Nuove lezioni di estetica
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LEXIS VI Idee delle arti Collana diretta da Fernando Bollino

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FERNANDO BOLLINO

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Nuove lezioni di estetica

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© 2011 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

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Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

Bollino, Fernando Nuove lezioni di estetica / Fernando Bollino. – Bologna : CLUEB, 2011 158 p. ; ill. ; 21 cm. (Lexis. 6., Idee delle arti ; 12) ISBN 978-88-491-3518-3

Realizzazione grafica di copertina di Oriano Sportelli (www.studionegativo.com) Immagine di copertina: Melozzo da Forlì, Angelo musicante con liuto (affresco, 1474 ca., part.); ritratti fotografici di Giovanni Pascoli, Luciano Anceschi, Benedetto Croce, Ernst H. Gombrich. Ideazione grafica dell’immagine di copertina di Enrico Bollino

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di aprile 2011 da Studio Rabbi - Bologna

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Indice

I. Discorso generale § 1. Estetica e filosofia § 2. Sistemi chiusi e domande aperte

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II. Definizioni dell’estetica § 1. Campo dell’estetica e ricerca lessicale § 2. Etimologia § 3. Baumgarten: il “battesimo” dell’estetica § 4. Dopo Baumgarten: usi del termine “estetica”

25 30 31 42

III. L’estetica prima dell’estetica § 1. Quando “nasce” l’estetica? § 2. Il bello (fra Omero e Voltaire) § 3. L’arte (Platone e Aristotele) § 4. Il sistema delle belle arti (da Batteux a Kant)

49 59 65 71

IV. Definizioni dell’arte § 1. La risposta dei poeti Le poetiche dell’oggettività (da Montale a Pascoli) § 2. La risposta degli scienziati La funzione poetica (Jakobson) § 3. La risposta degli storici Il paradosso dell’Arte (Gombrich) § 4. La risposta dei filosofi Il Sistema chiuso (Croce)

81 83 102 102 113 114 121 125

V. Modelli di metodo § 1. La posizione di Luciano Anceschi § 2. Glossarietto neofenomenologico

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I.

Discorso generale

§ 1. Estetica e filosofia “Di che cosa stiamo parlando quando usiamo il termine estetica?” Per cercare di rispondere a questa domanda siamo indotti a interrogarci ulteriormente su quale sia la natura della disciplina così denominata, e dunque sul suo campo di esistenza, sulla sua storia, sui suoi oggetti, e così via. Tuttavia, ancor prima di cercare delle risposte adeguate ci rendiamo conto che già nel momento in cui poniamo questa serie coerente di domande in ordine all’estetica come disciplina presupponiamo, a monte, un orizzonte teorico e metodologico entro cui quelle domande sembrano acquistare senso. Così, di passaggio in passaggio, e nel tentativo di rendere esplicito ciò che è implicito nello stesso atto del domandare, ci troviamo a fare i conti con questioni generali che concernono la diversità degli orientamenti, degli sfondi, dei contesti filosofici che vengono messi in gioco. In definitiva, come sottolinea anche Luciano Anceschi, quando arriviamo a porci le domande fondamentali dell’estetica sen7

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Discorso generale

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tiamo al tempo stesso l’esigenza di alcuni preliminari chiarimenti circa la stessa idea di filosofia e quella connessa di esperienza.1 Dunque: di quale filosofia parliamo? di quale estetica? Occorre preliminarmente sgombrare il campo da alcuni arroccamenti mentali, da alcuni atteggiamenti aprioristici, evitando di rinchiuderci passivamente nella gabbia di un sistema di presunte certezze falsamente rassicuranti. A mo’ di prologo si potrebbe cominciare con una storiella zen. Un ubriaco torna a casa. Barcolla. Non riesce a mettere la chiave nella toppa. Dopo alcuni tentativi, gli cade. Deve cercarla, se vuole entrare. Dopo una mezz’ora, passa un signore. Sotto il lampione che illumina la strada vede, subito riconoscibile, l’ubriaco che si aggira circospetto. – Buon uomo che avete perduto? – Stavo entrando in casa, ma mi è caduta la chiave. La sto cercando. – Ma come – replica il distinto signore – se avete perduto la chiave sull’entrata di casa, come mai siete sceso fin qui a cercarla? – Perché c’è la luce del lampione

Il commento del pedagogista Giuseppe Bertagna è illuminante – è proprio il caso di dirlo – perché mette bene in chiaro il senso profondo di questo aneddoto: Anche noi, come l’ubriaco, siamo prigionieri delle luci che abbiamo in testa. Abbiamo la tendenza a ricondurre tutto a esse. Dimenticando che le chiavi perdute alle porte di casa non potremo mai trovarle lì. Invece ci comportiamo come se fosse vero. […] Spiazzarci ci costa troppo. Meglio la sicurezza garantita delle nostre idee che l’ansia determinata dal sospetto che possano essere né vere, né utili, e che sarebbe ora di cambiarle.2

Dunque, s’impone già qui un primo orientamento del pensiero: da un lato troviamo la logica rassicurante delle idee date per vere e acquisite una volta per tutte, dall’altro l’ansia del dubbio e di una ricerca mai conclusa nell’ordine del continuo cambiamento. Si tratta allora, per noi, di optare senza remore per un atteggiamento intellettuale aperto e com-prensivo, per una filosofia che non teme, per così dire, gli spiazzamenti del pensiero e dell’espe8

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Discorso generale

rienza e che anzi se ne alimenta. Ci conforta molto, in questo senso, il richiamo di Immanuel Kant che troviamo nelle prime righe di in un suo celebre scritto del 1784:

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L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!3

E ci aiuta anche, per altri versi, un passo di John Dewey molto caro ad Anceschi. A proposito della necessità di un “risanamento” della filosofia Dewey, nel 1917, parla in specifico di due diverse modalità secondo cui si attua il processo di cambiamento e di sviluppo intellettuale dell’umanità, una modalità quantitativa, orizzontale, continuista, e una modalità qualitativa, verticale, e di rottura: Il progresso intellettuale ha luogo in due modi. Talvolta l’aumento della conoscenza viene organizzato attorno a vecchie concezioni, e queste vengono allargate, elaborate, e raffinate, ma non seriamente rivedute e tanto meno abbandonate. Altre volte tale incremento richiede un mutamento qualitativo piuttosto che quantitativo; cambiamento, non aggiunta. Le menti degli uomini diventano fredde verso i problemi che precedentemente erano stati loro, idee che erano di palpitante attualità illanguidiscono, interesse una volta urgenti appaiono lontani. Gli uomini si volgono in altra direzione. Le loro perplessità passate sono irreali, mentre emergono considerazioni ritenute trascurabili. Può darsi che gli antichi problemi non siano stati risolti: ma essi non premono più per ricevere una soluzione.4

Muniti di queste avvertenze (ma in tal senso potremmo anche utilmente richiamarci a una certa lettura del pensiero di Socrate, di Montaigne o di Cartesio) ci sembra che, nel rispondere alle nostre domande iniziali, sia conveniente adottare un metodo capace di ri(con)durre a verità parziali, culturali e storiche, il dogmatismo delle risposte che si propongono come assolute e definitive. E ci sembra in definitiva conveniente riconoscersi in un’idea di filosofia che privilegi l’interrogazione sistematica, il dubbio sempre 9

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rinnovato che l’accompagna, e l’intenzione di comprendere senza chiusure aprioristiche l’articolata, e a volte contraddittoria, molteplicità con cui i fenomeni si danno nella nostra esperienza. Una tale conquistata consapevolezza non è affatto pacificante, anzi richiede un’attiva tutela degli spazi di libertà intellettuale che presuppone. Riporto un episodio specifico. Qualche anno fa un politico di provincia, a proposito dell’iniziativa presa in alcune scuole di promuovere una meditazione critica sui valori della democrazia che, nelle intenzioni, si sarebbe dovuta concludere con un dibattito tra i giovani e due studiosi di opinioni diverse prendendo come spunto la lettura del Dialogo intorno alla Repubblica (Laterza 2001) di Norberto Bobbio, non solo ha richiesto pubblicamente il ritiro del libro dalle scuole interessate, ma ha anche inviato una lettera personale ai docenti nella quale, dopo aver espresso la sua preoccupazione di genitore nel vedere i giovani privati di proposte educative “positive”, lamentava sul piano culturale la scelta del filosofo torinese etichettato con queste parole: ”Un filosofo del dubbio che per sua stessa ammissione non ha nulla da proporre alle giovani generazioni in quanto nega la possibilità di una risposta alle domande ultime della vita, ben lontano dal dubbio esistenziale di Leopardi […]. I giovani non hanno bisogno di affogare nell’ideologia del dubbio”. A certe posizioni che paiono del tutto in-sensate verrebbe da ribattere che denunciare i rischi del dogmatismo non significa per ciò stesso, come ha ripetuto più volte Anceschi, scivolare nello scetticismo. E ricordo che un grande illuminista come Denis Diderot riteneva che “former des nuages”, accumulare nuvole, dubbi e domande, e sospendere i giudizi, fosse filosoficamente più fruttuoso che fornire risposte ed emettere giudizi.5 Ma credo che la critica più significativa, e per noi più utile, in ordine a certi atteggiamenti dogmatici possa venire dalle considerazioni largamente condivisibili di un filosofo spagnolo contemporaneo, Fernando Savater, che così scrive: Filosofare non dovrebbe significare dissipare ogni dubbio, ma anzi addentrarsi fra le incognite. Naturalmente, molti filosofi – persino alcuni dei più grandi! – esprimono formulazioni perentorie 10

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che danno l’impressione di aver già trovato le risposte definitive a quelle domande che, invece, non possono e non devono mai “essere chiuse” del tutto, dal punto di vista intellettuale. Ringraziamoli per il loro contributo, ma esimiamoci dal seguirli nei loro dogmatismi. Ci sono quattro cose che un bravo professore di filosofia non dovrebbe mai nascondere ai suoi discepoli: primo, che non esiste la filosofia, ma esistono le filosofie e, soprattutto, il filosofare: “La filosofia non è un grande fiume tranquillo, dove ciascuno può pescare la sua verità. È un mare in cui si fronteggiano mille onde, in cui mille correnti si oppongono le une alle altre, s’incontrano, si mescolano a volte, si separano, tornano a incontrarsi e di nuovo si oppongono… Ciascuno lo naviga come può ed è questo ciò che chiamiamo filosofare”. Esiste una prospettiva filosofica (rispetto alla prospettiva scientifica e artistica), ma fortunatamente è sfaccettata; secondo, che l’interesse dello studio della filosofia non è dovuto al fatto che ad essa si dedicarono talenti straordinari come Aristotele e Kant […]. Ossia, che l’impegno di filosofare è molto più importante di ciascuno di coloro che, meglio o peggio, vi si sono dedicati; terzo, che perfino i filosofi migliori hanno detto notevoli idiozie e hanno commesso gravi errori. Coloro che rischiano di più formulando pensieri che esulano dai percorsi intellettuali già battuti sono quelli che corrono anche il maggior rischio di sbagliare, e ciò sia inteso come un elogio, non come un rimprovero. Pertanto, il compito del professore di filosofia non può essere solo quello di aiutare a capire le teorie dei grandi filosofi, nemmeno se debitamente contestualizzate nella loro epoca, bensì mostrare, innanzitutto, come la corretta comprensione di tali idee e ragionamenti possa aiutarci, oggi, a migliorare la comprensione della realtà in cui viviamo. La filosofia non è una branca dell’archeologia […]; quarto, che riguardo a certe domande estremamente generali, imparare a domandare correttamente significa anche imparare a diffidare delle risposte troppo chiare. Filosofiamo partendo da quel che sappiamo e dirigendoci verso l’ignoto, verso ciò che pare non riusciremo mai a comprendere del tutto; in molti casi, filosofiamo contro ciò che conosciamo o, per meglio dire, ripensiamo e mettiamo in discussione ciò che crediamo di sapere già. Riusciremo 11

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mai a cavarne qualcosa di buono? Sì, quando riusciremo perlomeno a orientare meglio la portata dei nostri dubbi e delle nostre convinzioni. Per il resto, chi non è capace di vivere nell’incertezza farà bene a non pensare mai.6

Del resto, come ha ripetuto George Steiner nella sua “lectio magistralis” tenuta ha Bologna nel 2006 “la verità è sempre in esilio”. Anceschi, per suo conto, giocando con l’opposizione fra iniziali maiuscole e iniziali minuscole, e fra singolare e plurale, ha scritto ne Gli specchi della poesia: “quanto più sollecito la Verità tanto più scopro le verità”, aggiungendo più oltre che “una cosa è il verde che vediamo sulla foglia, altro è il verde delle scritture dei poeti, altra cosa ancora il concetto di verde dei filosofi…”.7 I filosofi… Qualcuno di essi ha sostenuto autorevolmente che la filosofia non è cosa privata e che i filosofi sono funzionari dell’umanità,8 altri hanno inseguito il miraggio sempre riaffiorante della teoria “pura”. Hans Blumenberg, in un bel saggio dedicato appunto alla “comicità della teoria pura” ha tratteggiato sinteticamente la storia della ricezione (da Platone a Heidegger) di un aneddoto in questo senso esemplare. C’è una modalità di intendere la filosofia come speculazione “pura”, astrattamente teorica (incarnata dal protofilosofo Talete) che entra inevitabilmente in conflitto col senso comune (interpretato dalla servetta tracia) generando così un effetto comico (il ridicolo del filosofo che nell’inseguire le sue idee dimentica il mondo). Tale effetto comico, tuttavia, non maschera del tutto una possibile componente tragica (il sacrificio del filosofo che in nome delle sue idee è disposto al martirio). Nel Teeteto Platone mette in bocca a Socrate l’aneddoto anonimo riferendolo a Talete di Mileto: “…si racconta anche di Talete, il quale mentre stava mirando le stelle e aveva gli occhi rivolti in alto, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che aveva davanti e tra i piedi non le vedeva affatto”. Platone, come si conviene al genere della favola, fa seguire subito la morale della storia: “Questo motto si può ben applicare a tutti coloro che fanno professione di filosofia”.9 12

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Di fatto l’aneddoto più che di Talete vuol parlare di Socrate. Platone lascia intendere che quest’ultimo ha conservato e racconta la disavventura del protofilosofo, vissuto due secoli prima, per arrivare in realtà a ironizzare proprio su se stesso. Quel Socrate che, al pari di Talete, ha iniziato a praticare la filosofia della natura si è ormai volto allo studio dell’uomo ed è divenuto consapevole del fatto che il ridicolo della teoria pura non consiste nel contrasto fra il cielo (delle idee come dei corpi celesti) e la terra (con le sue materialità quotidiane e i saperi della vita pratica). Infatti, anche ciò che riguarda la vita e l’agire degli uomini può ricadere nella sfera dell’astrazione, perché il filosofo nel suo sforzo di penetrare la natura umana rischia comunque di “non vedere” proprio quell’uomo concreto che gli è “prossimo”. Ma, se questo è vero, allora La comicità non sta nell’oggetto filosofico, ma nella natura della pretesa filosofica: mentre si occupa, e proprio perché si occupa, dell’essere dell’uomo, il filosofo non riconosce nel vicino di casa l’essere umano. Le risa degli altri sono divenute l’indizio della concentrazione sull’oggetto filosofico, l’inettitudine nella vita pratica è divenuta la prova che il nuovo rapporto con gli oggetti si è instaurato […].10

Tuttavia, crediamo, c’è un modo di dirsi filosofi che non rinuncia ad avere esperienza delle “cose” e che non concepisce come inevitabile il distacco, se non la dissociazione, fra la teoria e quel che si chiama “il mondo della vita”. Certo, è da mettere fra parentesi (in senso neofenomenologico) la natura della pretesa filosofica ove questa si manifesti come aspirazione dogmatica, ad esempio, alla verità assoluta dell’arte, ma è anche vero che occorre rendere giustizia a quella dimensione, per così dire, “eroica” della ricerca astratta che può portare il filosofo come il poeta e, l’artista in genere, a sentirsi un “inetto” nella vita pratica, una sorta di perenne esiliato sulla terra (resta esemplare in tal senso L’albatros di Baudelaire).

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§ 2. Sistemi chiusi e domande aperte Per altro, c’è un modo di “leggere” Socrate che, come scrive Anceschi, “ancora ci incanta, ci persuade, ci fa procedere senza sospetto”,11 ed è un modo che, entro limiti filologicamente verificati, lo libera dall’eccesso di tutela platonica. Un Socrate “che non teme Dioniso”, che comprende la vita per sollecitarla dialetticamente, che non accetta di irrigidire il pensiero nella scrittura proprio per mantenere “aperte” tutte le domande, e in primo luogo quella del “che cosa è?”. Dunque, emerge da questa possibile lettura fenomenologica un Socrate fortemente dialogico che incentra il suo metodo sulla maieutica e sull’ironia: Proprio Socrate porta la domanda “che cosa è?” (anche la poesia) al massimo grado della consapevolezza nel contesto storico-speculativo in cui si trovò ad operare. Ebbene su ogni argomento – anche sulla poesia – Socrate apriva con gli amici la ricerca comune, il dialogo, chiedeva con insistenza “che cosa è?”, e riceveva da tutti risposte assolutizzanti, ognuno gli dava la propria definizione, la definizione che gli sembrava più sicura e tutte le risposte si scontravano, si escludevano l’un l’altra, mostravano la loro pretesa di presentarsi come soluzione definitiva.12

Il metodo socratico procede dunque secondo un movimento che, nella lettura di Anceschi, vede la maieutica non come l’anamnesi dell’idea in senso platonico (ossia come reminiscenza delle idee da parte dell’anima del tutto indipendentemente dai sensi), e dunque come modalità di conoscenza di un vero metafisico, assoluto, bensì come costituzione del concetto. dove il concetto, a sua volta si presenta nella forma di “un’idea-limite”, di una “tensione verso un’unità che per altro non si raggiunge mai”, e insomma si traduce nel “progetto di una comprensione che è sempre aperta, prensile…”. Per di più, il secondo momento del metodo socratico, quello detto dell’ironia, “appare proprio il modo di mettere in relazione tra loro queste definizioni, queste accezioni sicure di sé, rivelandone il limite…”.13 Si può dire anche che l’ironia socratica, in quanto presa di distanza dalla presunzione di verità delle molteplici definizioni proposte al filosofo dai vari interlocutori, è 14

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in certo senso una forma di epoché fenomenologica, di dissociazione critica dalla pretesa implicita in ciascuna risposta essenzialistica alla domanda del “che cosa è?” di essere in assoluto l’unica depositaria della verità. Si potrebbe ricordare qui, per inciso, quanto affermò una volta Michel Foucault in un’intervista: “Spesso mi capita di dire una cosa per smettere di pensarla; per questo poi ho qualche difficoltà a sostenerla”. Il che sarebbe già abbastanza singolare, a dire il vero. Ma aggiunse, Foucault, immediatamente dopo: “Tuttavia questa affermazione l’ho fatta perché la pensavo e per continuare a pensarla”.14 A parte il tono, giocato, voglio immaginare, su un registro di levità autoironica, affiora, qui, un tema di un rilievo più generale, forse, di quanto a prima vista non appaia; e non privo di una certa soggettiva drammaticità: la drammaticità, intendo, propria della condizione di filosofo (uso il termine nel senso più lato e aperto) quando si senta dibattuto fra due pulsioni antagoniste, l’una che lo spinge a dire per “smettere di pensare” una certa “cosa”, per “liberarsene”, oggettivandola nel discorso fino al punto da sfiorare quasi l’estraneità da essa e l’altra, all’opposto, che lo spinge a dire proprio per continuare a pensare quella certa cosa, rischiando magari, questa volta, una curvatura della riflessione o vagamente ossessiva o un po’ narcisistica. Tuttavia, c’è un modo forse meno socratico di concepire il pensiero filosofico, un modo – intendo – che privilegia l’idea di una costruzione filosofica organica (“sistema chiuso”) ovvero di un sistema speculativo totalizzante entro cui soltanto ogni fenomeno può e deve trovare definizione, giustificazione, significato. La critica dei cosiddetti “sistemi chiusi” edificati a partire da assiomi aprioristici è uno dei temi sui quali Anceschi ha più insistito nel corso dei suoi studi delineando una posizione metodologica che all’idea di Sistema con l’iniziale maiuscola contrappone l’idea di una “sistematica” aperta e flessibile. A proposito della critica di quel pensiero speculativo che si pretende puro, e che si rinchiude in certe sue gabbie concettuali astraendo dalle “cose” fino a dimenticarle o ad annullarle, ricordo un brano, citato da Anceschi, molto aspro, e umoroso, e in qualche modo scandaloso, il brano 15

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– intendo – di un artista, dello scrittore Elias Canetti; una sorta di invettiva contro i filosofi, anzi contro un certo modo di essere filosofi, quel modo di esserlo che privilegia l’espulsione delle “cose”, lo svuotamento del mondo, lo sperdimento del pensiero nella pura astrazione, appunto, del Sistema. Dunque, così scrive il Canetti di Anceschi: Ciò che più mi ripugna dei filosofi è il processo di evacuazione del loro pensiero. Quanto più frequentemente e stabilmente usano i loro termini fondamentali, tanto meno rimane del mondo intorno a loro. Sono come barbari in un nobile e vasto palazzo pieno di opere meravigliose. Se ne stanno là in maniche di camicia e gettano tutto dalla finestra, metodici e irremovibili, poltrone, quadri, piatti, animali, bambini, finché non rimangono altro che stanze vuote. Talvolta, alla fine, vengono scaraventate via anche le porte e le finestre. Rimane la casa nuda. Si immaginano che queste devastazioni abbiano portato un miglioramento.15

La citazione di questo brano polemico dove sembra emergere una contrapposizione radicale fra le ragioni degli artisti e quelle dei filosofi ha irritato più di un lettore convinto, a torto, che Anceschi, strumentalizzando il risentimento di Canetti, volesse portare un ingiustificato attacco alla filosofia in generale, quando invece quella presa di posizione vuol essere sì una dura critica, ma a quel particolare modo di intendere la filosofia che si mostra non solo lontano dalla vita dell’arte e astrattamente chiuso nella sua “pura” autosufficienza teoretica, ma anche (è evidente l’allusione all’atteggiamento crociano) quasi per sua natura portato a esercitare una sorta di “imperialismo teorico” esteso anche agli artisti, alle loro “poetiche” e al giudizio critico sulle loro opere. Tuttavia, occorre ricordare che già in altre epoche e in altri filosofi, si può cogliere un atteggiamento fortemente critico circa la validità dei Grandi Sistemi Astratti. Ad esempio, nel Settecento, Condillac coglie bene l’elemento “ingenuamente” (auto)rassicurativo proprio delle grandi costruzioni metafisiche di Cartesio, Malebranche, Leibniz, Spinoza (il solo Locke viene salvato, sia pure con alcune riserve): 16

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Ognuno si lascia sedurre dai propri sistemi [...] come bambini che immaginano di poter toccare il cielo con la mano all’estremo limite della pianura.

E del resto, con diverse sfumature, enciclopedisti e philosophes imputano proprio all’esprit de système l’astrattezza e la sterilità, e dunque il sostanziale fallimento, dei pur grandiosi sistemi speculativi del secolo XVII, contrapponendogli le meno ambiziose ma più feconde perché empiricamente controllate operazioni dell’esprit systématique. Diderot si spinge oltre, privilegiando la pratica di un metodo euristico tutto interiore e quasi segreto, sapientemente giocato nei modi dello “scarto” improvviso e spiazzante e del paradosso rivelatore di contro a un metodo puramente esteriore, statico, appagato nelle proprie certezze: L’esprit d’invention si agita, si muove, si sposta in modo sregolato; esso cerca. L’esprit de méthode sistema, ordina, e suppone che tutto sia trovato.16

Ricorre insistita in Diderot, in D’Alembert, in Condillac, l’immagine baconiana del labirinto a designare, a un tempo, “il sistema generale delle scienze e delle arti”, la natura, e la ricerca della verità. Nel Traité des systèmes lo stesso Condillac esclama: Che può esserci di più ridicolo di uomini che, destandosi da un sonno profondo, vedendosi in mezzo ad un labirinto, per trovare una via d’uscita pongono dei princìpi generali? Eppure i filosofi fanno così. Noi ci troviamo a nascere in mezzo a un labirinto, dove mille tortuosità sono tracciate solo per condurci a sbagliare: se c’è un cammino che porta alla verità, non si rivela a prima vista; spesso è quello che sembra meritare di meno la nostra fiducia. Non sapremo dunque eccedere nel prendere precauzioni.17

Il richiamo alle opportune cautele e “precauzioni” appare tanto più necessario proprio quando certi filosofi vogliono tradurre e semplificare la complessa e vivente realtà del “labirinto” in un “palazzo” rigorosamente ordinato ma di fatto inabitabile: Non che io voglia negare agli autori di sistemi astratti tutti gli elogi cui sono fatti segno. Fra le loro opere ve ne ha che ci costringo17

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no ad ammirarle. Somigliano a palazzi in cui gusto, comodità, ampiezza, magnificenza concorressero a formare un capolavoro, ma con fondamenta tanto poco solide da sembrare che si sostenessero per incanto. Senza dubbio si tributerebbero degli elogi all’architetto, ma elogi senz’altro controbilanciati dalle critiche che si farebbero alla sua imprudenza. Si riterrebbe la più segnalata delle follie il fatto d’aver costruito sì superbo edificio su fondamenta tanto deboli, e, pur trattandosi dell’opera di un ingegno superiore, con ambienti disposti in un ordine ammirevole, nessuno sarebbe così privo di senno da volervi abitare. Da tali considerazioni si può concludere che bisogna portare molta cautela nella lettura dei filosofi. Il mezzo più sicuro per stare in guardia davanti ai loro sistemi è di studiare come possono averli costruiti. Questa è la pietra di paragone dell’errore e della verità...18

E si pensi anche a qualche pensiero di Leopardi nello Zibaldone, dove si parla proprio dello spirito di sistema, della necessità di un pensiero filosofico-sistematico, eppure dei suoi rischi e difetti: Si condanna, e con gran ragione, l’amor de’ sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori.19

Certo, è nella natura della riflessione filosofica – riconosce Leopardi – di volgersi proprio a considerare le nozioni non isolatamente, ma in un contesto di “relazioni” e “generalizzazioni”; ma egli indica, anche, nella scelta di una direzione specifica della costruzione sistematica (dal particolare al generale), e nella scelta adeguata e non forzante dei “particolari”, le condizioni che garantiscono la validità del sistema. Il brano merita veramente un’ampia citazione: Chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità [...] e i rapporti delle cose; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema [...]. 18

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Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi e incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali. [...] Allora l’amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perché i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema doveva derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell’aspetto solo che che favorisce il sistema, insomma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb’essere.20

Ecco: se pure, dal nostro punto di vista, è opportuno mettere fra parentesi ogni pretesa di vagliare in assoluto errori e verità dei “sistemi”, tuttavia ci pare che la “messa in guardia” di Condillac e le avvertenze di Leopardi possano ritenersi, al di là dei testi e dei contesti che le hanno storicamente determinate, per molti versi ancora valide, se non attuali. Esse suggeriscono con forza un criterio, meglio una generale direzione di ricerca, in concreto assai ardua da seguire ma veramente decisiva se è vero che, ad esempio, per comprendere (in senso fenomenologico) un sistema come quello crociano, un sistema che diciamo “chiuso”, appare in qualche modo inevitabile indagare sul modo con cui è stato “costruito”. Nel caso, non si tratta tanto (o non solo) di additare eventuali (e tutto sommato, forse, non decisive) incoerenze “interne”, quanto piuttosto di analizzare la “logica”, le strutture, i meccanismi, le motivazioni di fondo, in rapporto a temi e contenuti specifici. Dovremmo dire, parafrasando lo stesso Croce, che “il tutto determina la qualità delle parti”21 o, se si vuole, potremmo precisare, nei termini della neofenomenologia, che “il sistema significa le strutture”. In definitiva, compito della filosofia sarà, per Anceschi, cercare il significato della molteplicità e della ricchezza dell’esperienza senza costringerla, ridurla o alterarla. E, dunque, van rifiutati tutti gli idoli dogmatici che impediscono ritardano, o, comunque, falsificano questo compito: ciò che tende a soffocare il mo19

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vimento complesso del vivente sotto il giogo di uno schema astratto; o a condannarlo di irrilevanza sotto la rubrica negativa dell’“empirico”; o, infine, a vincolarlo a significati prescritti.22

Dunque, s’impone in via preliminare una riflessione metodologica su come intendere il nesso fra le domande fondamentali dell’estetica e il contesto filosofico con cui interagiscono. Scrive ancora Anceschi:

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Il pensiero speculativo porta in sé – sempre presente – il pericolo di irrigidirsi, di chiudersi, di fermarsi all’incanto di una figura particolare di sé che si eriga a feticcio, o d’impigrirsi in una parziale tecnica della ragione che tenda a presentarsi come definitiva. Anche la razionalità più sensibile alla sollecitazione della esperienza è minacciata dal dogma. Si dice pericolo, minaccia... e, infatti, almeno nella sua idea, la filosofia tende a proporsi come volontà di comprensione, e, pertanto, non sembra essere affatto disposta ad accettare di porsi come il rilievo di un astratto schema razionale, definitivo, immutabile, che, presentandosi come valido in ogni caso, si sovrapponga al movimento vitale della realtà con le sue ipostasi, i suoi concetti, i suoi ideali immutabili, e così rischi di isterilire, di ridurre, di impoverire la vita della realtà stessa. Questo modo è razionale solo nel nome. Si dirà, invece, veramente razionale quel modo del riflettere in cui tutti gli schemi, i valori, le relazioni che si presentano come definitivi e assoluti vengan criticati, ricollocati nel contesto, riportati al loro ambito di validità relativa, e, ritrovando così il loro senso più vero, perdano la pretesa di estendersi oltre la situazione che han contribuito a risolvere, o le situazioni in cui il loro stimolo possa esser utile. Una filosofia che non si proponga di definire il valore, ma, sì, di trovare il principio che garantisca e giustifichi in uno stesso campo la continua variazione del valore nella abilità di dar senso a questa molteplicità – ebbene solo una filosofia così fatta può rispondere al problema che si propone in questo studio. D’altra parte, solo una filosofia così fatta può assicurare a ciò che indichiamo con il nome di esperienza ogni libera espansione, ogni apertura di possibilità, ogni ricchezza di sensi.23

Nei sistemi filosofici “chiusi” (normativi, dogmatici, assolutizzanti) gli assiomi, i principi, le definizioni vengono assunti come 20

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tali a priori. In ultima analisi la Verità del Sistema viene calata sull’esperienza, applicata ai fenomeni, e ne diventa il metro di giudizio e il parametro di validità. Prima vengono i principi, poi l’esperienza. La fenomenologia rovescia questa direzione: il mondo vivente dei fenomeni (legati all’arte, nel nostro caso) viene assunto come primum. Dunque la fenomenologia critica afferma il primato dell’esperienza sui principi astratti e la nozione di “esperienza” stessa, anzi un certo modo di servirsi di questa nozione, viene intesa (riprendendo una ispirazione banfiana) come “la totalità delle infinite modalità della relazione io-mondo”, come la continua, mobile, aperta interazione tra soggetto (ciò che diciamo io) e oggetto (ciò che diciamo mondo).24 In conclusione, il modello teorico e metodologico di riferimento sarà per noi quello di una fenomenologia relazionistica che si ispira certo in prevalenza al magistero di Anceschi e alla linea banfiana e husserliana, ma non senza alcuni spunti che abbiamo potuto ricavare dall’attivo confronto con altri filoni di pensiero e con altri autori, dagli illuministi à la Diderot alla “storia delle idee” di Arthur O. Lovejoy, oltre che dalle più recenti riflessioni teoriche di Gérard Genette e di José Jiménez, fra gli altri Possiamo tornare, a questo punto, alle nostre domande iniziali non senza un’ultima precisazione che costituisce il vero e proprio “filo rosso” di tutto il discorso: se mi chiedo “che cosa è x?” (dove “x” può essere un qualsiasi oggetto teorico: poniamo, l’arte) devo essere consapevole che il modo con cui questa domanda si struttura così come il contesto filosofico nel quale si colloca non sono senza conseguenze, non sono neutri, giacché condizionano il senso stesso delle domanda così formulata e quindi la risposta (le risposte) che ne consegue (-ono). È questo un tema che si ritrova anche nelle acquisizioni molto attuali della cosiddetta estetica analitica che Dominique Chateau ha riassunto assai bene con parole che avrebbero potuto non dispiacere del tutto ad Anceschi (il quale da sempre ha posto “la domanda sulla domanda”) e che noi stessi qui sostanzialmente condividiamo: 21

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Una delle qualità essenziali di questa tendenza intellettuale risiede nella volontà di interrogarsi sul modo di formulare i problemi nel momento stesso della loro formulazione. In quest’ottica, se dico: “che cosa è x?” devo non solo cercare di definire l’x in questione (di volta in volta ciò di cui si tratta e a proposito del quale si pone l’interrogazione), ma devo anche cercare di padroneggiare la domanda che pongo chiedendomi in che cornice mi fa entrare (o, magari, mi imprigiona) il modo di formulare questa domanda.25

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NOTE 1 Cfr. L. ANCESCHI, Progetto di una sistematica dell’arte, Milano, Mursia, 1962, p. 166. 2 Cfr. “Orientamenti pedagogici”, n. 6 (2005), pp. 1009-1034. 3 I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in ID., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1995, pp. 141-149. 4 J. DEWEY, The need for a recovery of philosophy, in Creative intelligence. Essays in pragmatic attitude, New York, Holt, 1917, p. 3 (trad. it. Intelligenza creativa, a c. di L. Borghi, Firenze, La Nuova Italia, 1957). 5 Cfr. D. DIDEROT, Lettera sui sordi e muti, a c. di F. Bollino, Modena, Mucchi, 1984, p. 27. 6 F. SAVATER, Etica per un figlio, Bari, Laterza, 1992, pp. 233-235. 7 L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Torino, Einaudi, 1989, pp. 141 e 201. 8 Cfr. L. ANCESCHI, Progetto, cit., p. 166. Il riferimento è a Husserl e Banfi. 9 H. BLUMENBERG, La caduta del protofilosofo o la comicità della teoria pura (Storia di una ricezione), Parma, Pratiche, 1983, p. 5. 10 Ibid., p. 7 (cors. mio). 11 L. ANCESCHI, Che cosa è la poesia?, a c. di F. Bollino, Bologna, Clueb, 1998, p. 157. 12 Ibid., 158. 13 Ibid. 14 G. PRETI, Umanismo e strutturalismo. Scritti di estetica e di letteratura, a cura di E. Migliorini, Padova, Liviana Ed., 1973, p. 159. 15 Cit. in L. ANCESCHI, “Macerie”, e umanesimo, “Studi di estetica”, 2 (1983), p. 12 (l’aforisma di E. Canetti, del 1951, si trova ora ne La provincia dell’uomo, Milano, 1978, p. 173). 16 Cfr. D. DIDEROT, Réflexions sur le livre de l’Esprit (1758), in Oeuvres Complètes, éd. Lewinter, III, p. 246. 17 E.B. DE CONDILLAC, Trattato dei sistemi (1749), a c. di E. Garin, Bari, Laterza, 1977, p. 18.

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Ibid., pp. 201-202. G. LEOPARDI, Zibaldone, a c. di F. Flora, Milano, Mondadori, 1967, I, p. 633. 20 Ibid., pp. 634-635 (cors. mio). 21 B. CROCE, Estetica (1902), Bari, Laterza, 1958, p. 5. 22 L. ANCESCHI, Progetto, cit., p. 176. 23 Ibid., pp. 166-167. 24 Cfr. ibid., pp. 167 e n.; L. ANCESCHI, Da Bacone a Kant, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 14. 25 D. CHATEAU, La Question de la question de l’art. Note sur l’esthétique analytique, Paris, PUV, 1994, p. 9. 18

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II. Definizioni dell’estetica

§ 1. Campo dell’estetica e ricerca lessicale Che cosa significano esattamente termini come estetista, esteta, estetologo, estetico, Estetica...? Supponiamo di azzerare ogni reminiscenza scolastica e facciamo ricorso all’esperienza di senso comune. Probabilmente, ci verranno in mente subito i cosiddetti “Beauty Center” o gli “Istituti di Estetica” o la “chirurgia estetica” (cosmesi, bellezza). Più in generale e per via di associazione, saremo portati a pensare a pratiche che hanno a che fare con la corporeità e che mettono in gioco la nostra rete sensoriale. Di passaggio in passaggio saremo indotti a riflettere, ad esempio, sull’esistenza in noi di un certo gusto estetico che sembra guidare i nostri comportamenti a atteggiamenti quotidiani in vari ambiti: nel seguire una moda, nell’arredare una camera, nell’apprezzare la linea di un’auto, nello scegliere il partner e, perché no, nel gradire la bella presentazione di una pietanza (“anche l’occhio vuole la sua parte!” è quasi un dogma della nouvelle cusine), ecc. Dall’idea di buon gusto a quella di stile il passo verosimilmente non sarà troppo lungo. Lo sappiamo bene: tutti i “venditori” fan25

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no leva sulla nostra propensione (culturale) per quegli oggetti, anche di uso comune, che ci appaiono seduttivi perché esteticamente gradevoli (design, pubblicità...). A questo proposito è di grande interesse registrare gli effetti pervasivi anche sul piano economico di questa sorta di estetizzazione diffusa (di cui parla anche José Jiménez nel suo Teoria dell’arte, 2002) raccogliendo la testimonianza di Giampaolo Fabris che è stato uno dei pionieri e degli studiosi più apprezzati nel campo della sociologia dei consumi. Citiamo ampiamente da un suo articolo giornalistico dal titolo per noi quanto meno suggestivo: L’estetica sostituisce l’etica: nei prodotti si cerca il bello. Documento acquistato da () il 2023/04/12.

È ormai luogo comune affermare che il consumatore sia oggi in grado di riconoscere ed apprezzare, orientando conseguentemente le sue scelte, la qualità di un bene o di un servizio. […] Eppure, nonostante la sua centralità e la crescente attenzione, i parametri per valutarla, le dimensioni che la alimentano appaiono fluide e indefinite. Vi è diffusa consapevolezza che le interpretazioni sino ad ora usate sono riduttive, che la qualità è comunque un plesso di attributi la cui gerarchia, anche per uno stesso bene, varia in maniera significativa a seconda del pubblico a cui si rivolge.[…] Eppure vi è una dimensione della qualità, sinora tendenzialmente sottovalutata, che va divenendo un suo importante denominatore comune. Che taglia trasversalmente gran parte dei comparti merceologici: dai più prestigiosi settori del lusso ai più dimessi prodotti della nostra quotidianità. Si tratta del bello, della dimensione estetica: tutt’altro che confinati nei settori che siamo abituati a considerare come canonici (quelli cioè dove lo stilismo e il design sono più presenti). L’apprezzamento estetico diviene parte integrante della qualità, una sua componente essenziale. […] Chi avrebbe mai detto che, nella scelta degli alimenti, il bello divenisse sinonimo di buono? [...] Forse il lascito più importante della nouvelle cusine è stata l’attenzione, quasi maniacale, agli aspetti estetici del cibo. Lo spremiagrumi come l’orologio, la lampada come la tazzina del caffè: in altre parole ogni proposta del mercato. Il reincantamento del consumo che caratterizza la società postmoderna, dopo il disincanto di un recente passato, trova la sua raison d’être proprio 26

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nella seduttiva riscoperta del bello nel mondo degli oggetti. Una dimensione che consente di epifanizzare la nostra quotidianità. Chi avrebbe mai detto che quando si spendono molte migliaia di euro per un’automobile, sono la linea, il design, la stream-line, il bello, come testimoniano le ricerche, il più importante fattore di scelta? […] Il successo degli stilisti italiani nel mondo non vede proprio l’estetica come dimensione qualificante il loro apprezzamento planetario? Un bello che coinvolge tutte le manifestazioni di un prodotto: la sua struttura fisica, il packaging, l’etichetta, il merchandising, la pubblicità, il punto vendita, ecc. Ci potrà essere chi si dispiace del rilievo di una dimensione che ha poco da spartire con le performance, gli aspetti strutturali ed i valori d’uso. Che l’estetica faccia aggio sulla funzione. Ma chi parla di dittatura dell’economia della vista deve tener conto che questa, se esiste, è solo il risvolto della medaglia di un inedito, democratico diritto al bello. Le accuse di totalitarismo estetico, eccesso comunicativo, ipersignificazione sono solo la testimonianza di chi si vede sottratto un privilegio, la cultura estetica, un tempo appannaggio di una ristretta casta. Oggi il fenomeno nuovo con cui confrontarsi è l’estetismo di massa, il protagonismo dell’homo aestheticus. […] L’estetizzazione della vita quotidiana è forse il trend sociale in maggiore espansione in gran parte dei Paesi del primo mondo. L’universo degli oggetti diviene oggetto di valutazione estetica e non morale, dato che le pregiudiziali ideologiche, che tanto hanno avversato i consumi, sono ormai scomparse: in questo senso, si legittima l’affermazione che l’estetica si avvia a sostituire l’etica. L’estetica è ormai una sorta di valore aggiunto che il consumatore riconosce ed apprezza. Sovente privilegiandola ad altre attese. I confini tra arte e vita quotidiana sembrano del resto, in questa nuova prospettiva, destinati ad annullarsi.1

Ma proseguiamo ancora nel nostro inventario: eccoci pronti a riconoscere che non di rado ci troviamo ad apprezzare esteticamente anche un paesaggio al tramonto (bello naturale), oppure un’appassionante sonata di Chopin, un recital di Luciano Pavarotti, una canzone di Paolo Conte, un film di Stanley Kubrick, un documentario di Frédéric Rossif, un racconto di Calvino, un grande romanzo di Flaubert, una commedia di Eduardo De Filip27

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po, una poesia di Montale, un dipinto di Tiziano, uno schizzo di Picasso, e così via (bello artistico). Insomma, in ogni campo e a parità di condizioni, si direbbe a prima vista che noi tendiamo per lo più a scartare ciò che consideriamo brutto, sgradevole, sbagliato e a preferire quel che ci pare bello, riuscito o, come si dice, esteticamente valido da cui ci aspettiamo di ricavare piacere, emozioni, stimoli intellettuali (naturalmente le cose si complicano un po’ quando è proprio un certo tipo di brutto o addirittura di orrendo a emozionarci, e quindi a piacerci, ma anche questo fenomeno rientra a buon diritto in una dimensione estetica). Dobbiamo supporre, allora, che sussista (come dato storico, socioculturale, psicologico, al limite “economico”) una modalità ineliminabile del nostro rapportarci con ciò che diciamo “mondo” definibile, in senso lato, come esperienza estetica? Probabilmente sì. Potremmo anche domandarci quali siano i princìpi e i criteri (consapevoli o no) che presiedono alla nostra (individuale o collettiva) concezione estetica. Tali domande, tuttavia, rischiano di essere premature o mal poste in mancanza di ulteriori approfondimenti circa il significato proprio del termine “estetica”. Niente di meglio, quindi, per cercare almeno qualche iniziale, provvisoria risposta, che far ricorso a un dizionario della lingua italiana per avere un’indicazione orientativa e di massima. Apriamo, scegliendo a caso un dizionario scolastico corrente, lo Zingarelli (1971). Alla voce Estetica troviamo, nell’ordine, i seguenti tre significati: 1. scienza filosofica che ha per oggetto lo studio del bello e dell’arte 2. avvenenza, bellezza 3. teoria filosofica della conoscenza sensibile

È già un buon avvio. In un dizionario più recente (ad es. nel Garzanti del 1987) troveremmo più o meno la gli stessi contenuti. Ma anche i dizionari cosa fanno, in realtà, se non registrare una definizione corrente (media) che, pur non avendo pretese specialistiche, spesso è comunque espressione di un certo indiriz28

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zo filosofico e di un certo contesto culturale in un certo periodo storico? Ad esempio, se andiamo indietro di appena qualche anno, il Dizionario Enciclopedico Universale Sansoni (1966) riporta una definizione che conserva ancora, rispetto al più moderno Zingarelli, un certo sapore “essenzialistico” e “spiritualistico” di marca nettamente crociana:

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Estetica – Parte della filosofia che si propone di indagare l’essenza del bello, la funzione e la finalità dell’arte nei rapporti con lo spirito umano, la comprensione delle opere d’arte e il modo di giudicarle.

Se poi, proseguendo nella nostra indagine a ritroso, risalissimo ad un dizionario ottocentesco, ad es. il celebre Tommaseo (1861-79), troveremmo una definizione prevalentemente orientata in senso psicologistico e positivistico con qualche residuo hegeliano: – Scienza del sentimento del Bello ne’ suoi rispetti col Vero – Scienza delle cagioni che sul nostro spirito e sui nostri sensi fanno le opere d’arte; donde deducesi la teoria generale e le norme principali d’esse arti.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Tuttavia, se tiriamo le somme, da questo primo approccio ancora abbastanza generico ricaviamo che l’Estetica è un tipo di riflessione teorico-filosofica avente per oggetto: 1. l’arte (dal punto di vista sia della produzione che della fruizione) 2. il bello 3. la conoscenza sensibile.

Circa i primi due oggetti (arte e bello) sembra ormai di poterli dare per acquisiti. Ma come mai si parla di “conoscenza sensibile”? Quale significato assume questa espressione? Naturalmente, a questo punto, potremmo decidere di consultare qualche autorevole dizionario specialistico, ad esempio il classico Dizionario di filosofia dell’Abbagnano (19601, 19712), o ancora l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia (1981) dove la la voce Estetica è stata redat29

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ta da Gianni Vattimo, o potremmo affidarci allo specifico Dizionario di estetica curato da Carchia e D’Angelo. In questo caso, tuttavia, la maggiore complessità e articolazione delle risposte definitorie, per altro anch’esse caratterizzate dai diversi orientamenti filosofici degli autori, richiederebbero da parte del lettore una serie di competenze di base che qui, intenzionalmente, non si vogliono dare per scontate. La via maestra sarà, allora, quella che ci consente di superare il grado zero dell’indagine (il rilievo degli usi comuni del termine “estetica”) mediante un approccio di tipo genealogico che tenga conto delle radici etimologiche e dell’origine storica del termine in questione. § 2. Etimologia Intanto, precisiamo subito il significato di alcuni termini che abbiamo disseminato più sopra riferendoli a dati empirici e di senso comune. Il cosiddetto “Istituto di Estetica” è un Istituto di Bellezza, dove l’estetista ha il compito di trattare il corpo con procedimenti di tipo cosmetico o altro (senso del bello e della corporeità si intrecciano). L’esteta, per contro, è una persona che conforma la propria vita ad un ideale di stile e che si comporta, in sostanza, come se la vita fosse un’opera d’arte e l’arte fosse vita (estetismo alla D’Annunzio, ad esempio). Ma pensiamo anche al dandismo alla Charles Baudelaire o alla Oscar Wilde (il dandy come anticonformista eccentrico e raffinato cultore della bellezza). L’estetologo, invece, è lo studioso, il filosofo, che si occupa di estetica. E l’anestesista? – Che c’entra l’anestesista!? – vi chiederete. Diciamo pure che c’entra a rovescio. Sappiamo, infatti, che l’anestesista è un medico specializzato in anestesia, cioè in quel ramo della medicina che attraverso opportuni procedimenti farmacologici procura nel paziente, a fini terapeutici, una parziale o totale insensibilità corporea, e insomma induce l’ottundimento o addirittura l’annullamento delle facoltà sensoriali-percettive.2 30

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Qui i dizionari correnti non bastano, occorre procedere diversamente affrontando il problema da un punto di vista storico-etimologico: una volta di più, scopriremo che certe idee seguono percorsi imprevedibili. Se badate bene, infatti, la parola an-estesia è formata dal prefisso “a-” (la “n” ha solo una funzione eufonica) e da “-estesia”. Si tratta chiaramente della radice verbale greca “aisth” preceduta dal cosiddetto “alfa privativo”. Insomma “anestetico” e simili sarebbe, alla lettera, il contrario di “estetico” e simili. Qual è, dunque, in definitiva il significato del termine “estetica” da un punto di vista strettamente etimologico? La derivazione è dal sostantivo greco àisthesis (sensazione) e dal verbo aisthànomai che vuol dire appunto: “sento, percepisco (conosco) mediante i sensi”. L’estetologo Baumgarten (al contrario di un anestesista...) quando per primo coniò il termine estetica intendeva appunto esaltare la sfera della sensorialità, fino a riconoscerle un’autonoma capacità conoscitiva, sia pure “inferiore” rispetto a quella, “superiore”, propria della sfera razionale e intellettiva. § 3. Baumgarten: il “battesimo” dell’estetica Insomma, possiamo anticipare che un po’ tutti i riferimenti, che abbiamo fatto sopra, alla bellezza, all’arte, alla sensorialità, rientrano in qualche modo nell’accezione di “estetica” elaborata da un filosofo del Settecento quasi dimenticato per tutto il secolo successivo, poi riscoperto da Benedetto Croce e oggi tornato di grande attualità: il tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762). Il termine estetica, che come si è detto è derivato dal greco antico, fu utilizzato per la prima volta da Baumgarten nel 1735 in un trattatello di poetica e retorica derivato dalla sua tesi di laurea: Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (Meditazioni filosofiche su alcuni argomenti concernenti la poesia). Successivamente, alla metà esatta del secolo, nel 1750, sempre Baumgarten pubblicò il primo volume di una 31

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cospicua, ma incompiuta, trattazione in latino, intitolata, appunto, Aesthetica (il II volume è del 1758). Veniva ufficialmente “battezzato” così, proprio con questo termine, un nuovo e autonomo settore della filosofia, che si affiancava a quelli tradizionali (Logica, Metafisica, Etica...). Tale nuovo settore, che è naturalmente lo stesso Baumgarten a istituire formalmente, viene dedicato a un particolare tipo di conoscenza, cioè appunto, alla conoscenza sensibile (cognitio sensitiva). Subito, già nelle prime righe del trattato principale di Baumgarten troviamo la sua ormai celebre definizione di “estetica” che qui riportiamo nella versione latina originale seguita dalla traduzione italiana (un’avvertenza: l’aggettivo sensitivus, qui tradotto per semplificare con “sensibile”, ha un significato più ambiguo e rinvia in realtà a un’idea di sensibilità-sensorialità in senso lato): Aesthetica (theoria liberalium artium, gnoseologia inferior, ars pulcre cogitandi, ars analogi rationis) est scientia cognitionis sensitivae (Aesthetica, I, § 1) L’Estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile

Se analizziamo, in primo luogo, la “struttura” della definizione di Baumgarten troviamo che essa si compone di tre parti: a. soggetto b. incisi c. predicato

L’Estetica da “teoria...” a “...ragione” è la scienza della conoscenza sensibile

Se uniamo direttamente [a] e [c] possiamo ricostruire la definizione teorica generale entro cui si collocano [b] le specificazioni aggiuntive (costituite da quattro incisi di capitale importanza). Dunque, la definizione-cornice risulta essere la seguente: L’Estetica è la scienza della conoscenza sensibile.

Non si tratta, qui, della scienza della conoscenza in generale, bensì della scienza di quella forma speciale e autonoma di conoscen32

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za costitutivamente connessa alla rete sensoriale e alla sensibilità lato sensu. Infatti, per Baumgarten – ed è qui la novità e l’originalità del suo pensiero – si danno due diverse e autonome modalità del conoscere connesse a due diverse “facoltà” (intelletto e immaginazione); corrispondentemente, si danno due diversi e autonomi settori della filosofia (il primo di lunga tradizione, il secondo di nuova istituzione). Abbiamo che: 1. la conoscenza superiore (facoltà: intelletto) procede per rappresentazioni razionali (chiare e distinte); il suo campo disciplinare (tradizionale) è la Logica; 2. la conoscenza inferiore (facoltà: immaginazione) procede mediante rappresentazioni sensibili (chiare e confuse); il suo campo disciplinare (nuovo) è l’Estetica. Bisogna tener presente che per Baumgarten le rappresentazioni mentali (dette anche idee) possono essere, secondo una scala di “chiarezza” ascendente che va da sensibile all’intelligibile: – oscure (non si distinguono né i contorni degli oggetti né le parti che li costituiscono; ad es. intravediamo appena un bosco di notte); – chiare e confuse (si distinguono i contorni degli oggetti ma non le loro parti costitutive; ad es. verso l’alba in un bosco distinguiamo i contorni di ciascun individuo-albero, ma non le sue parti costitutive, oppure possiamo avere la nitida percezione dei contorni di una foglia senza bisogno di analizzarla in ogni sua parte: ed è ciò che basta all’artista); – chiare e distinte (si distinguono sia i contorni degli oggetti sia le loro parti costitutive che siamo in grado di enunciare una per una: ad es. in pieno giorno il botanico, come ogni scienziato, conoscerà in dettaglio le parti costitutive di una pianta, e potrà analizzarne la struttura interna).

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Possiamo schematizzare con un grafo ad albero di Porfirio rappresentazioni oscure

chiare confuse

distinte

[inadeguate]

[adeguate]

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[intuitive]

[simboliche]

Questa classificazione nella sua forma più complessa (quella che include anche le dicotomie in parentesi quadra) è derivata da Leibniz (1646-1716) le cui opere Baumgarten conosce attraverso la divulgazione semplificante che ne fece Christian Wolff (1679-1754). In realtà, nei suoi gradi massimi, la conoscenza completa, adeguata e profonda (è la terminologia di Wolff mutuata da Baumgarten) non è attingibile dalla mente dell’uomo ma solo dall’intuizione divina. Ci troviamo dunque sull’asse Leibniz → Wolff → Baumgarten, una linea di pensiero di marca razionalistica (ma di un razionalismo, sia detto in inciso, che si pone in modo critico nei confronti dei principi cartesiani, ad esempio contestando il criterio dell’evidenza intuitiva su cui si fonda la verità del cogito ergo sum). Baumgarten, per suo conto, si discosta in parte dall’indirizzo leibniziano per ciò che concerne proprio l’autonomia della conoscenza legata alla sensibilità. Infatti, per Leibniz il processo conoscitivo conduce in modo graduale e senza interruzioni dalla sensazione al pensiero chiaro, distinto e adeguato, ossia: dal grado minimo di conoscenza metaforizzato dalla quasi totale assenza di luminosità che regna al fondo della nostra anima (e che ci consente di avere solo “piccole percezioni” oscure e confuse) al grado massimo di conoscenza che si ottiene nella pienezza luminosa della vita conoscitiva. Nella sua gnoseologia – altro grecismo di suc34

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cesso coniato ex novo dal nostro “onomaturgo” da gnosis (conoscenza) – Baumgarten ritiene, invece, che questo stesso processo conoscitivo avvenga in due fasi distinte, ma gerarchicamente ordinate (gnoseologia inferiore e superiore) ciascuna delle quali possiede un suo grado di perfezione massima e quindi una sua autonomia. È proprio grazie al riconoscimento della perfezione e autonomia del livello conoscitivo inferiore legato alla sensibilità che è possibile fondare una nuova disciplina battezzata per l’occasione col nome di Estetica. È chiaro altresì che la metafora del bosco e degli individui-alberi che lo compongono e delle parti costituenti di ciascun individuo rischia di risultare insufficiente a illustrare la differenza fra il livello conoscitivo (estetico) delle rappresentazioni “chiare e confuse” e il livello conoscitivo (logico) delle rappresentazioni “chiare e distinte”. Per comprendere meglio questa differenza occorre pensare a cosa dobbiamo intendere nello spirito della teoria di Baumgarten per “parti costitutive” di un individuo (ad es. un abete). Ora è evidente che in questo caso l’occhio del pittore è in grado perfettamente di cogliere e di rappresentare non solo i “contorni”, ma anche tutte le particolarità dell’individuo-abete (rami, foglie, venature, rugosità, sfumature di colore): dunque su questo piano l’attività conoscitiva è sintetica e incontra come unico limite quello delle capacità percettivo-sensoriali del soggetto. Non si va oltre il livello della sensorialità e pertanto la conoscenza dell’oggetto è sì chiara (estensivamente chiara, ossia caratterizzata dal maggior numero di tratti distintivi, detti notae, intuitivamente colti nella loro concretezza), ma al tempo stesso confusa (in-distinta) quanto al resto, ossia per tutto ciò che va oltre il puro sensibile e può essere colto razionalmente dall’intelletto. Invece, lo scienziato-filosofo è in grado di oltrepassare questo livello, il suo atteggiamento conoscitivo non è sintetico, ma analitico: solo così è possibile capire, ad esempio come “funziona” la circolazione della linfa nell’abete dalle radici fino ai rami più alti o conoscere il perché del colore verde delle foglie dovuto alla sintesi clorofilliana. La conoscenza dell’oggetto, in questo caso, sarà non solo chiara (intensivamente chiara, ossia caratterizzata da mi35

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nor numero di notae colte nella maggiore chiarezza dell’astrazione), ma anche distinta, e al limite volta a divenire ipoteticamente adeguata, nella misura in cui ogni fenomeno complesso venisse scomposto e risolto in tutti gli elementi semplici che lo costituiscono. È importante comprendere, però, che se è vero che questa modalità “scientifica” del conoscere per Baumgarten è “superiore” alla modalità “estetica”, è anche vero che quest’ultima può essere in sé perfetta perché autosufficiente: semplicemente non ha bisogno di scomporre in modi analitici le parti costitutive di un fenomeno sceverandone “i come e i perché”. L’albero, o anche solo la verde foglia del pittore non sono quelli del botanico, il magnifico paesaggio che contemplo ammirato non è quello del geologo, la meravigliosa “libellula cangiante” di un poeta non è quella dello zoologo. Traggo l’esempio del paesaggio, e della libellula di cui canta Goethe, da Cassirer, eccellente interprete di Baumgarten. Abbandonarsi al fenomeno sensibile vuol dire, in sostanza, coglierne la potenziale bellezza, mentre tentare di “spiegarlo” razionalmente risalendo alle cause porta a distruggere quell’effetto: Chi volesse comunicarci l’impressione di un paesaggio scomponendone l’aspetto in singole determinazioni e cercando per ciascuna di queste un concetto distinto, descrivendo, per esempio, il paesaggio col linguaggio della geologia e coi suoi mezzi di conoscenza, raggiungerebbe con ciò una nuova conoscenza fisica, ma questa conoscenza non conserverebbe assolutamente nulla della “bellezza” del paesaggio.3

L’acquisto in termini di conoscenza logica superiore non solo chiara ma anche distinta si paga così in termini di bellezza, ossia di perdita del grado di perfezione di conoscenza estetica chiara e sia pure confusa. “Quid est enim abstractio si iactura non est?”,4 si chiede Baumgarten: che cos’è l’astrazione se non una perdita? Ora l’astrazione consiste appunto nell’eliminare tutto quanto eccede rispetto all’essenziale e nel ridurre analiticamente il molteplice nel semplice, la dimensione complessa, organica, e vitale dei fenomeni in elementi costitutivi isolati e privi di vita estetica: 36

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L’osservazione di un oggetto al microscopio può rivelare al naturalista la sua composizione e con questa la sua vera qualità oggettiva; ma con ciò è perduta per sempre la sua impressione estetica.5

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Il Goethe del “Canzoniere di Lipsia” citato da Cassirer6 incarna perfettamente e con grande concretezza ed efficacia il senso della contrapposizione delineata da Baumgarten fra intuizione poetica totalizzante, gestaltica, preservatrice della bellezza come perfezione della conoscenza sensibile, e la conoscenza logicoscientifica, razionalmente analitica e in ciò solo approfondita, “superiore”. Intorno alla sorgente svolazza la libellula cangiante – già da tanto ne godo –; ora scura ora chiara, come il camaleonte: ora rossa, ora turchina, ora turchina, ora verde; oh potessi vedere da vicino i suoi colori! Si libra e frulla, non si ferma mai! Ma zitto, si posa sul salice. L’ho presa! L’ho presa! E ora la osservo attentamente e vedo un triste colore turchino. Così succede a te, analizzatore delle tue gioie.

Secondo Ernst Cassirer il merito principale di Baumgarten, da Kant definito “eccellente analista”, fu quello di aver saputo individuare i limiti sistematici della logica scolastica, disciplina che, per quanto perfezionata fosse, non era in grado di elevare il sensibile alla dignità del sapere. Baumgarten, insomma, si rese conto che occorreva predisporre una nuova logica, una logica speciale che si occupasse della conoscenza dell’oscuro e dell’impreciso (genitivi oggettivi), complementare rispetto alla logica tradizionale. In un certo senso, dunque, si può dire con Cassirer che “l’estetica si svolge dalla logica”.7 37

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Ciò posto, possiamo tornare alla definizione da cui siamo partiti. Restano, infatti, da esaminare i 4 incisi che, per la loro collocazione nella frase e per il loro contenuto, sono da considerarsi di fondamentale importanza. Non si tratta di ‘aggiunte’ posticce, ma del contenuto specifico ed essenziale della definizione nel suo complesso senza del quale la definizione-cornice rimarrebbe del tutto astratta. Sciogliendo gli incisi, otteniamo 4 sub-definizioni complementari:

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1. l’Estetica è teoria delle arti liberali (tenendo conto della terminologia settecentesca di Baumgarten, già al suo tempo un po’ desueta, possiamo tradurre “arti liberali” con “belle arti”); 2. l’Estetica è gnoseologia inferiore (dove “gnoseologia inferiore” sta, ovviamente, per “teoria della conoscenza inferiore”); 3. l’Estetica è analogo della ragione (qui l’espressione sembra più ambigua, ma il senso è chiaro: alla conoscenza razionale “corrisponde” su un altro piano, la conoscenza sensibile); 4. l’Estetica è arte del pensare in modo bello (ossia: la conoscenza sensibile al suo più alto grado di perfezione coincide con la bellezza. Altrove, infatti, l’Estetica è identificata con la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale – perfectio cognitionis sensitivae qua talis8 – e questa perfezione sarebbe, appunto, la bellezza). In Baumgarten, dunque, c’è un forte legame fra i tre oggetti teorici di cui si è detto nel paragrafo precedente: 1. teoria dell’arte, 2. bellezza, 3. sensibilità, anche se, certo, in primo piano qui troviamo l’ordine della “sensazione-sensibilità” ed è questo a fondare e garantire gli altri due, contrariamente a quanto avverrà in seguito, e soprattutto nell’Ottocento, con il prevalere di una concezione dell’estetica intesa prevalentemente come “filosofia dell’arte”. Tuttavia il quadro teorico sarebbe incompleto se non tenessimo conto delle interessanti riflessioni di “Filosofia poetica” che 38

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un Baumgarten ancora giovane e tutto imbevuto di cultura umanistica e retorica elabora nel suo primo scritto, le già citate Meditationes philosophicae sulla poesia del 1735. Qui si trova una riformulazione della classificazione wolffiana delle idee che possiamo, con un minimo di inevitabile forzatura, rappresentare graficamente così: rappresentazioni noetiche Documento acquistato da () il 2023/04/12.

(noetà)

estetiche (aisthetà)

sensazioni (sensualia)

immagini

(phantasmata)

finzioni possibili finzioni impossibili (figmenta vera)

(figmenta)

eterocosmiche (heterocosmica)

utopiche (utopica)

La terminologia qui richiede alcuni chiarimenti. Premettiamo che le questioni teoriche generali e l’anticipazione dell’uso del termine “estetica” compaiono solo negli ultimi tre paragrafi delle Meditationes (§§ 115-117): nel primo dei tre si ipotizza già l’esistenza una scienza nuova, distinta dalla logica, che guidi la facoltà conoscitiva inferiore ossia una scienza della conoscenza sensibile; nel secondo si pone la questione del termine da attribuire a questa nuova scienza e ci si richiama per questo alla distinzione già operata dai filosofi greci fra gli aisthetà (da cui deriva il nome ricercato) e i noetà; nel terzo e ultimo si precisano i rapporti fra Retorica generale e Poetica generale come scienze rispettivamente dell’esposizione imperfetta e perfetta. Dunque, sintetizzando: ai noetà (rappresentazioni dell’intelletto) si contrappongono gli aisthetà (rappresentazioni della sensibi39

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lità), ma questi ultimi si possono riferire o a sensazioni in atto (sensualia) o a sensazioni assenti ma di cui resta traccia nella memoria e/o che vengono prodotti dall’immaginazione (phantasmata); “i fantasmi infatti sono sia passivi (immaginazione riproduttiva), sia sganciati dal concatenamento fattuale e riarticolati secondo un ordine libero (immaginazione produttiva, o più esattamente combinatoria)”;9 a loro volta, i fantasmi (phantasmata), vengono distinti in finzioni vero-simili (figmenta vera) possibili nel mondo esistente, o in finzioni impossibili nel nostro mondo (figmenta); queste ultime, infine, o sono eterocosmiche, cioè impossibili nel mondo esistente ma possibili in un altro mondo (heterocosmica); o sono impossibili in qualsiasi mondo (utopica), e quindi impoetiche. Il succo di tutto il discorso è che Baumgarten sembra lasciare alle capacità creative, immaginative e fantastiche del poeta (e indirettamente dell’artista in generale) molto più spazio di quanto a prima vista non si direbbe. Ritornando di nuovo alla definizione di estetica contenuta nel trattato del 1750 bisogna aggiungere che qualche studioso di recente ha sostenuto che la “scienza della conoscenza sensibile” di cui parla Baumgarten avrebbe poco a che fare con le poetiche e tanto meno legittimerebbe una filosofia dell’arte. Il riscontro dei testi non sembrano confortare questa tesi. È infatti possibile rintracciare alcune varianti definitorie dell’estetica (presenti già nella Metaphysica pubblicata per la prima volta nel 1739, ma che ha avuto molte edizioni successive) che invece confermano l’importanza attribuita da Baumgarten alla filosofia dell’arte, alla poetica, e anche alla retorica. Ne facciamo una breve rassegna da mettere a confronto con la definizione “ufficiale” contenuta nell’Aesthetica del 1750: Scientia sensitive cognoscendi et proponendi est Aesthetica, meditationis et orationis sensitivae vel minorem intendens perfectionem, Rhetorica, vel maiorem Poetica universalis (Metaphysica, 17391, § 533). La scienza del conoscere e dell’esporre sensibilmente è l’Estetica: se ha per scopo la minor perfezione del pensiero e del discorso sensibile è la Retorica, se ha per scopo la più grande perfezione è la Poetica universale. 40

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Scientia sensitive cognoscendi et proponendi est Aesthetica (logica facultatis cognoscitivae inferioris, philosophia gratiarum et musarum, gnoseologia inferior, ars pulcre cogitandi, ars analogi rationis) (Metaphysica, § 533, variante post.). La scienza del conoscere e dell’esporre sensibilmente è l’Estetica (logica della facoltà di conoscenza inferiore, filosofia delle grazie e delle muse, gnoseologia inferiore, arte del bel pensare, arte dell’analogo della ragione).

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Scientia imaginando cogitandi et ita cogitata proponendi est Aesthetica Phantasiae (Metaphysica, § 570). La scienza di pensare immaginando e di esporre siffatti pensieri è l’Estetica della Fantasia.

Che cosa possiamo notare? Innanzitutto, che in tutte queste versioni definitorie è presente la componente dell’esposizione sensibile dei pensieri, e inoltre che l’estetica ha a che fare con l’immaginazione fantastica ed è a pieno titolo una vera “filosofia delle grazie e delle muse” ossia una teoria delle Belle Arti, così come del resto risulta anche nella definizione dell’Aethetica. Come mai, allora, nella definizione del 1750 è caduto per mano dello stesso Baumgarten il riferimento al propon1ere (esporre)? Lo ha spiegato bene Emilio Mattioli in un suo saggio: Scompare dunque proponendi. È un fatto di grande rilievo. Proponere indica il momento espositivo, comunicativo. Come sappiamo dalle Riflessioni sul testo poetico [le Meditationes philosophicae… del 1735]: “la parte dell’estetica concernente il proporre deve essere più vasta che in logica” (§ 117). Si tratta dunque di un’omissione importante. Come la giustifica Baumgarten?10

La giustificazione è contenuta nelle “dispense” delle lezioni che Baumgarten teneva all’università registrate probabilmente da un suo allievo e da poco pubblicate in traduzione italiana: Si potrebbe chiedere perché non si sia scritto scientia de cognitione sensitiva et acquirenda et proponenda. Ma si conosce la regola di non introdurre nelle definizioni delle partizioni superflue. E poi sarebbe una definizione troppo riduttiva e si riferirebbe molto più specificamente all’eloquenza, mentre la definizione deve riferirsi anche musica e pittura.11 41

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Ma allora, commenta Mattioli,

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l’omissione non nasce da un proposito riduttivo, anzi l’estetica deve comprendere non solo le arti verbali, ma anche la musica e la pittura. […] L’estetica di Baumgarten, dunque, è sia nelle definizioni che il suo fondatore ne ha dato sia nei suoi sviluppi concreti dottrina della conoscenza sensibile e filosofia dell’arte, in questo sta la sua forza e la sua attualità.12

In conclusione, la definizione proposta da Baumgarten si conferma più innovativa e “moderna” di quanto la forma scolastica e il linguaggio desueto non lascerebbero intendere. Tale definizione, con il complesso dei suoi corollari, a) presuppone una stretto rapporto fra estetica e filosofia, e in particolare fra estetica e gnoseologia; b) legittima il ruolo “sensibilità” e fonda su di essa l’autonomia dell’estetica identificando la perfezione di questa modalità del conoscere con la Bellezza; c) ricomprende a pieno titolo nel “dominio estetico” una filosofia dell’arte nella forma specifica di teoria generale delle Belle Arti, mentre riconosce all’artista un più ampia libertà “creativa”. § 4. Dopo Baumgarten: usi del termine “estetica” La ricezione del termine “estetica” proposto da Baumgarten non è stato senza contrasti anche da parte di eminenti filosofi come Kant, Hegel, Schelling. Del resto non è infrequente, specie in filosofia (ma non solo), che una medesima parola assuma significati anche molto diversi (a seconda degli autori, dei contesti, ecc.). Ad esempio l’“Estetica trascendentale” di cui parla da Kant intitolando proprio così una sezione della Critica della ragion pura (1781) ha molto poco a che fare con le teorie del bello e dell’arte, mentre invece si ricollega intenzionalmente al significato etimologico primario del termine designando un certo tipo di “conoscenza” collegata alla sfera della “sensibilità”. 42

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Infatti Kant, con l’espressione “estetica trascendentale” intende riferirsi alle forme a-priori dell’intuizione sensibile: lo spazio e il tempo. In sostanza, Kant sostiene che il processo della conoscenza sensoriale (l’intuizione) mediante il quale percepiamo il “mondo fenomenico” interno ed esterno avviene sulla base di due forme soggettive “trascendentali” (ossia a-priori, “costitutive dell’esperienza”): la forma della sensibilità esterna (lo spazio) e quella della sensibilità interna (il tempo). Nulla a che vedere, dunque, con l’estetica come la intendiamo noi (mentre resta un parziale legame con la posizione di Baumgarten). Per altro Kant, quando decide di occuparsi del problema dell’arte e della bellezza intitola significativamente il suo trattato Critica della facoltà di giudizio e non “Estetica” (anche se usa l’aggettivo “estetico” nel senso moderno: ad esempio il “giudizio estetico” è quello che riguarda il bello e il sublime della natura o dell’arte). Più esplicita ancora è la polemica di Hegel circa una presunta ambiguità del termine “estetica”. Egli infatti (come del resto anche Schelling) ritiene che la nuova disciplina filosofica dovrebbe denominarsi non Estetica, bensì Filosofia dell’arte. Se apriamo il trattato di Hegel (malgrado tutto intitolato Estetica) troveremo questo problema affrontato subito, fin dalla lezione introduttiva: Signori, queste lezioni sono dedicate all’Estetica; il loro oggetto è il vasto regno del bello e, più dappresso, il loro campo è l’arte, anzi la bella arte. Certo per questo oggetto il nome di Estetico non è completamente appropriato, poiché “Estetica” indica più esattamente la scienza del senso, del sentire, e, in questo suo significato di una nuova scienza, o piuttosto di un qualcosa che avrebbe dovuto divenire disciplina filosofica, ha avuto origine nella scuola wolffiana al tempo in cui in Germania si consideravano le opere d’arte in relazione ai sentimenti che dovevano produrre, p.es. il sentimento del gradevole, della meraviglia, della paura, compassione ecc. A causa dell’improprietà, o meglio della superficialità di questo nome, si è poi cercato di forgiarne altri, p.es. quello di “Callistica”.13 Tuttavia, anche questo termine si mostra insufficiente, poiché la scienza che qui s’intende considera non il bello in generale, ma pura43

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mente il bello dell’arte. Noi vogliamo perciò contentarci del nome di Estetica, giacché come semplice nome è per noi indifferente, e del resto è così entrato nel linguaggio comune che può essere conservato come nome. Tuttavia il vero e proprio termine per la nostra scienza è “filosofia dell’arte”, e più specificamente “filosofia della bella arte”.14

Ricapitolando, diciamo che con il termine Estetica si può intendere una scienza filosofica (un tipo di riflessione teorica) che si applica all’arte e/o al bello e/o alla conoscenza sensibile. In linea generale possiamo anche affermare che, a seconda delle varie epoche, dei vari autori e delle varie scuole di pensiero è stato posto l’accento volta a volta sull’uno o sull’altro di questi tre fattori; oppure questi stessi fattori sono stati combinati fra loro in modo diverso (ad es. unificando “bello” e “arte” nella nozione di “belle arti”). Ma nessuno dei tre sottoinsiemi può essere, in via di principio, del tutto cancellato dal campo dell’estetica. Naturalmente, le definizioni implicite o esplicite dell’estetica a partire da Baumgarten sono molteplici e dipendono inevitabilmente dai diversi orientamenti filosofici. Ancora sulle soglie del Novecento Benedetto Croce ci dice, ad esempio, che l’estetica è “scienza dell’espressione”, ovvero scienza del concetto puro di arte. Dal punto di vista del metodo fenomenologico non sembra lecito escludere a priori dalla “costellazione dell’estetica” nessuno degli oggetti teorici già inclusi nella definizione baumgarteniana, mentre risulta conveniente registrare e comprendere le variazioni che storicamente, a seconda delle prospettive teoriche, si determinano nei rapporti fra quegli stessi oggetti segnando il predominare ora dell’uno ora dell’altro. La mia personale propensione va a un’idea di Estetica caratterizzata dal riconoscimento della centralità della riflessione sull’arte, nei diversi piani e livelli (teorici, prammatici e teorico-prammatici) in cui si manifesta (dove la stessa nozione di arte può essere associata o meno alla nozione di bello (compresi sinonimi e antonimi). Certo resta comunque fondamentale, sullo sfondo, la nozione di esperienza estetica come particolare modalità del rapporto io44

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mondo connessa alla sfera della sensibilità / sensorialità. Sembrerebbe, invece, meno fondata, in questa fase culturale, una concezione dell’estetica come scienza filosofica che abbia come oggetto prioritario o addirittura esclusivo la riflessione metafisica sul bello (ovvero quando tale nozione non sia organicamente collegata con quella di arte o non rientri, come ad esempio nel caso del cosiddetto bello di natura, nell’ambito dell’esperienza estetica in generale). Ci si può chiedere, infatti, cosa possa essere mai “il Bello in sé”: anche ammesso che oggi se ne possa ancora parlare, esso avrebbe eventualmente a che fare con il campo proprio della filosofia morale e/o della filosofia teoretica, ma non tanto, o affatto, dell’estetica, almeno come qui la si pensa. Insomma, quando oggi parliamo di “Estetica” in quanto disciplina filosofica dobbiamo tenere conto di almeno tre concezioni diverse ciascuna delle quali a sua volta comprende varie sub-articolazioni; in particolare abbiamo (l’elenco oltre che sommamente schematico è, come sempre, puramente esemplificativo): a) un’estetica autonoma e specifica che ha per oggetto prevalente l’arte e, più precisamente, le varie idee e riflessioni sull’arte elaborate sia dai filosofi, trattatisti, saggisti, scienziati vari, sul piano prevalentemente teorico, sia dagli artisti, critici, uomini del mestiere vari, sul piano prevalentemente prammatico (queste ultime tipologie di riflessione sull’arte sono state denominate da Anceschi – ma l’uso è oramai generalmente invalso – poetiche). È necessario precisare che oggetto dell’Estetica, così intesa, non è direttamente l’opera d’arte in quanto tale – questo è, semmai, l’oggetto proprio degli storici dell’arte e della letteratura, dei critici, ecc. – bensì, di norma, l’idea, il pensiero, la riflessione sull’arte, ovvero la riflessione che nasce dall’arte nel suo farsi o anche, al limite, la riflessione che è implicita nell’opera d’arte stessa. Fra l’Estetica e l’Opera esiste dunque un rapporto fondamentale, ma mediato e, per così dire, di secondo grado. b) un’estetica non-autonoma e non-specifica che ha per oggetto prevalente l’esperienza estetica per così dire “diffusa”; più da presso, essa tende a tradursi in concezioni schiettamente teoretiche che pongono al centro, esaltandola, la capacità, comune a tut45

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ti noi, di cogliere (di esperire) per così dire il lato estetico-sensibile della realtà nella quale viviamo e operiamo quale momento ineliminabile dell’esperienza (della conoscenza) in generale. In questa prospettiva, l’arte assume solo un valore “esemplare” (costituisce, in altri termini, solo l’esempio più significativo ed evidente di un processo che è proprio di “ogni” atto di esperienza). Pertanto l’estetica, in quanto disciplina specialistica, non avrebbe, al limite, ragione di esistere e si potrebbe “sciogliere” nella filosofia tout court. c) un’estetica che aspira a trovare una propria fondazione rigorosa, perché scientificamente garantita, proponendosi come ambito di applicazione speciale di teorie e metodologie allotrie, ossia provenienti da altri settori filosofici o scientifici. È questo il caso da un lato della cosiddetta Estetica analitica, che ha preso avvio intorno alla metà del Novecento sulla base di acquisizioni di ordine logico ed epistemologico, e dall’altro lato della più recente, ma non meno “cosiddetta”, Neuroestetica che, sull’onda di alcune scoperte tecnologiche e scientifiche proprie delle Neuroscienze (Functional Magnetic Resonance Imaging, “neuroni specchio”), gode al momento di una certa voga.

NOTE 1 G. FABRIS, L’estetica sostituisce l’etica: nei prodotti si cerca il bello. Il consumatore, sempre più consapevole e attento, cerca la qualità, ma conta sempre di più il design, “Affari e Finanza”, 11 giugno 2007, p. 4. 2 Riprendo liberamente questo spunto, come pure quello relativo agli “Istituti di Estetica”, dal Corso di estetica di R. BARILLI (Bologna, il Mulino, 1995). 3 E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 468. 4 A.G. BAUMGARTEN, Aesthetica, § 560. 5 E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo, cit., p. 469. 6 Ibid. 7 Ibid., p. 462. 8 A.G. BAUMGARTEN, Aesthetica, § 14. 9 M. FERRARIS – S. GIVONE – F. VERCELLONE, Estetica, Milano, TEA, 1996, p. 10.

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10 E. MATTIOLI, Baumgarten e l’estetica, “Studi di estetica” n. 18 (1998), pp. 188-189. Il testo integrale del saggio si trova on-line nel sito della rivista: www.unibo.it/estetica. 11 A.G. BAUMGARTEN, Lezioni di Estetica, ed. it. a cura di S. Tedesco, Palermo, Aesthetica ed., 1988, p. 30. 12 E. MATTIOLI, Baumgarten e l’estetica, cit., p. 189. 13 ‘Callistica’ o ‘Callologia’ è un neologismo derivato dal greco kalòn (bello) e vale dunque: ‘Scienza del bello’. 14 G.W.F. HEGEL, Estetica, a cura di N. Merker, Milano, Feltrinelli, 1978, t. I, p. 5. Com’è noto, il testo non è di pugno del filosofo tedesco, ma di alcuni suoi allievi che raccoglievano gli appunti delle sue lezioni universitarie.

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III. L’estetica prima dell’estetica

§ 1. Quando “nasce” l’estetica? Se si scorre un dizionario specialistico alla voce “Estetica”, o si apre una manuale di storia della disciplina, nella maggior parte dei casi si leggerà che l’estetica “vera e propria” è una scienza moderna che nasce nel Settecento, ma subito dopo risulterà che la “preistoria dell’estetica” ha avuto inizio una ventina di secoli prima. Quasi nessun redattore, in concreto, rinuncerà a esporre le teorie implicite o esplicite di questo o quell’autore, filosofo e non, a partire quanto meno dall’antichità classica e fino al “battesimo” ufficiale ad opera di Baumgarten. C’è qualcosa di paradossale in quest’atteggiamento? Per certi versi probabilmente sì. Ancora una volta occorre interrogarsi sul senso e sui limiti di validità delle stesse domande che ci poniamo: “quando nasce l’estetica? quando comincia la sua storia?”. Forse bisognerebbe chiedersi “quale” estetica nasca effettivamente a metà del secolo dei Lumi. Anche a questo proposito, naturalmente, le risposte variano a seconda di come si concepisce il rapporto tra estetica e filosofia, di cosa si intende per “estetica e di cosa si intende per “filosofia”: 49

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L’estetica prima dell’estetica

a) c’è chi ha presunto, e tuttora presume, che l’estetica “nasca” solo in età moderna, nel Settecento con Baumgarten o, per altri, con Vico, o per altri ancora con Kant, e che quindi non si possa parlare (in senso proprio, filosofico) dell’esistenza di un’estetica antica, medievale, rinascimentale, barocca, ecc. b) c’è chi pensa invece che la cosa esista prima del nome – come ha scritto lo storico Bosanquet ai primi del Novecento –, cioè che sia dia una forma di riflessione “estetica”, pur se non in senso speculativo-sistematico, anche prima che il termine stesso venisse coniato dal filosofo tedesco Baumgarten, come già sappiamo. I primi sostengono che le riflessioni sull’arte e sul bello prima del Settecento (poniamo, ad esempio, quelle di Platone o di Aristotele, di Plotino o dei medievali, di Leon Battista Alberti o di Leonardo, di Cartesio o di Boileau, di Locke o di Shaftesbury, di Du Bos, Batteux, Diderot, Rousseau...) siano solo dei “precorrimenti” episodici, frammentari, di scarso rilievo teorico. Ben duemila anni di “precorrimenti” costituirebbero la cosiddetta “preistoria dell’estetica”! Benedetto Croce è, ancora una volta, il più lucido nel sostenere questa tesi, come si può vedere fin dalle prime righe della parte storica della sua Estetica del 1902: È stato parecchie volte oggetto di controversia se l’Estetica sia da considerare scienza antica o moderna; venuta al mondo per la prima volta nel secolo decimottavo o formatasi già nel mondo grecoromano. Questione, com’è facile intendere, che non è solo di fatti ma di criteri: risolverla in un modo o in un altro dipende dal concetto che si ha di una scienza e che si adopera poi come misura e termine di paragone. Il nostro concetto è che l’Estetica sia scienza dell’attività espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa, quindi, secondo noi, non sorge se non quando viene determinata in modo proprio la natura della fantasia, della rappresentazione, dell’espressione, o come altro si voglia chiamare quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì teoretico, produttore di conoscenze, ma dell’individuale, non dell’universale. Fuori di questo concetto, per nostro conto non sappiamo scorgere se non deviazioni ed errori.1 50

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L’estetica prima dell’estetica

In un suo successivo scritto intitolato Inizio, periodi e carattere della storia dell’estetica (1916)2 Croce giustifica questa scelta con questi argomenti: a) l’estetica è parte integrante della filosofia b) l’estetica vera e propria nasce quando nasce la filosofia vera e propria c) la filosofia, e quindi l’estetica, vere e proprie nascono con il “soggettivismo” moderno fra Sei e Settecento (il “soggettivismo” moderno è visto da Croce come la forma iniziale del suo spiritualismo neoidealistico) d) prima del Sei-Settecento c’è solo preistoria dell’estetica. Infatti: – in primo luogo, durante la preistoria dell’estetica non viene elaborato un concetto “puro” dell’arte o del bello (ossia: una definizione essenzialistica universale, assoluta); i concetti dell’arte e del bello in questo lunga fase sono “concetti spuri” in quanto “fusi nei giudizi” (ossia sono una mescolanza di attività teoretica e di attività pratica, di attività conoscitiva e di giudizi “pratici” critico-valutativi, ed è ben chiaro come questa non-distinzione fra attività teoretica e attività pratica sia, per Croce, inaccettabile sul piano del Sistema) – in secondo luogo, durante la fase preistorica dell’estetica non viene elaborato un Sistema Filosofico vero e proprio (ossia organico, totalizzante e, secondo la terminologia di Anceschi, “chiuso”) che ricomprenda al suo interno anche l’Estetica come parte integrante. Ora, se da una questione specifica di ordine teorico passiamo a considerare il modo con cui viene affrontato il problema più generale della storia dell’estetica, troviamo che i riferimenti e i meccanismi di fondo sostanzialmente non mutano. Le argomentazioni di Croce sono note: posto che la vera filosofia non può che essere filosofia dello spirito e posto che “è impossibile costruire una Filosofia dello spirito senza costruire un’Estetica”, ne segue che esiste un’esatta corrispondenza “tra la mancanza di un’Estetica propriamente detta e il carattere della filosofia antica” per un verso, mentre all’opposto alla nascita della filosofia moderna corrisponderebbe quella simultanea dell’estetica. Lo spartiacque, 51

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quindi, fra preistoria e storia dell’estetica si dovrebbe collocare all’incirca fra Sei e Settecento e coinciderebbe con la nascita del “soggettivismo moderno”. In questa prospettiva, allora, la filosofia soggettivistica di Cartesio costituirebbe la condizione necessaria e preliminare per il passaggio alla seconda fase, quella dell’estetica propriamente detta, che si realizzerebbe pienamente con l’affermarsi della filosofia dello spirito, appunto. In sostanza, qui, si danno due negazioni tra loro correlate: 1) la negazione dell’esistenza di un’estetica vera e propria prima – diciamola chiaramente – di Vico, Baumgarten e Kant (pur con tutti i loro limiti che Croce, dal suo punto di vista, non manca di rilevare); 2) la negazione dell’esistenza di una “genuina e schietta filosofia”, di una “filosofia vera e propria”, prima di Cartesio (e Leibniz). A rigore, dunque, bisognerebbe parlare non solo di una preistoria dell’estetica, ma pure, in qualche modo (ed è considerazione forse un po’ trascurata dagli studiosi), di una concomitante preistoria della filosofia: non bisognerebbe aver paura – scrive Croce – di trarre l’ulteriore conseguenza: che la filosofia è veramente dei tempi moderni, e quella che così si chiama, dall’antichità al Rinascimento, è filosofia solo nella sua parte secondaria ed episodica...3

Ma veniamo al punto. Col “negare l’estetica” al periodo che va dall’antichità al Sei-Settecento, Croce non intende negare anche che in quello stesso periodo mancasse “il concetto della poesia o dell’arte in genere”, né che “si spendesse allora molta industria intorno alle cose dell’arte”, né che vi si potessero scorgere “vestigi di altri pensieri più propriamente filosofici”: Ma, concessi ampiamente questi tre punti [...] rifulge anche più evidente che, nel periodo che va dai greci al secolo decimosettimo, l’estetica propriamente detta non ebbe luogo. Perché quel concetto dell’arte, di cui abbiamo celebrato l’efficacia, era [...] fuso nei giudizi o vagava in aforismi e sentenze, “sciolto e non legato”, secondo l’espressione del Socrate platonico, ossia non connesso sistematicamente con gli altri concetti filosofici.4 52

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In altre parole, qui Croce imputa a quella riflessione di aver elaborato solo una “scienza empirica dell’arte” stante l’incapacità sia di pensare un concetto dell’arte teoreticamente puro, sia di costruire un sistema filosofico totalizzante nel cui ambito il momento estetico potesse organicamente integrarsi quale sua componente essenziale. Ma quel concetto, anzi quei concetti dell’arte, pur esistenti, non potevano dirsi puri appunto perché fusi nei giudizi, ossia volti a un fine pratico e non critico e speculativo. Il cerchio, come pare, si chiude proprio sull’assioma, la cui portata strutturale appare subito evidente, della rigida distinzione fra attività teoretica e attività pratica. La verità è che qui è in gioco l’asse portante del Sistema e sappiamo quanta cura metta Croce nel marcare rigidamente la distinzione fra queste due fondamentali attività dello spirito. La sua, dunque, appare essere, nel caso della distinzione fra “preistoria” e “storia dell’estetica” come già in quello della distinzione fra tecnica “interna” ed “esterna”, una via obbligata; obbligata, intendo, perché già in partenza determinata dalla logica che presiede al Sistema stesso. Certo ci si può richiamare al modulo dell’unità-distinzione, della circolarità dinamica dello spirito, e via dicendo, e tuttavia resta la postulazione di fondo secondo cui “lo spirito pratico è tale perché non conoscitivo, e, in fatto di conoscenza, del tutto sterile”. E ancora, resta che, già nelle Tesi presentate da Croce all’Accademia Pontaniana di Napoli (1900), il confine era stato nettamente tracciato: ogni possibile “invasione del pratico nel teoretico” viene repressa senza tentennamenti, come si può rilevare poi anche in tutti i principali testi crociani a partire dall’Estetica del 1902: dobbiamo condannare come erronea ogni teoria che aggreghi l’attività estetica a quella pratica, o le leggi della seconda introduca nella prima.5

Ma alla radice del Sistema e dunque della stessa distinzione fra attività teoretica e attività pratica stanno, se si vuole, determinate scelte, anche di gusto, specifiche opzioni teoriche, assunzioni aprioristiche, atteggiamenti dogmatici, elementi tutti che concorrono a condizionare la struttura, la logica del Sistema stesso. 53

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L’intenzione antipositivistica, antinaturalistica, antimaterialistica, antioggettivistica in genere; il rifiuto di “concepire un essere staccato dal pensiero o un pensiero staccato dall’essere”, la negazione di ogni concezione dualistica in nome di un sostanziale immanentismo, congiunti con un certo gusto tardoromantico dell’arte, sono tutti motivi e opzioni e postulati che determinano i principi informatori e l’impianto sistematico di una Filosofia che vede nello Spirito risolversi senza residui la totalità del reale. In concreto, quando poi si vada a verificare il giudizio di Croce sugli autori del Sei-Settecento, e in particolare proprio su quegli esthéticiens di cui ci occuperemo, ci si rende conto che se pure essi apparterrebbero da un punto di vista cronologico (seguendo lo schema crociano) alla vera e propria “storia” dell’estetica, di fatto invece si trovano come risucchiati in una zona grigia o, se si vuole, aurorale dell’estetica, come semplici sintomi, e per giunta confusi, incerti e contraddittori di un processo univocamente orientato che troverà il suo pieno compimento solo molto dopo. In questo senso si potrebbe dire che l’ombra della “preistoria dell’estetica” si estende, di fatto, ben oltre i limiti definiti dallo stesso Croce, il che produce quell’impressione come di “camposanto” che il Labriola imputava alla sezione storica dell’Estetica. Abbiamo, così, ad esempio, quel “gran guazzabuglio di idee disparate”, quel “leggiadro mazzolino di contraddizioni”, quel brancolare “come a tentoni” dei trattatisti sei-settecenteschi, fra “incertezze e precarietà”, nel tentativo di ritrovare “l’ufficio della poesia e dell’arte nella vita dello spirito”. Dove l’incertezza e la precarietà, appunto, viene aprioristicamente commisurata con un Modello dogmaticamente assunto come l’unico valido, per sempre e in tutti i casi. Appare interessante notare come un contemporaneo di Croce, studioso dell’estetica kantiana e vicino alle impostazioni della Kunstwissensschaft, Victor Basch, non abbia timore di riconoscere che nel Sei-Settecento la riflessione sul bello e le arti, non essendo appannaggio esclusivo dei “filosofi di professione”, vada ricercata proprio in quei trattatisti e saggisti vari, le cui opere, non facili a classificare, sono “semi-letterarie, semi-morali e semi-filo54

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sofiche”. Se è vero che in queste opere non sempre le questioni di principio sono nettamente definite e separate dal momento pratico-applicativo, è anche vero, afferma Basch, che “questa separazione non potrà mai essere rigorosa”. E veramente

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la teoria del bello e delle arti non è stata mai e non sarà mai monopolio dei teorici puri.6

Un pensiero di Leonardo, un’annotazione di Mozart o di Haydn, una riflessione di Sainte-Beuve o di Fromentin, possono risultare “più illuminanti”, per la risoluzione di un problema estetico, “della più sottile e profonda deduzione filosofica”. In conclusione, si tratta, dunque, quando si vuole seguire lo sviluppo delle idee estetiche, di non trascurare alcuna testimonianza.7

Le stimolanti considerazioni di Basch ci portano ad affrontare, a questo punto, il problema dei diversi piani e livelli di riflessione entro cui si articola il pensiero estetico e poetico, e ciò nell’intento di rintracciare le condizioni di possibilità di un disegno storiografico che voglia presentarsi libero dai condizionamenti riduttivi propri di ogni modello sistematico “chiuso”. Che sussista un legame non estrinseco fra prospettiva storiografica e orizzonte teorico è enunciato corrente nell’ambito degli studi estetici che si richiamano alla “nuova fenomenologia critica”. E ciò non tanto nel senso, per certi versi scontato, che, di norma, ogni approccio storiografico riflette o implica, in modi più o meno diretti e pressanti, una pronuncia sull’Estetica in generale – sul suo statuto, sul suo (eventualmente, “autonomo” e “specifico”) campo di esistenza, sul suo peculiare oggetto teorico (o aggregato di più oggetti teorici). Piuttosto, si vuol dire che quel particolare taglio metodologico, privilegiando, com’è noto, un’attiva comprensione dei fenomeni, delle loro relazioni, dei loro sistemi concettuali e operativi, secondo un movimento che “tende” a strutturarsi in una “sistematica aperta” (e dunque sempre rivedibile), comporta di fatto e “naturalmente” il continuo intrecciarsi di motivi teorici e di motivi storiografici. Si potrebbe sostenere, in questa chiave, 55

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che il “metodo”, mettendo fra parentesi le risposte inevitabilmente dogmatiche all’interrogazione di marca essenzialistica (il che cosa è ....?) e dunque contestualizzandole nel rilievo della loro parziale validità, garantisce proprio il continuo “tradursi” della direzione teorica in quella storiografica (viceversa). Ora è chiaro che, se si ammette quanto meno l’inefficacia della prospettiva storiografica crociana, e se si ammette che questa prospettiva è strettamente coerente con i presupposti teorici che presiedono alla costituzione del Modello sistematico, e che questi presupposti comportano la rigorosa esclusione dall’ambito propriamente estetico non solo di ogni riflessione di ordine decisamente pragmatico ma anche di ogni pensiero che appaia frutto di una contaminazione del teoretico col pratico, allora, crediamo, bisognerà anche ammettere che, in linea di principio, ogni risoluzione della dicotomia fra “preistoria” e “storia” dell’estetica dovrà fondarsi sulla messa in discussione proprio di quella rigida “distinzione” fra teoreticità e praticità che si diceva. Che vuol dire, in altri termini, rinunciare (per certi versi) al mito della “purezza” concettuale e al dogma del Sistema “chiuso” a tutto vantaggio di una metodologica “critica” e di una sistematica “aperta”. Anceschi ha mostrato in modo efficace come sia possibile prospettare una storia dell’estetica non impaludata nelle strettoie di una ricerca volta a riconoscere come valido solo un certo tipo (sistematico), e un certo piano (speculativo) di riflessione. Il che non vuol dire, anzi, disconoscere la rilevanza “esemplare” dell’estetica crocianamente (e non) detta “vera e propria”, giacché, caso mai, quella dichiarata “verità” e “proprietà”, una volta che sia storicamente ricontestualizzata e fenomenologicamente “ridotta”, non potrà che risultare più autenticamente vitale (se è vitale) e soprattutto più “compresa” proprio nei suoi inevitabili “limiti”. Dunque non si contesta l’esemplare rilevanza di una storia dell’estetica che si proponga come “storia dell’estetica propriamente speculativa e sistematica”. Si vuol discutere, invece, la pretesa che questo sia l’unico percorso se non possibile, quanto meno legittimo. In effetti, il pensiero neofenomenologico in quanto metodologia critica volta alla più ampia com-prensione dei fenomeni, ten56

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de a recuperare nella loro funzionalità specifica e parziale validità, e a integrare in un’aperta sistematica, proprio la molteplicità dei livelli (pragmatico, analitico, speculativo, critico...) entro cui si articola la riflessione sull’arte. Un tale pensiero non può che essere refrattario al “pathos metafisico” dell’uno e dell’immutabile, magnificamente interpretato da Shelley in Adonais:

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L’Uno rimane; i molti mutano e passano; la luce del Cielo per sempre splende, le ombre della Terra fuggono...8

e di cui ha parlato con molta acutezza Arthur O. Lovejoy con riferimento a quella filosofia che afferma l’esistenza “nel cuore delle cose” di “una realtà in cui non c’è mutevolezza alcuna né ombra proiettata da svolgimento”. E dunque, in questa prospettiva, lo storico delle idee estetiche non potrà, crediamo, né trascurare lo svolgersi concreto della riflessione pragmatica (precettistica, normativa, idealizzante) né tantomeno sottovalutare quel livello di riflessione (proprio, appunto, degli esthéticiens settecenteschi) che pur non proponendosi come puramente speculativo, e pur non rinunciando del tutto ad una sua dimensione pragmatica, tuttavia aspira ad analizzare e a sistematizzare le varie nozioni e il loro campo di esistenza in termini dichiaratamente teorici. Dal nostro punto di vista la contrapposizione fra preistoria e storia dell’estetica appare viziata da un astratto schematismo e denuncia tutti i suoi condizionamenti aprioristici: in realtà – crediamo – ciò che “nasce” e ciò che (forse) “muore” fra Settecento e Novecento non è l’estetica tout court, bensì solo un certo modo di pensare l’estetica, ossia quel modo che produce l’estetica speculativa dei Grandi Sistemi. Il metodo neofenomenologico, un metodo che pone a fondamento del suo discorso l’esperienza, ossia “le oscillazioni infinite tra ciò che diciamo io e ciò che diciamo mondo nei loro rapporti e nella loro azione reciproca”, che “formula solo ipotesi, e non ipostasi o sentenze”, che “affronta il campo della sua indagine nella chiara consapevolezza della inesauribilità del campo stesso”, che infine “ammette l’esistenza di altri metodi, di altri modelli”, questa “logica”, dunque, sembra in grado di difenderci, come scrive Anceschi, 57

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da alcune illusioni filosofiche, da improprie pretese di dominio e, infine, da quella sorta di sconvenienti esaltazioni disposte a scambiare le ipotesi per Risultati Assoluti.9

Sconvenienti esaltazioni: come di chi, veramente, ancora immagini “di poter toccare il cielo con la mano all’estremo limite della pianura”. Dunque, riassumendo: Croce non nega che esista una riflessione sull’arte e/o sul bello in Platone, Aristotele, Plotino, e via via fino al Settecento, ma imputa a questa riflessione da una lato a) di procedere per concetti “non puri”, e dall’altra b) di essere frammentaria, episodica, non organizzata in un Sistema speculativo organico. Al contrario, l’estetica neofenomenologia “recupera” tutta quella ricca riflessione (non solo dei filosofi – di tutti i filosofi, senza pregiudizi – ma anche degli artisti, dei trattatisti, dei critici..) che di solito viene “scartata” dai sostenitori, espliciti o mascherati, del modello crociano. Quanto più la disciplina tenta di qualificarsi come disciplima “moderna”, e come nata nel Settecento – scrive Anceschi – tanto più (e basterà approfondire lo svolgersi di concetti che la riguardano e che ci portano fino alle origini del pensiero umano) essa mostra radici antichissime.10

Secondo il mio personale punto di vista, la storia dell’estetica comincia, al limite, quando comincia l’arte stessa, giacché la pratica dell’arte, la sua produzione e la sua fruizione non possono non accompagnarsi con una riflessione (quale che ne sia la forma), con un’idea (anche implicita nell’opera stessa), con un pensiero (anche frammentario) sull’arte in quanto tale. Dunque parlare di “nascita dell’estetica” (e, di conseguenza, di “preistoria” dell’estetica) non ha senso più di quanto non ne abbia parlare, che so io, di “nascita dell’arte” o, come è stato fatto nei secoli passati in altro campo, di “origine del linguaggio” (tanto più quando si voglia, con queste espressioni, indicare date più o meno precise, autori specifici a cui si attribuisce una discutibile “paternità”: punti d’inizio così poco consistenti e autonomi che necessitano del supporto teorico faticosamente elaborato in un paio di millenni per sostenersi). 58

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Con ciò non si vuol dire che nel Settecento, e in specifico con Baumgarten, non accada nulla di nuovo o di rilevante. Si determina, indubbiamente, in questo secolo che fu detto “estetico” un momento di svolta, o se si vuole, un salto qualitativo: ma ciò che inizia (ciò che “nasce”) in questo periodo e con autori come Baumgarten non è l’estetica tout court, bensì, a mio avviso, solo (e non è affatto poco) l’Estetica Speculativo-Sistematica Moderna, cioè un ‘tipo’ di estetica che si andrà sempre più caratterizzando per tutto l’Ottocento e fino ai primi del Novecento per un forte impianto teoretico-sistematico, appunto, e che sarà spesso venata da forti coloriture metafisico-essenzialistiche, quando non, più di una volta, francamente dogmatiche. Ma questo tipo di estetica non è “tutta” l’estetica. Anzi, quella che abbiamo chiamato Estetica Speculativo-Sistematica Moderna non solo non esaurisce in sé tutta l’estetica in generale, ma non esaurisce nemmeno tutta la riflessione sull’arte e sul bello relativa allo stesso periodo storico (fra Otto e Novecento) in cui di fatto si sviluppa e trionfa. Essa infatti, per sua natura, è portata a svalutare, a trascurare, a cancellare addirittura, quel tipo di pensiero che non assume una forma strettamente teoretico-sistematica. A maggior ragione essa non prende in considerazione, o tiene in pochissimo conto il pensiero dei non-filosofi in senso stretto, vale a dire la riflessione sull’arte degli “addetti a i lavori” (artisti, critici, letterati, ecc.). Ma forse – come suggeriva Basch – il pensiero di un artista o di un critico può essere più illuminante, per l’estetica, di tanti ponderosi trattati la cui prima e forse unica preoccupazione sembra a volte quella di teorizzare il “fuori i barbari” con riferimento proprio alla riflessione della “gente del mestiere” (artisti, critici, letterati, ecc.). § 2. Il bello (fra Omero e Voltaire) Il campo del Bello e quello dell’Arte (di ciò che noi oggi chiamiamo “arte”) erano nell’antichità classica non convergenti, anzi sostanzialmente distinti e con pochissimi punti di contatto. Que59

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sta situazione di relativa “estraneità” fra due campi che oggi noi consideriamo naturalmente intrecciati se non coincidenti si andrà lentamente attenuando nel corso del medioevo e comincerà ad essere veramente messa in crisi soprattutto a partire dal Rinascimento italiano. Tuttavia, solo col trattato di Charles Batteux e con il precisarsi, per suo impulso, del “sistema moderno delle belle arti” (siamo quasi a metà del Settecento), il processo di integrazione fra i due campi si potrà dire sostanzialmente compiuto. Nella Grecia arcaica (VIII-VII secolo a.C.), con Omero in particolare, troviamo una prima e importante identificazione dell’idea di Bellezza con l’idea di luminosità intesa come splendore del sensibile, ma anche con l’idea di seduzione che sarà propria, in seguito, di Gorgia e dei Sofisti. Vattimo scrive che la riflessione sulla bellezza “ci è tramandata da poeti come Omero ed Esiodo, e poi dai frammenti dei presocratici: in questi testi, la bellezza comporta alcuni caratteri che rimangono determinanti per tutta la tradizione successiva: essa è, per esempio, ‘luminosità’ e splendore del sensibile (così, in Omero, sono belle le armi degli eroi perché sono ornate e splendenti; è bella la luce del sole e della luna, e bello è l’uomo dall’occhio splendente)”. Ho isolato un brano dell’Iliade (XIV, vv. 159-185, trad. di R. Calzecchi Onesti, cors. miei) che rappresenta compiutamente questa concezione della bellezza. Questo, in sintesi l’antefatto: la dea Era (Giunone), sposa di Zeus (Giove) ha in mente di “sedurre” e quindi far addormentare l’augusto sposo in modo da poter liberamente aiutare i Greci che in quella fase della guerra sono stati attaccati e messi in gravi difficoltà da un potente assalto dei Troiani (Zeus si barcamenava e non voleva interferenze). I versi si riferiscono alla toilette della dea che si prepara alla bisogna. Allora Era divina grandi occhi esitò, cercando come potesse ingannare la mente di Zeus egìoco: questo infine le parve nell’animo il piano migliore andare sull’Ida, dopo aver bene ornato se stessa, se mai Zeus bramasse d’abbandonarsi in amore contro il suo corpo, e un sonno caldo e tranquillo potesse versargli sopra le palpebre e nei pensieri prudenti. 60

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E mosse per andare nel talamo che il figlio le fece, Efesto, e solide porte ai pilastri adattò, con chiave segreta; nessun altro dio le può aprire. Ella, giuntavi, chiuse le porte splendenti. E con ambrosia prima dal corpo desiderabile tolse ogni sozzura, si unse poi d’olio grasso, ambrosio, soave, che profumò lei stessa. Ad agitarlo nella dimora soglia di bronzo di Zeus, dovunque in terra e in cielo se ne spande il profumo. Unto con quello il bel corpo e pettinate le chiome, intrecciò di sua mano le trecce lucenti, belle, ambrosie, che pendono giù dal capo immortale. E indosso vestì veste ambrosia, che Atena le lavorò e ripulì, vi mise molti ornamenti; con fibbie d’oro se l’affibbiò sopra il petto. Cinse poi la cintura, bella di cento frange, nei lobi ben bucati infilò gli orecchini a tre perle, grossi come una mora; molta grazia ne splende. D’un velo coperse il capo la dea luminosa, nuovo e bello; ed era candido come il sole.

Con i Pitagorici (circa V sec.), convinti assertori della presenza di una razionalità geometrico-matematica come vera “struttura immanente del mondo e delle cose” si afferma una concezione che avrà grande fortuna per molti secoli: la bellezza è simmetria e proporzione (e si pensi anche alle scoperte fatte dai pitagorici nel campo dei rapporti, delle leggi matematiche che regolano i fenomeni musicali). Di qui nasce l’idea che si possano trovare delle “proporzioni” perfette rappresentate da formule matematiche e geometriche e che tali proporzioni siano la vera “anima” della bellezza (non solo in musica ma anche nelle arti che noi diciamo visive). Ricordiamo, ad esempio, il cosiddetto rettangolo aureo, caratterizzato da una certo rapporto fisso fra lato maggiore e lato minore; oppure, l’uso del modulo (unità di misura del tipo: il raggio del cerchio costituito dalla base di una colonna) che gli architetti utilizzavano per creare una precisa e studiata armonia di proporzioni fra le varie parti, mettiamo, di un tempio (tot moduli per 61

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l’altezza della colonna, tot per l’altezza complessiva della facciata, tot per la larghezza, e così via fin nelle più piccole parti strutturali o decorative dell’edificio). Tutto ciò produsse dei “canoni”, una sorta di raccolta di calcoli, formule, analisi, osservazioni e precetti, relativi alla proporzione di corpi o edifici, messi a punto da artisti, architetti, ma anche, nel loro campo, da musicisti. Ad esempio, nella statuaria uno dei più famosi è il Canone di Policlèto (Policlèto fu, com’è noto, un grandissimo scultore operante nel V secolo a.C. e autore, fra l’altro, del celebre Doriforo, il portatore di lancia, la cui figura armoniosa e ben equilibrata traduce concretamente nelle proporzioni di masse e volumi appunto l’ideale “canonico” voluto dal suo autore). Qui possiamo riscontrare, a mio avviso, un possibile punto di contatto fra bello (pitagorico) e arte (soprattutto: musica, scultura, architettura). Secondo Gianni Vattimo,11 invece, “uno dei pochi nessi espliciti tra arte e bellezza che sia riconosciuto dal pensiero arcaico” è costituito dal fatto che “la poesia condivide con la bellezza la forza di persuadere”. Già in Esiodo si attesta che Afrodite, dea della bellezza, esercita un grande potere sull’uomo; inoltre presso i Sofisti, e in particolare presso Gorgia da Lentini (480380 circa a.C.) la bellezza “è forza di persuasione, capacità di attrarre e anche ingannare”. Nel brano di Omero che abbiamo riportato sopra troviamo, a ben vedere anche questo fattore della bellezza, intrecciato a quello, già citato, della “luminosità”. Infatti Era (Giunone), la sposa di Zeus, mediante le grazie di un corpo cui opportune cure cosmetiche e un abbigliamento sapiente donano ulteriore “splendore” (bellezza), si propone, in fondo, di sedurre l’augusto sposo. La dea, dunque, esercitando su Zeus tutto il suo potere di fascinazione, e di fatto ingannandolo, in qualche modo lo “persuade”, lo “neutralizza”, facendolo addormentare, così ottenendo il suo scopo. Con Platone (427-348 circa a.C.) il concetto di bello entra di diritto nella metafisica, essendo una delle idee di cui è popolato l’Empireo. Si tratta qui di un tipico esempio di concezione essenzialistica e assolutizzante del bello. Seguendo il percorso indicato 62

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nel Simposio (209e-212c) dapprima si ama la bellezza sensibile in un corpo, poi si comprende che una e identica è la bellezza che è in tutte le forme visibili, poi si ritiene che la bellezza che è nelle anime è più pregevole di quella che è nei corpi, quindi si considera il bello che è nelle varie forme dell’attività umana e nelle leggi, e infine si giunge alla bellezza che è nelle scienze. Il termine ultimo sarà l’Idea di Bellezza che è sempre, non nasce mai e non muore mai, né cresce né diminuisce, non è in parte bella e in parte brutta, né ora sì ed ora no, né bella sotto certi aspetti e brutta sotto certi altri, né bella qui e brutta lì; [la Bellezza è] per sé stessa, con sé stessa, unica idea che è sempre [mentre] tutte le altre bellezze non sono tali che per la partecipazione della Bellezza.

Bellezza, quindi, come carattere proprio dell’essere “vero”, delle idee (entità puramente razionali, immutabili, eterne: “le cose che sono, e sempre sono”). Bellezza: un’idea “corporea”, l’unica fra le idee che ha il privilegio di rendersi “visibile” ai mortali per poter essere da loro ardentemente amata. Bellezza, infine, come “portico” della casa del Bene (proprio in quanto, mediante l’amore che suscita, indirizza l’uomo alla ricerca delle Idee-Valori quali, appunto, il Bene e il Vero). Qui siamo nell’ambito, com’è evidente, di una concezione assolutizzante del Bello, di una concezione, cioè che presuppone l’universalità, l’eternità, l’immutabilità del Bello di contro alla variabilità contingente delle “bellezze fenomeniche”. Nel corso della sua storia, l’Estetica ha visto più volte riaffiorare questa sorta di utopia di marca più o meno platonizzante (ad esempio in YvesMarie André, autore nel 1741 di un Essai sur le Beau). Spesso, ma non necessariamente, l’idea di bello assoluto si intreccia con quella di bello oggettivo, ossia di un bello identificato da precise qualità oggettive indipendenti dal soggetto fruitore. Ad esempio, in quest’ottica, potremmo dire che la Venere di Milo è “bella”, in quanto opera, perché risponde a determinate caratteristiche che le sono proprie, intrinseche, oggettive – simmetria, ordine, proporzione, equilibrio, armonia, unità nella varietà, perfe63

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zione formale, ecc. – anche se, per assurdo, nessuno fosse in grado di vederla, di fruirne, e comunque indipendentemente da ogni gusto personale. Al contrario, l’idea di bello relativo, che spesso, ma non necessariamente, si identifica con quella di bello soggettivo, presuppone che non vi sia un “canone” oggettivo della bellezza valido per tutti e in tutti i casi. “Bello” diventa ciò che è “percepito” come tale dal soggetto, dall’individuo singolo, secondo i suoi gusti, la sua cultura, la sua educazione. Dunque il bello non è “fuori”, nell’opera, ma per così dire “dentro” il soggetto che ne ha esperienza, nei suoi “meccanismi” di ricezione. Il brano ironico, ma non per questo meno istruttivo, di Voltaire riportato qui sotto è un classico esempio di concezione antimetafisica (nella fattispecie proprio anche antiplatonica) del Bello; il punto di vista di Voltaire è, infatti, chiaramente soggettivistico e relativistico (ho tradotto qui integralmente la voce Beau. Beauté del Dictionnaire philosophique). Chiedete a un rospo che cos’è la bellezza, il gran bello, il to kalòn: vi risponderà che è la sua femmina con due grossi occhi rotondi sporgenti dalla sua piccola testa, una gola larga e piatta, un ventre giallo, un dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello per lui è una pelle nera oleosa, due occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello consiste in un paio di corna, quattro zoccoli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con dei bla-bla; a loro necessita qualcosa di conforme all’archetipo del bello in essenza, al to kalòn. Assistevo un giorno a una tragedia accanto a un filosofo: “Che bello!” – diceva. “Che ci trovate di bello?” – gli chiesi. “Il fatto – mi rispose – che l’autore ha raggiunto il suo scopo”. Il giorno dopo prese una medicina che gli giovò: “Essa ha raggiunto il suo scopo – gli dissi –; ecco una bella medicina”. Capì che non si può dire che una medicina è bella, e che, per attribuire a qualcosa tale nome, occorre che essa produca ammirazione e piacere. Convenne che la tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti, e che risiedeva là il to kalòn, il bello. Facemmo un viaggio in Inghilterra: si rappresentava colà la stessa tragedia, tradotta alla perfezione; fece sbadigliare tutti gli spetta64

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tori. “Oh! oh! – disse lui – il to kalòn non è lo stesso per gli Inglesi e per i Francesi”. Concluse, dopo aver ben riflettuto, che il bello è molto relativo, dal momento che ciò che è conveniente in Giappone è sconveniente a Roma, e ciò che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e si risparmiò la fatica di comporre un lungo trattato sul bello.

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§ 3. L’arte (Platone e Aristotele) Per quel che concerne specificamente il tema dell’arte bisogna ricordare che presso i Greci mancava un termine equivalente (i Latini avevano ars). Infatti, nella Grecia classica il termine che più si avvicina al significato moderno di arte è quello di téchne. Ma con questa parola si designavano, all’epoca di Platone e Aristotele, tutte quelle attività che richiedevano un’abilità pratica, un “fare” guidato da conoscenze e da principi generali, un fare che era anche un “sapere”. Quindi il campo era molto vasto e generico e comprendeva anche le forme dell’artigianato. Come si potrà vedere dai brani riportati sotto le posizioni di Platone e di Aristotele sull’arte sono divergenti: entrambi sostengono che l’arte sia “imitazione della natura”. Ma in Platone l’arte “mimetica” (dal greco mimesis: imitazione, rappresentazione) viene radicalmente condannata perché non dà alcuna conoscenza, anzi allontana dalla Verità delle Idee e per giunta turba gli animi dei cittadini distogliendoli dai loro doveri civici perché si rivolge alla parte “passionale”, irrazionale, dell’uomo. Platone considera l’attività mimetica in senso molto riduttivo come un semplice e passivo “copiare”. Per Aristotele, invece, l’arte, proprio perché “mimetica”, ha una valenza conoscitiva superiore, perché ci dà una rappresentazione non del particolare (come fa lo storico), ma del generale, come fa il poeta quando, ad esempio, descrive le azioni di un eroe leggendario (un “tipo” umano, non un “individuo” particolare); per giunta l’arte ci “libera” dalle “passioni” attraverso il meccanismo della “catarsi” (purificazione), come avviene quando assistiamo ad uno spettacolo tragico. 65

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Platone: la condanna dell’arte. Si tratta, qui, della più celebre e radicale condanna filosofica dell’arte mai pronunciata. Platone ha una formazione aristocratica, elitaria: nel delineare lo stato ideale, nella Repubblica, pone al vertice della gerarchia politico-sociale i filosofi (in quanto depositari della vera scienza o epistéme) e all’ultimo gradino gli artisti. Il suo vero intento è di sottrarre ai poeti come Omero (e ai grandi tragediografi) il primato nella delineazione del modello al quale tradizionalmente si conformava l’educazione (paideia) dei giovani greci. La posta in palio è, quindi, questa: a chi spetta modellare l’animo greco, ai poeti, come era stato finora, o ai filosofi? Si comprende, allora, la durezza della condanna platonica dell’arte; che è svolta su due piani: sul piano teoretico (l’arte imitativa è vana falsità), e sul piano etico (l’arte imitativa, e in particolare la tragedia, turba le coscienze dei buoni cittadini). Leggiamo, nel Libro X della Repubblica, il dialogo fra il Maestro e l’allievo. Tesi: la poesia, in quanto arte mimetica non deve essere accolta nello stato ideale. – ... sono convinto – io dissi – che lo Stato che abbiamo fondato è veramente il migliore possibile, ma è soprattutto pensando alla poesia che affermo questo. – Per quale ragione? – domandò – Perché della poesia non deve essere ammessa in nessun modo la parte imitativa. [...] – ... sono convinto che tutte le opere [mimetiche] siano una rovina per l’intelligenza di chi le ascolta, quanti non abbiano come contravveleno la conoscenza di ciò che veramente siano quelle opere. – A che pensi – disse – per parlare in questo modo? – Debbo pur dirlo – risposi – anche se un certo affetto, una certa riverenza per Omero, che sin da fanciullo mi ha preso, mi trattenga dal parlare. Sembrerebbe infatti che sia stato lui il primo maestro, la prima guida di tutti quanti quei bei poeti tragici [il tono è ironico]. [...] – Ti sentiresti di dirmi in che consiste l’imitazione in generale? 66

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Primo argomento, teoretico, contro l’arte mimetica: l’artista produce solo immagini che non hanno in sé alcuna verità; l’arte non ci dà conoscenza vera, anzi ce ne allontana. Ad esempio, l’artigiano che costruisce un tavolo imita l’idea di tavolo. L’idea di tavolo è unica e il suo artefice è Dio (il sommo Bene), mentre i tavoli costruiti dall’artigiano sono molteplici. Sia Dio che l’artigiano sono dei veri artefici. Ciascun artigiano è specializzato in un certo tipo di produzione, è un tecnico che sa fare un certo tipo di cose e solo quelle. Che cosa si dovrebbe pensare di chi fosse in grado di imitare tutti gli oggetti, tutto ciò che esiste in terra, in cielo e negli inferi? Che è un essere straordinario che possiede una sapienza davvero miracolosa, oppure che è un ciarlatano? In realtà, ciascuno di noi saprebbe fare meglio di un pittore. – Basta prendere uno specchio e portarlo in giro dappertutto: in men che non si dica subito farai il sole e tutto ciò che sia nel cielo, la terra, te stesso, gli altri esseri viventi, mobili, piante, tutti gli oggetti... – È vero! – esclamò – Ma soltanto oggetti apparenti che tuttavia non hanno in sé alcuna realtà. – Bene – affermai – quel che dici calza esattamente con il nostro argomento: fra questi artefici io penso sia anche il pittore, non è vero? – Come no? – Credo però che tu dirai non esser cose vere quelle che fa il pittore. Ad ogni modo anch’egli, in un certo senso, fa un letto, non ti pare? – Sì – rispose –, anche lui un letto in apparenza.

Dunque, prosegue il dialogo, abbiamo tre specie di letti: a) il letto quale è nella sua essenza reale (idea di letto), opera di Dio; b) il letto fenomenico, opera del falegname che nel costruirlo si ispira direttamente all’idea di letto; c) il letto imitato (copiato) da quello del falegname, opera del pittore. – E allora vuoi che venga dato a Dio il nome di generatore di quella che è l’essenza di letto, o un qualche nome simile? – Sarebbe giusto – rispose –, ché questo e le altre cose egli fece secondo quella che ne è l’essenza naturale. 67

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– E il falegname? Non lo chiameremo artefice del letto? – Sì. – Ed il pittore? Lo diremo anche lui artefice e creatore del letto? – Nient’affatto. [...] Il nome che meglio di tutti a me sembra che gli si addica è quello di imitatore di quella cosa di cui quegli altri sono artefici. – Bene! – esclamai – Ma allora tu chiami imitatore colui che di tre gradi si allontana da quella che è l’essenza? – Esattamente – rispose. – Tale sarà dunque anche il poeta che scrive tragedie, in quanto è un imitatore, di tre gradi lontano [...] dalla verità, e così tutti gli altri imitatori...

Il pittore, come si è detto, non solo è un imitatore ma, per giunta, non imita direttamente, come l’artigiano, l’essenza di un oggetto, la sua idea, il suo modello originale (archetipo), bensì l’oggetto già prodotto dell’artigiano (quindi ciò che è già una copia dell’idea, dell’originale); inoltre, il pittore non imita il letto dell’artigiano com’esso è realmente, ma solo quale appare secondo una particolare angolazione visiva. Insomma il pittore è una specie di presuntuoso illusionista che pur non conoscendo veramente nulla e nulla sapendo veramente fare, tuttavia mostra “ombre”, immagini ingannevoli di tutto. – ... quale dei due fini si propone la pittura relativamente a ciascun oggetto? tende a rappresentare quello che è l’essere quale veramente è, o a rappresentare quella che ne è l’apparenza così appunto come appare? E dunque è imitazione di un’apparenza o della verità? – Di un’apparenza – disse. – L’arte imitativa è dunque ben lontana dal vero e può eseguire tutto, a quanto sembra, perché di ogni cosa non tocca che una piccola parte, che poi non è se non un fantasma.

Secondo argomento, etico, contro l’arte mimetica: l’artista, e in particolare il tragediografo, eccitando le passioni, turba le coscienze e distoglie il buon cittadino dai suoi doveri. – È chiaro che il poeta imitatore non è portato per sua natura verso [un] atteggiamento razionale dell’anima, né ha la capacità di 68

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dar soddisfazione a chi viva secondo quel costume morale, se ha da piacere al volgo; per sua natura egli è portato invece verso i caratteri emotivi e varii, facili appunto ad imitarsi. – Chiaro. – Abbiamo dunque ragione ormai ad attaccarlo ed a porlo a riscontro del pittore: gli somiglia infatti nel fare opere di nessun valore se messe in confronto con quella che è la verità: non solo, ma anche perché si rivolge a quella parte dell’anima che non ha nessun valore, invece di rivolgersi a quello che è in noi l’aspetto migliore. E così è oramai giusto non voler che entri in uno Stato che debba esser governato sul serio, dal momento che risveglia proprio questa parte dell’anima, le dà alimento, la rafforza tanto da soffocare quella razionale, appunto come avviene in uno Stato quando, dando forza a gente di nessun valore, le si affida in mano il governo, e si manda in rovina i migliori. Ugualmente possiamo dire che il poeta imitatore insinua individualmente nell’anima di ciascuno un cattivo governo carezzando l’irrazionale, che non sa distinguere ciò che è più grande da ciò che è più piccolo e le stesse cose ora le crede grandi, ora le crede piccole, creando con la fantasia un mondo di immagini, rimanendo sempre lontanissimo dal vero. – Precisamente. – Ad ogni modo non le abbiamo ancora mossa quella che è l’accusa più grave, perché la possibilità che le è propria di far del male anche a chi abbia la testa sulle spalle e a cui soltanto pochissimi sfuggono, è certo una cosa molto grave. [...] L’imitazione poetica non ha su di noi i medesimi effetti sia delle cose d’amore come nella collera e nelle altre passioni dell’anima, piacevoli e spiacevoli che siano, che riconosciamo essere implicite in ogni nostra azione? L’imitazione poetica, infatti, annaffiandole le nutre, mentre bisognerebbe disseccarle, e fa sì che si stabiliscano in noi da padrone, mentre dovrebbero essere ridotte all’obbedienza, sì che noi potessimo divenire migliori e più felici invece che peggiori e disgraziati. [...] Questo – aggiunsi – volevo dire a nostra difesa, essendo tornati a parlar di poesia, per giustificare d’averla prima bandita dallo Stato: ché la ragione ce lo imponeva. E perché essa non ci accusi di grossolanità e di durezza, aggiungeremo che, ormai, annoso è divenuto il bisticcio fra poesia e filosofia. 69

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Aristotele. Il riscatto dell’arte. I due celebri brani che seguono, tratti dalla Poetica (ed. Valla a cura di C. Gallavotti), sono un chiaro esempio di come il ‘riformista’ Aristotele arrivi a riscattare la poesia (e implicitamente tutta l’arte mimetica) dalla condanna ‘aristocratica’ di Platone. Gli argomenti di Aristotele sono speculari rispetto a quelli platonici: la poesia (e in genere l’arte) ha una valore quasi-filosofico, è una forma di attività conoscitiva, ed ha una sua logica autonoma fondata sui criteri della verosimiglianza e della necessità (argomento teoretico); per altro la catarsi tragica riscatta l’arte anche su un piano etico. “La concezione etica di Aristotele – scrive Gallavotti a questo proposito – non pretende di annullare le passioni umane, ma di correggere la passionalità o l’emotività innata in molti uomini e latente in tutti” mediante il meccanismo mimetico. Tesi: proprio perché è imitazione, la poesia dà una conoscenza superiore a quella che ci deriva dalla storia. Argomento: il poeta rappresenta (la sua imitazione non è mera copia come voleva Platone) le azioni umane non quali avvengono nella realtà effettuale ma quali può essere credibile – per il lettore – che avvengano. Il credibile-verosimile non è dunque il vero storico, o non lo è necessariamente; tanto che Aristotele arriva ad affermare che il poeta fa meglio a imitare un evento non vero, ma credibile (verosimile), piuttosto che un fatto vero, ma incredibile (inverosimile). Il poeta, ha poi, come ulteriore vincolo, quello della necessità, ossia il vincolo della coerenza interna, strutturale, dell’opera (carattere dei personaggi, trama, ecc.): è necessario (poeticamente logico) che Achille non si comporti come un vigliacco perché sarebbe inverosimile (in-credibile) che il tipo umano che egli incarna, quello dell’eroe invincibile, avesse un comportamento siffatto. Tutto ciò porta ad un’unica, grande conclusione: non solo la poesia non ci allontana dalla verità, ma ci dà una conoscenza di grado superiore, quasi filosofica, della natura umana. ... l’opera del poeta non consiste nel riferire gli eventi reali, bensì fatti che possono avvenire e fatti che sono possibili, nell’ambito del verosimile o del necessario. Lo storico e il poeta non sono differen70

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ti perché si esprimono in versi oppure in prosa; gli scritti di Erodoto si possono volgere in versi, e resta sempre un’opera di storia con la struttura metrica come senza metri. Ma la differenza è questa, che lo storico espone gli eventi reali, e il poeta quali fatti possono avvenire. Perciò la poesia è attività teoretica e più elevata della storia: la poesia espone piuttosto una visione del generale, la storia del particolare. Generale significa, a quale tipo di persona tocca dire o fare quei tali tipi di cose secondo il verosimile o il necessario; e di ciò si occupa la poesia, anche se aggiunge nomi di persona. Il particolare invece è che cosa Alcibiade fece o che cosa subì. (1451 a, 37b, 15)

Tesi: proprio perché è ‘imitazione’ la tragedia purifica l’animo dalle passioni. Argomento: lo spettatore, immedesimandosi nelle vicende rappresentate sulla scena, prova pietà e com-patimento (eleos, pathos) e paura-orrore (fobos) e con ciò “purifica” – è questa la catarsi – la parte passionale della sua anima. La tragedia assolve dunque ad una funzione catartica eticamente positiva. Tragedia è opera imitativa di un’azione seria, completa, con una certa estensione; eseguita con un linguaggio adorno distintamente nelle sue parti per ciascuna delle forme che impiega; condotta da personaggi in azione, e non esposta in maniera narrativa; adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano.(1449 b, 2428)

§ 4. Il sistema delle belle arti (da Batteux a Kant) Occorre tenere presente che i Greci e i Latini tenevano in più alta considerazione le attività intellettuali, quelle che non richiedevano fatica fisica, manualità, e in questo tipo di attività includevano la poesia, la musica e la danza. Queste furono dette arti liberali, ossia arti degne dell’uomo libero, in contrapposizione con le arti servili (fra cui venivano annoverate la pittura, la scultura, e l’architettura) che invece, richiedendo un’attività fisica, manuale, 71

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erano praticate da operatori con uno “status” sociale considerato “inferiore”. I lavori manuali, infatti, erano allora demandati agli schiavi (i servi, nel medioevo). Nella Grecia arcaica, secondo storici dell’estetica come Tatarkiewicz, è possibile rintracciare due “nuclei” artistici originari dai quali poi le arti che noi diciamo “belle” si sono progressivamente rese autonome diversificandosi: 1) il “nucleo” che vedeva associate insieme in un tutt’uno musica, poesia e danza (come avveniva nelle manifestazioni di culto, cerimoniali, ecc.) 2) il “nucleo” (posteriore) che vedeva associate all’architettura, come fattori decorativi complementari, la scultura e la pittura. Per altro, se consideriamo quella sorta di abbozzo di classificazione costituito dalle Muse (divinità protettrici delle arti, appunto) troviamo che le Muse stesse proteggono la poesia (distinta nei suoi vari generi), la musica e la danza, ma anche “scienze” come la storia e l’astronomia, e invece non la pittura, la scultura e l’architettura. MUSICA

DANZA

POESIA ARCHITETTURA

PITTURA

SCULTURA

Questo l’elenco delle 9 Muse (in realtà, il numero e le attribuzioni delle Muse variano a seconda delle epoche e delle fonti): Clio: Storia - poesia epica Euterpe: poesia lirica 72

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Talia: commedia Melpomene: tragedia Tersicore: danza - poesia corale Erato: Geometria - poesia amorosa Polimnia: poesia sacra Urania: Astronomia - poesia didascalica Calliope: poesia elegiaca Osserviamo, di nuovo, che non esistono Muse protettrici delle arti visive e, inoltre, che arti e scienze si trovano mescolate insieme. Solo dopo un secolare sforzo di emancipazione, soprattutto con i grandi artisti rinascimentali che avevano saputo coniugare l’abilità tecnica con un grande sviluppo dei principi teorici e scientifici della loro arte (si pensi agli studi di Leonardo, o all’invenzione della prospettiva intesa come scienza geometrica), si giunse alla progressiva equiparazione culturale e sociale delle arti “visive” con le arti intellettuali, la poesia e la musica. Questo processo fu per altro favorito, fra Cinquecento e Seicento, dal sorgere di nuove istituzioni pubbliche: il Museo, le Accademie, ecc. Il Museo, in particolare, presuppone che vengano raccolte in un unico luogo opere apparentemente eterogenee e nello stesso tempo accomunate, pur nella diversità, da qualità comuni, da “valori estetici” condivisi (per esempio, la bellezza). Sul piano filosofico e scientifico lo spirito del cartesianesimo da un lato e le teorie di Newton dall’altro (con la scoperta della legge di gravitazione universale) favoriscono l’idea che ogni campo del sapere, vecchio e nuovo, nelle scienze come nelle arti, possa e debba essere semplificato e ricondotto sotto un principio unico che sia in grado di organizzare e giustificare la molteplicità dei fenomeni. Come esistono leggi universali e inviolabili della natura – scrive Cassirer –, devono esistere leggi della stessa specie e della stessa dignità anche per la “imitazione della natura”. Infine tutte queste leggi parziali si devono poter inserire e subordinare a un principio unico e semplice, a un assioma dell’imitazione in genere. Il Batteux espresse questa convinzione fondamentale fin nel titolo della sua opera principale Les Beaux-Arts réduits à un même principe: questo 73

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è il titolo e si direbbe che vi si annunci il raggiungimento di tutte le mète metodiche dei secoli XVII e XVIII.12

Fra Sei e Settecento maturano, dunque le condizioni, che sfoceranno definitivamente, con Charles Batteux, non a caso detto “il Newton delle belle arti”, sia nella fusione dei due campi, del bello e dell’arte, sia nella differenziazione del campo delle Belle Arti così ottenuto, “verso il basso”, dal campo delle attività meramente artigianali, e “verso l’alto”, dal campo delle scienze. Insomma, come riconosce anche P.O. Kristeller, Batteux compie il passo decisivo nella costituzione del “sistema moderno delle arti”. Questa classificazione compare nel suo celebre trattato sulle belle arti ricondotte a uno stesso principio pubblicato nel 1746, appena 4 anni prima che Baumgarten dia alle stampe il primo volume dell’Aesthetica. Il “principio unico” a cui si rifà Batteux è quello dell’imitazione della bella natura. La nozione di bella natura rimanda chiaramente all’idea di perfezione, e si caratterizza, in Batteux, secondo un particolare punto di vista al tempo stesso soggettivistico (legato alla sensibilità) e oggettivistico (legato alla sfera razionale). Duplicità, questa, che in Batteux non si propone come riflesso di un antagonismo irriducibile, quanto all’inverso come tentativo di ritrovare un’equilibrata correlazione fra soggetto e oggetto, e fra sentimento e ragione, nell’ambito specifico dell’arte e del gusto: la Bella natura è, secondo il gusto, quella che ha 1. il maggior rapporto con la nostra perfezione, col nostro vantaggio, col nostro interesse; 2. quella che è, nel contempo, più perfetta in sé.13

In concreto, la bella natura non è un dato, bensì il prodotto di una complessa operazione che l’artista compie, sì, a partire dall’oggettività naturale (culturale) – propria del mondo reale ma anche, per Batteux, di quello storico, mitologico, o solo ideale o possibile – ma in vista del suo perfezionamento e superamento. Essa sussiste, propriamente, solo in quanto l’artista – un po’ come fece Zeusi quando, volendo rappresentare una figura muliebre di suprema bellezza, trascelse da più modelle ciò che in ciascuna di 74

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esse si trovava di più perfetto – sia in grado di “ricavarla”, di “astrarla”, di “formarla”, per così dire, per tal via conferendole esistenza e autonomia estetica. La bella natura in quanto tale non è dunque, per Batteux, il prodotto di un’attività puramente immaginativa, ma non è neppure un mero dato oggettivo. Occorre, quindi, ragionare in termini di “processo astrattivo-produttivo”; dove l’opposizione arte-natura viene mediata dal “modello ideale interiore”, da un’idea che l’artista “si forma” autonomamente non solo, o non tanto, attraverso una meccanica sommatoria di parti belle, ma intervenendo anche attivamente sul materiale selezionato sia per integrarlo sia per modificarlo. La natura preventivamente scelta dev’essere, dunque, ulteriormente abbellita e perfezionata. Ci sembra di poter dire, in sostanza, che se l’invenzione artistica presiede al ritrovamento-riconoscimento e alla scelta delle parti belle presenti in una natura che di per sé è sempre difettiva, l’immaginazione, per suo conto, modificando, perfezionando, combinando assieme in un tutto organico i diversi materiali così ottenuti, presiede alla formazione di quel modello ideale che sarà il vero prototipo dell’imitazione artistica. L’artista crea dunque un nuovo mondo cosicché l’opera d’arte che pure è costruita partendo dal dato naturale lo oltrepassa perfezionandolo (dal punto di vista razionale) e al tempo stesso rendendolo emotivamente “interessante” (dal punto di vista della sensibilità). Batteux, a partire da questi presupposti teorici generali, prima definisce in termini abbastanza consueti che cos’è un’arte in generale, ovvero: una collezione di regole, di principi, tratti dall’esperienza e volti al “fare bene”; poi, seguendo il criterio della finalità propria di ciascuna arte, elenca tre classi: a) le arti meccaniche: hanno una finalità pratica, il loro principio è l’utilità. b) le belle arti: non hanno un fine utilitaristico, il loro scopo è unicamente il piacere, e il loro principio è l’imitazione della “bella natura”. Esse sono: poesia, pittura, scultura, musica e danza. c) le arti miste (terminologia mia): il loro fine è sia l’utilità che il diletto. Sono: eloquenza e architettura. 75

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Appena qualche anno dopo, nel 1751, D’Alembert sanerà l’ultima imperfezione ancora presente nel sistema di Batteux elencando anche l’architettura nel novero delle Belle Arti (nel Discorso preliminare che introduce il primo volume della grande Encyclopédie curata da lui stesso e da Diderot). Un secolare processo trova così il suo moderno compimento. Occorre aggiungere, per altro, che è Batteux la fonte – non citata – a cui si è ispirato Kant quando, nel § 51 della Critica della facoltà di giudizio (1790) a proposito di una sua possibile proposta di classificazione delle belle arti, scrive: Se […] vogliamo dividere le belle arti, non possiamo scegliere a tal fine, almeno a titolo di tentativo, un principio più comodo di quello dell’analogia dell’arte con il modo di espressione di cui gli uomini si servono nel parlare per comunicare l’uno con l’altro, per quanto è possibile, perfettamente, in rapporto cioè non semplicemente ai loro concetti, ma anche alle sensazioni. Tale espressione si compone di parola, gesto e tono (articolazione, mimica e intonazione). [...] Ci sono dunque solo tre specie di arti belle: l’arte verbale, l’arte figurativa e l’arte del gioco delle sensazioni...14

Per inciso: nell’arte verbale Kant ricomprende l’oratoria e la poesia; in quella figurativa troviamo la plastica (scultura e architettura) e l’arte della pittura (la pittura propriamente detta, ma anche l’arte dei giardini e la decorazione: arredamento, abbigliamento, acconciature...!); infine, nell’arte del bel gioco delle sensazioni Kant include la musica e l’arte dei colori. Batteux, per suo conto, aveva già scritto nei Beaux Arts (1746): Gli uomini hanno tre mezzi per esprimere le loro idee e i loro sentimenti: la parola, il tono della voce, e il gesto.15

Prendendo spunto principalmente da questo brano (ma si tratta di una scoperta relativamente recente dovuta a Migliorini) Kant imposta, com’è noto, un “abbozzo di una possibile divisione delle belle arti”16 da quasi tutti gli storici e studiosi salutata da sempre come una “novità”, come il “primo ingresso” del concetto di espressione nel dominio dell’estetica. Fra gli altri, Tatarkiewicz ha scritto: 76

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Kant [...] nella Critica del Giudizio propose quasi un bilancio di ciò che il secolo aveva concluso riguardo alla suddivisione delle arti. [...] Nella più originale tra le suddivisioni [...] distinse tanti tipi di arte quanti sono i modi, accessibili ad un individuo, d’esprimere e trasmettere pensieri e sentimenti. Egli riteneva che tre siano i mezzi: le parole, i suoni ed i gesti; ad essi corrispondono tre tipi di belle arti: della parola si servono la poesia e l’eloquenza, dei suoni la musica, e dei gesti la pittura, la scultura e l’architettura.17

Accertato dunque che Kant conosce bene (quanto meno) i Beaux Arts, e dato a Batteux ciò che è di Batteux (che non è poco), resta assai più dubbio che quest’ultimo, come sostiene Migliorini, abbia del tutto inopinatamente abbandonato la teoria dell’imitazione della bella natura sposando, nell’ultima parte del suo trattato, l’opposta e ben più moderna teoria espressiva la cui primogenitura finora era stata attribuita a Kant. Il fatto è che Kant è stato un lettore “forte”, e la sua “lettura”, come potrebbero dire i decostruzionisti, è un misrieding, nel senso che tutto l’ampio materiale settecentesco cui attinge, e il testo di Batteux in questo non fa eccezione, viene poi piegato e rifuso nel nuovo impianto criticistico che gli è peculiare. In sostanza, interpretando opportunamente i testi ci pare che non si possa proporre un accostamento meccanico tra il significato contestuale della formulazione di Batteux e il significato contestuale di quella di Kant, pur nella riscontrata identità formale di certi passaggi. Sembra del tutto evidente che, nelle intenzioni dei due autori, si danno due diverse modalità di assunzione della medesima formulazione a seguito di due differenti modi di concepire il “principio espressivo”: nell’uno, Batteux, in linea con l’opinione condivisa da quasi tutto il suo secolo, la nozione di “espressione” è intesa scientemente come correlata e del tutto compatibile col principio mimetico; nell’altro, Kant, il principio espressivo è inteso – certo con maggiore consapevolezza critica – come alternativo e incompatibile con quello mimetico. Di fatto, Batteux non sembra rimettere mai in discussione davvero il principio mimetico né “rifonda” sul principio espressivo, alla fine della sua opera, “il sistema dell’estetica”, né tanto meno la 77

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classificazione delle belle arti. Ma forse la domanda che può aiutarci a comprendere meglio il senso della formulazione di Batteux potrebbe essere la seguente: il riferimento ai tre mezzi “espressivi”, parola, tono e gesto, non ha per caso una matrice propriamente retorica? In realtà, è nella straordinaria X e ultima delle Lettere sulla frase (1748), intitolata Sulla Declamazione che emerge con particolare chiarezza la matrice retorico-linguistica che fa da sfondo, come si supponeva, a tale formulazione. Qui Batteux, dopo aver premesso che l’elocuzione del gesto e del tono di voce, “essendo una parte del linguaggio”, attiene “intimamente all’elocuzione oratoria”, conclude: Il mio intento è di far vedere questo legame, e di mostrare come sia importante che le parole, i toni di voce, i gesti siano perfettamente accordati nell’oratore che parla.18

Tralasciamo ulteriori citazioni e per una controprova decisiva apriamo i Principes de la littérature (1753). Anche qui, come già nei Beaux Arts ritroviamo la citata formula in apertura di capitolo, ma di un capitolo si tratta significativamente intitolato, questa volta, Cosa sia l’Elocuzione (ricordiamo che l’elocuzione è una delle 5 parti in cui si articola la retorica classica; nell’ordine: invenzione, disposizione, elocuzione, azione e memoria): Il Pensiero e il Sentimento possono esprimersi in tre modi: con il Tono della voce, come quando si geme; con il Gesto, come quando si fa segno a qualcuno di avvicinarsi o di allontanarsi; con la Parola, quando si dice qualcosa. Le due prime espressioni appartengono alla Pronuncia; l’ultima si chiama Elocuzione. L’Elocuzione in generale è dunque l’espressione del pensiero con le parole. Dato che l’espressione e il pensiero hanno lo stesso oggetto e le stesse regole, li faremo procedere affiancati, affiché siano di vicendevole sostegno e prova. Mi si consentirà qualche precisazione. Il pensiero in generale è la rappresentazione di qualcosa nella mente [esprit]: come quando mi rappresento in me medesimo il sole. L’espressione in generale è la rappresentazione del pensiero; io penso al sole e dico: il sole; ecco il mio pensiero espresso.19 78

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Così la formula di Batteux, pur riletta in modi innovativi, si colloca comunque nell’alveo di una lunga tradizione retorico-letteraria e logico-grammaticale che risulta sostanzialmente estranea agli intenti criticisti di Kant. In conclusione, non è azzardato ritenere che in Kant siano rifluiti per diverse vie, e Batteux in questo è stato certo un canale privilegiato, molti spunti e suggestioni già “in situazione” come quello, in particolare, “dell’analogia dell’arte con quella specie di espressione” (consistente nella parola, nel tono e nel gesto) di cui si servono gli uomini per comunicarsi concetti e sensazioni, pensieri e sentimenti. È pur vero, tuttavia, che mentre in Batteux il “momento espressivo”, connotato nei modi descritti, non è mai inteso come veramente antagonistico al “principio mimetico” né tanto meno lo soppianta, ma anzi lo integra e ne è al tempo stesso supportato, in Kant invece avviene proprio uno scarto deciso, se non proprio un capovolgimento, di prospettiva.

NOTE B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), Bari, Laterza, 195810, p. 169. 2 Ora in B. CROCE, Nuovi saggi di estetica (1920), Bari, Laterza, 19695, pp. 91-115. 3 Ibid., p. 100. 4 Ibid., p. 96. 5 B. CROCE, Estetica, cit., p. 56. 6 V. BASCH, Essai critique sur l’esthétique de Kant, Paris 1927 (1896), pp. XXV-XXVI (cors. mio). 7 Ibid. 8 P. B. SHELLEY, Adonais, in Poemetti, LII, vv. 460-1, a cura di R. Piccoli, Firenze 1983, p. 119 (cit. da Lovejoy). 9 L. ANCESCHI, Da Bacone a Kant, Bologna, Il Mulino 1972, p. 27. 10 L. ANCESCHI, Che cosa è la poesia?, a cura di F. Bollino, Bologna, Clueb, 1998, p. 26. 11 Cfr. la voce “Estetica”, nel Dizionario Garzanti di filosofia. 12 E. CASSIRER, La filosofia dell’illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 385-386. 13 CH. BATTEUX, Les Beaux Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 17472, p. 81. 1

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14 I. KANT, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, Einaudi, 1999, p. 156 (cors. mio al posto della spaziatura). 15 CH. BATTEUX, Les Beaux Arts, cit., p. 262. 16 I. KANT, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 156, nota. 17 W. TATARKIEWICZ, Storia di sei Idee, Palermo, Aesthetica ed., 1993, pp. 93-94. 18 CH. BATTEUX, Lettres sur la phrase françoise comparée avec la phrase latine, in Cours de Belles Lettres, III (1748), p. 131 (trad. it. Sulla frase, a c. di F. Bollino, Modena, Mucchi, 1984, p. 201). 19 CH. BATTEUX, Principes de la littérature, Paris, Saillant et Nyon-Veuve Desaint, 17745, t. IV, pp. 76-77.

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IV. Definizioni dell’arte

La domanda “che cosa è l’arte?” è considerata, a buon diritto, la domanda fondamentale di ogni estetica filosofica. Prima di entrare nel merito tecnico della questione anticipiamo subito un dato di fatto: da un punto di vista storico, possiamo constatare che le risposte a questa domanda sono state innumerevoli, molteplici, spesso contraddittorie, e che il loro variare dipende anche dal mutare delle situazioni culturali nel cui ambito hanno avuto origine. Per altro non solo la maggior parte dei filosofi, ma anche gli “uomini del mestiere” (artisti, critici...), da un lato, e molti “scienziati” di vario tipo (linguisti, sociologi, psicologi, pedagogisti, semiotici, neoretorici...) oltre a numerosi storici dell’arte e della letteratura, dall’altro, hanno preteso di “definire” l’arte una volta per tutte. Per un approccio più semplice e diretto al problema, limitiamoci a considerare in prima istanza la domanda settoriale “che cosa è la poesia?” nella fondata ipotesi che il metodo utilizzato per analizzarla sia utile anche per affrontare la domanda più generale sull’arte.

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§ 1. La risposta dei poeti È facile constatare come ciascun poeta abbia una propria “visione”, una propria idea di come fare poesia, quindi una propria implicita o esplicita definizione di poesia che egli pone come centrale ed anzi come esclusiva rispetto a tutte le altre definizioni possibili. Vediamo qualche breve assaggio. Certo, l’idea di poesia di un medioevale qual è Dante, ancora forte delle sue credenze morali, religiose e politiche, sarà differente da quella di uomo come Petrarca che avverte già “modernamente” come insanabile la crisi di un mondo al tramonto e, di riflesso, il conflitto tutto soggettivo fra “essere” e “dover essere”. Potentemente espressivo il primo (e si pensi alle varie stratificazioni di significato nella Commedia: letterale, allegorico, ecc.), cultore della poesia come “forma”, il secondo. Ma per un seicentista come il cavalier Giambattista Marino la poesia sarà “meraviglia”, spettacolo sonoro, invenzione arguta che deve sorprendere il lettore con lo scintillìo leggero e sensuale delle metafore. Un poeta cartesiano come Nicolas Boileau sentenzierà, rivolgendosi (nell’Art poétique) da riconosciuto maestro ai giovani poeti, che la poesia dev’essere sempre nutrita di razionalità: “Qualunque soggetto trattiate, o leggero, o sublime, / Che sempre il buon senso si accordi con la rima”. E quando si dice “buon senso” all’epoca i seguaci di Cartesio pensano alla “sovranità” della ragione. Un romantico, al contrario, predicherà la poesia come luogo dell’irrazionale fantastico, e come frutto della creatività, libera da ogni vincolo normativo, del genio artistico! Un simbolista come Verlaine esclamerà, a sua volta: “De la musique avant toute chose”, prima di tutto la poesia è musica! Altri motivi, altra idea della poesia, troveremo, ovviamente, in Edoardo Sanguineti, un poeta della Neoavanguardia degli anni ’50 e ’60 del Novecento: la poesia viene intesa qui come antilirica sperimentazione linguistica, come vera e propria discesa agli inferi di un linguaggio oramai del tutto “esploso” (da Laborintus, I): 82

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dove dormi cuore ritagliato e incollato e illustrato con documentazioni viscerali dove soprattutto vedete igienicamente nell’acqua antifermentativa ma fissati adesso quelli i nani extratemporali i nani insomma o Ellie nell’aria inquinata in un costante cratere anatomico ellittico perché ulteriormente diremo che non possono crescere tu sempre la mia natura e rasserenata tu canzone metodologica periferica introspezione dell’introversione forza centrifuga delimitata Ellie tenue corpo di peccaminose escrescenze che possiamo roteare e rivolgere e odorare e adorare nel tempo desiderantur (essi) analizzatori e analizzatrici desiderantur (essi) personaggi anche ed erotici e sofisticati desiderantur desiderantur

Le poetiche dell’oggettività (da Montale a Pascoli). Prima di affrontare direttamente lo studio di alcuni tratti essenziali della poetica di Pascoli converrà delineare una traccia, un filo rosso, una “linea istituzionale” della poesia del Novecento, quella linea fondamentale detta da Anceschi dell’oggettività che si svolge da Pascoli, appunto, e arriva fino Montale (e oltre) passando per i crepuscolari (Gozzano, in primis). Intanto, occorre precisare che quando parla di istituzioni Anceschi intende un complesso organico di norme che riguardano il fare letterario, e che tendono a porsi come punti di riferimento intersoggettivi collegando fra loro le poetiche di più autori in una determinata situazione culturale e per un arco di tempo storicamente determinato.1 Si vuol dire, insomma, che un certo numero di poeti, pur conservando le loro rispettive specificità, trovano una sorta di socialità dell’arte condividendo alcuni atteggiamenti, alcuni tratti ispiratori, una certa tradizione, un certo modo di “organizzare i loro mezzi verbali”. Se guardiamo in particolare alla linea istituzionale dell’oggettività troveremo che c’è un’aria di famiglia (per citare una celebre formula di Wittgenstein) fra la poetica delle piccole cose inaugurata da Pascoli e la poetica delle cose di pessimo gusto di Gozzano e la 83

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successiva poetica dell’emblema oggettivo di Montale. Da Pascoli in avanti si determina, insomma una certa linea di continuità (non è l’unica istituzione poetica del Novecento, naturalmente, ma a me pare la più significativa) che forse potremmo intendere meglio proprio raccogliendo subito la lucida testimonianza di Montale. Il poeta degli Ossi di seppia non a caso si rifà dichiaratamente alla teoria del correlativo oggettivo elaborata da T.S. Eliot mostrando di condividerla: Il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua materia verbale fino a un certo segno, e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo. Solo quando è giunta a questo stadio la poesia esiste. [… Il poeta è] colui che lavora il proprio poema come un oggetto, accumulandovi d’istinto sensi e soprasensi, conciliandovi dentro gli inconciliabili fino a farne il più fermo, il più irripetibile, il più definitivo correlativo della propria esperienza interiore […]. Ma una resta pur sempre, nelle infinite varianti, la tendenza: che è verso l’oggetto, verso l’arte investita, incarnata nel mezzo espressivo, verso la passione divenuta cosa.2

Non si potrebbe capire la straordinaria densità della poesia montaliana che carica di significati gli oggetti fino a trasformarli in emblemi metafisici della condizione di solitudine esistenziale dell’uomo se non tenessimo conto di queste dichiarazioni di poetica esplicita: Oh allora sballottati Come l’osso di seppia dalle ondate Svanire a poco a poco; diventare un albero rugoso od una pietra levigata dal mare… (Riviere) Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. 84

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Eliot, per suo conto, poeta “freddo”, intellettuale, in uno dei saggi de Il bosco sacro aveva parlato del processo di spersonalizzazione dell’artista paragonando la mente del poeta a un filo di platino che fa da catalizzatore in una reazione chimica senza prendervi parte, del tutto inerte:

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tanto più perfetto sarà l’artista, tanto più compiutamente separati saranno in lui l’uomo che soffre e la mente che crea, tanto più perfettamente la mente digerirà e trasformerà le passioni che sono il suo materiale.3

In un altro luogo della stessa raccolta Eliot, dopo aver criticato severamente l’Amleto di Shakespeare denunciando la sproporzione fra l’eccesso di effusione di stati d’animo e l’effettiva azione drammatica, aggiunge: La sola maniera di esprimere l’emozione nella forma dell’arte sta nel trovare una obiettività correlativa: in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena d’eventi, che sarà la formula di quella emozione particolare; cosicché, quando sian dati i fatti esterni, che devon conchiudersi in una esperienza sensibile, l’emozione sia immediatamente richiamata.4

Se ora, mettendo fra parentesi le riflessioni poetiche e critiche di Eliot, risaliamo indietro da Montale a Gozzano possiamo trovare delle chiare analogie nel trattamento di alcune cose che nel tono ironico del poeta torinese acquistano il sapore di una disincantata quotidianità casalinga, volutamente antiaulica. Lo sguardo del poeta si abbassa al livello di una Vita che “si ritolse tutte le sue promesse” (Totò Merumeni). Cosicché se Montale deridendo “i poeti laureati / [che] si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti” (I limoni), appare memore e in linea col Gozzano de La signorina Felicita, quest’ultimo a sua volte si mostra debitore, nella trafila che stiamo tentando di ripercorrere a ritroso, del lessico scientifico e delle tipiche cose pascoliane. Leggiamo i versi del poeta “crepuscolare”: L’insalata e i legumi produttivi deridevano il busso delle aiole; 85

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volavano le pieridi nel sole e le cetonie e i bombi fuggitivi…

In effetti, è proprio in Pascoli che si ritrova una delle radici più originali e innovative della poesia italiana del Novecento: il busso, le pieridi, le cetonie, i bombi ricordano molto da vicino il mondo delle piccole cose care al poeta romagnolo. Un mondo meno ingenuo e più inquietante di quanto una certa lettura scolastica e faciliore vorrebbe far credere. Un mondo visto dal basso, fra gelsomini notturni che dai loro calici aperti emanano “odore di fragole rosse”, fra il sussurrare di un’ape tardiva e il volo “in mezzo ai viburni” delle farfalle crepuscolari, mentre nel cielo notturno passano le costellazioni con il loro “pigolìo di stelle” e sulla terra fecondata si sente nascere l’erba lungo i fossi e “s’esala l’odore che passa col vento”. La competenza naturalistica di Pascoli. Cerchiamo, ora, di analizzare più da vicino alcuni aspetti fondamentali della “poetica” di un autore, come Pascoli, davvero cruciale, come si è detto, per buona parte della poesia italiana del Novecento. Partiamo da una constatazione di fatto. Nella sua puntuale indagine statistica sul lessico zoologico-botanico del Pascoli di Myricae, dei Primi Poemetti, dei Nuovi Poemetti e dei Canti di Castelvecchio, il naturalista Zaccanti perviene a risultati di sicuro interesse per chi voglia meglio comprendere modalità e contenuti propri della poetica pascoliana. Nel caso specifico, in effetti, quest’interesse sembra particolarmente giustificato, giacché quella che potremmo chiamare “competenza naturalistica” del Pascoli assurge a fattore pienamente costitutivo della sua riflessione esplicita sulla poesia oltre che della sua pratica poetica. I dati, per la prima volta raccolti e opportunamente disaggregati, confermano sia nella loro dimensione quantitativa che qualitativa, e con qualche non piccola sorpresa, una presenza e varietà di nomi di piante e di animali del tutto inconsueta nel lessico poetico italiano, ma per nulla casuale in Pascoli, anzi. Cosicché alcuni giudizi andrebbero quanto meno rettificati o integrati. Pensiamo, per esempio, ad alcune affermazioni di Bàrberi Squarotti secondo cui: 86

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1) sarebbe caratteristica peculiare della “natura” pascoliana “la limitazione delle sue forme quasi in modo assoluto ai due modi di partizione evangelica, gli uccelli dell’aria e i gigli dei campi (i fiori), ma, mentre la botanica pascoliana conosce un’avventurosità abbastanza ampia in rapporto con un’effettiva presenza di luoghi precisi al fondo delle descrizioni naturali, la zoologia del Pascoli si raccoglie quasi sempre nell’evocazione del mondo degli uccelli, come se questo costituisse l’unica realtà animale della natura”;5 e ancora: 2) “non bisogna lasciarsi ingannare da certe affermazioni critiche del Pascoli, intorno alla genericità della flora e della fauna tradizionale della poesia italiana in confronto con la concretezza e la varietà delle sue descrizioni: anche nel Pascoli, a parte una documentazione più scrupolosa nei riguardi delle stagioni e dei costumi di piante e uccelli, dovuta all’esperienza contadina dell’infanzia, il catalogo di fiori e uccelli è estremamente limitato, e ancor più povero se si considera la quasi completa mancanza di molti elementi della fauna e della flora, non assumibili entro il discorso simbolico della sua poesia”.6 Tali affermazioni, dunque, sembrano essere in parte smentite dai nuovi dati in nostro possesso: nelle circa 1.600 citazioni di piante e di animali presenti nelle raccolte considerate (per un totale di 12.327 versi) è possibile “individuare quasi 300 taxa (180 vegetali e 105 animali), di cui una buona parte aventi significato di ‘specie’, riferibili cioè alla più ristretta delle categorie sistematiche scientifiche (188 di cui 127 vegetali e 61 animali) o almeno di ‘genere’ (53 di cui 37 vegetali e 16 animali)”. Il lessico zoologico-botanico di Pascoli si segnala, dunque, non solo per quantità, ma pure per varietà e precisione. Sembra riduttivo, pertanto, ritenere che il catalogo complessivo sia quasi esclusivamente limitato a uccelli e fiori, anche se indubbiamente ad essi spetta un posto di preminenza. I dati ci mostrano anche, fra l’altro, che in Myricae i componimenti del tutto privi di presenze zoologico-botaniche rappresentano quasi un terzo del totale, mentre nelle altre raccolte prese in esame queste “assenze” sono assai più limita87

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te: e ciò potrebbe essere indizio del fatto che forse il primo Pascoli non si é ancora interamente “fissato” su quel registro “georgico” e “onirico-visionario”, tutto nutrito di presenze animali e vegetali, che ci sembra essere fra le cifre più personali e significative della sua poesia. In ogni caso, resta il fatto che Pascoli è, probabilmente, il poeta italiano con maggiori competenze naturalistiche. E resta, inoltre, che tali competenze sono dovute non solo, come si è voluto affermare, “all’esperienza contadina dell’infanzia”, che pure avrà avuto il suo peso, ma soprattutto ad una diretta e programmatica osservazione del dato naturale mai dismessa negli anni e sempre più consapevole perché sempre più supportata da adeguate letture. Certo, dalla sua biografia affiorano qua e là episodi curiosi: per esempio, apprendiamo che da giovane (si era nel 1873) egli fu rimandato – l’unica volta che lo fu – alla maturità sostenuta presso Liceo Dante di Firenze proprio nel gruppo delle materie scientifiche (poi riparò a ottobre a Cesena); ma quello che non compare nel minuzioso resoconto della sorella Maria, è che egli aveva riportato, agli orali, 3 in Filosofia, 4 in Fisica, 2 in Matematica, e 3 in Storia Naturale. Le cose dovettero certamente cambiare in meglio, vuoi per diretta esperienza, vuoi appunto per una serie di letture specifiche. Ad esempio, come testimonia Angelo Orvieto che lo accompagnò una volta a caccia, alla vista di un frullo d’ali si attardava a illustrare le abitudini dell’uccello e a imitarne il canto: “Così Giovanni Pascoli va a caccia...”. Né, forse, la sua sensibilità naturalistica poteva consentirgli un atteggiamento diverso: quando si trasferisce a Massa con le sorelle (1885), prima regala loro un fanello poi compra da un venditore “per sottrarli a una sorte incerta” usignoli e bengalini. Pian piano ne riempie la casa: “un’arca di Noé? – commenta Maria – No: un piccolo, felice paradiso terrestre”. Qui non si tratta solo di un’istanza volta, per così dire, a fini puramente esornativi, bensì di dar corso ad una osservazione analitica del dato naturale, come è certificato da una lettera di Severino Ferrari (del novembre 1888) in cui si accenna al particolare interesse pascoliano per le onomatopee: “Di questi tuoi gorgheggi mi parlò già il Lopez [...] 88

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e mi disse come stranezze tue che volevi ingabbiare in una uccelliera degli uccellini per sentirli cantare e studiarli”.7 Da Livorno, nel ’90, questa volta è Pascoli che si indirizza all’amato Severino:

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Caro Severino, ecco i rumori del momento: una gallina che schiamazza, Ciribibì che fa cio cio, il lucherino che cigola, la capinera che studia, il fringuello che fa il grillo e poi spinciona e poi canta “francesco mio”, una pecorina che bela nella villa vicina. Con tutto ciò è silenzio.8

Ugo Ojetti, quando intervista “il poeta gentile” nella sua casa livornese (settembre del ’94), non manca di registrare la presenza di “una lunga fila di gabbie diverse” dove “cantano passeri, cincie, merli, fringuelli”, come pure di un “giardino breve” e ben coltivato dove, fra molte piante ed erbe odorose, “fiorisce il dittamo e la cedrina”. E aggiunge: “una volta la settimana si permette di escire a passeggio fuori della città, lontano, verso la macchia del Limone, sognando ed erborizzando con una cura di botanico dotto”.9 Di queste escursioni naturalistiche condotte in spirito rousseauiano ci fornisce un’importante testimonianza anche la sorella Maria in un brano che, se fosse scritto in prima persona, non sfigurerebbe nelle Confessioni del ginevrino: si recava la domenica mattina prestissimo provvisto di vascolo e vanghetta a erborare, con qualche suo alunno, nella macchia del “Limone” e in altri colli circostanti. [...] Di quante ispirazioni gli furono larghe quelle escursioni e quella macchia. [...] Molte “myricae” si devono a quei luoghi incantevoli e suggestivi, almeno per noi. Le piantine che portava a casa, tra cui molte specie di orchidee selvatiche, dopo averle studiate e riscontrate sui libri di botanica, le pigiava in un sacchetto e poi, quand’erano secche, le fissava su dei cartoncini con l’idea di farne una bella raccolta. Non c’era, si può dire, fiore che non avesse imparato a conoscere, e posso dire anche uccellino, come non c’era costellazione nel cielo ignota per lui.10

Né certo gli era estraneo il mondo degli insetti. Ma infine, sembra acquisito che Pascoli si sia anche ben documentato su manuali e testi vari di zoologia e botanica. È da verificare se frequentasse alcuni poemi georgici in latino composti fra il XVIII e il XIX 89

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secolo. Altre fonti specifiche si potranno forse trovare. E tuttavia occorre allargare il raggio della ricerca se si vuol arrivare a comprendere in che modo tutto ciò assuma una valenza costitutiva nella formazione della poetica pascoliana. “L’emanazione poetica della scienza”. La tesi di Bàrberi Squarotti secondo cui nessuna poesia sarebbe meno naturalistica di quella pascoliana, nella recisione di una lettura fortemente orientata a esaltare di quest’ultima la dimensione simbolico-psicologica, rischia di non cogliere l’intrinseca interdipendenza, in Pascoli, della couche naturalistico-positivistica e di quella spiritualistico-simbolista, fra loro dissociabili solo per via di astrazione perché in realtà fuse in un amalgama inscindibile e tutto particolare. Diversi nomi di poeti e letterati sono stati fatti dai critici nel tentativo di individuare modelli di “poesia sientifica” più o meno raffrontabili con la sensibilità naturalistica e positivistica del poeta romagnolo, da Niccolò Tommaseo a Giacomo Zanella, al francese RenéFrançois-Armand Sully-Proudhomme, etc., ma ciò che più conta è rilevare come un certo positivismo, pur estenuato e fin de siècle, non si annienti mai del tutto anzi sopravviva nella grande poesia pascoliana rovesciandosi, per interna mutazione, in una sorta di particolare simbolismo, tanto che questo, alla fine, non può riuscire davvero senza quello. Intanto, Pascoli conosceva bene, oltre agli scritti dei letterati, i trattati di pensatori positivisti e scienziati evoluzionisti: sappiamo che, fra gli altri, leggeva in traduzione francese sia Darwin sia James Sully, lo psicologo associazionista autore degli Studi sull’infanzia (1895), sia lo Spencer della Filosofia dello stile (1852-57). Pascoli sulla fine del secolo è a Messina, in una fase della sua riflessione estetico-poetica che appare ricca di fermenti e decisiva di sviluppi: nel 1899, al più tardi, arrivano sulla sua scrivania gli Études di Sully a compiere, come è stato detto, una trimurti positivistica che contava già i nomi di Max Müller e Herbert Spencer. Il 5 febbraio di quello stesso anno il poeta pronuncia un discorso, L’Èra nuova, che costituisce un autentico Wendepunkt nella sua produzione giacché rappresenta la drammatica presa di co90

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scienza di un doppio, inesorabile fallimento: da un lato quello della poesia mitico-illusiva, ormai non più credibile alla luce delle nuove conoscenze scientifiche, e dall’altro quello della stessa scienza che a sua volta si dichiara inadatta a soddisfare le domande e le ansie più radicate nell’uomo. Poesia, scienza: “ceci tuera cela”, si potrebbe in ogni caso concludere parafrasando Hugo, se non fosse che il manifesto o auspicato succedere della scienza al mito, e della poesia del vero alla poesia illusiva, sembra mascherare in Pascoli l’ambiguo presentimento di una sussistente circolarità di fondo che ritorce su se stesso lo schema lineare delle “magnifiche sorti e progressive”, arrivando a sfumarne gli ottimistici contorni con l’irriducibile oscillare dell’interrogazione su chi sia davvero, volta a volta, il ceci e chi il cela. Sempre da Messina e sempre nel 1899, esattamente il 21 di giugno, Pascoli scrive al pittore Antony De Witt: Il concetto che mi sono fatto della poesia: le anime e le cose sieno esse grandi o piccole, buone o cattive, belle o brutte hanno tutte un quid poetico in esse celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne fa la poesia: come l’ape...11

C’è già qui uno dei nuclei centrali del Fanciullino la cui seconda e pressoché definitiva redazione, dopo gli “incontri decisivi”12 con Spencer e Sully, sarà compiuta sulla fine del 1902 (ma la pubblicazione è dell’anno successivo). Ancora, è del 1903 l’uscita dei Canti di Castelvecchio, una raccolta nella quale le letture positiviste di quegli anni hanno depositato “tracce inconfondibili”. Certo, del positivismo pascoliano si son date letture diverse tese a caratterizzarlo mediante aggettivazioni variamente specificanti: si passa dal “positivismo sentimentale” (Serra), a quello “mistico” (Croce, Russo) e, più di recente, allo “spirituale” (Agamben) e allo “sperimentale” (Barilli)... La qual cosa, ovviamente, non è senza riflessi in ordine agli apparentamenti che ne possono derivare; per dire: da Fogazzaro (secondo Russo non c’è da stupirsi se Pascoli fu positivista visto che lo fu anche Fogazzaro) al quasi coetaneo Bergson del Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) e di Materia e Memoria (1896), fra l’altro; un Bergson, a sua vol91

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ta, formatosi alla scuola evoluzionistica di Spencer: dunque si torna anche per questa via a uno dei vertici della “trimurti positivista”. Anceschi nomina Ardigò oltre a Spencer, ricordando come, nel “movimento continuo fra scienza e mistero [...] l’Inconoscibile, l’Ignoto, furono parole proprie, nel loro agnosticismo, anche ai filosofi del tempo”, quell’ignoto, e quell’inconoscibile che a quei positivisti apparve o come un oscuro limite del pensiero o come un’estrema ipotesi metafisica.13 Tralascio ulteriori nessi, fra cui quello fondamentale con il darwinismo anche nella versione divulgativa che ne dette all’epoca il Lessona, nonché con Haeckel e la nota formula secondo cui l’ontogenesi è la ricapitolazione sommaria della filogenesi, etc., nessi comunque essenziali nell’economia della riflessione pascoliana, e coerenti, del resto, con “il programma teorico ideologico” enunciato nell’Èra nuova, senza di cui mal si comprederebbero i relativi inveramenti poetici, da Pecudes – scritto quasi in contemporanea a quel discorso – al Ciocco – scritto nel 1902 e pubblicato l’anno successivo. Intendo, piuttosto, sottolineare il rilievo che assume per Pascoli il pensiero di Herbert Spencer, autore che mi pare venga riconosciuto dagli specialisti come indiscutibilmente formativo per il poeta; Felcini, per tutti, sostiene che “su ogni operazione dello spirito del poeta agiva, in modo invadente e predominante, l’assimilazione dei principi del darwinismo, della psicologia evoluzionistica spenceriana e delle scienze antropologiche del tempo”; e parla di “persistente presenza dello Spencer, i cui principi erano restati quali punti fermi della [...] formazione mentale” del poeta, sulla quale, si ribadisce ancora, e per finire, “le letture degli scritti di Darwin e di Spencer avevano lasciato indelebili segni”.14 Dalla lettura in particolare della Filosofia dello stile Pascoli sembrerebbe aver ricavato non poche suggestioni, quali ad esempio l’idea – sono espressioni di Spencer – di una “superiorità delle parole specifiche su quelle generiche”,15 e ancora l’idea di un linguaggio che si presenti come mezzo non solo per la produzione di un senso, ma soprattutto di un effetto, e che rispetti la legge generale dell’economia dell’attenzione (del fruitore), ovvero, detto in altri 92

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termini, la legge del minimo sforzo.16 Spencer, in sostanza, intende proporre una teoria generale dell’espressione linguistica in grado di ricondurre la precettistica retorica corrente, che spesso si presenta in forma disorganica e dogmatica, a un ordine scientifico che la legittimi e ne espliciti la ragione profonda, funzionale: presentare le idee in modo tale che vengano apprese col minor sforzo possibile. Se il linguaggio può essere descritto come un “apparato di simboli per trasmettere il pensiero”, come una sorta di “apparato meccanico”, allora più le sue parti saranno “semplici e ben disposte, maggiore sarà l’effetto prodotto”. In altri termini, poiché l’energia mentale in un dato tempo è una quantità limitata, quella disponibile per comprendere un pensiero verbalmente comunicato sarà inversamente proporzionale all’energia mentale assorbita nella fase del riconoscimento e dell’interpretazione dei simboli linguistici impiegati: “quanto più tempo e attenzione sono necessari per ricevere e capire ogni frase, tanto meno tempo e attenzione possono essere dedicati all’idea contenuta in esse: quell’idea, perciò, sarà recepita in modo meno vivido”.17 Il linguaggio viene inteso, così, paradossalmente, come strumento necessario e al tempo stesso come ostacolo per il pensiero. Da questi presupposti discende in linea diretta l’esaltazione del linguaggio gestuale, delle interiezioni, dei linguaggi più aderenti alle associazioni di idee proprie dell’infanzia, della forza espressiva di una terminologia primitiva, ossia del suo carattere onomatopeico, della superiorità impressiva dei termini concreti sugli astratti e, come si diceva, dei termini specifici su quelli generici, etc. Anche dal punto di vista della disposizione delle parole nella concatenazione linguistica Spencer è conseguente: in linea di massima, è preferibile anteporre l’aggettivo, la qualità, al sostantivo. L’influenza di tali formulazioni spenceriane sulla riflessione e sulla pratica poetica di Pascoli sembra davvero incontrovertibile e – come nota il Perugi – certe esemplificazioni proposte da Gianfranco Contini (“Non ‘da nubi nere’, ma ‘da un nero di nubi’: è cioè estratta la qualità, e i sostantivi servono soltanto a determinare, come fossero essi gli epiteti, la qualità fondamentale”)18 risultano essere di 93

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fatto “quasi parola per parola” assai simili a quelle “che Pascoli leggeva sullo Spencer”, e ciò vale, del resto, anche per la teoria delle minor images. Altri elementi specifici, in proposito, sono stati messi in rilievo sempre da Contini in un saggio, il Il linguaggio di Pascoli appunto, la cui lucida innovatività resta pur sempre ammirevole, anche se forse non basta supporre, dopo quello “a-grammaticale” (onomatopeico) e quello “grammaticale”, un terzo strato linguistico di tipo gergale, detto da Contini “post-grammaticale”, per identificare pienamente l’uso pascoliano della parola tecnicamente specifica, “scientifica”. E dico uso proprio nel senso dell’aforisma di Wittgenstein secondo cui il significato di una parola consiste nel suo uso, strutturalmente variabile a seconda dei contesti, degli scopi, delle intenzioni, ecc. (la famosa “cassetta degli attrezzi”… di cui si parla nelle Ricerche filosofiche). In Pascoli, mi pare, l’effetto “visionario” non nasce tanto, o almeno non solo, nella contrapposizione, posto che sussista, fra la nitidezza assoluta del particolare rispetto alla vaghezza floue dello sfondo, come pensa Contini,19 ma insomma proprio dal fatto che è lo stesso nitore icastico del termine specifico a essere “usato” in modo straniante virando la “cosa” familiare, propria dell’immaginario (eventualmente naturalistico) pascoliano, nel nucleo catalizzatore di una visione perturbante. Ma il punto generale è questo: comprendere in che modo la cultura positivista, la cultura che, com’è ben noto, propugnava la supremazia della scienza e delle sue leggi generali in tutti i campi, e su queste e su quella fondava una fede illimitata nel progresso, possa aver determinato le scelte di Pascoli in campo poetico. È stato detto, dal Russo, che egli fu un “positivista che passava al misticismo per sollevarsi in qualche modo dalle bassure della sua precedente filosofia. Il positivismo si convertiva nel sentimentalismo”.20 Ma è tesi, di intonazione crociana, che non convince. Certo Pascoli vive tutta intera la situazione di crisi propria della fin de siècle, una situzione segnata dalla contrapposizione fra l’ancora resistente fiducia nel razionale positivistico e una tendenza a rifugiarsi in un irrazionale che ben presto si colorerà di tonalità dan94

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nunziane. Luciano Anceschi ha analizzato in modo esemplare le coordinate teoriche di questo difficile snodo caratterizzato, anche, da certi modi particolari di trattare il simbolo. Nel caso di Pascoli “si parlerà giustamente di poetica delle cose”, punto d’avvio di una direzione istituzionale della poesia italiana del Novecento che, passando per Gozzano e altri, arriverà quanto meno fino a Montale. Qui troviamo che il simbolo si manifesta – sono parole di Anceschi – come una maniera di forzare gli oggetti, di caricarli intensamente di emozioni, una maniera di servirsi degli oggetti come equivalenti di determinate emozioni, di intensificare e trasportare ad altro ordine i significati attraverso associazioni dirette o indirette, inconsce e ideali.21

Ora, appunto, nel nostro specifico, questi oggetti appartengono al regno vegetale e animale. Come e perché vengono trasportati ad altro ordine, eventualmente, i loro significati? Se rileggiamo ora, più da vicino, le pagine dell’Èra Nuova potremo cominciare a ricavare qualche indicazione di ordine generale sull’idea pascoliana di scienza e sul rapporto poesia-scienza. Qui, lo diciamo subito, trova adeguata conferma il convincimento che Pascoli viva in modi personalissimi la crisi del modello positivistico: malgrado le conquiste scientifiche del secolo XIX – egli afferma – si sente dire che la scienza “ha fallito”. In che cosa – si chiede – forse nel fatto che “doveva essere illimitabile, e ha trovato il suo limite?”. O forse perché la scienza – e qui tocchiamo il nucleo denso della personalità e della poetica pascoliana – doveva “cancellare” la morte? La scienza non l’ha fatto, non ha dato la felicità e non la poteva dare. “Ma di chi è la colpa? Non della scienza, ma della poesia”, di una poesia che, ancora nell’Ottocento e malgrado tanti grandi poeti (e qui cita Shelley, Byron, Lamartine, Hugo, Leopardi, Manzoni, Carducci, Tolstoi, e altri ancora) “è l’ultima emanazione [...] del concepimento primitivo della vita interna ed esterna; concepimento fondato sull’illusione e sull’apparenza”, mentre ancora non è pienamente cominciata l’emanazione poetica del “secondo concepimento: quello fondato sulla realtà e sulla scienza”.22 95

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Pascoli ha piena consapevolezza, dunque, di un passagggio epocale. Nel passato la poesia poteva essere ed era semplicemente “illusiva”, poteva fingere di aver sconfitto la morte e l’infelicità; ma cosa devono fare i nuovi poeti, i poeti che oramai alla luce di quanto la scienza ha mostrato, non possono più illudere e illudersi, se non proprio impedire che la scienza si riduca ad essere “un sole senza calore”? Ecco: i nuovi poeti, sacerdoti della scienza e della realtà, “devono far penetrare nelle nostre coscienze il mondo quale è veramente, quale la scienza l’ha scoperto”.23 E qui Pascoli, proprio quando sembra aver recuperato la positività della scienza stessa, ne ribalta (forse inconsciamente) il senso attribuendole quasi una valore magico-esorcistico, di talismano. Se è vero che la perdita dell’innocenza “illusiva” (nel senso di “negatrice della morte”) della parola poetica pre-scientifica è, si vorrebbe dire, rousseauianamente irreversibile, se è vero che (l’espressione è di una straordinaria potenza) “la scienza ha ricondotto le nostre menti alla tristezza del momento tragico dell’uomo”,24 e insomma alla coscienza della finitezza e della morte, al “terrore del nulla”, al “vertiginoso” sprofondare in un “gorgo infinito”, nelle tenebre della notte, “senza più peso, senza più alito, senza più essere...”, allora al poeta nuovo non resta che rielaborare la parola illusiva in parola scientifica, e sarebbe forse meglio dire: simbolico-scientifica, ma per farne, inconsciamente, il veicolo di un nuovo esorcisma, di una nuova illusione. L’illusione che, finalmente (qui proprio, e non a caso, Pascoli richiama le sue molte tragedie familiari) la scienza possa, se non vincere la morte, almeno “risuggellare” le tombe.25 Possiamo, ora, stringere più da presso il nostro tema rifacendoci ai più noti, ma sempre nuovi, testi della poetica esplicita pascoliana. Già in uno scritto del 1892 (apparso sul “Fanfulla della domenica”) Pascoli parlava di un mondo, il mondo agrario e campestre, da riguardare con gli occhi di una primigenia “stupefazione”, in cui vi sono “cose e fatti poetici di per sé, come vi sono gemme e fiori”,26 mentre due anni dopo, nella citata intervista a Ugo Ojetti, dichiarava la necessità di svecchiare il lessico accusando i nostri poeti di descrivere la campagna in modo convenzionale; per poi concludere polemicamente: “un po’ di botanica e 96

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di zoologia non farebbero male”.27 Su questo tema tornerà poi nel Sabato (1896), dopo aver ribadito che “la poesia è nelle cose”, imputando anche al Leopardi – il brano è dei più celebri –

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l’errore dell’indeterminatezza per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d’indeterminatezza che si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo), tutti gli uccelli a usignolo.28

Insomma quando Leopardi parla di piante e animali “è troppo generico, lasciando che non è tutto esatto”. E poi, una precisazione da vero esperto: “non un nome di specie [...] Né molta varietà”.29 Infine, una notazione sempre riferita a Leopardi, non priva di una vaghissima vena d’irriverenza e al tempo stesso di orgoglio per le proprie competenze naturalistiche: un grande poeta, o cinciallegre che fate sentire lo stridìo assiduo delle vostre piccole lime in questo dolce sabato sera! un grande poeta, sebbene egli forse non distinguesse i vostri squilli dallo spincionare del fringuello a cui somigliano.30

È precisamente ciò che, come si è visto nell’analisi dei dati, Pascoli intende fare, e fa in modo percentualmente massiccio: indicazione delle specie animali e vegetali, precisione lessicale. Nel Fanciullino (1897), la poetica (e forse l’estetica) pascoliana trova la sua formulazione più compiuta: quel piccolo io prelogico che “sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai”, che “parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle”, che “ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce” (si noti l’esemplificazione sui tre regni naturali), ebbene egli “è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente”.31 Nominare, ecco, per poter vedere, ingrandire, rimpicciolire, ammirare, con stupore, ciò che il mondo sembra squadernare sotto i suoi occhi stupefatti, “come per la prima volta”. Nominare: il suo linguaggio “non è imperfet97

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to”, ma “prodigo”; “e a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta”. Nominare: guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo. Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de’ fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basti dir fiori o fioretti, e aggiungere magari vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi? Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c’è, da regione a regione, anzi da contado a contado.32

E insomma, gran parte della poesia della campagna, per Pascoli, è fatta di fiori e piante, di uccelli, di insetti, di rettili, cui il poeta, come un risorto Adamo, sembra essere il primo a mettere un nome... La mutazione simbolica. Tutto limpido dunque? Non sembra, giacché proprio l’operazione del nominare, e spesso dell’enumerare, produce in Pascoli un singolare effetto di straniamento dovuto proprio ad un’inversione di senso, a una trasposizione simbolica della parola stessa. La parola esatta, scientificamente propria, sta lì a descrivere, nella maggior parte dei casi significativi, non un fatto naturalistico in sé, ma una visione, una sensazione, una vibrazione della memoria, una trepidazione ansiosa. Perché l’io prelogico, l’io fanciullo, alla fine, nominando le cose, ne evoca l’energia misteriosa e più profonda: “la poesia consiste nella visione di un particolare inavvertito dentro e fuori di noi”. Visione, memoria, sogno: Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti.33 98

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Ecco il vero tema, il grande Pascoli (vorrei dire, sia pure con qualche cautela, il Pascoli etico e tragico, “der tragische Georgicher”34) dove, contrariamente a quanto avviene di norma in natura, è la morfologia della crisalide idillico-bozzettistica a esibire la piacevolezza estetica di una lieve, ma superficiale iridescenza, proprio mentre, l’iperrealismo della terminologia tecnico-scientifica genera e nutre una potente, originalissima mutazione simbolizzatrice che maschera e con-fonde, inverandolo, il tragico nell’idillico. Giacché cosa vuol dire quel contemplare l’invisibile, quel peregrinare per il mistero, quel vivere e convivere, letteralmente, coi morti, se non un frequentare in limine e in una dimensione ipnotica, onirica e visionaria (sono aggettivazioni che riprendo da Edoardo Sanguineti)35 proprio quella soglia che, per esorcizzarla, si vuol apparentemente rendere quasi familiare, quotidiana, labile. Dunque la scienza nemmeno è riuscita a risuggellare le tombe. Dunque il gelsomino notturno “nell’ora che penso ai miei cari” sarà e non sarà, coi suoi “petali un poco gualciti”, un vero fiore (segno di vita e a un tempo di morte); come lo sarà e non lo sarà la digitale purpurea, “il fiore più corrotto fra quanti, dopo i fiori del Carducci e i fiori stessi di D’Annunzio, produsse, dal seme dei fiori del male, il nostro decadentismo”, secondo una celebre e sempre suggestiva definizione di Getto: “una spiga di fiori, anzi di dita / spruzzolate di sangue, dita umane / l’alito ignoto spande di sua vita”.36 E si noti, verso la chiusa della poesia, come l’insistita volontà di precisione naturalistica (le cetonie verdi, le leopardiane rose maritate con le pascoliane viole a ciocche) sia funzionale al costituirsi dell’orizzonte di possibilità di una rappresentazione straordinariamente evocativa: … – sì: sentii quel fiore. Sola ero con le cetonie verdi. Il vento portava odor di rose e di viole a ciocche. Nel cuore, il languido fermento d’un sogno che notturno arse …

Simboli, lì, al confine fra il sogno e la morte, di un esistere colto da uno sguardo-abbassato, di una vita malgrado tutto irriduci99

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bile, e quasi segreta, misteriosa, che letteralmente pullula, che esala profumi, che ronza e sussurra e vibra, coi suoi colori, con le sue livree, con le sue ostensioni estetiche (Traina ha parlato di una sorta di “darwinismo junghiano ante litteram”); vita che il poeta evoca proprio nominando le cose. Come in Casa mia (una poesia non caso prediletta da un critico assai fine quale fu, nel breve tempo che gli fu concesso, Raffaele Viola)37 dove la vivente presenza delle farfalle notturne, le macroglosse, fra le non meno vivide infiorescenze di mimose, e rose rampicanti, e peonie rosse, e giaggioli azzurri, e bergamotte, e cedri,38 in un’atmosfera di straordinaria allucinazione, e quasi ossessiva, questa vivente presenza – dicevo – funge, a quartine alternate, più che da “sfondo”, da controcanto (da cantilena) desoggettivizzante, al limite dell’esorcisma magicamente liberatorio, che interrompe a ogni strofe il commento “in soggettiva” del figlio non meno che l’evocata parola “diretta” della madre: una parola solo in apparenza “consolatoria”, in realtà angosciosa, non sostenibile, perché letteralmente “mortale” per il poeta (cors. miei): Mia madre era al cancello Che pianto che fu! Quante ore! Lì, sotto il verde ombrello della mimosa in fiore! M’era la casa avanti, tacita al vespro puro, tutta fiorita al muro di rose rampicanti Ella non anche sazia di lagrime parlò: – sai, dopo la disgrazia ci ristringemmo un po’...– Una lieve ombra d’ale annunziò la notte lungo le bergamotte e i cedri del viale. – ci ristringemmo un poco 100

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con le tue bimbe; e fanno...– Era il suo dire fioco fioco con qualche affanno.

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S’udivano sussurri cupi di macroglosse su le peonie rosse e sui giaggioli azzurri.

Non si può non avvertire qui, come in Digitale purpurea, e altrove, “un lungo brivido” percorrere (e si noti l’intensificazione delle sibilanti nell’ultima quartina) fra le ali di queste, così vive eppure così inquietanti macroglosse, i passeri dei morti, quel limite, quello spazio, quell’“ombra del Vero”, assolutamente sospesi fra finito e infinito, fra calcolabile e incalcolabile; quel fra, alla fine, e per parafrasare questa volta Heidegger, in cui l’uomo appartiene all’essere ed è straniero all’ente.39 Un “fra”, in ogni caso, che conserva pienamente il suo irrinunciabile ancoraggio nel linguaggio poetico: è vero, infatti, che la poesia, per Pascoli, “o racconta o indovina” giacché essa risiede “solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno”,40 ed è vero che si può parlare di “conoscenza alogica” (Goffis) o di “gnoseologia poetica” (Anceschi), o ancora di “livellamento trascendentale” fra percezione e sogno (Sanguineti), ma resta anche penetrante l’intuizione di un Renato Serra, pur inconsapevole della fonte spenceriana, quando sostiene che “tutta la consistenza” dei versi di Pascoli “è negli accenti che spiccano una battuta dall’altra, che creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga con una vasta eco sonora”.41 In questa estrema economicità dell’espressione sta la grande arte del discontinuo pascoliano: lo stesso Gianfranco Contini ne intravede acutamente la funzione senza tuttavia riconoscere Spencer come sua privilegiata radice, e sia pure mutata di segno. L’aspetto della pagina pascoliana – annota il critico – appare discontinuo, procede tipicamente mediante la paratassi per asindeto, presenta una struttura costituita da “elementi fantastici perfettamente isolati e disposti in serie”; ma infine, ecco: 101

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la sostanza dell’immaginazione pascoliana non è in queste immagini per sé prese, bensì, se così posso dire, negli intervalli tra immagine e immagine; la consecuzione di queste immagini fa soltanto sorgere più instante l’evocazione dell’intervallo, di ciò che si trova virtualmente tra fantasma e fantasma...42

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§ 2. La risposta degli “scienziati” È Anceschi a chiamare “scienziati” quegli autori (linguisti, semiotici, psicologi, sociologi, ecc.) che si propongono di definire la poesia (e l’arte) utilizzando criteri, strumenti e metodi propri delle rispettive discipline, con ciò presumendo di “garantire” una “qualità scientifica”, rigorosa e oggettiva, alle loro definizioni. Anche in questo caso, tale pretesa si scontra con un rilievo di fatto: sussiste una pluralità di risposte difformi ciascuna delle quali pretende per se stessa di essere l’Unica Vera, perché fondata su una Scienza che ne garantisce la validità. Ad esempio una psicologa francese di scuola freudiana, Marie Bonaparte, ha affermato senza tentennamenti che “le opere letterarie e artistiche degli uomini [...] sono costituite, come ha dimostrato Freud, alla maniera dei sogni di tutti noi. Gli stessi meccanismi che presiedono alla elaborazione, nei sogni e negli incubi, dei nostri desideri più nascosti – e spesso più ripugnanti alla nostra coscienza – presiedono alla elaborazione delle opere d’arte”.43 Del resto, alcuni scienziati dell’Ottocento ingenuamente positivista non pensavano forse che l’arte fosse definibile quantitativamente in termini di misurazione delle risposte a determinati stimoli fisici (colori, suoni...)? Più di recente, alcuni neuroscienziati (come ad esempio Semir Zeki, uno dei principali padri fondatori della Neuroestetica), sono addirittura convinti di aver individuato alcuni fondamentali meccanismi cerebrali propri dell’attività artistica. La funzione poetica (Jakobson). Nato a Mosca nel 1896 e poi trasferitosi negli Stati Uniti nel 1941 dove è morto nel 1982, Roman Jakobson è uno degli esponenti di maggior spicco dello 102

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strutturalismo linguistico. Fra i suoi numerosi lavori rimane fondamentale un suo saggio del 1958, che ha avuto grandissima risonanza anche presso gli studiosi di estetica, intitolato Linguistica e poetica.44 In questo saggio Jakobson si propone di dare una risposta alla seguente domanda: “Che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte?” In sostanza, dunque, si tratta di ritrovare la “chiave” linguistica della poesia, la sua “specificità” rispetto a tutti gli altri atti di comunicazione verbale. E, secondo Jakobson, questo è un compito proprio della linguistica: infatti, dato che quest’ultima “è la scienza che investe globalmente le strutture linguistiche, la poetica [che tratta problemi di struttura verbale] può essere considerata come parte integrante della linguistica”. Sul piano del metodo, quindi, Jakobson sostiene l’inclusione della poetica45 nella linguistica e con ciò intende legittimare la pretesa che sia il linguista il soggetto più idoneo a rispondere in termini scientifici (oggettivi e rigorosi) alla domanda “che cosa è la poesia?”. Ora, nel merito, Jakobson così argomenta: in ogni processo linguistico, in ogni atto di comunicazione verbale, sono compresenti sei fattori costitutivi, a ciascuno dei quali corrisponde una specifica funzione linguistica. CONTESTO O REFERENTE

funzione referenziale CONTATTO

funzione fatica MITTENTE

DESTINATARIO

funzione espressiva

funzione conativa CODICE

funzione metalinguistica MESSAGGIO

funzione poetica 103

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Se è vero che i sei i fattori e le relative funzioni sono tutti compresenti in ogni atto di comunicazione verbale è vero anche però che fra di essi si stabilisce, caso per caso, una gerarchia e quindi una dominanza di una funzione rispetto alle altre: “La struttura verbale di un messaggio dipende prima di tutto dalla funzione predominante”. Vediamo, dunque che cosa avviene in concreto, seguendo Jakobson: Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il “referente”, secondo un’altra terminologia abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione.

Su chi sia il mittente e chi il destinatario, nessun dubbio. Chiariamo il resto: il messaggio non va confuso con il contenuto del messaggio. Il messaggio è, nel nostro caso, per così dire il “supporto verbale” che veicola un determinato “contenuto di pensiero”, una informazione che il mittente vuol comunicare al destinatario. Ora, “il ciò di cui si parla” è appunto il contesto-referente. Se ci limitassimo a sole tre funzioni, secondo il modello tradizionale del linguaggio: funzione emotiva, conativa e referenziale, ai tre vertici di questo modello corrisponderebbero: la prima persona (il mittente), la seconda persona (il destinatario) e la “terza persona” propriamente detta (qualcuno o qualcosa di cui si parla)

REFERENTE

egli

MITTENTE

io

DESTINATARIO

tu

104

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La funzione referenziale. Facciamo un esempio: ci troviamo nella stazione di Bologna e ascoltiamo dall’altoparlante una comunicazione del tipo “Il treno per Torino, via Piacenza, delle ore 19,35 partirà dal Piazzale Ovest, binario 1”. In questo caso la funzione referenziale (o anche “denotativa”) è certamente dominante (insomma riceviamo in termini di “contenuto cognitivo” un’informazione dove quel che conta è il significato letterale, chiaro e diretto, delle parole – quel che si chiama denotazione – e non, invece, la forma, il modo, il suono, i significati aggiunti, allusivi, evocativi, del messaggio – quel che si chiama “connotazione”). La funzione referenziale è prevalente in numerosi messaggi. La funzione espressiva o emotiva. Tale funzione “si concentra sul mittente, mira ad un’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto riguardo a quello di cui si parla”. Ad esempio, in italiano, c’è una bella differenza (informativa) se uno, ad una nostra richiesta, risponde sì (pronuncia della “i” breve = affermazione) o siiii (allungamento enfatico della vocale). Jakobson riporta il seguente esempio: Un vecchio attore del teatro Stanislavsky a Mosca mi raccontò come, al momento della sua audizione, quel famoso direttore gli chiedesse di trarre quaranta messaggi diversi dall’espressione “questa sera”, variando le sfumature espressive. Egli fece un elenco di circa quaranta situazioni emozionali, poi pronunziò la frase in questione in rapporto a ciascuna di queste situazioni, che il suo uditorio doveva riconoscere soltanto dai mutamenti della forma fonica di quelle due parole. [...] La maggior parte di quei messaggi fu decifrata correttamente, e in tutti i particolari...

La funzione conativa. Qui, invece, tutto il messaggio si focalizza sul destinatario. L’espressione grammaticale dominante è data dal vocativo e dall’imperativo. La funzione fatica. L’aggettivo “fatico” deriva dal verbo greco femì che significa “parlare”. Alcuni messaggi servono essenzialmente a stabilire, mantenere o interrompere la comunicazione e a verificare se il canale (il contatto) funziona: “pronto, mi senti?”. Questo tipo di accentuazione della possibilità “psico-fisica” di co105

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municare può determinare dialoghi più o meno divertenti, il cui unico scopo è quello di prolungare la comunicazione, come questo che riporta Jakobson (possiamo immaginare, se vogliamo, due innamorati timidi seduti su una panchina):

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– Bene! – disse il giovane – Bene! – essa rispose – Bene, eccoci qui – egli disse – Eccoci qui, non è vero? – essa rispose – Direi proprio che ci siamo – egli disse – Ooh! Eccoci qua – – Bene! – essa disse – Bene! – egli disse – Bene! –

La funzione metalinguistica. Posto che il metalinguaggio è un linguaggio che parla del linguaggio stesso, ogni volta che il mittente o il destinatario devono verificare se essi utilizzano lo stesso codice (insomma se parlano la stessa lingua) si determina una dominanza della funzione metalinguistica. Vediamo l’esilarante esempio di dialogo che riporta lo stesso Jakobson (immaginiamo – se ci piace così – un goliardo bolognese degli anni ’50 che parla con la sua ragazza, una commessa di San Giovanni in Persiceto): – Il fagiolo è stato bocciato – Ma che cosa vuol dire bocciato? – Bocciato vuol dire la stessa cosa che trombato – E trombato? – Essere trombato significa non riuscire in un esame – Ma cos’è un fagiolo? – insiste l’interlocutrice che ignora il gergo studentesco – Un fagiolo è (o significa) uno studente universitario del secondo anno Tutte queste espressioni equipollenti convogliano informazioni esclusivamente sul codice lessicale; la loro funzione è strettamente metalinguistica.

La funzione poetica. L’accento posto sul messaggio in quanto tale, per se stesso, costituisce la funzione poetica del linguaggio. Tale funzione non è esclusiva della poesia, ma nella poesia è assolutamente dominante. Tuttavia anche in atti di comunicazione 106

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“normali” se ne può riscontrare la presenza, e tanto più nel linguaggio pubblicitario (slogans) che tende a sottolineare, appunto il fattore “messaggio”: – Perché dici sempre Gianna e Margherita, e mai Margherita e Gianna? Preferisci Gianna alla sua sorella gemella? – Niente affato, ma così suona più gradevolmente In una successione di due nomi coordinati, e quando non interferisca un problema di gerarchia, il parlante sente inconsciamente, nella precedenza data al nome più corto, la migliore configurazione possibile del linguaggio [Questo procedimento si chiama “gradazione sillabica”]. Una ragazza parlava sempre dell’“orribile Oreste”. – Perché orribile? – Perché lo detesto – Ma perché non terribile, tremendo, insopportabile, disgustoso? – Non so perché, ma orribile gli sta meglio. Senza rendersene conto, essa applicava il procedimento poetico della paronomasia.

La paronomasia è, appunto, quel procedimento poetico-retorico che consiste nell’accostare parole di significato diverso che iniziano con lettere uguali (or... Or...) o che hanno, comunque, un suono affine. Jakobson analizza anche uno slogan politico: I like Ike (pronuncia: ay layk ayk = “mi piace, preferisco Ike”) utilizzato dai sostenitori del generale Dwight D. Eisenhower candidato nella campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti (siamo negli anni ’50). “Ike” era appunto il nomignolo affettuoso con cui veniva chiamato Eisenhower. L’analisi è molto dettagliata e mira a evidenziare una forte presenza, diciamo così, “percentuale” della funzione poetica rispetto alle altre funzioni (ferma restando la dominanza, comunque, della funzione referenziale): Nella sua struttura succinta lo slogan è costituito da tre monosillabi e contiene tre dittonghi /ay/ ciascuno dei quali è seguito simmetricamente da un fonema consonantico, /l...k...k.../. La disposizione delle tre parole presenta una variazione: nessun fonema consonantico nella prima parola, due intorno al dittongo nella se107

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conda, e una consonante finale nella terza. I due cola della forma trisillabica I like / Ike rimano fra loro, e la seconda delle due parole in rima è completamente inclusa nella prima (rima ad eco): /layk/ - /ayk/; immagine paronomastica di un sentimento che inviluppa totalmente il suo oggetto. I due cola formano un’allitterazione, e la prima delle due parole allitteranti è inclusa nel secondo: /ay/ - /ayk/, immagine paronomastica del soggetto amante involto nell’oggetto amato. La funzione poetica secondaria di questa formula elettorale rafforza la sua espressività ed efficacia.

Ma come riconoscere in concreto la funzione poetica? Occorre tener presente, in via preliminare, che, per Jakobson, ogni atto di comunicazione verbale presuppone due processi fondamentali di costruzione della frase: la selezione e la combinazione. Il mittente (chi parla) consapevolmente o meno compie una scelta fra una serie di termini di significato più o meno simile, ossia seleziona in un campo semantico di sinonimi la parola che esprime meglio il suo pensiero. Nel caso di una frase semplice composta dal soggetto e dal verbo questa operazione viene compiuta due volte, una per il soggetto l’altra per il verbo. Questo primo processo è operato sulla base di un principio di equivalenza, o similarità (equivalenza, similarità fra sinonimi). Dopo di che il parlante provvede a unire insieme, a combinare i due termini precedentemente selezionati in una frase compiuta. Questo secondo processo è operato sulla base di un diverso principio, quello di contiguità (successione di più termini nella frase, o catena semantica). Seguiamo Jakobson: Sia “bambino” il tema del messaggio: il parlante compie una scelta in una serie di termini relativamente simili, come bambino, bimbo, marmocchio, monello, tutti più o meno equivalenti da un certo punto di vista; poi, per dichiarare il tema, sceglie uno dei verbi semanticamente affini: dorme, dormicchia, riposa, sonnecchia. le due parole scelte si combinano nella catena parlata

Questo è ciò che avviene normalmente. Ora il punto è che in poesia (in particolar modo) questo processo subisce una modifica sostanziale: 108

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La funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione. L’equivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della sequenza. In poesia ogni sillaba è messa in rapporto d’equivalenza con tutte le altre sillabe della stessa sequenza; un accento tonico è uguale ad ogni altro accento tonico; atona uguaglia atona; lunga (prosodicamente) si appaia a lunga, breve a breve; limite di parola corrisponde a limite di parola, assenza di limite corrisponde ad assenza di limite; pausa sintattica corrisponde a pausa sintattica; assenza di pausa corrisponde ad assenza di pausa. Le sillabe si trasformano in unità di misura, ed accade lo stesso delle more e degli accenti

Possiamo cercare di rendere visivamente questo meccanismo precipuo della funzione poetica, tenendo presente due avvertenze: a) la selezione implica similarità fra termini equivalenti, quindi si può anche descrivere come un “processo paradigmatico” (da paradigma) o, ancora, come un processo di sostituzione, ossia metaforico (essendo la metafora la sostituzione di una parola propria – “guerriero” – con una parola il cui significato è in rapporto di somiglianza con il significato della parola sostituita – “leone” –; da cui: “Achille è un leone”). Insomma: asse della selezione, asse paradigmatico, asse della sostituzione o direttrice metaforica sono tutte espressioni sostanzialmente intercambiabili. b) La combinazione implica contiguità, quindi si può anche descrivere come un “processo sintagmatico” (da sintagma) o, ancora, come un processo di tipo metonimico (essendo la metonimia una figura retorica per la quale il significato proprio di una parola – “bicchiere” – viene spostato su un significato – “vino” – che con il primo è in rapporto di contiguità: contenente per il contenuto, causa per effetto, ecc.; da cui: “ho bevuto un bicchiere”). Insomma: asse della combinazione, asse sintagmatico, direttrice metonimica sono tutte espressioni sostanzialmente intercambiabili.

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Vediamo i grafici:

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Se prendiamo, ad esempio, una terzina della Divina Commedia ci possiamo rendere conto meglio di come funziona la proposta di Jakobson:

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Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita

Notiamo che il fenomeno della rima in effetti comporta che il poeta (il mittente) scelga le parole (quindi secondo il principio di equivalenza) non solo in funzione del loro significato, ma anche in funzione del loro suono e del posto che occupano nella catena sintagmatica (nel verso). Lo stesso meccanismo vale in relazione agli accenti tonici, alla durata dei suoni, ecc., di modo che ciascuna sillaba deve cadere esattamente al posto giusto negli endecasillabi: Nél / méz / zo / del / cam / mìn || di / nò / stra / ví / ta mi / ri / tro / vái || per / ú / na / sél / va o / scú / ra, ché / la / di / rít / ta / vía || é / ra / smar / rí / ta.

Insomma ciascun elemento viene assunto come una tessera intercambiabile di un complicatissimo puzzle e interagisce con con tutti gli altri (il principio di equivalenza opera non solo nella selezione ma pure nella combinazione di ciascun elemento). È questa la chiave della poesia? Possiamo dire certo che Jakobson introduce un utilissimo strumento teorico e di analisi linguistico-strutturale del testo poetico, ma non possiamo accettare la sua definizione come l’Unica Vera, per quanto essa si dichiari garantita dalla Scienza, in questo caso la Linguistica; né crediamo che siffatta definizione, o qualsiasi altra, sia in grado di esaurire tutte le implicazioni e i significati di ciò che diciamo “poesia”. Per altro, ho potuto riscontrare già in autori del Settecento francese, Batteux e Diderot, alcuni “precorrimenti” (diciamolo con la massima cautela) delle teorie jakobsoniane. Batteux scrive così, nel 1746, a proposito dell’armonia poetica:

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[essa] consiste in una certa arte che, oltre a scegliere le espressioni e i suoni in rapporto al loro senso, li combina in modo che tutte le sillabe di un verso, prese nel loro insieme, producano con il loro suono, ritmo e quantità un’altra specie di espressione che accresce vieppiù il significato naturale delle parole.46

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Diderot, a sua volta, in un suo saggio del 1751 introduce la nozione di geroglifico poetico: Passa nelle parole del poeta uno spirito che ne muove e vivifica tutte le sillabe. Che cosè questo spirito? Ne ho talvolta sentito la presenza, ma tutto quello che so è che è lui a far sì che le cose siano dette e rappresentate simultaneamente; che nello stesso momento in cui l’intelletto le coglie, l’anima ne è commossa, l’immaginazione le vede, e l’orecchio le sente; e che il discorso non è più soltanto un concatenamento di termini energici che espongono il pensiero con forza e nobiltà, ma che è anche un tessuto di geroglifici ammassati gli uni sugli altri, che lo raffigurano. Potrei dire, in questo senso, che ogni poesia è emblematica.47

L’esemplificazione che segue queste affermazioni (l’analisi di alcuni versi di Boileau e Omero fra gli altri) spiega bene come per geroglifico Diderot intenda quell’intreccio fonetico-semantico che caratterizza anche la “funzione poetica” in senso jakobsoniano. Jakobson, per altro, porta agli estremi la sua teoria, in un altro saggio intitolato Due tipi di afasia. Dove sostiene che il discorso può svilupparsi secondo due differenti direttrici semantiche, una metaforica e una metonimica, giacché “un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità”. Ciò premesso, si avrebbe che: il romanticismo e il simbolismo vedrebbero il primato del processo metaforico, mentre la metonimia caratterizzerebbe il movimento letterario del realismo. Per giunta: La prevalenza alternante dell’uno o dell’altro di questi due procedimenti non è affatto un fenomeno esclusivo dell’arte letteraria: la stessa oscillazione appare nei sistemi di segni diversi dal linguaggio. Un esempio significativo tratto dalla storia della pittura è costituito dall’orientamento evidentemente metonimico del cubismo che trasforma l’oggetto in una serie di sineddochi; i pittori 112

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surrealisti hanno reagito con una concezione chiaramente metaforica.48

Parla, inoltre, Jakobson, a proposito del cinema, di “montaggi metonimici”, da Griffith in poi. Invece, “un nuovo tipo metaforico di montaggio, con le sue ‘dissolvenze graduali’, autentiche similitudini filmiche” sarebbe stato introdotto da Charlie Chaplin. Per poi concludere, alla fine, che il principio di similarità sta alla base della poesia e che quindi essa è essenzialmente orientata sulla metafora, mentre la prosa procede per rapporti di contiguità ed è quindi essenzialmente orientata sulla metonimia. Tutti questi schematismi ci paiono suggestivi, ma anche astratti e fuorvianti. § 3. La risposta degli storici Anche in questo caso (qui stiamo già passando dalla domanda settoriale “che cos’è la poesia?” alla domanda generale “che cos’è l’arte?”) troviamo punti di vista, posizioni, definizioni diverse. Quel che è certo è che anche gli storici dell’arte, della critica, della letteratura, ecc., di fatto adottano, in forma implicita o esplicita, un certo modello estetico, più o meno “aperto”. Ancora crociano appare, nella sostanza, Lionello Venturi, autore di una Storia della critica d’arte (1964). Venturi accetta l’identità di storia dell’arte e di critica d’arte teorizzata da Croce e, inoltre, esplicitamente riconosce l’esistenza di uno stretto legame fra quelle discipline e l’estetica: La conoscenza dell’estetica, come d’altronde ogni altra conoscenza d’ordine spirituale, può essere soltanto storica. La storia dell’estetica è dunque la conoscenza necessaria allo storico dell’arte.

Se dunque la storia dell’arte e della critica non può prescindere dall’estetica e dalla sua storia, allora occorrerà delineare i principi estetici sui quali si fonda l’attività dello storico della critica d’arte. Dopo aver dichiarato che “compito dell’estetica è di defi113

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nire l’idea di arte”, Venturi mostra la sua dipendenza dall’estetica crociana identificando l’arte, in modo assoluto, essenzialistico, con l’immaginazione creativa (o fantasia: in pratica l’intuizione) che dà “forma” al “sentimento”. Inoltre, come Croce, ammette l’assoluta autonomia di ciascuna opera d’arte in sé (che differisce da qualsiasi altra), e l’estraneità della tecnica artistica rispetto all’arte vera e propria. Ciò di cui si può fare storia, allora, non è l’arte in sé, bensì quegli “elementi costruttivi” che accompagnano l’opera d’arte come fattori ad essa esterni (la tecnica, gli ideali, ecc., elementi tutti condensati nell’idea di gusto: la storia della critica è storia del gusto). Il paradosso dell’Arte (Gombrich). Austriaco di Vienna (19092001), Ernst H. Gombrich, storico e psicologo dell’arte, si trasferisce a Londra nel 1935 dove assume la direzione del Warburg Institute dal 1959. La sua History of Art (1950), pur nella semplicità di un’esposizione non accademica, pone in modi originali alcuni problemi di ordine metodologico che ci riguardano da vicino. Nell’Introduzione al volume La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, edito da Einaudi, troviamo sin dalla prima riga dell’Introduzione un’affermazione a prima vista paradossale. Tuttavia, a ben vedere, la posizione di Gombrich ha il merito di una notevole apertura metodologica: Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti: uomini che un tempo con terra colorata tracciavano alla meglio le forme del bisonte sulla parete di una caverna e oggi comprano i colori e disegnano gli affissi pubblicitari per le stazioni della metropolitana, e nel corso dei secoli fecero parecchie altre cose. Non c’è alcun male a definire arte tutte codeste attività, purché si tenga presente che non esiste l’Arte con l’A maiuscola, quell’Arte con l’A maiuscola che oggi è diventata una specie di spauracchio o di feticcio. Si può rovinare un artista sostenendo che la sua opera è ottima a modo suo, ma non è “Arte” e si può confondere chiunque abbia trovato bello un quadro dicendogli che non si trattava di Arte ma di qualcos’altro.

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Il relativismo di Gombrich, il suo garbato pragmatismo, il fatto stesso che riconosca il titolo di “artista” ai nostri progenitori che disegnavano bisonti, magari nelle grotte di Altamira o di Lascaux, sono tutti aspetti che ci fanno apprezzare il suo punto di vista. Purché questo non comporti, per così dire, una negazione assoluta della specificità estetica dell’arte altrettanto dogmatica quanto lo sarebbe una definizione assoluta di marca essenzialistica. Ma, in effetti, non crediamo che sia così. Gombrich, piuttosto, sembra voler evitare ogni posizione troppo rigida circa i modi di fruizione dell’arte: Io non credo veramente che esistano modi sbagliati di godere un quadro o una statua. [...] Ci sono ragioni sbagliate per non godere un’opera d’arte. È infinitamente meglio non sapere nulla dell’arte che avere quella pseudocultura che origina lo snobismo.

Gombrich elenca alcuni pregiudizi che, a suo dire, impedirebbero di apprezzare pienamente le opere d’arte. Il primo di questi riguarda il soggetto rappresentato dal pittore. Infatti, a molti piace vedere nei quadri ciò che essi amano nella realtà. Quando il grande pittore fiammingo Rubens fece un disegno del suo bambino, era orgoglioso della sua bellezza e voleva che anche noi l’ammirassimo. Ma questa predilezione per i soggetti piacevoli e suggestivi può essere dannosa, se ci induce a respingere opere che rappresentino soggetti meno immediatamente attraenti. Il grande pittore tedesco Albrecht Dürer disegnò sua madre [...]. Il suo studio fedele della vecchiaia e dello sfacelo può forse colpire e respingere, ma [...] nella sua spietata sincerità il disegno di Dürer è un’opera grandiosa: la bellezza di un quadro non sta nella bellezza del soggetto.

Il secondo pregiudizio riguarda, invece, l’espressione di una figura in un dipinto: Ad alcuni piace un’espressione facilmente comprensibile, in grado quindi di commuovere profondamente. Quando

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Pieter Paul Rubens, Ritratto del figlio Albrecht Dürer, Ritratto della maNicola. dre.

Guido Reni, Crocifissione (partico- Maestro toscano, Crocifisso (particolare). lare). 116

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Guido Reni, pittore italiano del Seicento, dipinse il suo Cristo in croce indubbiamente voleva che lo spettatore ravvisasse in quel volto tutto il tormento e tutta la gloria della passione.

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Certo l’espressione del Cristo del “divino Guido” (come veniva chiamato per la sua abilità il Reni) è più ‘facile’ da cogliere, è più ‘gradevole’ e quindi più ‘popolare’ di quanto non possa esserlo quella di un Cristo medievale. La drammatica sofferenza del Crocifisso di un maestro toscano viene resa in questo caso con modalità di disegno e tecniche pittoriche ancora “primitive” ma non per questo necessariamente meno efficaci quanto ad espressività e a qualità artistica. Il terzo pregiudizio denunciato da Gombrich suona così Spesso la gente si arresta di fronte a un’altra difficoltà. Vuole ammirare l’abilità dell’artista nella rappresentazione delle cose così come sono. Preferisce le pitture che paiono “vere”.

Albrecht Dürer, Lepre.

E certo la lepre ritratta ad acquerello dal Dürer, dove con estrema pazienza e bravura il grande pittore ha reso con assoluta fedeltà, e quasi pelo per pelo, ciò che vedeva, rappresenta un esempio tipico di ciò che molti vanno cercando in un quadro. Ma un elefante di Rembrandt disegnato con pochi tratti di carboncino non sembra meno “realistico” della lepre di Dürer. 117

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Pablo Picasso, Chioccia con i pulcini.

Pablo Picasso, Galletto.

Più esemplare ancora il caso di Picasso. Gombrich mette a confronto, di questo grandissimo esponente della pittura moderna, un’incisione che rappresenta una chioccia in mezzo ai suoi pulcini resa con minuto realismo e il disegno di un galletto tratteggiato in stile antirealistico più o meno cubista: nel disegnarlo Picasso non si accontentò di renderne semplicemente l’aspetto: volle esprimerne l’aggressività, la boria e la stupidità.

In merito a tutto ciò, Gombrich riporta un esempio estremo. Le corse a Epsom, un noto dipinto di Géricault (pittore francese attivo nei primi decenni dell’Ottocento) raffigurano dei cavalli al galoppo nel modo richiesto dalla tradizione: con le zampe anteriori protese in avanti e quelle posteriori sospese all’indietro. Questo appariva “naturale” agli occhi di tutti perché nessuno era riuscito a notare il “vero” movimento delle zampe di un cavallo lanciato al galoppo. Solo con l’avvento della fotografia si scoprì che ciò che sembrava “naturale” era, in verità, falso. 118

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Jean-Louise-Théodore Géricault, Le corse a Epsom.

Eadweard Muybridge, Cavallo al galoppo (cronofotografia). 119

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Caravaggio, San Matteo (versione respinta).

Caravaggio, San Matteo (versione accettata).

Ed eccoci al quarto ammonimento: Non c’è peggior ostacolo al godimento delle grandi opere d’arte della nostra riluttanza a superare abitudini e pregiudizi. Una pittura che rappresenti in un modo insolito un soggetto familiare viene spesso condannata adducendo il futile pretesto che essa non sembra “esatta”.

È molto interessante l’esempio che fa Gombrich a questo riguardo. A Caravaggio fu commissionato, per l’altare di una chiesa romana, un san Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo sotto la guida di un angelo: Caravaggio, un giovane artista serio e intransigente, cercò di raffigurarsi la scena di un vecchio e povero operaio, un semplice pubblicano, improvvisamente alle prese con un libro da scrivere. Così dipinse san Matteo calvo, con i piedi nudi e polverosi, che afferra goffamente il grosso volume e aggrotta ansiosamente la fronte nell’insolito sforzo della scrittura. Al suo fianco dipinse un an120

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gelo adolescente che sembra appena giunto dall’alto e che dolcemente gli guida la mano come può fare un maestro con il bambino. Quando Caravaggio consegnò il quadro alla chiesa sul cui altare doveva essere appeso, suscitò scandalo per questa presunta mancanza di rispetto. Il dipinto non fu accettato e Caravaggio dovette ricominciare da capo. Non volendo però correre ulteriori rischi si attenne rigorosamente alle idee più convenzionali circa l’aspetto di un angelo o di un santo. Ne risultò certo un bel quadro, perché Caravaggio si era sforzato di renderlo vivace e interessante, ma lo sentiamo meno spontaneo e coerente del primo.

Gombrich, tuttavia, quando si trova a parlare per così dire “in positivo” dell’attività artistica, e non “in negativo” dei vari pregiudizi che abbiamo visto, mostra di possedere una sensibilità che sembra inclinarsi a volte verso un certo classicismo. L’arte viene a definirsi così, secondo Gombrich, come una combinazione di parti (colori, forme, ecc.) funzionale a un perfetto equilibrio, a un’ideale armonia. Sta a noi, appunto, saper cogliere quel senso dell’armonia che ogni generazione di artisti si è sforzata di raggiungere.

Qui sembra esserci un “ogni” di troppo, un “ogni” dove si annida l’idea che l’arte sia “sempre” armonia, che gli artisti aspirino “sempre” ad un perfetto equilibrio fra le varie parti di cui si compone la loro opera. Se fosse questo il pensiero di Gombrich, allora la sua apprezzabile “apertura” metodologica e il suo relativismo ne verrebbero, in certa misura, ridimensionati. § 4. La risposta dei filosofi Innumerevoli sono pure le concezioni della poesia e dell’arte che sono state prodotte da pensatori e trattatisti nel corso dei secoli. Per Platone, Aristotele e tutta la classicità la poesia è imitazione della natura (intesa soprattutto come natura umana). Bacone (1561-1626) riconduce, invece, la poesia all’Immaginazione: “La poesia è una parte della cultura per lo più legata a re121

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gole nella misura delle parole, ma per tutto il resto estremamente libera, e si riferisce veramente all’immaginazione che, non essendo legata alle leggi della materia, può ad arbitrio congiungere ciò che la natura ha disgiunto”. La poesia, in quanto immaginazione, avvicina cose lontane e consiste in un libero gioco associativo dei dati offerti dalla natura. Per Bacone, la distinzione tra scienza e poesia (arte) sta in questo: la scienza fa “matrimoni legali” e opera secondo la natura delle cose quali esistono in realtà, mentre la poesia (l’arte) fa “matrimoni e divorzi illegali” tra le cose, connette e separa a piacere e procura diletto associando velocemente e ingegnosamente cose lontane. Qui c’è già l’idea, propria dell’epoca barocca, della poesia come wit, arguzia, ingegno, come gioco concettoso e arguto. Ma Diderot, anticipando la sensibilità romantica, sosterrà che “la poesia richiede qualche cosa di enorme, di barbaro e di selvaggio”. Gli idealisti, in pieno clima romantico, diranno che la poesia è creazione, i neoidealisti che è intuizione. Per un filosofo contemporaneo come Adorno è enigma. Inoltre, per taluni la poesia e l’arte dovrà essere fine a se stessa (assolutamente autonoma), per altri dovrà avere uno scopo, una finalità esterna (eteronoma). E così via. L’elenco è veramente sterminato, dunque non di una idea della poesia (dell’arte) si può parlare, ma di una ricca molteplicità di pronunce e di definizioni, a vari livelli, ciascuna delle quali va “compresa” nella sua parziale e specifica “verità”. Certo non possiamo escludere a priori, dal campo dell’estetica, nessuno di questi significati, di queste definizioni. Le quattro negazioni di Croce. Nel Breviario di estetica (1912) il primo capitolo è intitolato appunto: “Che cosa è l’arte?”. Scrive Benedetto Croce, fin dalle prime righe: Alla domanda: – Che cosa è l’arte? – si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia. E veramente, se in qualche modo non si sapesse che cosa essa è, non si potrebbe neppure muovere quella domanda, perché ogni domanda importa una certa notizia della co122

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sa di cui si domanda, e perciò qualificata e conosciuta. Il che riceve una riprova di fatto nelle idee giuste e profonde che si odono sovente manifestare intorno all’arte da coloro che non fanno professione di filosofia e di teoria, dai laici, dagli artisti non amanti del ragionare, dalle persone ingenue, perfino dalla gente del popolo.49

Questa apparente “apertura” teorica, degna del miglior neofenomenologo (se la cronologia potesse mai consentire un simile giudizio), viene però radicalmente smentita nel momento in cui si afferma che solo al “filosofo” spetta il compito di “risolvere in modo adeguato tutti i problemi che sono sorti, fino a quel momento, nel corso della storia, intorno alla natura dell’arte”. In sostanza, il filosofo deve perseguire una definizione universale dell’arte che inglobi e superi tutte quelle precedentemente date a livello filosofico, mentre le riflessioni dei non-filosofi restano inevitabilmente consegnate ad un ambito ristretto e qualitativamente di gran lunga inferiore. Dunque, per definire l’arte, Croce decide di procedere, come si dice, “per viam negationis”, ossia definendo che cosa l’arte non è per affermare che cosa l’arte è. Le “negazioni dell’arte” sono quattro (se ne comprenderà meglio il motivo leggendo la successiva sezione): 1. L’arte non è un fatto fisico: dunque l’arte non consiste in certi determinati colori o suoni, o rapporti fra colori o fra suoni, o in qualunque altra cosa si designi come fisica (tesi anti-oggettivistica, anti-materialistica) Già nel pensiero comune si ha l’addentellato per quest’errore di fisicizzare l’arte, e, come i bambini che toccano la bolla di sapone e vorrebbero toccare l’arcobaleno, lo spirito umano, ammirando le cose belle, si volge spontaneamente a rintracciarne le cagioni nella natura esterna, e si prova a pensare o crede di dover pensare come belli certi colori e brutti certi altri, belle certe forme di corpi e brutte certe altre.[...] E se si domanda per quale ragione l’arte non possa essere un fatto fisico, bisogna in primo luogo rispondere che i fatti fisici non hanno realtà, e che l’arte, è sommamente reale; sicché essa non può essere un fatto fisico, che è qualcosa d’irreale.50 123

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2. L’arte non è un fatto utilitaristico: cioè l’arte è assolutamente “autonoma” non ha nulla a che vedere con l’utile o con il sentimento di piacere e di dispiacere o, in altre parole, non è un atto dettato dalla volontà di conseguire uno scopo “pratico” (tesi anti-edonistica, anti-eteronoma). 3. L’arte non è un fatto morale: poiché l’arte in quanto atto teorico non nasce per opera di volontà, non può essere altresì giudicata con criteri morali, che presuppongono, appunto, una scelta volontaria fra bene e male (tesi anti-moralistica, anti-eteronoma) Un’immagine artistica ritrarrà un atto moralmente lodevole o riprovevole; ma l’immagine stessa, in quanto immagine, non è né lodevole né riprovevole moralmente. Non solo non v’ha codice penale che possa condannare alla prigione o alla morte un’immagine, ma nessun giudizio morale, dato da persona ragionevole, può farla suo oggetto: altrettanto varrebbe giudicare immorale la Francesca di Dante o morale la Cordelia di Shakespeare, quanto giudicare morale il quadrato o immorale il triangolo.51

4. L’arte non è un fatto logico: ovvero, pur essendo un atto conoscitivo, l’arte non ha in nessun caso carattere di conoscenza “concettuale” (tesi anti-intellettualistica). La conoscenza concettuale, nella sua forma pura che è quella filosofica, è sempre realistica, mirando a stabilire la realtà contro l’irrealtà, includendola nella realtà come momento subordinato della realtà stessa.

L’arte, invece, non distingue fra reale e irreale nel produrre immagini che hanno valore appunto in quanto mere immagini in cui realtà e fantasia sono fuse inscindibilmente. Col contrapporre la conoscenza intuitiva o sensibile alla concettuale o intelligibile, l’estetica alla noetica, si mira a rivendicare l’autonomia di questa più semplice ed elementare forma di conoscenza, che è stata paragonata al sogno (al sogno, e non già al sonno) della vita teoretica, rispetto alla quale la filosofia sarebbe la veglia.52

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Definizione: L’arte è intuizione-espressione lirica del sentimento. Vedremo più avanti, qual è il senso di questa definizione assoluta dell’arte. Il Sistema chiuso. Croce pubblica la sua Estetica nel 1902 e si può dire che fino alla metà del secolo e oltre, il suo modello sarà, in Italia, dominante anche se non del tutto incontrastato (fu messo in discussione, ad esempio, e fra gli altri, da Banfi negli anni Venti, e successivamente da Anceschi (allievo di Banfi) a partire dal 1936, data di pubblicazione di Autonomia ed eteronomia dell’arte). Oggi la posizione crociana si direbbe oramai “superata” (anche se di fatto, nella scuola e in certa accademia, se ne avverte ancora la presenza in forme più o meno mascherate). In ogni caso, fuori da condizionamenti polemici, possiamo e dobbiamo analizzare il modello del grande filosofo italiano per quel che è: una straordinaria costruzione intellettuale, rigorosamente omogenea e coerente all’apparenza, e se considerata nell’astrattezza dei suoi principi e dei suoi assiomi, ma di fatto fragile e contraddittoria quando la si sottoponga ad una verifica “operativa” e, per così dire, “sul campo”. Ecco, in estrema sintesi, gli assunti crociani: a) Esiste un’unica vera realtà: lo Spirito. Tutto è ricondotto al Soggetto (immanentismo, soggettivismo). Di conseguenza: – ciò che comunemente si intende per “realtà” (il mondo fisico, materiale, “oggettivo”) in effetti di per sé non esiste (è pura passività); esiste solo se e in quanto sia conosciuto, elaborato, “formato”, dallo Spirito (che è sempre attività); – rifiuto del “materialismo”, dell’“oggettivismo”, del “positivismo”, ecc. b) La Filosofia dello Spirito, (che è la vera filosofia) non può che essere organica, unitaria e totalizzante: essa copre tutti i settori filosofici. Di conseguenza: – la forma della riflessione filosofica sarà quella del “Sistema chiuso”; in tale sistema troveranno posto tutte le articolazioni settoriali (Estetica, Logica, Economia, Morale); – il “Sistema” nel suo complesso e nelle sue parti garantisce la verità, coerenza, immutabilità, esaustività delle singole 125

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“definizioni settoriali” (ad es. la definizione dell’arte) necessariamente dipendenti dalla “logica complessiva” interna al Sistema stesso; – tali definizioni, generali e settoriali, sono “a priori” rispetto a ciò che comunemente intendiamo per “esperienza” (ad es. la definizione dell’arte, il suo “concetto puro” non “deriva” dall’esperienza concreta del mondo dell’arte, ma viene “dedotta” dai principi a priori dettati dalla “logica” del Sistema). c) Lo Spirito è attività, e l’attività dello Spirito è di due tipi: teoretica (cioè: conoscitiva) o pratica. Questa distinzione radicale fra attività teoretica e attività pratica è il vero e proprio asse portante del Sistema. Leggiamo, nell’Estetica: La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti.53

A loro volta i due tipi di attività spirituale si articolano ciascuno in due momenti distinti, cosicché in totale abbiamo 4 distinti momenti dell’attività spirituale. Essi sono, in rigorosa sequenza circolare del tipo: c1→c2→c3→c4→c1→c2→c3→c4→c1... e così di seguito (infatti si parla di circolarità dello Spirito):

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c1) primo momento (attività teoretica): conoscenza dell’individuale (ossia: di un “individuo” specifico); la forma di tale conoscenza è l’intuizione (ossia: la percezione del reale più la semplice immagine del possibile); il prodotto di tale attività conoscitiva intuitivo-espressiva al suo più alto livello54 è l’Arte (giacché ogni vera intuizione è anche espressione, come ogni vero contenuto è anche forma). A questo primo momento corrisponde l’Estetica (intesa come scienza del “concetto puro” dell’Arte, ossia, in pratica, come scienza dell’intuizione-espressione lirica del sentimento); c2) secondo momento (attività teoretica): conoscenza dell’universale (ossia non di un “individuo”, ma di una “classe”); la forma di tale conoscenza è il concetto (tale concetto è puro, cioè puramente conoscitivo e non mescolato con alcunché di “pratico”); secondo la rigorosa sequenza di cui sopra non si può avere conoscenza dell’universale senza prima aver avuto conoscenza del particolare. Al secondo momento corrisponde la Logica, e in genere la Filosofia55 (intesa come scienza del concetto in generale) c3) terzo momento (attività pratica): volizione del bene individuale (ossia: io desidero il bene per me, voglio il “mio” particolare tornaconto); non si può avere attività pratica se prima non si è passati per i due gradi di conoscenza precedenti (prima si conosce, poi si agisce). Al terzo momento corrisponde l’Economia, e in genere tutte le attività tecnico-scientifiche finalizzate ad uno scopo pratico, utilitaristico, non puramente conoscitivo.56 c4) quarto momento (attività pratica): volizione del bene universale (ossia del bene non solo o non tanto per me, ma per tutti). Al quarto momento corrisponde la Morale. Dopo di che, chiuso il cerchio con il quarto momento, lo Spirito, ricco delle acquisizioni conoscitive e pratiche conseguite, ritorna di nuovo al primo momento conoscitivo percorrendo senza fine il ciclo sopra descritto (questa “circolarità” si traduce anche in “storicismo assoluto”: lo Spirito è eterna attualità nel “pre127

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sente” della sua “storia” passata e al tempo stesso, per così dire, “cresce su se stesso”). Scrive Croce nel Breviario:

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Se si domanda, delle varie attività dello spirito, quale sia reale, o se siano tutte reali, bisogna rispondere che nessuna è reale; perché reale è solamente l’attività di tutte quelle attività, che non riposa in nessuna di esse in particolare: delle varie sintesi – sintesi estetica, sintesi logica, sintesi pratica, – sola reale è la sintesi delle sintesi, lo Spirito che è il vero Assoluto, l’actus purus).57

Ora, la “sintesi a priori estetica” consiste nella relazione-unità di contenuto (sentimento) e forma (immagine) nell’arte. Riprendendo anche una formula di Kant, Croce afferma: l’arte è una vera sintesi a priori estetica, di sentimento e immagine nell’intuizione, della quale si può ripetere che il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il sentimento è vuota.58

In questo quadro complessivo va collocata la definizione crociana dell’arte. Abbiamo già visto come l’arte non è un fatto fisico, né un fatto utilitaristico, né un fatto morale, né un fatto logico, bensì, appunto, è intuizione o, se si vuole svolgere tutta la definizione esplicitando ciò che è già del tutto implicito nel concetto di “intuizione”, l’arte è intuizione-espressione lirica del sentimento. L’intuizione, a sua volta, non è sensazione, perché la sensazione è pura passività; non è percezione, perché la percezione comporta distinzione fra realtà e irrealtà e nell’arte questa distinzione non ha luogo. Leggiamo: Di certo, la percezione è intuizione: le percezioni della stanza nella quale scrivo, del calamaio e della carta che ho innanzi, della penna di cui mi servo, degli oggetti che tocco e adopero come strumenti della mia persona, la quale se scrive, dunque esiste; – sono tutte intuizioni. Ma è parimenti intuizione l’immagine, che ora mi passa pel capo, di un me che scrive in un’altra stanza, in un’altra città, con carta e penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la distinzione tra realtà e non realtà è estranea all’indole propria dell’intuizione, e secondaria.59 128

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Arriviamo così al punto nodale, alla definizione, cioè, di “intuizione”:

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L’intuizione è l’unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. [...] Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. [...] L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime.60

Si tenga presente che quando Croce parla di “espressione” non intende un’attività che porta all’esterno ciò che è interno. “Espressione” vale qui sempre come “immagine interiore”. Da tutto ciò discende l’impossibilità di avere intuizioni, per così dire, “inespresse”: A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a se stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora [...] dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione. L’una viene fuori con l’altra, nell’attimo stesso dell’altra, perché non sono due ma uno. Una Madonna di Raffaello, si crede, avrebbe potuto immaginarla chiunque; ma Raffaello è stato Raffaello per l’abilità meccanica di averla fissata sulla tela. Niente di più falso.61

La svalutazione della tecnica artistica. E dunque, converrà analizzare la questione specifica della tecnica artistica perché questa appare uno dei punti di attacco privilegiati per mettere a nudo i vincoli e i meccanismi propri del sistema, e i loro esiti per noi oggi paradossali. Intanto, diciamo subito che la sostanziale espulsione della tecnica artistica dalla sfera propriamente estetica appare, in Croce, strettamente imputabile alla logica del suo Sistema. Una volta posta l’irriducibile distinzione fra attività teoretica e attività pratica (“dobbiamo condannare come erronea ogni teoria che aggreghi l’attività estetica a quella pratica, o le leggi della seconda introdu129

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ca nella prima”) ne discende, per Croce, l’assoluta necessità di scorporare dal “processo” intuitivo-espressivo ogni elemento, o fase, o “stadio”, di ordine pratico, tecnica inclusa. Infatti, come si legge nell’Estetica:

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Il processo completo della produzione estetica può essere simboleggiato in quattro stadî, che sono: a, impressioni; b, espressione o sintesi spirituale estetica; c, accompagnamento edonistico del bello (piacere estetico); d, traduzione del fatto estetico in fenomeni fisici (suoni, toni, movimenti, combinazioni di linee e colori, ecc.). Ognun vede che il punto essenziale, il solo che sia propriamente estetico e davvero reale, è quel b.62

Consideriamo questa proposizione alla luce del Sistema: lo stadio a (le impressioni) appartiene all’ambito puramente materiale e fisiologico, è passività e non attività (spirituale), e di fatto non è veramente reale, giacché, come si è detto, va negato che l’arte sia un “fatto fisico” posto che i “fatti fisici”, in generale, “non hanno realtà”, quando invece l’arte è per sua intrinseca natura “sommamente reale”. Ci troviamo, dunque, ancora extra moenia, nella terra desolata dell’informe, dell’indistinto, del non-esistente. In proposito, come al solito, Croce è nitidamente reciso: Fuori di esse [intuizioni o rappresentazioni], sono soltanto impressioni, sensazioni, sentimenti, impulsi, emozioni, o come altro si chiami ciò che è ancora di qua dello spirito, non assimilato all’uomo, postulato per comodo di esposizione, ma effettivamente inesistente, se l’esistere è anche esso un atto dello spirito.63

Con l’elaborazione espressiva delle impressioni (et lux facta est) siamo allo stadio b, quello propriamente estetico, sul quale non occorre soffermarsi (ai fini del nostro discorso) se non per dire che la tecnica, qui, vive solo nominalmente nel qualificarsi come “interna” (al momento intuitivo-espressivo, ovviamente). Nell’Aesthetica in nuce troviamo che: I trattati di tecnica non sono trattati di Estetica, né parti o sezioni di questi trattati. Ciò beninteso, sempre che i concetti siano pensati con rigore e le parole si adoperino con proprietà in relazione a 130

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quel rigore di concetti: ché non varrebbe certo la pena di stare a litigare sulla parola ‘tecnica’ quando è adoperata, invece, come sinonimo dello stesso lavoro artistico, nel senso di ‘tecnica interiore’, che è poi la formazione dell’intuizione-espressione; ovvero nel senso di ‘disciplina’, cioè del legame necessario con la tradizione storica, dalla quale nessuno può slegarsi sebbene nessuno vi resti semplicemente legato.64

Di fatto, dunque, la tecnica “interna” si identifica sostanzialmente con lo stesso atto di creazione dell’immagine artistica. Alla radice, com’è noto, contenuto e forma, pur distinguibili nell’arte, non possono dirsi artistici se presi separatamente, ma lo sono unicamente nella loro concreta e viva relazione-unità quale si attua nella sintesi a priori estetica di sentimento e immagine nell’intuizione. Non c’è spazio, dunque, né per una vera “processualità” produttiva, né di conseguenza per la tecnica, una volta postulata sia l’identificazione assoluta di intuizione ed espressione (“l’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime”) sia l’assenza di alternative, anche solo virtuali, del momento espressivo, giusto il “teorema” secondo cui: L’attività espressiva, appunto perché attività, non è capriccio, ma necessità spirituale; e non può risolvere il medesimo problema estetico se non in un solo modo, che sia buono.65

Quanto poi al punto c si chiarisce, nel Breviario, che l’arte, considerata nella sua propria natura, non ha nulla a che vedere con il piacere in quanto tale. Infatti, il cosiddetto accompagnamento edonistico, ossia il piacere, appunto, se riguardato nella prospettiva generale del sistema, risulta essere “comune all’attività estetica e ad ogni altra forma di attività spirituale”. Quanto al punto d, infine, sappiamo che esso concerne un’attività che viene definita di volta in volta come “traduzione”, “estrinsecazione”, “riproduzione”, “comunicazione”, ma resta sempre fatto volontario e dunque “pratico” che, come tale, “può seguire o no al fatto estetico”. La tecnica “esterna” sembrerebbe rigorosamente relegata nel momento “economico” del sistema e pertanto risulterebbe del tutto inessenziale rispetto all’opera d’arte: 131

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L’artista [...] è uomo intero e perciò anche uomo pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar disperdere il risultato del suo lavorio spirituale, e di rendere possibile e agevole, per sé e per gli altri, la riproduzione delle sue immagini; onde promuove atti pratici, che servono a quell’opera di riproduzione. Questi atti pratici sono guidati, come ogni atto pratico, da conoscenze, e perciò si dicono tecnici [...] distinguendosi dalla intuizione che è teorica [...]. Così bene le due forme di attività sono tra loro distinte che si può essere grande artista e cattivo tecnico [...]. Ma ciò che è impossibile è essere [...] grande artista che non si sappia esprimere.66

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Insomma, come si legge in un brano assai noto dell’Estetica: Quando abbiamo conquistato la parola interna, concepito netta e viva una figura o una statua, trovato un motivo musicale, l’espressione è nata ed è completa: non ha bisogno d’altro.67

È questo il punto conclusivo forse più paradossale, ai nostri occhi, e ciononostante del tutto coerente con il Sistema. Infatti, aggiunge Croce, Che noi poi apriamo e vogliamo aprir la bocca per parlare o la gola per cantare, e cioè diciamo a voce alta e a gola spiegata quanto abbiamo già sommessamente detto e cantato a noi stessi; o stendiamo e vogliamo stender le mani a toccare i tasti del pianoforte o a prendere i pennelli e lo scalpello, eseguendo, per così dire, in grande quei movimenti che già abbiamo eseguito in piccolo e rapidamente, e traduciamo in una materia dove ne restino tracce più o meno durature; – è questo un fatto sopraggiunto, che obbedisce a tutt’altre leggi che non il primo, e [...] fin da ora riconosciamo che esso è produzione di cose e fatto pratico o di volontà.68

Se l’opera d’arte non è né può essere, in termini crociani, un “fatto fisico”, non è né può essere frutto di attività pratica, ciò che, per metafora, si dice oggetto “fisico”, cosa, opera “esterna”, o come si voglia chiamare questo o quel quadro, statua, sinfonia, ecc., effettivamente non esiste in quanto tale, in quanto opera d’arte: “l’opera d’arte (l’opera estetica) è sempre interna; e quella che si chiama esterna non è più opera d’arte”. Era tale in quanto interna (estetica), ma una volta tradotta (in virtù di un atto volon132

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tario, pratico) in un oggetto “fisico”, è divenuta un mero supporto della memoria, uno “stimolo fisico della riproduzione”. Così, la logica del Sistema impone inderogabilmente a Croce di eliminare ogni “confusione” fra arte e tecnica, intesa quest’ultima – nei termini dell’Aesthetica in nuce – come del tutto “estrinseca” all’arte stessa e legata invece al concetto di una “comunicazione” concernente “il fissamento dell’intuizione-espressione in un oggetto che diremo materiale o fisico”, ovviamente “per metafora”. In conclusione, possiamo dire che il modello crociano ha comportato, di fatto, una serie di conseguenze per noi oggi inaccettabili: a) sul piano storiografico, la svalutazione di tutta la tradizione sia “preistorica” che “storica” di riflessione sull’arte non in linea con la prospettiva estetica neoidealistica; b) sul piano teorico, la negazione o la svalutazione delle “poetiche” (ossia: di tutta la riflessione sul bello e sull’arte degli artisti, critici, ecc.), della tecnica artistica, della classificazione delle arti, dei generi artistici, fra l’altro; c) sul piano critico, la grossolana incomprensione – oltre che di ogni forma di avanguardia artistica – anche di classici come la Divina Commedia o I Promessi sposi, ai quali Croce rimproverava l’eccessiva presenza di elementi non “puramente lirici” (come da definizione) ma storici, morali, religiosi, teologici (e in definitiva eteronomi, mentre, come si è detto, l’arte dovrebbe essere “assolutamente autonoma”). È vero che Croce, in seguito, corresse questi giudizi su Dante e Manzoni riconoscendo l’errore, ma è anche vero che questi errori erano la logica conseguenza degli assiomi su cui si regge coerentemente tutto il Sistema nel suo complesso, non a caso detto da noi “chiuso”. Clamorose è inoltre l’incomprensione crociana nei confronti della poesia moderna dai simbolisti (Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, fra tutti) a Valéry, ai decadenti e “futuristi” in blocco (non ultimo Pascoli). Insomma, Croce si trova di fronte un’alternativa “diabolica”: o tiene fede alla Logica del Sistema, e coerentemente “condanna”, 133

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ad esempio, Dante e Manzoni; oppure “assolve” Dante e Manzoni ma per far ciò deve “tradire” la Logica del Sistema. Ciò che è difficile, anche per un grande filosofo come lui, è “avere la botte piena e la moglie ubriaca” senza entrare in aperta contraddizione con i suoi stessi principi. E questo ragionamento si potrebbe ripetere per molti altri temi dell’estetica crociana, a partire dalla già citata questione della tecnica artistica. Se c’è una morale generale (sul piano teorico-metodologico) in tutto questo è che i “sistemi chiusi” sono al tempo stesso “fortissimi” e “fragilissimi”: sono saldi, anzi tetragoni, fino a che riescono a preservare rigorosamente la loro coerenza interna, come cittadelle ben fortificate, di fronte agli “assalti” del ‘nuovo’, del ‘diverso’, del ‘molteplice’, nel ‘divenire’ imprevedibile che caratterizza la Lebenswelt (il “mondo della vita”); diventano invece fragili nel momento in cui la pressione di questo ‘divenire’ (quale che sia la forma che esso assume) non è più contenibile né per via di assimilazione nel Sistema (mediante inglobamento più o meno distorsivo dei fenomeni originali) né per via di espulsione dal Sistema (mediante negazione della qualità intrinseca o della stessa esistenza dei fenomeni originali). NOTE 1 Cfr. L. ANCESCHI, Le istituzioni della poesia, Milano Bompiani, 1968, p. 20 e sgg. 2 Cit. in L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Milano, Einaudi, 1989, p. 96. 3 T.S. ELIOT, Il bosco sacro. Saggi di poesia e crtica, a cura di L. Anceschi, Milano, Mursia, 1971, pp. 97-98. 4 Ibid., p. 135. 5 G. BÀRBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina-Firenze 1966, p. 24 e sgg. 6 Ibid., p. 34. 7 Cit. da G. NAVA nell’Introduzione all’ed. crit. di Myricae, Firenze 1974, vol. I, p. LVI. 8 M. PASCOLI, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, a cura di A. Vicinelli, Milano 1961, pp. 302-3. 9 Cfr. U. OJETTI, Giovanni Pascoli, in Alla scoperta dei letterati, Milano 1895, pp. 139-41.

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M. PASCOLI, Lungo la vita, cit., p. 350 (qui e sopra cors. miei). La lettera si trova in “Pegaso”, IV, 1 (genn. 1932), p. 4, cit. da E. SANGUINETI, Attraverso i Poemetti pascoliani (1962), in Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 8. 12 M. PERUGI, Nota biografica, in G. PASCOLI, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi Ed., p. XXXIX. 13 L. ANCESCHI, Congetture sulla collocazione storiografica del Pascoli in relazione alla poesia del Novecento, in Nuovi studi pascoliani, Bolzano-Cesena 1963, p. 17 e nota. 14 F. FELCINI, Sopra alcune particolari questioni dell’esegesi pascoliana, in Bibliografia della critica pascoliana (1879-1979), Ravenna, Longo, 1982, pp. 16, 28-9, 40. 15 H. SPENCER, Filosofia dello stile ed altri scritti sull’origine e la funzione delle arti, a cura di D. Drudi, Firenze, Alinea, 1981, p. 34. 16 Ibid., p. 30 e sgg. 17 Ibid., p. 31. 18 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, conferenza tenuta a S. Mauro nel 1955 e poi pubblicata in Studi pascoliani, Faenza, Lega, 1958, ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 242. 19 G. CONTINI, Il linguaggio di Pascoli, cit., pp. 240-1. La “determinatezza” pascoliana non è, secondo Contini, precisione vera, ma illusiva, è “insinuazione linguistica”, “evasione espressionistica”. 20 L. RUSSO, Politica e poetica nel Pascoli, in Il tramonto del letterato, Bari, Laterza, 1960). 21 L. ANCESCHI, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Milano, Marzorati, 1961, p. 87. 22 G. PASCOLI, L’era nuova, in Prose, con una premessa di Augusto Vicinelli, vol. I (Pensieri di varia umanità), Milano, Mondadori, 1946, pp. 112-5 (cors. mio). 23 Ibid., p. 118 (cors. mio). 24 Ibid., p. 120 (cors. mio). 25 Cfr. ibid., p. 121. 26 G. PASCOLI, Per un poeta morto [Amilcare Finali], “Fanfulla della domenica”, anno XIV, n. 45, 6 novembre 1892. 27 “A studiar bene i classici nostri – è sempre Pascoli a parlare –, si vede che noi abbiamo delle parole che ora sono credute dialettali, e invece sono state e sono vivissime ed italianissime. E questo avviene massimamente nei nomi che significano cose campestri, piante, animali, strumenti, paesaggi. [...] La campagna è stata per troppo tempo dai nostri poeti descritta convenzionalmente sopra un tipo fatto; per troppo tempo gli uccelli sono stati sempre rondini ed usignoli, e per troppo tempo i fiori dei mazzolini sono stati rose e viole” (U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, cit., p. 149, cors. mio). 28 G. PASCOLI, Il sabato, in Prose, vol. I, cit., p. 59. 10

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Ibid., p. 60 (cors. mio). Ibid., p. 62 (cors. mio). 31 G. PASCOLI, Il Fanciullino, in Prose, vol. I, cit., pp. 12-3 (cors. miei). 32 Ibid., pp. 42-3. 33 Ibid., p. 39, n. 1 (1903), cors. mio. 34 Cfr. B. GEIGER, Giovanni Pascoli der tragische Georgiker, in Nuovi studi pascoliani, Bolzano-Cesena 1963, pp. 89-95. 35 Cfr. E. SANGUINETI, Attraverso i Poemetti pascoliani, cit., pp. 30-6; dello stesso autore vedi anche Introduzione a Poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1971, p. 35. 36 G. GETTO, Su Digitale purpurea, in Carducci e Pascoli, Bologna, 1957, p. 152. 37 Casa mia viene definito come il “componimento che noi consideriamo il migliore di tutta la produzione del poeta” (cfr. R. VIOLA, Giovanni Pascoli, Prefazione di F. Flora, Padova, Liviana, 1954). 38 Non a caso qui, come in Digitale purpurea, compaiono nomi di piante e animali mai o quasi mai usati a testimonianza di una forte singolarità dei testi. 39 Cfr. M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1985, p. 101 e n. 40 Si tratta del commento di Pascoli al canto XXXIII del Purgatorio, 1904 (cfr. Conferenze e studi danteschi) nonché di un passaggio della prefazione al Mascelli riportato da M. Perugi. 41 R. SERRA, Giovanni Pascoli, in Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Vol. I, Firenze, Le Monnier, 1938, p. 11 (cors. mio). 42 G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, cit., p. 244 (cors. miei). 43 Cit. in L. ANCESCHI, Che cosa è la poesia?, Bologna, Clueb, 1998, p. 44. 44 In R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli 1974, pp. 181-218. 45 Ovviamente il termine qui non viene usato in senso anceschiano. 46 Ch. BATTEUX, Les Beaux Arts réduits à un meme principe, Paris, Durand, 17472, p. 179. 47 D. DIDEROT, Lettera sui sordi e muti, a cura di F. Bollino, Modena, Mucchi, 1984, p. 32. 48 R. JAKOBSON, Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia (1956), in Saggi di linguistica generale, cit., pp. 41-42. 49 B. CROCE, Breviario di estetica, Bari, Laterza, 19426, p. 9. 50 Ibid., pp. 16-17. 51 Ibid., p. 21. 52 Ibid., p. 23. 53 B. CROCE, Estetica, Bari, Laterza, 195810, p. 3. 54 Livello quantitativo non qualitativo, giacché l’artista si distingue dall’uomo comune solo per la maggiore ricchezza e complessità delle sue intuizioniespressioni, non per la loro intrinseca qualità. Infatti ciscuno di noi, in quanto 29

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Definizioni dell’arte

Soggetto, non può non avere intuizioni-espressioni, che sono il primo gradino della conoscenza. 55 Croce aggiunse poi anche la Storia in questo secondo momento conoscitivo. 56 In questa categoria Croce ricomprese, abbastanza scandalosamente, anche tutte le Scienze. 57 B. CROCE, Breviario di estetica, cit., p. 74. 58 Ibid., p. 44. 59 B. CROCE, Estetica, cit., pp. 5-6. 60 Ibid., pp. 6, 11. 61 Ibid., pp. 11-12. 62 Ibid., p. 105. 63 Ibid., p. 14. 64 B. CROCE, Aesthetica in nuce (1928), Milano, Adelphi, 1990, p. 215. 65 B. CROCE, Estetica, cit., p. 131. 66 B. CROCE, Breviario di estetica, cit., p. 50. 67 B. CROCE, Estetica, cit., p. 56. 68 Ibid., pp. 56-57.

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V. Modelli di metodo

§ 1. La posizione neofenomenologica di Luciano Anceschi Torniamo ora, dopo questi sondaggi sul campo, alla nostra domanda iniziale: “che cosa è l’arte?” Si tratta, a questo punto, di porre una questione di metodo. Si tratta cioè di impostare in termini possibilmente espliciti, chiari e corretti il seguente problema: “come si arriva a definire un determinato oggetto teorico?” (quale che esso sia: diciamo, un generico ‘x’). Il tema della “definizione”, di per sé, è un tema filosofico generale già affrontato fin dai tempi di Aristotele. Ma, a voler andare fino in fondo, questo stesso tema va, a sua volta, inquadrato in un ambito problematico ancora più comprensivo e generale. Insomma, per rispondere agli interrogativi che ci siamo posti sopra dobbiamo adottare, certo, un’adeguata metodologia, ma questa, a sua volta, è collegata al modo con cui concepiamo l’estetica e, ancor meglio e in ultima analisi, dal modo con cui concepiamo la filosofia “in generale”. Di domanda in domanda, dovremmo quindi risalire, come si è detto all’inizio del nostro percorso, a interrogativi fondamentali, 139

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Modelli di metodo

del tipo: che cosa intendiamo noi oggi per filosofia? che scelte occorre compiere a monte prima di affrontare le questioni specifiche che ci interessano? Le risposte alle nostre domande sull’arte, l’estetica, ecc., dipendono dunque, come già sappiamo, dal modo con cui affrontiamo il problema filosofico nella sua globalità e da come ci collochiamo nei riguardi degli ulteriori interrogativi che abbiamo accumulato. Vediamo, a mo’ d’esempio, due casi antitetici. a) In una prospettiva filosofica di tipo essenzialistico (ovvero in una prospettiva che considera indispensabile ricercare l’essenza, il ciò che è, di ciascun “oggetto” di conoscenza) sembrerà naturale proporre una definizione assoluta dell’arte (cioè: una definizione a priori rispetto all’esperienza e che abbia caratteristiche di universalità, eternità, immutabilità). Un filosofo neoidealista come Croce ci dirà che la vera filosofia è una sola: la Filosofia dello Spirito. E farà sì, ancora, che tale Filosofia dello Spirito (tutto è Spirito, ciò che non è Spirito non è) si incarni, si strutturi necessariamente in forma di Sistema filosofico totalizzante (dogmaticamente chiuso e in-flessibile: tutto è nel Sistema, nulla fuori del Sistema). E infine e di conseguenza, ci dirà che la vera e univoca definizione dell’arte, ossia il suo concetto puro, non potrà che essere rigidamente integrato nel Sistema stesso e da esso omologato. Dunque, alla domanda: “che cosa è l’arte?”, Croce risponderà, come si è visto, con una definizione essenzialistica: “l’arte è intuizione-espressione lirica del sentimento”. b) Al contrario, in una prospettiva di tipo fenomenologico (il riferimento va alla filiera Husserl, Banfi, Anceschi) sembrerà invece naturale limitarsi a prendere in considerazione i fenomeni (dal greco fainòmenon: ciò che “appare”) senza pretendere di arrivare a definire le essenze (ciò che “è”). Dunque quel che conta non è – sostiene in particolare Anceschi – proporre una (ulteriore) definizione essenzialistica dell’arte. Infatti, ogni “nuova” definizione di questo tipo entra (di necessità) in naturale antagonismo con tutte le altre elaborate nel corso dei secoli (ciascuna definizione, proprio perché essenzialistica, pretende di essere l’unica vera e nel 140

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contempo nega validità alle definizioni “concorrenti”). Ciò che conta, invece, è adottare un corretto metodo critico che consenta di evitare proprio i rischi dell’essenzialismo riduttivo, delle metafisiche più o meno mascherate, dei sistemi rigidi e astratti, in una parola di tutti i possibili dogmatismi. Mediante l’esercizio fenomenologico dell’epoché, della sospensione del giudizio, occorre dunque, per così dire liberare le cose, gli oggetti della nostra conoscenza, i “fenomeni”, da tutte queste incrostazioni, occorre partire dall’esperienza, non dai principi-concetti a priori, occorre ricostruire una rete di relazioni tra fenomeno e fenomeno che consenta di restituire a ciascuno di essi il loro concreto e più autentico “significato” e nel contempo consenta di ipotizzare un “senso” complessivo, sempre rivedibile, dell’intero sistema (sistematica “aperta”, “flessibile”, non rigida e astratta, non fondata su a priori concettuali, ma sull’esperienza). Ritorniamo alle nostre domande iniziali (“che cosa è la poesia, l’arte?”, ecc.). Possiamo capire, ora, perché Anceschi, da un punto di vista neofenomenologico si interroghi sulle caratteristiche, sulla struttura stessa e sull’ambito di validità delle domande in questione: infatti, sempre per Anceschi, la domanda posta nella forma – che cosa è x? – non è neutra, ma implica necessariamente risposte (ossia: definizioni) di tipo essenzialistico e dogmatico (x “è” ...). Al limite, la forma perfetta della definizione è quella propria dell’equazione tautologica A = A (l’arte è l’arte). La neofenomenologia critica, come si diceva, rinuncia consapevolmente a definire una volta per tutte e a priori l’essenza, presunta immutabile e universale, che starebbe dietro al “fenomeno” (= ciò che appare sensibilmente). Intanto, dobbiamo rilevare che, come si è in parte già visto, le risposte essenzialistiche alla domanda “che cosa è l’arte?” sono varie, potenzialmente infinite, spesso contraddittorie. Taluno ha detto che l’arte è sentimento, è intuizione talaltro che è costruzione intelligente, c’è chi ha affermato che la sua “essenza” consiste nell’imitazione, altri, invece, nell’espressione, ma pure nell’impressione; c’è chi ha definito l’arte come spontaneità o creatività immediata e chi l’ha vista come artificio o gioco ingegnoso; chi come sor141

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presa, meraviglia, stupore, emozione, e chi come conoscenza, o come lucida razionalità; per gli uni l’arte è fine a se stessa, dunque è assolutamente autonoma, per gli altri è impegno religioso, morale, sociale, politico, dunque è necessariamente eteronoma;1 e così via. La “neofenomenologia critica”, di fronte ad una siffatta molteplicità di risposte-definizioni (storicamente date o potenziali), non aggiunge una sua ulteriore definizione ritenuta più vera delle altre, ma si colloca su un piano propriamente metodologico, metaestetico. La domanda fondamentale che si pone non è: – che cosa è l’arte? – (abbiamo visto sopra i limiti strutturali di una simile impostazione) bensì: – come comprendere in una “sistematica aperta” la molteplicità anche contraddittoria delle definizioni dell’arte senza escluderne a priori nessuna? – come ricostituire il senso di tali definizioni sottraendole alla loro pretesa essenzialistica? e ancora: – come operano, come “funzionano” nel loro specifico contesto storico e culturale le varie definizioni dell’arte? Il modello anceschiano, messo a punto in una serie di elaborazioni e rielaborazioni successive nel corso di una ricerca durata più di mezzo secolo (a partire dagli anni Trenta), si presenta dunque con caratteristiche per molti versi antitetiche rispetto al modello crociano. Laddove quest’ultimo si configura in forma essenzialistica e di Sistema chiuso, quello predilige un impianto schiettamente metodologico e critico e si propone come una flessibile sistematica aperta. Questa diversa impostazione nasce, come abbiamo visto, da una radicale opzione di fondo: – Croce parte da principi a priori (spiritualismo, soggettivismo assoluto, immanentismo, ecc.) e da questi “deduce” il Sistema nella sua totalità, nelle sue strutture portanti (inflessibile distinzione di attività teoretica e attività pratica), nei suoi quattro distinti “momenti” spirituali (Estetico, Logico, Economico, Morale): ne deriva che la Logica normativa del Sistema (ossia: le sue Leggi, le sue Definizioni, i suoi Criteri valutativi) “si applica” – calando, per 142

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così dire, dall’alto – al mondo fenomenico, al mondo dell’esperienza concreta dell’arte e della riflessione sull’arte. – Anceschi, al contrario, parte proprio da quest’ultimo livello, quello dell’esperienza appunto, ossia dal mondo “vivente” dei fenomeni, per tentare di “ricostruire” una trama di relazioni tra fenomeno e fenomeno, tra struttura e struttura, fra piano e piano della riflessione: una ricostruzione, dunque, il cui “senso” ultimo sarà sempre ipotetico, rivedibile e non potrà che tradursi, in definitiva, in un’estetica sistematica aperta. Dunque c’è un rovesciamento copernicano rispetto al modello di Croce. Non più il primato dell’A-priori, dell’Essenza, della Verità “univoca e assoluta”, del Concetto “puro”, della Definizione “universale”, del Sistema “chiuso”, bensì il primato di una vivente esperienza, la ricerca della relazione, il privilegiamento del mondo dei fenomeni, la comprensione delle molte verità parziali, l’attenzione al molteplice, al diverso, al nuovo. Il sistema estetico, flessibile e modificabile a seguito del mutare degli elementi-base proventi dal mondo dell’esperienza, “si” costruisce, per così dire, dal basso, non “si applica” all’esperienza, ma anzi da essa “trae origine” e su essa “si fonda”. Anceschi, in sostanza, opera una critica serrata di ogni dogmatismo, sia sul piano della riflessione teorica (estetica filosofica), che sul piano della riflessione prammatica (cioè di quella riflessione, la poetica, che nasce nel fare arte ed è “orientata” al fare arte). Ma pone anche, sempre Anceschi, una distinzione fondamentale: a) nel primo caso, ossia nel caso della riflessione teorica (estetiche filosofiche) il dogmatismo è il frutto illegittimo della distorsione di quello che dovrebbe essere il fine principale di tale riflessione: la com-prensione dei fenomeni, ossia, alla lettera, il “prenderli insieme”, senza scartarne a priori nessuno in nome di una presunta Assoluta Verità-Definizione; b) nel secondo caso, ossia nel caso della riflessione prammatica (poetiche) il dogmatismo è il frutto legittimo e inevitabile di un’operazione di scelta che l’artista, “facendo” e “riflettendo” sul suo fare, non può non compiere. Chi “fa arte”, chi pro143

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duce un’opera, “fa” e “pensa” al tempo stesso, il suo pensiero è volto al fare, è “prammatico”, nasce nel “laboratorio”, è finalizzato a un concreto risultato artistico. Tutto ciò comporta di necessità un continuo “scegliere” e, di conseguenza, una continua assolutizzazione della scelta fatta e una continua svalutazione di tutte le opzioni scartate (e ciò si traduce di norma, come si diceva, in un legittimo dogmatismo). Naturalmente anche le idee-definizioni degli artisti vanno comunque sempre considerate criticamente sul piano del metodo: ad esempio, noi possiamo sì “comprendere” la “scelta” di Pascoli per una idea di poesia rintracciabile in scritti quali Il Sabato e Il Fanciullino (la sua poetica esplicita); riconosciamo, inoltre, che il dogmatismo strutturale di questa scelta è inevitabile e anzi necessario; ma, certo, non possiamo rinunciare anche in questo caso a esercitare l’epoché fenomenologica, perché anche in questo caso siamo in presenza di una “assolutizzazione di un dato parziale”, ossia della “pretesa” che tale scelta abbia una portata assoluta e universale. Al contrario, tentiamo di “recuperare” proprio la parziale validità e la determinatezza storico-culturale della scelta di Pascoli ponendola in relazione con quella di altri autori dello stesso o di diversi periodi e orientamenti. Se le poetiche si muovono, dunque, in un “orizzonte di scelta”, l’estetica dovrebbe disporsi in un “orizzonte di comprensione”: questo è almeno l’intento dell’estetica fenomenologica delineata da Anceschi. In particolare, egli ha incentrato molta parte delle sue ricerche sulla fenomenologia e sulla storia delle poetiche (a partire dal suo primo volume Autonomia ed eteronomia dell’arte pubblicato all’età di venticinque anni, nel 1936). Se per poetica intendiamo la riflessione (prammatica) degli artisti sulla loro arte, sul loro fare arte (ed eventualmente sull’arte in generale), allora possiamo concludere che tale riflessione può presentarsi in due forme: a) in forma indiretta (poetica implicita) mediante l’opera d’arte stessa che in qualche modo, per quanto talvolta difficile e oscuro, “dice” sempre il pensiero dell’autore sull’arte; 144

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b) in forma diretta (poetica esplicita) attraverso scritti, note, saggi, trattatelli, articoli, ecc., nei quali l’artista ha depositato la sua particolare concezione dell’arte (della “sua” arte, per lo più). In ogni caso, Anceschi suggerisce di classificare (è una classificazione ovviamente ipotetica e di massima) le poetiche in tre categorie a seconda del grado di generalizzazione e complessità della riflessione prammatica stessa che contraddistingue ciascuna di esse: – poetiche precettistiche (costituite da regole particolari e minute non collegate e coordinate fra loro da un filo conduttore, da un principio comune); – poetiche normative (nelle quali invece si può riscontrare una norma, un principio generalissimo, che subordina a sé e stringe in coerente “sistema”, tutte le regole, i precetti particolari); – poetiche idealizzanti (dove la riflessione degli artisti tende a focalizzarsi su temi ‘quasi-filosofici’ quali il ruolo dell’artista-uomo nel mondo, la funzione dell’arte, ecc.) Questi livelli, per quanto l’ultimo di essi “tenda” a sfociare nella filosofia, sono comunque tutti e tre attraversati da una intenzione prammatica, e dunque si collocano pur sempre in un “orizzonte di scelta”, su un piano di riflessione ben distinto rispetto a quello dell’estetica. Con il suo metodo e con la sua aperta sistematica Anceschi, in definitiva, ha messo a punto una proposta che consente di “recuperare” fruttuosamente proprio quel tipo di riflessione cosiddetta “empirica” (le poetiche) e quelle strutture della riflessione cosiddette “estrinseche” (le istituzioni della poesia, i generi letterari, la tecnica artistica, ecc.) che da Croce stesso erano state radicalmente svalutate ed espulse dall’Estetica propriamente detta.

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§ 2. Glossarietto neofenomenologico2 Cose (“Ritornare alle cose”) Contro ogni astratta riflessione, in particolare estetica, che dimentichi il contatto con il mondo della vita, con l’esperienza del mondo vivente dell’arte, Anceschi formula questa raccomandazione, “ritornare alle cose”, appunto, che riecheggia in chiave come sempre molto personale una nota formula husserliana. Si può, oggi, pensare l’arte, si può cioè formulare una teoria estetica, senza conoscere l’arte, senza averne una diretta esperienza, senza penetrare nel laboratorio segreto dell’artista, senza comprenderne la poetica, senza occuparsi della riflessione e del giudizio dei critici? Per Anceschi, evidentemente, la risposta è negativa. “Per quanto riguarda la letteratura e le arti – egli scrive – le cose che troviamo davanti a noi dopo l’epoché sono le opere, gli scritti di poetica (trattati), zibaldoni, manifesti, epistolari ecc., la critica... e tutti i tentacoli che da questo campo si estendono verso altro”. Nel nostro contesto – aggiunge altrove – “anche le idee sono cose”. Definizione (dell’arte) Le definizioni essenzialistiche dell’arte pretendono di dare una risposta univoca e definitiva alla domanda “che cosa è l’arte?” (ad esempio: l’arte è espressione, o imitazione, o creazione, o meraviglia, o costruzione ingegnosa, o sentimento lirico...). Tali risposte si presentano dunque con i connotati dell’univocità, necessarietà, esclusività, eternità, assolutezza, dogmaticità. Esse risultano potenzialmente infinite, ma ciascuna esclude le altre e pretende di essere l’Unica e Vera Definizione Universale dell’Arte. Il fenomenologo, mediante l’esercizio dell’epoché, “mette fra parentesi” questa pretesa di universalità e riconosce la parziale validità storico-culturale di ciascuna definizione data. Domanda (la “domanda sulla domanda”) Ogni definizione essenzialistica pretende di identificare una volta per tutte il quid, l’essenza immutabile e universale di un determinato fenomeno. Pretende, insomma di dare una risposta 146

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univoca ed esclusiva alla domanda “che cos’è x?”. La domanda sulla domanda vuol essere appunto un’analisi critica della “struttura” di una domanda (che cosa è l’arte?) che sembra richiedere solo un certo tipo di risposte, quelle essenzialistiche appunto. Epoché Il termine greco epoché (sospensione del giudizio) fu introdotto dagli scettici (non accettare, né rifiutare, non affermare, né negare: questo è l’unico atteggiamento se si vuol raggiungere l’imperturbabilità). In seguito, è stato ripreso da Husserl (non nel senso di ‘negazione del mondo’ né di ‘revoca in dubbio del suo esserci’, bensì nel senso di ‘messa fra parentesi’ di ogni giudizio sull’esistente spazio-temporale). Per Anceschi epoché è, appunto, sospensione del giudizio. Vediamo in che senso. Si prenda, ad esempio, il campo della critica: riscontriamo, a una indagine fenomenologica che sussistono varie e contrapposte forme-definizioni di critica e varie possibili figure di critico (critico-poeta, critico-scrittore, critico-scienziato, critico-filosofo...). Ecco: l’epoché “non riguarda la realtà che le singole forme di critica rappresentano; esse ci sono; esse restano dinnanzi a noi nella loro enigmatica e viva presenza. L’epoché riguarda, invece, – prosegue Anceschi – il significato, e, per così dire, l’estensione del significato che esse tendono a dare a se stesse, dico, la pretesa assolutistica per cui ogni forma tende a chiudersi, a irrigidirsi, a risolverei in sé il tutto dell’esperienza specifica”. Ecco, sempre secondo Anceschi, alcune “precauzioni” che sono momenti interni di ciò che diciamo epoché, o sospensione del giudizio: – “Mettere fra parentesi tutti i significati che si presentino come assoluti, non nel loro significato, ma nella loro pretesa di assolutezza” [la pretesa di tutti i modelli, di tutte le definizioni, di presentarsi come unici, definitivi, assoluti]. – “Tentare del campo studiato analisi complete; non accontentarsi di nessun modo di vedere particolare” [insomma, privilegiare un approccio interdisciplinare al campo di indagine; letterario, filosofico, scientifico, critico, storiografico...]. 147

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– “Tenersi sempre alla cosa, ritornare alla cosa, [...]; tenere sempre aperto il rapporto fra il ricercatore e il campo; considerare anche ciò che si dice ‘essenza’ come una delle opinioni possibili sul campo” [il campo di ricerca può essere una nozione (ad esempio: la nozione di poetica), o un’idea estetica (l’idea di belle arti), o un ambito problematico ancora più ampio, o per converso più ristretto]. Altrove troviamo questa illuminante suggestione: “L’ironia di Socrate non è una sorta di precoce epoché?” Esperienza Nei sistemi “chiusi” (spesso normativi, dogmatici, assolutizzanti) gli assiomi, i principi, le definizioni, in ultima analisi la Verità del Sistema viene applicata ai fenomeni, calata sull’esperienza, e ne diventa il metro di giudizio e il parametro di validità. Prima vengono i principi, poi l’esperienza. La fenomenologia rovescia questa direzione: il mondo vivente dei fenomeni (legati all’arte, nel nostro caso) viene assunto come primum. Dunque la neofenomenologia critica afferma il primato dell’esperienza sui principi astratti e l’esperienza stessa viene vista banfianamente come l’attivo incontro fra soggetto e oggetto, fra io e mondo. Ribadisce Anceschi: “Sia che si abbia a che fare, come nel nostro caso, con idee piuttosto sfuggenti come storia e storiografia, riflessione estetica e poetica, gusto, arte, poesia, sia che si abbia a che fare con più corpose materie, solo la nozione di ‘esperienza’, anzi un certo modo di servirci della nozione di ‘esperienza’, ha qui tutti i titoli per consentire al discorso i suoi convenienti sviluppi. Parliamo ovviamente di esperienza in un senso che si colloca al di là di quelle accezioni che conducono dialetticamente alla dichiarazione di una sua insignificanza o che implicano una sorta di rigidità del dato; anzi come continua, mobile, aperta interazione tra ciò ‘ciò che diciamo io’ e ‘ciò che diciamo mondo’”. Essenza In Husserl l’essenza va intesa come essenza sostanziale. In termini aristotelici l’essenza sostanziale non è data da ogni risposta148

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definizione alla domanda che cosa? che si limiti semplicemente a definire una qualità dell’oggetto, ma solo da quella risposta-definizione che “enuncia ciò che la cosa non può non essere ed è il ‘perché’ della cosa stessa”. Dunque: una definizione universale, necessaria, eterna della sostanza della cosa. In questo accezione l’essenza e le filosofie essenzialistiche sono radicalmente criticate (messe fra parentesi) da Anceschi. Infatti, la definizione essenzialistica di una cosa (ad esempio: che cos’è la poesia?) va intesa come semplice assolutizzazione (pretesa di valere “per sempre” e “in tutti i casi”) di un dato parziale (cioè di un dato storicamente e culturalmente motivato e quindi “finito”). In un certo senso, afferma Anceschi parafrasando Nietzsche, “anche ciò che diciamo ‘essenza’ è un’opinione”. Estetica (filosofica) Scrive Banfi: “Essa non ha da imporre ideali, da giustificare norme, da fissare criteri di valutazione. Ideali, norme, criteri, nella loro concreta funzione, sono piuttosto oggetti della sua analisi, che mira a porre in luce i rapporti tutti determinanti la struttura del mondo estetico nella varietà dei suoi piani e dei suoi contatti, sino a risalire, per un processo di sempre crescente integrazione, alla legge che esprime la continuità dinamica di tale struttura, l’unità vivente dei rapporti tutti che determinano la realtà e il senso dei contenuti del mondo estetico. Lasciar valere l’esperienza estetica in tutta la sua varietà, complessità, universalità, senza limitazione alcuna, è dunque la prima condizione di un’estetica filosofica”. Interdisciplinarità A proposito della storia delle idee estetiche, Anceschi scrive: “Non può essere trascurato [...] un altro campo di relazioni, un campo sempre più frequentato e ricco di scoperte, tutto il campo delle indagini particolari delle singole discipline e quello dei rapporti interdisciplinari (linguistica, psicologia, sociologia, tecnologia, e programmazione, urbanistica...). Se ognuno di questi campi abbia raggiunto una propria autonomia in un organico si149

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stema di relazioni è cosa da vedere caso per caso. Le ricerche sulle estetiche e le poetiche sono giunte a un livello di riflessione critica molto avanzato; altri campi, pur dando contributi, si avviano a trovare il loro senso, la propria organizzazione. Una storiografia generale dell’estetica dell’arte che non voglia essere semplificante, e tale da impoverire se stessa e le idee cui si riferisce, tiene conto di tutto ciò...”. Istituzioni (della poesia e della letteratura, dell’arte) Così Anceschi: “Le istituzioni, si suppone, saranno quelle norme, quel complesso organico di norme che riguardano il fare letterario [e artistico in genere] nelle sue varie forme e che han per scopo, comunque sia inteso, un buon risultato [artistico]; che tendono a porsi come norme intersoggettive, costituendo così un aspetto sociale del fenomeno letterario”. C’è dunque differenza fra istituzione e poetica, anche se entrambe sono ‘intenzionate’ al fare artistico: la poetica è l’insieme delle riflessioni sull’arte proprie di un artista, l’istituzione invece è una particolare norma (o complesso di norme) comune a più artisti, ad una corrente, ad un movimento, ad una temperie culturale, ad una idea dell’arte che può essere addirittura dominante per vari secoli (ad esempio possiamo concepire in questo modo l’idea di ‘imitazione’). Naturalmente sussiste un rapporto dialettico fra poetica e istituzione: da un lato ciascun artista che si riconosce in essa, e la ‘adotta’, la piega anche alle esigenze della propria originale poetica (insomma la modifica), e contestualmente queste modifiche arricchiscono e dinamizzano l’istituzione che nel tempo, interferendo nelle poetiche di vari artisti, si evolve, si sviluppa, ovvero si isterilisce e, per così dire, ‘muore’. Dunque: ogni istituzione ha una sua ‘vita’ storica, non è perenne, nasce all’interno dell’operatività artistica (ma in seguito può cristallizzarsi fino ad apparire come imposta dal di fuori rispetto alla sua prima invenzione, diviene cioè convenzione, manierismo) e infine costistuisce uno dei tramiti che consentono di parlare di ‘socialità dell’arte’ cioè di una condivisione di norme, ideali, scelte di gusto fra più artisti. 150

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Metodo Possiamo dire che ogni voce di questo glossarietto è una figura del metodo che Anceschi propone (in fondo, per Anceschi, il metodo è quasi tutto: l’estetica si traduce di fatto in metodologia). Un metodo con la m minuscola, giacché si vuole evitare il rischio di una sua stessa assolutizzazione. Non a caso egli cita spesso un passo del Discorso sul metodo (1637) di Cartesio che suona così: “Il mio intento non è di insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma soltanto di far vedere in che modo mi sono sforzato di condurre la mia...”. Certo, si potrebbe parlare di tre fasi generalissime che in ogni ricerca condotta secondo il metodo neofenomenologico si vengono a determinare. Seguiamo lo stesso Anceschi, nella seconda Introduzione ad Autonomia ed eteronomia dell’arte: “Il metodo spontaneamente si precisò nel corso della ricerca; e però fu inevitabile all’inizio un atto di decisione teorica circa la intenzione generale e fondamentale della ricerca stessa. Questa decisione non fu un atto immediato e immotivato; essa si articolò in vari momenti, e mosse dalla tesi del problema (cioè dal rilievo della situazione del problema) alla sospensione del giudizio (rispetto alle soluzioni convenute della situazione) e alla ricostituzione del problema (cioè all’istituzione di quelle strutture del problema che consentissero di risignificare la ricchezza, la varietà della esperienza, di ritornare all’esperienza comprendendola senza costringerla)”. In ogni caso, l’accento è posto, in positivo, su alcune idee-guida e su alcuni strumenti critico-metodologici (flessibilità, ipoteticità, integrazione del molteplice, relazionismo, comprensione, complessità, inclusione, plurivocità, apertura, interdisciplinarietà, contestualità, sistematicità; e poi: contatto con le “cose”, epoché, primato dell’esperienza, polarità dialettica, rivalutazione della riflessione prammatica e critica e delle istituzioni e dei generi e delle tecniche, rilievi di struttura e di situazione, ecc.). Per contro, viene posto l’accento in negativo sulle caratteristiche proprie di ogni sistema metafisico, di ogni essenzialismo dogmatico (chiusura, assolutizzazione, univocità, fissità, rigidezza, ‘spirito di geometria’, identità, definitorietà, universalità, esclusione). 151

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Neofenomenologia (la “nuova fenomenologia critica”) Seguiamo Anceschi: “Fenomenologia, come rinunzia a tutti i fantasmi dei procedimenti aprioristici di cui l’idealismo (nelle sue varie forme, anche rovesciate) è l’esempio più cospicuo nella modernità, e come, invece, continuo, fertile e critico ‘ritorno alle cose’; nuova, perché si stacca nettamente dalle origini husserliane per una critica resoluta ai residui metafisici e dogmatici che si trovano (anche celati) nel grande lavoro di Husserl; critica, perché è preoccupata della definizione dei limiti e delle possibilità di un sapere che rifiuta ogni istituzionalizzazione e ogni irrigidimento metafisico nella ricerca delle relazioni e delle strutture in cui le cose vivono e si significano”. Altra versione: “Essa [la nuova fenomenologia critica] indica una scuola che ha avuto qui a Bologna il suo centro di ricerca e di organizzazione. Fenomenologia; e cioè richiamo continuo alle cose, ai fenomeni, a ciò che si manifesta [...]; essa indica anche una tradizione di pensiero in cui ci collochiamo, una lettura di Husserl fatta attraverso e con l’aiuto di Banfi, nuova (perché il gesto si richiama a questa grande tradizione, ma con uno sguardo nuovo, liberato dagli ultimi residui metafisici), e critica, perché preoccupata di definire i limiti delle proprie possibilità euristiche, dei significati, e delle leggi che propone...”. Ancora: “Diciamo fenomenologia della poesia [ad esempio] il rilievo di tutte le relazioni che riguardano la poesia” [relazioni cioè fra i vari livelli di riflessione sulla poesia e fra le varie definizioni della poesia]. Infine: “In realtà nella sua pura esigenza teoretica la filosofia non può essere che mera fenomenologia; e così, ben lontana dall’imporre [all’arte, alla critica, ecc.] uno schema astratto, normativo, o concettuale, un sistema che significa le strutture [dell’arte, della critica, ecc.], essa vuole operare nel senso di una sistematicità aperta, è metodo di comprensione, e non di riduzione, implica una piena autonomia, è sistematicità che si significa attraverso le strutture [dell’arte, della critica, ecc.]”.

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Orizzonte (di comprensione o di scelta) L’estetica neofenomenologica non propone (né tantomeno impone), come invece avviene per le estetiche filosofiche organizzate in sistemi “chiusi”, un suo modello, una sua definizione (di arte, di poesia, di critica, ecc.); si propone, piuttosto, di com-prendere i vari modelli, le molteplici definizioni, le diverse riflessioni (in tutti i piani e livelli: prammatico, teoretico, scientifico...) che si rilevano sul campo. Questa complessa operazione metodologica antidogmatica presuppone, un “orizzonte di comprensione” entro il quale tutti i fenomeni vengono “risignificati” (una volta che siano stati depurati mediante l’epoché da ogni pretesa assolutizzante) e integrati, messi in relazione gli uni con gli altri in un’aperta sistematica. All’“orizzonte di comprensione” si contrappone l’“orizzonte di scelta”: quest’ultimo è caratteristico della riflessione prammatica. L’artista che riflette sulla propria arte, che elabora una sua poetica, non può non scegliere (questa o quella definizione, concezione, tecnica, genere, regola, ecc.) proprio perché deve “fare”, deve produrre l’opera. Il suo pensiero, per definizione prammatico, non può muoversi con andamento com-prensivo ma esclusivo: l’artista (per fare e mentre fa) seleziona, sceglie, decide la via da seguire, adotta una concezione. Inevitabilmente, ma legittimamente, è dogmatico (la sua poetica è un piccolo “sistema chiuso”). La neofenomenologia, dunque, “mette fra parentesi”, critica, sia le assolutizzazioni dogmatiche (per certi versi inevitabili e dunque legittime) delle poetiche, sia quelle proprie delle estetiche filosofiche a “sistema chiuso”, e “ri-significa” le une e le altre muovendosi in un “orizzonte di comprensione”. Piani (della riflessione in una “sistematica aperta”) Da un lato, abbiamo il piano della riflessione “poetica” (che trae origine dal mondo dell’arte, che nasce dall’arte stessa nel suo farsi e ad essa in primo luogo è finalizzata), dall’altro, il piano della riflessione “estetica” (che ha intenzioni puramente conoscitive e/o “comprensive” e il cui oggetto principale è l’arte). 153

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Nella prospettiva neofenomenologica i due piani in cui si dà la riflessione sull’arte, quello delle poetiche e quello dell’estetica, pur chiaramente distinti, sono “raccordati” in una aperta sistematica che prevede anche l’articolazione in “livelli” di riflessione interni ai piani stessi (precettistico, normativo, idealizzante). Si tratta, comunque, di un impianto sistematico meramente ipotetico e sempre rivedibile. Poetica “Nata con la poesia, la poetica rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali”. Si tratta dunque di una riflessione di tipo ‘prammatico’, ossia non puramente teorica bensì volta (‘intenzionata’) a un ‘fare’, a una ‘prassi’: produrre un’opera concreta, una statua, un quadro, un romanzo, un sonetto, un monumento... La poetica potrà essere, a seconda degli autori e dei casi, esplicita (uno scritto in cui l’artista enuncia la propria concezione dell’arte, e della sua arte in specie) ovvero implicita (anche quando non abbiamo nessuno scritto ad hoc possiamo ricavare la poetica di un artista analizzando le sue opere, la sua tecnica, le scelte che ha compiuto, i modi operativi che ha adottato, ecc.). Le poetiche si possono raggruppare in tre classi: poetiche precettistiche, normative e idealizzanti. Razionalità (della filosofia) Dobbiamo “intendere la razionalità come orizzonte di comprensione, e non di esclusione e di rifiuto, nel rispetto insieme di ogni individualità e della infinita molteplicità”, dobbiamo “avvertire questo orizzonte nei suoi connotati di ipoteticità, mobilità, continua disponibilità alla revisione, rinuncia al carattere di definitività, limite di validità per il campo in cui si è operato e che si comprende, e anche per quegli aspetti di futuro che porta già in sé”. In proposito Anceschi cita Banfi: “La razionalità della filosofia è tanto poco l’imposizione di uno schema astratto e parziale alla 154

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realtà, che è anzi la legge di risoluzione integrativa di tutti gli schemi astratti e parziali, dialetticità estrema della coscienza, insomma che permetta alla esperienza di rivelarsi e farsi valere in tutta la sua viva molteplicità”. Questo il commento di Anceschi: “Qui mi limito a sottolineare due aspetti: da un lato, la critica agli schematismi della filosofia tradizionale nella sua volontà di dominio logico – del resto sempre frustrato – nella pretesa di presentarsi come sapere assoluto e definitivo, che si serve di griglie rigide, attraverso le quali la realtà verrà accettata, rifiutata, o ‘ridotta’, mentre non si tratta di accettare, rifiutare o ridurre, ma si tratta veramente di tentare le strade difficili del capire; dall’altro, messa in luce la parzialità di ogni schema, il rilievo che esiste una realtà vissuta, vivente (e da vivere), un rapporto sempre mutevole tra l’azione dell’uomo e quella del mondo, una esperienza, diciamo, che chiede di essere compresa, riconosciuta, e garantita nella sua autonomia. Può darsi, suppongo, che questo sia il modo nostro di leggere Banfi” [un modo che non privilegia l’aspetto meramente speculativo del pensiero banfiano]. Relazione (soggetto-oggetto ovvero io-mondo) Si tratta di una relazione “polare” (per Banfi: di una “legge trascendentale”), in cui l’un termine, o polo, non può non rapportarsi dialetticamente con l’altro polo, in una infinita varietà di gradazioni reciproche; quindi ciascuno dei due poli (soggetto o oggetto; io o mondo) non può essere assolutizzato e assunto isolatamente, ma “vive” solo nel rapporto con l’altro. Ciò che chiamiamo “esperienza” (non solo estetica) si attua dunque nell’attivo incontro dialettico fra i due poli io-mondo, soggetto-oggetto. Anceschi riconosce ad Antonio Banfi, suo maestro, di aver elaborato “la fertile proposta del principio di correlazione soggettooggetto rispetto alla assolutizzazione del Soggetto [come avviene nelle filosofie radicalmente soggettivistiche: ad esempio l’Idealismo classico e il Neoidealismo crociano) come a quella dell’Oggetto [come avviene nelle filosofie radicalmente oggettivisticomaterialistiche]”. 155

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In proposito Anceschi ama citare anche Montaigne: “non c’è alcuna esistenza costante né nel nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa; e tanto il giudicante quanto il giudicato sono in continuo mutamento e movimento”. Rilievi (di struttura e di situazione) Supponiamo che il nostro campo d’indagine concerna la poesia (ma l’esempio vale anche per campi analoghi). “Leggere il testo del poeta sapendo leggere, vuol dire avere tutti gli strumenti adatti per capirlo. ma per quel che ci riguarda tali strumenti si articolano in due tipi di rilievi: rilievi di struttura e rilievi di situazione. Per quanto riguarda i rilievi di struttura essi riguardano l’impegno di cogliere il pensiero del poeta sul suo proprio fare attraverso i rilievi delle sue osservazioni critiche, dei suoi programmi, delle sue osservazioni sulla poesia, e anche attraverso rilievi sulla concretezza del suo fare che ci aiutino a trovare o confermare questa idea [quindi: i rilievi di struttura si operano sull’opera di un artista e sulla sua riflessione poetica]. [...] I rilievi di situazione. tendono a collocare questa idea (che, in genere, ha carattere molto organico) nella prospettiva storico-culturale che la significa e che essa stessa, nel suo esserci, suggerisce”. Sistema (“chiuso” versus “aperto”) “Di fatto – scrive Anceschi – rispetto ai sistemi tradizionali (che si dicono ‘chiusi’) [ossia quei sistemi filosofici totalizzanti, rigorosamente ‘costruiti’ a partire da principi a priori generalissimi da cui si ‘deduce’ ogni specifica verità-definizione, e in cui l’estetica rientra organicamente come parte di un tutto: ad esempio i grandi sistemi idealistici e neoidealistici di Hegel e Croce] parliamo ormai di sistema ‘aperto’. Per altro, i sistemi che diciamo ‘chiusi’ tentano di unificare il reale intorno a un principio, ad una obiettività concettuale univoca e immutabile che ne costituisce l’asse unitario capace di fondare un ordine di valori assoluti ai quali in ogni caso l’esperienza deve essere commisurata. Tali sistemi, però, sono molti, e molte le prospettive universali che presumono di 156

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risolvere, ognuna di esse definitivamente, la problematica generale del reale. [...] La nuova sistematica (‘aperta’) critica tali obiettività concettuali, e tali principi generalissimi nella loro pretesa di valere come assolutamente universali ed eterni, e, considerando il loro continuo variare, li avverte come assunzioni universalizzanti di aspetti parziali, storicamente emergenti, dell’esperienza, tende alla organica integrazione di tali aspetti parziali secondo l’idea di Husserl che ‘il tutto infinito nell’infinità del suo fluire è diretto verso l’unità di un senso, ma non certo in modo che noi possiamo afferrarlo e comprenderlo pienamente’, e aspira a ordinarli in una sistematica non dogmatica”. Per sistema aperto (o anche: sistematica, sistematicità) intendiamo, dunque, un ordine di relazioni (fra i vari fenomeni, una volta ‘depurati’ da ogni pretesa assolutizzante mediante l’esercizio dell’epoché, e i vari piani di riflessione) attivo, mobile, sempre pronto a modificarsi a seguito delle esperienze nuove e diverse provenienti dal mondo ‘vivente’ dell’arte e della riflessione sull’arte. Su queste generali premesse si può dire che nel caso di sistema “chiuso” è il sistema stesso (i suoi principi a priori, la sua logica interna deduttivo-dogmatica, la sua rigidità, la sua chiusura alle nuove esperienze che emergono dal mondo vivente dell’arte) che significa le strutture (cioè che conferisce significato, calandolo dall’alto, a tutti i piani e livelli di riflessione estetica, a tutte le ‘parti’ costitutive della costruzione-sistema); invece, nell’ambito di un’aperta sistematica (quindi di una rete di relazioni riscostruite a partire ‘dal basso’, dall’esperienza dei fenomeni) il sistema si significa attraverso le strutture (ossia ricava senso e significato non da principi a priori ma dalle strutture fondamentali della riflessione sull’arte e dalle loro relazioni). Trascendentale Così Banfi: “‘trascendentale’ vale per noi ad esprimere non un essere o un’origine indipendenti dall’esperienza e assoluti, ma un metodo teoreticamente autonomo, coerente e universale di rapporto tra ragione ed esperienza”. 157

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NOTE 1 Per “autonomia dell’arte” possiamo intendere un principio, una concezione che esclude nell’arte ogni finalità esterna all’arte stessa. Al contrario, in una concezione “eteronoma” si ammette e si richiede che l’arte abbia uno scopo, una finalità esterna che la attraversa (di tipo etico-religioso, didascalico-educativo, politico-sociale, ecc.). 2 Il presente Glossarietto, basato sui testi di Anceschi, va utilizzato come un sussidio per la lettura del capitolo sulla neofenomenologia critica. Luciano Anceschi (Milano 1911-Bologna 1995), allievo di Antonio Banfi, è stato professore emerito di Estetica all’Università di Bologna e accademico corrispondente dei Lincei. Attivo nel mondo letterario dal ’36, nel 1956 ha fondato la rivista militante “Il Verri” e nel 1973 “Studi di estetica”. Tra i suoi scritti teorici elenchiamo: Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Progetto di una sistematica dell’arte (1962), Fenomenologia della critica (1966), Le istituzioni della poesia (1968), Il caos e il metodo (1981), Che cos’è la poesia? (1985), Gli specchi della poesia (1989). Fra le opere di storia dell’estetica e delle poetiche, di saggistica e critica si segnalano: Idea della lirica (1945), Poetica americana (1953), Barocco e Novecento (1960), Le poetiche del Novecento in Italia (1961), Da Bacone a Kant (1972), Da Ungaretti a D’Annunzio (1976), L’idea del Barocco (1984), Decisione della forma. Esercizi critici e della memoria sulla pittura e sulle arti (1993).

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Idee delle arti FERNANDO BOLLINO, Ragione e Sentimento. Idee estetiche nel Settecento francese. LUCIANO ANCESCHI, Decisione della forma. Esercizi critici e della memoria sulla pittura e sulle arti. Introduzione di Renato Barilli. LEONARDO COZZOLI, L’identità estetica. Note kantiane. CORRADO ROSSO, Trasgressioni e paradossi. Saggi francesi. LEONARDO COZZOLI, Il linguaggio senza nome. Estetica, analogia e belle arti in Kant. Prefazione di Silvestro Marcucci. LUCIANO ANCESCHI, Che cosa è la poesia?, nuova edizione a cura di Fernando Bollino. GÉRARD GENETTE, L’Opera dell’arte, I: Immanenza e Trascendenza. GÉRARD GENETTE, L’Opera dell’arte, II: La Relazione estetica. JACQUES RANCIÈRE, Mallarmé. La politica della sirena. ALESSANDRA CORBELLI, L’estetica musicale di Jean-Jacques Rousseau. FERNANDO BOLLINO, L’arte in opera. Itinerari di Gérard Genette. FERNANDO BOLLINO, Nuove lezioni di estetica.

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