotto questo profilo, non può più interessare a nessuno, ormai; e noi andremo dunque in cerca della potenza delle cose, a cominciare dalla scrittura. Alla segnalazione dell’esistenza, in queste pagine, di spunti che avrebbero aperto una diversa possibilità di svolgimento del pensiero mi preme ancora di aggiungere che una diversa base critica (assai più impegnativa, in verità) avrebbe anche potuto essere triplice: ammettendo, cioè, che nei pregiudizi stiano indissolubilmente sepolte anche le finalità; e viceversa quelli sepolti in queste. Nella speranza, nell’utile, nella libertà (per limitarci soltanto a qualcuno dei casi da lui stesso menzionati) sarebbe infatti del tutto impossibile distinguere nettamente il   Ivi, pp. 401, 402, 403, 423.   Ibidem.

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278   parte prima. avanti «la critica»

pregiudizio dalla finalità; e il moto del pensiero tende al vero come al buono e al bello per quei «più segreti motivi» che coincidono, in definitiva, con i suoi scopi. È chiaro che prendendo la strada di questa coincidenza dei fini e dei moventi nella sede del pregiudizio Kant non avrebbe avuto alcuna necessità di distinguere tanto nettamente, nella prima Critica, i rispettivi ruoli conoscitivi della sensibilità e dell’intelletto – se non come successive diversificazioni del pregiudizio. È chiaro che un impianto antropologico quadripartito della conoscenza, riducendosi a tripartito, si espone facilmente a un’ulteriore riduzione. È chiaro ancora che Kant avrebbe così finito con l’affondare le mani nelle ombre del Gemüth – ossia nella confusa unità radicale o cosa in sé del cosiddetto universale Io pensante (che non è ancora l’Io pensante universale tratto in luce prometeica con la propugnazione dei successori romantici). Ed è chiaro altresì che questa strada egli non volle affatto prendere, e che preferì mettere in fuga i fantasmi dei sensitivi piuttosto che evocare, a sua volta, il fantasma affiorante nella sensibilità e nell’intelletto132. Proseguendo con gli esempi delle semplici premonizioni critiche principali (trascurando il cenno all’Io penso133, e simili) basterà ancora dire, poi, che nella conclusione della Parte Prima si accenna all’opinione, nonché alla conoscenza negativa, come unici possibili traguardi del sapere su cose dell’invisibile. A parte il consueto abuso delle nozioni di interno e di esterno134, una modestissima menzione del ruolo conoscitivo della memoria135 non può nascondere la vistosa, persistente assenza di un qualsiasi ruolo conoscitivo del tempo. Lo spazio è ancora l’unica dimensione sensibile nota – ma Kant deve pur cimentarsi col problema della consistenza dei fantasmi, i quali, non essendo dotati di corpo, non sembrano neppure poter avere una sicura estensione. Lo spazio rende accessibili le nozioni di esteso e d’inesteso quali attributi sostanziali dei corpi e dei loro elementi; e la consistenza delle nature spirituali dipende dalle proprietà dello spazio semplicemente in virtù del seguente sillogismo: «Ciò [che] vale per gli elementi dei corpi... varrebbe anche per le nature spirituali. 132   La ricercabilità di qualcosa di simile egli tuttavia ammette nella nota sui «concetti surretizi»: i quali sorgono, dice, da segreti e oscuri ragionamenti, o dal ripetersi d’una nota fondamentale in racconti diversi (ivi, p. 370 nota). Quest’ultimo riferimento all’estetica musicale del costrutto armonico è uno dei tanti sparsi indizi delle cose ch’egli veniva di volta in volta orecchiando. Ma non fa che ripetere Hume. 133   Ivi, p. 425. 134   A un certo punto si parla nientemeno che di rappresentazioni, le quali «introducono immagini nella sensazione esterna [Bilder in die äußere Empfindung hereinziehen]» (ivi, p. 392). E non manca una teoria del «trasporto» (pp. 395, 396). 135   Ivi, p. 389. E già nelle Osservazioni si trova appena suggerita, di passaggio, una generica relazione fra il ragionamento e la memoria (ivi, p. 333).

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Ii. Analisi cronologica   279

I limiti dell’estensione determinano la figura. In queste [nature spirituali] non si potrebbe dunque pensare una figura»136. Vale a dire (se ho capito bene): poiché gli elementi di cui si compongono i corpi fisici sono inestesi, e non occupano spazio, a differenza dei corpi medesimi; e poiché le nature spirituali non sono elementi, e non sono neppure corpi, ma esseri (si dice) dotati di figura estesa e finita; ecco che l’estensione e i limiti stessi della figura potrebbero testimoniare l’inesistenza di simili chimere. Sembra di udire, pressappoco, che la peste non esiste perché non è sostanza né accidente – ma Kant è abbastanza abile da non riuscire mai tanto esplicito nelle sue conclusioni. Kant non conosceva Don Ferrante – ma non per ragioni cronologiche. Egli non conosceva, in generale, la sintesi di un problema teorico depositata per condensazione in un personaggio. E per conseguenza non ebbe mai il sospetto che un personaggio altro non è che una sintesi a priori. La natura concreta e la reale consistenza non già dei fantasmi dei visionari, bensì di una qualsiasi personalità immaginaria qual è un personaggio letterario resterà, dunque, il vero problema dell’intero pensiero kantiano; e né ora né mai, per chi lo conosce abbastanza, ci si potrebbe attendere da Kant alcuna capacità di teorizzare l’intuizione di figure nel senso interno, concepito come una ferma dimensione spaziale della conoscenza (anziché temporale, come poi sarà con la Critica). Il senso interno del tempo interverrà, alquanto tardivamente, a risolvere in qualche modo un quesito per lui insolubile a causa della sua personale storia e mentalità, oltre che per cattiva impostazione teorica sui termini d’interno e d’esterno. Ma anche sotto questo riguardo i Sogni contengono episodiche intuizioni che non sono, in verità, premonizioni critiche, bensì affioramenti (e affioramenti resteranno poi anche nella prima Critica). Ed ecco dunque arrivare la sorpresa, quindici pagine oltre: dove Kant almeno riconosce che di simile intuizione figurativa (spaziale, sebbene non ‘esterna’) qualcuno è stato pur capace – i poeti, se non altro, insieme con chi li imita, come i geometri e i filosofi. Per passare ad affrontare l’esame di qualcuna delle tematiche episodiche minori, o insomma delle implicazioni teoriche non destinate (a differenza delle premonizioni) a far da struttura alla futura Critica, converrà leggere l’intero passo che, come gli accenni già visti ai pregiudizi e alle finalità, offre il destro a considerazioni su alcuni importanti rasentamenti delle sue disperse divagazioni. I nostri più alti concetti razionali, che si avvicinano abbastanza a quelli spirituali, quasi abitualmente prendono una veste corporea per rendersi chiari. Perciò le proprietà   Ivi, p. 374.

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280   parte prima. avanti «la critica» morali della divinità sono configurate con le rappresentazioni di ira, gelosia, misericordia, vendetta, e simili; perciò i poeti personificano virtù, vizi, o altre proprietà della natura, in modo però che ne trasparisca la vera idea dell’intelletto; così il geometra rappresenta il tempo con una linea, sebbene spazio e tempo abbiano un accordo soltanto in rapporti, e quindi concordino certo insieme tra loro analogicamente, ma non mai in qualità; perciò la rappresentazione dell’eternità divina prende anche presso i filosofi l’apparenza di tempo infinito, per quanto anche ci si guardi dal confondere l’una con l’altro; e principal motivo per cui i matematici comunemente sono portati ad ammettere le monadi leibniziane è ben questo: che essi non possono fare a meno di rappresentarsi in esse delle piccole molecole. Non è quindi inverosimile che sensazioni spirituali possano passare nella coscienza, svegliando fantasie loro affini137.

Pochi passi come questo, io credo, possono dare l’idea di quali possibilità si sarebbero potute aprire all’orizzonte teorico kantiano in più favorevoli circostanze. Una possibilità di orizzonti figurativi, innanzitutto – ossia di orizzonti dell’ideale sensibile in quanto l’ideale è accessibile per mezzo d’una sensibilità figurativa immateriale, analogica; e per conseguenza una possibilità, in virtù d’analogia, di continuo trapasso da poesia a matematica e filosofia (sebbene Kant specifichi prudentemente che i concetti razionali si avvicinano «abbastanza» a quelli spirituali – non del tutto: ma egli deve pur tenere conto della distinzione fra matematica e filosofia che a suo tempo aveva posta alla base della Teologia naturale). Al posto di una ‘applicazione’ o ‘spiegazione’ noi troviamo qui, al contrario, nientemeno che una ‘vestizione’, ossia un «prendere la veste» in personificazioni (che sono per lui, è lecito supporre, niente più che allegorie: ideali sensibili in quanto ideali, e non in quanto sensibili). Della natura dell’analogia stessa è suggerita in qualche modo un’interpretazione, che il lettore può discernere con fatica; o per meglio dire, in questa pagina è suggerita un’interpretazione del risultato dell’operazione, la quale stabilisce un rapporto fra cose di natura diversa tale da essere in qualche modo assoluto. Così, per esempio, fra spazio e tempo v’è accordo o concordanza, sebbene non comune qualità; così i filosofi possono concepire l’eternità, ossia il nontempo, come tempo infinito (ossia come uniforme estensione su di una linea immaginaria che non è tempo, né spazio). Di nient’altro si tratta, in verità, che di barlumi destinati purtroppo a rimanere tali, come mostra la conclusione fatta di spropositi logici: i matematici ammettono le monadi perché sono portati a rappresentarsi le monadi come molecole; sensazioni spirituali passano nella coscienza, risvegliandovi un qual  Ivi, p. 390.

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Ii. Analisi cronologica   281

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cosa di simile, che già vi dovrebbe risiedere – ossia, in definitiva, risvegliando o ‘rivelando’ nient’altro che se stesse. Kant non poté conoscere l’affioramento di ciò che noi oggi conosciamo come ‘rivelazione’ di una lastra fotografica. *** Poiché si tratta di barlumi assai vaghi, che è ben difficile discernere senza esporsi al sospetto di forzature, passiamo ora a esaminare altre pagine, dove si trattano in modo un poco diverso, più dispiegato e immaginoso, i medesimi problemi. Kant confida in un punto alla sua signora d’avere ormai scoperto in che consista l’artifizio della metafisica accademica: nel procedere da assunti a priori, fingendo d’ignorare l’esperienza, ma sbirciandola sempre furtivamente, «con la coda dell’occhio», in modo da governare in senso obliquo gli argomenti puramente teorici sino a farli approdare alle conclusioni volute, così che l’esperienza e il senso comune non le possano smentire. Il percorso accademico, preteso a priori, è in realtà già segnato con le biffe dalle conclusioni (ossia, come dice Kant, «a posteriori»). A questo punto, di solito, lo scolaro ingenuo plaude al risultato, mentre l’allievo intelligente capisce il gioco, non vuole tradire il maestro, e gli crea la scuola138. Cominciamo subito col mettere le parole a posto: usare il termine «a posteriori» qui non ha senso, dal momento che non è d’un procedimento empirico che si tratta, bensì d’un procedimento logico svolto in qualche modo a ritroso. All’esperienza e al senso comune si guarda di sottecchi, come a una realtà parallela e senza contatto; e il lettore ricorderà ancora perfettamente l’anatema scagliato contro l’imitazione della matematica, nella Teologia naturale. Qui sembra avvenire qualcosa di simile sul versante, invece, dell’esperienza – solo, senza l’anatema: sembra di capire che, secondo lui, sarebbe più semplice riconoscere apertamente il procedimento inverso e obliquo, facendone un metodo. Ora, neppure la Critica saprà risolvere la relazione di parallelismo con una mutua imitazione fra sensibilità e intelletto, o in una chiara teoria analogica dell’arricchimento reciproco mediante osservazione: perché sovrordinazione gerarchica e ‘applicazione’ (giusta la lezione della Teologia naturale) torneranno sempre a imporsi come terreno, per Kant, più comprensibile e sicuro. Del resto, una teoria dell’osservazione e dell’imitazione avrebbe richiesto riferimenti preliminari su spunti leibniziani e platonici, per esempio, che fin qui

  Ivi, p. 411.

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282   parte prima. avanti «la critica»

sono mancati completamente139. Ciò che non manca in tutto lo scritto, però, sono sparsi accenni all’analogia, della quale bisogna dunque vedere meglio il ruolo. Le immagini, tanto per cominciare, sono, come sempre, interessanti, e la terminologia offre anche, per puro caso, una gradita sorpresa. Cominciamo perciò da quest’ultima. Princìpi razionali e reale esperienza, «o narrazione», dice Kant, corrono come due rette parallele; e il filosofo accademico non procede, come dovrebbe, «sulle linee rette della consecuzione [logica]», bensì lungo un furtivo clinamen. Apprendiamo così di passaggio, innanzitutto, che esperienza reale equivale a «narrazione»; e in tal modo ci si affaccia per un attimo l’entusiasmante possibilità di concepire l’esperienza come una narrazione, nonché, viceversa, la letteratura come esperienza. Non è che un attimo, per l’appunto: perché, conoscendolo quanto basta, noi non possiamo dubitare che Kant intendesse con «narrazione» qualcosa più di enumerazione, catalogazione, nomenclatura, raccolta, e simili. Mai, credo, gli sarebbe passato per il capo che questa esperienza reale possa offrire conoscenza (ossia ‘spiegazione’ di nozioni date e non definite, secondo la lezione della Teologia naturale) come ‘racconto’, e dunque come letteratura; né, tantomeno, che la sostanza delle scienze consista in definitiva della loro letteratura, e che non diversa sia l’essenza del pensiero; così come la critica consiste in questo caso, del resto, d’una letteratura di scienziati ‘che sbirciano’, di scolari ‘ingenui’, di allievi ‘accorti’ – ossia, in definitiva, di personaggi, in quella che è una breve drammatizzazione. Non basta forse un aggettivo, per fare letteratura del concetto espresso in un sostantivo? Se ammettiamo che parlare di esperienza come d’una «narrazione» sia stato qui nient’altro che un fortunato incidente140, passiamo dunque a considerare piuttosto le immagini geometriche delle rette, e le nozioni di parallelismo, consecuzione, obliquità. Chi si trova a procedere lungo strade parallele, come sono la teoria e l’esperienza, pretende di governare il suo discorso teorico con stretta consequenzialità logica, mentre deve pur tenere sott’occhio l’esperienza; e dunque questa ‘rettitudine’ è fatta anche d’una speciale ipocrisia teorica e pratica. Scienza e moralità si saldano in un problema di deontologia professio139   Un riferimento raccogliticcio arriverà presto nel § 9 del De mundi, dove si fa dell’ideale un generico «massimo di perfezione». 140   La dotta impostura accademica era già stata smascherata da Cartesio, il quale nella decima e nella quattordicesima delle sue Regole aveva fatto della dialettica sillogistica nient’altro che un esercizio della retorica (Adam – Tannery, x, pp. 406, 440). Ma di qui a identificare senz’altro la retorica con la cattiva letteratura, come fa Kant, con una delle sue solite semplificazioni, ce ne corre; e (trascurando gli umori personali, o l’insofferenza verso le scuole) la cosa si spiega soltanto con scarse o cattive frequentazioni letterarie di Kant.

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Ii. Analisi cronologica   283

nale; e dal momento che proprio da simile intellettualistica e ipocrita pretesa di ‘rettitudine’ è scaturita una moderna barbarie ideologica, della quale Kant non poteva avere ancora il minimo sospetto, noi non possiamo che leggere con grande interesse le sue parole – restando in attesa, però, d’una sua risposta. Ma essa non giunge, né qui né altrove; e il discorso si arresta sulla soglia del giudizio che è, in definitiva, soltanto morale, e dunque moralistico. Che cosa dice Kant, insomma? Dice che per comportarsi rettamente l’uomo di scienza e di pensiero non ha che due possibilità: o proseguire imperterrito sulla strada delle sue deduzioni logiche, senza badare al buon senso; oppure ammettere metodicamente l’esperienza (qualcosa di non-logico) a sostegno delle sue deduzioni. La prima scelta ha aperto la via dell’intellettualismo, mentre la seconda aprirà nientemeno che l’intero problema della Critica. La terza via intermedia, ossia quella di chi sbircia il clinamen, è la prassi accademica; e Kant appare qui unicamente preoccupato di svelarne il trucco. Affrontando il problema soltanto sotto il profilo della verità e del costume scientifici egli non può rivolgersi quella domanda, che a noi verrebbe spontanea: non sarà forse la pratica del clinamen precisamente quel veniale espediente, al quale uomini di pensiero devono pure ricorrere volentieri per non precipitare a capofitto, per stretta consequenzialità, in una barbarie ideologica, logica e scientifica, oltre che in un ridicolo cumulo d’innocue assurdità? Kant sa perfettamente che di alcune cose non v’è esperienza possibile – se non altro perché, per esempio, esse non sono ancora avvenute. L’esperienza del buon senso consiste perciò dei suggerimenti d’una memoria lungamente depositata, la quale risveglia nell’immaginazione le premonizioni del probabile andamento futuro delle cose. È dunque obbedendo a un sentimento di empirica e mal confessabile prudenza che i dotti, coscienti dei limiti e dei pericoli dello strumento logico, si orientano su riferimenti allotri per non trasformarsi in imperterriti ragionatori noncuranti di conseguenze. Con la critica, Kant finirà per effettuare esattamente lo stesso tipo di percorso: solo, non parallelo, bensì distinto fra le tappe successive della prima e della terza Critica, mentre la seconda Critica manterrà intatto l’impegno moralistico della ‘rettitudine’ dell’intellettualismo. Ma anche nella prima Critica Kant non rinuncerà mai a servirsi ogni volta che potrà, secondo gli scopi momentanei del discorso, della relazione di parallelismo tra le facoltà, oltre che di quella di successione gerarchica: questo ‘sbirciare’ alla pratica dovrà diventare, con lui, una scienza del fondamento. Finché dunque si parla di ragionamenti falsamente deduttivi, ossia già segnati a ritroso con le biffe, e finché non ci si allontana dalla retta sulla quale si procede

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con metodo tecnico, Kant qui ha perfettamente ragione: è una logica viziata, quella, e basta. Ma quando si parla di uno sbirciare verso l’altra retta parallela si accenna, in realtà, a un problema di costume e di coscienza degl’intellettuali che ha le sue buone ragioni, e che Kant è ancora ben lontano dal sapere affrontare. Non sarebbe già questo il momento giusto, infatti, per menzionare, e per cominciare a esercitare con degli esempi rudimentali, una soluzione tecnica della relazione che dovrebbe sussistere fra le due rette parallele sulle quali procede la nostra conoscenza? È proprio così, infatti: e l’intero scritto dei Sogni è per l’appunto disseminato di numerose menzioni della figura logico-retorica dell’analogia. Ma non sono che menzioni, per l’appunto, senza alcun effettivo e neppure rudimentale esercizio. È un fatto che ogni qualvolta si tratta di esercitare la figura tecnica, la sua menzione non compare. Compaiono invece, al suo posto, immagini surrogatorie. Si può dunque supporre che la polemica antiaccademica abbia portato Kant a trascurare in questo caso quello che avrebbe già potuto diventare il suo vero compito, portandolo a ridurre l’analogia a nient’altro che alla pratica del clinamen da parte di professori scaltri. Secondo lui i professori praticano insomma l’analogia un po’ come, secondo Voltaire, i preti praticano la fede. È una ben povera impostazione del rapporto fra sensibilità e intelletto, questa, che rivela quanto esiguo sia ancora lo spessore di maturazione della critica141. La conclusione del medesimo capitolo contiene immagini diverse, che converrà esaminare, come le seguenti: «Noi, come Democrito, camminavamo prima nello spazio vuoto, a cui ci hanno sollevato i voli di farfalla della metafisica, e ci trattenevamo lì con forme spirituali. Ora, siccome la forza stiptica dell’autoconoscenza ha contratti i serici vanni, noi ci vediamo di nuovo [riportati] sul basso terreno dell’esperienza e dell’intelletto comune. Noi fortunati!, se lo consideriamo come il posto assegnatoci, dal quale giammai s’esce impunemente», eccetera142. Le nozioni di cielo e di terra, di alto e di basso, come si vede, prendono ora il posto delle rette parallele, stabilendo una doppia relazione con l’aggiunta al parallelismo della sovrordinazione, o gerarchia. Al costrutto bipartito orizzontale si affianca già un costrutto bipartito verticale. La relazione fra i due piani sovrapposti, di conseguenza, non è più assicurata da una forma tecnica come l’analogia, bensì da due immagini del tutto stravaganti, le quali impediscono d’ingredire la soglia d’una qualsiasi teoria. 141   Dopo aver conseguito il grado accademico agognato, gli stesso si adattò ben presto (fra il 1770 e il 1775) a una prassi accademica ‘di doppio binario’ (come oggi diremmo): distinguendo un contegno di «condiscendenza» verso gli uditori comuni per i discorsi edificanti e pratici, tenuti in qualità di docente, da un contegno di «coascendenza» verso il pubblico iniziato ai discorsi scientifici, svolti come autore (Georg Friedrich Meier, Auszug aus der Vernunftlehre, § 491, ed. accademica xvi, pp. 844 ss.). 142   Carabellese, p. 422.

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Ii. Analisi cronologica   285

Ma un primo abbozzo d’una teoria delle possibili relazioni fra il piano della teoria e il piano (sottostante) dell’esperienza e del senso comune sarebbe stato proprio ciò che avrebbe mandata in visibilio la sua signora: la quale probabilmente non aspettava altro che il privilegio d’esserne la prima destinataria. Non si può credere che Kant se la sia voluta levare di torno con uno scritto di una sessantina di pagine; né ch’egli fosse in possesso d’un qualche barlume d’una teoria della relazione fra i due piani, che non intendeva ancora rivelare. Questa teoria, questo barlume, semplicemente non ci sono. Di analogia qui, non a caso, non si parla, né di qualsivoglia altra forma tecnica di corrispondenza tra le facoltà; e a me sembra anzi evidente che Kant vuole senz’altro evitare di parlarne, perché non saprebbe che cosa dire, mediante il ricorso a delle immagini di un’arguzia alquanto insulsa. È vero ch’egli è ben consapevole dei limiti d’esercizio dell’analogia: là dove, per esempio, afferma che i comuni concetti d’esperienza si possono considerare «come se» noi ne conoscessimo anche la possibilità logica o teorica, mentre non è sempre vero anche l’inverso, neppure per analogia143. Ma nel dubitare della possibilità d’un esercizio in senso biunivoco della relazione fra teoria e pratica egli comincia con l’ammettere la possibilità che la terra guardi al cielo; mentre poi dirà, come s’è visto, che sono i professori a voler tenere d’occhio la terra per non finire col dire spropositi. Il senso del discorso appena cominciato s’inverte, e in definitiva non approda a nulla. Il manierismo teorico, consistente nell’affermazione d’una corrispondenza relazionale, ma senza tuttavia addentrarsi in un effettivo esercizio in forma tecnica della corrispondenza medesima, rimarrà una costante caratteristica anche nella prima Critica: la quale incontrerà su questo piano alcune tra le sue più gravi difficoltà – risolvendole, in genere, con un costante rilancio del discorso su altri piani. Ormai non ci resta che continuare, scorrendo rapidamente due casi salienti. Noi non siamo autorizzati ad attribuire alla volontà divina disegni che sono soltanto nostri, bensì dobbiamo «soltanto giudicare del divino volere dall’accordo che [l’uomo] realmente percepisce nel mondo, o che egli analogicamente può supporre in esso»144: in questa sentenza non si vede con che cosa, o fra che cosa si debba percepire un accordo, o supporre l’esistenza di un’analogia. Ed ecco, poco più oltre, questo piccolo capolavoro: le rappresentazioni spiri143   Ivi, p. 372. In questa negazione di una perfetta reversibilità fra esperienza e teoria è segnato il limite esplicito alle possibilità di una neokantiana filosofia del ‘come se’, sul tipo di quella in cui volle cimentarsi, per esempio, il Vaihinger. V. avanti la nota 149 e p. 322. 144   Ivi, p. 388.

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tuali sono di natura diversa rispetto alle rappresentazioni della vita corporea – e tuttavia vi esercitano degl’influssi: i quali «possono passare nella coscienza personale dell’uomo non certo immediatamente, ma eccitando, secondo la legge dell’associazione dei concetti, quelle immagini che son loro affini e che risvegliano rappresentazioni analoghe dei nostri sensi, le quali non sono certo lo stesso concetto spirituale, ma pure ne sono simboli»145. Ricapitolando: vi sono le rappresentazioni spirituali; le quali passano nella coscienza mediante associazioni di concetti; le quali (o i quali, associati) suscitano nella coscienza immagini affini (semi-spirituali, forse, dal momento che le rappresentazioni affatto spirituali sembrano starne fuori); le quali immagini affini risvegliano a loro volta analoghe rappresentazioni sensibili (si va discendendo, con l’analogia?!); le quali non sono certo l’originario concetto spirituale (ma non era una pura rappresentazione?), ma sono almeno un suo simbolo. È un vero peccato, mi sembra, che Kant non sia riuscito a inzeppare in questa tirata troppo breve anche, che so?, l’idea, lo schema, la nozione, la percezione e quant’altro ancora – magari i concetti surrettizi o la sensazione spirituale146. Non manca quasi niente. I suoi serici vanni saranno forse ripiegati, ma è certo che i suoi piedi funzionano benissimo, dal momento che l’arte della fuga trova qui un’applicazione terminologica che fa della scala l’unico clinamen per lui praticabile, sia pure con qualche gradino fuori posto. La ragione di tanto ritegno forse c’è, ed è lui stesso a confessarcela in una nota: là dove dice che per collegare l’anima umana con una materia, com’è il corpo, la difficoltà nasce dal fatto di dovere rinunciare a «l’unico modo di collegamento ch’io conosca: quello che ha luogo tra esseri materiali»!147 Non è la prima volta che incontriamo uscite simili, che per un serio lettore hanno il sapore della beffa. Nel liberarsi della supposta venerabile gravità enigmatica del suo oggetto Kant rischia di liberarsi anche del suo migliore lettore, che l’abbia seguito con attenzione. Ma forse è proprio questo tipo di attenzione postuma, questa lettura accanita ed esigente dei suoi scritti, che egli non reclamava affatto, né poteva attendersi. E d’altra parte, però, egli vuole con  Ivi, p. 390.   Ho già menzionato i concetti surretizi alla nota 132; la «sensazione spirituale» si trova a p. 391. Quest’ultima potrebbe fare da perfetto complemento simmetrico ai «concetti sensitivi» del De mundi (§ 11). Della teoria degl’influssi esercitati (viceversa) dai corpi fisici sugli spirituali egli s’era occupato, com’è noto, sin dalle Forze vive (per es. §§ 5 e ss.). È notevole, nell’insieme, la sua ricerca di nozioni e di relazioni opposte, inverse, complementari, simmetriche e anche, talvolta, miste. 147   Carabellese, p. 371 nota. Mettere in relazione col Mondo lo Spirito infinito che n’è l’autore e il conservatore gli sembra invece un compito facile, dal momento che basta attribuirgli in negativo tutte le proprietà della materia (ibidem). Di facile e di ‘negativo’, qui, c’è soltanto la lastra fotografica dello spinozismo – ossia un manierismo per inversione. 145 146

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Ii. Analisi cronologica   287

tinuare a credere in quello che cerca – se non altro, perché questo è ormai da un pezzo il suo mestiere. Tiene d’occhio il suo clinamen, lui, non meno d’altri; ed esso corre ormai tutto in discesa verso la dissertazione d’ordinariato e verso la Critica. Non manca ormai, tra le figure principali, che il senso del tempo; e nell’introdurlo consisterà l’ufficio del De mundi. Alla nozione della metafisica come conoscenza opposta o complementare, limitata e parallela rispetto alla matematica (qual era stata sancita nella Teologia naturale per esempio), i Sogni sostituiscono già la nozione di un’indagine che vada in primo luogo «scrutando con la ragione le proprietà più recondite delle cose», ma che sia anche, conformemente alla natura dell’intelletto, soprattutto una «scienza dei limiti della ragione umana»: col compito di conoscere quale rapporto abbia ogni suo quesito «con i concetti dell’esperienza»148. Con i «concetti» dell’esperienza, dunque, e non con le più varie doti, risorse e materiali della sensibilità, i quali sono cosa ben diversa, e di gran lunga precedente il concetto. I suoi serici vanni non si ripiegano affatto verso terra, bensì sui sicuri trespoli dell’intelletto. Ciò che della sensibilità viene in tal modo sacrificato a questi «concetti dell’esperienza», che così si preannunciano (per cui il requisito della sensibilità si riduce a un semplice postulato preliminare), non sarà l’unica rinuncia di un uomo che ha pure mostrato di potere, volendo, incamminarsi anche su altre vie – se non altro, perché tutte le vie che gli stavano dinnanzi erano già state aperte e percorse avanti lui. Si trattava soltanto d’incrociarle con arte professionale, e quasi combinatoria, non senza qualche meraviglia o dispetto per il lettore. Comincia così, per Kant, un gioco più grande di lui, che presto gli sfuggirà di mano, con cose ch’erano già state tutte quante più grandi. E questo è il gioco della filosofia contemporanea, fatta per lo più da quei professionisti che sono i professori di filosofia. Del resto – perché no? Da che il mondo esiste la filosofia è stata fatta da poeti e da scienziati, da mercenari, da vagabondi, da gran signori, e infine anche dai professori. Dopo i presocratici, dopo i sofisti, dopo Socrate e dopo Platone; dopo il nobiluomo, il soldato, il viaggiatore; dopo il visionario e il precettore; dopo preti avvocati e commercianti; dopo gli occhialai filologi e gl’ingegneri teologi – bene: bisognava pure che la filosofia cominciasse a diventare una cosa seria, e che dalla città del mondo se ne andasse questo suo teatro. ***   Ivi, p. 421.

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288   parte prima. avanti «la critica»

La tendenza a ragionare per termini opposti induce talvolta Kant a scambiarli. Nel Primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio del 1768, per esempio, comincia col dire, in poche parole, che fra destra e sinistra, o fra alto e basso, che non sono cose reali, viene a stabilirsi una relazione spaziale puramente astratta; mentre una cosa reale sta invece in una sua relazione concreta con uno spazio cosmico. Il primo spazio astratto, relativo alle posizioni della cosa, va evidentemente, secondo lui, considerato come ‘interno’; mentre il secondo, assoluto, va considerato come ‘esterno’. Ed ecco lo scambio dei termini: Ogni estensione consente essa stessa il riconoscimento della posizione reciproca delle sue parti; ma la regione in cui viene disposto tal ordine di parti si riferisce allo spazio fuori della medesima [estensione], e si riferisce non ai luoghi dello spazio d’essa [medesima estensione; ossia relativo alla dimensioni di una medesima cosa]: giacché ciò [questo spazio] sarebbe per l’appunto nient’altro che la posizione delle stesse parti [considerate] in una relazione esterna [?]; bensì [si riferisce] a quello spazio universale come unità, di cui ogni estensione dev’essere considerata come una parte149.

Ora, perché questo discorso abbia senso, bisogna che la relazione ch’egli chiama «esterna» vada piuttosto intesa come ‘interna’. Simili scambi involontari, simili lapsus, hanno il valore di testimonianza psicologica della ricerca di un uomo che si prepara a invertire i suoi punti di riferimento, interpretando la conoscenza sensibile «soltanto in quanto è in relazione con noi stessi», o a distinguere dalle regioni cosmiche dello spazio in concreto, non appena sancite, l’ulteriore concetto di «regioni in generale», ossia «determinate in relazione ai lati del nostro corpo»150. È evidente che l’inversione prospettica della sua futura rivoluzione trova radici interne, già pronte in un suo certo manierismo intellettualistico; e che essa passa dapprima non già attraverso un nuovo cogito e attraverso il primato del senso interno del tempo, bensì attraverso il corpo e il senso esterno, concreto e assoluto, dello spazio. Resta attivo il suo senso pànico, il suo bisogno di cose solide. Ma ciò riguarda soltanto la sua psicologia e la storia generale della dottrina critica, delle quali non mi voglio occupare151. 149   Carabellese, p. 434. Già nei Sogni, parlando di un focus imaginarius posto fuori del soggetto pensante in modo alterato, aveva detto: «la figura, che è opera della pura immaginazione, viene rappresentata come oggetto presente ai sensi esterni» (ivi, p. 398). Ma avrà voluto dire: presente ai sensi interni ‘come se’ fossero esterni. Ma chiedergli una simile precisazione è ormai davvero troppo. 150   Ivi, p. 435. 151   Un riferimento alla centralità del corpo si trova già nei Sogni: «Quel corpo, i cui cangiamenti sono cangiamenti miei, questo corpo è il mio corpo, e il luogo di esso è nello stesso tempo il mio luogo» (Carabellese, p. 375). Ma non è altro che un’eco cartesiana.

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*** Un libero esame degli esordi della dottrina critica nel De mundi richiederebbe pressappoco lo stesso spazio qui sopra dedicato a scritti ben più significativi. La sola discussione, per esempio, di quegl’ineffabili «quasi schemi» che lo spazio e il tempo sarebbero (dopo che nel Primo fondamento lo spazio era già stato definito una realtà «abbastanza» intuitiva152), nonché la discussione della peripezia principale, consistente nell’irruzione della figura logica del tempo come idea «supposta» a sensibus153, richiederebbe un’intera pagina d’ironici commenti. L’unica vera ragione di commento dunque, secondo il nostro assunto, consiste invece in questo: che la tardiva e goffa irruzione del tempo sulla (diciamo così) corsia di accelerazione precritica significa semplicemente che Kant non aveva letto Leibniz – se non a modo suo, frettolosamente, come tutti gli autori cui pose mano per captarne e respirarne il senso. Nel 1770 i Nuovi saggi erano ormai in circolazione da cinque anni; e là egli avrebbe trovato, e forse trovò, lo spunto illuminante di queste parole, del quale avrebbe poi fatto il suo punto di partenza critico: «Tempo e spazio si riferiscono a possibilità indipendenti dall’esistenza. Il tempo e lo spazio hanno la natura delle verità eterne che riguardano tanto il possibile quanto l’esistente»154. Credo di avere mostrato a sufficienza nei due capitoli di questa Parte Prima che nel 1770, a quarantasei anni, Kant è un uomo senza alcun particolare talento o competenza. Se ancora dopo cinque anni, per come egli si esprime, queste parole di Leibniz sortiscono ancora un effetto tanto modesto, e non assumono affatto il significato di una rivelazione; se insomma egli impiegò tanto ad assimilare il senso parziale della lezione leibniziana, ciò significa ch’egli non era stato pronto a riceverla, né aveva saputo sopperire con la sua abituale diligenza e prensilità a questo difetto di prontezza. Ma un’autentica vocazione, questa sì, non gli mancava davvero: perché una certa abilità del rifacimento e dell’infarcitura sopperiva alla mancanza di vero talento. Il cosiddetto decennio silenzioso successivo, interamente o quasi dedicato all’attività didattica, gli fu necessario per riformulare il principio di ragion sufficiente nei nuovi termi  Carabellese, p. 440.   §§ 13 e 14 (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, nella nuova edizione ampliata da Angelo Pupi degli Scritti precritici, Laterza, Roma-Bari 1982 e 2000. E v. anche l’edizione a cura di Raffaele Ciafardone, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002). I «quasi schemi» del 1770 sembrano coronare degnamente una vicenda stilistica che s’era aperta quindici anni prima con certi termini elementari che sono «quasi per nulla» diversi dai simboli: a characteribus nihil propemodum differunt (Nova dilucidatio, sez. i, prop. ii, Chiarimento; Carabellese, p. 8). 154   In Scritti filosofici, a cura di Domenico Omero Bianca, utet, Torino 1988, ii, pp. 278-279 (cap. xiv del libro ii sulle idee). 152 153

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290   parte prima. avanti «la critica»

ni ottimistici di una benevolenza e di una razionalità impersonali e astratte, mondane, non più legate alla scienza né a Dio, bensì soltanto alla retta opinione: la quale soltanto è in grado di dare un senso plausibile alle cose di questo mondo. Non dico che, come risultato, sia molto né poco: dico che questo esso fu, e questo il suo modo; e che in ciò consiste il significato manieristico più generale del suo pensiero. Il manierismo ha finito per diventare il carattere prevalente della filosofia contemporanea, che con Kant comincia a perdere, insieme col nitore stilistico, logico e prosastico, dell’umanesimo italiano, anche il carattere cosmopolita di stampo anglofrancese. Ma con l’hegelismo e col neokantismo, poi, la retta opinione se n’è andata proprio del tutto. Dispersivo e disperso Leibniz, riduttivo e affastellato Kant. Lasciamo le grandi costellazioni storiografiche nei gravidi cieli notturni, dove ogni tanto possiamo alzare il capo a rimirarle a piacere. Perché non dedicarci ormai, piuttosto, all’analisi di almeno una mezza dozzina di passi della Critica stessa, secondo un libero approccio? È precisamente ciò che mi accingo a fare nella Parte Seconda di questo libro, mediante un’archeologia ‘politica’ della Critica: vale a dire seguendo le tracce delle molte città stratificate e commiste che vi si celano in un fitto pullulare silenzioso.

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Parte seconda

«LA CRITICA»

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i. Una critica del testo Se uomini di buon intelletto... sostengono opinioni del tutto opposte, allora è conforme alla logica delle probabilità rivolgere maggiormente la propria attenzione su una certa proposizione media la quale, in certa misura, dà ragione ad entrambi. Kant, Forze vive Wer seine Sinnen hat ins Innere gebracht der hört was man nicht red’t und siehet in der Nacht. (Chi nell’intimo ha posto i sensi veri vede nel buio, e ode nei pensieri). Angelo Silesio

Nella seconda parte di questo mio studio desidero affrontare la discussione della prima Critica per campionature testuali, tendenti a mettere in luce alcune trame del suo disegno filologico e logico. Una ennesima lettura e discussione di tipo tradizionale mi sembra perfettamente inutile, dal momento che esse di certo non mancano. Venendosi gradualmente a stringere su di un profilo filologico, dopo i profili tematico e cronologico, con un successivo profilo logico-tematico il discorso potrà riuscire a riveder le stelle. E il lettore capirà facilmente da sé perché sarebbe perfettamente inutile proseguirlo a oltranza sulla seconda e sulla terza Critica, per non parlare poi delle opere ancora successive: i giudizi dati fin qui saranno certamente bastati – a meno che non si voglia fare la storia e la dottrina del criticismo che qui, per l’appunto, non si fanno. La prima Critica viene vista come una città, e anzi come più città riunite in una vasta metropoli brulicante di situazioni, di luoghi e di personaggi, tutti quanti raccolti su più livelli frammessi o intrecciati, sovrapposti e variamente comunicanti. Conformemente a quest’idea saranno distintamente intitolati i paragrafi. Ma non è la topografia metropolitana generale, né le varie speciali topografie cittadine che m’interessano, o che considero ancora utili: bensì il punto di vista di un viaggiatore ben preparato che scenda in un punto significativo qualsiasi di questa metropoli, e osservi dapprima attentamente quel che vi accade in alcuni luoghi o situazioni che giudica particolarmente inte-

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294   parte seconda. «la critica»

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ressanti, per poi stabilirsi a suo agio, per il resto del suo relativamente breve soggiorno, in un quartiere monumentale centrale. la città sensibile Poiché il rapporto fra chi narra e chi ascolta, se è volontario, non è mai casuale, occorre innanzitutto procedere dalla constatazione che ogni scambio letterario non è che il momentaneo riunirsi in un fitto intreccio d’innumerevoli fili, a lungo e da lungi ritorti, che è vana e insincera pretesa del narratore ostentare di volere prescegliere con cura allo scopo di offrire a chi ascolta delle garanzie di certezza, le quali non stanno che in lui stesso. Questo fitto intreccio ci avvolge come una veste, o una seconda epidermide, che funge da fonte di conoscenza come un sesto senso. Le avanguardie artistiche del Novecento hanno teorizzato questa saldatura, che chiude ai capi opposti le facoltà della sensibilità fisica: la vista col tatto – ma esse non hanno fatto che riscoprire un’unità della vista col tatto ch’era già stata fugacemente intuita, per esempio, da Locke: quando definisce la vista e il tatto «i più indaffarati dei nostri sensi»1. Nell’allestimento di una vicenda speculativa in un mondo già dato, sono già date in qualche modo le sintesi a priori indispensabili per rendere comunicabile e comprensibile la vicenda stessa, nonché per dotare di senso l’allestimento. È pressappoco questo che intendeva Marx, per esempio, quando affermava che l’uomo non si pone problemi, di cui non esistono già le soluzioni. Con il genere letterario prescelto, e con i ruoli rispettivi dello scrittore e del lettore, se non altro, queste sintesi a priori terminologiche, prosastiche, editoriali, istituzionali nelle quali ci troviamo immersi affollano già la mente di chi apra un quaderno o un libro di filosofia, mosso da un bisogno di perfezione che si manifesta, volta a volta, come curiosità del vero, o inquietudine del giusto, o attrazione del bello, o semplice vanità del successo e dell’ozio. Si deve altresì presupporre che nel mondo il bisogno di perfezione sia per lo più assente, o malinteso, oppure minacciato dal disordine, dall’empietà, dalla mediocrità e dalla noia: si parla forse del pane, quando non manca? Le città cosmiche delle nostre nozioni generiche hanno già una loro forma. Chi parla, se riesce a farsi ascoltare, sa già che riuscirà a farsi capire; e chi si accinge a scrivere e a leggere non ha mai la mente pura, tanto meno se lo pretende,   Saggio sull’intelletto umano, a cura di Marian e Nicola Abbagnano, utet, Torino 1971, p. 218.

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i. Una critica del testo   295

bensì turbata da un bisogno, sorgente in lui stesso, che il filosofo metodico preferisce di solito ignorare. Persino chi, sin dagli albori del pensiero, ha lamentato di non riuscire a farsi ascoltare, ha anche dovuto ingenuamente confessare l’inutilità dei suoi sforzi non richiesti. Basta leggere uno dei più celebri frammenti di Eraclito: Ma pur essendo questo discorso sempre così, gli uomini sono incapaci di comprenderlo: e prima ancora di udirlo, e non appena l’ascoltano; sebbene infatti tutto avvenga secondo questo discorso, nondimeno essi ne sono inesperti – essi, che pure hanno esperienza di parole e d’opere tali, quali secondo natura io espongo distinguendo ciascuna e spiegando com’è2.

C’è qualcosa di più della sincerità, in quest’amarezza: c’è l’ingenuità pretenziosa e insieme sprovveduta di un uomo che deve constatare l’inutilità dei suoi gratuiti sforzi dottrinari («distinguendo… e spiegando») con uomini che pure hanno già «esperienza di parole e d’opere» simili. E dunque? Non manca loro niente più che la dottrina del sacerdote zelante e frustrato; ma essi posseggono una miriade di sintesi a priori, sufficienti al giudizio – vale a dire: una miriade di pregiudizi. Insieme con l’espressione del pensiero, dunque, la motivazione e la finalità sono insomma forze originarie del pensiero – anche in chi, come Kant, non include la motivazione e la finalità, ossia la volontà oggettiva e soggettiva, nella sua tavola delle categorie. Ignorando la motivazione critica della propria città interiore, che attraverso le ripetute impressioni e la memoria ha assunto pur essa una sua forma, egli finisce per ricercare (e inevitabilmente per trovare) una sua finalità estetica nientemeno che nell’universo intero: c’è una compensazione in tutto, del resto. La dialettica claudicante dell’espressione e dell’impressione finisce per attribuire al mondo un significato non più originario, bensì intellettualisticamente ricostruito secondo un’intima motivazione e secondo uno scopo il più possibile dissimulati. Contrariamente a quanto accade nell’ordine dei capitoli della Critica della ragion pura, la Dottrina del Metodo, insomma, è sempre scritta prima della Dottrina degli Elementi, e ne contiene le innumerevoli sintesi a priori, di ogni ordine e grado – sebbene si pubblichi, quand’anche si pubblichi, soltanto dopo. Perché mai, questo inganno ellittico, talvolta erratico, sempre faticoso e spesso irritante, nell’attribuzione di un giudizio, che nella motivazione e nella   DK1.

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296   parte seconda. «la critica»

finalità di chi scrive e di chi legge è sempre in qualche modo già dato? Per legittimare il giudizio medesimo, si dice, circa l’esistenza di un essere supremo, del mondo intero e dell’anima immortale, per esempio; ma anche (aggiungo io) per legittimare il giudizio sui diritti dell’uomo e sulla volontà popolare o nazionale; e poi sul disordine, la barbarie, la pazzia, la speranza e il timore, il Medioevo e il Rinascimento, la corruzione italiana e la responsabilità tedesca: tutte queste potrebbero essere nient’altro che pure chimere, ovvero (che in filosofia politica è lo stesso) mere opinioni. Così, insomma, l’ufficio della critica consiste nel legittimare opinioni comuni, facendone rette opinioni. Più oltre non è possibile andare – ed è inevitabile che la constatazione del limite generi l’angoscia nel filosofo: il quale deve in tal modo semplicemente constatare che, nascendo da una città interiore, e riferendosi a una città cosmica, il giudizio da darsi è sempre politico; così come deve pure constatare che le mere opinioni dotate di forza (ossia la fede) non sono mai state chimere, né hanno mai avuto bisogno di quella legittimazione critica che egli ricerca invece con tanta fatica per le opinioni sue proprie, assumendo un debole atteggiamento difensivo. Perché un giudizio sia legittimo bisogna intanto riconoscere che esso esiste, e che si legittima perciò di fatto; che esso è nato da sé nella ‘critica delle masse’ con i suoi costumi, pregiudizi e fanatismi, come una leibniziana verità d’istinto, così come nella ‘massa della critica’ con le sue scuole e corporazioni scientifiche. Anche il pensiero ha una sua gravità e una sua sorgente radicale, umida (cioè umorale) e buia nei corpi fisici, così come nei corpi accademici. E dunque certi ingombranti cimenti speculativi nascono dal non confessare a se stessi, innanzitutto, la propria intima motivazione a esprimersi, che è umore e bisogno lirico: nascono insomma da pudore e da orgoglio di poesia. E questo pudore e questo orgoglio fanno sì che la strada che parte dagl’intellettuali solitari, da Boezio da Petrarca e da Montaigne, resti perciò una via laterale, la meno battuta in filosofia. Papini aveva esclamato da giovane: Perché non dichiarare apertamente che la filosofia è un’invenzione, un gioco, un esercizio spirituale, un edificio mitico, una poesia di concetti che noi dobbiamo sentire, vivere, amare, creare, capovolgere, confondere, suscitare a gioia dei solitari e a dispetto dei mercatanti? Perché volerla cacciare a forza al confessionale della scienza, a chieder perdono per i peccati contro la verità, e rinchiuderla nei conventi e nelle biblioteche, col voto di povertà e di astinenza? Perché farne una mendicante, una serva, una prigioniera? Perché rinnegare le sue origini poetiche e il suo contenuto fantastico?3

  La filosofia che muore, in ‘Leonardo’, novembre 1903.

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i. Una critica del testo   297

E lamentò da vecchio che «Nulla manca oggi, agli uomini, più della poesia e dell’amore. Un’accigliata e appartata aristocrazia intisichisce nelle infermerie della critica e della filosofia: la stessa lirica, per questi maliscenti reclusi, è pretesto o esercizio di clandestini balletti intellettualisti»4. È dunque in base al presupposto di una reciproca passione razionale in chi legge e in chi scrive che occorre procedere alla critica di una vicenda letteraria di genere particolare, com’è la filosofia, mediante l’osservazione di personaggi ricorrenti in una continua rappresentazione, assai antica. È inutile, è puerile, è edificante e dunque talvolta persino ipocrita fingere di condurre e di lasciarsi condurre per mano muovendo primi passi, quando nel bambino, con la narrazione di favole, la locomozione progredisce essa stessa di pari passo con le sintesi letterarie. La poesia è conoscenza originaria, che non teme di riconoscersi quale testimonianza di uno stato di privazione; e i suoi costrutti mentali elementari, ben chiari e distinti e separati in dottrina, ne possono derivare come da cosa ormai morta, suscitando un feto di pensiero speculativo dal grembo di un cadavere. La metafisica nasce dalla rimozione di un’ispirazione poetica, e acquista di solito in pesantezza e in pretese tutto ciò che non ammette nella peripezia delle sue origini; e la lingua in cui è scritta rivela, di solito, la tristezza non accudita dell’infanzia. Ma gl’ircocervi generati dai sogni5 della ragione non si cacciano, dopotutto, istituendo un ufficio d’anagrafe che ammetta la certificazione soltanto «di ciò che dovrebbe di diritto accadere, e non [anche] di ciò che di fatto accade»6: perché precisamente a ‘ciò che di fatto accade’ l’ufficio d’anagrafe deve la propria istituzione; e tanto varrebbe, se no, designarlo a presiedere alla generazione medesima. È un’altra inversione. *** Precisamente la possibilità di quest’ufficio e di questa presidenza, tuttavia, è ciò che Kant finì per andare cercando. Che qualcuno voglia accertarsi di saper nuotare prima di gettarsi nell’acqua (così Hegel satireggiò gli scrupoli di Kant) è più che comprensibile; e serve, se non altro, a non trasformare romanticamente, poi, quella semplice mancanza di prudenza in un ‘superamento’   Il libro che vorrei leggere, in ‘Spia del mondo’, 1955.   La parola sueño nella celebre sentenza apposta all’incisione di Goya si traduce tanto ‘sonno’ che ‘sogno’. È ciò che fa notare André Stoll, La ‘illuminatio’ di Goya. Simbologia della genesi estetica dei ‘Caprichos, in Goya Daumier Grosz, Il trionfo dell’idiozia. Pregiudizi, follie e banalità dell’esistenza europea, Mazzotta, Milano 1992, pp. 13-15. Quella di Goya è anche una critica della ragione ‘pura’ – ma senza il doppio senso edificante dell’aggettivo kantiano. E se Kant ha voluto dire che non c’è sogno senza sonno, ossia senza perdita di sensibilità, Goya insegna che una ragione ‘pura’ semplicemente non può esistere. 6   B 778. Mi servo del testo Reclam a cura di Ingeborg Heidemann, Stuttgart 1966. 4 5

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298   parte seconda. «la critica»

che è, in realtà, nient’altro che un semplice galleggiamento, vincendo la legge di Archimede a suon di triadi. Ma è il bisogno di gettarsi nell’acqua che viene per primo, e non è mai, né può mai essere, bisogno ben assennato. Si prova, si fa, si va. La poetica drammaturgica di Gottsched insegnava che durante la notte, di solito, si dorme – e di lì a poco il giovane Goethe, al suo secondo cimento teatrale, scrive un dramma che per buona parte si svolge proprio di notte. L’amore porta avanti tutto, come la forza, e i baci hanno il potere di persuadere i pedanti a non ingannarsi, per lo meno, su se stessi: le sintesi a priori dell’antropologia della conoscenza sono ben numerose – assai più di quante ne sappia immaginare un volonteroso filosofo di provincia. È vero che il giovane Kant riconobbe precocemente, nel suo angolo di mondo, proprio la necessità di procedere in una direzione opposta rispetto a quella che poi finì col propugnare nella trilogia critica: prendendo atto, cioè, di manifestazioni che sono sempre, in definitiva, nient’altro che rivelazioni di un essere; e insomma procedendo dall’intuizione di un mondo come cosa nell’insieme già data, e in qualche modo nota. Ma i presupposti naturalistici del suo problema conoscitivo lo portavano a interrogarsi circa la possibilità di attribuire una forma a un qualcosa che egli supponeva, di per sé, informe, secondo un’assai ordinaria concezione di ciò ch’è ‘materia’. È questo, che gli fece cambiare strada. Ed egli non riuscì mai a capire che la cosa ‘data’ è ‘già data’, invece, proprio come una forma; e che questo ‘esser già dato in una forma’ è precisamente ciò che della cosiddetta materia noi sentiamo resistere alla risolvibilità nel pensiero: i contenuti finiti, e la varietà numerabile delle sostanze. Del resto, oltre che da sintesi a priori terminologiche e disciplinari, tolte di peso dalla tradizione, il suo interrogarsi sul problema della conoscenza non fu neppure immune da sintesi a priori, diciamo così, istituzionali: perché è proprio intorno al 1770, coronando con successo le sue ambizioni accademiche dopo ripetuti tentativi, durati un quindicennio, è allora, insomma, che Kant comincia a invertire il senso della sua indagine circa ciò ch’è già dato, e ciò ch’è possibile e legittimo dare; nonché circa gli effettivi contenuti dell’esperienza. Nella ricerca del successo accademico la sua fatica speculativa disinteressata era pur sempre mossa da un’ambizione e da un bisogno, da uno scopo personale, da una sua propria finalità pratica, da un’antropologia caratteriale e regionale che doveva dare forma insieme col pensiero, innanzitutto, alla sua stessa vita; e, com’era inevitabile, questa finalità schiettamente umana si trasformò prosasticamente in forma di pensiero secondo l’ufficio pedagogico assunto e diligentemente, alacremente, dispersivamente assolto. Anche le sintesi a priori della sociologia della conoscenza sono ben numerose, dunque. Per

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i. Una critica del testo   299

tutto un insieme di ragioni, insomma, la vera e propria esperienza che ormai conta per lui è il pensiero, il quale prende il posto del mondo. Che in questa svolta vi sia anche un relativo progresso, che fa poi testo sui banchi di scuola (così come accade, pressappoco, con l’avvento della dialettica socratica), non nego; ma non è un progresso senza gravi perdite: perché si apre in tal modo (in entrambi i casi: con Kant come già con Socrate) un arduo problema riguardo alla concezione e all’esercizio della sensibilità – ossia un fondamentale problema estetico. E anzi con la sua riduzione a pretesa scienza del bello l’estetica medesima conoscerà, fra l’altro, il sacrificio del suo significato etimologico generale, a favore del significato storico e disciplinare d’un neologismo. Il problema della conoscenza sensibile in Kant consiste in una riduzione del significato più generale dell’estetica, in una subordinazione del suo ruolo conoscitivo, in un’inversione di prospettiva. E tuttavia, ponendo la questione della critica del giudizio, al termine di una vicenda durata un ventennio, con la terza Critica s’impone, com’era inevitabile, l’esigenza di ritrovare in qualche maniera nel mondo il ‘senso’ del pensiero – senza tuttavia smentire il pensiero; e anche a costo, magari, di smentire il mondo (come accadde, poi, col neokantismo). A differenza dei suoi successori, Kant volle fermamente arrestarsi alla prima soltanto di queste due conclusioni. E bisogna anzi riconoscergli il merito d’avere combattuto risolutamente la tentazione di un’affermazione del pensiero a prezzo della smentita del mondo – anche se non gli si può del tutto perdonare la noncuranza con cui trascurò d’indicare la vera origine remota di quella smentita del mondo a favore degli artifici del pensiero: la quale risiede, in ultima analisi, nella soluzione teo-terminologica del dualismo cartesiano qual era stata escogitata da Spinoza. Ma noi lo conosciamo abbastanza, ormai, per sapere che egli non sarebbe mai stato all’altezza del compito. È vero che residui terminologici mantengono pur sempre in vita l’equivoco spinoziano anche in Kant: come là dove, nella prima Critica, egli afferma di poter pensare l’essere supremo per mezzo di concetti desunti, sì, dall’esperienza sensibile, ma facendo un uso soltanto relativo, trascendentale, di questo presupposto: il quale va inteso, dice, come semplice Substratum7. Qui, come del resto in generale, l’indistinto e duttilissimo termine ‘trascendentale’ equivale al distinto nesso terminologico: ‘empirico-speculativo’; il quale sarebbe, di per sé, logicamente impossibile, almeno quanto ‘l’amore intellettuale’ di Dio. Sebbene non abbia nulla di divino o di demiurgico (al contrario!), questo ‘sostrato’ kantiano, comune al pensiero e agli esseri, mantiene comunque   B 706.

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300   parte seconda. «la critica»

in vita letargica la soluzione grammaticale della Sostanza spinoziana, quale ‘sostantivo’ dotato di ‘attributi’; e la relazione orizzontale istituita fra mondo dell’esperienza e mondo speculativo, l’analogia (la quale rappresenta il contenuto formale e sensibile della funzione puramente logica trascendentale), rischia di diventare (e diventerà infatti, nei romantici) essa stessa una sostanza, anziché venire riconosciuta per quello che è: un’essenza terminologica. Kant non riesce mai a fare chiaro uso dei due termini, ben distinti, di sostanza e di essenza; i quali del resto, come ho già detto fin dalla Presentazione, sono ben confusi nella tradizione della filosofia, fin dalle origini. Affaccendandosi attorno al problema dell’unità secondo l’analogia fra i modi della Sostanza, resta però suo grande merito l’avere resistito all’impiego della metafora patologica delle cosiddette ‘affezioni’. Anche il solo esprimersi in questi termini significa comunque, mi sembra, che la filosofia non è che un genere letterario, il quale vive di soluzioni e di battaglie retoriche. Nondimeno, con tutti i suoi meriti intentati o maltentati, quello di Kant diventa dopo il 1770, nel complesso, un discorso di aggiustatura autoreferenziale, e anche di ripiegamento su di un manierismo di se stesso, ben più che d’altrui. Diventa un sistema che nasce già vecchio e imbellettato d’arguzia, nel quale la segregazione municipale fa da riscontro al disfacimento dell’Impero. Già pervaso da un certo autismo logico e terminologico che farà poi (reso autarchico e nazionale da Fichte) molta strada, esso resta viziato da inconcludenza generale – nonché da una sorta di concludenza implicita e prefissa: come in un tragico campo energetico chiuso, nel quale si è destinati a pagare il fio d’ogni rimozione e d’ogni inversione d’ordine, finendo dove non si può fare a meno di finire. Il suo stile è quello di chi procede in una direzione (quella generale, solida e sempre feconda del migliore pensiero, vale a dire del dualismo sostanziale); ma camminando ormai a ritroso per non ammettere di trovarsi, tutto sommato, sempre sulla strada già battuta dal cartesianesimo. Con l’insistente aggirarsi, fin dalla prima Critica, intorno alla possibilità di un vero liberamente opinabile, in quanto non intimamente contraddittorio, risulta inoltre senz’altro evidente il riavvicinamento al wolffismo, nella ricerca di una tacita continuità dottrinale e di un contatto più stretto con l’ambiente professionale accademico. Il vuoto moralismo della seconda Critica può essere allora, praticamente, rimedio provvisorio all’angoscia della logorroica inconcludenza speculativa del pensiero, il quale non vede altro approdo possibile, per la critica, se non l’opinione ‘insensata’; e questo moralismo può essere anche, d’altra parte, anticipazione di quella prevedibile conclusione che di lì a poco prende ben presto sensata consistenza nel Giudizio: come insom-

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i. Una critica del testo   301

ma se Kant, affrettandosi a scrivere la terza Critica, assai poco conto facesse dell’affidabilità dei suoi imperativi categorici, così poco accessibili all’umana natura; e come se avesse cercato, piuttosto, di ‘dare un senso’ sicuro al mondo attraverso il Giudizio. La seconda Critica argina la prima, e la terza rimedia alla seconda. Piuttosto che da un potere assoluto, la moralità generale sembra meglio garantita da un’estetica della politica, insomma. Ma fra l’estetica della politica e l’etica dell’obbedienza, fra terza e seconda Critica, insomma, deve o dovrebbe logicamente rinascere una contraddizione. E se invece contraddizione non vi sarà, ma vi sarà anzi somma o sintesi di fattori, per cui l’Imperativo si metterà neokantianamente al servizio del Giudizio, e viceversa, ne nascerà semplicemente la tragedia dell’avventura tedesca nel Novecento. la città tralasciata Molte sono dunque le sintesi a priori ignorate per proposito metodico, o per segregazione provinciale, o per costume disciplinare e accademico, nel rovesciamento di prospettiva che si compie attorno al 1770. Esso meriterebbe l’appellativo di ‘socratico’, non già di ‘copernicano’: perché quest’ultimo è fuorviante, e significa in un certo senso esattamente l’opposto dell’accaduto, secondo lo stile di un’irritante sfuocatura discorsiva che in Kant è piuttosto frequente, e che in questo caso, come in tanti altri, tradisce un’insofferenza, un difetto di cultura, o anche un timore nei confronti dell’antico che ha salde radici, in generale, nella tradizione luterana. Anche le sintesi a priori dell’idiosincrasia della conoscenza sono, in definitiva, ben numerose. A far da perno dell’equivoco è il cattivo uso retorico dell’illuministica analogia solare con la ragione, mediante una formula di rivoluzione che consente di alludere a una traslazione del centro dalla supposta sede ‘interna’ del sistema geocentrico verso la sede ‘esterna’ del sistema eliocentrico – mentre in realtà quel che avviene è esattamente l’opposto: e dal mondo fisico e solare, verso il quale era stata sin lì rivolta, l’attenzione di Kant si volge adesso verso gl’interni presupposti di funzionamento del pensiero in un sistema gravitazionale che vede sensibilità intelletto ragion pura ruotare, come altrettanti pianeti su differenti orbite, attorno a una vaga e somma Ragione centrale, la cui natura non viene mai ben distinta. È di una controrivoluzione tolemaica, in realtà, che si tratta. Ma vedremo, più avanti, che per descrivere questo sistema di rapporti Kant non si serve però affatto della metafora planetaria o gravitazionale (ch’egli teme, perché troppo moralmente e politicamente

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302   parte seconda. «la critica»

aleatoria), bensì preferisce fare uso della metafora giudiziaria, amministrativa o gerarchica; la quale è poi, a sua volta, soltanto forma sensibile di un sistema empirico generale di rapporti volumetrici fra contenitore e contenuto, che egli decisamente predilige; e che gli fa dire, per esempio: «L’intelletto funge per la ragione [pura] da oggetto, come [già] la sensibilità [ha costituito a sua volta un oggetto] per l’intelletto [medesimo]».8 E il motivo di questa preferenza schematica per gerarchie e volumi sta precisamente in ciò: che qui Copernico non c’entra affatto; c’entra, semmai, il Fedro, e il ragionare dell’anima sotto i platani, con tutti i difetti della gravità umanistica e pedagogica socratica. Solo che, a differenza di Socrate, Kant non rinuncia affatto a interrogarsi sui sogni della ragione, sulla natura degl’Ippocentauri, di Gorgoni Pegasi e Chimere – al contrario. Le sintesi a priori in forma di metafora, di schema, e di generica figurazione retorica, dunque. Con l’apparizione, sul finire della prima Critica, del riconoscimento del ruolo conoscitivo generale, centrale, dell’analogia, nonché, più particolarmente, della metafora antropomorfica, oltre al cartesianesimo e al wolffismo ritorna a galla, altrettanto inevitabile e ben più silente, il platonismo – non senza una certa precarietà logica (ma senza, s’intende, l’eleganza, e il leale riconoscimento del debito9). Vediamo. Per analogia alle realtà del mondo, alle sostanze, alla causalità e alla necessità, io penserò dunque un essere [supremo] in possesso di tutto ciò [che ho appena menzionato: sostanza, causalità, necessità] nella più alta [höchste] perfezione; e poiché questa idea [dell’essere supremo] poggia esclusivamente sulla mia ragione, potrò pensare quest’essere come ragione sufficiente a se stessa [selbständige Vernunft], che è causa dell’universo attraverso [durch] le idee della massima [größte] armonia e unità. Così io tralascio [weglasse] tutte le condizioni che limitano l’idea [dell’essere supremo, vuol farci intendere Kant], al solo fine di rendere possibile, sotto l’egida [unter dem Schutze] d’un tale fondamento originario [Urgrund], l’unità sistematica del molteplice nell’universo e, per suo mezzo [vermittelst], il massimo possibile uso empirico della ragione, considerando tutte le connessioni come se corrispondessero ad altrettante disposizioni di una Ragione suprema [höchste], di cui la nostra [ragione pura] è [soltanto] una debole copia.10

Questo passo meriterebbe d’esser preso ad esempio dell’abituale farragine della prosa kantiana, fatta di sorprese, di cosmesi e d’inversioni continue. Ma   B 692.   Sono sintomi appena percepibili, questi, di una sua vera e propria idiosincrasia nei confronti della filosofia da gran signori, che a tarda età Kant si deciderà polemicamente a confessare, contrapponendole fieramente un triste partito aristotelico della filosofia prosaica del duro lavoro (D’un tono da signori, contro Schlosser). Kant ebbe così il merito di svelare le due specie fondamentali dell’antropologia accademica. 10   B 706. 8 9

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i. Una critica del testo   303

non è che uno dei molti; e credo sia possibile trovarne di simili nello spazio d’ogni mezza dozzina di pagine almeno. Delle tre Critica, la seconda ne è forse la più ricca; e questo stile coglie di solito impreparato il lettore, il quale si attende da un filosofo lo svolgimento di un discorso lineare e consequenziale, anziché circolare, procedente per vortici. Ma insomma, andando per ordine: qui non si vedono, innanzitutto, integrità congruenza o compatibilità del repertorio nomenclativo. Dal momento che sostanza causalità e necessità sono soltanto tre dei dodici concetti puri, possiamo anche ammettere che Kant abbia voluto lasciar capire ciò che intende, tralasciando di menzionare gli altri per brevità – a meno che non vi siano giudizi e categorie d’una classe speciale, incognita; ma non si capisce all’esercizio di quale funzione logica corrisponda l’analogia, o comunque in che relazione essa stia con i concetti puri o con le categorie. Lo stesso interrogativo sorge riguardo al repertorio delle idee: perché noi apprendiamo che un’idea (l’essere supremo) si serve d’altre idee (armonia e unità) per esser causa dell’universo. Poiché come effetto di una causa quest’universo non può essere, a sua volta, nient’altro che un’idea (nemmeno Spinoza aveva mai osato sostenere il contrario, ammettendo un’impossibile filiazione concatenata per alternanza dagli attributi della Sostanza: un’idea da una cosa, e una cosa da un’idea), se ne deduce che mentre la ragione umana è in grado di generare idee, e anzi la stessa idea di un essere supremo, mediante l’esercizio di una funzione alquanto misteriosa, ma comunque d’ordine superiore, come l’analogia; l’idea dell’essere supremo genera invece idee per mezzo d’altre idee come una semplice causa – ossia come quel vecchio arnese che a memoria d’uomo è sempre venuto prima dell’effetto; e che del resto non ha nulla di superiore, ma anzi fa parte, s’è detto, delle normali funzioni della ragione mondana. La posizione di quest’essere supremo è decisamente imbarazzante. Questo suo far da causa ‘suprema’ all’universo attraverso le ‘massime’ idee d’armonia e d’unità aggiunge imbarazzo all’imbarazzo, per problemi, diciamo così, d’affollamento al vertice dell’universo; e quest’imbarazzo sarebbe facilmente dissipabile, se Kant volesse ammettere l’origine leibniziana dell’idea di coesistenza di Dio con le idee supreme. L’affollamento è anche terminologico e cosmetico: se accanto allo höchst ci sta il größt, per evitare una ripetizione rivelatrice, accanto al durch ci sta pure il vermittelst. Ora, a parte la goffaggine immaginosa dello stare sotto l’egida di un fondamento, il misterioso e vagamente mistico durch della divina causa dell’universo diventa, come Urgrund, nientemeno che strumento (vermittelst, da Mittel) di una relazione empirica a disposizione della debole copia di quello stesso sommo fondamento origina-

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304   parte seconda. «la critica»

rio. Semplici sottigliezze? L’ho già detto: è inutile leggere Kant ignorandone lo scopo prefisso, nonché il tracciato a spirali, ora centripete ora centrifughe, del suo stile prosastico. E quante di queste sottigliezze si possono allora accumulare, per fare un bel peso! Il lettore che si voglia divertire può provvedere da sé; ma le occasioni, più avanti, non ci mancheranno. *** Se ora il lettore volesse sospettare che io abbia qui voluto appositamente scegliere con cura una pagina infelice nei dettagli; e che di questo passo conti soltanto, come ho pur detto, il significato intuitivo generale, ossia ciò su cui Kant contava nell’affidarlo all’ascolto dei suoi lettori – bene: proprio qui sta invece la sua debolezza. Qualcuno mi vuol convincere che servendomi di qualcosa io possa concepire qualcos’altro, liberando poi questo qualcos’altro da tutte le condizioni che lo limitano – e naturalmente io domando subito: liberandolo anche da quel qualcosa di cui mi sono servito nel concepirlo? Il verbo weglassen mi suggerisce la verità, ossia l’inganno logico-dialogico. E se poi questo qualcuno mi chiama questo qualcos’altro un «fondamento originario» – bene: domanderò se il privilegio dell’appellativo non spetti piuttosto, innanzitutto, alla facoltà di cui mi sono servito per concepirlo: all’analogia. La quale è il vero Urgrund e la vera egida, il vero strumento e la sola unità armonica in questo passo, e in tutto quanto il discorso di Kant. Il suo essere supremo è libero da tutto, fuorché dalla potenza che l’ha creato; e se questa potenza si vuol proprio che abbia sede in esso stesso, e che anzi sia, nientemeno, esso stesso, vorrà dire che quest’essere supremo sarà libero da tutto, fuorché da se stesso. Ecco dunque un soggetto onnipotente – ma ‘soggetto’ a se stesso, e alla propria somma funzione obbligata di generatore e di garante d’armonia e d’unità universali. Ecco un soggetto carico di tutti i suoi possibili predicati: i quali sono poi, in definitiva, nient’altro che il suo intero se stesso. Ecco il nuovo Dio come primo ‘soggetto’ dell’universo, generatore non già di catene distinte di modi, bensì di modi distinti in catene: ciascuno legato indissolubilmente al suo significato analogico tràdito non diversamente dalla potenza coatta del generatore nell’esercizio della sua funzione logico-retorica. Non mi sembra che Kant se ne sia mai reso conto: ma egli, in definitiva, ha tentato di risolvere il problema del dualismo sostanziale contrapponendo alla somma Sostanza spinoziana una somma Essenza analogica terminologica. Ed è un vero dramma ch’egli non abbia capito d’essere sul punto d’enunciare la possibilità di un simile progresso: lucidamente concepito e sentenziato, esso avreb-

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i. Una critica del testo   305

be potuto avere un significato d’enorme importanza nella storia del pensiero contemporaneo. Come funzione logico-retorica attraverso (durch) la quale avviene il trapasso delle sostanze, l’analogia non è affatto un luogo di scambio vuoto e informe, estraneo al mondo dell’esistenza reale: perché Kant ci assicura che l’infinita perfezione si aggiunge all’essere supremo solo dopo ch’esso è stato concepito «sulla scorta di un più sottile antropomorfismo (senza il quale nulla potrebbe venir pensato di esso), ossia come un essere che ha intelligenza, che prova piacere e dolore, quindi che ha desiderio e volontà, ecc.»11. Da nessuna parte, io credo, Kant ha saputo valutare pienamente il significato di questo ulteriore fondamento del fondamento, vale a dire il limite retorico antropomorfico dell’uso, teoricamente illimitato, dell’analogia. Ma anche così, intanto, noi constatiamo che la sensibilità mantiene intatte le sue prerogative proprio nell’esercizio della funzione più alta del pensiero, vale a dire nel suo esercizio d’incrocio, di scambio e d’unità delle sostanze: che è un esercizio immaginativo e chiastico. Comunque si voglia concepire l’essere supremo (figura retorica, funzione logica, narrazione o rappresentazione, intuizione discutibile, esperienza involontaria), ogni cosa che ne derivi, conformemente alla natura di esso, non può che essere armonia e unità originarie di sensibilità e d’intelletto. In questo senso, tutto ciò cui poniamo mente è sempre, in se stesso, una sintesi a priori. Il mondo n’è pieno. Kant non vuole ammettere apertamente che ciò che noi chiamiamo universo è possibile ed è opera di quell’antica retorica della sensibilità e del ‘come se’ irreversibile, che si chiama poesia (ma, aggiungo io, neppure lo poteva ammettere, considerato l’uomo che era). E tuttavia questa conclusione sta racchiusa nelle radici del suo stesso pensiero: il quale si mostra, al riguardo, altamente paradossale, allorché la terza Critica è costretta a pagare malamente il fio di questo lontano weglassen della prima. È anche merito di passi come questo che ho analizzato (e dunque, in definitiva, anche di uomini come Kant) aver mostrato che la poesia non è affatto estranea alla filosofia: la quale non riesce, suo malgrado, a procedere senza di essa, ossia a rimanere pensiero ‘senza senso’, neppure nelle sue legittime avventure al di là dell’esperienza. E la rimozione implica inevitabilmente una riappropriazione per altra via: la metafisica come mentito bisogno di poesia. In quanto è bisogno, questo sentimento conserva ancora in Kant il decoro di una certa innocenza; ma in quanto è mentito, esso non potrà durare a lungo, e dovrà risolversi in espressione poetica del tutto pura e del tutto assoluta,   B 728.

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306   parte seconda. «la critica»

del tutto lirica e del tutto cosmica; oppure in altrettanto assoluta pretesa di scienza. È proprio ciò che accadrà dopo di lui. Desidero perciò soffermarmi su qualche importante particolare del passo, che del resto è anche letteralmente assai gravido di conseguenze per la storia dell’idealismo romantico: basta vedere come i concetti puri vi siano considerati come «realtà del mondo», e come il fondamento originario dell’idea diventi, fra una subordinata un’incidentale una consecutiva, proprio l’idea stessa, nonché la Ragione stessa, in un chilometrico periodo che i traduttori si devono ingegnare a spezzare in almeno due tronchi. E con la maiuscolazione dei sostantivi il Sonderweg ortografico tedesco aiuta anche qui, come dappertutto, a fare Ragione della ragione. Traducendo selbständige Vernunft come «ragione autosufficiente» Chiodi lascia un indizio favorevole a futuri sviluppi idealistici, diciamo così, autocoscienti; mentre Colli, traducendo come «per sé sussistente», lascia intuire una vaga traccia di sostanzialismo – che è poi odore di spinozismo12. Ma non è così; e hanno invece ragione la Marietti, la quale traduce: «ragione autonoma»; e l’Esposito che assentisce13. Chiodi temeva di dover ammettere l’evidenza: e cioè la naturale immersione di Kant in un generico clima pienamente illuministico. E ai suoi occhi (e alle sue orecchie, soprattutto) ciò avrebbe rappresentato la stonatura, la smentita, il tradimento di tutto il supposto significato generale, storiograficamente il più acquisito e sicuro, dell’intera fatica kantiana, così com’essa può essere, ed è stata effettivamente, descritta da una dottrinaria logica storiografica fatta di preparazioni a continui superamenti. Così la sua ragione autosufficiente prepara già la stagione idealistica. La volontà polemica antistoricistica e parmenidea (diciamo così) di Colli, invece, lo spinge a ripensare alla ragione sostanziale spinoziana, con un tratto a ritroso. Ma in ogni caso non è Kant. La storia non va solo in avanti, nel senso che non serve soltanto a preparare sviluppi già stabiliti in un canone storiografico – ma non va neppure all’indietro, né permane identica: in entrambi i casi si perde la semplice e nuda verità della cosa, così com’è quando esiste la parola adatta. Forse che, d’altra parte, la sufficienza logica di una ragione autonoma è già, di per sé, sufficienza ontologica? Non si vedrebbe, allora, lo scopo d’avventurarsi sul terreno dell’analogia. È un fatto che col parlare, nel passo sottoposto 12   Pietro Chiodi per la utet, Torino 1986, p. 529; Giorgio Colli per Adelphi, Milano 1976, p. 685. In un altro caso Colli traduce Art, per esempio, con «modo» (B 594; p. 599). Lo si vedrà ancora più avanti. 13   Anna Maria Marietti per la bur, Milano 1998, ii, p. 681; Costantino Esposito per Bompiani, Milano 2004, p. 971.

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i. Una critica del testo   307

a esame, di selbständige Vernunft quest’allusione alla pura sufficienza logica esiste; e perché perderla, dunque? Se non è il caso di tirare Kant verso Hegel, né verso Spinoza, sarà pure ammissibile che lo si voglia lasciare dov’è: nel Settecento, certo – ma non in un Settecento generico, bensì vicino a Wolff. Questo è il motivo per cui, trattando di un essere che esiste soltanto nella mia testa, mi sono permesso di parlare di una ragione «sufficiente a se stessa» (mentre con la ragione «autonoma» la Marietti avrà pensato, io credo, alla risposta alla domanda su ciò che sia l’illuminismo). la città antonomastica Con tutta l’incertezza e la debolezza delle sue migliori intenzioni, bisogna dire che fu proprio lo stesso Kant a fare torto a se stesso: dal momento che non seppe concepire l’analogia se non in termini deduttivi e discendenti; nient’affatto creativi, dunque, e per nulla conformi a una qualsiasi disciplina di una sensibilità d’ordine superiore14. Esaminiamo un altro passo. E per comodità di riferimento nella lettura, in ragione delle sue molte difficoltà, permettiamoci d’interromperne la continuità suddividendolo in tre capoversi distinti, corrispondenti ai tre periodi finiti di cui si compone. Ma poiché [Weil aber], se [wenn], una volta che [einmal] ci siamo concessa la libertà di ammettere una realtà [innanzi] a sé [vor sich] sussistente al di fuori dell’intero campo della sensibilità, i fenomeni sono da considerarsi [anzusehen, riferito al sind posposto] soltanto come contingenti maniere di rappresentarsi [Vorstellungsarten] oggetti intelligibili da parte di esseri tali [von solchen Wesen], che sono [sind] intelligenze essi stessi; [poiché dunque ci siamo presa questa libertà,] a noi non resta altra risorsa [nichts anders übrig] che l’analogia, secondo la quale utilizziamo [nutzen] i concetti d’esperienza per procurarci [uns zu machen] un certo quale concetto [irgend einigen Begriff] di cose intelligibili intorno alle quali, in se stesse, non sappiamo [altrimenti] alcunché. Poiché [Weil] non altrimenti che attraverso l’esperienza noi conosciamo il contingente, e poiché qui si parla però di cose non destinate [nicht sein sollen] a fare da oggetto d’esperienza, saremo costretti a dedurre [ableiten müssen] la loro conoscenza da ciò che è in sé necessario, [ossia] senz’altro da concetti puri di cose [aus reinen Begriffen von Dingen überhaupt].

14   È incomprensibile, perciò, come Colli possa, per esempio, tradurre Schluss con «inferenza»: per es. B 654 e B 655; pp. 645 e 646. Chiodi, più diplomaticamente, ha «ragionamento» (pp. 498, 499), ripristinando la traduzione di Giovanni Gentile e di Giuseppe Lombardo-Radice, che è evidentemente altrettanto errata (per Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 397, 398). Tutti vogliono evitare l’imbarazzo di lasciar dire a Kant quello che dice: di non saper concepire l’analogia se non in termini deduttivi.

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308   parte seconda. «la critica» Di conseguenza [Daher], il primo passo che muoviamo al di fuori del mondo sensibile ci obbliga a dare inizio alle nostre nuove cognizioni [unsere neue Kenntnisse anzufangen; intendi: alla trattazione delle nostre nuove cognizioni] della ricerca [von der Untersuchung] dell’entità [Wesen] necessaria per eccellenza [schlechthin], e a dedurre dai [von den] concetti [che noi possiamo farci] della medesima [entità] i concetti di tutte le cose, in quanto [almeno (so fern) questi nostri concetti di quell’entità] sono semplicemente intelligibili; e noi vogliamo accingerci a questo tentativo [di trattazione] nel capitolo seguente [che s’intitola: ‘L’ideale della ragione pura’]15.

Esaminiamo il primo periodo, fino al mio punto e virgola (dove Kant mette invece un due punti). Seguendo il testo dell’edizione accademica, tanto Colli che Chiodi hanno entrambi lasciato come «per sé» il vor sich, diventato für sich nell’interpolazione accademica già volentieri accolta dal Gentile16. Ma il significato dell’espressione è proprio quello letterale originario, vor sich: non già di un momento dialettico, bensì rappresentativo; è il significato di un vor sich stellen, o di qualcosa che si contempla nella sua autonomia logica, postulata e non contraddittoria, sufficiente a esistere pur senza possedere sostanza alcuna, né coscienza o debito d’origine analogica (un ‘risoluto’ disconoscimento dell’origine retorica della realtà insensibile, che dopo Kant verrà reso ‘assoluto’). Nessuno, insomma, dovrebbe ritrarsi dinnanzi a simili indizi di dimestichezza col semplice principio di ragion sufficiente – anche se Kant lo volle alquanto dissimulare con innumerevoli artifici prosastici; e non ha dunque alcun senso volerlo incoraggiare a superare se stesso, a procedere verso appuntamenti storiografici imminenti col futuro idealismo, quando a lui premeva invece proprio di restare dov’era, e magari di tornare un poco indietro, servendosi, allo scopo d’instaurare analogie, dei mezzi logici più prossimi: gli unici che poteva ammettere, del resto, per difetto o ripudio di cultura letteraria. Una seconda interpolazione si verifica sul verbo ansehen, che, mediante soppressione di una virgola e inversione dell’ordine di precedenza, l’edizione accademica accompagna al sind (anzusehen sind, anziché sind, anzusehen)17. Si genera così un grave equivoco, tutt’altro che innocente, io credo, grazie   B 594-595.   Per giudicare il valore della traduzione del Gentile è utile lo spoglio delle cinque dozzine d’inesattezze, omissioni e volontarie interpolazioni terminologiche compilato da Ludovico Limentani su ‘Cultura filosofica’, 1911. Nessuna delle mie osservazioni ripete le sue. 17   L’interpolazione è tratta dall’edizione Hartenstein del 1838, come segnala Esposito, il quale l’accetta. Scrive insomma Kant: Wenn wir uns einmal die Erlaubnis genommen haben... Erscheinungen nur als zufällige Vorstellungsarten intelligibeler Gegenstände, von solchen Wesen, die selbst Intelligenzen sind, anzusehen: so bleibt uns nichts anders übrig, als die Analogie; e trascrivono invece lo Hartenstein e l’Accademia: Wenn wir uns einmal die Erlaubnis genommen haben... Erscheinungen nur als zufällige Vorstellungsarten intelligibeler Gegenstände, von solchen Wesen, die selbst Intelligenzen anzusehen sind: so bleibt uns nichts anders übrig, als die Analogie. 15 16

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i. Una critica del testo   309

al fatto che per ragioni d’ordine sintattico la posposizione dei due verbi all’infinito li riunisce, e che l’unico sind è però riferito a due termini diversi, gli oggetti intelligibili e gli esseri intelligenti; i quali vengono, con l’interpolazione, entrambi riuniti anch’essi in un comune riferimento al verbo ansehen; così che questo verbo, pur esso in unica comparsa, acquista il doppio riferimento del sind. Ne risulta che tanto gli oggetti intelligibili che gli esseri intelligenti, insomma, «sono da considerarsi» delle contingenti maniere di rappresentarsi le cose. Kant parla, in sostanza, di esseri intelligenti i quali possono in qualche modo riuscire a farsi un’idea di cose, di cui nulla sanno, unicamente in virtù della comune intelligenza, che essi possiedono per natura; mentre possiedono queste idee di cose, invece, per rappresentazione, ossia in virtù di qualcosa che naturale non è. Ma interpolando il testo nel modo che s’è visto gli si fa dire, viceversa, che tanto quegli esseri intelligenti, quanto queste idee di cose, sono da considerare come intelligenze. In tal modo gli esseri intelligenti diventano oggetto, anziché soggetto, del discorso, condividendo con le idee non già la partecipazione di un’intelligenza operatrice, la quale svolge un suo ben distinto ruolo analogico; bensì condividendo la partecipazione reciproca nella rappresentazione stessa, operata da un soggetto impersonale e assente, la quale rappresentazione cessa così d’essere lo scopo o il frutto di un’operazione. È questo il seme dell’indistinto che, dopo Kant, porterà al trionfo dell’analogia nell’idealismo romantico – ma senza l’analogia. È qui l’inizio, filologicamente appena percepibile, della retorica smentita in quanto retorica, vale a dire come consapevole illusione del ‘come se’ impugnato dal filosofo letterato secondo le regole di un’arte. Ed è anche così che l’arte d’illudersi diventa un’arte d’ingannarsi. Nell’indistinta fusione che tende a verificarsi fra operatore e operazione, si perde il demiurgo, sopraffatto ed estromesso dall’opera, e anzi ridotto a opera fra le opere; e i molti fenomeni non sono più altrettante maniere contingenti di rappresentarsi le cose, secondo idee, «da parte di» un essere intelligente, bensì diventano rappresentazioni contingenti ‘di’ quegli esseri intelligenti, che sono le idee, ‘da parte delle’ idee medesime. Non interpolato, bensì frainteso nel suo doppio significato, il von partecipa anch’esso in modo decisivo a generare l’equivoco di una larvale ipostatizzazione, secondo la quale le idee possono bastare a pensare se stesse. È in realtà la nota che annuncia il trionfo dell’oggetto, o l’ontologia dell’idea18. 18   Traduce per esempio il Gentile: «Ma poiché... i fenomeni non son da considerare se non come specie di rappresentazioni contingenti di oggetti intelligibili, di esseri tali, che sono essi stessi intelligenze; non ci resta altro che l’analogia» (p. 365). Chiodi lo segue: «i fenomeni non possono ritenersi che specie

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310   parte seconda. «la critica»

Facendo delle idee altrettante intelligenze, se ne fanno delle potenze; e la scomparsa dell’operatore rende queste potenze del tutto autonome. Ora, bisogna pur ammettere come cosa del tutto verosimile che il platonismo venga inteso in qualche modo, da un uomo come Kant, alla luce del wolffismo: così che la sufficienza logica deve tendere a manifestarsi in rappresentazioni ideali, mentre le rappresentazioni devono consistere, innanzitutto, di sufficienza logica. L’ipostatizzazione e l’equivoco potenziale, poi, non sono affatto nuovi, ma appartengono anzi a una delle tappe storicamente più importanti (e pressoché inevitabili, direi) della filosofia: il neo-platonismo aveva già trasformato le idee in altrettante potenze demiurgiche intermedie. Ma qui si rischia di perdere affatto l’intero significato e lo scopo della proposta kantiana, che vuole muoversi in direzione diametralmente opposta. Mediante le interpolazioni effettuate o accolte dall’edizione accademica un’agguerrita e barbara foresta ideologica mette semi filologici fra le crepe grammaticali della città critica, mentre la città analogica che dovrebbe sorgere in un cielo d’immaginazione non lo può (né lo potrà in seguito, nemmeno con la terza Critica), per difetto di adeguata educazione alle forme della sensibilità d’ordine superiore, quali sono richieste dall’impiego dell’analogia. Sul nostro punto il Colli, invece, aveva visto giusto: «le apparenze allora sono da considerare soltanto come modi contingenti di rappresentare oggetti intelligibili, da parte di enti che sono essi stessi intelligenze»19. Per il resto, con le sue note forzature terminologiche egli si proponeva precisamente di combattere la lettura di Kant attraverso Hegel; ma ne portava il discorso a rovesciarsi sui due margini schopenhaueriano e vagamente spinoziano, ancora più larghi e lontani, e non meno ideologici. Vorstellungsarten, per esempio, vale anche: ‘specie di rappresentazioni’, come preferiscono Chiodi e l’Esposito; i quali con le «specie» vogliono probabilmente evitare i «modi» del Colli, ripristinando la versione di Gentile e Lombardo-Radice. Ma ciò non basta per evitarne la suggestione sostanziale. Art deve invece significare «maniera», nel senso di una qualsiasi rappresentazione generica: perché nell’ammettere fuori del campo della sensibilità una irgend einige realtà a sé, la ragion pura non può averla già distinta secondo specie; e non può dunque rappresentarsela secondo contingenti di rappresentazioni degli oggetti intelligibili, proprie di esseri che sono intelligenze essi stessi» (p. 461). E così pure la Marietti: «i fenomeni sono da considerarsi solo come modi accidentali di rappresentare oggetti intelligibili di siffatti esseri che sono essi stessi intelligenze» (p. 596). 19   P. 599. Esposito lo segue, ma in modo curioso o fortunoso, perché dice di accogliere l’integrazione proposta da Hartenstein di anzusehen con anzusehen sind; e traduce: «i fenomeni andranno considerati soltanto come specie di rappresentazioni contingenti di oggetti intelligibili, da parte di esseri che sono essi stessi delle intelligenze» (p. 829, e nota 151).

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i. Una critica del testo   311

queste specie della realtà, bensì, semmai, secondo le specie sue proprie – ossia secondo tecniche artigianali o logiche specificamente distinte. È vero che di simili distinte tecniche analogiche nella prima Critica non v’è mai il benché minimo barlume; e che bisognerà attendere la terza Critica perché Kant arrivi finalmente a scoprire che le arti hanno assolto questo suo compito dacché esistono il mondo e le arti stesse. Ma questa è proprio una buona ragione per parlare di una generica «maniera», secondo la quale egli semplicemente si accostava a terreni che gli erano sempre stati completamente sconosciuti; e le cui tecniche gli sembravano ancora del tutto contingenti – o come ancor meglio traduce la Marietti: «accidentali». In Kant basta, di solito, leggere quel che è scritto, e ammettere, soprattutto, che la sua visuale non era affatto vasta, bensì alquanto corta, e legata all’ambiente e al presente. Restiamo dunque all’esame del nostro passo. È curioso che una volta tanto l’interpunzione di Kant sia più decisamente scandita di quella dei suoi quattro più recenti traduttori italiani, i quali rinunciano all’originaria divisione in due tronchi del primo periodo (là dove, per intendersi, vi sono i suoi due punti, o il nostro punto e virgola). La seconda metà del primo periodo, dunque, presenta l’analogia come un’ultima risorsa, o quasi un ripiego; e poi ne spiega il funzionamento in termini alquanto pratici e sciatti: si tratta, secondo Kant, semplicemente di utilizzare un tipo di concetto, noto e preciso, per ottenerne un altro, alquanto vago: sappiamo soltanto, da lui, che l’esperienza è prerogativa del primo, ma non del secondo. Tutto il significato e la terminologia di questa frase stanno a indicare la precarietà dell’operazione e del suo risultato, perfettamente rispondenti alla povertà teorica dell’approccio. *** Dopo che l’intera prima proposizione s’è aperta con una serie di ben tre locuzioni causali (weil, wenn, einmal, di cui non possono sfuggire le rispettive sfumature deduttiva, ipotetica, condizionale), la seconda proposizione inizia anch’essa con la ripetizione di una locuzione causale (weil); ed entrambe fanno perciò da premessa alla terza proposizione, conclusiva, che si apre col daher. Se non che, i significati delle due premesse, coordinati, stanno in certo qual modo in aperta e sconcertante contraddizione fra loro. Basta confrontarle con attenzione. Lo stile della seconda, intanto, è più semplice e chiaro: Kant ha riscritto in essa la prima proposizione – ma insieme con le difficoltà sintattiche s’è pure liberato delle difficoltà analogiche. Quel che resta, infatti, è ciò ch’egli trova sempre di più agevole, sicuro e prossimo: la deduzione logica. I tradutto-

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312   parte seconda. «la critica»

ri italiani si sforzano tutti quanti di evitare l’evidenza dello ableiten, cercando di far dire a Kant (poiché sta propugnando il ricorso all’analogia) qualcosa di più intelligente della semplice deduzione, e che almeno vagamente possa somigliare a un qualcosa di diverso, come l’analogia: Gentile e Lombardo-Radice «ricavare»; Colli e l’Esposito «derivare»; Chiodi e la Marietti «desumere». Nessuno il più semplice ed evidente, persino deludente, «dedurre». Ma così è. Forse che su un terreno nuovo un uomo come Kant non poteva trovarsi negl’impacci di un müssen, uscendone per la via più breve? Forse che un grand’uomo non può essere, talvolta, men grande? E invece qui si tratta proprio della deduzione: perché avventurandosi a tentoni alla ricerca di una soluzione per lui nuova, come l’analogia, essa gli restava ancora poco distinta, se non addirittura risolta logicamente; e questa soluzione deduttiva avvenne col ricorso all’espediente ancora più prossimo del riferimento sistematico interno, dottrinale, suo proprio, appena terminato di elaborare nella prima parte dell’opera circa la dottrina degli elementi: col riferimento, cioè, ai concetti puri, in sé logicamente necessari, senz’altro. In tal modo l’analogia può interamente prescindere dall’osservazione e dall’esperienza. Così l’analogia non è più un traslato; un contenuto disomogeneo in forma pura; due contenuti in una sola forma; una nuova forma sorgente in qualche modo da due esperienze, o dal pensiero e dall’esperienza; una relazione virtuale corrispondente a una relazione reale per similitudine, o per uguaglianza; un mezzo d’invenzione, soprattutto20; o come ancora la si voglia concepire – ma è inutile continuare: perché quest’analogia, insomma, non è più analogia. Se überhaupt fosse davvero riferito a Dingen, come vogliono tutti i traduttori italiani che leggono «da concetti puri di [o: delle] cose in generale», vi sarebbe ancora la possibilità di lasciare uno spazio a una qualche esperienza e a una qualche sensibilità: dal momento che noi apprenderemmo così dell’esistenza, oltre che di concetti puri, anche di (vagamente; o più precisamente: delle) cose in generale. Vi sarebbero due entità, insomma: i nostri concetti puri, e i generi reali; e l’analogia è possibile, per l’appunto, su base duplice. Da dove vengano poi fuori, questi generi reali delle cose (che potrebbero anche essere le idee; ma non com’egli le volle concepire, secondo una logica strettamente gerarchica e volumetrica, bensì nel loro più classico significato immediato); e quale sia la possibilità della relazione di appartenenza contenuta nel ‘di’ o nel ‘delle’ (se i concetti puri sono di cose in generale, forse che l’analogia non s’è già operata in essi, o viceversa in quelle?); e quale sia mai, eventualmente, il tipo   Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano 1988, p. 103.

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i. Una critica del testo   313

di sensibilità necessaria a farne esperienza (dal momento che i concetti puri dovrebbero avere con le cose in generale una relazione in qualche modo simile, corrispondente, magari speculare, alla relazione dei concetti empirici con le cose contingenti) – bene, insomma: questi, e innumerevoli altri, sono tutti interrogativi ai quali toccherebbe a Kant di rispondere, o ai suoi traduttori. Ma se le cose in realtà non stanno così Kant, almeno, non ha bisogno di dare alcuna spiegazione: perché überhaupt si riferisce, qui, proprio a reine Begriffe, nonché, indirettamente, ad ableiten, a scopo rafforzativo. Esso vuole semplicemente significare, come ho infatti tradotto: «dedurre senz’altro». È insomma alla deduzione überhaupt, e non überhaupt alle cose, che Kant sta pensando. I generi reali delle cose in lui non esistono affatto, da nessuna parte, neppure nominalisticamente – e nessuno dei traduttori, del resto, ha mai pensato di attribuirgliene l’esistenza (in Kant vi saranno tracce di neoplatonismo, semmai; ma non di autentico platonismo). E quanto a un esercizio delle superiori discipline della sensibilità, egli non ne ebbe mai vera cognizione, e tantomeno talento, trattandosi di educazione artistica e letteraria di cui, francamente, ben poco capiva. La conclusione dell’intero passo, con la terza proposizione, non è meno ricca di problemi e di sorprese. Essa vorrebbe in qualche modo trarre le necessarie conseguenze da entrambe le premesse – anche se in realtà, trovandosi costretta a scegliere, non le trae che dalla seconda, confermando la scelta deduttiva. La cosa era prevedibile, direi, e non occorre insistere, ripetendo le cose appena dette. La lingua è, anche qui, assai insidiosa, e francamente ben poco elegante, a cominciare da quel «dare inizio a nuove cognizioni». Poiché l’espressione, in sé, non ha alcun senso, i traduttori l’hanno interpretata così: come se le nostre conoscenze avessero un ‘principio’ o un ‘inizio’ in un essere assolutamente necessario; e come se noi dovessimo ormai accingerci alla ricerca di questo essere per farne procedere le nostre deduzioni. Quale patrimonio repertoriale dell’aristotelismo, e quale principio, poi, d’ogni metafisica teologica (a ripartire, in età moderna, dal cartesianesimo), la soluzione è tanto antica, o anche semplicemente vecchia, da sembrare risorsa e ricorso, da parte di Kant, evidente, legittimo e naturale. Se così fosse, si spiegherebbe il mistero di quei ‘concetti puri di cose in generale’, che s’è appena visto; e soprattutto si svelerebbe il mistero della loro consistenza relazionale nel ‘di’: perché la reciproca appartenenza dei nostri concetti puri e delle reali idee di genere, comunque intese, avrebbe sede unitaria e troverebbe sostanziale garanzia in un essere supremo, assolutamente necessario, il quale, dacché esiste la metafisica teologica, risolve ogni enigma semplicemente facendolo proprio.

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314   parte seconda. «la critica»

Ma leggendo con molta attenzione, e senza far dire a Kant cose più difficili, né più naturali o venerabili di quelle che dice, si può vedere che le cose non stanno affatto in questo modo. Qui ha ragione Colli, innanzitutto: quando non traduce Wesen con «essere», bensì con «ente»; e quando rifiuta di sostantivare il verbo anfangen come «inizio» o «principio». Tutti, però, traducono Kenntnisse con «conoscenze». Ma Kant parla, per l’appunto, di cose che non conosciamo affatto – altrimenti il problema non si porrebbe nemmeno: ciò che abbiamo dell’insensibile, dunque, non sono che vaghe «cognizioni», o anche «nozioni»; e il Wesen, corrispondentemente, non può essere ancora nient’altro che un certo qualcosa, un’altrettanto vaga «entità» (che preferisco al più preciso «ente» del Colli), alla quale bisognerà dare una qualche consistenza mediante una trattazione apposita – la quale inizia infatti dalla pagina immediatamente successiva, intitolata all’ideale della ragione pura. Poiché dell’entità in questione non abbiamo ancora alcuna vera conoscenza, le nostre nuove cognizioni non possono affatto riferirsi a essa, cioè al Wesen, bensì alla trattazione medesima, che occorre or ora intraprendere, della sua ricerca. Alla sciatta formulazione prosastica si aggiunge qui di nuovo, come nel passo esaminato più sopra, l’ambiguo significato del primo von: il quale si riferisce non già al Wesen, come a un essere necessariamente e cartesianamente postulando «dal» quale procedere deduttivamente con legittimità e certezza di pensiero, bensì alla nostra Untersuchung: «della» quale soltanto noi possiamo dire di avere, altrettanto e più cartesianamente, una qualche certezza. Allo stesso modo, ma con nuove ambiguità del von, i concetti d’ordine superiore «dai» quali noi effettuiamo la deduzione dei nostri concetti reali non sono affatto concetti che siano propri «di» quell’essere assolutamente necessario (come suoi attributi o pensieri divini, insomma), bensì semplicemente i soli concetti intelligibili che noi stessi possiamo farci «di» quell’entità «dalla» quale effettuiamo la deduzione. Il von den, in questo caso, va inteso come aus den. Per il resto, il significato della frase, come quello delle precedenti, è tutt’altro che slanciato verso l’alto e l’assoluto – anzi: il so fern ribadisce definitivamente l’intento nettamente limitativo di tutto il discorso. E perciò la conclusione vien fuori da sé: l’entità alla quale Kant si affida per trarre la sua deduzione è semplicemente quell’ideale della ragion pura che, come preannunciato, fa per l’appunto da titolo alla trattazione che s’inizia alla pagina seguente. Quell’entità è quest’ideale, tutt’uno con la sua trattazione. Kant è consapevole dei limiti intellettuali dell’entità alla quale si affida; ma proprio perché questi limiti sono soltanto intellettuali egli non sembra rendersi conto di ciò che, in termini di sensibilità, ha sacrificato con l’analogia, piegandola sulla via della deduzione.

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i. Una critica del testo   315

Di quest’entità, ancora una volta, egli non può o non vuole riconoscere la vera natura – arrestandosi però a un singolo cenno. Lo schlechthin, che quasi tutti i traduttori rendono con «assolutamente» (praticando un abuso del termine ‘assoluto’ abbastanza consueto21), significa piuttosto: ‘per eccellenza, ovvero ‘per antonomasia’. Ora, l’antonomasia è figura retorica. Per quanto logicamente costrutto, questo ideale della ragion pura nessun’altra natura possiede dunque, a pensarci bene, che letteraria. E del resto, una ragione pura dotata d’ideali altro non è che personaggio, descritto in un pesante romanzo del suo apprendistato, della sua formazione e delle sue interminabili peregrinazioni – le quali si aggirano tuttavia perennemente soltanto attorno a ciò che lasciano. Soppiantato, per manifesta incapacità di procedere su un terreno non congeniale, da un volontario ripiegamento deduttivo, nella prima Critica il traslato analogico dilegua sotto i nostri occhi per riapparire in qualche modo pesantemente edificato come Giudizio nella terza. Ma già fin d’ora noi scorgiamo risorgere al di là d’esso, quale esteso fondamento possibilità limite condizione d’ogni nostra conoscenza d’ordine superiore, l’involontario e inesteso traslato antonomastico. Quale genuino presupposto ‘trascendentale’, quale forma generale d’ogni sintesi a priori d’ordine complesso, esso fa, come ha sempre fatto, di necessità logica e di sensibilità un tutt’uno, secondo la definizione dell’antonomasia che fu già di Cassiodoro: come qualcosa siffatto, ut tamen illud, quod necessarium fuerit, sentiatur22. Noi non siamo, qui, di fronte al prodigio d’una dialettica che s’insinua dappertutto, con un superamento del concetto mediato delle cose nel concetto immediato attraverso l’ideale; né del pensiero del reale nel reale del pensiero attraverso l’involontarietà della scrittura; né della sensibilità nell’intelletto attraverso la ragione – e simili romanticismi; bensì noi assistiamo, semplicemente, al quasi impercettibile riscatto retorico della sensibilità nel discorso logico, o insomma al riscatto della letteratura e dell’arte, le quali risorgono dopo un malinteso ripudio intellettualistico di quell’unità del pensiero che si trova già sempre nella poesia. È ciò che ci accingiamo a vedere meglio nel paragrafo seguente. la città concreta Nella prima Critica Kant volle andare alla ricerca delle sintesi a priori della sensibilità e dell’intelletto; ma non riuscì mai a capire con chiarezza (neppure, 21   Soltanto la Marietti preferisce «incondizionatamente», che è senz’altro più kantiano e meno romantico. 22   Dal Grande dizionario di Salvatore Battaglia.

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316   parte seconda. «la critica»

e forse tantomeno, nella terza Critica), che la sintesi a priori di tutte le sintesi a priori riguarda precisamente l’immediato esercizio delle facoltà sensibili e intellettive medesime. Quando anche parlò d’intuizione, egli non ne seppe definire le forme: a causa di un’insuperabile incapacità d’intendere la vera natura della forma nell’unità delle facoltà. Al ripiegamento dell’analogia sulla deduzione corrisponde, nel suo pensiero, il ripiegamento degli schemi sulle categorie. Come forme intuitive delle categorie, o loro uso immaginativo, gli schemi non portano la conoscenza al di là d’un solo passo, neppure come sua condizione: dal momento che la netta separazione della forma dalla materia, e altresì l’associazione rispettiva dei sensi esterno e interno allo spazio e al tempo (che sono due costanti indefettibili del suo pensiero) rendono impossibile, in generale, concepire l’esistenza di veri e propri contenuti, o a-priori intelligibili della sensibilità. Un problema di contenuti lasciato senza vera soluzione spalanca la via del cosiddetto ‘formalismo’, il quale accompagna fedelmente la fortuna del kantismo, e costituirà, in stretta unione col moralismo categorico, una delle più pericolose miscele pedagogiche nella formazione della mentalità nazionale tedesca contemporanea. I passi citabili sarebbero innumerevoli, e aprirebbero una lunga esposizione separata, distinta per di più in altrettanti temi, quanti sono i termini concorrenti a realizzare la saldatura originaria delle due facoltà conoscitive: intuizione, forma, schema, spazio, e tutto ciò che, insomma, porterebbe a ridefinire i termini basilari dell’estetica kantiana. Sebbene anche questo sia lo scopo della presente trattazione, non può tuttavia diventarne l’oggetto principale sistematico. Osserviamo piuttosto che le prime parole successive al passo analizzato nel precedente paragrafo, con le quali si apre la preannunciata trattazione de L’ideale della ragion pura, contengono proprio un riferimento alla forma. Fedele al metodo, che mi sono scelto, di tenere unite, il più possibile concentrate ed esemplari, le fonti testuali d’esame, senza correre qua e là per opere che sono, già di per sé, abbastanza affastellate, converrà dunque indugiare ancora un poco sulle tre pagine di questo paragrafo che tratta Dell’ideale in generale23. Esse si concludono col riconoscimento dell’esistenza d’ideali della sensibilità, ossia di modelli a-priori d’intuizioni sensibili possibili – e però, secondo Kant, non discutibili, e ridotte in definitiva a empiriche. Ma ecco l’esordio: Abbiamo visto più sopra che mediante puri [reine] concetti dell’intelletto, prescindendo da tutte le condizioni della sensibilità, non ci si possono affatto rappresentare [vorstellen] oggetti [Gegenstände], perché mancano le condizioni della loro [derselben] realtà oggettiva   B 595-599.

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i. Una critica del testo   317 [objektive], e in essi [in ihnen] null’altro si coglie [angetroffen] che la nuda [bloße] forma del pensiero. E nondimeno li [sie] si può presentare [darstellen] in concreto, se li [sie] si applica [anwendet] a [auf] fenomeni: perché là [an ihnen] essi hanno [haben] propriamente il materiale [Stoff] a [farsi] concetto d’esperienza; il quale nient’altro è, che un concetto intellettivo in concreto.

Non diversamente dai precedenti, questo passo si presta a numerosi equivoci di lettura alquanto insidiosi, dovuti a sciatteria prosastica più che a incertezza di pensiero – la quale peraltro, come vedremo, non manca affatto. Innanzitutto: a che cosa si riferiscono derselben e in ihnen? A me pare chiaro: si riferiscono a «oggetti», e non a «concetti», come invece intendono sia Colli, che Chiodi, che Esposito; i quali, nel lodevole tentativo di sciogliere il prudente riserbo di Gentile (il quale, imitato dalla Marietti, si limita al calco), traducono nel senso che: mediante i soli concetti puri mancano le condizioni della realtà oggettiva «di tali concetti» (Colli, Esposito), o «di questi concetti» (Chiodi); e di questi concetti puri noi possiamo cogliere soltanto la nuda forma del pensiero. Ora, questa non è neppure una vera tautologia. La prima affermazione si riduce infatti a un’ovvia ripetizione, mentre la seconda, secondo un consueto impiego cosmetico di sinonimi, annuncia il semplice ritrovamento di ciò ch’è «puro» (rein) in ciò ch’è «nudo» (bloß, che vale «semplice» per Gentile, Colli, Chiodi, Esposito, i quali preferiscono un termine assai rischioso, e per lo più decisamente errato: forse che ciò ch’è messo a nudo dev’essere per forza di natura semplice? – meglio, allora, il «mero» della Marietti). Ma Kant vuol dire invece, come infatti dice, che le condizioni della nostra sensibilità sono condizioni della realtà oggettiva dei medesimi oggetti (e lasciamo pure andare la goffaggine ripetitiva e tautologica dell’oggettività degli oggetti, che in tedesco resta camuffata dal ricorso alla doppia terminologia germanica e latina); ovvero che sono condizioni della rappresentabilità di questa realtà, e dell’oggettività delle nostre rappresentazioni; e dice che i concetti puri dell’intelletto non rientrano fra queste condizioni di realtà, ovvero di rappresentabilità, perché per loro mezzo noi cogliamo «in essi» (oggetti) null’altro che la nuda forma del pensiero. Kant vuole insomma evitare che accada quel che invece sembra riuscire ai suoi traduttori: vale a dire, che il pensiero non pensi che se stesso. Gentile e Lombardo-Radice sono stati invece più scaltri: perché hanno lasciato il derselben, senza arrischiarsi ad attribuirlo, mentre hanno semplicemente soppresso in ihnen. La Marietti ne ha saggiamente imitata la prudenza, ma non l’omissione24. 24   Ecco Gentile e Lombardo-Radice: «non è possibile rappresentarsi gli oggetti, perché mancano le condizioni della loro realtà oggettiva, e non c’è se non la semplice forma del pensiero» (pp. 365-366).

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318   parte seconda. «la critica»

Il lettore attento avrà certamente notato l’inserimento esegetico dei miei due «ovvero», coi quali cerco di rendere in buon italiano l’ambivalenza congiuntiva e alternativa del bruttissimo ‘e/o’. Per il modo com’è involontariamente formulata, la prima proposizione, in effetti, ha l’importantissimo significato di equiparare le condizioni della realtà degli oggetti alle condizioni della loro rappresentabilità. È chiaro che Kant pensava alla seconda di queste due sortite. Ma esageriamo un pochino; e diciamo che da questa frase, così com’è sciattamente concepita sotto il profilo prosastico, noi possiamo immaginare che si distacchino le due principali tradizioni speculative successive, dell’idealismo hegeliano e del suo polemico ripudio schopenhaueriano. Ma non esageriamo affatto, invece, nel sottolineare che queste condizioni sono in ogni caso, a differenza di come poi le intenderà l’idealismo, condizioni schiettamente sensibili: ripetiamo soltanto quello che Kant dice con lampante chiarezza. È la sensibilità che ci offre le condizioni per porci dinnanzi oggetti reali; in sua assenza, essi non sono affatto posti dinnanzi a noi, non sono reali, bensì restano nella loro nuda forma di pensiero. Ora, se Kant usasse il plurale, e parlasse di ‘forme’, potremmo desumere che per lui i concetti puri coincidano, in definitiva, con altrettante nude forme contenute nel pensiero. Dovremmo allora riconoscere ai suoi traduttori, caduti nell’equivoco d’attribuzione di particelle aggettivali e pronominali, il grande merito d’aver portato alla luce, con una banalità, anche una grande verità: quella d’una sostanziale identità fra i concetti puri e la pluralità delle forme del pensiero. Ma non è così: perché è invece il pensiero ad avere una sua propria, generica e misteriosa «forma»; la quale, in quanto è «nuda», sembra essere cosa distinta dai concetti puri medesimi. Essa sembra altresì far loro, in qualche modo, da sostanza spaziale, come una sorta di luogo d’immersione. Dopo avere postulato, senza mai darne giustificazione, che sostanza del senso interno è il tempo, Kant non potrebbe mai essere spinto a dir tanto – ma ciò non impedisce a noi di dirlo; così come nulla c’impedisce, per conseguenza, di trovare testualmente in questa sua «forma», della quale nulla egli vuole dirci, la sostanza comune delle sue distinte facoltà conoscitive primarie, della sensibilità come dell’intelletto; e del tempo come dello spazio; e del cosiddetto L’omissione di «in essi» è fortemente tendenziosa, perché implica la perdita dell’oggetto, nel quale la forma del pensiero, secondo Kant, pur sempre risiede; così che il loro «non c’è» viene in tal modo a significare: ‘non rimane’, o ‘non resta’ del pensiero che la forma «semplice» – ossia senza oggetto: un pensiero in qualche modo ‘assoluto’, secondo un debito hegeliano. Ed ecco invece la Marietti: «non possono venire rappresentati veruni oggetti affatto, poiché mancano allora le condizioni della realtà obiettiva degli stessi e in essi non si trova se non la mera forma del Pensare in generale» (p. 600). Dei cinque traduttori la Marietti è l’unica che abbia avuto il coraggio d’introdurre la maiuscolazione (e, più raramente, l’inciso fra parentesi quadre) a scopo di chiarezza.

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i. Una critica del testo   319

‘interno’ come del cosiddetto ‘esterno’. Perché se la forma «nuda» ha relazione coi concetti puri dell’intelletto, sarà ben legittimo arguire che la forma ‘non nuda’ avrà, viceversa, relazione con le condizioni della sensibilità. Se di questa sua generica forma egli nulla ci vuol dire, è, credo, perché la soluzione spinoziana al problema della Sostanza era troppo prossima, per non rischiare di doverla accogliere sotto le mentite spoglie di una Forma; né Kant, come ho già detto, seppe intuire che, concepita invece come Essenza, la soluzione al quesito del dualismo sostanziale avrebbe potuto brillantemente concepirsi altrimenti. E se, d’altra parte, nulla ce ne può dire, è perché questa forma egli non la seppe veramente intendere – o altrimenti al posto di una critica della ragione pura egli avrebbe scritto una ‘Critica della forma nuda’. Il fatto che non la seppe intendere è precisamente ciò che rivela la proposizione successiva. E qui siamo da capo: a che cosa si riferiscono i due sie dell’avversativa, introdotta da: «e nondimeno»? Coerentemente con la formulazione della proposizione avversata che la precede, Colli Chiodi la Marietti e l’Esposito riferiscono entrambi i pronomi ai concetti puri; e scrivono perciò che i concetti puri si possono nondimeno rappresentare, qualora li si applichi a fenomeni (Gentile e Lombardo-Radice rendono soltanto il riferimento ai concetti del primo pronome, mentre, di nuovo, sopprimono con disinvoltura il secondo). Ma non è così; e qui la colpa è tutta di Kant, della sua corrività prosastica, come di una certa grossolanità teorica – nonché, soprattutto, di una sua vera e propria idiosincrasia o pavidità nei confronti di tutto ciò che possa significare sviluppo della sensibilità. Il primo sie è riferito infatti agli oggetti, mentre il secondo è riferito ai concetti. Kant vuol dire, insomma, che sebbene gli oggetti non si possano rappresentare in assenza delle condizioni offerte dalla sensibilità, come s’è detto, essi, sie (questi oggetti insomma), si possono tuttavia concretamente anche presentare in altro modo, per un’altra via, quando queste condizioni della sensibilità siano inammissibili, o assenti (o quando, aggiungo io, le si voglia evitare): e precisamente esercitando essi, sie (vale a dire i concetti puri, stavolta), su fenomeni. I quali fenomeni offrono ai concetti puri quel vario materiale empirico che ne fa concetti non più puri, bensì, come ora li si può finalmente chiamare, d’esperienza. Mentre nella ‘rappresentazione’ di un oggetto noi dobbiamo rispettare le condizioni della sensibilità, delle quali, se non altro, possiamo disporre, nella ‘presentazione’ di un oggetto quale esperienza d’un fenomeno, invece, noi otteniamo, secondo Kant, un puro concetto intellettivo in concreto: ciò che andavamo per l’appunto cercando, e che sembrava a priori impossibile. Anche qui, in questo vagamente dialettico trapasso che è di fatto laterale, ma che ha

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320   parte seconda. «la critica»

una pretesa ascendente, del vorstellen (mettere dinnanzi a sé) nel darstellen (metter là), noi troviamo un altro dei numerosissimi germi di stupefacenti sviluppi idealistici futuri – ma ormai essi non ci possono più interessare: qualcuno ne avrà di già steso il catalogo; e se non è così, tanto meglio. Ciò che conta è ben altro: con la sostituzione nell’esperienza del fenomeno agli oggetti; con la sostituzione della concretezza alla realtà (non senza ricorrere all’espediente vagamente cosmetico della locuzione tecnica latina, suggestiva di un qualche recondito significato speciale); con la rozzezza impacciata del verbo anwenden, che tutti i traduttori rendono con ‘applicare’, rispettandone, se non altro, la goffaggine; con la riduzione degli oggetti dell’esperienza, infine, a materiali del pensiero; bene – con tutto ciò noi assistiamo all’apertura, rispetto all’analogia, di una nuova strada laterale, di una via parallela e stravagante, che parrebbe obbligata. Rispetto al precedente ripiegamento dell’analogia sulla deduzione logica bisogna ammettere che la via dell’applicazione presenta, almeno, l’innegabile vantaggio di pretendere di rispettare le condizioni e i limiti della sensibilità. *** Immediatamente dopo aver sentito parlare dell’analogia alla fine del capitolo precedente, nell’esordio di queste pagine potrebbe sembrare che noi abbiamo finalmente trovato un procedimento che somiglia a un uso dell’intelletto non meramente deduttivo. Ma è proprio di riduzione o di sostituzione dell’analogia che invece si tratta, e non di vera e propria analogia – né Kant, del resto, pretende il contrario. L’espressione: ‘la sensibilità sta agli oggetti, come i concetti puri alla nuda forma del pensiero’ non contiene incognite; essa è dunque una semplice equivalenza disgiuntiva, come Kant infatti comincia con l’affermare. Ora, qual’è invece l’incognita? È il concetto ‘concreto’, che in mancanza delle condizioni della sensibilità non si può chiamare concetto ‘sensibile’, per non renderne manifesta l’impossibilità già sul piano terminologico. La cosiddetta ‘concretezza’ dev’essere altra cosa dalla sensibilità, e bisogna dunque riscrivere l’espressione così: ‘il concetto concreto sta al materiale, come il concetto puro alla nuda forma’. Chiunque capisce facilmente che, perché la relazione abbia un senso, in questo ‘materiale’ (che va inteso come varietà di ‘materiali’, al plurale) noi dobbiamo avere una forma ‘non nuda’. Qualunque cosa esso sia, resta però il fatto che ciò che viene chiamato ‘il materiale’ è pur sempre, in qualche modo, una forma – se non altro, perché così viene chiamato, e così va inteso, per riuscire a capirsi; e poiché parlare di una

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i. Una critica del testo   321

forma finita significa presupporre l’esistenza di un’illimitata molteplicità di forme, se ne può concludere che la forma ‘non nuda’ nient’altro significa che varietà: varietà d’altrettante forme. Il segreto della natura ‘concreta’ del concetto sta racchiuso nella pluralità, come tale, delle forme. E pluralità ‘come tale’ significa, in primo luogo, semplicemente che le forme sono ‘trovate’, ossia che esse esistono già nella città sensibile entro la quale noi pure ci troviamo completamente avvolti fin dal grembo materno, assimilandone i contenuti per il senso muto e diffuso della sensibilità epidermica. L’ultimo, il meno nobile e per lo più ignorato dei sensi, il tatto come massima estensione o pura superficie, è in realtà il primitivo senso del mondo. E ciò che sembra l’esatto opposto del nobile senso della vista ritorna poi, invece, a farsi vista, come un ‘sesto senso’. Al lettore puntiglioso, e un poco sospettoso, non sarà sfuggito l’uso del verbo haben: è mai possibile che Kant affidi l’esecuzione di un’operazione tanto delicata, com’è quella di mettere i concetti puri in relazione coi fenomeni, a un verbo tanto generico, dicendo che qui, nel fenomeno, essi «hanno» il materiale per farsi concreti? Eppure, soltanto due righe più sopra, egli ha appena usato un verbo assai preciso e quasi ricercato, come antreffen, per descrivere la relazione in cui entrano i concetti puri con la nuda forma del pensiero. E com’è, poi, che il fenomeno ‘ha’ questo materiale? A me pare del tutto evidente che nel fenomeno, come giustamente traducono Colli Chiodi e l’Esposito, essi piuttosto «trovano» questo materiale25; e aggiungo senz’altro che la scelta di un verbo assai generico, come ‘avere’, non può essere stata affatto innocente: Kant vi tradisce un’idiosincrasia, e forse addirittura il terrore di dover trarre una conclusione assai spiccia, brutale, per le sue sintesi a priori, che col «trovare» andrebbero tutte quante a farsi benedire; o almeno, ma non ultimo, l’imbarazzo di dovere spiegare in quale relazione il fenomeno stia mai col materiale – cosa, questa, che riaprirebbe da capo tutto quanto il problema della Critica. Pluralità ‘come tale’ significa, in secondo luogo, che in queste forme molteplici e trovate già risiede, come cosa tràdita, l’unità delle nostre facoltà conoscitive ch’egli andava malamente cercando. Malamente, dico, perché da quest’unità residente nelle forme stesse, proprio in quanto forme finite, Kant è costretto invece a prescindere, non ammettendole che come un confuso insieme di ‘materiali’: ossia come quella Stoff, o quella ‘roba’ a sorpresa che, di sorpresa in sorpresa, tutti i traduttori rendono col termine «materia». In generale possiamo dire che con l’intuizione, postulata senza peraltro alcun   La Marietti segue il calco di Gentile: nei fenomeni i concetti «hanno» la materia.

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322   parte seconda. «la critica»

apprezzabile sviluppo teorico, egli si riduce a fare della pura gnoseologia ipotetica: per il fatto d’accostare immediatamente all’unità della conoscenza, non appena intuitivamente postulata, la disunione delle facoltà sensibili e intellettive, nonché delle dimensioni spaziale e temporale, e ancora delle allocazioni interna ed esterna di essa. Questa unità è sopraffatta dal dualismo – non ha respiro, non si esercita. Ma restiamo ancora sull’imbarazzante rapporto, al quale ho appena accennato, dei fenomeni col materiale. Kant non capisce che la sensibilità, dalla quale si dice costretto a prescindere nel trattare dell’ideale, risorge in ciò ch’egli chiama «fenomeno» (ed è così che, fra l’altro, si può giustificare la scelta del Colli di tradurre Erscheinung con «apparenza»: la quale resta in verità un’interessante forzatura, in qualche modo giustificata dall’esistenza di un problema26). Col suo concetto «intellettivo in concreto» (come lo chiama: uno di quei pasticci terminologici di cui andranno poi ghiotti i romantici) Kant torna in verità con penosa fatica, proprio per non trovarla, alla ricerca della sensibilità; e senza mai arrivare a intenderla nel senso dell’integrità della forma finita, ossia dei contenuti, ma perdendosi nelle relazioni dossografiche di un mondo succedaneo, contrapposto (che costituisce, in definitiva, la struttura mentale dell’intellettualismo). Egli afferma, in poche parole, che i concetti puri stanno ai fenomeni, come i concetti puri medesimi ‘non’ stanno agli oggetti. Per conseguenza, in questa bizzarra relazione il ‘non sta’ scioglie il legame del ‘come’, che costituisce invece il centro indispensabile della relazione analogica. In sostituzione del ‘come’ si trova, invece, un ‘se come’: così che, insomma, il concetto puro sta al fenomeno, ‘se’ consideriamo l’oggetto ‘come’ un fenomeno. Ma la relazione di equivalenza condizionale e vagamente ipotetica del ‘se come’ è l’esatto contrario di quel ‘come se’, sul quale Kant aveva già tanto insistito nel passo da noi analizzato per primo, più sopra. Là si cercava l’analogia, e qui abbiamo trovato invece una sostituzione. Non si tratta affatto, come Kant vorrebbe, di un esito strettamente consequenziale a premesse vincolanti, non si tratta di un passo obbligato, dettato da un’impossibilità di procedere diversamente: si tratta di una scelta; il cui tangibile segno filologico è consegnato all’evidenza del cambio del prefisso apposto al verbo stellen: poiché darstellen, ossia da stellen, ha l’evidente significato di un postulato, segnalante precisamente che s’è reso necessario effettuare 26   Anche testualmente. Già il § 5 del De mundi aveva definito apparenza (apparentia) tutto ciò che nelle conoscenze sensibili e nei fenomeni «precede l’uso logico dell’intelletto»; il § 12 aveva definito fenomeni (phaenomena) tutto ciò che viene riferito ai nostri sensi «come oggetto». S’intende che il fenomeno è strettamente legato all’oggetto, mentre l’apparenza è carattere gnoseologico non intellettivo.

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i. Una critica del testo   323

una sostituzione ad arbitrio. È un destino, sembra, che l’analogia non possa davvero funzionare. Andiamo avanti. Noi apprendiamo da Kant (e dai suoi traduttori, tutti concordi) che sostituendo i fenomeni agli oggetti i concetti puri ‘vi si applicherebbero’. In che senso? Ancora una volta dobbiamo essere grati ai traduttori, coi quali mi devo trovare in questo caso pienamente d’accordo: perché essi hanno avuto il merito di svelare il segreto della debolezza di un discorso, che vuole sfuggire a se stesso. Sebbene si possa tradurre con «applicare», il verbo anwenden non possiede la versatilità fisica del verbo italiano, nel significato tattile dello stendere qualcosa sopra una superficie, oppure dello stendere una superficie sopra un volume (sebbene Wand ne richiami a malapena l’idea). È per questo motivo che qui sarebbe stato forse preferibile tradurre anwenden con un verbo insensibile come «esercitare», nella certezza che Kant non avrebbe voluto lasciare tradire il suo segreto. E così, infatti, sarebbe stato, se un verbo italiano dal significato implicante proprio quella concretezza di cui egli andava in cerca per i suoi concetti puri non fosse, invece, comparso in tutte le nostre cinque traduzioni. Possiamo soltanto deplorare che, senza eccezione, esse facciano seguire al verbo la preposizione errata: non applicare «su» (auf), come dice Kant, bensì applicare «a». Si tratta di un’imprecisione inevitabile, legata alle caratteristiche della lingua italiana e del suo verbo ‘applicare’, del quale i traduttori hanno voluto, per l’appunto, desensibilizzare il significato, togliendogli, con l’indispensabile cambio di preposizione, precisamente la sua versatilità fisica. Ma nulla è veramente indispensabile; e sarebbe bastato cambiare, invece, il verbo stesso per poter parlare di puri concetti dell’intelletto che «si esercitano sopra» a dei fenomeni. A ogni modo, si vede come ciò che può riuscire ai soccorrevoli traduttori italiani col verbo ‘applicare a’ non può invece riuscire a Kant col verbo anwenden auf. Come su invisibili fantasmi, i concetti puri si applicano sui fenomeni come altrettante vesti, dando loro evidenza – «concreta», dice Kant, per non dire sensibile. Il discorso non assume soltanto il significato di una fuga senza scampo dalla sensibilità, la quale ritorna immancabile a presentarsi alla méta, con una certa qual beffa, come di chi corresse per liberarsi dalla sua ombra o dal sudore; no: è anche completamente capovolto. I concetti puri si vogliono concreti – giusto? E d’altra parte sono proprio essi, applicandosi, a rendere concreti quegli oggetti virtuali, e come tali appositamente concepiti, che si chiamano fenomeni, dai quali essi concetti puri dovrebbero trarre la propria concretezza. L’esercizio o applicazione dei concetti ‘puri’ è, in definitiva, condizione della visibilità dei fenomeni! Questa conclusione paradossale deve far

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324   parte seconda. «la critica»

sospettare che la natura del concetto sia cosa diversa da come Kant la voleva intendere. O almeno, che altra cosa sia la ‘purezza’, sulla quale egli insiste tanto, allo scopo di non parlare a nessun costo, semplicemente, di una ragione ‘astratta’. Scrivere infatti una Critica della ragione astratta gli avrebbe permesso altrettanto bene di effettuare quel ridimensionamento della ragione verso le sue ‘effettive’ possibilità, ch’era nelle sue intenzioni; ma ciò non gli avrebbe permesso di effettuare l’insensibile trapasso, che pure gli stava ancora più a cuore, verso l’esaltazione delle ‘pure’ possibilità della ragione. Era dunque indispensabile scrivere proprio una Critica della ragion pura. E senza tema di esagerare dico perciò, in sostanza, proprio questo: che il trapasso dal wolffismo alla metafisica dell’idealismo romantico si rende possibile mediante l’accurata scelta di un aggettivo titolare, che consente di convertire lo studio dei limiti dell’astratta ragione in propugnazione delle sue pressoché illimitate possibilità come retta opinione – filologia permettendo. la città nascosta Il lettore a questo punto vorrà ammettere, credo, che non è possibile proseguire nella lettura di queste poche pagine, che trattano dell’idea e dell’ideale, con altrettanto costante minuziosità. Se non altro, è inutile: perché siamo ormai in grado d’intendere e di valutare sommariamente quel che segue, procedendo più lesti. Ciascuno può farlo da sé; e io mi limiterò a segnalare i casi che mi sembrano più importanti. Kant comincia, per esempio, col distinguere le idee dalle categorie, in quanto, a differenza di quest’ultime, «non può essere trovato [gefunden!] fenomeno alcuno, presso [an] cui [le idee] si lascino rappresentare [vorstellen] in concreto». Soltanto poco fa, come s’è visto, per quest’operazione è stato invece usato il verbo darstellen, con diversa sfumatura d’importanza decisiva; e auf è qui diventato an. Giudichi ognuno quel che valga fare della filologia con certi filosofi, quando coi poeti i conti tornano invece assai più spesso. E dopo poche righe ecco arrivare di peggio, con la distinzione dall’idea dell’ideale: il quale ultimo «consiste nell’idea non semplicemente in concreto, ma in individuo, ossia come cosa singolare, determinabile, o determinata, esclusivamente per mezzo dell’idea». Ora, che possa esistere un’idea in concreto è l’esatto opposto di ciò che abbiamo appena appreso: perché questa possibilità sembra spettare, semmai, alle categorie. Accade spesso che Kant incorra in simili equivoci, quando la sua attenzione, come qui, è attratta dal contenuto principale, affermativo e finale, della

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i. Una critica del testo   325

proposizione, e si distrae dal contenuto della negazione preliminare, o comunque, in generale, dal contenuto di una secondaria in posizione accessoria, non limitativa o condizionale o negativa. E non si vede poi, soprattutto, in che cosa mai si distingua il «concreto» dell’idea da «l’individuale» dell’ideale quando, si dice, l’individuale stesso è cosa determinata o determinabile soltanto per mezzo dell’idea. Dal momento che non sente il bisogno di spiegarsi, è lecito credere ch’egli pensi qui di esprimere opinioni del tutto naturali o comuni – e infatti è proprio così: perché Kant enuncia in tal modo la nozione più comune, addirittura scolare, della classica città ideale come città aristotelica; nella quale l’individuo, come animale politico, rappresenta una determinazione dell’idea in quanto esiste soltanto quale semplice suddivisione dell’intera ideale comunità cittadina. Nell’equivoco di simile concezione, che nulla ha propriamente di politico, o di costituito ed essenzialmente risolto, l’essere animale ‘politico’ significa, in realtà, essere animale ‘sociale’. Antico quanto la città stessa, l’equivoco aristotelico ancora si perpetua, e continuerà a perpetuarsi, in una comune (e diciamo pure: banale) riduzione alla sfera sociale di ciò che si deve intendere per politica; e non può mancare, allora, la reazione opposta di chi vuole riaffermare gerarchicamente, altrettanto integralmente, il primato del cosiddetto ‘Politico’ (sostantivo maschile). L’equivoco della sentenza aristotelica genera perciò due deviazioni principali rispetto al significato essenziale della politica (che ad Aristotele, del resto, sfuggì sempre): come socialità, essa si riduce a mera sostanza; mentre come primato gerarchico, essa degenera in estetismo, ossia nella ricerca in cose politiche dell’ideale sensibile in quanto è soltanto un ideale. Anche con simili nostre spiegazioni (la distrazione nell’attribuzione della concretezza, e la nozione naturale di determinazione) le due contraddizioni relative alla concretezza dell’idea come tale continuano però a sussistere; e l’enigma si risolve tuttavia assai presto – ma non senza interessanti sorprese. Il contenuto dell’idea è assai vagamente descritto da Kant in termini niente affatto concreti, ma persino divertenti: ossia come «una certa completezza», alla quale non arriva alcuna possibile conoscenza empirica. Abbiamo già visto nell’Analisi Cronologica i «quasi schemi» e la realtà «abbastanza» intuitiva dello spazio27. Con questa «certa qual» completezza delle idee possiamo così finalmente apprezzare l’efficacia dell’esempio dei caciocavallo appesi al soffitto, con cui Croce spiegò al cocchiere la natura delle idee platoniche. Ma ecco qui comparire un altro dei nostri casi testuali più interessanti. Nell’idea, Kant dice, la ragione non «ha» (dopo il gefunden, quasi a fare ammenda,   Alla nota 153.

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326   parte seconda. «la critica»

ritorna lo haben!) nient’altro che «un’unità sistematica nel senso [im Sinne], alla quale [unità sistematica] essa [ragione] cerca di avvicinare l’unità empirica possibile [oppure: l’unità empiricamente possibile], senza tuttavia poterla mai completamente raggiungere»28. Si tratta, come si vede, di una ripetizione, a meno però di un singolo termine: «senso», Sinn; il quale significa, pressappoco, tutto ciò che fa da centro alla coscienza: dalla mente all’opinione, dal senno al buon senso, dalla sensibilità all’idea, dall’istinto alla nozione, al tatto, all’animo, al cuore. Sinn significa, insomma, la facoltà complessa mediante la quale noi cogliamo al centro la verità profonda di qualcosa; e insieme, anche la verità stessa di questo qualcosa. Questa facoltà molteplice ed evanescente ha pure una sua sede antropologica altrettanto evanescente nel Gemüth, nell’animo, come più avanti si dirà. Il Gentile, com’è noto, riuscì a tradurre Gemüth con «spirito»; ma non riuscì a ingannarsi sul significato di Sinn – e perciò bandì, semplicemente, la parola. Egli volle a tutti i costi interpretare Gemüth a suo modo. Forse che (diremmo noi, parafrasando il Lachmann) traducere sine interpretatione et possumus, et debemus? No; interpretare certamente bisogna sempre, e ogni traduzione o muove da un’interpretazione, o vi approda. Ma in questo caso egli non ammette neppure la specificazione im Sinne, sopprimendola senz’altro. Qui, veramente, c’è l’interpretazione – ma senza la traduzione! La cosa non si giustifica – ma per lui almeno si spiega. Ciò che non si spiega, invece, è il fatto che, seguendo fedelmente la sua versione, anche i quattro successivi traduttori italiani sopprimano, semplicemente, l’espressione im Sinne29. Ma questa è proprio la cosa più preziosa, forse, che in tutta la Critica della ragion pura Kant poteva riuscire a dire, e che effettivamente ha detta. 28   B 595-596: Sie enthalten eine gewisse Vollständigkeit, zu welcher keine mögliche empirische Erkenntis zulangt, und die Vernunft hat dabei nur eine systematische Einheit im Sinne, welcher sie die empirische mögliche Einheit [A: die empirischmögliche Einheit; iii: die empirisch mögliche Einheit] zu nähern sucht, ohne sie jemals völlig zu erreichen. 29   Ecco Gentile: «Contengono esse una certa completezza, a cui nessuna possibile conoscenza empirica perviene, e la ragione vi mira soltanto a una unità sistematica, alla quale essa cerca di avvicinare l’unità empirica possibile, senza mai raggiungerla perfettamente» (p. 366). Ecco Colli: «Esse contengono una certa compiutezza, cui non vi è conoscenza empirica possibile che riesca ad arrivare; riguardo alle idee, la ragione tende soltanto a un’unità sistematica, alla quale essa cerca di avvicinare l’unità empiricamente possibile, senza mai raggiungerla pienamente» (p. 600). Ecco Chiodi: «Tutto ciò che esse contengono è una certa completezza, irraggiungibile da qualsiasi conoscenza empirica possibile; in esse la ragione tende a un’unità sistematica, verso cui cerca di sospingere l’unità empirica possibile, senza mai raggiungerla completamente» (p. 462). Ecco la Marietti: «Esse contengono una certa completezza alla quale nessuna conoscenza empirica possibile arriva, mentre la ragione è intesa solo a un’unità sistematica a cui cerca di avvicinare l’unità empiricamente possibile, senza mai raggiungerla pienamente» (p. 600). Ed ecco infine l’Esposito: «Le idee contengono una certa compiutezza cui non riesce ad arrivare alcuna conoscenza empirica possibile, e in questo la ragione ha di mira soltanto un’unità sistematica, verso la quale essa cerca di sospingere l’unità empirica possibile, senza mai raggiungerla pienamente» (p. 831).

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i. Una critica del testo   327

Per quanto l’idea non abbia concretezza, egli dice, essa tuttavia possiede «nel senso» una sua unità sistematica del molteplice. Che cosa mai significa questo giudizio? Se le premesse del discorso sono disordinate, l’uso di questa preziosa locuzione è, qui, semplicemente confuso. E s’intende bene che la natura ‘confusa’ del termine Sinn (idea chiara, ma non distinta; come, del resto, Gemüth – e quante altre?) non ne giustifica affatto l’uso confuso. Noi non possiamo immaginare che per Kant l’idea somigli a una personalità dotata di senso, e che in questa sensibilità consista la sua possibile concretezza. Sarebbe troppo bello, sarebbe una cosa troppo vicina a noi, filosofi avvezzi al giudizio politico, quando c’interroghiamo su quel che significhi parlare, per esempio, di ‘dispotismo asiatico’ o di ‘mentalità occidentale’; o quando ammettiamo che uno storico ci dia ‘il senso’ di una situazione affermando, per esempio, che nel terzo decennio del Novecento «la Francia e la Gran Bretagna si assopivano, mentre la Germania si risvegliava». Nei primi due casi l’aggettivo (asiatico, occidentale) rende sensibile il sostantivo; mentre nel secondo noi abbiamo ‘trovato’ nelle nazioni (e in generale nelle specie) quei fenomeni, fatti d’ogni sorta di materiali, ‘su’ cui si applicano concetti astratti come il sonno e il risveglio. Ma no. Se Kant potesse consentire con noi, egli avrebbe qui enunciato nientemeno che il principio di un’estetica della politica. Sebbene simili giudizi fossero assai comuni fra gli uomini cólti della sua epoca (e fra gli uomini comuni d’ogni altra epoca, del resto)30; e sebbene Kant medesimo avesse già dedicato al profilo di alcuni caratteri sessuali e nazionali gl’interi terzo e quarto capitolo delle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, non mi sembra che il problema del giudizio politico (non in quanto è giudizio, bensì in quanto è politico) si sia mai seriamente posto alla mente dei filosofi, sino a lui. Essi l’hanno piuttosto lasciato ai pubblicisti e ai giornalisti, come a gente più ‘sensibile’ (col significato sottinteso di ‘superficiale’). Ancora con Kant, e con la terza Critica, l’analisi del giudizio continua a procedere nella medesima direzione, senza nulla recuperare da quelle Osservazioni, che restano un capitolo chiuso. Il risultato, però, è questo: che dopo due secoli sono proprio i pubblicisti e i giornalisti di professione a contendere il primato delle rette opinioni ai professori di storia con grandi opere, capaci d’esprimere meglio, senza imbarazzi, 30   A cominciare, per esempio, da The true-born Englishman, l’inglese purosangue di Daniel De Foe (1700); o dal masque, già di tre anni precedente, di Houdar de la Motte su L’Europe galante, dove l’autore giustifica così la sua caratterizzazione delle nazioni: «Si sono seguite le idee comuni circa il carattere dei loro popoli» (Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, Torino 1946, p. 56).

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328   parte seconda. «la critica»

mediante l’impiego d’una sensibilità esercitata, limpidi giudizi politici in vaste sintesi letterarie di eventi grandiosi. Basti pensare, innanzi a tutti quanti, all’Albertini; e poi a scrittori come Churchill, e allo Shirer; confrontandone le opere con quella, per esempio, del Ritter: nella quale, oltre al formidabile dispiego dei mezzi professionali, accademici e tecnici, più tradizionali, è pure insita, per l’appunto, una solida strutturazione kantiana. Né, d’altra parte, può sfuggire l’aspetto complementare della questione: ossia che nell’esercizio del giudizio politico gli stessi professori di storia riescono meglio proprio quando, per l’appunto, si avvalgono degli strumenti del ‘senso’: vuoi come viva impressione lasciata da una personale esperienza, dalla quale far procedere l’indagine, vuoi come strumento stilistico del genere letterario, mediante il quale esprimere quell’impressione. Ognuno può valutare da sé i risultati di un esercizio ‘sensato’ del giudizio politico sul piano storiografico più accademico (nel senso, per esempio, del relativismo, o del giustificazionismo, o del revisionismo); mentre sul piano filosofico non potrà, io credo, che compiangere la misera sorte alla quale il Sonderweg intellettualistico dei filosofi ha condotto la loro boria. *** Qui, a ogni buon conto, Kant vuol dire una cosa assai più semplice e del tutto congeniale al suo modo di pensare: vale a dire, che «il senso», e l’unica concretezza possibile per un’idea, consiste nella sua generica sistematicità. Mi permetto insomma d’interpretare la cosa così: non, come Kant ha scritto, die Vernunft hat dabei nur eine systematische Einheit im Sinne (che non significa niente, così che i traduttori hanno preferito tralasciare un imbarazzante nonsenso); bensì come se avesse scritto: die Vernunft hat dabei nur eine sinnliche Einheit im System. A dispetto e a scanso d’ogni possibile tentazione di credere d’aver fatto chissà quale scoperta, possiamo congetturare che non ciò ch’egli ha scritto, bensì ciò che aveva in mente di scrivere, e che gli sfuggì malamente dalla penna, costituisca il vero significato di un’espressione non intelligibile, e soppressa in traduzione perché mal formulata, e buttata giù probabilmente, come tante altre, fra gli abbozzi delle sue lezioni (e non occorre dire che la soppressione in traduzione non diventa, per questa ragione, legittima). Presa così com’è, per quel che dice letteralmente, l’espressione avrebbe un effetto grandioso, e del tutto sconvolgente sul trattato; ma fu scritta semplicemente per sbaglio. E la più vistosa conferma di quest’interpretazione non viene tanto da lui, e dalle sue opere, che sotto il profilo sistematico restano tutte alquanto

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i. Una critica del testo   329

malsicure o segmentali, al di là delle intenzioni, bensì dalle opere dei suoi successori: i quali realizzarono nei loro voluminosi edifici precisamente il programma qui enunciato di espressione sistematica della sensibilità dell’idea. Ma una conferma interna si può pure trovare, sebbene a costo di violare l’impegno di mantenere unita la campionatura delle fonti sottoposte a esame. Si tratta di una pagina del primo capitolo dell’Appendice alla Dialettica, dove Kant afferma: Realizzare l’unità sistematica di tutte le possibili operazioni empiriche dell’intelletto è affare della ragione, così come l’intelletto connette mediante concetti la molteplicità dei fenomeni, assoggettandola a leggi empiriche. Ma senza schemi della sensibilità le operazioni dell’intelletto sono indeterminate; e così pure è in se stessa indeterminata l’unità della ragione anche in considerazione delle condizioni sotto le quali, e nella misura in cui, l’intelletto deve connettere sistematicamente i suoi concetti. Solo che, sebbene per l’esauriente [durchgängige] unità sistematica di tutti i concetti dell’intelletto non si possa far sortire [ausfindig gemacht werden kann] alcuno schema nell’intuizione [è una bella confessione della natura posticcia, nonché della perfetta inutilità dei suoi schemi!], allora può, e anzi deve [!] esser dato un analogon d’un tale schema: il quale è [in tal modo] l’idea del massimo della suddivisione e [insieme] dell’unificazione in un [unico] principio. (...) Perciò l’idea della ragione è un analogon di uno schema della sensibilità [insomma: l’analogon è l’idea del massimo, e l’idea del massimo è l’analogon!] – ma con la differenza che l’applicazione dei concetti dell’intelletto allo schema della ragione [ma non dovrebbe avvenire esattamente il contrario?] non è una conoscenza senz’altro [eben so] dell’oggetto stesso (come avviene con l’applicazione delle categorie ai loro schemi sensibili [l’applicazione, stavolta, è corretta]), bensì soltanto una regola o principio [ordinatore] dell’unità sistematica d’ogni [possibile] uso dell’intelletto31.

Ora, io non credo davvero di esagerare se affermo che il rococò e l’arte della fuga hanno finito per entrare malamente nella prosa filosofica, con un effetto decisamente irritante. Il lettore non avrà bisogno del mio aiuto per constatare come Kant trascorra disinvoltamente dai concetti alle intuizioni agli analoga alle idee ai principi, nonché, ovviamente agli schemi propri di ciascun attore in questo allestimento scenico. Perché di nient’altro si tratta che di una rimbeccata a tre fra intelletto sensibilità e ragione sui limiti delle rispettive facoltà o figure logiche, con relativi passaggi di consegne e con l’immancabile finale rassicurante, col fervorino di congedo recitato sul proscenio, nel quale il pubblico apprende che la commedia alla quale ha assistito va presa semplicemente per quello che è: un modo per descrivere ordinatamente come vanno le cose   B 692-693.

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330   parte seconda. «la critica»

di questo mondo. Ma io aggiungerei: un modo, anche, d’ispezionare per filo e per segno l’officina dell’autore – che mi sembra decisamente la cosa più importante. Quanto al suo contenuto, comunque, questa pagina, conferma ciò che ho detto più sopra: che per Kant esiste una salda unità fra senso e sistema; che per lui il senso del tutto non è che sistema, e che il sistema è nient’altro che l’indispensabile senso esauriente del tutto. Il resto ben poco conta: sono le schermaglie per arrivarci. Ma desidero ancora soltanto far notare in questa pagina, tra i miei numerosi incisi fra parentesi quadre, i due che mi sembrano più importanti: vale a dire il doppio e opposto riferimento dell’applicazione delle figure logiche dell’intelletto (concetti e categorie) agli schemi della ragione da una parte, e agli schemi della sensibilità dall’altra. Il discorso non si svolge soltanto come un inseguimento a percorso circolare, né soltanto come fuga verso un’uscita o una conclusione a sipario: anche – ma non solo. Si nota effettivamente che i personaggi in scena non sono tutti uguali, o disposti a piacere, e che ve n’è uno nel mezzo, l’intelletto, il quale effettua le sue applicazioni su entrambi i lati con un ruolo mediatore centrale che non è di trapasso, bensì di regìa. È lo schema tripartito dell’intellettualismo, del quale tratterò più ampiamente nel prossimo capitolo sulla Logica del testo. *** Torniamo adesso al nostro passo originario sull’ideale della ragion pura, e procediamo più velocemente nel commento, senza soffermarci su un gran numero di possibili questioni e di particolari gustosi. La virtù e la saggezza sono idee, dice Kant, mentre «il saggio» degli stoici, per esempio, è un ideale: ossia un uomo immaginario, ma pienamente adeguato all’idea32. A parte il fatto che qui si perde, con la perentorietà dell’avverbio, tutta l’antica teoria dell’approssimazione, nonché la nuovissima teoria kantiana (sebbene ce ne siamo allontanati di appena una pagina!) della necessità di comprendere il particolare sensibile in un’esauriente unità sistematica; ma poi, se avesse fatto un solo 32   Der Weise (des Stoikers) ist ein Ideal, d. h. ein Mensch der bloß in Gedanken existiert, der aber mit der Idee der Weisheit völlig kongruieret (B 597): l’avverbio è perentorio, ma il verbo è incerto, preso a prestito non si sa dove. Gentile e Lombardo-Radice traducono senza avventure: «corrisponde pienamente» (p. 367); Colli e Chiodi sopprimono il verbo, e traducono: «pienamente adeguato» (p. 601; p. 463), così come l’Esposito con «perfettamente adeguato» (p. 833); l’unica a cimentarsi è la Marietti, che tenta un «converge pienamente» (p. 601). Adeguatezza corrispondenza e convergenza non sono coincidenza, e lasciano intendere che permanga qui, nel verbo, la teoria dell’approssimazione, smentita però dall’avverbio: il quale, di per sé, farebbe dell’ideale un’incarnazione, o una personificazione allegorica. Ma questo è proprio l’esito sensibile, la soluzione letteraria che Kant vuole evitare.

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i. Una critica del testo   331

nome, un nome proprio di persona, Kant avrebbe almeno rispettata la teoria, non meno importante, dell’individuazione concreta per virtù narrativa. La sola immaginazione ch’egli sa concepire di quest’uomo è bloß in Gedanken, solo di pensiero: non è perciò, mai e poi mai, di tradizione letteraria. E sebbene il plutarchismo sia stato tutt’altro che ignoto al suo secolo, mai e poi mai la tradizione letteraria assume in lui il ruolo di fonte primaria e di unità della conoscenza – come quando noi, dicendo ‘un Catone’, intendiamo immediatamente di che cosa si parla. Da dove verrebbe mai, se no, quella Stoff, quella ‘roba’ di cui egli parla per la sua concretezza? «Come l’idea fornisce la regola, così l’ideale serve in tal caso da archetipo dell’esauriente determinazione della copia»33. La Commedia di Dante di nient’altro è popolata, che di questi archetipi, o ‘figure’; e l’esaustività è cammino di perfezione. Verità sensibilità moralità stanno già riunite in questi e in altrettali materiali trovati nella tradizione; e simili materiali hanno il loro proprio senso nella forma, e costituiscono, per noi, altrettante sintesi a priori. Il lettore percepisce dunque facilmente il tono di generica e limitata, persino stucchevole edificazione, che suona nelle parole immediatamente seguenti: «noi non abbiamo alcun altro criterio di misura delle nostre azioni, se non il contegno34 di quest’uomo divino che sta in noi, col quale possiamo confrontarci, giudicarci35, e perciò migliorarci, senza tuttavia poterlo [quel suo contegno] mai eguagliare». Siamo finiti, non si sa come, sul terreno della moralità, passando con piè leggero, senza confessarlo, su quello dell’estetica. Ma il nesso con la pre33   L’aggettivo è durchgängig, che significa ‘passante attraverso completamente, fino in fondo’. Chiodi resta prudentemente a Gentile: «perfetta»; e ribadisce così l’implicita rimozione della teoria dell’approssimazione nella coincidenza. Colli e l’Esposito rispettano almeno il significato processuale della teoria, e rendono: «completa». Bene la Marietti, che propone un coraggioso: «completa e continua». 34   Traduco Verhalten con «contegno», sebbene la parola italiana possa anche avere una sfumatura antipatica, perché meglio esprime la natura statica, immobile, dell’archetipo (o meglio, la natura della figura, qual è un archetipo non puramente immaginario, o logico, bensì nato storicamente e consegnato per tradizione iconografica o letteraria). Gentile ha «condotta», Colli la Marietti e l’Esposito «comportamento», Chiodi «modo di agire»: sono tutti termini dinamici e decisamente pratici, col difetto (come rivela per l’appunto nel modo più esplicito Chiodi) di mettere in relazione la nostra azione con la sola azione dell’archetipo, anziché con tutto il suo essere immobile. Penso invece che la pittura bizantina, e la tradizione dell’icona, per esempio, possano meglio riassumere il significato immaginario esemplare dell’archetipo come muta e ferma potenza sensibile, anteriore allo svolgimento della sua personalità nell’azione, come già si ha invece con la figura. Sebbene la parola sia talvolta antipatica, si dice di un uomo che, in qualche difficile circostanza, ‘serbò un fermo contegno’. 35   Chiodi traduce: «rispetto al quale possiamo istituire paragoni e valutazioni», e perde lo uns. Così fa dell’archetipo non solo un modello di nostra perfezionamento morale, come Kant vuole, bensì un criterio generale di conoscenza e di giudizio. Bisogna dire, a sua giustificazione, che questa di Kant è una vera e propria divagazione incongrua sul terreno della moralità, e anzi sul terreno ancora più particolare del perfezionamento individuale, che ben poco ha a che fare col problema della conoscenza e del giudizio, qual’era stato impostato.

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332   parte seconda. «la critica»

messa trattazione del concetto puro e concreto, che apre il capitolo, e che più sopra abbiamo minutamente analizzata, c’è – senza che peraltro Kant se ne accorga davvero, credendo invece di parlare d’altro e di più alto: perché l’idea e l’ideale, di cui qui parla, altro non sono che il concetto puro e il concetto concreto, riformulati e trasposti, secondo la sua abituale mentalità sovrastrutturale e volumetrica. La divagazione morale non acquista affatto, con le idee e l’ideale, una nuova base più alta e complessa, nell’ordine di una sensibilità superiore, bensì rimane, nel suo stretto contenuto, vincolata alla primitiva base logica concettuale. Ed è inevitabile che così sia: perché (è lui stesso che qui lo mostra) è affatto impossibile parlare d’idee e d’ideali senza avere riconosciuto alla sensibilità un ruolo conoscitivo primario. E perciò, volendo parlare di cose più alte, egli riesce effettivamente soltanto a parlar d’altro, in una continua superfetazione dialogica e girovaga, ben attenta a non mettere mai le mani su alcunché di concreto. Un’edificante morale disciplinare giunge, immancabile, ad aggiustare tutto: «Pretendere di realizzare l’ideale in un esempio, ossia in un fenomeno (come, per esempio, [la figura di] un saggio in un romanzo) non è cosa fattibile [ist untunlich], e ha, per di più, qualcosa d’insensato e di scarsamente edificante: giacché le barriere naturali, che fanno continuamente da ostacolo all’integrità [insita] nell’idea36, rendono impossibile ogni illusione in tale tentativo, e fanno perciò sembrare addirittura sospetto il bene ch’è insito nell’idea, ridotto a mera finzione». Bontà sua. Platone poteva pensare, tuttalpiù, a poche dozzine di opere letterarie, e aveva alle spalle poco più d’un secolo di letteratura – Kant ha due dozzine di secoli, dei quali poco sa e meno si cura. Con la terza Critica bisognerà scontare, lui e noi, l’avventata tristezza di simili giudizi. Untunlich è, al tempo stesso, cosa che non si può fare, e cosa che non sta bene fare. Chissà, se oltre a non fare, bisognerà per giunta non guardare e non ascoltare. Germogliando da un’antica e solida radice autistica della mentalità nazionale tedesca, la vecchia morale edificante del perfezionamento nell’interiorità, chiusa nel cuore come in uno scrigno, resiste sgomenta (ma non sempre tacita, purtroppo) allo scempio della moralità che si squaderna nelle vicende di Candide: come se oltre vent’anni prima Voltaire non avesse precisamente voluto scrivere, a suo modo, una concreta e tutta ‘esteriore’ critica della ragion pura. Il suo conte fa di questa kantiana purezza la forma d’ingenuità provinciale, 36   Vollständigkeit, che tutti traducono «perfezione». Ma Kant non vuol dire, e non dice: la perfezione dell’idea (Gentile, Chiodi), bensì la perfezione nell’idea (Colli), vale a dire quell’idea di perfezione che è insita nell’ideale del saggio; e questa perfezione è dunque la sua (del saggio) integrità morale.

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i. Una critica del testo   333

ormai imperdonabile e sospetta, ipocrita, di chi finge d’essere giunto tardi in un mondo, nel quale il carnefice e il morbo sono già dati, insieme con tutte le forme del pensiero. E quelli e queste sono, in qualche modo, ideali della sensibilità: o quei modelli di possibili intuizioni empiriche, di cui Kant vorrebbe negare la discutibilità – senza peraltro rinunciare ad andare in cerca di sintesi a priori tutte sue. Come entità sensibile, non intellettualistica, il fenomeno im Sinne è in definitiva il vero noumeno di Kant, o l’a-priori sensibile di un’esperienza discutibile. Esso è precisamente ciò che gli sta dentro, nel sentimento, e che gli sta dinnanzi, nell’immaginazione, e ch’egli non vuole discutere, per non dover ammettere lo spalancarsi alla conoscenza d’una dimensione riboccante di sintesi trovate, che gli pare tumulto. E nondimeno, egli avrebbe pur sempre potuto accettare l’esistenza di questa dimensione di disordine poco edificante, almeno come una realtà parallela, ordinata e discutibile a suo modo: così come seppe immaginare di solcare per primo l’oceano senza sponde né fari della metafisica; e così come seppe ben fare, d’altra parte, con l’intellettualizzazione del noumeno ogni volta che lo definì un «concetto problematico»; e con l’aria di saperne prescindere andò, invece, insistentemente alla ricerca di «una specie nuova d’intuizione», di «un’intuizione non sensibile», di «un’intuizione di qualche altro genere», di «un’intuizione del tutto diversa dalla nostra», adatta a un intelletto «radicalmente diverso dal nostro»37. Egli avrebbe potuto ammettere la possibilità di una realtà parallela e superiore anche per la sensibilità, dunque; per la cui discutibilità egli, tuttavia, avrebbe dovuto altresì ammettere di non avere né strumenti, né esperienza, né talento. Ma la sua riluttanza non è pudore, mutato in puntiglio. È che nessun pensiero religiosamente motivato o moralmente allarmato s’è mai rassegnato ad arrestarsi sulla soglia d’un qualsiasi dualismo. Così Kant preferì invece imboccare il Sonderweg dell’intellettualismo, immaginandone la stravaganza e il parallelismo (che restano) rispetto alla sensibilità, come una via sovrastante (sebbene non ancora come un superamento, nel senso poi caro all’idealismo). E proprio il suo istinto, im Sinne, lo portava comunque a escludere che ideali della sensibilità, per quanto possibili, potessero mai trovarsi tanto in alto. Vediamo ora che cosa c’era, per lui, tanto in alto; e a quale posizione egli volle consapevolmente e anche inconsapevolmente ardire di salire fra le altitudini del pensiero.

  Definizione ed espressioni, per esempio, tutte rinvenibili nello spazio d’una sola pagina: B 342-

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343.

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334   parte seconda. «la critica»

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la città celeste Con la sua farragine compositiva; con le sue omissioni e sostituzioni logiche; con le sue separazioni inversioni distrazioni superfetazioni stilistiche; e poi, soprattutto, con l’abituale vero talento che gli appartiene, di riuscire a trasporre su piani sempre più alti problemi insoluti, lasciandoli tali; l’opera di Kant costituisce in qualche modo lo specchio e il lascito filosofico non già dei secoli XVII e XVIII, come si dice, bensì del Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca – nonché il solido capostipite d’un risorto impero speculativo accademico, a egemonia continentale europea, che è durato saldo per due secoli. La recezione kantiana della tradizione, d’altra parte, è in generale basata su una riduzione e su una semplificazione delle ricche tematiche culturali sei-settecentesche. Ripensare quelle tematiche alla luce della sua sintesi critica, come si fa comunemente, è un grave errore; e quest’errore non è certo imputabile a lui. Le potenti deviazioni successive dell’idealismo e del positivismo, in qualche modo complementari nei contenuti e comunque gemelle nell’ispirazione intellettualistica, sortiscono in gran parte dalla strozzatura realizzatasi per opera sua. Come per inevitabile compensazione di una riduzione tematica, in Kant si assiste a una stretta intensificazione logica e a un involontario potenziamento acentrico d’un ben organizzato disordine, che trova il suo corrispondente storico nell’evento rivoluzionario francese: dell’incalzante succedersi per fasi della rivoluzione permanente gli avvicendamenti speculativi della prima Critica possono costituire la corrispondente anticipazione logica; e la seconda Critica verrebbe così a corrispondere, nella trilogia, al Terrore e al Direttorio; e la terza Critica, in qualche modo, al Consolato e all’Impero. C’è una logica delle cose che agisce dappertutto; e amministrare gli sviluppi della critica sulla base di una vuota sensibilità non è meno difficile, per l’intelletto, che, per degl’intellettuali, rimettere in moto un’intera amministrazione sulla base dei diritti dell’uomo. Ma non sarà un po’ troppo descrivere Kant come un titanico anticipatore logico di eventi tanto grandiosi, proprio mentre gli si vuol dare del provinciale? Diciamo allora che, per analogia con la fisica dei gas, avviene con lui una compressione della tradizione entro termini di discutibilità più angusti e falotici; e che questo spiega i prodigiosi sviluppi idealistici immediatamente successivi, i quali segnano precisamente una fase d’espansione gassosa. Questa riduzione o semplificazione è in lui talvolta del tutto consapevole, talaltra meno, o niente affatto; e di simile diversa consapevolezza desidero portare due rispettivi esempi, in casi che mi sembrano fra i più significativi. Poiché ho già detto che il problema della continuità del wolf-

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i. Una critica del testo   335

fismo si pone e si risolve in Kant, e non con Kant; e poiché egli assolve il debito di continuità con l’empirismo inglese mediante una divagazione, che riapre su un piano più alto un perpetuo stato d’insolvenza speculativa nei confronti della sensibilità e dell’esperienza; per queste ragioni preferisco soffermarmi piuttosto su altri capi salienti ed estremi della tradizione, come il platonismo e il leibnizianesimo. Grazie alla sua stessa definizione, questi termini potranno farci entrare nel vivo della discussione sull’intellettualismo. Il platonismo di recupero (o anzi d’occasione, quanto a una dottrina iconoclastica che doveva tornare perfettamente congeniale al pietista) è talvolta semplicemente sconcertante. Ma esso attinge a ogni buon conto, come irresistibilmente, il vero significato della lezione timaica allorché Kant parla del mondo come di un «edificio artistico», innalzato con verosimiglianza per mezzo d’analogia38. Peccato, però, ch’egli non riesca a concepire questa città cosmica, autisticamente, nient’altro che come il proprio sistema filosofico: è ciò che ho detto sopra, a proposito di un im Sinne che significa, in realtà, im System. E peccato, soprattutto, che nell’esauriente sistema metodico, che così si preannuncia, la dottrina degli elementi, a questo punto, sia stata già scritta; così che noi ci troviamo infine tra le mani una logica bell’e fatta che vuole essere una morale, e che per giunta deve essere un’estetica, dopo avere preteso per qualche centinaio di pagine d’andarsene innocentemente e rigorosamente per la sua strada. Impostato dapprima come rapporto ‘trascendentale’, ossia logico e non cosmologico, il dualismo sostanziale, ereditato e terminologicamente risolto, ritorna a cercare nella morale e nell’estetica la soluzione del rapporto fra sensibilità e intelletto in termini altrettanto dualistici; e resta ovviamente insoluto (com’è sempre stato, del resto; e com’è inevitabile che sia, in mancanza d’una diversa nozione della sensibilità), ma senza che vi sia mai, da nessuna parte, io credo, chiara coscienza dei nuovi termini del dualismo. Così, che non resta chiaro da dove, poi, si debbano riprenderne i capi. Per il leibnizianesimo è lo stesso; solo, che nella critica all’intellettualismo insito nel pensiero dell’estraneità spaziale delle pure intelligenze il dualismo risorge affatto inconsapevolmente, soltanto in termini ancora più insidiosi: e precisamente da quella distinzione fra le dimensioni interna ed esterna di una cosa, che al mondo antico rimase, per lo più, quasi affatto ignota, e che costituisce invece il nuovo orizzonte del mondo moderno39. Per Kant, come mo  B 653-654.   Che una dimensione dell’intimità della coscienza sia stata del tutto ignota al mondo antico non si può affermare, in verità; e basta ricordarne la più antica, forse, testimonianza in Omero, allorché Ulisse, meditando la strage dei pretendenti nel dormiveglia della vigilia, parla al suo cuore in tumulto: «Cuore, sopporta…», ecc. (Odissea, xx, 18 ss.). 38 39

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336   parte seconda. «la critica»

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stra il suo uso dei termini, quest’orizzonte è ormai senz’altro acquisito come imprestito del tutto naturale dal pensiero moderno. *** Ma vediamo per ordine i due casi, cominciando dall’esame di un passo d’argomento platonico. Nella sua [in ihrer] intera perfezione [Vollkommenheit], l’umanità non contiene soltanto il dispiegamento [Erweiterung] di tutte le caratteristiche essenziali proprie di questa [sua] natura (le quali [welche] costituiscono il nostro concetto della medesima) fino al [bis zur] [grado de] la perfetta [vollständige] congruenza con i propri scopi [mit ihren Zwecken] (il che [welches] costituirebbe la nostra idea dell’umanità perfetta [vollkommene]); bensì [contiene] anche tutto ciò che al di fuori [außer] di questo concetto pertiene alla completa [durchgängige] determinazione dell’idea; perché [non c’è dubbio che] di tutti gli opposti predicati uno soltanto [dei due] può convenire all’idea dell’uomo il più perfetto40.

La lettura della prima parte del passo, fino al mio primo punto e virgola, composta a mo’ d’isocolo, risulta alquanto sconcertante, a causa delle due proposizioni relative anaforiche (welche, welches), che per ragioni di chiarezza e simmetria mi sono preso la libertà di evidenziare fra le parentesi. Esse sembrano affermare due cose troppo diverse fra loro: dell’umanità abbiamo noi un concetto, insomma, ovvero un’idea; ma come? Sembra di potere riuscire a capire che in quanto ci riferiamo semplicemente a tutte le sue caratteristiche essenziali, sotto il profilo quantitativo di uno sciorinamento enciclopedico, dunque, noi possiamo farcene un semplice concetto; mentre in quanto ne consideriamo la qualità del grado di perfezione, come piena congruenza agli scopi, ne possiamo avere un’idea. È come dire che senza attribuire a una cosa un nostro giudizio di finalità e di conformità, di adeguatezza e perfezione, non ve n’è idea possibile. Non possiamo, adesso, spingerci troppo oltre su questi minimi indizi, che possono senz’altro portare fino alla terza Critica. Resta, tuttavia, la perplessità dell’associazione del concetto a uno sciorinamento di caratteristiche, essenziali sì, ma anche le più disparate; ed è per questo che i nostri traduttori rendono quasi tutti Erweiterung con «estensione»41: come alludendo a qualcosa di continuo e d’omogeneo, di sostanziale, insomma, facilmente unificabile in termini logicamente semplici. Ed è così, infatti – ma   B 596.   Soltanto la Marietti tenta un coraggioso «ampliamento» (p. 600); ma la scelta del termine non si giustifica, perché il contesto significa proprio il contrario. 40 41

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i. Una critica del testo   337

non per questa ragione, però: perché la soluzione non sta nella traduzione, stavolta, bensì nel testo, allorché si parla dell’umanità come di una «natura». Con questo termine Kant intende qui la specie; ed è questa, semmai, la sostanza unita di cui è possibile avere un concetto per elencazione di caratteristiche. Erweiterung evoca immagini d’apertura e di continuazione, di squadernamento, di enumerazione, di Erzählung; e in italiano, esattamente come in tedesco, ‘raccontare’ significa innanzitutto ‘contare’, enumerare; così che, se di una specifica natura, o sostanza, noi possiamo sempre farci un concetto, questo concetto ha dunque natura narrativa. È come dire che anche la logica è, in definitiva, nient’altro che letteratura. Se è lecito presumere che il concetto si riferisca alla specie, è altrettanto lecito congetturare che l’idea si riferisce all’umanità considerata come un genere. Ora, e l’ho già detto, non voglio insistere sul fatto che con l’attribuzione di una perfezione, intesa come congruenza a uno scopo, ciò che noi chiamiamo idea è sempre in qualche modo un giudizio pratico; bensì desidero, piuttosto, soffermarmi sull’aspetto strutturalmente confuso dei gradi di questo giudizio; e, di conseguenza, sulla confusione dei gradi del genere e delle specie; e, di conseguenza, dei gradi del concetto e dell’idea. A chi si riferisce, infatti, mit ihren? Colli e Chiodi, sulla scorta di Gentile, non hanno dubbi: si riferisce alle caratteristiche (i «loro» scopi: delle qualità o proprietà). Soltanto la Marietti ha avuto l’intuizione giusta, che poi l’Esposito ha accettata: «fino alla completa congruenza con i suoi [dell’umanità] scopi». Nelle versioni precedenti, anziché l’umanità stessa sarebbero invece queste caratteristiche, queste qualità o proprietà essenziali dell’umanità a possedere i «loro» scopi di perfezione; e dal perfetto sviluppo delle qualità o proprietà essenziali secondo i «loro» propri innumerevoli scopi sortirebbe, infine, la nostra idea d’umanità. Ma così è come dire che il giudizio si associa al concetto, alla specie, alla sostanza, anziché all’idea, al genere, all’essenza; ed è poi come dire che l’idea sorge come risultato di una somma dal basso, o da una periferia acentrica d’innumerevoli predicati senza soggetto, senza alcun giudizio, senza ordine, senza alcun racconto e senza ‘senso’ per essa. È come dire che una continuità di perfezione fatta d’innumerevoli caratteristiche di specie può generare la perfetta idea enciclopedica dello sciorinamento delle specie come unico genere possibile. In Herder, specialmente, e poi in Goethe, è ben presente questa immaginosa concezione di un’umanità tendente al cielo col sinfonico sforzo delle specie in lotta verso la luce in un’intera foresta. Ma non si sognarono nemmeno per un istante di perdere la nozione immediata della foresta. Ab-

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338   parte seconda. «la critica»

biamo visto, più sopra42, come nella traduzione Gentile si perda, a un certo punto, il demiurgo o il soggetto, a favore di un’ipostatizzazione dell’oggetto astratto e dell’idea; bene – qui si perdono l’umanità e il genere. La cosa non richiede commenti, credo; ma bisogna riconoscere che Kant non è chiaro. Con simile traduzione si perde, in una parola, l’autonomia intuitiva e sensata dell’idea di genere come cosa chiara e non distinta – ossia l’idea generale come individuo o personalità logica. Ed è così, effettivamente, in Kant; e d’altra parte non è neppure così: perché l’ambivalenza sta nel testo e nella testa di Kant; il quale ha difficoltà a mettere in relazione discorsiva, letteraria, le due diverse dimensioni del pensiero, ideale e concettuale, se non per la consueta via dell’intrusione gerarchica. Grammaticalmente mit ihren si riferisce infatti tanto bene alle caratteristiche o qualità specifiche dell’umanità, come pure all’umanità stessa, ripetendo l’iniziale in ihrer, che senza dubbio le si riferisce; e oltre a significare i «loro» scopi di perfezione (delle innumerevoli caratteristiche essenziali), significa dunque altrettanto bene che è l’umanità stessa a possedere i «suoi» scopi di perfezione. L’autonomia dell’idea, se si vuole, c’è; e c’è dunque in questo caso anche il soggetto, ossia il centro di riferimento di questa folla di predicati. Ed ecco perché ho preferito rendere la duplicità del riferimento di mit ihren con il più vago: «i propri» scopi, rinunciando a scegliere fra i due aggettivi possessivi che Kant, non innocentemente, ha avuto la fortuna per lingua sua di non essere obbligato a distinguere. *** Da una parte, siamo forse in presenza di un (diciamo così) leibnizianesimo grammaticale, col quale Kant cerca di legare cielo e terra. Egli vuol dire che se l’umanità come dispiegamento di un’innumerevole varietà di specie conosce la perfezione del suo concetto nell’insieme delle sue perfette caratteristiche speciali, è poi essa stessa a mostrare i suoi propri scopi di perfezione in quel nostro giudizio, che ce ne può rendere l’idea come genere. La quale idea di genere esiste soltanto come giudizio. La corrività stilistica, in questo caso, non è mera sciatteria, perché obbedisce a un istinto di ricerca della continuità e dell’unità, che oltre che nella saldatura grammaticale si manifesta, terminologicamente, con l’insistente scelta dei termini di perfezione fra i verbi di compimento per accumulo e gradazione: vollkommen, vollständig. Né manca un bis zur. Ma sarà proprio così? O non abbiamo qui, piuttosto, nell’ambiguità del riferimento dei moti di perfezione dell’umanità e della folla dei suoi individui, un   Alla nota 18.

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i. Una critica del testo   339

rispecchiamento fra cose lontane e affatto separate, legate fra loro da un vincolo gravitativo, sostanzialmente ingraduato, virtuale e meramente verbale, rappresentabile con l’immaginazione ma non, propriamente, raccontabile? Anche questo è leibnizianesimo: il suo altro versante, diciamo così, del muto rispecchiamento anziché della continuità graduata fra estremi opposti. Non soltanto questa concezione gravitativa e polare, in senso sinfonico e contrappuntistico, è parte precipua della mentalità del pietismo, ma informa poi sensibilmente, per esempio, buona parte della poesia giovanile di Goethe. Ecco un esempio prescelto da una strofa, nella quale al consueto schema del rispecchiamento fra universi distanti e ben separati si aggiunge, affatto inconsueto, il raro pensiero di una gravidanza celeste: Auf der Welle blinken tausend schwebende Sterne, weiche Nebel trinken rings die türmende Ferne; Morgenwind umflügelt die beschattete Bucht, und im See bespiegelt sich die reifende Frucht. Sull’acqua scintillano migliaia di tremule stelle, soffici nebbie assorbono l’orizzonte che attorno si erge; la brezza del mattino aleggia sulla baia, in ombra ancora, e nel lago si specchia il frutto che matura.

Poiché l’orizzonte montano è nebbiosamente indistinto, e la baia è ancora in ombra, non mi pare dubbio che a specchiarsi nel lago sia soltanto il firmamento col suo frutto maturo. Dall’immagine di queste due superfici affacciantisi l’una sull’altra, dalle quali è stata allontanata ogni tangibile presenza intermedia, ognuno può facilmente intuire quale sia lo schema bipartito di un mondo antelucano che, alquanto precocemente, presiede al suo istinto poetico (se non si vuole dare alle nebbie, alle brezze, alle ombre un significato di presenza, anziché d’assenza)43.

43   Sul lago (M. T. Giannelli), in Tutte le poesie, a cura di Roberto Fertonani, Mondadori, Milano 1989, i, 1, pp. 92/93.

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340   parte seconda. «la critica»

Ora, Goethe aggiunge a quest’immagine del rispecchiamento, assai comune, il sorprendente annuncio che il cielo è un vivo grembo, carico di frutti. Simile pensiero, come ho detto, è testualmente raro nella sua poesia, sebbene faccia parte principale della sua poetica. Ma da nessuna parte dell’intera opera di Kant, io credo, si può trovare, come pensiero suo proprio, un simile aperto riconoscimento della fecondazione dall’alto, o di un cielo, insomma, come grembo spalancato sul mondo di quaggiù. Anche quando, come nel passo che stiamo esaminando, egli attribuisce alquanto malamente alle idee una loro propria consistenza d’autonomo principio, lo fa tuttavia sempre come qui, per l’appunto, avviene: partendo dal basso, e dalla folla, e ben lontano dal centro. Né, quasi sempre, egli manca di precisare che non si tratta di pensiero suo, bensì d’altrui – in questo caso di Platone (ma anzi dei neo-platonici, piuttosto), come subito si apprende: «Ciò ch’è per noi un ideale era per Platone un’idea dell’intelletto divino, un singolo oggetto nell’intuizione pura del medesimo [intendi: di questo medesimo oggetto, desselben], il più perfetto degli esseri [Wesen] possibili d’ogni specie [vale a dire: in ciascuna delle specie], e il fondamento originario di tutte le copie nel fenomeno»44. Secondo un’equivoca lettura alla quale stiamo ormai facendo l’abitudine, desselben è riferito da Colli e poi da Chiodi all’intelletto, anziché all’oggetto: «un oggetto singolo nell’intuizione pura di tale intelletto». L’intuizione pura di cui si parla sarebbe dunque la facoltà generale del divino intelletto. Ma come potrebbe questa divina facoltà generale essere il fondamento originario di tutte le copie nel fenomeno della cosa? Pensando forse a un significato tecnico della parola «fondamento» (nel senso di un improbabile riferimento a una gnoseologia teologica), Colli e Chiodi hanno cercato di rendere più esplicito il prudente (ma non letterale): oggetto singolo nell’intuizione pura «di esso», di Gentile e Lombardo-Radice. Esposito li segue, mentre la Marietti traduce bene desselben esattamente per ciò che inequivocabilmente significa: un oggetto singolo nell’intuizione pura «dello stesso». Qui Kant intende proprio l’ideale come intuizione d’un qualche oggetto; e non può certo riferirsi all’intelletto parlando poi, subito, del più perfetto d’ogni specie di Wesen possibili. Egli cerca, malgrado tutto, di restare saldamente attaccato alle cose. Facendo invece dell’intelletto divino e dei suoi puri pensieri il fondamento originario o l’archetipo d’ogni copia, i traduttori interpreti spingono il suo platonismo d’occasione ancora più decisamente sul versante del neo-platonismo; ma poi, soprattutto, svelano in una sede prono  B 596.

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i. Una critica del testo   341

minale impropria quella che è, in definitiva, la radice e l’evidenza testuale dell’intellettualismo, incoraggiandone lo sviluppo, e sacrificando quanto in Kant è ancora possibile rinvenire di vera concretezza. Ciò che in lui è il risultato di un modo d’essere e di procedere, diventa in loro un fondamento. *** Ritorniamo a completare il commento del nostro passo d’apertura, col suo problema del rapporto fra l’idea e l’ideale, o fra l’astratto e il concreto. Nella seconda parte di esso, dopo il mio primo punto e virgola, Kant scioglie malamente il quesito con un nuovo isocolo, simmetricamente riunito attorno al suo secondo punto e virgola. Il lettore capisce facilmente di che cosa può trattarsi: perché la relazione fra due simmetrie nient’altro è, in definitiva, che una struttura analogica. L’indizio è confermato testualmente da una tripla ripetizione: «tutte» le caratteristiche, «tutto» ciò ch’è fuori, «tutti» i predicati. Non manca che il quarto, ossia il secondo in ordine logico d’apparizione: «tutti» i propri scopi. Kant non l’ha voluto inserire, dicendo mit ‘allen’ ihren Zwecken, perché così avrebbe perduta la duplicità del riferimento, di cui ho già parlato; e mit ihren si sarebbe chiaramente riferito alla sola umanità, anziché, anche, alle sue innumerevoli caratteristiche, accentuando così, nel perfezionamento, l’autonomia dell’idea. Preoccupava Kant, insomma, la possibilità di parlare di un perfezionamento ideologico dell’umanità, a prescindere dal perfezionamento delle sue singole caratteristiche. Se nell’intero passo c’è dunque, come io ritengo, un’analogia nascosta, per spiegarne il significato si tratta soltanto di formularla con chiarezza. Ora, se, come s’è visto, la parola «natura» offre per affinità la spiegazione della prima parte del passo, la parola «essenziale», in questa medesima prima parte, offre per contrasto la spiegazione della seconda. Per essere interamente (integralmente) perfetta, l’umanità deve contenere anche ciò che non le è essenziale. Il discorso è decisamente confuso, perché «essenziale», che dovrebbe opporsi a ‘empirico’ (nel senso di ‘non necessario’), si oppone qui invece a ‘individuale’. È un altro modo di parlare della sensibilità, senza menzionarla. Kant va in cerca, come già del concetto concreto, dell’idea concreta; e vuole trovarla, per via logica, nell’ideale personale, che è il quarto termine dell’analogia. Se non che, la logica trova sul suo cammino un ostacolo: perché mentre l’umanità è fatta di totalità (come concetto), di perfezione (come idea), di completezza (come intero), l’ideale personale non possiede che la metà delle sue qualità; e l’ideale del saggio degli Stoici, per esempio, se possiede la saggez-

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342   parte seconda. «la critica»

za non potrà possedere anche l’insipienza. Ciò che si acquista in concretezza e perfezione si perde dunque in totalità e integrità. Non sarà forse, questo perfetto ideale umano, in quanto è perfetto, meno umano? E in quanto è invece umano, non sarà la negazione dell’esistenza dell’idea d’umanità come una perfezione? È un antico quesito che ha sempre afflitto gli stoici, e che trova la sua più splendida formulazione nel De voluptate del Valla; il quale, procedendo invece antropologicamente a ritroso, dalla terra e dall’integrità creaturale dell’uomo (ossia dal terzo termine della nostra analogia come cosa già data, senza il «non soltanto» e il «bensì anche» di Kant), compone un dialogo che meriterebbe semplicemente di acquisire il rango di statuto di un’intera antropologia nazionale, com’è l’italiana. In lande borussiche, invece, Kant non se la cava che malamente, infarcendo frettolosamente il discorso di tematiche platoniche mal disposte. L’interezza, o integrità antropologica, diventa integrità in senso moralistico (come quando si parla di un uomo ‘integerrimo’). Siamo in presenza, evidentemente, di una delle sue abituali intrusioni per abbreviazione del discorso, o esagerazioni per riduzione terminologica, in quanto ‘individuale’ significa, qui, assimilazione di tutto ciò ch’è genericamente empirico. Egli cerca la concretezza – ma la vuole edificante, non sensibile. Kant dice, insomma, che nell’idea dell’umanità è contenuto anche tutto ciò che non è essenziale, e che dunque è sensibilmente empirico; e che questa folla di caratteristiche empiriche è una folla d’individui. Si domanda in che cosa mai d’essenziale e di perfetto possa riconoscersi questa folla di esseri casuali, dal momento che la loro totalità, senza la perfezione, non ne può rendere possibile che un concetto; e dal momento, soprattutto, che l’idea, intesa come essenza e perfezione della totalità, può rappresentare la folla delle singole qualità come cosa che non è effettivamente loro propria – il che è assurdo. Kant non desidera parlare di sensibilità, e preferisce invece parlare di una vaga completezza: «al di fuori» del concetto v’è tutto ciò che fa dell’idea una «completa» determinazione. Possiamo senz’altro immaginare che nella sua testa metodica e gerarchica la perfezione potesse apparire come una completezza per accumulo: non manca infatti il durchgängig. Ma, insomma, resta il fatto che «al di fuori» del concetto sta l’idea; e che questo «al di fuori», come relazione volumetrica di contenente a contenuto, significa ‘al di sopra’. E resta il fatto che è proprio grazie alla sensibilità che può realizzarsi questa relazione d’ordine gerarchico fra il concetto e l’idea, o fra l’enciclopedismo erratico e la ferma contemplazione, sebbene Kant preferisca dare al ruolo della sensibilità un’espressione meramente avverbiale.

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i. Una critica del testo   343

Da un capo all’altro della prima Critica egli non si accorge mai che tutti gli außer, come questo, che gli sfuggono, capovolgono completamente l’intera impostazione della sua estetica trascendentale, rendendola priva di senso precisamente per ciò che gli stava più a cuore: intendere, volere, giudicare con il senso del cuore. E quando perciò nel suo Lexikon lo Eisler fa del Gemüth un sinonimo (anche) di Herz, non sbaglia. È una continua lotta patetica con se stesso, quella alla quale noi spesso assistiamo: un rinnegamento continuo della sensibilità, la quale pure lo fa vivere. Nel gettare involontariamente i presupposti del soggettivismo romantico, Kant mostra di essere soggetto a se stesso; e quel soggettivismo scaturisce, in definitiva, dall’intellettualistica pretesa di vincere la gravità innalzando dei pesi. Se vuole farsene un’idea, non sa e non vuole guardare all’uomo così com’è. Ma malgrado tutti i suoi sforzi, lo spazio antropologico e antropomorfico la vince sempre su quell’insensibile nozione del senso interno e del tempo, che gli fa da pudico succedaneo per l’individuazione di una sede conoscitiva radicale dell’unita fattura umana: la quale, nella sua schietta realtà, è troppo imbarazzante per essere messa in trattati e lezioni, com’egli credeva di dover fare, e come per ragioni professionali dovette pur fare. A dire quale sia questa fattura non vale, da che è mondo, che la letteratura; e in questo suo modo di concepire l’idea dell’umanità si apre dunque, o si ribadisce pesantemente, un divorzio della filosofia dalla letteratura per ragioni che sono, soprattutto, di pudore: pudore verso l’umanità, per le forme inevitabilmente miste e complesse della sua integrità; e pudore verso se stessa, ogni volta che una filosofia come questa deve riconoscere di non essere all’altezza di un compito supremo. Che il senso d’impotenza e d’inferiorità nei confronti della poesia si trasformi in albagìa, poi, mi sembra cosa abbastanza normale. E se anche un uomo come Kant avesse mai accettata quella cattedra di poetica che un giorno gli fu offerta, non credo proprio che avrebbe scritto una Critica diversa da questa – sebbene egli, pur senza saperlo, desse a ciò che è ‘puro’ un significato non diverso da ciò che è ‘poetico’. la città fondata Non occorreranno ormai molte parole per intendere il significato del passo successivo. Ho già accennato, più sopra, all’accendersi d’un barlume di neo-platonismo là dove Kant parla delle idee come d’intelligenze, o di attive potenze intermedie; ora egli ne parla anche come di pensieri divini. Il barlu-

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344   parte seconda. «la critica»

me diventa più tenue allorché Kant afferma di voler limitare questa attività intelligente alla sola pratica. La sua posizione rispetto al platonismo è più volte limitata: inconsapevolmente, per l’origine ideologicamente derivata (per professione Kant fu lettore frettoloso; ma per indole, oltre che per professione, non fu neppure un lettore diretto); e consapevolmente, per il suo scopo strettamente pratico, per la vaga restrizione del novero delle azioni, la commistione empirica edonistica, la banalità del suo ruolo razionale e disciplinare della forma. Pur non avventurandoci tanto lontano [so weit zu versteigen], dobbiamo concedere [gestehen] che l’umana ragione, oltre alle idee, possieda anche ideali, i quali non hanno in verità, come i platonici, forza creativa, ma (in quanto principi regolativi) pratica, e stanno alla base [zum Grunde liegen] della possibilità della perfezione di certe azioni.

Versteigen significa anche ‘inerpicarsi’45, gestehen ‘confessare’, il verbo ‘possedere’ è al congiuntivo; i «princìpi» di cui si parla due volte, d’altra parte, sono una corrività espressiva, significando piuttosto ‘facoltà’, o ‘ruolo’, o ‘funzione’, o ‘ufficio’ della ragione, e simili; e ancora, con le solite sovra- o sottostrutture volumetriche, gl’ideali «stanno alla base», mentre i concetti morali hanno qualcos’altro «alla loro base»; e poi ancora, e sempre al solito, questi ideali e questi concetti morali sono due cose, quando dovrebbero essere una: concetti concreti. Ma per il loro scopo di servigio ben limitato e limitante questi concetti concreti diventano «esempi», in quanto almeno se ne considera «semplicemente» la forma – così che alla superfetazione terminologica si affianca l’annichilimento, nientemeno, che della nozione di forma. E però, secondo Kant, essi restano pur sempre, in quanto sono forme, concetti puri. Che qui non si stia facendo un solo passo avanti sul piano teoretico, ma che il discorso sulla concretezza prosegua cambiando tavolo in cerca di soluzioni esterne, morali e (assai vagamente) estetiche, non pertinenti alla fondata autonomia logica, non è una semplice sensazione: a me sembra un’evidenza. Trapassando il discorso da un àmbito strettamente logico e conoscitivo a un ambiente morale (e anzi moralistico, in quanto meramente disciplinare), la concretezza del concetto è diventata insomma praticità; e la praticità, a sua volta, semplicità (e anzi semplificazione, come edonismo e formalismo). Se, come fanno seguendo Colli gli ultimi traduttori italiani, si rende questo «stare alla base» con la parola tecnicamente assai più impegnativa di «fondamento» 45   Bene la Marietti, che è l’unica a cogliere la sfumatura dell’atteggiamento psicologicamente riduttivo, o diciamo pure ‘minoritario’, di Kant: «arrampicarci fino a smarrirci» (p. 601).

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i. Una critica del testo   345

(anziché mantenere il prudente calco con la «base» di Gentile e LombardoRadice), ciò significa che si vuol dare al discorso quella valenza speculativa ch’essi amerebbero trovare e conservare, e non la valenza traspositiva e riduttiva, alla quale Kant si deve invece in qualche modo acconciare. Egli sa bene che trattando di umanità non si può essere perfetti, e che poco vale la pretesa di rigore speculativo e la tecnica terminologica. Ma non è davvero, quello di Kant, un bel risultato e un bel procedere; e chi legga con attenzione avverte, in pagine come queste, confrontate con la pretesa del loro cimento, un che di pedagogico, di colloquiale e distraente, di circonlocutorio, in definitiva d’infondato, che fa decisamente rimpiangere la proverbiale puntualità delle passeggiate igieniche dell’autore – rendendola tuttavia alquanto incomprensibile, se non come la curiosa bizzarria d’un personaggio che ha delle ottime ragioni sue proprie, personali, per prediligere l’ordine. Ch’egli abbia affastellato e riordinato alla meglio, nello spazio di quattro o cinque mesi, gli appunti delle sue lezioni e meditazioni di oltre un decennio, sentendo d’avere finalmente chiaro in testa un sistema, prima che questo si dissolvesse, non è certo una colpa: è un semplice dato di fatto. Ma lasciamo andare cose già dette riguardo allo stile. È più interessante notare ancora, nelle due proposizioni successive, il riferimento problematico di un aggettivo possessivo, e il particolare della disposizione della seconda virgola nell’ultimo periodo, che alcuni traduttori collocano diversamente, con sensibili differenze di significato. I concetti morali non sono interamente concetti puri della ragione, perché alla loro base sta [zum Grunde liegt] qualcosa di empirico (piacere o dispiacere). E tuttavia, in considerazione del principio per cui la ragione impone barriere alla libertà in sé priva di legge, essi [i concetti morali] possono servire benissimo (badando insomma semplicemente alla forma propria) da esempi di concetti puri della ragione.

Kant scrive: Gleichwohl können sie [i concetti morali] in Ansehung des Prinzips, wodurch die Vernunft der an sich gesetzlosen Freiheit Schranken setzt, (also wenn man bloß auf ihre Form Acht hat) gar wohl zum Beispiele reiner Vernunftbegriffe dienen. Nel passo originale la parentetica, come si vede, segue immediatamente la virgola anziché precederla, come sarebbe più logico attendersi; e ciò accresce le possibilità di un equivoco riferimento dell’aggettivo possessivo ihre, a causa della facile attrazione della parentetica, al di qua della virgola, dentro la proposizione incidentale che la precede. Sotto il profilo grammaticale ihre può riferirsi tanto a Vernunft (la forma della ragione), che a Freiheit (la

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346   parte seconda. «la critica»

forma della libertà), che a Schranken (la forma delle barriere), che ai concetti morali. Escludiamo subito il riferimento alla ragione: trattando d’imposizione di barriere non è evidentemente di una facoltà formale, ossia (come l’intende lui) priva di contenuti, che Kant parla. Ed escludiamo anche, per il momento, la possibilità di un riferimento della forma alle barriere: la vedremo più avanti. Contro la lettura dei nostri cinque traduttori, proviamoci ora a escludere anche il riferimento ai concetti morali: non ha Kant appena detto, con la proposizione precedente, che i concetti morali non sono mai puri del tutto, bensì sempre in qualche modo empirici? Non è dunque a una loro nuda forma che vuole alludere con la sua precisazione parentetica. Ma questa è invece, per l’appunto, la lettura di tutti i nostri traduttori: i quali rendono ihre con «loro» (concetti morali), anziché con «sua» (libertà). Una libertà in sé eslege può essere senz’altro intesa (alla maniera di Kant: la libertà di tutto potere è libertà di nessuna determinazione) come una libertà puramente formale; e Kant vuol dire che allo scopo di disciplinare con barriere questa libertà del nulla la ragione può giovarsi dei concetti morali proprio in virtù della loro natura irrimediabilmente empirica e limitata, che non può essere mai del tutto pura o formale (dal momento, che so?, che la virtù di Socrate sarà stata anche fatta di personale inettitudine, e la fermezza di Catone sarà anche stata motivata dalla conservazione dei privilegi del suo rango). Ma proprio perciò gli esempi, secondo lui, costituiscono insomma dei ragionevoli limiti naturali a una libertà sfrenata. E se invece leggiamo, con tutti i nostri traduttori, che la ragione pone barriere alla libertà eslege servendosi dei concetti morali, e badando però unicamente alla «loro» forma, così da farne degli esempi di concetti puri – bene: non nego affatto la possibilità di questa lettura del passo, ma invito semplicemente a considerare se qui noi non assistiamo a un tipico fallimento di Kant. Sotto il profilo logico questa possibilità di lettura, unanimemente accolta, è semplicemente crudele. Vediamo: per attuare i suoi scopi pratici la ragione prenderebbe ciò che non è (i concetti morali) anziché ciò che è (i concetti puri); di ciò che non è, e che non può essere, essa farebbe also (così, insomma, tanto per intendersi), ciò che invece è; di una cosa che non è sua propria farebbe cosa propria, rinunciando all’uso di cose sue proprie; e userebbe infine queste cose improprie in modo improprio: non già, infatti, come quello che i concetti morali dovrebbero diventare, e che non possono diventare (concetti puri), bensì come semplici esempi pratici di questi concetti puri. Ma anche così, levandosi d’impiccio (com’è suo costume) aggiungendo una nuova figura

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i. Una critica del testo   347

logica, di quali esempi si tratta? Si tratta di esempi di concetti puri in quanto sono concetti morali limitati, ossia privati non si sa come delle loro caratteristiche empiriche, oppure in quanto gli esempi sono dei concetti puri moralmente limitati, ossia destinati a uno scopo pratico? Lasciamo andare, per ora. L’unica possibilità di venirgli incontro per aggiustare il discorso sarebbe proprio, mi sembra, quella di tradurre quello ihre con «sua», riferito alla libertà. *** Se non l’ho fatto, e se ho preferito io stesso parlare di una vaga forma «propria» (come già «propri», in altro caso precedente46), la ragione c’è – ce ne sono anzi due: l’opinione opposta di tutti i traduttori, che rispetto, e una terza possibilità. Conoscendo ormai a sufficienza l’uomo dalla sua scrittura, io credo che noi possiamo dubitare che Kant fosse sempre sicurissimo dell’attribuzione dei suoi aggettivi e pronomi; di certo non se ne curava molto – ma la disattenzione non può essere stata sempre innocente. La traduzione con «sua» (la forma della libertà) mi sembra avere il merito di una certa solidità logica, di un’onesta verosimiglianza che può dare un senso al discorso e un fondamento pratico (in tutti i sensi: speculativo e prosastico) alla città terrena: una libertà come la si può solo pensare viene disciplinata da limiti quali li si può soltanto trovare ed esibire. Il discorso può stare in piedi da sé, può essere finito qui, e la prima Critica può andarsene per il mondo a fondare le sue repubbliche senza troppe pretese, sì, ma con l’anima in pace. Le nostre cinque traduzioni di ihre con «loro» (la forma dei concetti morali) hanno invece, loro malgrado, un merito diverso: quello di annunciare con più di un’inverosimiglianza logica la necessità di aprire un altro discorso, di fare un salto dai malsicuri concetti morali intinti nella vita terrena verso l’appello (l’appiglio) a una moralità categorica, la quale si serva di concetti puri suoi propri come esempi e strumenti pratici e sicuri (non si dimentichi il verbo dienen!). Sarà il compito della seconda Critica: dove a esercitarli però, sarà l’intelletto categorico, e non la ragione. È questo un altro principio d’intellettualismo, che vedremo. Consideriamo intanto la terza possibilità di lettura che poco sopra abbiamo momentaneamente accantonata: riferendo cioè ihre a Schranken (la forma delle barriere47). Ci sarà una verità anche qui? Vediamo; e approfittiamone per leggere le traduzioni. La posizione della virgola, così come Kant l’ha disposta   Nella traduzione del passo alla nota 40.   La Marietti è l’unica, dopo Colli, a preferire il termine «barriere»: ossia qualcosa di più solido dei «limiti», o Grenzen. 46 47

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348   parte seconda. «la critica»

prima della parentetica, s’è detto, non ci aiuta affatto a capire – anzi. A leggere il periodo correntemente, se solo la virgola fosse stata disposta dove uno se l’aspetta, la parentetica sembrerebbe una specificazione della proposizione relativa, ossia facente parte insieme con essa di un’unica subordinata incidentale, assegnando ihre a Freiheit; ma così non è, e la virgola sbalza la parentetica nella principale, assegnando ihre a qualcos’altro. C’è effettivamente di che confondersi. Gentile e Lombardo-Radice avevano già realizzato un piccolo pasticcio. Essi avevano spostato la virgola indietro, in modo che la parentetica rimane, sì, associata alla proposizione principale; ma in modo da creare, anche, una nuova mezza incidentale assoluta (con la quale si specifica essere la libertà, in sé, sciolta da ogni legge) – e senza però chiuderla con una nuova virgola; e facendo anzi seguire poi a questa mezza, o mancata, incidentale assoluta la parentetica, senz’altro (non senza, bisogna dirlo, disagi per la lingua italiana)48. A seconda di come si dispongono gli elementi ortografici e sintattici del periodo, dunque, non è affatto impossibile che la semplice forma si possa interpretare come una forma di quei limiti che vengono imposti dalla ragione, anziché come forma dei concetti morali; e che essi (le barriere medesime imposte dalla ragione, considerate formalmente in quanto puri limiti) possano servire come esempi di concetti puri. Questa lettura, introducendo un secondo significato di «loro», presenta il notevole vantaggio di rendere finalmente possibile l’attribuzione degli esempi, che più sopra avevamo lasciata in sospeso: con l’imposizione alla libertà di barriere puramente formali i concetti morali possono acquistare il valore di concetti puri, e gli esempi di concetti puri possono valere moralmente in quanto sono formalmente limitati all’uso pratico della ragione. Il formalismo delle barriere consente perciò di passare dai concetti morali ai concetti puri attraverso gli esempi. Le incongruenze e le inverosimiglianze logiche di questa frase si sciolgono. Non ha infatti detto Kant, nel periodo precedente, che i concetti morali non sono mai del tutto concetti puri? Ebbene, in questo modo noi apprendiamo che concetti puri della morale sono possibili, e anzi esistono, e consistono precisamente della forma di quei limiti che la ragione assegna alla libertà, in sé eslege. La morale può così avere una legittimazione logica; e la logica, da parte sua, non avrebbe alcun bisogno di andare a cercare, e di trovare, alcunché fuori di sé. Questo moralismo è dunque sì logicamente formalistico; ma il formalismo 48   Ecco la loro versione: «Pure, rispetto al principio, per cui la ragione pone dei limiti alla libertà, in sé sciolta da ogni legge (quindi se si bada semplicemente alla loro forma) essi possono bene servire come esempi di concetti puri della ragione» (p. 366).

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i. Una critica del testo   349

è, a sua volta, intellettualistico. La differenza con la seconda Critica (se questa interpretazione può essere vera) consiste nel fatto che qui si parla di forma dei limiti in quanto la forma è un limite, ossia un contenuto: le «barriere» di Colli e della Marietti, per l’appunto; e là invece se ne parlerà in quanto il limite è una forma (intesa, si capisce, a modo suo): i «limiti», per l’appunto, preferiti da Gentile Chiodi Esposito. Che lo si voglia ottenere o meno, con lo spostamento di una virgola, e traducendo ihre con «loro» in una seconda attribuzione, questo è di fatto il risultato in vista della seconda Critica: che la morale perde, con gli esempi di concetti puri (in quanto sono puri, in quanto non sono più empiricamente morali) il tenue, ma pur sempre persistente fondo empirico e sensibile dei suoi propri contenuti e principi; e acquista invece, adesso sì, un tecnico ‘fondamento’ speculativo coi puri limiti imposti dalla ragione a una libertà essenzialmente concepita come semplice assenza d’ogni contenuto e d’ogni forma. Qui non c’è più «la base della possibilità della perfezione di certe azioni»: qui c’è già il ‘fondamento’ tecnico della perfetta moralità. Studiando la traduzione del Gentile si rende insomma possibile aprire la prospettiva di un insensibile cambio d’oggetto, dai concetti morali ai puri limiti, nonché di significato di questi limiti. Nel Colli, invece, si ribadisce l’oggetto e si va dietro a un Kant, diciamo così, attuale. L’impegno profuso nella sua traduzione è notevole. Egli non soltanto lascia la virgola al suo posto; ma poi allontana la parentetica dalla pericolosa vicinanza di questa virgola, mettendola ben dentro la principale, alla quale appartiene; e soprattutto, infine, ribadisce quale sia l’oggetto della frase, non facendosi scrupolo di ripetere «i concetti morali» là dove Kant usa il semplice pronome sie. E se poi traduce gesetzlose con «anarchica», facendo della libertà per Kant non una semplice assenza di forma, bensì un’attiva negazione della forma – be’, lasciamoglielo dire49. Il lettore penserà che qui si voglia fare del virtuosismo; ed è ora, effettivamente, di smettere50. Continuare non è impossibile – è inutile: basta avere reso l’idea, mi sembra. È chiaro che dalla spremitura di una simile prosa si 49   Ecco la sua versione: «Nondimeno, riguardo al principio con cui la ragione pone delle barriere alla libertà in sé anarchica, i concetti morali (se dunque si bada semplicemente alla loro forma) possono benissimo servire come esempi di concetti puri della ragione». 50   Ecco, per completezza e comodità del lettore, la versione di Chiodi: «Tuttavia, in riferimento al principio per cui la ragione assegna limiti alla libertà in sé sfrenata (quindi ponendo mente esclusivamente alla loro forma), possono servire benissimo da esempi di concetti puri della ragione» (p. 462). La versione della Marietti: «Nondimeno, rispetto al principio onde la ragione pone barriere alla libertà in sé eslege (dunque se si bada meramente alla loro forma), possono fungere benissimo quali esempi di concetti di ragione puri» (p. 601). La versione di Esposito: «Tuttavia, riguardo al principio con cui la ragione pone dei limiti ad una libertà in sé priva di leggi (facendo quindi attenzione solo alla loro forma), essi possono servire benissimo come esempi di concetti puri della ragione» (p. 833).

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350   parte seconda. «la critica»

possono ricavare dei mondi interi – ma bisogna chiedersi se questo sviluppo sarebbe anche un progresso. Chi, come Goethe, voglia andare in cerca dei fenomeni originari, o dei pleromi, o delle ragioni spermatiche della critica, può forse dire d’averne trovati in questa pagina, in questa proposizione, in questo aggettivo possessivo e in questa virgola. A parziale giustificazione per la fatica che ho dovuto infliggere sin qui al lettore devo dire che soltanto l’esame minuzioso di casi simili a questo può dare l’idea dell’impegno che tocca a chi voglia cimentarsi con una traduzione. Ma va pure aggiunto che la difficoltà, in sé, non implica in certi casi nient’altro che una chiara e decisa volontà d’interpretazione (l’unica cosa, per fortuna, che possa rendere veramente interessante, persino divertente, questa penosa lettura), e una buona dose d’esercizio e d’abilità – nonché, bisogna pure ammetterlo, la complicità del non sempre innocente autore. *** Andare in cerca di concetti concreti ammettendo degli a-priori significa, in generale, dover scegliere fra due strade: partire da essi in quanto sono concetti, e poi cambiare discorso; oppure partire da essi in quanto sono concreti, e fare sin dapprincipio tutto un altro tipo di discorso. Se parlo di mancanza d’innocenza dell’autore è perché il suo volontario provincialismo territoriale fu anche un provincialismo mentale, col quale si diede a combattere (come fa in queste pagine) una non necessaria battaglia anti-letteraria che darà poi frutti più maturi e caduchi in un futuro suo e non suo. E il fatto che il provincialismo territoriale gli fosse caratterialmente congeniale, e il provincialismo mentale accademicamente inevitabile, nulla toglie né aggiunge alla pretesa speculativa, con la quale volle dettare dalla fitta cella della prima Critica, in generale, i criteri di possibilità della conoscenza, dell’azione e del giudizio. Ma giudicare Kant in questo modo significa innalzare il punto di vista. Ci siamo sin troppo soffermati nell’esame della campionatura della Critica. Dobbiamo ormai cambiare discorso, per vedere le cose in modo alquanto diverso.

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Ii. Una logica del testo Molto spesso si trova che il pregiudizio è la forza maggiore delle dimostrazioni della metafisica. Kant, Forze vive. “O amico, ben tornato! Dove fosti? Di’, su!” “Da cima a fondo lo stupendo museo di storia naturale ho visitato. Cose da rimaner come un babbeo, cose dell’altro mondo! Né ti saprei contare in verità tutto quel che ci sta… O mirabil Natura di bizzarrìe feconda! Che varietà di tinte e di struttura, che bestiole, farfalle, uccelli, insetti! E che scarafaggetti iridati e brillanti quai smeraldi, topazi e diamanti! C’è poi dei moscerini quanto un capo di spillo piccinini”. “E di’ un po’, l’elefante l’hai veduto? Com’è, dimmi, com’è? Scommetto, avrai creduto a una vera montagna esser davanti”. “O che! Ci stava pure l’elefante?” “C’è sicuro, altro che!” “Sarà ben, non insisto, ma l’elefante, scusa, io non l’ho visto”. Il curioso, favola di Krylov (trad. Verdinois).

Procediamo ora con una discussione più libera del testo, tralasciando per quanto possibile l’approccio filologico minuto. Trattiamo dell’intellettualismo nella prima Critica come di una risorgenza nel luogo che considero il più testualmente significativo: proprio là dove se ne parla, nella ben nota Appendice all’Analitica dei principi sull’anfibolia dei concetti della riflessione. La parola stessa non manca, allorché Kant definisce Leibniz (e altrove Platone) un Intellektualphilosoph: là dove insomma riconosce che Leibniz avrebbe avuto perfettamente ragione, se soltanto non avesse messo l’intelletto in relazione immediata con gli oggetti, trascurando la mediazione delle forme dell’intuizione sensibile e dunque (per naturale conseguenza, secondo lui) la natura soltanto fenomenica degli oggetti stessi. Leibniz avrebbe avuto la pretesa d’intuirli proprio così com’essi sono, e con l’unico strumento che gli era sembrato accessibile o idoneo: l’intelletto.

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352   parte seconda. «la critica» Ma poiché l’intuizione sensibile è una condizione soggettiva del tutto speciale che sta a priori alla base di ogni percezione, e la cui forma [dell’intuizione sensibile] è originaria – bene, la forma è dunque data per sé soltanto; e lungi la materia (o le cose stesse che appaiono, come si pretende che debba [e debbano, essa ed esse: sollte / sollten]) dallo stare a fondamento (come effettivamente si dovrebbe [müßte] giudicare secondo semplici concetti), così [invece] la possibilità della medesima [materia] presuppone anzi un’intuizione formale (tempo e spazio) come data1.

Curiosamente è proprio una simile critica, concernente la relazione immediata con l’oggetto attraverso la categoria di causa, che in definitiva lo Schulze metterà in discussione, come s’è detto all’inizio dell’Analisi Tematica nella Parte Prima. In questa pagina Kant riconosce ripetutamente la validità di una conoscenza intellettualistica – nell’unico modo, almeno, in cui sa concepirla: ossia limitata all’uso di semplici concetti; ed egli si propone d’integrarla, questa conoscenza, di fondarla solidamente mediante le forme dell’intuizione sensibile. In ciò consiste il suo manierismo intellettualistico. S’intende che per Kant le percezioni e le forme dell’intuizione non sono altro che le sue, lo spazio e il tempo, e nel suo modo di concepirle, per giunta; e che il numero e il senso delle distinzioni logiche e terminologiche riguardanti la prima conoscenza appare in lui di gran lunga ridotto rispetto alle precisazioni sulle quali s’era affaticata l’età maggiore dei grandi pensatori che l’avevano preceduto. Chi la prosegue, quell’età maggiore, è Lessing, chi la conclude è Voltaire, mentre Vico e Rousseau prendono già un’altra strada. L’unica possibilità d’andare avanti per un uomo come Kant era proprio quella di assumerne le acquisizioni alla meglio, con un giudizio per sommi capi in luce riflessa, com’è suo costume. Non vale perciò la pena di soffermarsi in un esame della validità di questa critica gettata là, da dietro i cantoni, su un confuso bersaglio di comodo; né, tantomeno, di correre al soccorso dell’intuizione e della forma leibniziane, o del significato e del ruolo che l’esperienza assume effettivamente nel suo pensiero. I traduttori sono tutti d’accordo nel tradurre Intellektualphilosoph con: «filosofo intellettualista». È strano che nel suo Lexikon lo Eisler, pur avendo ricavato il lemma plurale Intellektualphilosophen, non parli (besonders) che di Platone, ignorando il riferimento ben più ampio a Leibniz. Per parte mia, trascurerò di considerare la menzione di Platone nella Storia della ragion pura per l’esiguità del riferimento. Ho già parlato di un consapevole adattamento a scopi pratici di un platonismo derivato e in qualche modo minore; ma bisognerà parlare anche, viceversa, di un inconsapevole rilancio in grande stile dell’intellettua  B 323-324.

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Ii. Una logica del testo   353

lismo leibniziano, dopo averlo altrettanto semplificato, proprio dal seno della sua critica in queste pagine. I due intellettualismi per antonomasia, menzionati con diverso rilievo da Kant medesimo, conoscono perciò in lui, corrispondentemente, opposti sviluppi: sul piano pratico il ‘platonismo’ che riduce l’idea al giudizio morale, e sul piano speculativo il preteso intellettualismo leibniziano. Devo ripetere subito, ancora una volta, che preferisco dedicarmi a una discussione topologica del testo: nella convinzione che ciò che non si spiega in cinque pagine non possa spiegarsi in cinquecento, se non facendo sorgere nuovi infiniti problemi in un gioco di specchi, che poco o nulla può avere di vero e di concreto. E tantomeno gioverebbe il ricorso esterno alle dottrine: perché le dottrine compilate sull’ammasso di un pensiero servono precisamente allo scopo di sanare il caotico procedere di una scrittura e di un’orazione giornaliera, come queste, dopo avere indovinato un qualche vero senso generale del tutto2. Resta infine ancora da aggiungere che il criterio topologico vale ovviamente non soltanto per Kant, ma anche per Leibniz: il quale sarà, per quanto possibile, soltanto questo ‘Leibniz’ così com’è tolto e giudicato, di peso, in queste pagine. la città animastica Proprio con le prime parole d’esordio dell’Appendice Kant riconosce l’esistenza di un’unità originaria delle sostanze sensibile e intellettiva non già in un celeste fine, o in un limite apicale, bensì in un’origine oscura, in un ‘fondo’ 2   Il glossario aggiunto da Vittorio Mathieu alla traduzione Gentile, per esempio, realizza il prodigio di accostare fra loro, su un singolo lemma, significati tratti da ben diciotto opere, oltre alla prima Critica: quando, come s’è visto, bisogna faticare non poco a capire come, in questa medesima prima Critica, due diverse accezioni d’un medesimo termine possano talvolta stare insieme in un’unica pagina. Se ho contato bene, su duecentosettantuno lemmi trentacinque sono aggettivi, mentre non compaiono che due verbi (‘capire’ e ‘comprendere’, restando ‘intendere’ loro assimilato). Il lemma ‘opinione’ non è stato giudicato meritevole d’accoglienza, per la semplice ragione, probabilmente, che la sommaria trattazione fattane da Kant sul finire della prima Critica ha un significato logicamente riduttivo, e anzi, in definitiva, liquidatorio di una figura che non può essere tecnica. E tuttavia, come ho già detto e ripetuto fin dalla Presentazione, nessun altro significato e scopo ha la Critica (in generale, ma anche tecnicamente: con la teoria dell’opposizione reale, per esempio), se non quello di dare legittimità alle rette opinioni nel campo d’esercizio loro proprio: le cose insensibili. Benissimo ha dunque fatto l’Esposito, limitando il suo lessico alla sola Critica della Ragion pura; e c’è entrata in qualche modo anche l’opinione, attraverso però l’unico verbo: ‘ritener vero’. Sembra proprio un destino che nella critica l’opinione debba stare a pigione, quando invece è lo scopo di tutto! Il disinteresse per la lemmatizzazione dei verbi è strana, se si considera l’importanza che questo elemento grammaticale assume nella stilistica fortemente dinamica della letteratura pietista. La responsabilità risale probabilmente a Rudolf Eisler, che nel suo Kant-Lexikon (Mittler, Berlin 1930) non registra, fra parecchie centinaia di lemmi, che otto verbi all’infinito (exponieren, kennen, messen, sollen, sterben, vergehen, verstehen, wählen; mentre wohlwollen è rinviato ad altro). Ma il Wörterbuch zum leichtern Gebrauch der Kantischen Schriften di Carl C. E. Schmid (Crökersche Buchhandlung, Jena 1798; ma ora Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1976) elencava ancora quarantasei verbi.

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354   parte seconda. «la critica»

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radicale. Questa dimensione antropologica comune, se non proprio unita, delle facoltà conoscitive in Kant di solito si chiama «animo» (Gemüth); ed è noto che il Gentile si prese la libertà di tradurre la parola con «spirito»: La riflessione (reflexio) non ha a che fare con gli oggetti stessi, per farsene senz’altro dei concetti, bensì è quello stato dell’animo nel quale dapprima ci disponiamo, allo scopo di risalire alle condizioni soggettive entro le quali ci è possibile giungere ai concetti… La domanda che deve precedere ogni ulteriore trattazione delle nostre rappresentazioni è la seguente: a quale facoltà conoscitiva esse appartengono, insomma? È l’intelletto, oppure sono i sensi ciò dinnanzi a cui esse vengono connesse o confrontate?3

Questa sede naturale (la quale, come s’è visto nel paragrafo del capitolo precedente dedicato a ‘La città nascosta’, si esprime fin troppo vagamente im Sinne), non possiede in Kant una sua propria, corrispondente, forma logica d’esercizio vera e propria: tant’è vero ch’egli parla della sua attività come di una generica Handlung, ossia «operazione»; e perciò il Gentile, non contento, là, di sopprimere im Sinne, non mancò neppure qui di correre al rimedio, facendo di questa generica operazione un figura tecnica, traducendo la parola con «atto». Ma né qui, né altrove, né mai, il centro antropologico della conoscenza riesce in Kant a diventare centro logico unito del pensiero; né, del resto, lo vuole; né, diciamolo pure, egli s’era ancora attrezzato per realizzare i miracoli dello ‘spirito’. La sua riaffermazione, in generale, della priorità dell’intuizione sensibile assume dunque qui, come si vede, l’indubbio significato di ribadire il dualismo tra le forme sue proprie, da una parte, e le forme logiche e ideali dell’intelletto e della pura ragione, dall’altra. Quella che si presenta, di solito, come una precedenza, qui diventa un’alternativa; e una sottostante radice unitaria, priva com’è di risorse tecniche, rimane di fatto inefficace per la conoscenza. Come si vedrà nel seguito del commento a queste pagine, a restare vincitori e vincitrici, nell’alternativa, sono i concetti e le categorie – non già le forme dell’intuizione sensibile delle quali, malgrado tutto, si afferma la precedenza. A dispetto del merito storico, che a Kant viene generalmente attribuito, di restauratore dell’esperienza, a sortirne è dunque una specie d’intellettualismo, non già di formalismo (che implicherebbe il riconoscimento dell’effettivo ruolo della sensibilità). E parlare perciò di ‘formalismo’ è fuorviante, perché significa cercare nella sensibilità la sede di un problema, che si colloca invece al di fuori d’essa, sopra i due opposti versanti della superfetazione logica e del difetto antropologico.   B 316.

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Ii. Una logica del testo   355

A operare la crisi del ruolo conoscitivo delle forme dell’intuizione sensibile nello svolgimento della Critica sono due attitudini tipiche dell’indole teorica di Kant: il modo surrettizio in cui queste forme di tempo e di spazio vengono concepite secondo altre forme di forme, ossia come ‘interno’ ed ‘esterno’ – e in questo senso, forse, si può ancora parlare per lui di una sorta di formalismo; e la dimestichezza speculativa, poi, con la quale egli preferisce trattare ogni quesito muovendosi insensibilmente in direzione dei concetti. Poche pagine della prima Critica, come queste, possono dare il senso di ciò che avviene di buona parte del pensiero moderno nell’opera di Kant. Siamo al termine della Dottrina degli Elementi, poche pagine prima dell’inizio della Dialettica; siamo dunque alla conclusione della trattazione, diciamo così, riguardante gli statuti positivi del pensiero; siamo ai resti di ciò che di basilare ha dato la filosofia moderna della conoscenza, prima di avviarci, scansati i pericoli dell’uso improprio del pensiero, verso le regioni della sua libertà d’esercizio nel giudizio rettamente inteso come formulazione di un’opinione realmente possibile. È un condensato problematico e terminologico, questo, che nello spazio di poche pagine conferisce all’opera di Kant un significato storico conclusivo del pensiero moderno, diametralmente opposto rispetto al capostipite cartesiano; e opposto non tanto in termini cronologici, bensì proprio stilistici: non, cioè, nel senso di sintesi della struttura innalzata all’altro capo dell’arco della modernità, bensì, semmai, nel senso di una pigiatura, o di un mosto, pieno d’ogni possibile fermento e denso d’ogni possibile inebriante avventura dello spirito4. Ben poco di ciò che vi si trova è di Kant, e nulla di ciò che conta davvero; ma tutto il fardello della grande tradizione teorica moderna, nel suo slancio ascendente da Cartesio a Leibniz, vi si ritrova sparso e frammentato, tutta la fibra come macerata dopo le già innumerevoli ripetizioni, utilizzata allo scopo non già di affermare, bensì di riaffermare e di riproporre a sazietà qualcosa di più solido che rischia, sembra, d’andare perduto – oppure, al contrario, di non venire bene inteso e recepito a dovere. Bisogna sottolineare l’importanza di queste due diverse ipotesi interpretative: nel primo caso, con la riaffermazione, l’opera di Kant assume il significato storico d’una sintesi della saggezza europea; nel secondo, col chiarimento di un malinteso, essa assume il significato di un aggiornamento pedagogico tedesco. Mentre Leibniz era ancora convinto che si potesse discutere della natura composta di una cosa, purché definita e descritta a suo modo, Kant non vuole 4   L’immagine non è scelta a caso: nella lettera a Lambert del 31 dicembre 1765 Kant parla della necessità di rinnovare la filosofia attraverso processi di putrefazione (da Franco Lombardi, Kant vivo, Sansoni, Firenze 1968, p. 278).

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356   parte seconda. «la critica»

discutere che della nostra possibile conoscenza di essa, ammettendo una qualche speciale conoscibilità della cosa in sé, prima di abbandonarla al suo destino; e formula dunque la sua obiezione ai sogni, matematici e non, così: nel senso, cioè, che bisogna prima stabilire di quale conoscenza si tratta. Con una di quelle domande che un musicista, per esempio, troverebbe del tutto incomprensibili, egli vuol sapere se si tratti di conoscenza sensibile, o intellettiva. Sottilizzando, noi potremmo già obiettare che il problema è del tutto secondario, e anzi persino già risolto, nel momento stesso in cui Kant afferma trattarsi qui, effettivamente, di ‘conoscenza’: perché se si tratta di vera e certa conoscenza (secondo il quesito forse più antico della storia della filosofia), poco o nulla importa qual essa sia, intellettiva o sensibile. Il secolo precedente non avrebbe neppure capito la domanda – ma Kant non fa che riproporre in termini alternativi la distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, per risolvere brillantemente l’alternativa mediante un ordine di procedura. Poiché, a ogni modo, il quesito viene da Kant così formulato, e avendo dunque stabilito che di conoscenza si tratta, ecco comparire una funzione registica, o giudiziaria: sarà la riflessione a decidere se questa conoscenza è sensibile o intellettiva; sarà insomma una preliminare facoltà non conoscitiva, bensì istruttoria, che assegna le diverse rappresentazioni alle nostre rispettive sorgenti di conoscenza. L’intelletto non può conoscere che un solo aspetto di una cosa, per farsene un concetto; ma essa, in sé, è anche altro, che Leibniz ha ignorato, e che richiede l’esercizio di una diversa facoltà. Il lettore che attenda ansiosamente di sapere se quest’operazione riflessiva sia tipica prerogativa de ‘l’animo’, come ci si aspetterebbe, rimane deluso; e lo resta ancora di più quando, come dirò, l’attività istruttoria medesima non trova il suo strumento tecnico corrispondente nel ‘giudizio’. *** Ogni monade è un mondo senza finestre; e ciò (sembra dire Kant) rende intellettualistica la natura d’ogni sua possibile conoscenza. L’antico problema della natura esterna dell’intelletto rispetto al mondo si moltiplica in un’infinità di esternità, in ciascun individuo rispetto all’altro. Senza tatto e contatto non c’è esperienza; senza sensibilità non c’è vera conoscenza. Ma noi possiamo subito replicare che le forme della sensibilità, adeguatamente intese o concepite e poi sviluppate (come, innanzitutto, il rispecchiamento e l’imitazione: che Kant non intese per nulla affatto, se non altro perché non li giudicò neppure meritevoli di attenzione); queste forme, dunque, possono per l’appunto attuare il passaggio

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Ii. Una logica del testo   357

dall’esterno all’interno. L’obiezione insomma, volendo, può essere diversa. Ma Kant sceglie, e va per la sua strada – guidato egli stesso, bisogna pur dirlo, dall’istintivo giudizio istruttorio di un suo proprio animo; il quale esercita l’ufficio della riflessione nella sola direzione pratica dell’attribuzione d’ogni conoscenza all’intelletto. In un’esposizione tra le più farraginose, egli non riesce a rendere giustizia neppure a se stesso, mettendo per esempio in relazione la sensibilità con l’intelletto attraverso il tempo: il quale, come forma a priori del senso interno, potrebbe evidentemente costituire il veicolo della mediazione e della continuità fra le sostanze nella sede antropologica dell’animo. Il ruolo della memoria (nonché, aggiungo io, del vagheggiamento o dell’immaginazione) potrebbe facilmente attribuire significato tecnico a quella generica Handlung, rendendole giustizia (in quanto almeno è ‘potenza’, semmai, e non ‘atto’). Ma Kant non sa, non può, e forse non vuole sviluppare il discorso secondo questa evidente possibilità. Non sa e non può, perché egli stesso ha tratto di peso i termini di senso esterno e interno dalla tradizione – ma senza peraltro mai effettivamente sviluppare, in nessun luogo dei suoi scritti, le relative funzioni anamnestiche5. Ciò rende vano, di fatto, il ruolo temporale del suo ‘senso interno’ (il solo ruolo che egli conosce, sfuggendogli affatto la possibilità di un senso interno a dimensione spaziale, sebbene egli parli di «rappresentazioni»; ma non basta parlare di una cosa per farla realmente esistente: è lui che lo insegna!). Né, d’altra parte, egli sembra neppure volere sviluppare il discorso secondo la radice antropologica unita e, diciamo così, animastica della conoscenza, per potersi meglio destreggiare nella critica a Leibniz giovandosi delle possibilità offerte dai comuni presupposti dualistici, che intende riaffermare. «Essa [la riflessione] è la coscienza della relazione fra rappresentazioni date e nostre varie sorgenti di conoscenza». Noi dobbiamo sollevare subito un interrogativo, concernente la natura di un’attività dell’animo, la quale sarebbe coscienza preliminare a delle «sorgenti»: perché, dal momento che nei passi costitutivi della Critica l’estetica ha già fissato gli a-priori della conoscenza nella sensibilità, sarebbe lecito attendersi che qui fosse apertamente indicata la possibile sussistenza di una qualche relazione fra sensibilità e riflessione – nel senso, per esempio, che l’una fosse un particolare esercizio o dimensione dell’altra (come del resto vorrebbe il termine stesso, mutuato dall’ottica; e lasciamo andare, se poi egli fa di quest’attività preliminare di riflessione una «indagine», un «esame dei fondamenti della verità» dei giudizi, anziché una 5   Si ricorderà che una rara e forse prima menzione di un ruolo della memoria si trova nell’Indagine sulla distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale, com’è stato indicato nell’Analisi Cronologica discutendone il possibile rilievo semiotico o rappresentativo (prima del passo citato alla nota 52).

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358   parte seconda. «la critica»

semplice attribuzione di competenza: è il suo solito stile). E bisogna dire che effettivamente questa relazione in qualche modo sussiste: non soltanto logisticamente, nel misterioso fondo dell’animo, ma anche in quelle generiche manifestazioni antropologiche che sono i giudizi espressi per abitudine o per inclinazione: «Qualche giudizio viene ammesso per abitudine, o sancito per inclinazione». Ma, di nuovo, noi vorremmo sapere: sono queste, forse, due manifestazioni di quell’animo? Kant non si avventura ad affermarlo – anche perché dovrebbe riconoscere anche qui, come in tanti altri casi, un prestito leibniziano: così che all’Olimpo cosmo-ontologico popolato da un Dio circondato, come primus inter pares, da Idee Supreme, si affianca un Olimpo antropo-gnoseologico popolato di Facoltà insieme sondabili e insondabili. Ma anche così, con la reticenza di chi si muove su un terreno poco sicuro, Kant afferma almeno trattarsi di giudizi non intellettuali, e scambiati per tali a causa di mancanza di riflessione. Inclinazione e abitudine ammettono dunque, o sanciscono, giudizi sensibili. Sono essi dovuti all’esercizio di una sensibilità confusa? Neppure questo apprendiamo – ed è inutile insistere: sono cose riprese d’altrui, senza originalità e senza approfondimento. Ma non è difficile capire che, qualora fosse stata sviluppata col dovuto talento, questa relazione animastica fra sensibilità e riflessione avrebbe consentito a Kant di trovare sin dalla prima Critica ciò che poi dovette andare a cercare con la terza: la legittimità antropologica dell’intuizione sensibile espressa come giudizio. Del resto, sebbene nell’intero primo capoverso dell’Appendice egli menzioni espressamente il giudizio per almeno tre volte, e per nove volte la riflessione con vari termini6, evita tuttavia di affermare la cosa più chiara ed evidente che il lettore vorrebbe capire, e che si attende: l’investitura del ‘giudizio’ quale figura tecnicamente deputata alla ‘riflessione’. Il suo silenzio non è innocente – è reticenza: perché arrivato a questo punto Kant dovette rimanere semplicemente atterrito dalla possibilità che la riflessione e il giudizio gli si svelassero come un a-priori generico rispetto agli a-priori specifici già posti, e lungamente trattati, della sensibilità e dell’intuizione intellettiva. E sebbene la stesura della Critica sia stata frutto del raffazzonamento degli appunti e dei brogliacci d’un decennio, che in teoria non gli avrebbe impedito un montaggio diverso, bisogna pur dire che la teoria del montaggio non sempre si concilia col montaggio della teoria, e che c’è un 6   Oltre che riflessione, anche: coscienza del rapporto, collegamento e raffronto, indagine, esame, operazione, connessione del raffronto, relazione in uno stato dell’animo, determinazione precisa. E s’intende bene che altrettanti sono i possibili sinonimi sostantivati del giudizio stesso. Per ragioni di scorrevolezza sintattica Chiodi aggiunge un ultimo «accertamento», che non c’è, sostantivizzando il relativo verbo usato dal Colli. Gentile aveva mantenuto il calco.

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Ii. Una logica del testo   359

limite a tutto – specialmente al ‘tutto’ così radicale che si viene scoprendo. Si profilava qui nettamente la possibilità di sancire che la facoltà della riflessione si serve nel suo esercizio di uno strumento tecnico, il giudizio; e che questo giudizio vale come a-priori di a-priori e come forma di forme; così che questa forma di forme avrebbe reso impossibile sancire, poi, la natura non contenutistica delle sue vuote forme sensibili e intellettive. Spazio e tempo e categorie sarebbero così risultati essere ciò che in definitiva sono: nient’altro che ciò che noi chiamiamo abitualmente ‘pregiudizi’ – ossia giudizi a priori, ma già dotati di specifici contenuti. Come l’attenta lettura di quest’Appendice mostra chiaramente, mi pare, Kant non scelse di combattere in difesa del vero primato antropologico della sensibilità; né del primato estetico di una sensibilità d’ordine superiore, riconosciuta proprio come tale, e non come fantomatica Ragione; né, tantomeno, scelse di riconoscere nel giudizio riflessivo il pregiudizio, come vita sensibile dell’animo – così che, insomma, ogni giudizio porta in sé un pregiudizio, quando non è addirittura fondato sul pregiudizio7. No: Kant preferì invece trarre i giudizi sul piano dei concetti8. Il suo talento e il suo pubblico lo portavano irresistibilmente a sviluppare il discorso verso quest’altra direzione: in direzione dell’uso legittimo dei concetti. Così che il discorso immediatamente si riduce dalle rappresentazioni ai concetti: e se è pur vero, dice Kant, che i giudizi d’immediata evidenza non richiedono l’uso della riflessione («tra due punti non può esservi che una sola linea retta», per esempio; ma egli dovrebbe ammettere, dunque, che proprio in casi simili, di competenza dell’intelletto, la sua critica a Leibniz è senza scopo!), è però vero che la riflessione è richiesta per tutti i giudizi che trattino di «concetti dati» (mentre soltanto venti righe più sopra si parlava di «rappresentazioni date»). La riflessione si lega così strettamente al concetto, e il giudizio ne sortisce, di fatto, come forma d’esercizio (logico) dell’intelletto, anziché (antropologico) della riflessione. Da giudicato, esso diventa giudicante, e in poche righe il contenuto della riflessione viene a coincidere con la sua forma intellettiva precipua. 7   Eppure già nella prima dissertazione Sulla vera estimazione delle forze vive egli aveva affermato che il volonteroso ed infondato pregiudizio costituisce la più grande forza delle dimostrazioni della metafisica (§ 19). E nei Sogni d’un visionario, come s’è visto nell’Analisi Cronologica (alla nota 128), aveva ammesso la speranza nel futuro quale insopprimibile pregiudizio. 8   Né io voglio qui, all’opposto, trarre per forza i giudizi e la riflessione di Kant sul piano dei pregiudizi: perché questo, oltre che testualmente alquanto abusivo, porterebbe il discorso ben lontano dall’analisi dell’intellettualismo (verso quello che in Kant non c’è, piuttosto che restare sulla critica di quello che c’è). Sarebbe questa la tipica occasione che si presenta a chi voglia estrarre dai segmenti di un pensiero nuove sorprendenti dottrine, o brandelli di dottrine. Tornerò perciò a dedicare ai pregiudizi qualche capoverso soltanto nell’Epilogo.

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360   parte seconda. «la critica»

Era un risultato prevedibile, e direi quasi inevitabile, dal momento che nessun contenuto può venire separato dalla forma. Un eventuale sviluppo della relazione fra sensibilità e riflessione avrebbe a questo punto, come ho detto, completamente sconvolto tutto l’edificio della prima Critica. Praticando a suo modo un terreno che non gli era congeniale, e spigolandovi frutti a suo modo e suo malgrado, Kant si condanna perciò fin d’ora a scrivere la terza Critica; così che, nell’insieme, tutta quanta la sua fatica non moralistica potrebbe venire a riassumersi nel quesito circa natura possibilità e limiti dell’estetica, o della retta opinione come ultima possibile conoscenza di cose ultime e insensibili. *** Ammesso e non concesso che per due punti passi ‘evidentemente’ una sola retta, e se è dunque vero che non tutti i giudizi abbisognano di una riflessione, o di un giudizio sul giudizio, o dell’esercizio di una facoltà come forma di forme, dal momento che essi sono dotati di certezza intellettiva immediata, allora può essere vero che in determinati casi non solo, come ho detto, la critica di Kant a Leibniz rimane senza scopo; ma che si rende anche superfluo rintracciare la sede radicale antropologica dell’esercizio di una simile facoltà di giudizio. Le manchevolezze di Leibniz nei confronti della critica kantiana verrebbero ad attenuarsi – ma così pure le manchevolezze di Kant rispetto a se stesso. Così non è affatto, tuttavia; e sulla debolezza di quest’esempio della retta passante per due punti (che è debolezza di tutti quanti i suoi esempi – dei quali egli è del resto, e per buone ragioni, avarissimo) si rivela uno dei suoi tanti difetti di cultura generale. Ch’egli non sapesse neppure immaginare l’esistenza di geometrie non euclidee è cosa che gli è stata rimproverata da chi, per farlo, aveva titoli assai migliori dei miei. Posso dunque soltanto limitarmi a far notare ciò che chiunque, riflettendo un poco, potrebbe trovare di evidente in questa sua ‘evidenza’. Egli, per cominciare, ammette l’esistenza di due punti; e seguendo il comune giudizio considera evidentemente il punto nozione preliminare rispetto alla retta. Come entità inestesa esso è in realtà la negazione dello spazio, e negatore, non generatore, della stessa retta, o almeno del segmento, del quale rappresenta semmai, in qualche modo, la possibilità di suddivisione all’infinito. La pretesa evidenza del suo giudizio si riduce dunque all’affermazione, tautologica, secondo cui su di una retta qualunque si possono prescegliere arbitrariamente due punti; e il segmento che li unisce è la distanza più breve fra essi. Ma questo giudizio, per giunta, richiede già una dimostrazione. Meglio ancora, invece, postulando l’esistenza del segmento come distanza la più breve fra due punti, si può definire

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Ii. Una logica del testo   361

la retta come suo prolungamento all’infinito. Ma il giudizio, così, è evidente soltanto per il modo com’è concepito e formulato a partire dalla definizione del segmento. Se si vuole trovare dell’evidenza in quest’ultimo, d’altra parte, sorgono nuovi quesiti. Ogni segmento è un tratto di superficie terrestre; e come tale è dunque un minimo arco di circonferenza. Come tale, esso non è affatto la distanza più breve fra due punti, perché questa proprietà spetta piuttosto alla corda sottesa a quest’arco fra i medesimi punti. La nozione di segmento presuppone dunque la nozione di circonferenza; e questa nozione di circonferenza costituisce altresì la condizione per la definizione della stessa retta passante per i due punti: la quale non è affatto il prolungamento del segmento, bensì semplicemente la circonferenza stessa, con raggio infinito. Ma simile nozione intellettuale, come luogo geometrico o proprietà implicante l’infinito, non è che sviluppo immaginario di una finita evidenza sensibile. E se inoltre la retta non è che una circonferenza di raggio infinito, è evidente che fra due punti passano, piuttosto, infinite rette: ossia tutte le circonferenze di raggio infinito, a cominciare dalla complanare opposta, aventi i loro centri giacenti sul piano ortogonale che passa per il punto medio del segmento. È inutile continuare senza fare della storia, che qui non si vuole, e che poi non serve. L’evidenza apparentemente la più semplice non è evidenza alcuna, e in seguito al ricorso all’immaginazione l’intelletto non è più separabile dalla sensibilità. Né, d’altra parte, si potrebbe chiedere a un uomo come Kant di sviluppare una teoria dell’immaginazione per compensare il difetto di una teoria antropologica dell’unità della conoscenza: bisognerebbe cominciare col fargli riconoscere che gli a-priori di cui tratta la sua critica sono ancora più numerosi di quei pochi che ho menzionati fin dalle prime pagine di queste analisi9; e che comunque, a parte il loro numero, essi sono nozioni organizzate come vere e proprie città, ciascuna dotata di relazioni e proprietà. L’esercizio del giudizio, Kant ha cominciato col dire, presuppone la sanzione di due distinti orizzonti conoscitivi: per intuizioni sensibili o per puri concetti. Qui insomma, a mo’ di conclusione della lunga trattazione basilare contenuta nei precedenti capitoli della Critica, li si vuole ancora nettamente distinguere. Sarà solo molto più avanti, nelle pagine che abbiamo già esaminate nel precedente capitolo, che Kant dovrà poi affaccendarsi per studiare la possibilità del trapasso dai concetti puri ai concreti, e dall’idea all’ideale. Possiamo dunque fin d’ora osservare, sotto 9   Nella trattazione compresa fra la nota 112 e la nota 113 dell’Analisi Tematica, per esempio: analogia, rappresentazione, impenetrabilità, corporeità, forza, moto, concretezza, esperienza; e poi: il porre, il riempire, l’operare, il togliere, e innumerevoli simili.

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362   parte seconda. «la critica»

il profilo dello svolgimento più generale della Critica, che quel movimento di concretizzazione dei concetti, che poi verrà, sarà evidentemente orientato in senso inverso rispetto all’impianto strutturale stabilito nei prodromi dell’opera; il quale viene qui ribadito, in una specie di ultima netta sanzione: le dimensioni della nostra conoscenza di una cosa, insomma, sono due. Riassumendo, diciamo che i prodromi dell’opera sanciscono la precedenza dell’estetica sull’analitica quale fornitura di presupposti, condizioni e limiti alla possibilità della concettualizzazione; qui, invece, il rapporto è già, per così dire, alla pari; e poi dovrà iniziare il movimento inverso, in cerca della concretezza a partire dal concetto. Ma sebbene quel momento non sia ancora arrivato, Kant dà prova, sin d’ora, della sua irresistibile inclinazione intellettualistica con una delle sue debolezze più caratteristiche: quella degli esempi. Pur sforzandosi, insomma, di propugnare il ruolo autonomo, preliminare e ben distinto della conoscenza sensibile, con l’esempio dell’unica retta passante per due punti egli mostra di non possederne strumenti minimamente evoluti e adeguati, nonché per un’osservazione, neppure per un’esemplificazione. Non possiamo dunque meravigliarci troppo se in queste pagine Kant riferisce disordinatamente i termini «rappresentazione» e «concetto» a entrambe le facoltà conoscitive – fintanto che, almeno, il secondo non finisce per prevalere, e d’ogni cosa non si hanno, in definitiva, nient’altro che concetti. Ascoltiamo lui stesso. Scopo della riflessione, come afferma sin dalle prime parole dell’Appendice, è quello di giungere ai concetti. E poi: mediante la riflessione s’individua la facoltà conoscitiva cui legittimamente attribuire i concetti dati. E ancora: a trovarsi entro quello stato dell’animo, nel quale noi ci disponiamo per formulare il giudizio, sono i concetti. E così avanti, nel successivo capoverso, dove la relazione fra concetto e giudizio viene addirittura a capovolgersi: «prima» d’ogni giudizio noi confrontiamo i concetti, e raccogliamo rappresentazioni sotto un solo concetto; e dunque «per tale motivo noi dovremmo, a quanto pare, chiamare concetti di comparazione i suddetti concetti». La critica del testo deve trasformarsi in logica del testo su di una simile affermazione, con la quale si chiamano speciali concetti quelli che altro non possono essere, se non giudizi; e che Kant, in quanto giudizi, non sa ancora come trattare: la cosa gli s’è rivelata, e la critica del testo dovrebbe diventare la storia della rivelazione. Ma andiamo avanti di nuovo: l’esame della riflessione serve non già (come il lettore si potrebbe attendere) per la migliore definizione di questa preliminare facoltà istruttoria o registica (che Kant, corrivamente, non rinuncia a chiamare di nuovo conoscitiva, come ha già fatto), bensì serve (l’esame della riflessione) per la determinazione del vero e proprio compito «dell’intelletto». E via così.

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Ii. Una logica del testo   363

Non c’è dunque troppo da stupirsi se poi, nella Nota annessa all’Appendice, egli fa dell’animo, senza più menzionarlo, un «luogo logico»; e se soltanto poche righe ancora più avanti noi apprendiamo invece che in questa sua topica trascendentale viene «presentato in tutta la sua varietà» il confronto delle rappresentazioni dell’oggetto «che precede» (questo confronto) il concetto delle cose. Il luogo antropologico si sublima in luogo logico; e il luogo logico, a sua volta, si squaderna nello spazio teatrale di un continuo dramma speculativo dal ritmo, in verità, alquanto assillante di un ver-stehen. Si può ammettere certamente che tutto, in generale, si tenga col contrario di tutto; ma il tempo letterario della trasformazione è ciò che fa buono o cattivo teatro, il tempo della modulazione ciò che fa buona o cattiva musica. Queste parole di Leibniz sembrano scritte proprio per lui: «È giusto meravigliarsi della strana manìa degli uomini di tormentarsi agitando questioni mal poste: essi cercano ciò che sanno, e non sanno ciò che cercano»10. la città data Restiamo sull’Appendice, e andiamo adesso difilato al capo opposto, al suo ultimo capoverso dedicato a materia e forma11; dove noi apprendiamo anche questo: che materia e forma «sono due concetti che vengono posti a fondamento di ogni altra riflessione, tanto sono inscindibilmente legati a ogni uso dell’intelletto». Quest’ultimo passo è proprio un bel pasticcio, del tutto nel suo stile. I due concetti di materia e di forma sono inseparabili dall’attività dell’intelletto (in quanto sono concetti, si suppone), e però stanno a fondamento di «ogni» riflessione (tanto logica, come comparazione di soli concetti, che trascendentale, come comparazione anche dei loro contenuti). Com’è possibile, se la riflessione è attività istruttoria per l’intelletto medesimo? E com’è possibile che essa abbia il suo fondamento in due concetti, se promuove anche l’intuizione sensibile? Evidentemente l’intelletto s’è fatto primo demiurgo dell’intera sfera conoscitiva, e l’ho detto ormai a sufficienza. Andiamo avanti. Separiamo le cose, e lasciamo stare, per un momento, la prima parte della sentenza, che fa dei concetti il fondamento della riflessione, e che riprenderemo più avanti; occupiamoci per il momento della seconda parte, nella quale è sancito il rapporto fra questi due particolari concetti di 10   Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici a cura di Domenico Omero Bianca, utet, Torino 1988, II, p. 305. 11   B 322-324.

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364   parte seconda. «la critica»

materia e di forma con l’intelletto. Sembra di capire che l’intelletto non funziona, e non può formarsi un concetto di alcunché, se non sulla base di una preliminare distinzione in ogni oggetto, negli oggetti in genere, e nella nostra stessa coscienza, di materia e di forma (sebbene materia e forma siano essi stessi «concetti»!). In quanto è ‘data’, ogni cosa è materia; in quanto è ‘modo’, essa è forma. Come si è già detto sopra, l’obiezione di Kant a Leibniz si giustifica soltanto parzialmente, in quanto cioè una cosa è ‘data’, o insomma è materia, perché per il resto Leibniz non poteva che essere del tutto nel giusto – anche se Kant non ammette mai la portata soltanto parziale della sua obiezione. In che cosa consiste dunque l’intellettualismo leibniziano? Consiste nel concepire i concetti come contenuti (ossia come materia: per Kant fa lo stesso), e nel far precedere la materia alla forma. È questo un errore di ‘dato’, secondo lui, ed è anche un errore di ‘modo’: perché non tutti i concetti sono materia, quando sono d’immediata evidenza (la retta per due punti); e per il resto, in generale, la materia non precede la forma, bensì viceversa: questo è, per l’appunto, ciò che crede d’avere scoperto lui. Ora, quanto al primo rilievo, è di evidenza letterale che Kant, esattamente all’opposto di ciò che rimprovera a Leibniz, concepisce invece i contenuti come concetti; e che l’intellettualismo leibniziano viene ‘superato’ mediante un’intellettualizzazione della cosiddetta materia, nonché dell’intera conoscenza. Quanto poi al secondo rilievo, è come dire che un oggetto d’esperienza non è mai ‘dato’, bensì è sempre ‘posto’; e che allora scompare la necessità di una distinzione preliminare fra ciò che richiede una riflessione, e ciò che non la richiede. La facoltà procedurale o istruttoria della riflessione e la relativa forma logica del giudizio possono così venire congedate. Leibniz prende le cose come «concetti dati», traendo poi dal loro interno quella forza rappresentativa che ne fa una comunità all’esterno come comunità fondata sullo scambio di rappresentazioni. Ciascun individuo insomma, egli sembra dire, s’immagina il mondo a seconda di com’è fatta la sua propria testa. Esterno e interno si corrispondono in una rappresentazione che, per ciascuno, è rispecchiamento dell’altro. Ma a rispecchiarsi, obietta Kant, non è che la chiusa facoltà dell’intelletto. Che ne è della cosa? In quanto sono dati, i concetti sono materia; in quanto è concetto, ogni cosa è intelletto. Così, in realtà, a essere ‘dato’ insieme con tutte le cose in Leibniz, secondo Kant, è soltanto l’intelletto. Se non esistessero la sensibilità e l’esperienza, Leibniz non avrebbe avuto torto; ma (sembra di udire) ebbe il torto di non aver conosciuto l’estetica kantiana, che fa di spazio e tempo forme a priori della nostra sensibilità, anziché forme interne degli oggetti. Leibniz, insom-

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ma, descrive un mondo fatto a immagine e somiglianza delle cose prese come determinazioni dell’intelletto loro proprio, o come concetti puri e dati, secondo la forma interna e propria di queste stesse cose, così trovate e prese. Ma l’intelletto puro, dice Kant, non può riferirsi immediatamente agli oggetti, ed è la nostra intuizione sensibile con le sue determinazioni a priori a venire per prima; così che queste nostre forme di spazio e di tempo sono l’unica cosa veramente ‘data’, e precedono quell’essere materia degli oggetti – ossia precisamente ciò che li fa essere ‘dati’ come altro dal pensiero. Il torto più grave di questa critica consiste evidentemente nel fatto che vi si perde completamente la natura complessa e infinitamente graduata d’ogni cosa, secondo opposte sostanze, che costituisce una delle cifre principali, se non la principale, del pensiero leibniziano. Con tutti i suoi limiti e difetti, anche assai gravi, nei quali certi commentatori hanno persino trovato i caratteri radicali d’un certo autismo di mentalità nazionale, la concezione leibniziana di mondi chiusi e dati ha però almeno un merito: quello d’aver fatto, diciamo così, qualcosa di più di un ‘realismo’ (che vuol dire un’altra cosa), e anzi una sorta di ‘materialismo’ delle idee. Scostandosi nettamente dalla robusta tradizione, antica e contemporanea, del materialismo atomistico, Leibniz ha avuto il merito, cioè, di affermare che imbattersi con un’idea in un pregiudizio (che è poi sempre, del resto, un’altra idea) non è cosa diversa dall’urtare in un solido ostacolo. Il mondo gli apparve precocemente popolato di chiuse intelligenze, come gl’innumerevoli volumi che sembravano riempire col brusìo delle loro narrazioni il silenzioso spazio della biblioteca paterna; e verso i quali egli, per leggere, tendeva la mano a caso. Che Leibniz abbia poi risolto a suo modo (ottimistico, edificante, ingenuo, ingegnoso, patetico) il problema di questo impatto, è un’altra faccenda, che qui non ci riguarda, e che Voltaire ha già bollato a sufficienza col suo sarcasmo. Resta il fatto, però, che il problema rimane, così, potentemente impostato come il paradossale enigma dell’irriducibile coesistenza delle infinite rappresentazioni intellettuali. Proprio ciò che dovrebbe permettere agli uomini di capirsi e di comunicare, il loro intelletto, costituisce in realtà una barriera; e in definitiva, sembra dire Leibniz, non c’è giudizio che non contenga una dose di muto pregiudizio, invalicabile. E qui, di passaggio, io mi permetto di sottolineare che di Leibniz noi dobbiamo ancora apprezzare la grandezza nella posizione del problema, piuttosto che la modestia della soluzione: perché il nostro mondo contemporaneo (non diversamente dal suo, del resto) non pone in altri termini i suoi più potenti quesiti alla filosofia politica. Il nostro compito non consiste, tuttavia, nel rendere giustizia a un accusato; bensì nello

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366   parte seconda. «la critica»

studiare la consistenza e il carattere dell’accusa. Ora, anche se qui non lo dice chiaramente, Kant sembra pensare che non già nell’essere puro intelletto si nasconda la radice del pregiudizio, ossia della chiusura intellettualistica delle monadi; bensì nel non esserlo a sufficienza. In quanto è puramente intellettuale, ogni verità è immediatamente accessibile a tutti. Il giudizio, in definitiva, presuppone sensibilità ed esperienza: perché per le verità immediatamente evidenti non occorre la riflessione. E che cos’è quest’ultima, dunque, se non un pregiudizio? Se è vero e di per sé evidente che per due punti passa una sola retta, noi dobbiamo constatare, però, che per due teste non passa mai lo stesso pensiero. Kant non lo dice apertamente; ma in definitiva il suo problema consiste nel fare in modo che lo schermo costituito dalla sensibilità, dall’esperienza, dai contenuti, dalla materia, si riduca alle medesime condizioni dell’intelletto puro. In Leibniz la riducibilità delle cose esterne all’intelletto è un fatto, è cosa già data – oppure è impossibile; ed è impossibile proprio quando si tratta d’idee complesse. A essere ‘dato’, per Kant, è sempre e soltanto un oggetto, mai un’idea; per Leibniz, viceversa, non esiste oggetto che non sia in qualche modo e misura, sia pure infinitesima, un’idea. Ma in quanto è ‘data’ o ‘trovata’, quest’idea non può diventare comune sostanza che metta in comunicazione più d’un pensiero. Kant se ne allontana, perché non cerca affatto la riducibilità delle cose alla sensibilità (la quale può ben costituire niente più che un altro velo, altrettanto impenetrabile dell’intelletto), bensì proprio la riducibilità delle cose all’intelletto, operata attraverso le due diverse dimensioni sostanziali (spazio e tempo) di una sensibilità comune. *** Un’immediata e comune evidenza anche per la sensibilità, dunque; e l’essere ‘comune’ è garantito semplicemente dall’essere a priori. Per difetto di strumenti e di orizzonti adeguati Kant non seppe concepire altro che un complicato processo di riduzione, o di trasposizione, o di promozione, come si voglia, destinato a conoscere maggiori glorie nei superamenti romantici; ed è forse superfluo dire che egli non immaginava come la rottura degl’involucri sensibili individuali avrebbe trasformato la silente e ordinata conversazione tra gli scaffali di una biblioteca nel bailamme di una Babele delle lingue. Per averne la premonizione gli sarebbe bastato, del resto, esaminare con attenzione qualcuna delle sue stesse pagine. La sensibilità non gli serve che da tramite, come condizione e garanzia della reale possibilità dell’operazione d’intellettualizzazione; e in Leibniz, secondo lui, questa operazione è impossibile, per

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Ii. Una logica del testo   367

mancanza degl’indispensabili presupposti formali. Una volta resa effettivamente possibile la riducibilità all’intelletto, e una volta violata insomma la barriera della pellicola o dello schermo che avvolge come un guscio ogni essere pensante, è chiaro che le monadi riverserebbero in comune i loro contenuti, e tutti gl’intelletti verrebbero messi in comunicazione – solo, secondo i retti dettami normativi della critica esercitata da un accademico Io pensante; e qui viene il resto. La cosa è anche testualmente visibile. Quelli che nel primo capoverso dell’Appendice sono ancora chiamati «concetti dati [gegebene]» diventano, nelle ultime righe dell’Appendice medesima, «semplici [bloße] concetti». Una conoscenza anche molto sommaria della terminologia kantiana non lascia dubbi sul significato della sostituzione dell’aggettivo, che è sinonimo di ‘mero’, di ‘semplice’, e anche di ‘puro’ (senza, tuttavia, l’ambivalenza critica di quest’ultimo). Ciò che in Leibniz è ancora altro, o esterno, o trovato, in Kant viene fatto intellettualmente proprio attraverso la sensibilità: la quale, come intuizione formale (tempo e spazio) è, e resta infine, con le ultime parole dell’Appendice, l’unica cosa presupposta e data (vorausgesetzt e gegeben): una facoltà. La sua decisa affermazione della priorità delle forme sensibili non deve lasciarci sfuggire la trasformazione dell’aggettivo riferito al concetto: le due cose sono strettamente connesse, ed è la prima, la priorità delle forme, che serve alla seconda, alla trasformazione di ‘dato’ in ‘semplice’. Malgrado la polemica, il lettore attento capisce facilmente quanto poco separi Kant da Leibniz; e capisce anche quanto egli sia debitore, in realtà, alla teoria della monade, facendone un unico ‘Io penso’ che le metta tutte quante in comunicazione. Ci vuol poco per capire che questa sua sensibilità non gli serve affatto a dar finestre alle monadi: è la sensibilità senza l’esperienza, la critica senza l’empirismo, la ragione senza sorprese. L’ottimismo leibniziano della soluzione diventa l’assai più radicale ottimismo kantiano del problema. Sarà divertente (o fastidioso, per qualcuno) notare che parlando di concetti «della» riflessione sin dal titolo dell’Appendice egli incorre in uno dei suoi frequenti infortuni linguistici, che il tedesco rende facilmente possibili in virtù della composizione dei sostantivi. Questo titolo recita: «Dell’anfibolia dei concetti della riflessione [Reflexionsbegriffe], a causa dello scambio dell’uso empirico dell’intelletto con l’uso trascendentale». A parte il fatto che la trattazione non parla affatto di un uso «empirico» dell’intelletto, bensì, semmai, puramente logico, distinguendo la riflessione logica dalla trascendentale; e a parte il fatto che Kant intende con uso «empirico» la pretesa dell’intelletto leibniziano di entrare immediatamente in relazione con l’integra natura delle cose; così che, insomma, Kant

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368   parte seconda. «la critica»

si avvolge anche qui volentieri nella variabile terminologia della sua prosa rococò – a parte questo, insomma, e quanto ai Reflexionsbegriffe: con qualche insignificante variazione (di, della) i traduttori sono tutti d’accordo, e non possono fare diversamente: il sostantivo composto si scioglie col complemento partitivo: «concetti della riflessione». L’impiego distratto, o colloquiale, del sostantivo composto ha fatto dire a Kant uno sproposito. Egli avrà voluto parlare, piuttosto, dei concetti ‘nella’ riflessione. Fin dalle prime parole, infatti, l’Appendice smentisce il suo stesso titolo, dal momento che, come dice, della riflessione non si danno concetti, essendo in se stessa priva di oggetto: «La riflessione (reflexio) non ha a che fare con gli oggetti stessi, per farsene concetti», eccetera. Se ne può facilmente arguire che il giudizio riflessivo non è concetto, in quanto corrisponde all’esercizio di una funzione diversa dall’intellettiva, e che la riflessione non è specie alcuna di conoscenza – se non della natura diversa di cose diverse (oppure della duplice natura d’una cosa; ma, come ho già detto, questo principio basilare del pensiero leibniziano, della complessità graduata, non attecchisce mai in Kant, e non lo può: dal momento che forma e contenuto vengono divisi e rispettivamente attribuiti al soggetto e all’oggetto). Una cosa, ammonisce Kant, non può essere oggetto di sola riflessione logica, confondendo sostanze diverse e considerandole come omogenee (gleichartig: di specie equivalente); bensì d’una preliminare riflessione speciale che le sappia distinguere. E intanto non si accorge d’attribuire alla rappresentazione la sola forma che gli sembra possibile, la forma logica, in modo da farne, da generica che era, intellettiva; tant’è vero che sono proprio i «soggetti semplici [einfache Subjekte]» di cui parla, ossia le intellettuali monadi leibniziane, a essere dotati di «forze rappresentative». Bloß, gleichartig, einfach: a ciò si riduce il gegeben. L’associazione del significato della forma all’esercizio dell’intelletto nel concetto, anziché a quello della riflessione nel giudizio, non significa dunque affatto formalizzare tutto, bensì, semmai, intellettualizzare tutto secondo quell’unica dimensione di ogni cosa che Kant trovava insufficiente in Leibniz. Andiamo avanti; e ritorniamo a ciò che della nostra proposizione d’apertura di quest’ultimo capoverso dell’Appendice noi abbiamo più sopra momentaneamente accantonato – vale a dire: a quel ruolo di fondamento della riflessione, che viene sancito per i concetti di materia e di forma. La terminologia di forma e di materia, qui sopraggiunta, si sovrappone alla distinzione del fenomeno dalla cosa in sé; e se ne deve arguire che l’intelletto kantiano si dota di concetti tratti dalla sola forma fenomenica, quale unica realtà percepibile. Se è così, noi siamo dunque in presenza di un’intellettualizzazione

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della forma per superfetazione terminologica – senza che, peraltro, diventi mai chiaro affatto (né qui, né altrove) il rapporto tra forma e concetto, che pure si corrispondono per la posizione simile che assumono, rispettivamente, nei confronti della materia e dell’intuizione. Il concetto potrebbe essere, per esempio, una forma dotata di contenuto – ossia, secondo presupposti kantiani, una non-forma; ma lasciamo perdere le contraddizioni, dalle quali cercherà di liberarsi, con nuove aggiunte terminologiche e volumetriche, parlando di schemi opposti della sensibilità e della ragione; e dunque, in definitiva, di sottoschemi e di schemi di schemi, dopo avere abbozzato, nell’Analitica, una dottrina degli schemi concettuali dell’intelletto12. Noi possiamo supporre, con un po’ di buona volontà, che questo rapporto tra forma e concetto si stabilisca, forse, nel giudizio di riflessione. Ma fin dalle prime parole di quest’ultimo capoverso dell’Appendice il lettore apprende che questa distinzione di materia e di forma, che è distinzione affatto logica, inscindibilmente legata all’uso dell’intelletto, costituisce altresì il «fondamento d’ogni altra riflessione»: ossia il fondamento di quell’attività preliminare, istruttoria, mediante la quale noi sappiamo cosa e come possiamo conoscere di alcunché, attribuendo le rappresentazioni alle rispettive facoltà competenti – intelletto compreso. Non è, ovviamente, la fondazione dell’attività dell’intelletto nella riflessione, o del concetto nel giudizio; né, tantomeno, la fondazione della riflessione e del giudizio, a loro volta, nella materia e nella forma, in qualche modo connesse con le operazioni dell’animo. No, siamo da capo: siamo all’intelletto, siamo al concetto; i quali rimangono, di fatto, il vero ‘fondamento’ di tutto. Kant ha cercato la via più lunga e complicata per edificare un suo intellettualismo originale, diverso dall’antico e dal moderno – se non altro per le pretese. 12   La conferma non si trova qui, purtroppo (e ciò mi costringe a violare la regola dell’unità del testo), bensì in una pagina del primo capitolo dell’Appendice alla Dialettica, B 692-693. I princìpi della ragion pura non possono avere un loro oggetto concreto, dice Kant, perché non li si può dotare del «corrispondente» schema della sensibilità (ogni oggetto avrebbe dunque nella sensibilità un suo schema corrispondente: o non esiste la forma come lui l’intende; o è la sensibilità che non è come l’intende lui!). «L’intelletto funge per la ragione da oggetto, esattamente così come la sensibilità per l’intelletto» (è la solita volumetria gerarchica, sulla quale Hegel costruirà poi buona parte della sua fortuna). «L’idea della ragione è l’analogon di uno schema della sensibilità, con la differenza, tuttavia, che l’applicazione dei concetti dell’intelletto allo schema della ragione non è senz’altro una conoscenza dell’oggetto stesso – come [invece avviene] con l’applicazione delle categorie ai suoi [ihre: della sensibilità; male, tutti i traduttori, tratti in inganno dalla ripetizione] schemi sensibili». L’idea è dunque analogia tratta da uno schema della sensibilità; e si chiama essa stessa, volendo, schema della ragione; a questi schemi analogie idee, o come si voglia, della ragione, i concetti dell’intelletto ‘si applicano’ diversamente da come le categorie ‘si applicano’ agli schemi sensibili: ecco l’evidente sanzione del ruolo mediatore e demiurgico centrale dell’intelletto ‘applicante’ rispetto alla sensibilità e alla ragione; nonché delle sue figure tecniche, la categoria e il concetto, rispetto all’idea e allo schema.

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370   parte seconda. «la critica»

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la città intuitiva Il lettore che non abbia mai dato troppo credito alla pretesa di Kant di dare riconoscimento al ruolo conoscitivo dell’esperienza sensibile con una sua tardiva scoperta o richiamo, e che ne abbia piuttosto sospettata l’intenzione di dare fondamento alle avventure dell’intelletto, facendo della dottrina dell’esperienza sensibile la cornice garante d’uno spazio di legittima libertà d’opinione su cose insensibili; questo lettore, dunque, si dovrà domandare perché mai, se spazio e tempo sono stati designati quali condizioni a priori della conoscenza sensibile, forma e materia non siano state qui designate, corrispondentemente, quali autonome condizioni a priori dell’attività dell’intelletto, precedenti le stesse categorie. Nulla gliel’avrebbe impedito, stando a queste sue parole; e un certo gusto sistematico per le simmetrie neppure gli mancava. E che poi questo, di fatto, sia proprio ciò che avviene, e che l’intelletto eserciti le sue funzioni, per l’appunto, col distinguere preliminarmente in ogni cosa la forma dalla materia, è verissimo; ed è precisamente il modo col quale l’intelletto, mediante l’implicita assunzione di a-priori del tutto autonomi, soppianta la sensibilità e ne sancisce la sudditanza di fatto, ovvero il ruolo d’essa meramente preparatorio e discorsivo. Ma al di là di ciò che nel testo avviene di fatto, e che più conta, io intendo riferirmi proprio alle ragioni che potrebbero spiegare la mancanza di una vera e propria dottrina intellettuale, parallela e successiva all’estetica, che le faccia da contrappunto. La risposta io credo che stia proprio in queste poche pagine. La dottrina, il contrappunto sistematico, simmetrico, analogico, non potrebbe esserci, se non mettendo gli a-priori dell’intelletto in effettiva ed esplicita dipendenza dalle forme già sancite della sensibilità. E la cosa è talmente prossima, è talmente possibile che Kant, per l’appunto, non la vuole affatto, e anzi la teme. A dispetto d’ogni sua protesta di fedeltà agli assunti della sensibilità, non è in questa direzione che voleva andare (se mai l’ha davvero voluto) in cerca d’un fondamento. In primo luogo, l’apparato categoriale, con le solite tripartizioni e quadripartizioni che gli sono tanto care, e che qui ritornano, ne verrebbe eliminato o sconvolto. L’attività dell’intelletto perderebbe le forme categoriali sue proprie, restando debitrice nei confronti della sensibilità delle sue duplici forme surrettizie; ne verrebbe sancita la subalternità della distinzione tra materia e forma rispetto alla distinzione fra spazio e tempo, in modo che gli a-priori dell’intelletto risulterebbero, in realtà, derivati. Ne verrebbe sancita perciò non soltanto la precedenza, bensì il primato degli apriori estetici rispetto agli analitici; e ancora sancito senza volerlo, nell’attività

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Ii. Una logica del testo   371

dell’intelletto, il primato dell’intuizione spaziale, o ‘esterna’, rispetto a quella temporale, o ‘interna’: dal momento che oltre alla materia anche la forma (almeno come Kant la intende, opposta rispetto al contenuto) resta pur sempre qualcosa di esterno. Il discorso, insomma, divorerebbe se stesso, precipitando in un vero e proprio marasma. Ma intanto il discorso, però, c’è: esso è diventato in qualche modo questo, nelle pagine che ormai gli stanno dinnanzi; e così egli deve pur destreggiarsi con la sua storia letteraria personale. Che cosa significa tutto ciò? Significa che in Kant i postulati della sensibilità esistono e agiscono suo malgrado; e che altrettanto suo malgrado egli migra insensibilmente col pensiero verso le forme logiche dell’intelletto. Egli non può dare all’intelletto un fondamento in a-priori suoi propri, non-categoriali e pre-categoriali, come forma e materia, concorrenti con gli a-priori della sensibilità già sanciti dalla moderna tradizione filosofica e dalla sua stessa scrittura. Non ha modo, né forze per farlo; non ne ha neppure la volontà, impegnato com’è a combattere l’intellettualismo. Non può contrapporre fondamento a fondamento: deve trovare una via più lunga, teoreticamente ellittica, di assimilazione. Ciò significa che questo suo pensiero è in balìa di forze opposte: è un essere complesso, una città, senza sicura costituzione; è un soggetto, sì, ma soggetto per più versi a se stesso. Significa che i postulati della sensibilità, tratti dall’esterno del suo vero pensiero, o piuttosto della sua indole speculativa, e pigiati a rincalzo di un edificio speculativo, restano il sogno di un dormiveglia dogmatico, e non riescono a convertirsi in un metodo dell’esperienza, bensì in una dottrina tendenziosa di pura e semplice garanzia. Questa dottrina che si pretende certa, in quanto fondata sulla sanzione di limiti e possibilità del pensiero, sortisce in realtà per proprio conto da una radice autonoma, autoctona, pilotata da un istinto raziocinante – o insomma da una mentalità deficiente o riluttante nei confronti della cultura della sensibilità. Ciò significa che siamo in presenza della lotta tra le due forme opposte che può assumere la tradizione: qualcosa di tràdito (il migliore pensiero moderno) si oppone a qualcosa di tradìto; e il tradìto, come sempre, alla lunga la vince. Esso è il presente, è la vita attuale e nazionale, il modo d’essere, la mentalità, l’insicurezza, la paura e la speranza – o quant’altro: la gravità e l’oscurità del corpo nel quale sta immerso il pensiero. Dice Goethe in Poesia e verità che attorno al 1750 la letteratura nazionale tedesca si riduceva ancora a una pagina bianca. È dunque anche con Kant che la Germania scopre quale sia il talento letterario suo proprio. ***

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372   parte seconda. «la critica»

A dispetto d’ogni enunciazione contraria, e d’ogni impegno programmatico preso con il suo lettore, come per forza naturale d’attrazione Kant tende dunque insensibilmente a porsi sul piano del concetto e dell’esercizio dell’intelletto. Quest’ultimo è il suo vero luogo naturale. Il fondamento ch’egli andava cercandogli nella sensibilità non è, in realtà, che una zeppa. Diversamente da quel che preferiva credere Leibniz, avverte Kant, una cosa non è soltanto una forma logica, ossia un concetto, ma possiede anche un contenuto (come il Colli traduce correttamente Inhalt, mentre Chiodi Esposito e la Marietti ripristinano l’impossibile «materia» di Gentile13). Che farne? Privo com’è di forma logica, non sarà certo l’intelletto a poterlo conoscere; e dunque bisogna prima giudicare ‘che cosa’ noi vogliamo conoscere di quest’oggetto, e per conseguenza ‘come’ noi vogliamo conoscerlo. Ciò si chiama: porre le condizioni per una sicura conoscenza. Dal ‘che cosa’ al ‘come’, la bipartizione della natura dell’oggetto diventa bipartizione delle nostre facoltà conoscitive. Credevamo d’esserci potuti liberare del mistero dell’oggetto, ed eccoci dinnanzi al mistero della conoscenza: come «forma data per sé sola», nella quale ordinare intuitivamente quella curiosa «materia» che è, per Kant, la sconnessa manifestazione fenomenica delle cose in se stesse. I concetti «dati», come abbiamo visto, sono diventati «semplici» concetti, e a restare ‘data’, ormai, non è che la conoscenza come forma «per sé sola». A che scopo, quest’ultima precisazione, se non per correre ai ripari, privando la conoscenza di ciò ch’è dato come oggetto, ossia della cosiddetta materia? Il pensiero resta dato a se stesso, è materia a se stesso; lo pseudo-Leibniz di Kant non viene superato d’un solo passo – e con qualche aggravante, mi pare, per giunta. Se questa «materia» non è più neppure un’altra idea, bensì lo ‘essere dato’ del pensiero come nuda forma a se stesso (ossia come cosa logicamente impossibile senza un suo proprio correlato materiale opposto, conformemente a come forma e materia sono state postulate), qui si dovrebbe trovare sancito il cosiddetto ‘formalismo’ (se non, addirittura, l’irrazionalismo) di Kant: ossia trovare sancito in questa forma data per sé sola il dominio della sensibilità e dell’intuizione senza l’intelletto, a spese dunque della logica. E questo sembra proprio essere quello che Kant va cercando, e che anzi afferma decisamente con le sue ultime parole: «Secondo quel che si dovrebbe giudicare in base a nudi concetti»14 (e dunque a rigor di logica), la materia dovrebbe sottostare 13   Ma come sia possibile che soltanto alla pagina precedente Colli, con Gentile, abbia tradotto Handlung con «atto», mentre Chiodi rende correttamente con «operazione», bisognerebbe averlo chiesto a lui, dal momento che le sue Note (introduttiva e d’apparato) non ne fanno menzione. Se Kant non va letto attraverso Hegel, tantomeno andrà letto attraverso Nietzsche, mi pare. 14   Wie man nach bloßen Begriffen urteilen müßte: non «come parrebbe» del Gentile.

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a fondamento (zum Grunde liegen) rispetto alla forma. Ma è vero, secondo lui, il contrario: quella condizione soggettiva del tutto particolare che è l’intuizione sensibile sottostà a fondamento (zum Grunde liegt) a priori di ogni percezione, deren Form ursprünglich ist: la cui forma (di ogni percezione) è (perciò) originaria; ergo, la forma risulta data per sé sola. È un piccolo capolavoro d’imbroglio, nel quale s’inganna innanzitutto se stessi, mescolando cose diverse, e andando con le parole in direzione opposta alle gambe. Dalla premessa che l’intuizione sta a fondamento d’ogni percezione, e dalla simmetria anche lessicale del ragionamento, il lettore si attende di udirlo concludere che la forma sta a fondamento della materia. Anche se avverrebbe comunque uno scambio (per parallelismo analogia equivalenza, o come si vuole) tra una facoltà e una nozione (l’intuizione e la forma in generale), il ragionamento starebbe in piedi – o anzi sulla testa: perché si tratterebbe di un capovolgimento di ciò che parrebbe per logica (ecco la ragione della traduzione Gentile!) e ciò che in verità accade coi puri sensi. Ma questo Kant non lo dice affatto. Egli non è tanto ingenuo da capovolgere semplicemente un discorso, mantenendone ben chiari e distinti i termini, e affermando, insomma che contrariamente a quel che vuole la logica, è la forma a dare un fondamento alla materia. Egli dice di passaggio una cosa del tutto inedita e sorprendente: e cioè che ogni percezione ha la sua forma originaria. Non parla, dunque, di forma in generale, come dimensione vuota, bensì di una facoltà assai fittamente popolata: ammette l’esistenza di una città intuitiva già data, di un ricco tesoro di potenziali conoscenze in qualche modo deposte, e sopite, e che poi si risvegliano d’un tratto nel riconoscimento. Da nessun altro punto noi siamo partiti in questo studio, parlando di una città sensibile, che da questo. E non occorre ripetere o precisare che l’essere avvolti da questa città sensibile, o portarsi dentro questa città intuitiva, nulla affatto significa d’irrazionale. Noi possiamo senz’altro dubitare che Kant avesse compreso la vasta portata di ciò che in questo passo gli è uscito dalla penna – il suo scopo è semplicemente un altro: privare la materia di quel significato logicamente correlativo rispetto alla forma, col quale il capoverso s’è aperto, e che rende l’una indispensabile all’altra. Così, anziché capovolgere il rapporto (che tuttavia non cambierebbe la sua natura speculare, e anzi la vedrebbe definitivamente sancita), egli dice che l’intuizione formale nello spazio e nel tempo, che è «data», costituisce il presupposto della semplice «possibilità» della materia. L’una è data, l’altra è possibile – quale maggior formalismo, di questo? Ma no, invece: quale maggior intellettualismo, di questo! A chiunque tocchi il beneficio, un torto fatto alla logica secondo un’intenzione resta sempre un gioco

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dell’intelletto. Questa colomba, che batte l’ali nell’aria, e non nel vuoto, volerà pure in una sua direzione. Trattandosi di forma «data per sé sola», e venendo a mancare il correlato logicamente postulato della materia, è la forma logica del rapporto che viene in realtà a mancare; ed è dunque l’intelletto stesso come correlato della sensibilità che viene a mancare – ma con ciò, inevitabilmente, anche la sensibilità stessa. Essa rimane come non-correlato – e perché questo non dovrebbe essere vero anche per l’intelletto? È una liberazione reciproca, in realtà, e l’uno e l’altra avrà poi il suo destino. Questa liberazione della forma e della sensibilità intuitiva suona un po’ come certe glorificazioni del valore del lavoro, che rende liberi; e non occorre ricordare quale celebrazione sia stata riservata nel Novecento alla libera intuizione kantiana da uomini, per esempio, come un Bäumler. Al resto avrebbe pensato l’amministrazione! *** Come Kant sa perfettamente, l’unica forma possibile ‘per sé sola’ è la ragione pura: la quale, da criticata, riprende qui a presiedere agli svolgimenti del pensiero per interposizione di un’implicita liberazione dell’intelletto. La sensibilità, come ho detto, serve a Kant per introdurre l’esercizio dell’effettivo ruolo dell’intelletto; e questo a sua volta gli serve, in quanto è astratto, per introdurre il legittimo ruolo effettivo della ragione pura, come forma anch’essa «per sé sola», secondo un fondamento, in quanto la forma non è che un semplice involucro di non importa che altro. Questa ricerca di una qualche legittimità per la pura ragione è nient’altro che lo scopo di tutta quanta la Critica. Il disordine e la reticenza logica, uniti alla cosmesi terminologica, riescono a trarre fuori l’intelletto dall’imbarazzo dei suoi a-priori categoriali, i quali non sono soltanto preceduti da nozioni della sensibilità come lo spazio e il tempo, bensì conoscono altre nozioni, come forma e materia, che Kant non sa bene come attribuire o collocare fra la sensibilità e l’intelletto. Dopo avere fallito o divagato sugli schemi, sull’immaginazione, sull’animo, come su altrettante ghiandole pineali, sarebbe stato sorprendente che egli ci fosse riuscito proprio ora. E dunque noi abbiamo di nuovo risposto alla nostra domanda: sul perché forma e materia non siano state promosse ad a-priori precategoriali dell’intelletto, adatti a far da centro logico di un sistema unito, solido e coerente. Ma questa risposta ancora non basta, perché non è sufficiente e non è necessaria, come non lo sono il disordine, la reticenza, la cosmesi; così come non è ragione di biasimo attribuire all’intelletto un potente ruolo demiurgico. L’intellettualismo, se dev’essere un biasimo, dev’essere una deviazione o un

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torto necessario, e non una libera scelta; altrimenti si rimane a rimproverare a Kant ciò che gli manca (e che ebbero, invece, un Platone e un Cartesio), piuttosto che quello che in lui c’è. Proviamo a spiegare la cosa in altro modo. Ammettiamo che Kant abbia rinunciato a pubblicare i suoi brogliacci ricapitolati, così come si presentano con la Critica; ammettiamo che li abbia riscritti; o che abbia pubblicato una seconda edizione completamente rifatta davvero; e che, se no, qualcuno riscriva l’opera alla luce dei nuovi a-priori intellettivi della materia e della forma. Questo, del resto, se si aggiunge la finalità, è un po’ quello che avviene con la terza Critica. Ammettiamo dunque che possa sorgere un vero sistema procedente da presupposti intellettuali autonomi non categoriali, o almeno pre-categoriali, lasciando pressoché intatto il restante apparato teorico. Dal momento che l’attività dell’intelletto, come si vede, ha un ruolo demiurgico centrale, tanto vale farne la proclamazione; e con la materia si acquista tutta quella miriade di contenuti che non si trovano negli a-priori della sensibilità. Ecco un solido fondamento, dunque. C’è ancora qualcosa di deviato, in ciò, o no? È intellettualismo, questo, o no? Il quesito è tutt’altro che ozioso: perché nella possibile autonomia dell’intelletto secondo i suoi scopi speciali (perseguiti secondo il criterio della logica idoneità dei mezzi rispetto a dei fini – non importa quali, gli uni e gli altri), si nasconde una radice della ‘barbarie moderna’, e della stessa avventura tedesca nel Novecento. Ho cercato di spiegare questo nesso di filosofia politica nell’Introduzione. Reso sovrano, e ben fondato su due a-priori credibili, l’intelletto può considerare i sogni, buoni o cattivi, della pura ragione come delle vane chimere senza importanza; e i presupposti spaziali e temporali della sensibilità come non necessari. L’impresa in cui esso si cimenta, allora, è senza limiti sensibili e senza forme ragionevoli: il limite è la sua stessa ‘materia’, che va vinta o plasmata; e la ragionevolezza è il rispetto della sua stessa ‘forma’ logica, ossia una conformità. Non per altre ragioni, in definitiva, il Ritter, per esempio, ha voluto cercare in questo efficiente tecnicismo logico l’essenza di quella deviazione politica che storicamente si chiama ‘militarismo’, e che qui s’indaga logicamente nella sua forma più generale, non corporativa, come ‘intellettualismo’. Restiamo al nostro quesito, e ripetiamolo per la terza volta: avrebbe Kant, o chi per lui, potuto promuovere apertamente l’autonomia demiurgica dell’intelletto secondo a-priori suoi propri, quali ‘forma’ e ‘materia’, simmetrici, ma non vuoti, rispetto ai vuoti a-priori della sensibilità? Avrebbe potuto egli, o chi per lui, in tal modo tacitare con un solido fondamento il biasimo di formalismo, senza cadere vittima del biasimo d’intellettualismo? La prima risposta da dare è che in tal modo egli avrebbe invece dato un autonomo

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fondamento proprio all’intellettualismo, traendo dentro a ciò ch’egli chiama ‘interno’ i primi requisiti, attivo e passivo, della sostanza; e allora, però, non si vede proprio come questo intellettualismo si potrebbe distinguere dal leibniziano. Kant ne avrebbe in tal modo pigiate le molte vaste intuizioni in una trattazione attorno all’esercizio di un’unica facoltà – ma era precisamente da questo suo ‘Leibniz’ che egli voleva liberarsi, anziché diventarne l’esecutore testamentario. Un intellettualismo sensibilmente fondato, ossia dotato di una garanzia esterna, diventa invece altra cosa: ciò che per l’appunto ho pensato di chiamare ‘manierismo’. Kant crebbe sentendosi circondato da vasi di bronzo, da alte mura; o, se si vuole, all’ombra di quelle solide piante che si chiamavano Cartesio Locke Spinoza, e in quella vasta radura inquietante che è Hume, e presso quel bosco intero ch’è Leibniz; e decise di fare l’unica cosa che gli restava possibile: il rampicante. Lungi dall’assumere l’aspetto di uno sviluppo radicale, tale è, nel suo complessivo significato storico e teorico, la natura vegetale del criticismo kantiano. E si capisce facilmente che ciò non lo rende affatto più debole – anzi. Vi può essere vero e insidioso intellettualismo proprio soltanto in forme surrettizie, e non, diciamo così, statutarie: perché un intellettualismo sancito come tale, nella sua geometrica astrattezza, non sarebbe che un gioco, destinato a esaurirsi; e proprio col sancirlo apertamente su autonomi princìpi convenzionali i cartesiani, del resto, l’avevano già praticato abbastanza, non senza attirarsi dileggio e sarcasmi. Bisognava proprio trovargli una garanzia esterna, che lo facesse uscire dalla dimensione del sogno (perché il sogno, si sa, non è che un inganno). Perciò questa garanzia doveva avere la pretesa della concretezza realistica, sebbene non empirica – e dunque esterna, appunto: lo spazio esterno alla sensibilità, la sensibilità esterna all’intelletto, l’intelletto astratto, o come ragion pura, esterno alla Ragione. È il suo costante modo di ragionare volumetrico: il quale sarebbe uscito distrutto da una reimpostazione del discorso su due postulati logici così autonomi e interdipendenti come sono forma e materia. Spazio e tempo vi si ricreano in qualche modo come interno ed esterno, nel senso che la materia (si sa) è esterna, e la forma (si sa) è interna – e, se no, è anche vero il contrario: perché la forma (si sa) contiene il contenuto. E che cosa resta della relazione d’interdipendenza (non di successione, non volumetrica, non gerarchica) fra questi termini opposti? Ne restano per lo più sparse forme sensibili prosastiche, quali si possono rintracciare nelle filigrane della prima Critica, così come le verremo notando nelle analisi dei prossimi paragrafi. Non mi sembra possibile negare, insomma, che a dispetto della sua pretesa di dare al pensiero un sicuro fondamento autonomo, Kant, il rampicante,

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non abbia mai potuto rinunciare a servirsi di solidi supporti esterni. Lo può dimostrare, per esempio, la ricerca di quella specie di pietra filosofale che è la materia come forma, o come condizione trascendentale della possibilità dell’esperienza, che Kant intraprese ancora a tarda età cercando il ben noto Übergang von den metaphysischen Anfangsgründen der Naturwissenschaft zur Physik. Sotto questo riguardo, almeno, con Kant non s’è fatto un passo oltre Cartesio. È in casi come questo che devono intervenire a soccorso della critica gl’interpreti, con la dottrina del criticismo, facendo della critica un progresso: perché bisogna innanzitutto credere nel progresso. Ma il solo fatto di porre il problema in termini di Übergang, ossia di «varco» o di «trapasso», non può significare che il fallimento del criticismo; e una materia che è già forma implica invece un inconfessabile riavvicinamento a Spinoza e a Leibniz, oppure una dichiarazione di persistente continuità logica con l’esito problematico cartesiano. Il rifacimento secondo la ‘maniera’ critica non può mai rinunciare a ritornare periodicamente ad attaccarsi agli assunti generali stabiliti nel grande pensiero moderno, oltre che nell’antico – sebbene ogni tanto si senta persino dire che la lettura della Critica rappresenta un punto di partenza, in se stesso del tutto sufficiente e sicuro, per intraprendere, in santa pace, lo studio del pensiero contemporaneo. Del resto, al punto in cui era allorché collocò nella Critica le pagine dell’Appendice, Kant non avrebbe potuto né saputo dotare l’intelletto di autonomi a-priori quali sono ‘forma’ e ‘materia’, in modo da innalzare un secondo edificio parallelo all’estetica. Non è facile, ma non è neppure impossibile dire perché qualcosa non sia stato fatto. La nostra congettura non può essere del tutto arbitraria, e la sua plausibilità richiede almeno il sostegno di un riferimento abbastanza convincente, che renda l’idea di un’impossibilità finale, oppure intrinseca, tecnica. Ora, se noi paragoniamo (come altrove ho già fatto) la struttura generale della Critica a una fuga, con tanto di soggetto (estetica), di controsoggetto (analitica), e di parte libera (dialettica), è chiaro che una dotazione aprioristica dell’intelletto in tutto simile alla dotazione sensibile avrebbe, sì, creato il controsoggetto intellettuale al soggetto estetico – ma avrebbe anche impedito lo sviluppo della fuga: essa avrebbe semplicemente sancito un monumentale e inutile dualismo, al quale la filosofia moderna aveva già fatto ogni sforzo per sottrarsi. Bisognava invece mostrare come una facoltà si esercitasse a partire dall’altra, sottentrandole; bisognava frantumare minutamente il discorso in giochi cromatici di ampiezza, di durata e di modulazione, in modo che la fuga si sviluppasse per intensificazione di contrappunto in direzione dei liberi lidi ideali della Ragione. Non si saprà mai abbastanza quanto la legge

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di conservazione dell’energia governi le vicende umane; ma nulla ci vieta di supporre che l’ostilità pietista nei confronti del teatro costrinse ‘la teatralità’ in qualche modo a risorgere: oltre che nella proverbiale puntualità della macchietta di paese, soprattutto nell’arte prosastica musicale della Critica. Ma lasciamo di tentare le analogie, con le quali si può rendere un’idea, e veniamo, se possibile, anche a delle vere e proprie ragioni. L’intelletto non può adottare nuove forme a priori, diverse dalle categorie, perché esse, forma e materia, non sono che denominazioni di un’altra e più basilare distinzione, che Kant non sa mai come trattare. Gravitando discorsivamente e irresistibilmente sull’intelletto e sui concetti (che sono l’unica realtà per lui veramente ‘sensibile’, nel senso che la sensibilità è scrittura) anche quando deve trattare di giudizi di riflessione, a Kant non sembra vero di poter giungere al trotto con le sue solite quadripartizioni categoriali, che in queste pagine fanno da titolo ad altrettanti capoversi: identità e diversità, accordo e opposizione, interno ed esterno, materia e forma. S’intravede qui forse, per analogia, la possibilità di redigere anche per la facoltà della riflessione un prontuario categoriale delle forme di giudizio. Ma studiandolo attentamente, si vedrà che le quattro giustificazioni dell’attività riflessiva si riducono, in definitiva, a una soltanto: vale a dire, all’ammissibilità di un’esistenza ‘esterna’ delle cose, oltre all’esistenza ‘interna’. Anche sotto questo rispetto, non siamo andati d’un passo oltre Leibniz. In quanto sono ‘interne’, le proprietà delle cose sono comuni, uniformi, omogenee tra loro, inestese e persino reciprocamente annullantesi in una specie di fulminea riduzione logica, o semplicemente aritmetica; ma non appena le si concepisce nello spazio, che non ammette sue parti che non siano reciprocamente ‘esterne’, e che costituisce dunque la sostanza della distinzione, della separazione, della diversità, della coesistenza degli opposti fra cose diverse (e anzi addirittura entro le cose medesime), allora è possibile concepire le cose non soltanto come grandezze puramente logiche, bensì reali. Perciò ‘materia’, ‘esterno’, ‘diversità’, ‘opposizione’ sono nient’altro che mutazioni terminologiche dello spazio, il quale resta l’unico autentico fondamento dell’esperienza sensibile; mentre ‘forma’, ‘interno’, ‘identità’, ‘accordo’ non sono che reviviscenze intellettualistiche del tempo in una dottrina della sensibilità. Malgrado tutto (e malgrado, soprattutto, lui stesso) la sensibilità spaziale, ‘esterna’, resta comunque a fondamento d’ogni ulteriore distinzione e sovrastruttura logica e ideologica. Il suo ruolo preliminare si rivela, in realtà, basilare anche negli stadi ulteriori della trattazione; e nulla risulta conoscibile, in definitiva, se non per forme in qualche modo surrettizie di questa sensibilità estesa nello spazio, e dotata di una miriade di contenuti.

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Un perdigiorno potrebbe anche divertirsi a elencare tutte le possibili categorie della sensibilità che Kant ha seminate nella prima Critica, e che si è dovuto perdere per strada per non sacrificare la creatura teorica che oramai gli stava tra le mani. la città esterna L’ingegnosa soluzione leibniziana del problema concernente la natura ‘esterna’ dell’intelletto demiurgico (un problema antico, che inizia con la critica rivolta ad Anassagora nel Fedone, xlvi); questa ingegnosa soluzione, dunque, la quale dissemina il demiurgo in una miriade di attive sostanze intellettuali indipendenti, viene da Kant logicamente rovesciata nell’interiorità del soggetto universale pensante mediante un appello preliminare alla sensibilità, nonché, stilisticamente, mediante espedienti terminologici e prosastici, i quali esprimono tutto uno stile manieristico di trattare in filosofia. Su questa strada, quanto allo stile sia logico che prosastico, egli ha avuto un assai più potente e quasi geometrico predecessore in Spinoza. Nella Critica del Testo di questa Parte Seconda mi sono occupato dell’analisi testuale di questo manierismo (o di questo ripensare il pensato, senza vera esperienza che non sia il continuo ritrattarne) soltanto sotto il profilo stilistico, senza alcun riguardo alla sovrapposizione dei contenuti rispetto al patrimonio di pensiero offerto dalla tradizione: la quale sovrapposizione interessa e genera, piuttosto, quella disciplina che si chiama storia delle dottrine (ossia una speciale storia della storiografia). Dopo una critica del testo come quella svolta nel capitolo precedente, si sarà visto a sufficienza che sotto il profilo dello stile prosastico questo manierismo trova, grammaticalmente, il suo corrispondente nel gusto della rocaille; e sintatticamente, invece, nell’arte musicale del contrappunto e della fuga – praticata, in verità, senza alcuna adeguata disciplina. Ciò che riuscì a Bach, insomma, non riuscì a Kant. Sotto il profilo, invece, della concezione e dell’ordine speculativi più generali, il manierismo agisce in un senso che gli storici dell’arte definirebbero, credo, ‘emblematistico’: conforme, vale a dire, a una tendenza fondamentale dello stile che più tardi fu detto neoclassico, consistente nel prendere dalla tradizione architettonica, e nel ricomporre liberamente, gli elementi semplici e in se stessi finiti (arco, scala, frontone, colonna, finestra, e simili). Nelle analisi dei paragrafi precedenti è risultata evidente, mi sembra, la continua gravitazione del pensiero di Kant verso le forme d’attività dell’intel-

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letto. Nelle analisi del capitolo precedente si è visto d’altra parte, fra l’altro, l’inevitabile risorgere entro queste forme intellettuali, in quanto sono forme, di testimonianze della sensibilità assai evolute e sottili: come se acquistando un corpo fisico di trattazione, insomma, il pensiero non possa non avere anche un’ombra. Il permanere della sensibilità entro l’attività dell’intelletto fa sì che il relativo rapporto di sovrordinazione, gerarchico e successivo, ricercato da Kant, risulti rispondere a un bisogno d’ordine semplicistico, o di tipo pedagogico. Non diversamente si configura, a sua volta, il rapporto tra le due facoltà empiriche e la ragione pura: in un senso, cioè, che i verbi inglese e italiano to understand (movimento volumetrico dall’interno e dal basso) e comprendere o capire (movimento volumetrico dall’esterno e dall’alto) descrivono meglio dell’erratico verbo tedesco verstehen. Ho pure detto, d’altra parte, come il diretto cimento di Kant con ardue forme della sensibilità sortisca ben poveri risultati per mancanza di strumenti di conoscenza specifici, adeguatamente evoluti. Il problema della forma in quanto tale, in realtà, consiste nel fatto che i contenuti sono forme essi stessi; e che, proprio in quanto forme, essi non sono perfettibili o riducibili ad altro. Come Leibniz riuscì a capire, concependo un realismo delle idee che confina col materialismo, in questo consiste la natura reciprocamente ‘esterna’ dei contenuti. Analogamente, una volta fatto con Kant, in generale, dell’intelletto e della sensibilità due forme, o forme di forme (ossia due facoltà esercitate secondo procedure specifiche), rimane esclusa a priori la possibilità di ridurle a unità in un ‘Io pensante’ – se non per superfetazione discorsiva, logica e terminologica. Il cosiddetto formalismo, dunque, non può essere sinonimo di vacuità, bensì, semmai, d’irriducibilità, o d’impossibilità di saldare innumerevoli contenuti, o forme senza nesso sostanziale con altre forme. Ma questo è precisamente ciò che Kant voleva superare in Leibniz. Il quesito posto dall’intellettualismo leibniziano, con il suo universo d’idee che sono contenuti attivi come forme finite e insolubili, rimane, con la critica, sostanzialmente insuperato; e conosce anzi, per certi aspetti, addirittura un regresso: a causa della sostanzializzazione delle facoltà conoscitive, nonché della completa assenza in Kant di una teoria, sia pure credibile quanto si vuole, della gradazione. Fra i requisiti ontologici d’una cosa viene a mancare, in Kant, il senso ‘esterno’ della relazione. La relazione costituisce una figura tecnica, fra altre, delle categorie dell’intelletto – ma il senso della relazione, di cui parlo, è un’altra cosa; e la relazione categoriale diventa così di fatto, per lui, l’unica possibile. Lo spazio diventa una dimensione dialogica interna al pensiero, mentre

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ogni a-priori rimane semplicemente più vuoto e sempre più impotente rispetto ai suoi attivissimi contenuti. Ogni volta separati, i contenuti hanno avuto facilmente ragione delle forme. Le forme non possono mai essere vuote; e non già perché, come Kant insegna, richiedono della materia, bensì perché i contenuti sono già forme essi stessi – mentre gli a-priori dello spazio e del tempo non sono forme di alcunché, ossia di una facoltà sensibile che sarebbe forma di forma, bensì sono questa stessa facoltà sensibile. Il loro vuoto è lo svuotamento di questa facoltà, non appena viene postulata nel modo come viene postulata. Concepiti indipendentemente dal senso spaziale, o sensibile, o esterno della forma, che li mette in relazione, i contenuti sono rimasti procedimenti meramente tecnici, obbedienti all’unico principio logico autonomo, interno, della conformità al proprio scopo speciale secondo una congruenza di solo pensiero. L’attivismo delle intelligenze conosce un’implosione. L’intelletto s’è fatto demiurgo interno, mentre l’esercizio della sensibilità non è rimasto che un vuoto postulato; e quello che prima di Kant era ancora un ‘rispecchiamento’, è diventato una ‘riflessione’. Ciò che in Leibniz è esterno ed è privato secondo lo spazio, o insomma è ‘dato’ in quanto è intellettuale (e viceversa: è intellettuale in quanto è dato; e questo è ciò che lo separa dal materialismo), in Kant diventa interno e comune secondo il tempo, o ‘posto’ in quanto è sensibile (e viceversa: è sensibile in quanto è posto; e questo è ciò che lo accomuna con l’idealismo). A restare espunta nello spazio esterno è proprio la condizione preliminare che consente di effettuare con garanzie di certezza quest’operazione: la sensibilità. Lo svuotamento dello spazio assegna il primato incontrastato a quell’inesausta loquela speculativa che si chiama tempo, e il silenzio della contemplazione viene incessantemente rotto dal monologo della riflessione. Senza che Kant mostri mai di volerlo capire, con ciò ch’egli esplicitamente definisce ‘interno’ o ‘esterno’ si viene a creare una tacita gerarchia sovrapposta rispetto ai deserti spaziali e temporali della sensibilità, secondo altre forme o dimensioni, quali sono ‘alto’ e ‘basso’, che rappresentano indiscusse e surrettizie forme di forme spaziali. Rispetto alle forme postulate della sensibilità come il tempo e lo spazio, il volume comprende tutte queste forme di forme, esplicitamente menzionate o no. V’è dunque più di un formalismo, e anzi vi sarebbero molti formalismi, uno dentro l’altro? Questo ‘formalismo’ sembrerebbe pieno di contenuti – come del resto è inevitabile. Ma no: forme, e forme di forme, e volume, nient’altro significano che spazio – solo, concepito anche secondo la terza dimensione della profondità. Nel Timeo Platone (l’altro grande «filosofo intellettualista», secondo Kant) menziona anche la

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destra’ e la ‘sinistra’ di una cosa, e il suo ‘davanti’ e ‘dietro’ (che non si possono interpretare in senso temporale, se non sforzatamente, come un ‘prima’ e un ‘dopo’) – mentre non fa menzione d’interno e d’esterno. Forse che dunque, col suo indiscusso pregiudizio pietistico dell’interiorità, Kant ha portato un nuovo principio decisivo, di capitale importanza per la storia del pensiero? È vero che la dimensione dell’interiorità (o per meglio dire dell’intimità) fu pressoché sconosciuta al mondo classico, come ho già detto altrove. Ma è appunto a cominciare dalla lontana dissoluzione di quel mondo che questo principio è entrato a far parte della vita del pensiero occidentale; e nessuno vorrà negare che il cogito cartesiano, almeno (lasciando in pace Agostino), non ne abbia raccolto l’eredità. Se, comunque, il problema dell’intellettualismo consiste nel postulare un intelletto ‘esterno’ rispetto alle cose, e anzi al mondo intero, secondo la supposta sanzione anassagorea, bisogna dire che Platone tutto fece, per l’appunto, per trarvelo dentro nel rispetto dell’integrità delle forme; e che per questo motivo l’aggiunta della distinzione fra interno ed esterno alle sei dimensioni timaiche di una cosa (numeri perfetti a parte) non poteva avere per lui alcun senso: per Platone ciò ch’è ‘esterno’ non costituisce alcuna condizione di alcuna possibilità, o fondamento, per alcunché, ma è semplicemente falso, o inesistente, o altra cosa. Il senso figurativo dello spazio come un intero, o città cosmica che tutto ‘comprende’ o ‘capisce’, rappresenta insomma il culmine della sua creatività speculativa, oltre che il lascito storico della continuità platonica nella tradizione timaica. Quanto alla distinta integrità delle forme, o delle idee, essa vien fatta rispettare con le due teorie della partecipazione (o relazione autoritaria, discendente dalle idee alle cose) e dell’imitazione (o relazione libera, ascendente); e a quest’ultima corrisponde effettivamente la teoria leibniziana del rispecchiamento. Tanto in Platone quanto in Leibniz il postulato intellettualistico, risolutamente sancito, esclude la possibilità di effettuare trapassi da una dimensione all’altra, da una sostanza all’altra: se non altro, questa dimensione o sostanza non si pretende essere che una, graduata in un continuo, discorsivo o matematico, tendente a un limite di virtù o perfezione. In Platone la moralità generale fa tutt’uno con l’intelletto, ed è dunque interna al discorso; nell’universo stellare leibniziano essa è invece ormai diventata una difficile conquista. È cosa esterna; e tale, più che mai, essa rimane in Kant. ***

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Non basta trarre l’intelletto, per definizione, dentro le cose di questo mondo, per sfuggire all’intellettualismo. La sgomentante semplicità del pensiero di Kant non consiste neppure in tante gratuite assunzioni teoriche, dalle quali scaturisce l’emblematismo speculativo suo e successivo, bensì nella sorprendente incapacità di aggiungere, se non tacitamente, alcunché di suo alle nozioni di cui si serviva – a parte una certa abilità dispositiva e una certa risolutezza nel ripristinare l’assunto teorico dualistico, unite a una sovrabbondante argomentazione. Il quesito dell’intellettualismo (che egli, come ogni altro quesito, non giunge mai a formulare con chiarezza ed estensione, sempre pedagogicamente preoccupato di giungere premuroso con le sue soluzioni, dopo averlo appena accennato) non è soltanto un quesito concernente relazioni spaziali – non, almeno, com’egli intendeva lo spazio, e anche il tempo, secondo una sensibilità bidimensionale: perché l’esistenza di qualcosa di ‘esterno’, in uno spazio volumetrico, implica il riconoscimento di una sua terza dimensione. Senza di essa, riferita anche al tempo, è vano interrogarsi sulla conoscibilità di alcunché di sensibile; e la terza dimensione del tempo, la sua profondità, non è che il silenzio dell’ascolto e della memoria. Parlare di volume, e di silenzio, semplicemente nient’altro significa insomma che parlare, rispettivamente, di spazio o di tempo secondo una terza dimensione: della profondità per lo spazio, e della memoria per il tempo. Restando sempre pregiudizialmente vincolato a un senso bidimensionale del tempo (per completo difetto nel suo pensiero del ruolo conoscitivo anamnestico), e attribuendolo anzi, per primato del senso interno, allo spazio stesso, del ruolo di questa terza dimensione dei suoi a-priori estetici Kant non ha mai, mi sembra, il benché minimo sospetto speculativo. Nel secolo dei viaggi e delle scoperte, in un angolo d’Europa l’estensione diacronica del tempo (che diventerà poi, come successione di fasi, filosofia della storia) si accinse a prendere il sopravvento sull’estensione superficiale della geografia – e anzi sulla profondità della stessa geologia. Questo sopravvento non derivò da un qualche pregiudizio dottrinario, secondo un dettato innocentemente accolto dalla tradizione dell’interiorità – no: derivò dal vizio manieristico col quale Kant pretese di rifondare la tradizione rimontandone gli assunti più semplici. Il primato nella conoscenza sensibile del senso interno del tempo getta i lontani presupposti per la propugnazione intellettualistica di quelle inoppugnabili ragioni di filosofia della storia che, contro il ‘buon senso’ spaziale della geopolitica, un secolo dopo contribuiranno a lanciare la Germania nell’azzardo della sua avventura mondiale. In questo senso Kant insegnò ai tedeschi a non vedere, un po’ come Goethe insegnò loro a mentire a se stessi.

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Leibniz non era stato certo immune da ingenuità geopolitiche. E prima ancora che intellettualistico, direi, è semplicemente ingenuo pensare di potere ricondurre qualunque distinzione sostanziale all’unità dell’infinitesimo di grado mediante un’infinità di gradi: non solo con l’approssimazione infinitesimale il mondo non cessa di rimanere il sogno matematico dal quale Cartesio non aveva saputo come uscire; ma oltre a ribadire il dualismo sostanziale, l’approssimazione come tale, poi, implicando il concetto di limite, esclude precisamente il trapasso ad altra cosa. Leibniz lo sapeva bene; tanto bene, che non pensò minimamente di perseguire l’unità delle Chiese, per esempio, facendo della propaganda o del proselitismo: ossia cominciando a eroderne la compattezza a partire da quei gradi infinitesimi che sono gl’individui, i singoli adepti. No: cominciò dalle corti e dalle segreterie. Cominciò dal centro. Cominciò dalla matematica e dal calcolo; cominciò, insomma, dalla funzione statutaria caratteristica della monade, che è quella, per lui, dell’intelletto. Per il resto, per quanto concerne la sensibilità, Leibniz intuiva, o almeno doveva constatare, che le monadi non possono far altro che osservarsi e ascoltarsi, per imparare anche, sì, qualcosa l’una dall’altra, ma per trovarsi poi sempre inevitabilmente ferme sul confine della loro diversità. Questo, dunque, doveva diventare il fondamento realistico d’ogni cosmologia. Ch’egli non abbia posto la sensibilità a fondamento del suo pensiero è dunque del tutto falso; e la finzione matematica venne consapevolmente escogitata come una disciplina di relazioni essenziali, non sostanziali: non diversamente da come noi ci siamo ormai abituati a concepire le relazioni con la sovranità democratica in termini di cittadinanza, a prescindere dalla condizione sociale dell’individuo, vale a dire dalla sua sostanza, la quale costituisce invece la forma gerarchica della relazione antica e medievale sussistente fra l’individuo e la comunità. Mi sono impegnato, all’inizio di questo studio, a parlare del solo ‘Leibniz’ di Kant; e anzi, del ‘Leibniz’ che c’è in queste sole pagine che ho volute commentare. Con queste divagazioni non sto mancando alla promessa, perché essa ha il significato di rendere giustizia all’accusa, rispettandone i limiti; ma occorre pure, come si dice, rendere una qualche giustizia alla personalità dell’accusato, e ricondurre il discorso, con un’ellissi non troppo ampia, a un giudizio complessivo di valutazione del suo intellettualismo. Servendosi d’immagini, Leibniz parla di corrispondenza e di rispecchiamento con l’esterno; ed è noto che dovette affaticarsi e ingegnarsi non poco per spiegare non metaforicamente come insomma il trapasso fra le sostanze possa avvenire, lasciando ampio spazio alle congetture circa le modalità di questo rispecchiamento. La monade è mondo chiuso. Ma noi possiamo credere che Leibniz immaginasse

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la vita d’ogni essere complesso come vita intima, come un movimento asintotico procedente da entrambe le parti della sua doppia natura verso il punto interno che ne segna l’unità all’infinito decimale, esattamente come un numero irrazionale. L’accostamento di opposte sostanze fin nelle più remote propaggini della materia è tendenza che genera tensione: ossia energia e vita come la sua pura forma15. Quest’infinito decimale è dunque niente più che l’individuale e intima e sempre mobile perfezione d’ogni cosa in un universo che, per il resto, rimane in balìa (usiamo pure l’ossimoro) di un’armonia. La plausibilità di quest’armonia (spiegazione teologica a parte) non può spiegarsi coi numeri irrazionali, coi quali si vedrebbe ogni cosa, per così dire, attivamente impegnata a sprofondare soltanto in se stessa; bensì coi numeri trascendenti, non algebrici, come π: grazie ai quali ogni cosa invece riemerge d’un tratto a cospetto del pensiero secondo la cifra stabilita in un rapporto di stabilità immutabile. Se, d’altra parte, questo universale, comune e distinto bisogno di perfezione fosse soltanto un concetto puramente logico, come credette Kant, noi non avremmo, in realtà, corrispondenza né rispecchiamento, bensì l’immediato riassorbimento d’ogni cosa in un unico genere, senz’altro: un mondo di mondi circolari, per esempio, costruiti tutti sull’unico possibile rapporto fra il diametro e la circonferenza, non esisterebbe in quanto il rapporto è simbolizzato in una cifra, bensì in quanto ogni cifra non è che il risultato della dimostrazione della misura di un rapporto. Il Rapporto, genere massimo, anonimo e vuoto, sarebbe il dio dell’universo. Ne uscirebbe una specie di spinozismo della Non-sostanza – di quella Non-sostanza che poi è lo Spirito. Un’interpretazione del genere si trova infatti, per esempio, nella sintesi tematica di Giuseppe Carlotti. Poche pagine dopo avere scritto che per Leibniz lo spazio e il tempo sono «la forma, in cui a noi appaiono la materia e il movimento», egli si avventura anche ad affermare che: «L’uno e l’altro dunque non sono che rapporti, che lo spirito trova, o, meglio, pone nei corpi, e che poi, facendo astrazione dal contenuto, può 15   Un paragone di approssimazione asintotica relativo allo spazio e al tempo si trova, per esempio, nei Nuovi saggi, ed è facilmente generalizzabile: «I raggi visivi sono linee rette che si allontanano progressivamente; ma ci sono linee curve che a una certa distanza sembra che si riducano alla retta senza allontanarsene sensibilmente, come è nelle asintote, il cui intervallo apparente dalla retta sparisce, benché nella realtà rimangano sempre separate. Infine constatiamo che l’apparenza degli oggetti non diminuisce in proporzione alla distanza, perché l’apparenza sparisce del tutto anche quando la distanza non è infinita. Perciò una piccola distanza di tempo ci priva dell’avvenire, come se l’oggetto fosse scomparso. Nell’anima non ne rimane che il nome e quella specie di pensieri … che sono sordi e incapaci di commuoverci, se non vi si è provveduto con metodo e con abitudine» (Bianca, p. 328). Quest’ultimo riferimento all’abitudine rende meno ampia di quanto si crede la distanza che separa Leibniz da Hume.

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ipostatizzare, facendone come delle entità indipendenti»16. ‘Forma’, come si vede, equivale qui senza ambagi a ‘rapporto’. Questo spirito che trova, e anzi pone rapporti nei corpi (ma perché dovrebbe porveli, per poi astrarli, se non per ‘intingerli’ nella materia? – si usi il verbo giusto, e si vedrà che questa è la storia dell’uomo invisibile!); questo spirito, dunque, non potrà esimersi, mi pare, dall’instaurare un ulteriore ultimo rapporto fra i diversi rapporti ipostatizzati; e questo Rapporto dei rapporti altro non può essere, in un’ottica gentiliana, che lo Spirito stesso, che in definitiva trova e pone e intinge sempre e soltanto se stesso. Ma se ‘rapporto’ può significare ‘forma’, non vale tuttavia sempre il contrario: altrimenti rapporto forma ed essenza verrebbero a fare un tutt’uno, in una logica che è sempre, in qualche modo, a sfondo mistico; e la sensibilità e l’intelletto si renderebbero indistinguibili insieme con le relative patologie formalistiche dell’estetismo e dell’intellettualismo. La cosa può forse assumere un’evidenza proprio riflettendo sulla natura dei numeri trascendenti, che già impensieriva Eulero almeno fin dagli Anni Quaranta17. Poiché non sono radici di equazioni algebriche a coefficienti razionali, essi non sono riducibili che a simboli; e pongono dunque dei limiti d’una sensibilità d’ordine superiore alla semplice algebrizzazione di tutta la realtà. Se distinzione, distanza, esternità fra quei coefficienti irrazionali che sono gl’individui ci sono, vuol dire che c’è dell’altro a far la differenza: e questo qualcos’altro non sono, come Kant crede di potere insegnare, i presupposti di una generica sensibilità (la quale, in verità, in Leibniz non manca affatto; e che conosce col rispecchiamento dimensioni d’ordine superiore); ma è bensì la consistenza corporea, che rende le cose esterne fra loro. Sono il volume interno o la profondità, sono il peso e l’oscurità. Sono, insomma, le dimensioni timaiche mancanti. Ecco il punto di contatto fra i due, anzi i tre, intellettualismi. Anche il leibniziano: perché si precluse la possibilità di riemergere in ogni momento dalla remota infinitezza dell’approssimazione nell’immediata attualità sensibile del simbolo, che realizza la congiunzione secondo il suo originario significato etimologico (sún bállô)18.   Giuseppe Carlotti, Il sistema di Leibniz, Principato, Messina 1923, pp. 116 e 119.   Morris Kline, Storia del pensiero matematico, Einaudi, Torino 1999, i, p. 692. 18   Una vera e propria coincidenza dell’approssimazione è ammessa da Leibniz soltanto nelle remote propaggini della percezione indistinta, come mostra questa proposizione che brilla solitaria nelle prolisse pagine dei Nuovi saggi: «Quanto alla percezione del significato dei segni, non è il caso di distinguerla dalla percezione delle idee significate» (Bianca, p. 299). Il comune balzare su di un’evidenza sensibile, che è anche coincidenza delle forme dell’intelletto, è tuttavia ammesso, e persino invocato, là dove egli, per combattere l’intellettualismo parolaio, lo paragona all’uso di «coloro che, nel calcolo algebrico, non considerano, di tanto in tanto, le figure geometriche delle quali si tratta: giacché le parole hanno un effetto analogo ai carat16 17

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L’immagine della sponda o dello specchio non è adeguata a descrivere sensibilmente la natura di questo rapporto esterno, e insieme interno; e non è dunque il concetto che manca, bensì è la letteratura del concetto quella che manca, o che non basta. E ognuno, se vuole, può colmare la lacuna come crede. Per esempio: ogni singolo individuo s’immagina il mondo come cosa riflessa sopra la superficie della sua sfera; ma l’osserva dall’interno, qual’esso mondo resta graffito su questa superficie corticale che possiede la proprietà di trattenere le narrazioni; o come appare in una camera oscura nella quale le cose appaiono capovolte non direttamente all’occhio dell’osservatore, bensì adagiate sulla superficie di un vetro semiopaco, che ne trattiene le immagini. Dopo Galileo, soprattutto, l’esempio della camera oscura è tutt’altro che sconosciuto agli autori moderni. Se, con un espediente ancora più moderno, immaginiamo una proiezione cinematografica osservata dal retro dello schermo, dobbiamo avere soltanto l’accortezza di correggere l’inversione verticale con la laterale, e tener conto della perdita della terza dimensione19. *** Bisogna ammettere, però, che gli artifici della sensibilità possono sembrare incongrui nel trattare d’un pensiero, che cercò le sue evidenze e le sue certezze ben lontano da essa. Il trapasso dall’esterno all’interno dev’essere descritto nel modo meno artificioso; e allora, se è vero che l’unità delle sostanze è resa comunque concepibile come un limite matematico entro l’infinità dei decimali, non è affatto impossibile immaginare ancora che in queste lontananze, nella penombra delle sfumature (come sopra superfici assai sottili e porose) possa avvenire il trapasso da una cosa a un’altra, e da sostanza a sostanza, e addirittura da specie a specie. L’aderenza e la contiguità di due cose che finiscono per toccarsi in un infinito decimale diventa così trapasso insensibile dall’una teri dell’aritmetica e dell’algebra» (ivi, p. 312). Nondimeno, secondo lui le immagini non offrono alle idee distinte nient’altro che un ausilio – oppure sono le idee medesime, confuse (ivi, pp. 386-387). 19   Il paragone non è inattuale perché, come ho detto sin dalla Presentazione di questo libro (alla nota 3), la cinematografia è nientemeno che la base della teoria della conoscenza di Hume; il quale, andando alla ricerca dell’origine dell’errore e dell’inganno rispetto all’identità attribuita alle percezioni, aveva in realtà scoperto il generarsi di nozioni virtuali, d’ordine superiore, per via di narrazione, sia pure interpretando la cinematografia come un puro e semplice inganno. Oltre a non essere inattuale, dunque, questa teoria non è poi neppure inedita sul piano critico, perché la si ritrova usata, per esempio, da Papini a proposito di Berkeley: «Tutto ciò che vi sembrava solido ed estraneo diventa a un tratto come fluido e quasi vostra proprietà personale – il contrasto fra l’io e il mondo si attenua – l’immensa mole della materia che prima vi spaventava si tramuta ora in una cinematografia interna della nostra mente – l’io non si sente più come una goccia in mare o una foglia in una foresta, ma come uno specchio meraviglioso che ha potenza di creare da sé tutte le immagini che appaiono in lui» (Giovanni Papini, Giorgio Berkeley, iv, in Ventiquattro cervelli, in numerose edizioni).

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all’altra – e anzi diventa addirittura svolgimento: Leibniz viene adattato alla filosofia della storia; e chi voglia ritrovare, alla lontana, i frutti più vistosi di questo modo di concepire le cose non ha che da guardare, per esempio, alle più nebbiose pagine della storiografia di Friedrich Meinecke (senza dimenticare la più potente teoria di evoluzione attraverso le specie di Darwin, che di questa storiografia costituisce un presupposto altrettanto importante; né i contemporanei sviluppi della musica di Wagner, con la frantumazione del contrappunto e della scala tonale). Kant torna a insistere sulla distinzione fra i due campi divisi dalla retta, che per lui non è mai un asintoto. Da nessuna parte, com’è noto, egli parla mai di convergenza approssimata fra sostanze, bensì sempre di successione, o di sovrordinazione, oppure ancora di ambivalenza logica. I tentativi di stabilire una saldatura in parallelo, per così dire, negli schemi, o una coincidenza per sovrapposizione nella rappresentazione non danno i loro veri frutti in lui, bensì nei suoi riscopritori o reduci. E dal momento che ho appena accennato a un lontano frutto storiografico dell’intellettualismo leibniziano, com’è la storiografia del Meinecke, dirò ancora, di passaggio, che il corrispondente prodotto dell’intellettualismo kantiano si trova, invece, nella tarda storiografia del Ritter: la struttura kantiana fornisce a questa storiografia la base teorica di un intellettualismo nel quale potrà mettere radici il secondo, o terzo, revisionismo storiografico del Novecento20. Si tratta di una concezione soltanto parzialmente opposta rispetto al nesso che lega Leibniz a Meinecke: perché anche quando concepisce le cose in termini di compresenza o di ambivalenza (per cui, per esempio, una cosa vale al tempo stesso quale fenomeno, oppure quale noumeno), è comunque a una netta separazione fra un esterno e un interno, che Kant pensa; e questo è comunque un tipico presupposto leibniziano. Abbiamo già visto, trattando della facoltà riflessiva del pensiero secondo la quale, per Kant, noi attribuiamo alla sensibilità, oppure all’intelletto, la conoscenza di un oggetto, come egli non si curi affatto di specificare se ciò avvenga secondo una singola natura di esso, oppure, contemporaneamente, secondo la sua doppia natura, sensibile e intellettiva, di essere complesso. Non ne ha bisogno, in effetti, perché non esiste in Kant alcuna nozione di essere complesso. A differenza di Leibniz, la distinzione delle sostanze in lui è sempre e soltanto successione nel processo della conoscenza; e ciò spiega l’importanza attribuita al tempo, e alla sua relazione esclusiva col senso interno, ch’egli non si preoccupa neppure di giustificare dopo averla recepita dalla tradizione. A 20   Ho spiegato il significato della distinzione di un secondo o terzo revisionismo nell’Introduzione, alla nota 13.

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parte questo, se si prescinde dall’approssimazione per infinitesimi e dalla successione logica, bisogna dire che egli non si trova su posizioni molto diverse rispetto a Leibniz; ed è un solido fondamento dell’intellettualismo leibniziano ch’egli va in definitiva cercando nell’esercizio critico dell’intelletto mediante la sensibilità – tanto, che a sortirne è un intellettualismo meno ottimistico, ma non meno edificante; meno politico, ma assai più potente. In un certo senso, disinteressandosi delle segreterie delle corti, Kant volle adempiere a quella minuta opera di proselitismo fra le coscienze che le mettesse in comunicazione una a una, e che Leibniz, il diplomatico, aveva trascurato. Quanto però all’ingenuità dell’intellettualismo leibniziano, mi preme ancora di aggiungere, a sua difesa, che vi sono forme d’ingenuità meno grandi, meno semplici e pure: quale, per esempio, l’astrusa noncalanza sistematica con la quale si pretende di lasciare agire la sensibilità, senza dire quel che faccia, nel frattempo, l’intelletto; e così pure di lasciare agire l’intelletto, senza dire quel che faccia, nel frattempo, la ragione pura; e questa, infine, senza la Ragione superiore. E tutte quante insieme, anche, ma l’una col silenzio dell’altra. È un’ordinata discussione, o una sfilata di primedonne senza la benché minima idea della possibilità di un duetto o di un quartetto, secondo le regole armoniche dell’accordo. Secondo il modo di vedere kantiano, tutte le figure e le sedi logiche relativamente sotto- o sovrordinate se ne starebbero in disparte, fra le quinte, finché non giunga il momento della loro comparsa nell’allestimento dell’azione speculativa; e poi parlano soltanto a turno, una per volta. L’effettiva cronologia del processo di conoscenza viene perciò, di fatto, a coincidere con una sua mediocre e pedante letteratura teatrale: ossia con la dotta trattazione circa lo svolgimento scenico elementare del processo di conoscenza medesimo. Ognuno, fra Kant e Leibniz, giudicherà l’ingenuo che preferisce – ma badando a considerare che il più tardivo è sempre il meno innocente. A ogni buon conto, il lettore capirà da sé che non basta postulare con insistenza l’indispensabile requisito della sensibilità nella conoscenza, per farcela entrare davvero: perché sarebbe come assistere a una dotta conferenza sull’importanza della musica, scambiandola per un concerto. Ciò che resta sancito di fatto, infine, è l’inespresso, quasi involontario, merito storico più generale del criticismo: la legittimazione della retta libertà d’opinione su cose metafisiche. Nella non riducibilità delle opinioni a causa della logica dei loro contenuti è segnato il destino dei sogni leibniziani di unificazione dell’umanità cólta; ma la critica dei sogni della pura ragione annuncia la legittimità delle rette opinioni su questi medesimi sogni di umanità, di speranza e di devozione. Là dove c’era un mondo popolato da opinioni date e

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trovate, ossia di mere opinioni, conciliate mediante un interminabile calcolo, sorgono con la critica opinioni legittime, saldamente fondate mediante un’interminabile trattazione. Le civiltà del mondo possono finalmente capirsi? È nella critica della ragione pura che consiste dunque la garanzia della pace perpetua? Il solo fatto che la Critica abbia bisogno di schiere d’interpreti dimostra invece, a mio giudizio, esattamente il contrario. Ciò che esce dalla critica della critica non è un’approssimazione infinitesimale alla verità (alla verità della Critica – se non, persino, alla Verità), come ogni tanto si sente ancora dire; e non è neppure quell’approssimazione fra i miriagoni di mentalità diverse che prelude all’osmosi fra individui, che sognava Leibniz; no: è soltanto, o quasi soltanto, la dottrina della critica e della storia della filosofia, che si erge come un rifugio sempre sicuro in mezzo a una babele delle lingue. Le due cose, del resto, vanno insieme: la critica della critica reclama, a un certo punto, l’interpretazione autentica della certezza accademica; e da quel dì la filosofia non si può fare, sembra, che con i professori di filosofia. Kant stesso è stato il primo a dare l’esempio, invocando al soccorso della prima Critica la seconda. Se qualcosa manca nei fondamenti certi della Critica, bisogna aggiungere che qualcosa v’è anche di troppo, fuori di essa. Alle dimensioni spazio-temporali di un’estetica meno che elementare, scambiate per forme, e alle rette opinioni della ragione purificata, sì, ma solidificata in sistema, la seconda Critica ha fornito le pratiche risorse di un’implacabile forza motrice, legittimata da una sua intellettualistica natura categoriale. Quella che con la prima Critica vuol’essere una legittimazione teorica del diritto d’opinione diventa, con la seconda, una sottomissione indiscutibile al dovere di credere e di agire. Dopo la proclamazione della precedenza della sensibilità, l’intelletto si prende dunque la sua rivincita, tornando a governare in modo assoluto21. La forma torna a separarsi dalla materia e dai contenuti, perdendo ogni ‘senso’. E questo ‘senso’ moralisticamente perduto dell’unità di sensibilità e d’intelletto nella forma Kant ha dovuto nuovamente ricercare sul piano diverso di una qualche Ragione superiore, di una qualche altra motivazione e finalità del pensiero in altra sede, ossia nel Giudizio – secondo un suo tipico perpetuo rilancio del discorso: come se il problema del giudizio non fosse già stato toccato e abbandonato, fin dalla prima Critica, col trattare della riflessione. 21   Andando perpetuamente alla ricerca di un senso unito della forma, a tarda età, ben oltre la terza Critica, Kant non fu alieno dall’istituire paragoni fra la sua dottrina e la filosofia politica: tanto, che nell’Antropologia pragmatica, per esempio (come ho già accennato nell’Analisi Cronologica), paragonò la sensibilità alla plebe, e l’intelletto al governo dello Stato.

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la città svelata In un divertente commento giornalistico dedicato ai luoghi della memoria che per automatismo alimentano il bisogno d’identificazione di una personalità collettiva, com’è una nazione, Alberto Arbasino sciorinò a suo tempo qualche campionario di questi nativi mots de la tribu, o valori obiettivi e condivisi dell’identità nazionale. Per la Francia, dove la raccolta è cominciata (nel solco, in verità, di un perpetuo interesse per le identità nazionali, che s’è riaperto negli anni novanta, dopo la fine della grande politica basata sui blocchi ideologici), sfilano a turno Giovanna d’Arco e Marianna, Napoleone Carlo Magno il Re Sole e De Gaulle, e poi la schiera che da Vercingetorige e Clodoveo arriva fino a Guizot e a Poincaré (perché non Clemenceau?); appaiono Notre Dame e la Torre Eiffel, i vini e i formaggi, Proust e Reims, Cartesio e Cluny. Per un italiano della sua generazione è inevitabile in Arbasino il ricorso alle memorie scolari di regime: Dante e Garibaldi, la disfida di Barletta, Attilio Regolo, la Cavallina Storna e le Cinque Giornate, il sasso di Balilla e le Tre Grazie, la stampella di Enrico Toti e la torcia di Pietro Micca insieme con la Madonna di Loreto. E i motti, poi: ‘Tu quoque Brute’ e ‘Bevi Rosmunda’, ‘Obbedisco’ e ‘Non passa lo straniero’, ‘Tu uccidi un uomo morto’ e ‘Va’ pensiero’, ‘Un bel dì vedremo’ con tutti i personaggi dell’opera e le canzonette – e quant’altro ancora. Qualcuno ha voluto raccogliere anche in Italia i luoghi della memoria collettiva identificatrice, e ha scoperto che il loro numero supera sessantamila22. Restano ancora escluse da questi fitti elenchi tutte le forme d’identificazione immediata che non servono, in particolare, ai bisogni di unità comunicativa e di continuità anamnestica della specie; bensì, più in generale, a rendere comunicabile ogni qualsiasi conoscenza intuitiva attraverso sensibili nozioni d’opinione: dai proverbi al plutarchismo, per esempio. Così, da Catone al fariseo, da Lucrezia e Messalina all’Innominato, e dal mafioso e dallo junker ai santi, ai personaggi dell’opera lirica e del cinema, le nostre sintesi a-priori letterarie sono dunque ben complesse e ben numerose. E anche se ogni tanto compare qualcuno che si prende la briga di accertare la loro esistenza (da Vercingetorige a Ermete Trismegisto), o di ridimensionare la loro vicenda (sarà 22   ‘La Repubblica’ 26 luglio 2002, p. 15; Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva, a cura di M. Castoldi – U. Salvi, Zanichelli, Bologna 2003. Le parole lette e scritte (non udite e parlate) dai bambini italiani sono oltre seimila, come mostra il Lessico elementare. Dati statistici sull’italiano scritto e letto dai bambini delle elementari, a cura di L. Marconi – M. Ott – E. Pesenti – D. Ratti – M. Tavella, Zanichelli, Bologna 1994. Bisogna poi considerare tutti i sostantivi ai quali s’è aggiunto il suffisso ‘ismo’: il Dizionario inverso Zanichelli ne elenca milleseicentoventisei. Non so dire, invece, quanti lemmi abbia raccolto Antonio Ricciardi (per fare soltanto un altro caso) nei suoi Commentaria Symbolica.

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andata proprio così?; vile era già stato Francesco Ferrucci, allorché volle impiccare il messaggero inviatogli da Maramaldo; e chi fu, veramente, Ernesto Che Guevara?), non si può tuttavia negare che essi, proprio così come sono, comunichino un’immediata conoscenza di astratte nozioni narrative nella forma sensibile di un sunto sentenziale. Lo storico e il filologo, di solito, si assumono volentieri l’ingrato compito dell’accertamento, mentre il filosofo deve limitarsi a constatare il fatto in se stesso. Sono i primi due, in altre parole, a esercitare una critica della ragion pura vestita nei panni della mera opinione, risvegliata per intuizione sensibile e pronta a spiccare il volo nei giudizi; la quale ragione pura non concepisce soltanto pensieri edificanti su Dio, sul mondo e sull’immortalità dell’anima, bensì anche sulla castità e sulla giustizia, sulla lealtà e il pudore, sul tradimento e la fede, sulla tetraggine l’ostinazione l’ipocrisia il servilismo l’ambizione la fedeltà, sulla civiltà e la barbarie, sul militarismo tedesco e la perfida Albione, la corruzione italiana e l’imperialismo americano. La ‘purezza’ della ragione in simili giudizi per nozioni d’opinione può essere ingenuità o malafede, fanatismo o rigore, volontà di credere – insomma: passioni. Per difetto o per eccesso, ma sempre passioni. Le quali affliggono il giudizio politico assai più di ogni altro. Qui comincia, ed è sempre cominciato, il compito del filosofo, il quale non sa che farsi di un problema di conoscenza puramente tale: vale a dire, che non cominci e non finisca ‘puramente’ con quei giudizi di sensibilità e di ragione che si chiamano comune e retta opinione. Kant conosce perfettamente l’esistenza di queste sensibili nozioni d’opinione, naturalmente; e se ne serve come chiunque altro, non senza, per giunta, un certo snobismo: come quando in entrambe le prefazioni alla sua Critica (come ho già detto più di una volta) getta là un particolare significato, dotto e ammiccante, quasi gergale, del termine ‘barbarie’, senza dubitare un solo istante che sarebbe stato capito. Ciò che segue alle prefazioni è, per l’appunto, il tentativo di dare legittimità ben fondata (anche) a giudizi come questo – ma le prefazioni, si sa, vengono sempre scritte dopo. Ora, chi abbia perseverato nella lettura della prima Critica con l’attenzione rivolta alla consequenzialità del discorso, e dandola più spesso per ammessa che per concessa, a poche decine di pagine dalla fine si trova quasi d’improvviso dinnanzi a un mondo pieno di sorprese. Munito di due solide stampelle, e istruito su una dozzina di modi per usarle correttamente, scopre, per così dire, l’esistenza della ruota e del carro: ossia l’esistenza di una quantità di cose già fatte da chi s’è sempre servito di strumenti di conoscenza e di giudizio senza curarsi di legittimarli – e senza peraltro doverlo fare: perché sembra

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che quest’incombenza tocchi proprio al nostro claudicante convenuto, il cui insistente bisogno critico assume in definitiva il significato di una excusatio non petita. Seguendo con qualche generazione di ritardo una moda, con Kant anche la filosofia vuol dettare al pensiero la sua poetica. E ciò che si svela d’un tratto alla vista non è certo cosa da poco, bensì nientemeno che un’intera città in pieno tumulto23. Sintesi a priori d’ogni genere e specie vi sono già contenute numerosissime e altamente elaborate, a cominciare dalla città stessa come forma già data e tutt’altro che naturale. Sebbene in disordine, essa è piuttosto ben costituita secondo il diritto e le relative magistrature: censure di giudici e possessi legittimi, un potere dittatoriale e il diritto di veto, pretese di cittadini sovversivi e pericolosi, titoli di possesso, un tribunale supremo e la relativa facoltà di appello da gradi inferiori di giudizio comune. E non si tratta di una disputa soltanto cartacea, giudiziaria o scolastica: perché, anche se non manca una scuola, vi sono pure combattenti rivestiti d’armature, e dotati d’armi e di scudi, che menano colpi su un campo di battaglia; vi sono veleni, medicinali e farmacie; un alto tradimento e un incendio; duellanti a colpi di spada e forze di vigilanza, nonché partiti; un cuore, persino, e del fitto fogliame; lo stato di natura, infine, e la guerra. Meno concrete, ecco poi sparse dappertutto le nozioni di utilità e di sacralità, di legittimità e di attendibilità, di assennatezza del benpensante e di accecamento nel pregiudizio, di doppiezza e di veri sentimenti, buoni e rispettabili; nonché d’incivilimento, moralizzazione, rispettabilità, onestà, costumatezza, rozzezza e maniera, modi di pensare, dissimulazione e falsità, vanità e sincerità, perfidia simulazione inganno lealtà – occorre continuare? Tutto ciò sta fitto in sole pochissime pagine; e Kant è certo che il suo lettore lo capisca – persino senza ricorrere ai suoi a-priori della sensibilità e dell’intelletto! La definizione criticamente sicura di ciascuna di queste nozioni costringerebbe a riscrivere altrettante volte la prima Critica; la quale però, come si ricorderà dal precedente capitolo, «tien conto di ciò che dovrebbe di diritto accadere, e non di ciò che di fatto accade»24. Tutte queste nozioni, in verità, non sono che monadi sensibilmente date per tradizione e intellettualmente definibili all’infinito, per approssimazione asintotica o decimale, delle quali ciascuno si serve come di strumenti indispensabili alla formulazione e comunicazione del pensiero – spesso con maggiore cautela dell’irritante disinvoltura con la quale Kant ce le mette davanti in una predica pedagogica, al termine della faticosa edificazione di un farraginoso costrutto che dovrebbe pur servire   B 767 ss.   B 778.

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394   parte seconda. «la critica»

a definirle. E che invece non serve a nulla, se non a dire che in fatto di pure opinioni ognuno è libero di professare le proprie, senza pregiudizio di alcuno. In che cosa consista, poi, la ‘purezza’ di queste opinioni sotto il profilo del rigore speculativo, costituisce il contenuto e lo scopo di tutto il trattato come Kant ha inteso concepirlo: perché una ‘pura’ opinione rischia di restare una ‘mera’ opinione. *** Nella sua città un giudizio comune contraddice un giudizio puro – e viceversa. La sua ragione pura, col suo giudizio d’opinione su cose invisibili, compare già saldamente assisa in una magistratura di governo, costretta a difendersi da un’attiva resistenza, o da un’opinione pubblica riottosa. Quest’ultima trae le sue opinioni, chissà, dalla scienza empirica, o dall’osservazione giornalistica della vita pubblica, o ancora dal mondo della tecnologia e del lavoro – insomma: da tutto ciò che storicamente si prepara a scalzare un potere d’antico regime. La ragione pura può tenersi le sue opinioni per il semplice fatto che nessuno può dimostrare il contrario, ovvero che l’affermazione opposta è altrettanto poco dimostrabile. Opposizione reale. Essa ottiene per giunta il consenso di una superiore Ragione pratica, la quale si sbarazza delle argomentazioni dimostrative, e si tiene le conclusioni. Così delle sanzioni della ragion pura non restano che pure opinioni quali instrumenta regni. Ma che cosa fa di un’opinione comune una ‘retta’ opinione? E non avrà questa pura opinione rinunciato, in tal modo, a definirsi retta? La rettitudine, in questo caso, non può essere nozione morale che giunga dall’esterno, con la controfirma della Ragione, e perciò con un riconoscimento di valore utilitario (secondo il doppio significato, contraddittorio, che ‘pratico’ assume in Kant; dal quale il suo pensiero dovrà essere liberato cent’anni dopo, mediante un’apposita filosofia dei valori); bensì dev’essere, questa nozione morale, fatto interno, di procedura logica. Dev’essere cosa certa. E dunque la Critica della ragion pura non può trovare il suo significato nella conclusione, bensì deve trovarlo sul suo cammino. Così non è. La metafora politica kantiana si regge su presupposti logici e storici inespressi, che sono altrettante sintesi a priori della sua immaginazione, e dell’animo. Di qui, ogni sorta di possibili equivoci e fatiche. Ma noi dobbiamo rimanere al testo. Ed è un fatto che a ogni buon conto, secondo Kant, la facoltà sanzionatrice del giudizio puro, la ragione pura, «dopo avere riconosciuta l’infondatezza di ogni [propria e altrui] pretesa dogmatica», si presenta allora «con timidezza» a un giudizio d’appello, ossia «al cospetto dello sguar-

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do critico di una superiore Ragione giudicante»25. Questa superiore Ragione critica che ora d’un tratto si svela (e che, si suppone, è sempre esistita fin dal principio del dramma, a far la regìa); questa Ragione, la quale non si occupa dell’oggetto della controversia, bensì della sola procedura (e che funge perciò in qualche modo da Corte di Cassazione), non fa altro che sancire le sue proprie prerogative come ragione «in generale», secondo «i principi della sua istituzione originaria»26. In queste parole c’è, nascosta, troppa verità; e c’è palese, invece, una bugia. Il lettore conosce già quale sia la debolezza di Kant su esempi e figurazioni, che portano quasi sempre a svelare l’effettiva consistenza del suo pensiero. Nessuno si presenta con timidezza a un giudizio d’appello, che ha richiesto; né ha bisogno di chiederlo, se ha già riconosciuto i propri torti dogmatici; né ha bisogno di preoccuparsi della sentenza, quando l’esercizio delle sue pure prerogative può essere giustificato mediante l’esibizione di un titolo di possesso «sia pure insufficiente» – vale a dire: dal momento che «nessuno potrà mai provare l’illegittimità di questo [suo] possesso»27. La sovrana Ragione critica, o Ragione generale, d’altra parte (che per non fare confusione in italiano può essere più facilmente distinta mediante la maiuscolazione del sostantivo, alla quale invece il tedesco è, o sarebbe, tenuto in ogni caso); questa Ragione, dunque, la quale fa da Corte di Cassazione, e la quale non compare che post prandium a rendere perfettamente vane tutte le discussioni, ha ancora sopra di sé, a sua volta, dei «princìpi», secondo i quali essa è stata originariamente istituita. Le sorprese, dunque, non finiscono mai – ma sono anche, guardando in alto, sempre più evanescenti. Questa città non ha dunque soltanto magistrature inferiori e superiori; oppure, se si vuole, non ha soltanto un esecutivo alquanto dispotico che vorrebbe esercitare un’azione di governo secondo i suoi puri principi amministrativi di efficienza e di disegno – anche se deve però fare responsabile ammenda dinnanzi alla prudente saggezza di un’istanza più generale, schiettamente politica o, come oggi diremmo, legislativa e parlamentare. No. Questa città, sembra, ha anche, in questi princìpi, una costituzione, la quale riunisce nel suo dettato i valori intangibili, originari, secondo cui la Ragione critica o generale è stata istituita. Di simile dettato, tuttavia, poco o nulla affatto si apprende. Così come altrettanto poco o nulla si apprende circa la difesa di questi princìpi: se insomma quello che noi chiameremmo l’ufficio di Corte Costituzionale spetti   B 767.   B 779. 27   B 768. 25 26

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396   parte seconda. «la critica»

alla Ragione critica generale medesima, già Cassazione, oppure ad altra istanza. Tutela della procedura e tutela dei princìpi saranno pure due cose diverse, mi pare. E dal momento che non si fa menzione di ragione naturale, e di simili antiche chimere (le quali sono svanite senza neppure presentarsi, in verità, senza bisogno di critica alcuna: perché fin dai primi scritti, come s’è visto sul principio dell’Analisi Tematica28, esse vengono semplicemente ignorate, a differenza dei Centauri Gorgoni Pegasi e Chimere che sotto i platani Socrate, almeno, si degnò di menzionare nel Fedro); dal momento, dunque, che quest’altra ultimissima istanza di garanzia costituzionale non compare, essa non potrebbe che consistere di nient’altro, temo, che di quella assai vaga e speranzosa tutela esercitata dai filosofi letterati di buon cuore, coi loro canovacci sempre pieni di quinte e di sorprese, non meno che di valori. Checché Kant ne dica o creda, ultima garanzia della sua città è la letteratura, ultima istanza il teatro. Che la città possieda un vero tutore, in realtà, Kant sapeva benissimo; e alle sue mani tutto quanto egli affidava, in caso d’eccezione. La sensibilità, la fisicità delle cose tornano così a irrompere nelle sue pagine vincolandolo alla terra, al potere, proprio quando sembrerebbe giunto il momento di spiccare quei legittimi voli, che a lungo egli ha cercato di rendere liberi e sicuri. la città cosmica Troppo a lungo, ormai, mi sono allontanato dalle pagine della Critica che ho scelto di commentare, e sarà bene tornarvi. È vero che ciò che Kant ritenne di Leibniz (così come di Hume, del resto, e di tutti quanti i suoi autori) fu una viva impressione sensibile, fatta di rapide letture e di scambio d’idee nella vita accademica; è vero ch’egli non cercò mai l’accesso analitico, né ebbe alcun bisogno di darselo: come fa chiunque, quando voglia andarsene per la propria strada. Ciò richiedeva una trattazione impressionistica corrispondente. Ma la nostra posizione non è la sua, e sarà dunque bene tornare alla critica e alla logica del testo. Abbiamo visto che c’è una Ragione ultima (o critica o generale o superiore o sovrana) che va distinta dalla ragione pura. Ma questa ragione pura non è che l’intelletto astratto, sotto altre spoglie. È l’intelletto medesimo, infatti, che ha tutte le caratteristiche e gli strumenti per prescindere, se vuole, dall’esperienza, e formulare concetti puri. È il puro intelletto astratto, e nessuna ragione pura (perché ‘pura’ in senso tecnico non può essere, se è disposta a   Alla nota 3.

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riconoscere i suoi torti dogmatici con un’istanza d’appello e di sottomissione alla Ragione sovrana: chiederebbe mai venia ad alcuno, la matematica?); è l’intelletto puro e semplice (cioè monosostanziale, non affetto da responsabili passioni), ripeto, che può pretendere di governare dispoticamente contro i bisogni immediati di una sensibilità riottosa, obbedendo unicamente alle conformità e uniformità tecniche dei propri scopi logici astratti. L’intellettualismo scaturisce dalla rottura del vincolo con la sensibilità, il manierismo dal ripristino formalistico di questo vincolo. In conseguenza della rottura del vincolo l’intelletto può arrogarsi il diritto di svolgere l’ufficio di una ragione pura, assumendone vesti e difetti – ma senza atti di contrizione. L’analisi della Critica che ho svolta fin qui lo afferma, e una di queste pagine, però, lo conferma anche testualmente. Se c’è chi afferma che esiste un essere supremo, e c’è invece chi lo nega; se c’è chi crede nell’immortalità dell’anima, e c’è invece chi la ignora – bene: In questo caso l’oggetto della questione è libero da ogni elemento estraneo che contraddica alla sua natura, e l’intelletto ha a che fare soltanto con cose in se stesse, non con fenomeni. Qui potrebbe dunque trattarsi di un vero conflitto, se soltanto la ragione pura fosse in grado di dire sulla parte negativa qualcosa, che avesse in qualche modo la consistenza di un’affermazione; per quanto infatti [denn] concerne la critica delle argomentazioni di chi afferma dogmaticamente, gliela si può benissimo concedere [die kann man ihm sehr wohl einräumen], senza che ciò importi l’abbandono di tali [medesime] proposizioni [dogmatiche], che hanno a proprio sostegno, se non altro, l’interesse della Ragione, mentre l’avversario non può farvi appello29.

C’è qui un modo reticente di esprimersi, che si tradisce da sé, mediante un artificio lessicale. Il Gentile non ha saputo a chi attribuire lo ihm, e l’ha soppresso, secondo il suo stile; Chiodi, la Marietti e l’Esposito l’hanno prudentemente imitato (a dimostrazione che i traduttori recenti, quando non sanno che fare, si affidano ancora a Gentile). Nessuno (neppure la Marietti, che talvolta dà segni d’una certa indipendenza) s’è avventurato, come invece ha fatto il Colli, a sciogliere il pronome col supposto sostantivo di riferimento: che secondo lui è l’avversario («si può benissimo concederla all’avversario»). Questo avversario però, non è ancora effettivamente comparso; e lo ihm non può dunque riferirsi se non a «chi afferma dogmaticamente». Da parte di chi, e a chi, si può concedere che cosa, insomma? Da parte della superiore Ragione giudicante si può «concedere» la critica alle dogmatiche proposizioni sancite dalla ragione pura, senza tuttavia rinunciare all’uso pratico di queste medesi  B 769.

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398   parte seconda. «la critica»

me proposizioni dogmatiche. La Ragione, dice Kant, può senz’altro concedere la sua critica nei confronti della ragion pura – non senza tuttavia tenersene cari i dogmi (come Kant chiama le pure opinioni) circa l’essere supremo e l’immortalità dell’anima, per esempio: semplicemente perché ha interesse pratico a farlo, mentre l’avversario non sa che farsene. Il verbo einräumen può significare ciascuno dei tre verbi italiani che sono stati usati nelle nostre traduzioni: «ammettere», «concedere», «accogliere». In ordine di tempo, Gentile usa il primo, Colli e la Marietti il secondo, Chiodi ed Esposito il terzo. Sennonché «ammettere» e «accogliere» hanno un significato passivo di azione ricevuta, mentre «concedere» ha invece il significato attivo di un’azione promossa. Ora, quella iniziata da Chiodi è in qualche modo una restaurazione gentiliana: perché se è vero che sul pronome ihm Colli ha avuto almeno il coraggio di farsi avanti, sia pure equivocando il sostantivo di riferimento, sul verbo, invece, egli (con la Marietti) ha avuto ragione. Traducendo infatti einräumen con «ammettere» (Gentile), o con «accogliere» (Chiodi, Esposito), sembra che l’istanza critica antidogmatica sia promossa dal basso per iniziativa della ragion pura medesima, e in definitiva contro se stessa dunque, anziché per sorveglianza dall’alto della Ragione sovrana. La ragion pura, da convenuta qual’era in giudizio, si fa dunque attrice. Il lettore si attenderebbe l’uso da parte di Kant di un verbo che sottolineasse il ruolo principale e disciplinare della Ragione nel giudizio (come sarebbe l’italiano ‘esercitare’, o addirittura ‘irrogare’, ‘sancire’, ‘sentenziare’, e simili). E invece la critica viene soltanto ‘concessa’ o ‘accordata’ dalla Ragione. Perché mai, trattando d’un giudizio, Kant dovrebbe usare un verbo che in tedesco ha un significato letterale prevalentemente passivo: non già quello di una presa d’iniziativa, bensì di un ‘fare spazio’, o di un ‘dar luogo’? La ragione c’è. Colli ha fatto del suo meglio per rendere il verbo secondo il senso attivo che, in verità, esso dovrebbe avere – ma è stato un ingenuo. Gentile aveva capito perfettamente che ciò che qui si svolge non è un giudizio, bensì la messinscena di un giudizio. Si tratta, in sostanza, non già di un procedimento giudiziario, bensì di un procedimento amministrativo: ossia dell’inoltro per via gerarchica di un’umile richiesta di legittimazione o di riconoscimento. La quale viene, per l’appunto, ‘ammessa’, o ‘accolta’, dall’autorità superiore, secondo criteri che di ‘puro’ conoscono soltanto l’interesse pratico per la quiete della vita pubblica – vale a dire: nessuno. La Ragione superiore o generale, in realtà, non è ragione critica: per il semplice fatto che, oltre a non avere competenze di merito, non ha neppure, in verità, competenze procedurali. Essa si attiene al valore dei risultati sanciti, unicamente con riguardo alla vita pubblica, o alla loro politica

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moralità. Nonché Corte Costituzionale, essa non è dunque neppure una Corte di Cassazione – è semplicemente un Principe, per l’autoritarismo del quale la seconda Critica dovrà andare in cerca di una legittimità speculativa: non più semplicemente moraleggiante, bensì moralistica. Ora, se in relazione all’istanza superiore della Ragione il procedimento è di tipo amministrativo e gerarchico, che cosa avviene nell’effettiva sede giudiziaria? Bene – qui si svolge un conflitto che non coinvolge affatto la Ragione, bensì una ragione ‘pura’ e una medesima ragione ‘critica’ – vale a dire: un conflitto della ragione con se stessa, secondo due suoi possibili ruoli o posizioni. La sede non è dunque neppure giudiziaria – è psichica. Ma non è strano questo modo di presentare le cose, che confonde l’esercizio di poteri pubblici diversi, nonché la stessa identità dei personaggi in giudizio? Che all’epoca di Kant i poteri pubblici dello Stato federiciano non fossero ancora sufficientemente diversificati, e che invece i poteri dell’Impero lo fossero anche troppo, non è una risposta valida (e, diciamolo pure, nemmeno onorevole per Kant). Come mai, insomma, col ricorso all’ipotiposi giudiziaria, così lampante da far poi testo sui banchi di scuola, Kant s’è avvolto in tante difficoltà? Per spiegarlo, dobbiamo ritornare sull’errore di Colli circa il pronome. Ritengo che egli sia stato tratto in inganno, perché guidato dall’istinto. Egli ha percepito che in questo non bene identificato «avversario», che fa la sua comparsa da ultimo, si nasconde un problema; e ha cercato di sciogliere l’enigma, anticipandone l’ingresso in aula. La ragione pura è stata scambiata con la controparte, la ragione critica, così che quest’ultima si presenta al suo posto; di conseguenza, la critica viene dalla Ragione concessa all’avversario convenuto, anziché alla ragione pura che umilmente la chiede. E questo è semplicemente impossibile. *** Ma anche con simili spiegazioni, che vogliono pur sempre ammettere la validità della metafora giudiziaria, noi non sappiamo ancora chi sia quest’avversario. Colli ha tradotto male, ma ha intuito la verità che si nasconde nell’esistenza di una doppia personalità della ragione: come ‘pura’ e come ‘critica’. Chi è quest’avversario che non sa che farsi delle astratte proposizioni dogmatiche della ragione pura, e non si cura, d’altra parte, nemmeno degl’interessi pratici della Ragione? Chi è mai questo secondo convenuto, il quale si presenta in un giudizio in cui già si sta giudicando un imputato? Forse che la causa, da penale che era, si fa civile? Le difficoltà sembrano accrescersi – ma no: chi mai può essere, infatti, questo enigmatico personaggio, se non l’intelletto? In definitiva esso è ‘puro’, non meno della ragione, in quanto è ovviamente libero

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400   parte seconda. «la critica»

da preoccupazioni moralizzatrici – ma, soprattutto, da preoccupazioni empiriche: perché, per la sua attività immediatamente connessa con «le cose in sé», senza dover passare attraverso i fenomeni e, dunque, attraverso il vaglio pur vacuo delle forme della sensibilità, in realtà non ha bisogno, in questo caso, di giustificazione alcuna, né sopporta alcuna condizione o limitazione. E, d’altra parte, che cos’è mai questa ragione ‘pura’, che sa già di vedere riconosciuta la propria istanza da parte di una Ragione gerarchicamente superiore tutt’altro che imparziale (dal momento che quest’ultima giudica secondo un proprio, prevedibile, interesse pratico)? Ecco la bugia: la Ragione non giudica in base ai «princìpi della sua istituzione originaria», come dice Kant, bensì in base ai suoi interessi pratici, che sono interessi cittadini, politici. La ‘purezza’ della ragione si rivela, in realtà, connivenza corporativa con la Ragione. Se la metafora giudiziaria può e deve avere un senso, c’è qui, evidentemente, una connivenza reciproca, proprio in sede giudiziaria, tra facoltà che portano l’identico nome di ‘ragione’, e soltanto un diverso attributo; e c’è poi una ragione pura assolta in partenza, e che del resto non ha nulla di cui pentirsi, di fronte a un intelletto che non ha alcun bisogno di giustificarsi, e che infatti neppure lo chiede. Piuttosto che a un intimo e nobile conflitto della ragione con se stessa, è a una brutta commedia che noi assistiamo: una commedia di sorprese, di doppie identità, di scambio di ruoli, di toghe e di scranne. Ma la metafora giudiziaria, come ho detto, non ha senso; e sotto questo profilo l’appello di Kant alla libertà d’opinione si trova su posizioni anche formalmente, anche sensibilmente, anche filologicamente, assai più arretrate rispetto al Trattato teologico-politico di Spinoza, per esempio, alla cui altezza egli saprà a malapena innalzarsi soltanto con un’opera come La religione nei limiti della semplice ragione. È di un procedimento amministrativo che in realtà si tratta, come ho già detto, e sono le traduzioni a svelarlo. Il conflitto, per il resto, è psichico. Kant, in realtà, non sa come trattare un essere che abbia duplice natura sostanziale – e questo è precisamente il caso della ragione: la quale in quanto è pura chiede il giudizio con timidezza, e in quanto è critica se lo fa accordare per interesse da un’istanza superiore assai bendisposta. La plausibilità della metafora, come si vede, porta a far coincidere l’analisi logica con l’analisi letteraria, in una medesima conclusione critica della logica del testo. La cosa più importante da notare non è dunque affatto, come di solito si ripete da Kant medesimo, il duplice e contraddittorio ruolo della ragione che pretende di giudicare se stessa30; bensì, piuttosto, la doppia personalità della 30   L’immagine, del resto, non è nemmeno sua: è ripresa da Hume, che ne fa ripetuto uso. Per esempio, nel Trattato sulla natura umana, Introduzione: «l’ignoranza in cui ancora ci troviamo sulle questioni

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Ii. Una logica del testo   401

ragione come ragione critica e come ragione pura – che è poi, quest’ultima, puro intelletto astratto. Essa, la ragione pura, in quanto effettivamente è pura, e coltiva innocentemente i suoi casti sogni nell’unità ancora potenziale della coscienza, o nel fondo dell’animo, non può non sentirsi attratta da un intelletto capace d’immediato rapporto con quella realtà invisibile che sono «le cose in se stesse»: esso, l’intelletto puro, può farle da guida (attraverso, non si dimentichi, la categoria di causalità: Schulze, questo, l’aveva capito per primo!); e in quanto essa è ‘pura’, insomma, questo ‘puro’ intelletto astratto non è che essa medesima. Né, d’altra parte, potendosi giovare delle condizioni e dei limiti della sensibilità e dell’esperienza che Kant gli ha predisposto, per disperdere quei vaghi sogni l’intelletto avrebbe bisogno di ricorrere all’aiuto di una superiore Ragione generale (anche ammettendo che quest’ultima abbia effettivamente quest’ufficio critico; del quale in realtà, come ho detto, per ragioni pratiche essa in verità non si cura affatto). Se appena si riflette un poco, insomma, appare chiaro che delle quattro sedi, facoltà, personaggi del dramma della conoscenza soltanto il secondo, l’intelletto, risulta in questa vicenda saldamente fondato e realmente autonomo, non bisognoso di alcuna legittimazione - nonché dotato com’è, oltre che di suoi contenuti e forme, anche di potenti facoltà intuitive della natura più intima dell’oggetto (come in questo passo decisamente si afferma e si sottolinea in corsivo, con un impudente voltafaccia leibniziano). Nulla gli manca, a questo punto: esso può far tutto da sé, senza affatto curarsi degl’impacci, né subire le umiliazioni della ragion pura. Si manifesta qui, disinvoltamente, la reviviscenza del riconoscimento di un rapporto privilegiato dell’intelletto con le cose come sono in se stesse, che gli era già stato riconosciuto fin dagli anni intorno al 1770. E d’altra parte è chiaro, invece, che la posizione più debole tocca proprio alla ragione, che come ragione pura non è che un travestimento dell’intelletto astratto nello svolgimento di mansioni non concettuali o empiriche; mentre la posizione decisamente più imbarazzante tocca proprio alla Ragione generale, la cui iniziativa è praticamente, moralisticamente,

più importanti che si presentano davanti al tribunale della ragione umana»; ivi, Libro i, Parte iv, Sezione iv: «Qui mi si potrebbe obiettare che, essendo l’immaginazione … il giudice supremo di tutti i sistemi filosofici», eccetera; ivi, Libro i, Parte iv, Sezione v: «Certamente, è una specie di oltraggio alla filosofia, la cui sovrana autorità dovrebbe essere riconosciuta dappertutto, l’obbligarla in ogni occasione a fare l’apologia delle sue conclusioni, e a giustificarsi con ogni scienza o arte particolare delle offese che possa aver recate a loro. Sarebbe come un re accusato di alto tradimento verso i suoi sudditi» (a cura di Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1975, i, pp. 5, 237, 262). L’espressione «citar, quando bisogni, qualunque più venerata umana autorità [davanti] al supremo tribunale della ragione» si trova anche nell’Estratto dell’arte poetica d’Aristotele di Pietro Metastasio (a cura di Elisabetta Selmi, Novecento, Palermo 1998, p. 7), pubblicato nel 1773 dopo una meditazione iniziata sul finire degli anni Trenta.

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402   parte seconda. «la critica»

compromessa31. Tanto varrà gettarsi avanti, allora, proclamando con un’aperta sfida la dittatura di questo moralismo nella seconda Critica – almeno finché la Ragione non tornerà invece a cercare un più solido sostegno nella sensibilità, con quella sorta di Termidoro del criticismo che è rappresentato dalla terza Critica. Con la restaurazione, tuttavia, la rivoluzione non è morta. Facendo dell’intellettualismo, Kant ha scritto una critica della ragione pura che è, in verità, una critica dell’intellettualismo. La fondazione critica della ragione, in realtà, è una pretesa di rifondazione dei prodotti dell’immaginazione secondo criteri di selezione preliminari, anziché successivi. In questa Dottrina del Metodo conclusiva della prima Critica, che ne riunisce le pagine meno caduche (e bisognose e meritevoli anzi, io credo, di preliminare lettura), l’esistenza di un’intera comunità ben organizzata, di una città insomma, che dovrebbe precedere la dottrina della conoscenza e della condotta come sua vera sintesi a priori, o città cosmica, si spalanca davanti ai nostri occhi, invece, al termine dell’opera, svelando finalmente lo scopo dell’indagine a ogni testa di giovinetto che si presume ormai abbastanza bene istruita per avventurarsi senza timore fra pericoli del tutto immaginari – proprio perché sono soltanto immaginari. È vizio e pregiudizio di pedagogia – un’altra delle sue innumerevoli fissazioni. *** Se lo scopo prefisso di Kant, nelle poche pagine qui sopra discusse, fosse stato semplicemente quello di gettare le basi per la giustificazione di una retta opinione, quale unico possibile approdo della scienza, contro le mere o le comuni opinioni, non sarei qui a discuterne con un certo innegabile accanimento, bensì a parlarne con un entusiasmo moderato dalla fatica. Ma la giustificazione di una retta opinione (che resta per lui, comunque, sempre un’opinione quanto alla sensibilità, o all’apparenza, e che può d’altra parte definirsi ‘retta’ soltanto in base al vaglio logico e terminologico dell’intelletto, secondo uno scopo morale); questa giustificazione, dunque, è invece, effettivamente, soltanto il risultato che di fatto gli esce malamente e suo malgrado dalle mani, senza che egli sappia resistere alla tentazione di lasciarsi continuamente trascinare, per ambizione e pedanteria, verso traguardi della conoscenza che possono sembrare più solidi e alti. Ma tutto ciò, di cui non si può dare nient’altro che una conoscenza sensibile e probabile per nozioni di retta opinione, non conosce e non richiede affatto simili fatiche: non solo Dio 31   Mi servo qui, come già più volte altrove, del termine ‘moralismo’ per analogia con ‘intellettualismo’ – vale a dire: per designare il ruolo supremaziale di una morale esterna, non compatibile con le competenze, o non congruente con le prerogative e con l’esercizio speciale di una facoltà.

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Ii. Una logica del testo   403

e l’Anima, dunque, ma (attraverso il Mondo) anche il Medioevo l’Umanesimo il Rinascimento, per esempio; non senza l’Illuminismo, con tutto il seguito degli ‘-ismi’; e tutte quante le numerosissime nozioni depositate nella memoria, delle quali s’è già detto a sufficienza. Esse altro non sono che città cosmiche nel tempo storico, così come la Civiltà Islamica e la Pietà Ortodossa, per esempio, con tutto il seguito dei caratteri nazionali, non sono che città cosmiche estese nello spazio geografico. Nient’altro che simili città cosmiche sono, per la filosofia politica, la sua cosa in sé, e le monadi di Leibniz, al di là della designazione onomastica. Lo scopo della conoscenza consiste nell’acquisizione di una retta opinione su cose insensibili a partire da empiriche opinioni comuni; i mezzi sono offerti dalla sensibilità e dalla scienza. In Kant, come del resto avviene comunemente, il rapporto fra il mezzo e lo scopo della conoscenza risulta invece invertito. A cominciare dal paradigma fissato con la tripartizione platonica dei gradi della conoscenza (mera opinione comune dei demiurghi, retta opinione dei custodi, infine verità dei sapienti), la tradizione filosofica ha insomma preferito, di solito, scambiare il secondo grado col terzo: dalla mera opinione comune si passerebbe alla retta opinione, e da questa infine alla scienza come verità e scopo a se stessa. È, questa, una delle forme più generali e più semplici che l’intellettualismo può assumere, e secondo cui lo si può schematicamente definire. Dallo scambio dello scopo coi mezzi (dalla retta opinione alla verità, anziché dall’opinione comune alla retta opinione attraverso la scienza) consegue il travisamento della vera natura dei mezzi stessi, nonché l’oblìo del primato della sensibilità, ossia dell’estetica delle nozioni d’opinione come vera facoltà conoscitiva e, sotto ogni rispetto, generale. Il moralismo interviene duramente a ripristinare il primato indiscutibile dei ‘veri’ fini rispetto ai mezzi; cosicché, insomma, intellettualismo e moralismo hanno di solito necessariamente bisogno l’uno dell’altro. Si può tuttavia considerare quest’inversione anche sotto un altro aspetto, che risparmia biasimi all’intellettualismo platonico: nel senso, cioè, che Kant, a differenza di Platone, ha cominciato col leggere il libro della città della mente, scritto a caratteri piccoli, e ha poi spalancato il libro scritto a caratteri grandi della città cosmica. All’inversione di procedura rispetto all’insegnamento platonico si affianca, per giunta, un equivoco logistico: perché questo suo libro scritto a caratteri piccoli non si trova per lui nell’anima, bensì, per l’appunto, in una mente, oppure in un Gemüth, che il Kant criticista, privo cultura e di strumenti o di riferimenti letterari e antropologici adeguati, non seppe mai bene come collocare e definire. La sua ‘mente’ del resto, così criticamente preparata, non può conoscere altro, se non ciò per cui è stata faticosamente preparata.

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404   parte seconda. «la critica»

Il punto debole dell’edificio politico platonico non consiste soltanto nell’inversione del terzo (gerarchicamente il primo) col secondo grado della conoscenza – ossia, ripeto, nell’avere collocato le rette opinioni soltanto nel cuore, anziché trovar loro posto anche nella mente: così che la contemplazione della verità e la scienza non sono considerate (dal Platone della Repubblica, almeno, che ha poi fatto paradigma) nient’altro che come un fine, e non anche come un mezzo per conseguire niente più del conseguibile, ossia una retta opinione su cose inconoscibili con certezza. Un secondo punto debole, dunque, consiste nella fatale infelicità dei suoi custodi, i più vari; e questi custodi, collocati nella sede antropomorfica del cuore, occupano il secondo grado, centrale, della conoscenza, ossia possiedono precisamente nient’altro che rette opinioni. In conseguenza della loro infelicità deve perciò insinuarsi, in questa sede centrale conoscitiva, un principio d’instabilità e di degenerazione costituzionale, che è esattamente l’opposto di quanto la fermezza di una retta opinione richiederebbe. L’intellettualismo può così generare ‘militarismo’. L’opinione comune dei demiurghi (vale a dire: dei trafficanti), che è fatta di sensibilità immediata, può variare, e varia; mentre la retta opinione dei custodi non lo dovrebbe. E non lo dovrebbe non soltanto in quanto essi sono custodi, ossia in ragione di una funzione politica, bensì soprattutto in quanto essi possiedono una retta opinione. Il principio erratico che governa la scienza, il suo perpetuo verstehen insomma, si dovrebbe fissare in una dottrina d’immobile contemplazione; mentre la virile fermezza della retta opinione viene compromessa dalla mancanza di uno scopo in sé, che invece tanto la scienza dei sapienti che la mera opinione della gente comune possiedono (conoscere, arricchirsi). Il risultato è paradossale. Il lettore non farà molta fatica per capire che la metafora antropomorfica platonica, sommariamente descritta, e la metafora giudiziaria kantiana, che ho più sopra analizzata, hanno davvero qualcosa in comune: la precarietà, per l’appunto, della figura centrale della tripartizione. Ma non è il caso, qui, di continuare a occuparci di Platone e della sua antropologia metaforica – restiamo su Kant, e su ciò che lo riguarda circa la debolezza centrale di questo impianto logico tripartito. La doppia personalità della ragion pura, che si è vista, proprio in quanto è pura, è destinata, con la critica kantiana, a sfaldarsi sui due versanti opposti della Ragione generale e del puro intelletto. Si perde dunque la salda unità di un centro, per il quale Kant è pure andato a lungo in cerca di un solido fondamento. Ma è pur vero che le quattro figure o facoltà logiche si riducono in tal modo a tre. A restare padrone del centro del costrutto formale tripartito è nient’altri che l’intelletto puro: ossia un’implacabile ragion ragionante, capace di geometriche argo-

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Ii. Una logica del testo   405

mentazioni e senza vero scopo fuori di sé. Qui sta la forza, la differenza e la pericolosità dell’intellettualismo kantiano rispetto al platonico: là dove c’era un cuore infelice prende posto un’astratta intelligenza. Migrata a cercare il consenso moralistico della Ragione generale, la ragion pura in quanto è ragione critica non solo perde la sua autonomia, ma tende addirittura a uscire dal costrutto antropomorfico. Una sola solida alleanza può tenervela dentro in posizione sicura: l’alleanza con la sensibilità, anziché col moralismo categorico della Ragione. Quest’alleanza sarebbe in grado di sventare le pretese avanzate dall’intelletto puro d’intrattenere un immediato rapporto intuitivo con le cose come sono in se stesse, rimettendolo in relazione con l’esperienza in modo tale che una sensibilità adeguatamente concepita rimanga, in definitiva, a vero fondamento di tutto. Nessun altro che questo, del resto, fu lo scopo che Kant s’era alquanto confusamente prefisso; ma per innumerevoli ragioni nella Critica egli non fu pari al suo compito: di una sensibilità adeguatamente concepita egli non aveva la benché minima nozione – mentre il moralismo categorico della Ragione era un porto troppo rassicurante per il suo disordine. La dottrina del criticismo ha compiuto il miracolo di sopprimere del tutto il dilemma, trattando di fenomeni e di apparenze contrapposti a valori. Non è dunque teoreticamente impossibile che l’intellettualismo che s’intravede nella Critica abbia potuto trasformarsi, in mutate condizioni di clima storico, quali si vennero a realizzare nel Secondo Reich, in una qualche specie di attivismo di nuovi custodi.

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Epilogo

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Centralità logica di un problema lirico La verità, alla quale hanno aspirato inutilmente i più grandi maestri della conoscenza umana, si è presentata per la prima volta al mio intelletto. Kant, Forze vive. È una fortuna che capita abbastanza spesso ai filosofi quella di passare per più originali di quello che sono. L’aver fatto maggiori sforzi di qualunque altro filosofo per meritarsela è una delle poche lodi che non si possono negare a Kant. G. Vailati

In questo libro non si è fatta storia, bensì lettura e discussione; e s’è cercato di comunicare un’impressione di mediocrità derivante dalla personalità di Kant e dalla lettura della sua opera mediante giudizi motivati e discutibili: una retta opinione, insomma. Nessun altro del resto, come ho più volte ripetuto, può essere considerato il vero scopo, e comunque il duraturo significato storico della Critica, che questo: dare legittimità a delle rette opinioni. Il fatto che Leibniz non avesse lasciata pubblicata alcuna ampia e solida trattazione del suo pensiero (Qui me non nisi editis novit, non novit!) costituì per Kant un’immensa fortuna: che gli consentì di riformulare sistematicamente l’intuizione di bontà e di razionalità del mondo, esercitando secondo un’ottica gnoseologica anziché teologica l’assunto teorico del principio di ragion sufficiente – che era stato per Leibniz, pressappoco, ciò che fu per lui la ragion pura. Un Leibniz fortemente impoverito dalla versione wolffiana fu da Kant respirato e restituito secondo le coordinate concettuali e terminologiche ormai acquisite nei principali sviluppi teorici fondatori del pensiero moderno. Il trittico continentale Cartesio – Spinoza – Leibniz non s’era potuto saldamente chiudere; e Kant entrò nella storia della filosofia per una porta lasciata aperta, giovandosi soprattutto della lezione inglese – ch’egli seppe tuttavia intendere soltanto a costo di sacrificare ogni forma superiore di sensibilità, e anzi la nozione stessa della forma. Né poté nuocergli l’aver trovato spalancato addirittura un portone: l’essersi trovata l’Europa cólta, fra gli anni Settanta e

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408   epilogo

gli Ottanta, orfana delle sue maggiori guide intellettuali. Con Kant la Germania poté vantare di possedere un maestro non cosmopolita, interamente provinciale, interamente suo; e con la critica, prima ancora che con lo storicismo, essa ebbe da insegnare in filosofia qualcosa che, per semplici ragioni cronologiche, veniva di fatto a legarsi strettamente con la nascita della sua letteratura nazionale, promettendo anzi di diventarne uno dei generi più caratteristici. In realtà, ciò ch’era stato espresso, ed era anche rimasto disperso, nella fase ascendente di un’assai varia esperienza di vita, di curiosità, di virile poesia scientifica del pensiero moderno fu da Kant riproposto in assunti frantumati e semplificati, fittamente condensati e ritrattati per continue tergiversazioni che approdano, nel complesso, a risultati opposti alle intenzioni e agli stessi enunciati. Egli indovinò l’evoluzione fisiognomica di tutta un’età giovanile del pensiero che con Leibniz conclude il ciclo iniziato dal naturalismo italiano – ma già prossima a fissare i suoi lineamenti dottrinali in un’imminente senescenza accademica, che Kant si decise a fondare su solide basi trattatistiche. Leggere, come sovente accade, che questo o quel grande pensatore del Seicento o del Settecento avrebbe aperta la strada che porta fino a lui non è soltanto fastidioso – è ridicolo: perché fu lui, evidentemente, a giovarsi dell’opera altrui in un modo tutto particolare, secondo l’indefesso stile prensile e girovago, rampicante, che in questo libro s’è cercato di osservare da vicino. Con le rimanenze dei banchetti di oltre un secolo Kant volle affastellare un manuale di gastronomia professionale degno del Sacro Romano Impero, al quale non si può certo negare il successo accademico e pedagogico1. Nell’intellettualismo generale, e nella farragine logica e terminologica della prosa kantiana, questo studio ha mostrato il sedimentarsi d’idee già state altamente creative in virtù dell’esercizio di un impacciato, e a momenti anche disinvolto manierismo non privo, paradossalmente, di scapigliature. E in questo libro non è davvero rimasta inespressa neppure l’idea che il carattere della filosofia dei professori abbia avuto alla lunga la sua parte nel condurre un’intera nazione a non saper discernere ciò che aveva dinnanzi a sé, né ciò che bene volesse. Il vizio del moralismo, di solito impotente, pretende con Kant di dotarsi di un fondamento, di avvalersi dei contributi dei sensi e del rigore della logica – ed acquista in tal modo una forza temibile, mediante la quale il concorso d’innumerevoli circostanze potrà far mettere alla lunga una delle principali radici all’avventura 1   Il paragone non è scelto del tutto a caso. Locke presenta al lettore il Saggio sull’intelletto umano come un prodotto di cucina, che non chiede che d’essere gustato; e del resto: «Lo spirito ha gusti diversi quanto il palato»; e «un nuovo gusto … è in grado di farci inghiottire una pozione sgradita» (Saggio sull’intelletto umano, a cura di Marian e Nicola Abbagnano, utet, Torino 1971, pp. 50, 315, 327).

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Centralità logica di un problema lirico   409

imperiale tedesca nel Novecento. Il pensiero di Fichte ne sortisce con la stessa aggressività autoctona e invadente (non certo cosmopolita e insieme d’écart!) con cui l’avventura federiciana scaturisce dal seno di quella società giurisperita delle stirpi ch’era il fantasma dell’Impero romano-germanico. Ho concluso il capitolo di Analisi tematica menzionando lo scrittarello Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea. Per la sua leggibilità, se si trascurano le frequenti ripetizioni, esso non sembra nemmeno uscito dalle mani di Kant. Che nel 1791 egli avesse finalmente imparato ad esprimersi schiettamente, prendendo esempio dalla sincerità del suo Giobbe? Ma no: come chiunque, egli sapeva più facilmente adattarsi ai suoi oggetti quando riusciva a vederli. Sul piano morale è qui notevole un innegabile, e inconfessabile, avvicinamento a posizioni spinoziane, che si fanno più frequenti specialmente nella sua tarda produzione. Esse affiorano del resto non solo sul piano letterario, come qui, ma anche sul piano speculativo, come ho già detto in un passaggio della Logica del Testo2. Un tratto di continuità con Leibniz si percepisce invece nella chiusa: dov’egli si vede costretto a riconoscere, sulla base dell’esperienza, che un qualche infimo grado di sottile falsità si trova pure fra i montanari svizzeri, così come del resto, senza andare tanto lontano, nel cuore di ciascuno di noi. È lo smascheramento dell’idillio, questo, un segno dell’esaurimento del genere pastorale che Goldoni aveva già sancito fin dal 1736. Alla pastorella del Dissoluto, che promette: Alle mie selve tornerò per fuggir la gente trista... Io de’ nostri pastor conosco il cuore e li volgo a mia voglia, e son nell’arte d’imprigionare il loro cuor maestra

Don Alfonso risponde: Chi crederebbe che sì rio costume serpendo andasse fra le selve ancora? Andianne, amici...3.

Così, la conoscenza del cuore puro può diventare strumento arbitrario per il suo governo, e l’idillio non è che una più sottile menzogna. La critica della   Intorno alla nota 16.   Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto, v, scena ultima.

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410   epilogo

ragione pura ha il compito di sondare condizioni possibilità e limiti dell’idillio speculativo, in modo da dare sicuro corso all’idillio medesimo in una letteratura sensata e plausibile. Anche Kant vuol essere certo di poter governare i cuori dei pastori d’anime e di spiriti, studiando l’arte d’imprigionarli. Ora, tra le caratteristiche normali del genere idillico rientra senz’altro lo scontro con una realtà aggressiva, o con una forza bruta, che dà origine alla peripezia; mentre non rientra la scoperta d’alcun territorio metropolitano. Nel capostipite del genere, per esempio, nell’Aminta, la ninfa s’imbatte nel satiro; mentre nell’ultimo grande esemplare di romanzo pastorale contemporaneo i due protagonisti, Hans Castorp e Settembrini, s’imbattono a loro volta in Leo Naphta. L’idillio speculativo kantiano, dunque, non cessa d’essere idillio con la rappresentazione, sul finire della Critica della ragion pura, di una città insorta, che si spalanca d’improvviso entro il folto della boscaglia prosastica: perché imbattersi nella bruta violenza, fisica o ideologica, fa parte dei requisiti letterari del genere. Ma la finzione deve cessare, dal momento che di questo genere letterario non possono far parte le magistrature. Questo idillio si dimostra falso, e deve finire, non appena la ragione pura rivolge un appello di legittimità ad una lontana Ragione superiore – che è poi la sua metropoli territoriale, la città costrutta della sovranità vigente e giudicante, la città del potere eticamente premuroso ed esteso nei suoi decreti e sanzioni. Il vero presupposto di legittimità del ‘puro’ discorso logico è insomma politico e moralistico; e questo presupposto politico è di natura sensibile: di una sensibilità superiore e complessa, già data come nozione d’opinione comune, la quale esercita tutte le funzioni di una sintesi a priori tutt’altro che semplice, e tutt’altro che priva di contenuti, com’è la città. È come dire che questa logica edificante, che ci porta tanto a lungo a spasso per boschi, presuppone il sicuro governo lontano d’un Principe, dello Stato o dell’Impero. *** La comparsa finale di un territorio metropolitano del pensiero, di una città bell’e fatta e sempre esistita, principio di legittimità logica, nella quale pretende svolgersi un cruento conflitto d’opinione, del tutto inscenato, lascia intuire la preliminare rimozione di un’intera città psichica. Questa dovrebbe fungere, a sua volta, da principio di legittimità antropologica; e tuttavia non sta, né Kant vuole che stia, all’origine del discorso. C’è dunque una doppia regìa, nella Critica; c’è tutta quanta una doppia messinscena, logica e antropologica. In Kant la muta sensibilità animastica, epidermica, impressionistica e mnemonica, persino

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Centralità logica di un problema lirico   411

pneumatica (la conoscenza delle nozioni che ‘si respirano’) viene privata della sua natura di unita e originaria conoscenza complessa, come sentimentale territorio metropolitano d’ogni genere di conoscenza, e separata in singole facoltà come altrettanti personaggi. Anche questo espediente è del tutto conforme alla letteratura: perché la tecnica espressiva di cui di preferenza si serve la creatività letteraria per adempiere al suo ufficio consiste, per lo più, precisamente in questa diversificazione dei personaggi, proprio allo scopo di portare alla luce ogni singola qualità antropologica: ossia di esibire l’azione delle passioni nella loro più semplice verità, come sostanze, anziché confonderle. Il personaggio di carattere di natura complessa, impegnato in un conflitto con una parte di se stesso, anziché con altrui, è invece piuttosto raro nella tradizione letteraria, facendosi strada in età moderna e soprattutto contemporanea. Ora, dalla separazione di sensibilità e intelletto devono nascere, inevitabilmente, sentimentalismo e intellettualismo. Così, i sospiri di Aminta suonano già come elucubrazioni vagamente filosofiche: Oimé! come poss’io altri trovar se me trovar non posso? Se perduto ho me stesso, quale acquisto farò mai che mi piaccia?

mentre il ragionamento del Satiro non fa una grinza: Io, perché non per mia salute adopro la vïolenza, se mi fe’ natura atto a far vïolenze ed a rapire? Sforzerò, rapirò…

Sebbene separate, le due cose vanno necessariamente insieme; e il sentimentalismo non è perciò che la seconda faccia dell’intellettualismo. Più d’ogni altra letteratura europea, la tedesca, a me pare, offre una cospicua conferma degli sviluppo di questo assunto. Ma l’origine è italiana. Del sentimentalismo proprio l’Italia, allorché perdette la libertà dei suoi Stati, sarebbe forse patria; e se si è mentito nei sospiri del Tasso, si è mentito dappertutto; e in quanto genere antiletterario la filosofia non farebbe che spogliare l’inganno da ogni inutile orpello, mentre l’intellettualismo non sarebbe altro che una poesia (diciamo così) strettamente necessaria. Non è forse evidente che nella brutalità del Satiro è stato poeticamente separato e trasposto l’istinto sessuale, la libidi-

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412   epilogo

ne di Aminta, che nessuno dovrebbe più sospettare nei suoi sospiri? Con la sua inettitudine Aminta non è migliore né peggiore di chiunque altro – compreso il Satiro: la cui consequenzialità logica non richiederebbe neppure alcuna revisione o critica di giudizio, per il semplice fatto che egli non è giudicabile. Ecco l’inganno della letteratura, ed eccolo svelato dalla filosofia: la barbarie moderna, a differenza dell’antica, è fatta di logica; e mentre i barbari antichi eran quelli ‘di fuori’, quelli d’oggi sono invece quelli del senso ‘interno’ – tant’è vero che ‘fuori’, in età moderna, si va in cerca soltanto di buoni selvaggi4. Ma si ripristini, d’altra parte, l’integrità antropologica dell’uomo nella sua nuda verità (inutile andar per boschi, se no), e noi non sapremo più che farci della letteratura, né della filosofia. È forse progresso, questo? Una qualche messinscena, dopotutto, ci vuole. La pretesa di svelare la teatralità del testo è proprio l’irruzione di barbari a teatro. La civiltà è inganno; la poesia è necessaria; l’intellettualismo è inevitabile; la verità è barbarie. È proprio il puro intelletto, insomma, che noi dovremmo ingannare: perché lasciato libero di perseguire i suoi disegni con rigorosa consequenzialità, esso potrebbe trovare nei contenuti della sensibilità dei formidabili alleati, come farebbero dei ragionatori che incontrassero ‘le masse’. Fuori dai libri, il giacobinismo ha offerto un esempio di questa possibilità. Con tutto il suo intellettualismo in parrucca, precisamente nessun altro scopo Kant si sarebbe prefisso, dunque, che di evitare l’incontro; e per la medesima ragione egli avrebbe evitato accuratamente di fare incontrare i suoi interessi antropologici con i suoi disegni critici, se non castigando i primi sotto la ferula di un’etica categorica, che li smentisce. Appunto. Che ne è, in definitiva, delle ali sicure apposte dalla critica alla metafisica, e come si giustifica il nostro paragone della trilogia con le imminenti fasi rivoluzionarie francesi?5 La forza eversiva nella continuità del criticismo effettivamente non manca; e consiste, come ho detto, nel suo manierismo: nell’emblematismo frammentario che rende possibile la fuga nel sistema (e, dopo Kant, il sistema della fuga); nella modularità tematica che ammette anche la separazione dei ruoli dei personaggi e l’inversione dei loro rapporti gerarchici; nella semplificazione, spogliazione delle facoltà logiche, insieme con la pigiatura discorsiva; nell’attivismo moralistico della conoscenza unito al finalismo del giudizio. Nel diversificare le sue sedi logiche Kant fece quel che fa ordinariamente la letteratura coi personaggi; e la sensibilità e l’intelletto, sotto questo profilo, non fanno eccezione. Quanto all’incontro con le ‘masse’, egli ne fu pressapoco il Mirabeau, padre e figlio.   Ai nostri giorni, in verità, sembra volersi ripristinare verso la ‘barbarie’ il sentimento più antico.   Nella Critica del Testo, al primo capoverso de La città celeste.

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Centralità logica di un problema lirico   413

Se non che, l’intelletto vien fatto da Kant entrare in relazione, per un verso, con le vuote forme di una sensibilità ‘di diritto divino’ (diciamo così: una sensibilità che è in quel modo, ed è sempre stata, indiscutibilmente, così per tutti, almeno nelle sue forme a priori dello spazio e del tempo); e per l’altro, sotto l’aspetto di ragion ‘pura’, esso viene fatto entrare in relazione con gl’interessi moralistici di una Ragione di mero potere. In quanto figure logiche di una filosofia politica, dunque, sensibilità e Ragione non possono vantare un autonomo fondamento, perché possiedono princìpi di legittimità che restano, in definitiva, ad esse esterni: rispettivamente nella natura e nella tradizione, l’una; nell’ordine disciplinare o pedagogico e nel potere di fatto, l’altra. Sotto il profilo teorico questa posizione di apparente indipendenza si rivela, in realtà, assai debole per entrambe. Ma l’intelletto no. L’intelletto trae la sua ragione di legittimità (non, ovviamente, i suoi materiali, ossia ciò che Kant chiama materia) nientemeno che da un atto d’immediata conoscenza delle cose come effettivamente sono in se stesse; e quest’atto non è affatto, come Kant vorrebbe, un giudizio, bensì quella formidabile risorsa che è piuttosto il pregiudizio. Non occorre dilungarsi troppo nel mostrare che la definizione del pregiudizio, in qualche rara menzione, vien fatta da Kant dipendere dal giudizio, nel senso che per lui esso altro non è, semplicemente, che un giudizio manchevole o distorto. Sarà sufficiente una breve illustrazione. Nella Critica del giudizio il pregiudizio è semplicemente un pensare con la testa altrui: «La tendenza alla passività, e quindi all’eteronomia della ragione, si dice pregiudizio»6. Nella cosiddetta Logica le ripetute definizioni suonano come le seguenti: i pregiudizi sono «giudizi passeggeri, in quanto assunti come princìpi»; il pregiudizio va considerato come un «principio di giudizi erronei»; essi sono «veri [e propri] giudizi passeggeri, ma è tuttavia falso che ci valgano come princìpi o come giudizi determinanti», come invece risulta da «mancanza di [quell’adeguata] riflessione che deve precedere ogni giudizio» – e via così7. Secondo la ridondanza logica e terminologica del suo stile, Kant inserisce fra i giudizi e i pregiudizi nientemeno che i princìpi; e il lettore non avrà bisogno d’essere avvertito degl’innumerevoli problemi che sorgerebbero, qualora si pretendesse d’instaurare, sulla base di simili definizioni, una rigorosa questione di relazioni logiche tra figure tecniche. È solo interessante constatare che Kant giunge a riconoscere al pregiudizio, almeno, un generico ruolo di cominciamento della conoscenza. Ed ecco infine l’origine dei pregiudizi: «Le principali fonti dei pregiudizi sono: l’imitazione, l’abitudine, l’inclinazione».   Sublime, § 40, capoverso 3.   Introduzione, ix.

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414   epilogo

Anche qui, è impossibile non ricordare i riferimenti all’abitudine e all’inclinazione contenuti nel passo d’apertura dell’Appendice all’Analitica dei Princìpi, che ho analizzato nel primo paragrafo (La Città Animastica) della Logica del Testo. Là, come qua, compare a malapena l’esistenza di una relazione negativa, ma nondimeno necessaria, dei pregiudizi con l’attività della riflessione. Se non che qui compare per giunta l’imitazione – ma anche per essa, come per i princìpi, deve valere il significato della più ordinaria accezione colloquiale: non credo proprio che Kant pensasse all’uomo come animale imitativo di Aristotele. Insomma. Una volta soppressi o anzi semplicemente ignorati i suoi legami con la tradizione (vale a dire col costume, l’educazione, la narrazione, la memoria, e quant’altro), il pregiudizio non trova altro principio di legittimità che in se stesso; ed esso diventa così, diversamente dalla semplicistica opinione di Kant, nient’altro che la natura oscura e pesante del concetto, la sua motivazione per diritto d’istinto, o dal basso: il Gemüth del pensiero astratto, la sua contraddizione in termini. Ce ne sarebbe abbastanza per fare del concetto, drammaturgicamente, un vero e proprio personaggio di carattere, un essere complesso – e del resto lo è: capace, come lo si vede, di trarre fuori da se stesso tutta una serie completa di relazioni logiche per le quali, in definitiva, non gli serve la benché minima materia, bensì dei semplici materiali. Dandone la prova, sarà Fichte a capirlo, iniziando tutto un altro monologo – ma senza parrucche, stavolta. Non così, tuttavia, per Kant. Il quale, dopo avere rimproverato a Leibniz di fare il demiurgo di esseri dotati d’una sola natura, semplice, si limita a mandare in scena altre maschere, a cominciare dalla servetta della sensibilità; e non riesce dunque a portare in filosofia la riforma del teatro comico, lavorando sul personaggio8. La natura tellurica e istrionica dell’intelletto astratto kantiano rimane celata, pur continuando ad agire per automatismo, mentre nella prima Critica ne risalta ancora la sola goffa innocenza ragionante. Ma la liberazione dagl’inutili servigi della sensibilità diventa ben presto il requisito indispensabile dell’etica categorica: la quale sacrifica immediatamente (sin dalla Metafisica dei costumi), insieme con la sensibilità, anche l’edonismo e il perfezionismo impliciti nell’etica leibniziano-wolffiana. Non tutti gl’intellettualismi si equivalgono, per fortuna. È come dire, in termini di teatro, che in questa sua maschera 8   Il paragone drammaturgico non è arbitrario. Fin dalle prime parole della seconda Prefazione alla Critica Kant accenna ad una personificazione delle facoltà logiche, parlando della mancanza di «concordia fra i diversi collaboratori [della ragione] intorno al modo secondo cui dev’essere condotto il lavoro comune».

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Centralità logica di un problema lirico   415

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dell’intelletto (messa in scena da lui, che in qualche polemica non volle gli uomini trattati come marionette, tirate coi fili dall’alto), in questa maschera, dunque, rimane però ben vivo il burattino – vale a dire il suo démone9. *** In tal modo, sotto l’azione di questo démone intellettualistico, il processo del pensiero subisce l’azione inevitabile di una regìa interna, di un servo arbitrio obbligato e obbligante, potenzialmente eversivo d’ogni trama a finale libero o prestabilito dall’autore: il testo gli sfugge di mano; e la logica del testo diventa, a un certo punto, l’unica vera muta potenza di una sempre imminente rivoluzione permanente del sistema filosofico – ciò che del resto si avvererà di lì a poco, infatti, nell’incalzante succedersi dei mirabolanti sistemi romantici. E dopo gli appelli di salvezza pubblica proclamati col moralismo della seconda Critica Kant non poteva dunque concludere la sua fatica che tornando a lavorare sul giudizio, nel senso di attribuire alla critica, almeno, una sicura finalità. Tutto sarebbe stato diverso, forse, s’egli avesse riconosciuto il fondamento pregiudiziale della deduzione categoriale; se avesse riconosciuto nei pregiudizi le tràdite forme complesse della sensibilità, o i materiali (al plurale) d’ogni conoscenza primaria; se avesse fatto di materia e di forma degli a-priori dell’intelletto, analoghi agli a-priori della sensibilità, e in grado di sussumerli in un’esplicita gerarchia o, meglio ancora, di rispecchiarli in una limpida simmetria di facoltà. In tal caso non si sarebbe allontanato dalla 9   Desidero qui far notare che al capo opposto della bisecolare avventura prussiana (che inizia con la Guerra dei Sette Anni e termina con la Seconda Guerra Mondiale) di nient’altro che di questo démone intellettualistico andò poi in cerca un uomo come il Ritter – almeno finché, parlando di un carattere ‘demoniaco’ del potere, si ostinò a porre il problema politico nei termini prediletti da un’antropologia religiosa. Soltanto dopo la seconda catastrofe tedesca egli si decise a formulare il problema in termini diversi, riconoscendo il cosiddetto ‘demoniaco del potere’, piuttosto, nel cosiddetto ‘militarismo’: ossia nella mera logica strettamente consequenziale che vestirebbe, secondo lui, i soli panni corporativi del soldato di professione; mentre essa, spogliata nella sua semplicità elementare di mentalità geometrica, è del tutto accessibile a qualsivoglia pretendente (militare, o no) alla direzione politica, o al semplice potere. Ne ho già parlato nel terzo paragrafo dell’Introduzione. Ma a scanso d’equivoci e d’inutili obiezioni, sarà forse opportuno tornare a precisare che fra intellettualismo e militarismo non vale affatto la convertibilità dei termini, come ho già detto nell’Introduzione: se non altro, per la differenza di grado logico; e poi per la contiguità coi disegni di ragion pura dell’intellettualismo, contro l’indispensabile componente moralistica del militarismo (quei disegni incoraggiano i voli dell’immaginazione, mentre il moralismo li frustra); e infine per la diversità di stili che una generica logica aggressiva del tutto elementare, sillogistica, assume nel militare, nell’accademico, nel politico, nel funzionario, nel pubblicista. È anche ignorando simili distinzioni ch’è possibile introdurre, come fa il Ritter, un termine generico come «bellicismo» – il quale si fa facilmente «assoluto»: ossia tende a diventare, da categoria logica di giudizio professionale, categoria di giudizio antropologico, e addirittura ontologico (contro cui, dunque, non sarebbe possibile sollevare questioni di responsabilità storica; e questo è ciò rende teoricamente possibile il revisionismo storiografico).

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416   epilogo

maggiore tradizione cosmopolita moderna; non si sarebbe immaginato di superarla, e d’andare oltre Leibniz senza averlo mai capito; sarebbe stato meno grande – ma non un falso grande, accontentandosi pressappoco del peso che nella storia culturale tedesca assume un Lessing, che invece fu grande davvero. Così non è stato, tuttavia; ed è inutile indugiare in divinazioni: non è di un altro possibile Kant che qui dobbiamo andare in cerca – così come, del resto, di nessuna cosiddetta ‘altra Germania’. Ma restando sulla natura letteraria del problema, insomma, bisogna dire che non è tanto lo smembramento dell’unità antropologica nella diversificazione drammatica dei personaggi, come tale, che inganna; e non è questo il solo carattere dell’intellettualismo. È anche vero, piuttosto, che la letteratura può svelare l’intellettualismo proprio grazie alla sua natura estesa, mediante le sue distinzioni e le illusioni interamente dispiegate, che aprono l’accesso alla filologia e alla tipologia elementare; mentre la filosofia può generare intellettualismo con una sua pretesa di chiusa e rigorosa compunzione sentenziale, o gergale, o fittamente astrusa. Chi voglia raccontare una storia non a se stesso, per un suo bisogno di effusione sentimentale nel pensiero, bensì ad altrui, e senza tuttavia confessare la motivazione poetica che è sempre in qualche modo contenuta nella ricerca di Dio e dell’anima, o dell’armonia prestabilita e della pace perpetua; chi pretenda di muovere dal nulla, o quasi, fingendo un’ingenuità decostruttiva di presupposti del pensiero che, per problemi assai ardui, devono per forza essere assai immaginosi, complessi e tràditi; chi questo mitemente pretende, insomma, lo faccia pure: e la sua storia sarà, com’è, tediosa ed improbabile, letterariamente fallita quanto i personaggi smembrati in una commedia fatta di soli monologhi e battibecchi. E se poi, col disfacimento dei sistemi, le vuote forme bell’e predisposte dei soli romanzi ammissibili per condizioni e limiti e fondamenti verranno riempite a piacere di altrui contenuti nozionali; se queste pagine bianche verranno vergate da estranee mani avventuriere, com’è inevitabile che avvenga, prima o poi – bene: allora accadrà proprio l’opposto di ciò che si voleva ottenere: non la legittimazione di rette opinioni, bensì lo scrupoloso disarmo delle ferme opinioni. Dopo la rimozione del pregiudizio, e dopo la demonizzazione della facoltà logica, il disarmo delle opinioni è per l’appunto la terza faccia dell’intellettualismo. All’analisi della mente occorre invece procedere non diversamente da come, fin dai primordi della filosofia scritta, ossia del suo essere un genere letterario, si è proceduto all’analisi dell’anima: quando questa fu paragonata a quel fenomeno originario e complesso, già dato, che è la città, dotata o bisognosa di costituzione. E dunque occorre procedere sulla base di una consapevole ana-

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Centralità logica di un problema lirico   417

logia con un’unità politica già data, come tale, fin dapprincipio. Così, che alla complessità dello schema politico prescelto come origine debba corrispondere un’adeguata complessità poetica del pensiero: il quale muove consapevolmente i suoi primi passi su di una base analogica e figurativa. E poiché è soltanto nella più gelosa intimità che il mondo si può dissolvere per rifarsi a piacere, e con piena innocenza, e non senza una qualche infantile pretesa di rigore, penso che abbia avuto ragione chi definì la metafisica nient’altro che una «lirica di concetti»10, propugnando da un capo all’altro della sua vita il significato puramente letterario della filosofia. Interrogarsi circa condizioni possibilità e limiti del giudizio significa interrogarsi sui corrispondenti fondamenti di una retta opinione; e se il giudizio è politico, esso è retta opinione politica, conseguita mediante l’esercizio di una sensibilità di ordine superiore. Questa sensibilità adeguatamente educata non ha, a sua volta, nulla di vaticinante o divinatorio, nulla d’irrazionale o di misterioso. Già originariamente presente quale muta potenza conoscitiva sedimentata con l’esperienza più vasta e variamente trasmessa, la sensibilità giudicante vive poi una vita attuale ed estesa, logica e dialogica, formulare o sentenziale, mediante l’unione di facoltà conoscitive distinte: intellettive e sensibili. In quanto quest’unità (che è in se stessa, a priori, logicamente impossibile) è ben costituita fin dall’origine, soprattutto per forza di tradizione critica e di saggezza (ossia di esperienza ripetuta e suggerita dalla memoria), la sensibilità vive dunque, nell’esercizio del giudizio, come un’unica facoltà complessa: così che ‘complesso’ e ‘superiore’ finiscono insomma per diventare sinonimi, quanto meno nel descrivere la felice soluzione di un rapporto tra facoltà diverse nella relativa stabilità di un giudizio d’opinione motivato dall’osservazione esperta e dalla lunga esperienza. Nel giudizio finale, come già nel pregiudizio, le facoltà non sono più distinguibili. A proposito della lunga durata e della ripetizione dell’esperienza, che sono necessarie alla saggezza del giudizio finale, occorre ripetere che, pur associando senza alcuna giustificazione il senso interno della conoscenza sensibile alla sola dimensione del tempo, nella prima Critica Kant non pensa mai all’esperienza in relazione alla sua durata; né egli mostra mai d’immaginarne un possibile effetto iterativo. Non so quale merito abbia davvero avuto quel voltare le spalle a Hume, dopo essercisi imbattuto, che è stato salutato con esultanza da parte di rinomati studiosi; so però che è stato, per l’appunto, un voltargli semplicemente le spalle – dal momento (diciamolo) 10   Giovanni Papini, Il cerchio si chiude, in ‘Lacerba’, 15 febbraio 1914. E anche Richard Wagner, per esempio, giudicò «apertamente lirico» lo stile di Feuerbach (La mia vita, a cura di Massimo Mila, utet, Torino 1960, I, p. 533).

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418   epilogo

che ogni risveglio deve pure costare la sua buona dose d’ingrata fatica e di risentimento. Né possono bastare a smentire l’assenza in Kant d’ogni apprezzabile attenzione verso l’iterazione o durata dell’esperienza i suoi fugaci accenni al ruolo assolto, nella formulazione del giudizio (ossia del pregiudizio), dall’inclinazione e dall’abitudine: le quali avrebbero potuto innestare su (cioè sotto) la critica una radice antropologica che, invece, ne viene tenuta ben lontana. Se questo innesto fra gnoseologia e antropologia fosse avvenuto, allora, oltre che di criticismo e d’altri ‘-ismi’, si potrebbe effettivamente anche parlare di ‘kantismo’. Ma del resto – si può mai innestare una radice? Si può mai farlo sotto, e non sopra? La metafora impossibile è la cosa stessa impossibile, e la consistenza della logica, una volta ancora, viene messa alla prova dalla plausibilità letteraria. La forza della letteratura sta nel fatto di rappresentare una comunità formata da distinti tipi antropologici come altrettanti rappresentanti di ben distinte facoltà psichiche, semplici ed uniformi in quanto specie originariamente compresenti in un mondo finito: una unità formata da sostanze che, fra puro cielo e pura anima, s’incontrano sulla nuda terra. Ma la forma tràdita di una sostanza altro non è per l’appunto (in quanto la forma è tràdita) che contenuto; e il contenuto non ha di ‘puro’ nient’altro che questa sua forma inseparabile. Poiché tuttavia ogni cosa dotata di una forma originaria, e capace d’azione, diventa inevitabilmente un personaggio, ogni contenuto o facoltà, compresa la stessa ragione ‘pura’, finisce altrettanto inevitabilmente per subire, prima o poi, questa davvero invidiabile metamorfosi in una prosopopea. Essa è generalmente temuta e deplorata, invece, dai filosofi di professione: i quali temono forse, e non a torto, di veder comparire, nella metamorfosi di una facoltà logica in personaggio, la ragione ‘pura’ come ragione ‘nuda’. Ma simile trasformazione in nudo personaggio è precisamente ciò che senza troppo grande sorpresa noi vediamo accadere ogni tanto nelle pagine più farraginose e girovaghe di tanti filosofi, come Kant. Ho iniziato questo studio discutendo di ‘-ismi’ – vale a dire del pesante portato dossografico dell’immaginazione storica; e lo termino qui parlando d’idillio – vale a dire della forma netta e pura, insieme lirica e realistica, dell’immaginazione di un genere letterario. È forse il caso di parlare, per Kant, anche di ‘robinsonismo’11 – sebbene con le dovute differenze: perché Robinson non pretese di fare tutto da sé, ma riuscì per tempo a salvare dal suo relit11   Non si tratta di un neologismo: il termine è già prediletto da Marx, per le sue polemiche antiutopistiche.

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to materiali e strumenti sufficienti al lavoro. La memoria, per giunta, gliene lasciava altri, altrettanto comuni, ma non meno elaborati ed efficaci, come i religiosi; né gli mancavano opinioni, né i pregiudizi più vari. Quello di Robinson è il romanzo di chi è costretto a tutto rifare dopo il naufragio della pura immaginazione avventurosa giovanile, servendosi dei soli strumenti possibili per una nuova avventura dotata, stavolta, di sicuri limiti e condizioni. L’uso sprezzante del termine da parte di Marx, dunque, cade in questo senso a sproposito: Robinson dovette fare proprio quel che volle fare lui, col socialismo ‘scientifico’. Ma l’origine della pretesa è kantiana, così come di ogni altra certezza ideologica. L’oceano insolcato senza fari e senza sponde della metafisica, dal quale Kant, con un dispiego stupefacente di banali sintesi a priori, immaginava di poter tranquillamente uscire per discendere a consultare le sue carte, era stato da millenni qualcosa più d’una trovata puerile: aveva conosciuto ben più d’un navigante e d’un naufrago. Nessuna delle ardue nozioni ch’egli menziona con imperita disinvoltura nelle sue talvolta implausibili immagini potrebbe spiegarsi col ricorso ai suoi distinti a-priori sensibili o categoriali. Né lo dovrebbe, del resto. Non lo potrebbe né dovrebbe, per esempio, quella bussola che già aveva destato la meraviglia di uno Einstein di appena quattro o cinque anni: «Dietro alle cose doveva esserci un che di profondamente nascosto»12. Questo qualcosa era la manifestazione di quelle forze segrete della terra capaci di risvegliare impressioni chiare e indistinte, già altamente complesse, come altrettante forze latenti in una precoce immaginazione infantile.

  Ne ho parlato nell’Introduzione, alla nota 59.

12

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indici

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indice onomastico* Abbagnano, Marian e Nicola 35, 47, 65, 66, 70, 73, 75, 76, 144, 294, 408. Adam, Charles 102, 198, 238, 242, 265, 266, 267, 268, 282. Adickes, Erich 145. Adorno, Francesco 265. Agostino 120, (121), 213, 223, 382. Albertini, Luigi 38, 328. Alighieri, Dante 59. Anassagora 379, (382). Anselmo d’Aosta 195. Arbasino, Alberto 391. Archimede 298. Aristotele 9, 53, (202), (313), 325, 401, 414. Arminio 241. Arnauld, Antoine 29. Assunto, Rosario 25, 83, 91, 190.

Bellone, Enrico 73. Bergson, Henry 136. Berkeley, George 387. Bessel, Friedrich 146. Bianca, Domenico Omero 35, 37, 61, 75, 76, 134, 153, 289, 363, 385, 386. Bismarck, Otto von 43. Boccioni, Umberto 228, 229. Bodin, Jean 34. Boella, Umberto 118, 185. Boezio 265, 296. Boorman, John 233. Boyer, Carl 148. Breitman, Richard 45. Bruno, Giordano 93. Buffon, Georges Louis Leclerc 273. Burckhardt, Jacob 12, 46, 54, 235, 236.

Bach, Johann Sebastian 15, 34, 111, 379. Baldini, Massimo 21. Barraclough, Geoffrey 40. Battaglia, Salvatore 70, 155, 315. Bäumler, Alfred 374. Baum, Lyman F. 233. Bell, Eric T. 148.

Calderoni, Mario 83. Cantoni, Carlo 17. Carabellese, Pantaleo 25, 83, 91, 99, 105, 113, 120, 122, 123, 125, 129, 130, 133, 140, 145, 149, 156, 157, 175, 176, 177, 190, 197, 199, 204, 207, 210, 213, 217-219, 223, 225, 231,

*  L’uso di sostantivi e aggettivi derivati da pa­troni­mi­ci è qui segnalato come luogo non onomastico (fra parentesi) sotto il corrispondente nome di persona, anziché nel­l’Indi­ce Tematico: perché mi sono raramente riferito agli effettivi movi­menti di pen­siero, bensì per lo più alle opere o al pen­siero dei capostipiti. È vero che ciò vale soprattutto per ‘Cartesia­nesimo’, per esempio, mentre vale un po’ meno per ‘He­gelismo’ e per ‘Marxismo’ – ma il notevole peso morfologico del patronimico nel lemma mi ha dissuaso dal­l’operare, in questi casi, una distinzione a favore dell’Indice Tematico. Non così, invece, ‘Plutarchismo’, nel quale il si­gnificato tematico è decisamente prevalente sul significato onomastico. La nozione di ‘Leib­niziane­simo’ è invece for­se la più incerta; e poiché esso non mi sem­bra essere mai esi­sti­to come autentica realtà di movimento d’opinione fuori dai partiti accademici, il riferimento non-onomastico del lemma trova eccezionalmente ospitalità sotto ‘Scolastica’ nel­l’In­dice Te­matico, insieme con tutti i riferimenti alle scuole. Il caso di ‘Spinozismo’ è diverso per­ché, sebbene quasi sotter­raneo, esso si può rap­presentare come una vera metastasi del­l’opi­nione dotta riferita ad un autore, e non come un fe­no­meno di disper­sione fra le scuole. La parola ‘Leib­ni­zianesi­mo’, alla quale il patronimico frequentemente rinvia, com­pare perciò nel testo dap­prima accompa­gnata da un «cosid­detto» (p. 81), poi racchiusa fra apici, ed infine sen­za più inutili cautele.

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424   indice onomastico 235, 242, 243, 248, 251, 261, 271, 284, 286, 288, 289. Caracciolo, Stefano 127. Carlotti, Giuseppe 82, 385. Cartesio, Renato 9, (28), 29, 31, 32, 33, 40, 50, 52, 66, (70), 71, 75, 85, 86, 101, 102, 120, (122), (123), (125), 127, 139, (140), 142, 144, (156), (170), 177, (182), (198), 200, 238, 239, (240), 242, 251, 265, (266), 267270, (274), 282, (288), (299), (300), (302), (313), (314), 355, 375, 377, (382), 384, 409. Cassiodoro 315. Cassirer, Ernst 54 ss., 59, 71, 126, 145. Castoldi, Massimo 391. Caterus (De Kater, Johan) 198, 265. Chiodi, Pietro 174, 179, 180, 216, 306, 307, 308, 309, 310, 312, 317, 319, 321, 326, 330, 331, 332, 337, 340, 349, 358, 372, 397. Churchill, Winston 328. Ciafardone, Raffaele 160, 289. Clausewitz, Carl von 243. Clovio, Giulio 35. Cohen, Hermann 48, 54, 71. Colli, Giorgio 46, 174, 179, 180, 216, 306, 307, 308, 310, 312, 314, 317, 319, 321, 322, 326, 330, 331, 332, 337, 340, 344, 347, 349, 358, 372, 397, 398, 399. Collotti, Enzo 41, 240. Copernico (25), (103), (301), 302. Cotteri, Roberto 145. Couturat, Louis 83, 126, 208. Croce, Benedetto 31, 54, 66, 234, 325. Crusius, Christian August 120, 124, 126. Dahlmann, Friedrich Christoph 101. D’Alembert, Jean Baptiste 139, 147. Damasceno 265. Darwin, Charles 388. Daumier, Honorè 297. De Foe, Daniel 327. De la Motte, Houtard 327. Delaunay, Robert 265. Delbos, Victor 270.

Democrito 190, 284. Denina, Carlo 235. De Sanctis, Francesco 71-72. De Sarlo, Francesco 21. Di Giovanni, Piero 21. Droysen, Johann Gustav 101. Eberhard, Johann August 92. Eco, Umberto 74. Einstein, Albert 73, 74, 419. Eisler, Rudolf 343, 352, 353. El Greco, Dominikos Theotokopulos 35. Epicuro 185, 190. Eraclito (11), 12, 16, 67, 295. Esopo 105, 273. Esposito, Costantino 174, 179, 180, 216, 306, 308, 310, 312, 317, 319, 321, 326, 330, 397, 331, 337, 340, 349, 353, 372. Euclide 105. Eulero, Leonardo 386. Federico II di Prussia 249, (399), (409). Ferraris, Maurizio 74. Fertonani, Roberto 339. Feuerbach, Ludwig 417. Fichte, Johann Gottlieb 10, 43, 134, 300, 409, 414. Fiori, Teresa 228. Fischer, Fritz 38. Frati, Tiziana 35. Freud, Siegmund (259). Fritz, Kurt von 16. Froidmont, Libert 143. Galilei, Galileo 93, (192), 387. Gambillo, Maria Drudi 228. Garavelli, Bice Mortara 312. Garavini, Fausta 15. Garin, Eugenio 10, 66, 267-269. Gassendi, Pierre 23, 29, 32, 34, 86, 144. Gauss, Carl Friedrich 145-146, 148. Gentile, Giovanni (21), 49, (82), 174, 179, 180, 216, 307, 308, 309, 310, 312, 317, 319, 321, 326, 330, 331, 332, 337, 340, 345, 348, 349, 353, 354, 358, 372, 373, (386), 397, 398. Gerhardt, Carl Immanuel 29, 155, 171.

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indice onomastico   425 Giannelli, Maria Teresa 339. Gibbon, Edward 235. Ginzburg, Siegmund 19. Gioia, Melchiorre 10. Giuseppe II d’Asburgo 249. Gobetti, Piero 43. Goblot, Edmond 71. Goerdeler, Carl 101, 240-241. Goethe, Johann Wolfgang 32, 54, (56), 57, 71, (113), 175, (197), 203, 230, 247-249, 298, 337, 339-340, 350, 371, 383. Goldoni, Carlo (203), 409. Gottsched, Johann Christoph 122, 298. Goya, Francisco 297. Gram, Moltke S. 14. Grand-Carteret, John 19. Grosz, Georg 297. Gueroult, Martial 270. Guglielmo II di Prussia 36. Hartenstein, Gustav 308, 310. Hazard, Paul 327. Hegel, Georg W. F. (10), (15), 38, (42), 43, (50), (53), 55, 57, 71, (81), 92, 166, (290), 297, 307, 310, (318), 369, 372. Heidegger, Martin 16, 92. Heidemann, Ingeborg 25, 297. Heine, Heinrich 21. Herder, Johann Gottfried 125, 337. Hessen-Rheinfels, Ernst von 155. Himmler, Heinrich 240. Hinske, Norbert 14. Hitler, Adolf 101, (240). Hobbes, Thomas 28, 32, 61, (62), 63, 66, 76, 127. Hohenegger, Hansmichael 14. Hohenemser, Rolf 25, 83, 91, 190. Huizinga, Johan 235. Humboldt, Wilhelm von 101. Hume, David 5, 11-12, 14, 19, 20, 22, 32, 40, 48, 50, 53, 77, 89, 90, 123, (124), 126, 127, 132-133, 151, 161, 278, 376, 385, 387, 396, 400, 417. Husserl, Edmund 48.

Imbriani, Vittorio 175. Jünger, Ernst 61. Kandinski, Vassili 230. Kehrer, Hugo 35. Keplero 264, 270, 271. Kline, Morris 146, 386. Knutzen, Martin 103. Krylov, Ivan 18, 351. Lachmann, Carl Konrad 326. Lambert, Johann Heinrich 126, 158, 355. Lanza, Maria Teresa 71. Lassalle, Ferdinand 42-43. Lecaldano, Eugenio 12, 22, 32, 49, 90, 401. Leibniz, Gottfried 9, 10, (13), 21, 25, 29, 32, 37, (55), 57, 59, (61), (70), 74, 75, 76, 77, 78, 80, 81 ss., 85, 86, 91, (92), 93, (94), 98, 99, 100, (101), 102, 103, 104, (105), 109, (114), 120, 123 ss., 126, (128), 129, 131, (132), 134, (137), (138), 139, 143, 149, (152), 153, 155, 156, 164, 165, 167, 171173, 178-179, 200, 208, (220), (221), 222, 225-226, 227, 253, 264, 268, (281), 289, 290, (303), (335), (339), 351 ss., 364 ss., 372, (375), 376-378, 380 ss., 396, (401), 409 ss. Leopardi, Giacomo 23, 54. Lessing, Gotthold Ephraim 23, 89, 352, 416. Licurgo 273. Limentani, Ludovico 308. Linneo, Carlo 232. Lobačevskij, Nikolai 146-148. Locke, John 31, 47, 65-66, 69, 70, 72, 73, 75, 76, 77, 90, 101, 144, 169, 200, 294, 376, 408. Lombardi, Franco 70, 71, 85, 92-94, 99-101, 124, 126, 128, 131, 132, 157, 355. Lombardo-Radice, Lucio 146, 307, 310, 312, 317, 319, 330, 340, 345, 348. Lucrezio (230). Lussu, Emilio 61. Lutero, Martino (93), 116-117, (122), 241, (266), 275, (301). Luxemburg, Rosa 43.

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426   indice onomastico Machiavelli, Niccolò 61, 63. Malebranche, Nicolas 99. Mann, Heinrich 100. Mann, Thomas (410). Marconi Lucia 391. Marcucci, Silvestro 145. Marietti, Anna Maria 174, 179, 180, 216, 306, 307, 310, 311, 312, 315, 317, 318, 319, 321, 326, 330, 331, 336, 337, 340, 344, 347, 349, 372, 397. Marinetti, Filippo Tommaso (228). Martinetti, Piero 21. Marx, Karl (10),19, 37, (74), (85), (86), 102, 143, (150), 159, (227), (248), 294, 418-419. Mathieu, Vittorio 353. Mayer, Gustav 43. Mazzoleni, Gilberto 54. Mcgrath, William 229. Meier, Georg Friedrich 284. Meinecke, Friedrich 55, 388. Merlo, Francesco 74. Mersenne, Marin 265. Metastasio, Pietro 12, (233-234), 401. Mila, Massimo 417. Milhaud, Gérard 126. Mirabeau, Victor e Gabriel-Honoré, 412. Molière, Jean Baptiste Poquelin 262. Mondolfo, Rodolfo 16. Montaigne, Michel de 15, 85, 266, 296. Montinari, Mazzino 46. Moravia, Sergio 55. More, Henry 269. Mozart, Wolfgang Amadeus (59). Mugnai, Massimo 82, 164. Muratori, Ludovico Antonio 235. Newton, Isaac 93, 94, (99), 102, (103), (124), (128), 139, 156, (165), 173, 211, 253. Nicaise, Claude 171. Nietzsche, Friedrich 46, (51), 372. Odifreddi, Piergiorgio 74. Olbers, Heinrich 146. Omero (46), 62, 335. Ott, Michela 391.

Ovidio 60. Papini, Giovanni 34, 68, 296, 387, 417. Parmenide 9, (11), (306). Pascal, Blaise 77. Pesenti, Elia 391. Petrarca, Francesco 59, 296. Petrocchi, Ivano 138, 139, 145, 182, 271. Pitagora (11). Platone 9, 12, (24), 29, 33, (37), (47), 53, 58, 68, (70), 81 ss., 91, (105), 171,172, (203), 265, (281), 287, (302), (310), (313), (325), 332, (335), (336), 340, (342), (344), 351 ss., 375, (379), 381382, (403), 404. Poincaré, Lucien 55. Polacco, Giorgio 143. Ponso, Marzia 38. Proudhon, Pierre-Joseph 72. Pupi, Angelo 97, 119, 160, 289. Quaranta, Mario 71, 83. Ratti, Daniela 391. Regio, Enrico 269. Reinhold, Karl Leonhard 96. Ribera, Jusepe de 4, 35. Ricciardi, Antonio 391. Rickert, Heinrich 49. Riconda, Giuseppe 183, 186. Ritter, Gerhard 36 ss., 42, 43, 95, 240, 328, 375, 388, 415. Romagnosi, Giandomenico 21, 23, 55. Rousseau, Jean Jacques (124), 169, 352. Rüdiger, Andreas 126. Sabbatucci, Dario 54. Sachs, Curt 112. Salvi, Ugo 391. Scheler, Max 90, 91 ss. Schiller, Friedrich 91. Schmid, Carl C. E. 353. Schmitt, Carl (258). Schönberg, Arnold 110-111. Schopenhauer, Arthur 21, 49, (51), 53, 96, (310), (318). Schulze, Gottlob Ernst 91 ss., 101, 133, 134, 352, 401.

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indice onomastico   427 Schumacher, Heinrich Christian 148. Selmi, Elisabetta 401. Seneca (118), 185. Severini, Gino 229. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper 265. Shakespeare, William 12. Shirer, William 328. Silesio, Angelo 293. Silhon, Jean 265. Smith, Norman Kemp 14, 20, 50 ss. Socrate (25), (72), (103), 128, 287, 299, (301), 302, 396. Sorel, Georges 43. Speer, Albert 44. Spinoza, Baruch (10), (13), 53, 65, (66), 69, 70, 71, 85, 86, 99, 100, 101, 102, 123, (126), (143), (151), 170, 171, (181), (199), 200, 201, 239, (249), (256), 264, (271), (286), 299, 303, (304), (306), 307, (310), (319), 376377, 379, (385), 400, 407, (409). Stanislavskij, Konstantin 28. Stein, Heinrich Friedrich Karl 101. Stoll, André 297. Stravinskij, Igor 112. Swift, Jonathan 145. Talete 25. Tannery, Paul 102, 198, 238, 242, 265, 266, 267, 268, 282. Taràn, Leonardo 16. Tavella, Marina 391. Taylor, Telford 44.

Tempel, Ursula 38. Teofrasto 16. Timpanaro, Sebastiano 259. Tocqueville, Alexis de 55. Thomasius, Christian 155. Tolomeo (25), (301). Tommaso 265. Tonelli, Giorgio 145. Torricelli, Evangelista 133. Tycho Brahe 25. Vaihinger, Hans 14, 28, 50, 285. Vailati, Giovanni 68, 70, 83, 407. Valgimigli, Manara 33. Valla, Lorenzo 23, 86, 108, 273, 342. Venturi, Lionello 228. Verdinois, Federigo 351. Voltaire, François-Marie Arouet 284, 332, 352. Vico, Giovanbattista 71, 352. Vieusseux, Giovan Pietro 55. Wagner, Richard 83, 388, 417. Wheen, Francis 19. White, Andrew D. 143. White, Hayden 19. Whitehead, N. Alfred 71. Windelband, Wilhelm 49. Wolff, Christian (93), 98, 109, (123), 165, 173, 179, (199), 222, (300), (302), 307, (310), (324), (334-335), (409), (414). Zeller, Eberhard 101.

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indice tematico* Abitudini 358, 413-414, 418. Affezioni 178, 300. Amministrazione 10, 47-48, 58, 63, 154, 156, 374, 398, 400. Analisi 212-213, 219, 302. Analogia 57, 64 ss., 79, 122, 140, 157, 193, 222, 255, 280, 282, 284, 285, 300, 302-320, 322, 335, 341, 369, 416-417. Anarcosindacalismo 43, 85. Anima 257, 286. Anti-intellettualismo 230. Antropologia 18-19, 29, 32, 37, 38, 44, 64, 66, 77, 86, 90, 96, 113, 115, 116,

117, 120, 121, 122, 197, 203, 266, 298, 342, 343, 354, 359, 411, 418. Applicazione 254, 320. Archetipi 69 ss., 273, 331. Arte 228 ss. Attivismo 23, 43, 52-53, 64, 76, 86, 95, 98, 142, 153, 171-172, 229, 240-241, 256, 381, 405, 412. Atto 354, 357. Attualità 253. Autismo 31, 140, 332. Barbarie 42, 43 ss., 56, 57, 83, 103, 206, 228, 229, 233, 264, 283, 310, 375, 392.

*  Il seguente indice è stato compilato a solo scopo topologico, ed è del tutto funzionale all’interpretazione consegnata in questo studio. Esso non costituisce affatto una guida alla silloge tecnica o ese­ ge­ti­ca della no­men­clatura di Kant. La linea polemica della trattazione renderà facil­mente distin­gui­bi­le in ogni singolo caso ciò che è suo da ciò che è mio. Poiché l’uso dei verbi è uno dei più sottili strumenti di modulazione nell’arte kantiana della fuga o della cosmesi spe­cu­lati­va, ho riunito i riferimenti sotto la voce ‘Verbi’. Altrettanto sottile è il ricorso di Kant ad espe­dienti terminologici e gram­ma­ticali più vari e frammentari, del tutto occasionali (con la sola eccezione di ‘Tra­scen­den­tale’, che è un poema a sé stante), i quali val­go­no caso per caso, e non si possono riunire in un reper­torio sotto voci distinte senza farne l’embrione di un manu­ale di reto­rica kantia­na. La voce ‘Retorica’, per l’appunto, li raccoglie tutti, insieme con le fihgure retoriche e coi giudizi sul­lo stile prosastico, mentre ‘Letteratura’ possiede una ge­nerica di­ gnità indipendente, e fa talvolta le veci di ‘Filosofia’.   Avverto il lettore che anche in altri casi svariati termini sono riuniti in un unico. Il caso più importante è ‘Sentimento’, che riu­nisce i significati di Gemüth, Animus o Animo, Senso, Centro conoscitivo, Unità radicale, Unità o Radice antropologica della conoscenza, e i significati d’ogni altra con­simile espres­ sione con­gru­­en­te, di significato opposto a ‘Unità apicale’. Per il resto, per esempio, ‘Bi­partizione’ com­ prende i riferimenti a Dualismo e simili, mentre ‘Cosa in sé’ comprende Noume­no ovvero Og­get­to in sé. ‘Storicismo’ assimila Filosofia della storia. ‘Fonda­mento’ riunisce Fondazione e, per ragioni di semplicità, Condizio­ne, men­tre sot­to ‘Gra­dazione’ si trovano anche i signi­fic­ ati di Approssimazione e di Con­tinuità. ‘Soggetto’ riunisce i riferimenti a Essere Complesso, e ad ogni simile unità problematica di più sostanze. ‘Costituzione’ com­pren­de i più rari riferi­menti alla Personalità, alla Composizione e alla Natura dell’oggetto, mentre sotto ‘Rela­zio­ne’ e ‘Rapporto’ si tro­va­no anche, ri­spetti­va­men­te, i più rari ri­fe­rimenti a Esteso e a Inesteso o a Nesso. ‘Inversioni’ rinvia ai luoghi in cui si tro­va­no in genere Umkippungen, nonché ogni specie di formule simmetriche a scambio o a corrispon­denza. ‘Ma­tematica’ com­pren­de i riferimenti a Geometria, e così pure ‘Fisica’ comprende le menzioni di Forze. ‘Rever­si­­bi­li­tà’ comprende Ridu­zione, Decostruzione e Ricostruzione del­l’og­getto secondo il pensiero. ‘Cellule seminali’ del­la critica rinvia a qualche seme che contiene sviluppi di particolare valo­re in di­rezione di una qualsiasi delle tre Critica: il lemma mi è sembrato più appropriato di Precritico. Ma anche in que­sto caso ho dovuto rinunciare a segnalare la mag­gior parte dei troppo nu­merosi riferimenti. Per lo stesso motivo ho ri­nunciato ad elencare i frequentissimi riferimenti al­la Sensibilità, al­l’In­tel­letto e alla ragion pura o generica (minuscola).

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430   indice tematico Bellicismo 36, 37, 415. Bello 192, 273. Bipartizioni 15, 28, 55, 71, 80, 121, 125, 139, 158, 160, 202, 203, 220, 245, 251, 273, 284, 300, 304, 319, 322, 333, 335, 339, 354, 357, 362, 372, 377. Buon senso 23, 122, 149, 177, 207, 250, 283.

Costituzione 21, 37, 38, 41, 60-61, 64, 95, 130, 155, 159, 161, 162, 167, 171173, 180-181, 198, 237, 238, 240, 266-267, 270, 371, 395, 416. Criticismo 15, 28, 29, 41, 52, 53, 79, 83, 89, 91, 96, 98, 100, 101, 134, 166, 168, 187, 226, 293, 377, 389, 405, 410.

Carattere 54. Categorie 74, 80, 90, 94, 95, 133, 137, 157, 163, 168, 211, 217, 234, 303, 316, 324, 330, 354 ss., 369-370. Causa 52, 95-96, 99-103, 113, 123, 125, 127, 132-133, 135, 136, 160, 175, 205, 211, 213, 251, 303, 352, 401. Centro 19, 72, 78, 117, 138, 171, 245, 253, 257, 258, 261, 326, 338, 340, 354, 384, 404. Cellule seminali della critica 78, 157, 160, 163, 169, 181, 205, 206, 237, 246, 247, 255, 263, 275, 276, 309, 336, 347, 349. Cinema 12, 58, 161, 387. Civiltà 56, 57. Concetti dati 367, 372. Concetti della/nella riflessione 368. Concetti insolubili o fondamentali 231, 233, 235, 236. Concetti puri 312-313, 318, 323. Concetti semplici 251, 352, 367. Concetto 34, 74, 79, 83, 157, 158, 162, 177, 178, 182, 183, 212, 214, 217, 220, 251, 287, 314, 315, 317, 322, 327, 330, 332, 336-337, 342, 344, 347, 354 ss., 364 ss., 372. Concetto concreto 320, 350. Conoscenza 200. Contenuti 372. Contraddizione 245 ss., 257 ss. Corpo 17, 23, 28, 32, 57, 62, 64, 95, 120, 142-143, 148, 150, 157, 177, 267-269, 279, 286, 288. Cosa in sé 21-22, 49, 53, 81, 89, 96, 103, 123, 133, 162, 164, 177, 195, 216, 227, 333, 351 ss., 368, 372, 388, 400, 401, 403, 405, 413.

Deduzione 20, 72, 79, 127, 134-137, 153, 156, 157, 162, 213-214, 311-314, 316, 320, 415. Definizione 208-210, 214-215, 218-219, 225, 251. Democrazia 159. Demoniaco 240, 415. Determinazione 325. Direttorio logico 174, 175, 231, 277, 329, 358, 395. Disordine 190, 220, 248, 253, 333, 334, 374, 404. Dogmatismo 75 ss., 76, 79, 89 ss., 102, 124. Dogmi 397. Dovere 246. Dramma speculativo 30. Egemonia 53, 57-58, 229. Emanazione 12, 85. Emblematismo 379, 383, 412. Empirismo 74 ss., 92, 93, 124, 144, 367. Essenza 11, 13, 67, 85, 143, 154, 155, 172, 220, 267, 300, 304, 319, 341, 384, 386. Esterno 22, 114, 139, 162, 165, 166, 203, 212, 257, 271, 278, 288, 316, 319, 335, 355 ss., 364 ss., 371, 378 ss., 388. Estetica 9, 13, 18, 64, 155, 299, 301, 316, 327. Estetismo 137, 325, 386. Fenomeno 319-323, 340, 351, 368, 388, 400. Fenomenismo 53, 82. Fenomenologia 21, 48. Figura 67, 181-188, 194, 279, 331. Filologia 9, 13, 97, 140, 162, 171, 236, 241, 264, 324.

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indice tematico   431 Filosofia 70, 171, 225, 232, 238, 287, 290, 297, 300, 411-412, 416. Filosofia dei valori 48-49, 405. Filosofia politica 13, 24, 53, 54, 59, 62 ss., 143, 162, 187, 226, 234, 258, 275, 296, 365, 375, 390, 403, 413. Finalità 277, 295, 375, 412, 415, 417. Fisica 138, 140, 242 ss., 245 ss., 253. Fondamento 18, 29, 86, 91, 98, 102, 119, 136, 157, 168, 170-171, 186, 205, 214, 222, 226, 233, 240, 257, 283, 304, 305, 317, 318-320, 323, 341, 344, 349, 352, 363, 369, 371 ss., 382, 384, 389, 410. Fondo 29, 353. Forma 11, 12, 18, 55, 57, 63, 65, 67, 90, 95, 97, 105, 112, 116, 154 ss., 158, 160, 183, 266, 271, 298, 316, 318319, 320-322, 331-333, 344, 346, 348, 352, 359, 363 ss., 370 ss., 380 ss., 390, 407, 413, 416. Forma data per sé sola 373. Formale 183, 191. Formalismo 41, 43, 65, 89 ss., 100, 102, 168, 316, 344, 348, 354, 372-373, 375, 380-381, 386, 397. Formule logiche secondarie 77 ss., 168, 184, 286, 289. Forze 157-158. Forze deboli 61, 63, 112. Garanzia 375-376. Genere 337-338. Generi reali 312-313. Geometrie non euclidee 145. Gerarchia 274-275. Giudizio di riflessione 369. Giudizi fondamentali 236. Giudizio 13, 28, 40, 79, 135-136, 137, 162, 172, 210, 214, 233, 251, 295, 300-301, 303, 315, 336, 337, 338, 356 ss., 364 ss., 378, 390. Giudizio politico 24, 40, 45-47, 234, 296, 327-328, 417. Gradazione 21, 29, 78, 80, 81, 93, 120, 125, 132, 139, 141-142, 151-152, 165, 171, 172, 178, 200, 220, 227, 252, 330, 339, 365, 368, 380, 386.

Idea 71, 76, 105, 182, 218, 241, 303, 309, 312, 313, 324-325, 327, 328-332, 336, 337, 341-343, 361, 366, 369. Ideale 314-316, 324-325, 330-333, 341, 344, 361. Idealismo 13, 21, 22, 28, 33, 43, 57, 81, 83, 85, 93, 137, 153, 162, 164, 306, 308, 318, 320, 324, 333-334, 366, 381. Imitazione 11, 47, 58, 68, 85, 117, 171, 254-255, 281, 356, 382, 413-414. Immaginazione 169. Impero 38, 47-48, 95, 156, 159, 247-249, 300, 334, 399, 408, 409, 410. Implicazione 211. Impressione 27, 28, 30, 49. Inclinazioni 358, 413-414, 418. Infinito 191, 192, 387. Intellettualismo 9, 13, 18, 19, 20, 23, 24, 28-31, 33-35, 36 ss., 42 ss., 48-49, 5153, 64-65, 68, 71, 75, 78, 79, 80, 81 ss., 86, 91 ss., 98-99, 101, 106, 108, 109, 115, 121, 123, 130, 136-137, 139, 149, 162-164, 170 ss., 180, 196, 199, 209, 227, 232, 237, 238-239, 240, 254, 264, 268-271, 283, 295, 315, 322, 328, 330, 333-335, 341, 343, 349, 351 ss., 364 ss., 369, 371, 373-375, 380 ss., 397, 404, 408 ss. Interiorità 19, 244, 266, 332, 382. Interno 22, 116, 136, 139, 172, 182, 183, 202, 203, 212, 257, 271, 278, 279, 288, 316, 319, 335, 343, 355 ss., 364 ss., 371, 378, 388. Intrinseco 199-200, 205. Intuizione 29, 67, 74, 77, 79, 105, 128, 135-136, 137, 157, 158, 173, 177, 180, 198-199, 202, 203, 207 ss., 218219, 223, 225, 229, 233, 265, 316, 333, 340, 351 ss., 369, 371, 374, 401. Inversioni 25, 34-35, 51, 103, 138, 143, 158, 160, 169, 175, 181, 188, 203, 206, 208, 223, 224, 232, 254-255, 258-260, 286, 288, 297, 301, 323, 403, 404. Irrazionalismo 24, 36, 372. Kantismo 10, 18, 33, 48, 50, 53, 96, 169, 187, 195, 418.

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432   indice tematico Legge 138, 156, 158, 159, 175, 239, 246, 248, 249, 348. Letteratura 12, 18-19, 56, 60-61, 72-73, 98, 102, 104, 105, 155, 184, 203, 236, 252, 253, 282, 315, 331, 337, 343, 363, 371, 396, 409 ss. Libertà 55, 57, 64, 76, 86, 99, 101, 108, 113, 114, 115-119, 120-121, 139, 149150, 152, 238-239, 346-348, 415. Manierismo 9, 24, 25, 29, 31, 33, 34, 35, 43, 66, 69, 71, 86, 98, 102, 108, 137, 139, 167, 170-171, 216, 255, 261, 285, 290, 300, 311, 352, 376, 379, 383, 397, 408 ss. Matematica 32, 70, 116, 125, 127, 139, 155, 196, 207 ss., 215 ss., 221, 224225, 227, 231, 232, 240 ss., 250-252, 360, 385, 397. Materia 18, 271, 298, 321, 363 ss., 370 ss., 385, 415. Materiale 183. Materiali 66, 191, 320, 321, 327, 331, 413, 419. Materialismo 23, 47, 190, 226, 256, 365, 380. Memoria 223, 268-269, 278, 357, 383. Mentalità 10, 20, 22-23, 24, 36, 39, 59, 64, 94, 100, 186, 197, 220, 240-241, 258, 274, 316, 332, 365, 371. Metafisica 12, 197, 207 ss., 250-252. Mezzo 243-244. Militarismo 36 ss., 42, 43, 375, 403, 415. Moralismo 19, 23, 41, 104, 121, 144, 162164, 173, 190, 206, 239, 241, 283, 342, 348, 399, 401, 403, 405, 410, 415. Motivazioni 295. Movimento 385. Musica 15, 30, 110 ss., 170, 329, 356, 363, 377, 379, 388. Natura 180-181, 267, 272, 337, 341. Naturalismo 29, 34, 408. Necessità 192-193. Neokantismo 33, 48 ss., 50, 53, 83, 195, 227, 230, 231, 270, 285, 290, 299, 394.

Neoplatonismo 10, 11, 13, 70, 149, 203, 310, 313, 340, 343. Nominalismo 220-221, 224. Novecento 10, 13, 16, 23-24, 36 ss., 44 ss., 54, 58, 59, 62, 72, 85, 95, 100, 101, 169, 226, 227 ss., 239, 240-241, 258, 294, 301, 327, 374, 375, 383, 388, 409. Nozioni 11, 20, 40, 60, 67, 76, 77, 83, 155, 196, 226, 233-234-235, 252, 337, 393, 402, 410, 419. Nulla 245 ss., 256, 257, 261, 271. Omissione 241 ss., 262, 263, 272. Ontologia 18. Operazione 354. Opinione 11, 19, 20, 27, 28, 29, 47, 69, 98, 102, 158, 290, 296, 324, 327, 353, 355, 360, 370, 389, 392, 397, 402403, 409, 416-417. Opposizione reale 126, 242 ss., 255, 257 ss., 353. Osservazione 129, 171. Paradigma rivoluzionario francese 334, 401, 412, 415. Partecipazione 11, 47, 58, 68, 85, 117, 172, 382. Passioni 392, 397. Pensiero 198. Pietismo 29, 93, 186, 236, 244, 245, 257, 335, 339, 353, 378, 382. Plutarchismo 331, 391. Politica 10, 24, 36, 39, 43, 47, 67, 85, 155, 243, 267, 325, 398, 400, 410. Potenza 63, 76, 100, 172, 253, 258, 261, 310, 357. Positivismo 37, 53, 81, 148, 334. Possibilità 104, 108, 110, 149-150, 158, 160, 164, 195, 201, 205, 324, 373, 382. Pragmatismo 83, 144. Pregiudizio 13, 20, 28, 29, 40, 46, 47, 54, 56, 59, 72, 76, 79, 96, 137, 144, 159, 162, 176, 226, 238, 239, 242, 274, 276277, 295, 351, 359, 365-366, 413, 417. Princìpi di coesistenza e di successione 107, 113, 121.

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indice tematico   433 Princìpi di identità e di contraddizione 106 ss., 112-113, 123 ss., 128, 133, 134, 135-136, 150, 153, 154, 199, 251. Principio di ragione determinante o sufficiente 107-108, 124, 164, 289, 308, 407. Pubblicistica 327-328. Pubblico 142, 144, 149, 190, 205, 218, 275, 359. Quadripartizioni 370, 378. Ragione 30, 38-39, 41, 78, 112, 186, 187, 247-250, 273, 301, 306, 359, 376, 377, 389, 390, 395-402, 404, 410, 413. Ragione naturale 90, 91, 207, 215, 396. Rapporto 12, 67, 131 ss., 143, 154-156, 182, 385. Rappresentazione 16, 21-22, 49, 51, 53, 77, 79, 96, 117-118, 120, 125, 140, 157, 168, 177-178, 182, 183, 226, 229, 285-286, 308, 309, 317, 318, 319, 356 ss., 365, 369. Razionalismo 92. Regressi 160, 251, 254, 257, 380. Relazione 11, 12, 67, 131 ss., 143, 154, 380, 384. Resto 256. Retorica 37, 38, 57, 61, 65, 70, 95, 104 ss., 115, 118, 120, 128, 130, 152, 174181, 181-182, 204, 205, 213, 215, 220, 224, 237, 253, 254, 266, 273274, 282, 302, 302-303, 306, 309, 315, 322, 336, 338, 345, 347, 348, 367, 397, 399, 404, 418. Reversibilità 49, 81, 83, 172-173, 208-210, 227, 228, 231, 234, 235, 269, 366. Revisionismo 36 ss., 328, 388, 415. Riflessione 356 ss., 363 ss., 378, 390, 416. Robinsonismo 418-419. Rococò 31, 329, 368. Scetticismo 89 ss., 103, 162. Schemi 66, 69 ss., 167, 168, 234, 316, 330, 369. Scritti politici 59. Scuole accademiche 9, 46, 82, 176, 177, 186, 188, 191, 221, 249-252, 264,

269-270, 275-276, 281, 282, 283, 300, 334, 338, 390, 408. Senso comune 60, 90, 105, 142, 192, 199, 235, 238. Sentimentalismo 411. Sentimento 17, 28, 32, 38, 52, 59, 62, 78, 90, 95, 117-118, 122, 159, 168, 174, 183, 193, 207, 226, 227, 234, 236, 237, 244, 249, 264-273, 278, 283, 316, 321, 326-327, 330, 333, 343, 354 ss., 369, 390, 401, 403, 411, 414. Silenzio 20, 27, 28, 47, 72-73, 75, 97, 136, 171-172, 188, 383. Sintesi 212-213, 219. Sintesi a priori 20, 28, 30, 38, 46, 56, 64, 74, 82, 98, 105, 112, 129, 137, 157, 173, 174, 182, 191, 196, 211, 222, 279, 294, 295, 298, 302, 305, 315, 316, 331, 333, 391, 393, 410, 419. Sistema 14, 48, 86, 91, 154, 169, 191, 328-330, 335, 409. Soggetto 244, 252, 270, 304, 371, 388. Sostanza 11, 13, 67, 85, 86, 103, 143, 150, 154, 155, 172, 299-300, 304, 319, 325, 366, 384. Sostituzione 51, 53, 83, 320, 322-323. Spazio 18, 56, 77, 99, 103, 112-113, 120, 123, 131, 136, 140, 142, 146, 148, 156, 157, 162, 165, 182, 203, 204, 207, 217, 278, 288, 289, 316, 318, 352, 355 ss., 364 ss., 371 ss., 381 ss., 403. Specie 337, 338, 387. Spiegazione 208, 214-215, 219. Spirito 66, 354, 385. Stato 47-48, 130, 156, 249, 399, 410. Storia della cultura 54, 74, 241. Storia delle dottrine 13, 60, 62 ss., 77, 79, 148, 353, 379, 390. Storicismo 10, 16, 22, 33, 57, 58, 74, 82, 85, 91, 99, 100, 157, 222, 231, 239, 306, 383, 388, 408. Storiografia 19, 327-328. Struttura 37. Sturm und Drang 144, 225, 253, (408). Sublime 191-192, 273.

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434   indice tematico Tatto 321, 356. Teatro 19, 64, 66, 78-79, 99, 131, 203, 247, 250, 287, 329-330, 363, 378, 389, 394, 396, 400, 410, 412, 414. Tempo 18, 56, 77, 84, 112-113, 136, 162, 172, 183, 207, 213, 217, 223, 278, 287, 288, 289, 316, 318, 343, 352, 355 ss., 364 ss., 371 ss., 381 ss., 388, 403. Teoria della relatività 144. Trascendentale 30, 82, 128, 167, 173, 174, 179, 183, 222, 228, 299, 335, 363, 377. Trilogia mediocritica 84.

Tripartizioni 15, 71, 78, 115, 121, 203, 245, 258, 330, 370, 403, 404. Unità apicale 265, 353. Verbi 80, 152, 157, 172, 174, 212, 260, 272, 280, 289, 304, 305, 308, 309, 314, 320, 321, 323, 324, 325-326, 330, 338, 344, 353, 369, 397. Volontà 16, 49, 64, 86, 96, 115, 119, 159, 163, 238-239, 240, 242, 256. Zero 245 ss., 256, 257 ss.

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Finito di stampare nel gennaio 2007 da Grafica Editrice Romana

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