Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981) 8806215515, 9788806215514

L'avventuroso ritrovamento del corso di Lovanio conferma quale sia stato il problema che ha orientato, dall'in

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Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio (1981)
 8806215515, 9788806215514

Table of contents :
Nota degli editori
Conferenza inaugurale (2 aprile 1981)
Lezione del 22 aprile 1981
Lezione del 28 aprile 1981
Lezione del 29 aprile 1981
Lezione del 6 maggio 1981
Lezione del 13 maggio 1981
Lezione del 20 maggio 1981
Intervista di André Berten a Michel Foucault (7 maggio 1981)
Intervista di Jean François e John De Witt a Michel Foucault (22 maggio 1981)
Situazione del corso

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MAL FARE, DIR VERO Funzione della confessione nella giustizia Corso di Lovanio (1981) Michel Foucault Edizione a cura di Fabienne Brion e Bernard E. Harcourt Traduzione di Valeria Zini

Einaudi, 2013

Nota degli editori

Nel 1981, Foucault tiene all'Università cattolica di Lovanio, nell'ambito della cattedra Francqui, un corso che sceglie di intitolare Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia . Parallelamente, conduce un seminario di ricerca sulla genealogia della difesa sociale 1. Inoltre concede tre interviste, la prima ad André Berten, filosofo; la seconda a Christian Panier, giurista e a Pierre Watté, filosofo; la terza a Jean François e a John De Wit, criminologi2. Il corso e il seminario sono scaturiti da un invito rivolto dalla Scuola di criminologia su iniziativa di Françoise Tulkens. Colei che diventerà vicepresidente della Corte europea dei diritti dell'uomo è allora una giovane docente della Facoltà di Diritto; in Belgio costituisce uno dei casi eccezionali di penalisti3 il cui lavoro è orientato, teoricamente e praticamente, 1 I lavori presentati nell'ambito del seminario sono stati raccolti ed editi da F. TULKENS (a cura di), Généalogie de la défense sociale en Belgique , Story-Scientia, Bruxelles 1988. Françoise Tulkens ha inoltre introdotto e riedito uno dei testi principali sulla dottrina della difesa sociale: A. PRINS, La défense sociale et les transformations du droit pénal (Misch et Thron, Bruxelles 1910); Éditions Médecine et Hygiène, Genève 1986. 2 Le interviste concesse ad André Berten, da una parte, e a Jean François e John De Wit, dall'altra, sono riportate in questo volume rispettivamente alle pp. […]. D'accordo con Daniel Defert, si è scelto di non includere l'intervista rilasciata a Christian Panier e a Pierre Watté, già apparsa sotto il titolo L'intellectuel et les pouvoirs, in M. FOUCAULT, Dits et écrits 1954-1988, Gallimard, Paris 1994, vol. IV, pp. 747-752 [trad. it. L'intellettuale e i poteri , in ID., Discipline, Poteri, Verità, Marietti, Genova-Milano 2008, pp. 217-223]. 3 Oltre a Françoise Tulkens, bisogna menzionare Michel van de Kerchove (cfr. fra l'altro M. VAN DE KERCHOVE, Les droit sans peines. Aspects de la dépénalisation en Belgique et aux ÉtatsUnis, Publications des Facultés Universitaires Saint Louis, Bruxelles 1987) e Foulek Ringelheim

da una prospettiva abolizionista. Nel momento in cui sollecita Foucault, segue i lavori della Commissione per la revisione del codice penale4 con uno sguardo radicalmente critico5. Potenziamento del legalismo per mezzo del positivismo e del diritto per mezzo della scienza: i testi proposti non rompono né con la dottrina classica né con quella della difesa socia-

(cfr. F. RINGELHEIM [a cura di], Punir mon beau souci. Pour une raison pénale , Presses de l'Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1984, e, più in particolare, ID., Le souci de ne pas punir, ibid., pp. 355-379). Michel van de Kerchove ha svolto un ruolo attivo nel seminario di ricerca sulla genealogia della difesa sociale condotto da Foucault. Foulek Ringelheim ha intervistato Foucault in due occasioni: la prima volta, anteriormente a Sorvegliare e punire, nel 1973 (cfr. À propos de l'enfermement pénitentiaire [intervista a A. Krywin e F. Ringelheim], in «Pro Justitia. Revue politique de droit», I [1973], n. 3-4: La Prison, pp. 5-14; ripreso in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. II, pp. 435-445 [trad. it. A proposito della reclusione penitenziaria , in ID., L'emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo, La casa Usher, Firenze 2011, pp. 128-137)]; la seconda volta, nel dicembre 1983 ( Qu'appelle-t-on punir? Entretien avec Michel Foucault, in RINGELHEIM [a cura di], Punir mon beau souci cit., pp. 34-46 [trad. it. Cos'è che chiamiamo punire?, in ID., L'emergenza delle prigioni cit., pp. 268-277]; la trascrizione di questa seconda intervista è stata interamente rivista e corretta da Foucault il 16 febbraio 1984, quattro mesi prima della morte). 4 COMMISSION POUR LA RÉVISION DU CODE PÉNAL, Rapport sur les principales orientations de la réforme, Moniteur belge, Bruxelles 1979. 5 F. TULKENS, Introduction au thème du séminaire , in ID. (a cura di), Généalogie de la défense sociale en Belgique cit., p. 7; ID. (relatrice), Observations et commentaires de membres de la Faculté de Droit et de l'École de criminologie de l'Université catholique de Louvain au sujet du «Rapport sur les principales orientations de la réforme du Code pénal», destinate al ministro della Giustizia, Louvain-la-Neuve 1982, ripreso in sintesi in ID., La réforme du Code pénale en Belgique: question critique, in «Déviance et Société», VII (1983), n. 3, pp. 197-218; ID., La réforme du Code pénal: vers quelle stratégie de changement? , in RINGELHEIM (a cura di), Punir mon beau souci cit., pp. 380-403.

le6; le nozioni di colpevolezza e di pericolosità possono continuare a «fornirsi un reciproco sostegno»7. Sappiamo che, in diverse occasioni, Foucault ha stretto alleanza con giuristi radicali8: dunque accettava l'invito. Come per il convegno dal titolo La nozione di pericolosità ha ancora un senso?9, organizzato lo stesso anno dall'Unità di ricerca in criminologia dell'Università, il corso che tiene e il seminario che guida contribuiscono al dibattito sulla riforma, mi6 Su questo punto, cfr. TULKENS, Introduction au thème du séminaire cit., p. 7; e, più in dettaglio, ID., La réforme du Code pénal en Belgique: question critique cit., pp. 197-218. Anche a rischio di essere troppo tecnici, forniamo alcune indicazioni su questa causa, per la quale Foucault si mobilitò. Il Codice penale belga, all'epoca della sua promulgazione, nel 1867, era «l'espressione più compiuta del diritto penale classico»; sotto l'influenza dei promotori della dottrina della difesa sociale e delle nascenti «scienze criminali» fu ben presto corredato di «leggi complementari» (legge del 27 novembre 1891 sul vagabondaggio e la mendicità, legge di difesa sociale del 9 aprile 1930 a proposito degli anormali e dei delinquenti abituali...) che facevano della pericolosità un secondo pretesto per criminalizzare alcuni individui e internarli. Consegnato nel 1979, il Rapport sur les principales orientations de la réforme preannuncia le derive securitarie che impronteranno gli anni 1990 e 2000. Come Françoise Tulkens osservava nel 1983, esso può, sul piano dottrinale, «essere oggetto di una duplice lettura […] una lettura del tipo “colpevolezza” secondo il diritto penale classico o neoclassico; una lettura del tipo “pericolosità” secondo il criterio della difesa sociale» (p. 206). Nessuna discussione sul ruolo dello Stato o sulla natura e le funzioni del diritto penale, la cui portata, l'efficacia come modo di produzione della sicurezza collettiva e il posto acquisito tra i meccanismi di protezione e di controllo sembravano andare da sé (ibid.): il Rapport si limita a confermare la «sovrapposizione di razionalità» caratteristica del diritto penale belga, riaffermando l'importanza del principio di legalità dei delitti e delle pene – «che non “può essere attenuato da incriminazioni vaghe o che abbiano di mira un semplice stato di pericolosità o ancora da sanzioni indeterminate”» (p. 205) – prima di orientarsi verso disposizioni «che [pongano l'accento] sul pericolo rappresentato dall'autore dell'infrazione» (Cinquième orientation, cit., a p. 207). Pertanto i membri della Commissione, ritenendo sull'esempio di Prins che «il giudice deve giudicare un uomo che ha commesso dei fatti e non più unicamente dei fatti commessi da un uomo» (cfr. A. PRINS. Science pénale et droit positif, Bruylant-Marescq, Bruxelles-Paris 1899, cit. a p. 210), propongono, con il pretesto di semplificare le regole del concorso materiale di infrazioni, soluzioni che pregiudicano il principio di autorità della cosa giudicata e istituiscono nuove «forme di incriminazione di uno stato di pericolosità incompatibili con il principio della legalità delle incriminazioni peraltro affermato» (ibid.). Così raccomandano ancora «da un lato, di estendere il campo di applicazione del tentato crimine punibile a tutte le infrazioni, e, dall'altro, di prevedere una pena identica per il tentato crimine e per l'infrazione compiuta», mostrandosi preoccupati di reprimere «più lo stato di pericolosità manifestato dall'autore che non il disordine sociale causato dall'infrazione» (p. 211). Suggerendo di abbandonare «la definizione descrittiva e limitativa degli atti di partecipazione criminale» e di incriminare la complicità per astensione, essi minano quel baluardo della libertà e della sicurezza dei governati che è costituito dal riferimento al concetto di atto nel diritto penale (p. 212), ecc.: queste proposizioni sono solo esempi. Insomma, concludeva Françoise Tulkens, «l'orientamento pericolosità è iscritto manifestamente nelle proposizioni della Commissione» (p. 213); esso va di pari passo con la diversificazione delle pene e la loro individualizzazione giudiziaria, che il Rapport – in contraddizione con il principio di legalità – proponeva di sostituire all'individualizzazione legale con il motivo di una

nando le fondamenta della dottrina della difesa sociale. La lotta viene condotta su due fronti: genealogia dell'argomento presupposto dalla dottrina10, nell'ambito del corso; genealogia del dispositivo di cui tale argomento è il correlativo11, in quello del seminario: la scelta di svolgere queste attività sotto l'egida della Scuola e dell'Unità di ricerca in criminologia, a prima vista paradossale, è meditata a lungo: contribuisce a erodere il discorso criminologico che sta alla base della dottrina della difesa sociale, e assegna ai criminologi il compito di costituirsi come «coscienza critica del diritto penale»12. Questo per quanto riguarda il contesto. Quanto al testo, il corso si compone di una conferenza inaugurale e di sei lezioni. L'intento, dice Foucault, è quello di delineare una «storia della confessione come forma di legame e di rapporto tra veridizione e giurisdizione»13, storia limitata «al problema della penalità»14. Le prime due lezioni vertono sul pre-diritto greco: una pone il problema della lotta, del vero e del giusto, l'altra «personalizzazione» improntata dalle «acquisizioni delle scienze umane sulla dinamica delle condotte devianti e l'efficacia degli interventi di costrizione» (cit. a p. 205). Il rimpianto che Françoise Tulkens formulava testimonia la funzione attribuita allora alla criminologia: deplorava che la Commissione fosse composta esclusivamente da giuristi, dei quali peraltro soltanto tre erano criminologi, quando la criminologia critica problematizzava certe nozioni che avevano acquisito per i giuristi lo statuto di evidenze, come «la nozione di pericolosità» o «la funzione di neutralizzazione dell'incarcerazione» (pp. 201-202). 7 M. VAN DE KERCHOVE, Culpabilité et dangerosité. Réflexions sur la clôture des théories relatives à la criminalité, in C. DEBUYST (a cura di, con la collaborazione di F. Tulkens), Dangerosité et justice pénale. Ambiguïté d'une pratique (atti del convegno per il 50° anniversario della Scuola di criminologia dell'Università cattolica di Lovanio), Médécine et Hygiène, Genève 1981, p. 299. 8 Cfr. C. GORDON, Introduction, in M. FOUCAULT, Power, a cura di J.D. Faubion, vol. III di The Essential Works of Foucault, 1964-1984, The New Press, New York 2000, p. XXX. 9 Cfr. DEBUYST (a cura di), Dangerosité et justice pénale. Ambiguïté d'une pratique cit. 10 Cfr. TULKENS, Introduction au théme du séminaire cit., p. 5; e, in modo più particolareggiato, J. FRANÇOIS, Aveu, vérité, justice et subjectivité. Autour d'un enseignement de Michel Foucault, in «Revue interdisciplinaire d'études juridiques», VII (1981), pp. 163-182. 11 Cfr. TULKENS, Introduction au théme du seminaire, cit. pp. 5-13. 12 Citazione di una frase pronunciata da Françoise Tulkens; probabile riferimento a Manfred Brusten, che, nel 1981, assegnava alla criminologia la funzione di «coscienza critica della società». Su questo punto, cfr. M. BRUSTEN, Vers une criminologie sous tutelle étatique? Problématiques en perspective et stratégies de solution sous l'angle de la recherche universitaire , in «Déviance et Société», V (1981), n. 2, p. 177. 13 Cfr. Lezione del 22 aprile 1981, infra […]. 14 Ibid.

quello del sapere del tiranno. È previsto che le due lezioni successive si riferiscano all'ambito medievale e cristiano, che Foucault associa al «problema: confessione, ammissione, inchiesta»15, e le ultime due all'ambito moderno e contemporaneo, legato ai «problemi della confessione, dell'esame e della perizia»16. La prospettiva è quella di una «etnologia politica e istituzionale del dir vero, della parola vera»17: si tratta non di esaminare le condizioni che un'asserzione deve rispettare per essere accettata come vera o falsa, ma di analizzare i rapporti tra giochi di verità e giochi di potere, in quanto la verità è vista come un'arma e il discorso come un insieme di fatti polemici e strategici. Non è necessario precisare che, se il corso tenuto da Foucault è utile per la lotta condotta dai suoi ospiti, i suoi significati non si esauriscono certamente in essa. Due interrogativi delimitano il campo degli oggetti studiati: quali sono le pratiche attraverso cui la questione della verità si è formata a proposito della criminalità e del criminale, e in che modo dire la verità su di sé nella misura in cui si ha qualcosa da rimproverarsi.. accanto alla criminalità e al criminale, tali questioni fanno entrare nel gioco del vero e del falso un oggetto nuovo, che è il meccanismo dei rapporti con sé. Integrando al problema del potere della verità quello delle relazioni dell'individuo con i propri sviamenti, il corso completa la genealogia dell'ambito carcerario, che si dispiega da allora lungo gli assi del sapere, del potere e della soggettivazione. Ma annuncia anche la riconfigurazione dell'opera a venire attorno alla soggettività, di cui sottolinea la storicità, che si tratti del soggetto, del sé, o del rapporto con sé. Considerato a parte, Mal fare, dir vero ha la struttura di un anello di Möbius. Sin dalla conferenza inaugurale, Foucault annuncia che il problema su cui lavora ha due aspetti. Il primo è politico, «sapere in che modo l'individuo si trova legato, e accetta di legarsi al potere che si esercita su di lui»18. Il secondo è filosofico, «sapere in che modo i soggetti 15 16 17 18

Ibid. […]. Ibid. Ibid. […]. Cfr. Conferenza inaugurale, infra […].

sono effettivamente legati nelle e dalle forme di veridizione in cui sono implicati»19. L'uno rinvia all'altro, e viceversa, indefinitamente: a seconda dell'aspetto che il lettore privilegia, la storia dei processi di giurisdizione e di veridizione che egli ripercorre sembra mettere in evidenza ora la contingenza delle procedure giudiziarie di produzione di un effetto di verità, ora la storicità delle filosofie che postulano che la verità sia funzione della giurisdizione di un soggetto capace di distinguere l'illusorio e il falso dal reale e dal vero. Situato nell'insieme dell'opera, il corso sembra a prima vista confermare l'ipotesi secondo cui ci sarebbe, nei testi degli ultimi anni, «una sorta di passaggio dalla politica all'etica»20. Praticamente, l'operatore di questo passaggio sarebbe la confessione, definita come «un atto verbale attraverso cui il soggetto fa un'affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso»21. Teoricamente, sarebbe la nozione di obbligo di verità, che ha a sua volta due aspetti: … da una parte, l'obbligo di credere, di ammettere, di postulare, che avvenga nell'ordine della fede religiosa o nell'ordine dell'accettazione di un sapere scientifico e, dall'altra, l'obbligo di conoscere la nostra propria verità, e insieme di dirla, di manifestarla e di autenticarla22.

Su questa ipotesi, tuttavia, ci sono alcune obiezioni. Certamente, come peraltro i corsi affrontati nello stesso anno – About the Beginning

19 Ibid. 20 M. FOUCAULT, Le souci de la vérité (intervista a F. Ewald), in «Magazine littéraire», 1984, n. 270; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, p. 676 [trad. it. La cura della verità, in ID., Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, p. 343]. 21 Cfr. Conferenza inaugurale, infra […]. 22 Cfr. Intervista di Jean François e John De Wit a Michel Foucault , infra […].

of the Hermeneutics of the Self23 negli Stati Uniti, Subjectivité et vérité24 a Parigi – Mal fare, dir vero segna un passaggio. Passaggio dalla versione dura alla versione morbida del governo nelle società occidentali che assumono la forma di democrazie liberali (si potrebbe anche dire: passaggio dalla genealogia del criminale alla genealogia dell'uomo di desiderio 25), se a richiamare l'attenzione è l'aspetto politico del problema. Passaggio dalla genealogia all'aleturgia se è invece l'aspetto filosofico. Ma dai primi scritti fino agli ultimi, Foucault oppone al potere della verità il coraggio della verità: dai primi scritti agli ultimi, la sua filosofia lega politica ed etica. Canguilhem ha ragione: non c'è rottura tra il Foucault del sapere-potere da un lato, e quello dell'etica dall'altro 26. Come lui stesso ha ricordato nel 1984, presentare le sue ricerche «come tentativo di ridurre il sapere al potere – di fare del sapere la maschera del potere in strutture nelle quali non v'è posto per il soggetto – non può essere che una pura e semplice caricatura»27. Viviamo in società nelle quali il governo passa certamente attraverso la repressione, ma anche, più comunemente, attraverso la formazione degli ethoi nei quali gli individui si costituiscono come soggetti morali della loro condotta. Senza soggetto, né docilità né servitù volonta-

23 M. FOUCAULT, About the Beginning of the Hermeneutics of the Self (Subjectivity and Truth e Christianity and Confession, conferenze tenute in inglese rispettivamente all'Università della California, a Berkeley, il 20 e il 21 ottobre 1980, e al Dartmouth College il 17 e il 24 novembre 1980), a cura di M. Blasius, in «Political Theory», XXI (1993), n. 2, pp. 198-227; anche in ID., The Politics of Truth, a cura di S. Lotringer, Semiotext(e), Los Angeles 2007 2, pp. 147-191 [trad. it. Soggettività e verità e Cristianesimo e confessione, in M. FOUCAULT, Sull'origine dell'ermeneutica di sé, Cronopio, Napoli 2012]. 24 ID., Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France, 1980-81, non ancora pubblicato. 25 ID., Usage des plaisirs et techniques de soi , in «Le Débat», 1983, n. 27, pp. 46-72; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 338, pp. 540-541; Histoire de la sexualité, allegato all'edizione originale di ID., Histoire de la sexualité, vol. II: L'usage des plaisirs e vol. III: Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984; e ID., L'usage des plaisirs cit., p. 11 [trad. it. Storia della sessualità, vol. II: L'uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 10-11]. 26 G. CANGUILHEM, Sur l'Histoire de la folie en tant qu'événement , in «Le Débat», XLI (1986), n. 4, pp. 37-40. 27 M. FOUCAULT, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France, 1984, Gallimard-Seuil, Paris 2009, p. 10 [trad. it. Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France , Feltrinelli, Milano 2011, p. 20].

ria; ma anche – e per Foucault, soprattutto – né arte della «indocilità ragionata» né «arte della disobbedienza volontaria»28. «Di fronte alla normalizzazione e contro di essa, La Cura di sé»: come scrive il filosofo delle scienze, era «normale, nel senso propriamente assiologico, che Foucault intraprendesse l'elaborazione di un'etica»29. Tra il sapere e il potere, Mal fare, dir vero introduce il soggetto come un cuneo: se il governo passa attraverso la formazione degli ethoi nei quali gli individui si costituiscono come soggetti della loro condotta, allora il distacco da sé – rendersi in permanenza capaci di distaccarsi da se stessi 30 è la condizione di possibilità etica delle forme di resistenza politica a cui la sua filosofia invita. Ma il corso mostra anche che la nozione di una coscienza trasparente a se stessa non è, del soggetto, nient'altro che una modalità. In questo senso, distaccarsi da se stessi significa anche distaccarsi dalla finzione di quel punto zero della conoscenza e – a dispetto di quel che ne pensa l'egologia moderna, contro Descartes e Kant, ma a partire da una stessa esigenza – imparare a vedere nel soggetto della tradizione filosofica e del discorso della scienza un avatar del rapporto immaginario degli esseri umani con la loro condizione di esistenza. Di Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia , il lettore informato ha conosciuto a lungo soltanto cinque lezioni riportate in un dattiloscritto depositato all'Institut Mémoires de l'édition contemporaine (Imec), stabilito a partire da audiocassette che non sono state ritrovate, e mai corretto. Il corso non aveva potuto essere pubblicato: da una parte, il dattiloscritto non comprendeva il testo della sesta e ultima lezione, dall'altra conteneva errori evidenti. Ricerche approfondite hanno permesso di ritrovare presso la Scuola di criminologia una copia del manoscritto originale della conferenza 28 ID., Qu'-est-ce que la critique? [Critique et «Aufklärung»], riunione del 27 maggio 1978, in «Bulletin de la société française de philosophie», LXXXIV (1990), n. 2, p. 39 [trad. it. in Che cos'è la critica?, in ID., Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 40]. 29 CANGUILHEM, Sur l'Histoire de la folie en tant qu'événement cit., p. 40. 30 FOUCAULT, La cura della verità (intervista con F. Ewald) cit., p. 341.

inaugurale e della prima lezione, oltre a tredici cassette U-Matic che erano servite come supporto della registrazione audiovisiva del corso richiesta dalla Scuola di criminologia al Centro audiovisivo dell'Università. Le cassette U-Matic corrispondono alle sei lezioni pubblicate, a esclusione della conferenza inaugurale. Di conseguenza abbiamo avuto a disposizione, per stabilire il testo, le fonti seguenti: a) per la conferenza inaugurale, una copia del manoscritto originale e il dattiloscritto; b) per la prima lezione, una copia del manoscritto originale, una registrazione audiovisiva e il dattiloscritto; c) per le lezioni seconda, terza, quarta e quinta, una registrazione audiovisiva e il dattiloscritto; d) per la sesta lezione, una registrazione audiovisiva. Il testo della conferenza inaugurale è stato stabilito a partire dal manoscritto originale. Al fine di rendere più scorrevole la lettura, la disposizione spaziale – che talvolta ha la forma di punti da sviluppare – è stata modificata. L'edizione delle sei lezioni seguenti assume come riferimento la registrazione audiovisiva che riproduce la parola pronunciata pubblicamente da Foucault. Nei casi in cui la sostituzione della cassetta audiovisiva provoca una lacuna, quando è stato possibile abbiamo riprodotto in fondo alla pagina la trascrizione presente nel dattiloscritto. In accordo con Daniel Defert e François Ewald, abbiamo deciso di seguire le linee guida stabilite per l'edizione dei corsi al Collège de France e di lasciare la trascrizione più letterale possibile. Il passaggio dall'orale allo scritto ha tuttavia imposto alcuni interventi: abbiamo ad esempio dovuto introdurre la punteggiatura e suddividere alcuni paragrafi; quando ci è sembrato necessario, sono state eliminate le ripetizioni, ristabilite le frasi interrotte, rettificate le frasi non corrette. I passaggi illeggibili o non udibili sono stati segnalati. Un asterisco in fondo alla pagina indica le aggiunte congetturali, così come le interazioni con gli uditori.

L'apparato critico fornisce riferimenti bibliografici e precisazioni biografiche, identifica altri testi in cui Foucault ha trattato gli stessi temi e offre ai ricercatori piste di indagine ulteriori. Le citazioni sono state verificate, all'occorrenza completate, e i loro riferimenti indicati nelle note. Come allegati, abbiamo incluso due interviste a Michel Foucault realizzate in occasione del suo soggiorno a Lovanio. Il testo dell'intervista di André Berten, del 7 maggio 1981, è stato stabilito a partire dalla registrazione audiovisiva realizzata su richiesta della Scuola di criminologia dal Centro audiovisivo dell'Università. L'edizione dell'intervista di Jean François e John De Wit, del 22 maggio 1981, si basa sul dattiloscritto stabilito a partire da una registrazione audio oggi perduta, dattiloscritto ritrovato negli archivi di Jean François. La versione che presentiamo qui differisce dal testo dell'intervista pubblicato in Dits et écrits, che consiste in una traduzione francese di adattamento dell'intervista pubblicata dopo una prima traduzione in una rivista olandese. Abbiamo potuto beneficiare delle riletture, delle correzioni e dei commenti preziosi di Daniel Defert, François Ewald, Françoise Tulkens e Jean-Michel Chaumont, membri del comitato scientifico costituito per accompagnare il lavoro di edizione. A loro va il nostro vivo ringraziamento per l'aiuto che ci hanno prestato e il tempo che ci hanno dedicato. Questa edizione del corso di Lovanio è stata autorizzata dagli eredi di Michel Foucault. Abbiamo cercato di essere all'altezza della fiducia che ci hanno accordato. FABIENNE BRION e BERNARD E. HARCOURT31

31 Fabienne Brion è docente alla Facoltà di Diritto dell'Università cattolica di Lovanio, dove tiene in particolare un corso su «Foucault e la criminologia». Bernard Harcourt è docente di Diritto e di Scienze politiche e presiede il Dipartimento di scienze politiche dell'Università di Chicago. Fabienne Brion si è incaricata di stabilire il testo e le note delle lezioni del 28 aprile e del 6 e 13 maggio, mentre Bernard Harcourt si è occupato delle lezioni del 22 e 29 aprile del 20 maggio. Il testo e le note della conferenza inaugurale sono stati stabiliti in collaborazione. L'insieme del lavoro di edizione è stato oggetto di riletture, correzioni e integrazioni incrociate.

Ringraziamenti

Oltre a Daniel Defert, François Ewald, Françoise Tulkens e Jean-Michel Chaumont, diverse persone hanno avuto la gentilezza di rileggerci, di comunicarci correzioni e commenti, o ancora di aiutarci a identificare alcune citazioni. Ringraziamo vivamente, presso l'Università cattolica di Lovanio, Bernard Coulie, professore alla Facoltà di Lettere e filosofia, allora rettore; Henry Bosly e Damien Vandermeersch, professori alla Facoltà di Diritto; Vincent Francis e Martin Moucheron, professori incaricati; Jean-Philippe de Limbourg, assistente; numerosi studenti del secondo e terzo ciclo, tra cui Laure Karvyn de Meerendre e Emmanuel Picardi; presso l'Università di Chicago, Arnold Davidson, professore alla Facoltà di Filosofia; molti studenti del terzo ciclo, tra cui Daniel Nichanian, Tuomo Tiisala, Lyubomir Uzunov e Daniel Wyche; oltre a Margaret Schilt e Greg Nimmo, incaricati di studi documentari alla D'Angelo Law Library; Emmanuel Francis, ricercatore presso il Centre for the Study of Manuscript Culture dell'Università di Amburgo; Elisabeth Geoffroy, dell'Università di Parigi II; Claire Lechevallier, professore incaricato all'Università di Caen; Stephen Sawyer, professore all'American University of Paris, e Claude Terreaux, professore a Parigi. Grazie a Philippe Artières, direttore di ricerca al Cnrs, che ci ha trasmesso i testi che gli avevamo richiesto, e a Michel Senellart, professore

all'École Normale Supérieure di Lione, che ha gentilmente accettato di mettere a nostra disposizione il testo del corso pronunciato da Foucault al Collège de France nel 1979-80, Du gouvernement des vivants, di cui stava preparando l'edizione. Grazie inoltre a Colin Gordon, Eric Heilmann, professore all'Università della Borgogna, e a Véronique Voruz, professore all'Università di Leicester, per aver generosamente riletto tutta o in parte la Situazione del corso.

MAL FARE, DIR VERO

Conferenza inaugurale (2 aprile 1981)

Leuret, la confessione e l'intervento terapeutico. – Presunti effetti del «dir vero» su di sé e sulla conoscenza di sé. – Caratteristiche della confessione. – Estensione nelle società cristiane occidentali: individui legati alla propria verità e obbligati nei loro rapporti con gli altri dalla verità detta. - Un problema storico-politico: in che modo l'individuo si lega alla propria verità e al potere che viene esercitato su di lui. - Un problema storico-filosofico: in che modo gli individui sono legati dalle forme di veridizione in cui s'impegnano. – Un contrappunto al positivismo: la filosofia critica delle veridizioni. – Il problema del «chi viene giudicato?» nell'istituzione penale. - Pratica penale e tecnologia di governo. - Il governo per mezzo della verità. In un'opera dedicata al trattamento morale della follia, e pubblicata nel 1840, uno psichiatra francese, Leuret, racconta il modo in cui ha trattato uno dei suoi malati1. Trattato e, afferma, guarito. Il signor A. era af1 Su François Leuret (1797-1852) cfr. M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l'âge classique Gallimard, Paris 1972, pp. 540-541 [trad. it. Storia della follia nell'età classica , Rizzoli, Milano 2012, pp. 716-717], dove il primario dell'ospedale di Bicêtre, autore di un'opera intitolata Du traitement moral de la folie, pubblicata nel 1840 a Parigi, è associato «[al]l'uso dei celebri “trattamenti morali” che fanno dell'internamento lo strumento più importante della sottomissione e della repressione (Guislain e Leuret)»; oltre a ID., Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France, 1973-1974, Gallimard-Seuil, Paris 2003, in particolare le pp. 108-109 (cfr. anche le seguenti note del curatore J. Lagrange: nota 13 a p. 19 e nota 22 a pp. 38-39) [trad. it. Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 108-109; nota 13 a pp. 315-316 e nota 22 a p. 318].

fetto da un delirio di persecuzione e da allucinazioni. Un mattino, Leuret lo porta in bagno e lo fa mettere in piedi sotto la doccia. A questo punto ha inizio una lunga conversazione, che riassumo. Il medico domanda al malato di raccontare in modo molto particolareggiato il suo delirio. IL DOTTOR LEURET Non c'è una parola di vero in tutto questo; quel lei dice, non è altro che follia. È perché lei è folle che la si trattiene a Bicêtre. IL MALATO Io non credo di essere folle. So quel che ho visto e sentito. IL MEDICO Se vuole che io sia contento di lei, deve obbedire perché tutto ciò che le chiedo è ragionevole. Promette di non pensare più alle sue follie, promette di non parlarne più? Il malato promette esitando. IL DOTTOR LEURET Lei mi ha mancato spesso di parola su questo punto: io non posso contare sulle sue promesse; andrà sotto la doccia fino a che non confesserà che tutte le cose che dice non sono altro che follie. E lo si sottopone a una doccia ghiacciata sulla testa. Il malato riconosce che le sue immaginazioni erano solo follie, e che si impegnerà a lavorare. Ma aggiunge: lo riconosco «perché mi si costringe». Nuova doccia ghiacciata. – Sì signore, tutto quello che le ho detto non è che follia. – Lei è dunque stato folle? – chiede il medico. Il malato esita: – Non credo. Terza doccia ghiacciata. – È stato folle? IL MALATO Vedere e udire significa esser folle? – Sì. Allora, il malato finisce per dire:

– Non c'erano donne che mi ingiuriavano, non c'erano uomini a perseguitarmi. Tutto questo non è che follia. Mi interrompo qui. A forza di docce, a forza di confessione, il malato, come potete supporre, è stato appunto guarito. Dato che aveva riconosciuto di essere folle, non poteva più esserlo. Certo, si tratta di un'idea che si ritrova lungo l'intera storia della psichiatria: non si può al contempo essere folle e avere coscienza di essere folle; la percezione della verità scaccia il delirio. E fra tutte le terapie applicate alla follia nel corso dei secoli, si trovano mille mezzi o astuzie immaginati per far sì che il malato prenda coscienza della sua propria follia. Ma Leuret mira a qualcos'altro. O piuttosto, cerca di ottenere questo risultato con un mezzo del tutto particolare. Non tenta affatto di persuadere il malato; in fondo, se ne infischia totalmente di quel che succede nella coscienza del malato. Quel che vuole, è un atto preciso, un'affermazione: «Io sono folle». La confessione come elemento decisivo nell'operazione terapeutica2. 2 Sulla funzione terapeutica della confessione richiesta da Leuret ai pazienti (maschi e femmine) che aveva in cura, cfr. in particolare la lezione del 19 dicembre 1973 (FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., pp. 136-161), nel cui contesto Foucault presenta e commenta una cura riportata in F. LEURET, Du traitement moral de la folie, J.-B. Baillière, Paris 1840. «Credo che in generale, – scrive, – per Leuret il problema sia quello di rendere il malato accessibile a tutti gli usi im perativi del linguaggio […] Il problema non è quello si sostituire al falso il vero all'interno di una dialettica che è peculiare nel linguaggio e nella discussione. Piuttosto, si tratta semplicemente, attraverso il gioco degli ordini e dei comandi che vengono impartiti, di rimettere il soggetto in contatto con un linguaggio che comporta, in quanto tale, degli imperativi; si tratta di ristabilire un'utilizzazione imperativa del linguaggio che è quella che si riferisce a tutto un sistema di potere e in base a esso si organizza. […] Il linguaggio che insegna di nuovo al malato non è quello attraverso cui egli potrà ritrovare la verità. Il linguaggio che viene nuovamente costret to ad apprendere è un linguaggio che deve lasciare trasparire la realtà di un ordine, di una disciplina, di un potere che s'impone al malato» [trad. it. cit., p. 144]. La confessione è uno di quei «supplementi» di potere aggiunti alla realtà dal manicomio, che permettono al medico di «far presa sulla follia e di domandarla, e dunque di dirigerla e di governarla»; uno degli strumenti la cui funzione è «di imporre la realtà» e «di intensificarla» (ibid., p. 160). Egli opera dissociando verità e percezione: mira ad agganciare il malato alla propria storia, ma alla sua storia così come è stata stabilita «dall'esterno» e formata da «un sistema di cui fan parte la famiglia, l'impiego, lo stato civile, l'osservazione medica», e non quale lui la percepisce (ibid., p. 154). La verità di cui Leuret cerca, a forza di docce, di produrre l'enunciato è quella non di una follia «che parla a proprio nome», ma di una follia «che accetta di riconoscersi in prima persona in una certa realtà amministrativa e medica, costituita dal potere manicomiale ( ibid., p. 155). È nel momento in cui coloro (maschi e femmine) che sono stati presi in cura accettano di riconoscer -

Ero già colpito, molto tempo fa, da questo brano di Leuret. Il suo contesto storico immediato è facile da delineare. Poco tempo prima, era stata approvata la famosa cosiddetta «legge del 1838» 3: essa organizzava in Francia la cooperazione tra il potere amministrativo, che decide l'internamento obbligatorio di certi malati mentali, e l'autorità medica incaricata di autenticare la malattia, di trattarla ed eventualmente di guarirla. È chiaro che Leuret fa svolgere alla «confessione» del malato un ruolo importante: il malato deve suggellare lui stesso i certificati che lo internano; dopo quelle del medico e del prefetto, si tratta della terza voce che autentica la sua follia. Nello stesso tempo, con questa confessione, deve consentire a un'azione medica che deve condurre a liberarlo di agire su di lui. Si tratta di un elemento assolutamente logico nel sistema dell'internamento terapeutico: «Vi riconosco il diritto di internarmi; vi offro la possibilità di guarirmi». Ecco il senso di questa confessione di follia; è la sottoscrizione del contratto manicomiale. Ma questo gesto di Leuret mi è parso interessante anche per altre ragioni. Esso ha avuto luogo in un'epoca in cui il trattamento dei folli cercava di conformarsi alla pratica medica, e in cui questa pratica medica obbediva al modello dominante dell'anatomia patologica: il medico, per conoscere la verità della malattia, doveva tendere l'orecchio non tanto al discorso del malato, quanto ai sintomi del corpo. Ora, rispetto a tale si nella «realtà biografica» così instaurata che «l'operazione di verità è giunta a compimento» (ibid.). La scena che oppone Leuret al «signor A.» è riportata anche nella prima delle due conferenze tenute da Foucault a Dartmouth nel novembre 1980, con i titoli Subjectivity and Truth e Christianity and Confession (cfr. FOUCAULT, Soggettività e verità cit., pp. 31-32). 3 Legge sugli alienati n. 7443 del 30 giugno 1838. Cfr. a questo proposito le lezioni del 5 dicem bre 1973 (FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., pp. 93-117) e del 12 febbraio 1975 (ID., Les anormaux. Cours au Collège de France, 1974-1975 , Gallimard-Seuil, Paris 1999, pp. 126-154 [trad. it. Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 126-150]); oltre a R. CASTEL, Les médecins et les juges, in M. FOUCAULT, Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère. Un cas de parricide au XIX e siècle, Gallimard, Paris 1994 (1a ed. 1973), pp. 379-399 [trad. it. I medici e i giudici, in ID., Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Un caso di parricidio nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2000 (1a ed. 1976), pp. 261-275].

norma scientifica, l'esigenza (formulata dal medico) di una confessione di malattia (formulata dal malato) sembra molto strana. Come se la logica medico-amministrativa, che rendeva così necessaria questa confessione, introducesse in tal modo una pratica del tutto eterogenea rispetto alle esigenze del sapere psichiatrico e a ciò che poteva conferirgli autorità tanto agli occhi dell'amministrazione quanto rispetto alla medicina. In effetti s'insinuava un elemento strano. Carico, oltretutto, di una lunga storia. Non penso semplicemente al posto che aveva potuto occupare e alle forme che aveva potuto assumere nelle istituzioni giudiziarie o religiose. Penso ai vecchissimi significati e ai valori da cui era ancora gravato, e sull'origine dei quali sappiamo così poco. Dietro la confessione sollecitata da Leuret, si può presentire molto vicino il legame, così spesso riconosciuto, tra la purezza e il dir vero (solamente coloro che sono puri possono dire il vero; antico tema che troviamo nell'obbligo di verginità e nella necessità di continenza per ricevere la parola di Dio). È possibile così anche riconoscere il tema per cui il dir vero purifica (e il male viene strappato via dal corpo e dall'anima di colui che, confessandolo, lo espelle). O ancora il tema secondo cui il dir vero su una cosa annulla, cancella, scongiura questa stessa verità (la mia anima diventa più bianca se confessa di essere nera). Dietro alla confessione richiesta da Leuret ci sono questa lunga storia della confessione, queste credenze immemorabili nei poteri e negli effetti del «dir vero» in generale e, in particolare, del «dir vero su se stessi». […] Una cosa mi sembra singolare: Dio sa a quanti studi di etnologia hanno dato origini i miti, le leggende, i racconti, le narrazioni, in breve, tutto ciò che, dal nostro punto di vista, costituisce il non-vero. Ma dopotutto, anche il dir vero è inserito in ordini rituali densi e complessi, è accompagnato da numerose credenze, gli si attribuiscono strani poteri. Forse ci sarebbe da fare tutta un'etnologia del dir vero. Ma nella pratica di Leuret, si avverte chiaramente che non c'è soltanto il peso di tutto questo confuso passato. L'esigenza della confessione introduceva anche un problema nuovo. Mentre tutta la medicina dell'epoca

tendeva al dispiegamento e all'illustrazione dei sintomi che costituivano, in un certo senso, il linguaggio naturale della malattia; mentre tendeva a non riconoscere alcun diritto di discorso vero se non da parte dei medici, analizzando e interpretando il linguaggio dei sintomi, ecco che Leuret introduce tra la malattia e il medico il discorso del malato, la questione di ciò che è vero o falso per lui. Non si limita a stabilire l'obbligo per il malato del dir vero, ma pone come questione essenziale per la sua terapia il rapporto di conoscenza che il malato intrattiene con se stesso. Per consolidare la sua pratica, fondare il suo intervento terapeutico e aprire la possibilità di una guarigione, il medico ha bisogno di un discorso vero del malato a proposito di se stesso. Da Leuret, non dico solo a Freud, ma a un vasto insieme di pratiche, è facile riconoscere tutto uno sviluppo che ci è ancora contemporaneo. In ogni caso, è a partire da questa scena singolare, nel punto di intersezione fra una tradizione così lontana e una pratica così recente, che mi è venuta l'idea di studiare questo «obbligo di dir vero su se stessi». Cercherò dapprima di proporvi una breve analisi di così si può intendere per confessione (analisi dello speech act). Poi abbozzerò un rapido esame dei problemi storici e filosofici che mi paiono intrecciarsi nella pratica della confessione. Infine, arriverò alla ragione per cui sono qui: la pratica della confessione nelle istituzioni giudiziarie e, soprattutto, penali.

Un dizionario francese dice che la confessione è una dichiarazione scritta od orale attraverso cui si riconosce di aver detto o fatto qualcosa. E aggiunge come esempio, la confessione di una colpa. Mi sembra che di questa definizione si possa conservare il quadro generale: vale a dire che, nella confessione, colui che parla afferma qualcosa a proposito di se stesso. Ma, andando un po' oltre, la definizione non pare più sufficiente. Da una parte, dice troppo poco dell'atto stesso della confessione. Dichiarare – anche solennemente, anche ritualmente – che si è fatto o si è detto qualcosa non basta a costituire una confessione. Posso dichiarare che esercito

il tal mestiere, senza che questa sia una confessione. Posso riconoscere pubblicamente un discorso che ho tenuto: non sarà per forza una confessione. Bisogna allora riferirsi al contenuto dell'affermazione, alla natura della cosa affermata, come suggerisce l'esempio del dizionario? Dichiarare la professione sarà una confessione se io sono un trafficante di droga. Oppure, riconoscere una cosa che ho detto sarà per me una confessione se la cosa detta è una menzogna. Ma, in questo caso, significa chiedere troppo e dare una definizione troppo ristretta. Dopotutto, posso dover confessare la mia eta, o dover confessare il mio amore, una malattia, o una sofferenza. In breve, la confessione è più di una semplice dichiarazione, ma è qualcosa d'altro dalla dichiarazione di una colpa commessa * dal soggetto parlante. 1) Non è una colpa, quella che Leuret cerca di far confessare. È forse qualcosa di sconosciuto, di invisibile? No, poiché il malato è manifestamente folle, e ha peraltro manifestato il proprio delirio nel corso di tutto l'interrogatorio, e poiché Leuret né convinto: la «confessione» non fa avanzare di un millimetro la conoscenza. Ciò che separa una confessione da una dichiarazione non è quel che separa l'ignoto dal noto, il visibile dall'invisibile, ma quello che potremmo chiamare un certo costo di enunciazione. La confessione consiste nel passare dal non-dire al dire, essendo inteso che il non-dire aveva un senso preciso, un motivo particolare, un valore importante. Così, per il signor A., non dire di essere folle, rifiutare questa dichiarazione, significa fondare la propria richiesta di dimissione. O ancora, quando qualcuno dichiara il proprio amore, sarà una confessione se il fatto di dichiararlo rischia di avere un costo4. 2) Ma non è tutto. Nella scena che si svolge tra Leuret e il suo malato c'è un episodio importante, ed è quando questi dice: «Ebbene, sì, dato * Termine decifrato a partire da un'abbreviazione. Potrebbe trattarsi anche di «conosciuta». 4 Foucault, rileggendo (come si nota dall'uso di una biro diversa), ha introdotto una frase che in seguito ha cancellato: «Ma in cosa consiste questo costo?». La questione del costo della confessione annuncia quelle del rischio inerente alla parrhesia e al coraggio della verità, sviluppate nei due ultimi corsi al Collège de France (M. FOUCAULT, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France, 1982-1983 , Gallimard-Seuil, Paris 2008 [trad. it. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983) , Feltrinelli, Milano 2009], e ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit.).

che lei mi costringe, riconosco di essere folle», constatazione piena di buon senso, poiché, sotto la doccia, la doccia fredda, si trovava in uno stato di totale costrizione. È invece la risposta del medico a essere completamente insensata, poiché ribatte: «Non mi basta; le impongo un'altra doccia affinché, in tutta libertà, lei riconosca di essere folle». Pretesa ben nota del potere che vuole costringere coloro che sottomette a essere liberi. E tuttavia, non può esistere confessione in senso stretto se non libera. Gli Inquisitori del Medioevo lo sapevano bene: perché le dichiarazioni estorte sotto tortura fossero confessioni, era necessario che venissero rinnovate dopo il supplizio. Perché mai è necessario presumere che la confessione, anche ottenuta sotto costrizione, sia libera perché assuma i suoi effetti morali, giuridici, terapeutici? La ragione è che la confessione non è semplicemente una constatazione a proposito di se stessi. È una sorta di impegno, ma un impegno del tutto particolare: non obbliga a fare una cosa o l'altra, ma implica che colui che parla s'impegni a essere quello che afferma di essere, e precisamente perché lo è. Esiste una ridondanza propria della confessione che emerge molto chiaramente quando si confessa a qualcuno di amarlo. Se si trattasse semplicemente di constatare uno stato di fatto, il «ti amo» sarebbe un'affermazione pura e semplice. Se si trattasse di impegnarsi ad amare, sarebbe una promessa o un giuramento, che potrebbe essere sincero o meno, ma né vero né falso. Quando invece la frase «ti amo» funge da confessione, è perché si passa dal regime del non-dire a quello del dire costituendosi volontariamente come innamorati grazie all'affermazione che si ama. Colui che confessa un crimine s'impegna in qualche modo a essere l'autore del crimine; voglio dire che non solo ne accetta la responsabilità, ma fonda questa accettazione sul fatto di averlo appunto commesso. Nella confessione, colui che parla si obbliga a essere quel che dice di essere, si obbliga a essere colui che ha fatto la tal cosa, che prova il tale sentimento: e vi si obbliga perché è vero. Il malato di Leuret s'impegna a essere folle. A non rivendicare di [illeggibile]. 3) Ma questo non è ancora sufficiente per caratterizzare la confessione. Quando il malato di Leuret finisce per dire: «Ebbene sì, sono folle»,

cede. Dice quel che non aveva voluto dire; ma, in questo modo, offre il fianco al potere che il medico intendeva esercitare su di lui: lo accetta, si sottomette. È peraltro proprio ciò che comprende e cerca il medico, che ne approfitta per dire subito: «Dunque, mi obbedirà». Non esiste confessione in senso stretto se non all'interno di una relazione di potere alla quale la confessione dà modo di esercitarsi su colui che confessa. Le cose sono evidenti quando le relazioni di potere sono definite istituzionalmente: come nel caso della confessione giudiziaria, o della confessione della Chiesa cattolica. Ma accade lo stesso anche all'interno di relazioni molto più indeterminate e molto più fluttuanti: perché la dichiarazione «ti amo» sia una confessione, è necessario che l'altro possa accettare, rifiutare, scoppiare a ridere, dare un ceffone, oppure dire «ne parlerò a mio marito». In breve, la confessione suscita o rinforza una relazione di potere che si esercita su colui che confessa. È questa la ragione per cui non esiste confessione se non «a un certo costo». 4) Infine, c'è una caratteristica della confessione che probabilmente è la più singolare e difficile da delimitare. Quando Leuret fa confessare al suo malato «io sono folle», di certo non presume che questi cesserà di essere folle solo per questo; al contrario, vuole costringerlo ad accettare lo statuto di folle. E tuttavia ritiene che il solo fatto di dire questo modificherà il rapporto del malato con la sua follia, con la sua maniera di essere folle, dunque con la sua malattia. Allo stesso modo, se il criminale che confessa non è giudicato allo stesso modo di colui il cui crimine è stato stabilito in base a prove e testimonianze, è perché si ritiene che la confessione modifichi il rapporto che ha con il suo crimine. Confessare il proprio amore significa cominciare ad amare in un altro modo, se no è semplicemente informare l'altro dei sentimenti che si provano per lui. La confessione, legando il soggetto a quanto afferma, lo qualifica in modo diverso rispetto a ciò che dice: criminale, ma forse suscettibile di pentirsi; innamorato, ma dichiarato; malato, ma già sufficientemente cosciente e distaccato dalla propria malattia perché possa lavorare in prima persona alla propria guarigione.

Diciamo, in poche parole e per riassumere tutto quello che abbiamo detto, che la confessione è un atto verbale attraverso cui il soggetto fa un'affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso.

La confessione è dunque una figura abbastanza strana all'interno dei giochi di linguaggio. Eppure presenta un'estensione culturale, una fortuna istituzionale considerevole nella nostra società, sin dall'Antichità. È possibile trovarla su una stessa scala in altre società e in altre civiltà? Non saprei rispondere. Per poterlo stabilire, sarebbe necessaria un'indagine molto lunga. Ma se ci atteniamo alle «nostre» società – alle società cristiane occidentali –, mi sembra che si possa parlare, senza speculare troppo, di crescita imponente della confessione, non di crescita continua, ma per gradi e scarti, di colpo, con battute d'arresto e brusche accelerazioni. Questa crescita tende – ed è probabilmente uno dei tratti delle nostre società – a legare sempre di più l'individuo alla sua verità (voglio dire, all'obbligo di dire la verità su se stesso), a far funzionare questo dir vero nei suoi rapporti con gli altri, e a obbligarsi attraverso questa verità detta. Non intendo dire che l'individuo moderno cessi di essere legato alla volontà dell'altro che lo comanda, ma, sempre di più, questo legame s'intreccia e si lega al discorso di verità che il soggetto è indotto a tenere su se stesso. Vorrei indicare solo alcuni segni di tale estensione, tracciando un rapido abbozzo un po' presuntuoso. In primo luogo, estensione istituzionale – il numero di istituzioni che richiedono la confessione: la giustizia, la medicina, la psichiatria (relazioni personali. In secondo luogo, estensione intraistituzionale – esempi nel cristianesimo: la penitenza (non prima della confessione tariffata); successivamen-

te, dal XIII secolo, una volta all'anno; poi ogni mese, ogni otto giorni; in seguito l'esame di coscienza, la direzione di coscienza. In terzo luogo, estensione dell'ambito – confessione cristiana e direzione di coscienza (si dice di più, non si dice la stessa cosa, la grana non è la stessa). In quarto luogo, grandi fasi di confessione – crescita extraistituzionale: la nascita, quasi simultanea (secondo un sistema di riferimento ampio) del sacramento della penitenza, dell'Inquisizione e, nelle istituzioni giudiziarie, della procedura inquisitoria, ha segnato un altro grande passo in avanti delle forme di confessione. Si potrebbe citare, nel XVI-XVII secolo, lo sviluppo correlato della direzione di coscienza nei paesi cattolici, dei racconti di conversione nei paesi protestanti, e di tutta una nuova forma di letteratura in cui la confessione ha grande spazio. Non parliamo della confessione nel XIX-XX secolo*. Credo che ci sia qui un problema storico importante. Perché un simile accanimento nel richiedere, nel sollecitare questi discorsi di verità? A tale domanda, quando si tratta di discorsi scientifici, si ha l'abitudine di rispondere – o di cercare la risposta – nell'ambito di necessità economiche e sociali. La verità sarebbe indispensabile a certe tecnologie produttive. È la risposta giusta? Non lo so. Quando invece si tratta di quella strana verità che l'individuo deve produrre su se stesso, non sembra verosimile – comunque non evidente – che l'ambito sia quello. Credo che si debba di comprendere perché si è voluto così tanto legare l'individuo alla sua verità, attraverso la sua verità, e attraverso la sua enunciazione della propria verità. Sapere in che modo l'individuo in una società si trova legato e accetta di legarsi al potere che si esercita su di lui è un problema giuridico, politico, istituzionale e storico. Credo che sapere in che modo, in una società, l'individuo si lega alla propria verità sia anche un problema giuridico, ma soprattutto istituzionale, politico e storico. È questo il quadro storico entro il quale vorrei iscrivere l'indagine sulla confessione. * Nel manoscritto, gli ultimi quattro paragrafi hanno la forma di una serie di elenchi.

[Ma] c'è anche un aspetto più filosofico. In secondo luogo, [dunque], mi sembra anche che la confessione e la sua pratica pongano dei problemi filosofici, e che sia possibile considerarne lo studio nel quadro di un'iniziativa critica. Ecco quel che voglio dire. La confessione intrattiene con il problema della verità un rapporto strano. La confessione è uno strano modo di dir vero. In un certo senso, è sempre vera (se è falsa, non è una confessione). E le sue conseguenze sono completamente differenti – sia per il locutore sia per il ricevente – da quelle di un'asserzione come ad esempio: il cielo è blu. Essa costituisce una certa maniera di dire, un certo modo di veridizione. Sappiamo bene che, quando qualcuno enuncia qualcosa, bisogna distinguere enunciato ed enunciazione; allo stesso modo, quando qualcuno afferma una verità, si deve distinguere l'asserzione (vera o falsa) e l' atto di dir vero, la veridizione (il Wahrsagen, come direbbe Nietzsche). Se si dà il nome di filosofia critica a una filosofia che parta non dallo stupore per il fatto che ci sia dell'essere, ma dalla sorpresa per il fatto che ci sia della verità, si può allora vedere che esistono due forme di filosofia critica. Da una parte c'è quella che si domanda a quali condizioni possano esistere enunciati veri – condizioni formali o condizioni trascendentali. E dall'altra c'è quella che s'interroga sulle differenti forme del dir vero 5. Nel caso di una filosofia critica che s'interroga sulla veridizione, il problema non è di sapere a quali condizioni un enunciato sarà vero, ma quali sono i diversi giochi del vero e del falso che vengono instaurati e in quali forme. Nel caso di una filosofia critica delle veridizioni, il problema non è sapere in che modo un soggetto in generale possa conoscere un oggetto in generale. Il problema è piuttosto di sapere in che modo i soggetti sono effettivamente legati nelle e dalle forme di veridizione in cui sono implicati6. In questo caso, il problema non è di determinare gli accidenti stori5 Tale distinzione annuncia quella con cui Foucault apre la prima lezione del suo ultimo corso: la distinzione tra analisi delle strutture epistemologiche e analisi delle forme aleturgiche (cfr. FOUCAULT, Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., pp. 15-16). 6 Si tratta di una questione che attraversa i tre ultimi corsi al Collège de France (cfr. M. FOUCAULT, L'herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982 , Gallimard-Seuil, Paris 2001 [trad. it. L'ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003]; ID., Il governo di sé e

ci, le circostanze esterne, i meccanismi delle illusioni o delle ideologie, o ancora l'economia interna degli errori o delle fallacie logiche che hanno potuto produrre il falso. Il problema è di determinare come un modo di veridizione, un Wahrsagen, abbia potuto apparire nella storia e in quali condizioni. Se, dal punto di vista del vero, la storia non può rendere conto se non dell'esistenza o della scomparsa del falso, dal punto di vista della veridizione la storia può rendere conto dell'apparizione di un dir vero. Infine, voi capite che l'obiettivo di una filosofia critica delle veridizioni non è di costituire una «polizia generale» del vero, o di costituire una strumentazione* abbastanza generale per fissare le condizioni formali in base alle quali tali enunciati potranno essere veri. Si tratta piuttosto di definire nella loro pluralità i modi di veridizione, di ricercare le forme di obbligazione attraverso cui ciascuno dei modi vincoli il soggetto del dir vero, di specificare le aree a cui si applicano e gli ambiti di oggetti che fanno apparire, infine le relazioni, connessioni, interferenze che sono stabilite tra di essi. Diciamo, in una parola, che questa filosofia critica non riguarda un'economia generale del vero, ma piuttosto una politica storica, o una storia politica delle veridizioni. È in questo quadro generale che si situa – a titolo di prove, di frammenti, di tentativi più o meno abortiti – quanto ho cercato di fare in diversi ambiti. Non ho cercato di sapere se il discorso degli psichiatri, o quello dei medici, fosse vero, benché tale problema sia assolutamente legittimo; non ho neppure cercato di determinare a quale ideologia obbedisse il discorso dei criminologi, benché anche questo sia un problema interessante. Il problema che ho voluto porre era diverso: interrogarmi sulle ragioni e le forme dell'impresa di dir vero rispetto a cose come la follia, la malattia o il crimine. Si parla spesso del recente predominio della scienza o dell'uniformazione tecnica del mondo moderno. Diciamo che in questo caso si tratta della questione del «positivismo», nel senso comtiano del termine, e forse degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983) cit. e ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit.). * La parola «strumentazione» si legge con difficoltà. La proponiamo a titolo di ipotesi.

sarebbe meglio associare a questo tema il nome di Saint-Simon. Vorrei evocare, per situarvi le analisi che vi propongo, un contropositivismo che non è il contrario del positivismo, ma piuttosto il suo contrappunto. Sarebbe caratterizzato dallo stupore di fronte all'antichissima moltiplicazione e proliferazione del dir vero, la dispersione dei regimi di veridizione all'interno di società come le nostre.

Ma non dimentico che sono venuto qui su invito della Facoltà di Diritto e della Scuola di criminologia. Tutto questo è probabilmente molto lontano dalle riflessioni più precise che auspichereste. Credo tuttavia che fosse opportuno e onesto mostrare subito, anche attraverso queste proposizioni eccessivamente generali, i confini purtroppo assai ristretti dei miei discorsi. Non è come giurista che vengo qui. Ma, senza una specificità professionale ben precisa – non state troppo a chiedermi se sono storico o filosofo – vengo con un problema, o piuttosto con un fascio di questioni tenuto insieme, in modo più o meno maldestro, dalla domanda: qual è il posto e qual è il ruolo del Dir vero7 nella pratica giudiziaria? Non vi insegnerò nulla di nuovo dicendo che questa pratica, cui competono le funzioni, secondo i suoi regimi o le sue istanze, di dire la legge o di decidere della sua applicazione, di dirimere un litigio o di formulare una condanna, in breve questa istituzione che sembra lavorare nell'ordine del prescrittivo e del decisionale, consuma e fabbrica, utilizza e produce, suscita ed enuncia una quantità considerevole di «dir vero», di veridizioni differenti. Che si tratti delle procedure d'istruzione o delle motivazioni di un giudizio, del ricorso alle testimonianze o alle perizie, delle arringhe o delle dichiarazioni di colpevolezza, dell'interpretazione della legge o della considerazione dello stato dei costumi o di dati economici, la pratica giudiziaria accorda un posto rilevante al dir vero, e secondo forme notevolmente diverse. Ora, l'adeguamento tra queste diverse veridizioni è lungi dall'essere scontato. L'introduzione, ad esempio, della perizia psichiatrica 7 «Dir vero» compare con la maiuscola nel manoscritto originale.

negli affari penali ha comportato, a partire dal XIX secolo, una serie di problemi e difficoltà in cui il diritto di punire si è trovato implicato al punto che non solo le sue decisioni sono diventate difficili da prendere, ma che persino i suoi fondamenti e le giustificazioni ultime minacciano di sfuggirgli. Diciamo, senza alcuna aggressività: la verità non rende la vita facile al diritto, e soprattutto al diritto penale. È nel quadro di questo problema generale – dir vero e giudicare – che vorrei studiare il problema della confessione. Vorrei studiarlo a partire dal problema seguente, che potrei illustrare attraverso [due] * scene. Una nell'Iliade: si tratta della corsa dei carri. Uno dei due concorrenti commette un'irregolarità. Quando l'altro si lamenta, il giudice propone il giuramento purgatorio. Il colpevole preferisce non sottomettersi alla prova. Ha perso. Equivalente della confessione? Forse. Ma il fatto interessante è che non ha bisogno di confessare: tutto questo ne possiede gli effetti, senza averne la forma. E inoltre non rientra nella procedura in quanto tale [Mettiamo a confronto questa antica scena con quella svoltasi in un tribunale francese alcuni anni fa]**. Un uomo è accusato di cinque stupri. Il presidente domanda: – Ha cercato di riflettere sul suo caso? (Silenzio). – Perché, a ventidue anni, si scatenano in lei queste violenze? Quel che deve fare, è uno sforzo di analisi. È lei ad avere la chiave di se stesso. Mi spieghi. (Silenzio). Un giurato prende la parola: * Il manoscritto presenta il numero 2, cancellato e sostituito da 3. È stato aggiunto un foglietto – probabilmente un promemoria relativo a una terza scena possibile – sul quale Foucault ha annotato: «Scena della procedura inquisitoriale del XVII secolo: inchiesta; tortura; confessione (?); successivamente secondo interrogatorio per ottenere la confessione». ** Questa frase, che collega la scena dell' Iliade (che Foucault analizzerà nella lezione del 22 aprile 1981) e la scena contemporanea (che riprenderà nella lezione del 20 maggio 1981) è stata can cellata nel manoscritto – come suggerisce il foglietto menzionato sopra – probabilmente perché Foucault voleva evocare una scena della procedura inquisitoriale del XVII secolo (tema che riprenderà anche nella lezione del 20 maggio 1981).

– Ma insomma, si difenda!8.

Abbiamo qui una scena opposta a quella precedente. La confessione della colpa non basta. È necessario che l'accusato dica ciò che è. Ce n'è bisogno per giudicare della sua verità – della sua verità detta dagli esperti, e detta anche da lui stesso. Dunque, considerando un arco di tempo estremamente ampio, abbiamo non solo una crescita notevole del ruolo della confessione, ma anche molto di più: un'immensa mutazione che consente di passare da un giudizio penale che si basa su atti a una strana azione giudiziaria che ha come oggetto, come principio di razionalità e di misura, la verità manifestata dall'individuo nel suo insieme. Vorrei studiare appunto questa trasformazione: il problema del «chi si giudica» nell'istituzione penale. Ma non vorrei, per analizzare questo problema, attenermi al solo ambito delle istituzioni giudiziarie e delle pratiche penali. Vorrei riprendere un'ipotesi già annunciata. È ovvio che, per rendere intelligibile la sua storia, è necessario ricollocare la pratica penale in un contesto più ampio. Ma è anche necessario riflettere sul contesto nel quale la si inserirà. Dobbiamo fare riferimento alla società, ai processi sociali, alla questione delle determinazioni economiche? Sì, forse. Ma, oltre a essere troppo facile, una simile analisi rischia di essere sterile o di portare a considerazioni globali, [alla maniera di Kirchheime (perché la punizione del carcere? Ri8 Lo stesso dialogo è riportato da Foucault in apertura del testo seguente: M. FOUCAULT, L'évolution de la notion d'«individu dangereux» dans la psychiatrie légale du XIX e siècle, in ID., Dits et écrits cit., vol. III, n. 220, p. 443. Il testo, pubblicato una prima volta in inglese con il ti tolo About the Concept of the “Dangerous individual” in 19 th Century Legal Psychiatry, in «Journal of Law and Psychiatry», I (1978), pp. 1-18, è stato tradotto in francese e pubblicato nella rivista «Déviance et Société» (V [1981], n. 4, pp. 403-422), del cui comitato editoriale faceva parte un membro della Scuola di criminologia di Lovanio [trad. it. L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo, in ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. III: 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 43]. Esso è entrato a far parte di un dibattito sulla pericolosità, accanto a contributi di T.W. HARDING, Le dompteur face à la dangerosité, ivi, pp. 369-370, di S.A. SHAH, Dangerosité: quelques considérations sur les plans légal, politique et de la santé mentale, ivi, pp. 371-382, e di J. DOZOIS, M. LALONDE e J. POUPART, La dangerosité: un dilemme sans issue? Réflextion à partir d'une recherche en cours, ivi, pp. 383-398.

sposta: schiavitù capitalista)9. Mi sembra che possa essere interessante ricollocare inizialmente queste pratiche penali, come centro di un primo cerchio di intelligibilità, nell'ambito delle tecniche di governo. Governo inteso in senso ampio: maniera di formare, di trasformare e di dirigere la condotta degli individui. Forse si potrebbe ammettere che esistano tre grandi tipi di tecnologie: tecniche di produzione degli oggetti, tecniche di comunicazione mediante cui gli individui comunicano tra loro, e tecniche di governo attraverso cui gli individui agiscono gli uni sulle condotte degli altri per raggiungere certi fini o certi obiettivi10. Queste tre tecniche non sono mai indipendenti le une dalle altre: non esiste produzione senza forma di comunicazione e senza dominio e condotta della condotta. Non esiste tecnica di comunicazione allo stato puro; non ci sono tecniche di governo che non mettano in opera un sistema di comunicazione, e spesso per produrre qualcosa. L'economico, il semiotico, lo strategico sono perpetuamente legati. Ma per rendere intelligibile una pratica e la sua trasformazione, questi tre insiemi tecnologici non hanno la stessa efficacia; o, in ogni caso, la stessa immediatezza. E, per evitare ogni imprudenza, mi sembra che la pratica penale si chiarisca nella sua organizzazione e nelle sue trasformazioni se si comincia con il ricollocarla all'interno delle tecnologie di governo. Mi è sembrato ad esempio che l'insieme costituito dal sistema penitenziario e dalla pratica penale potesse essere chiarito accostandolo alle tecniche e alle procedure disciplinari che vediamo svilupparsi nelle società europee dal XVII al XIX secolo. Allo stesso modo, mi è sembrato che questo sviluppo della confessione all'interno della pratica penale potesse essere avvicinato alle procedure che possiamo trovare altrove – nelle pratiche religiose, nelle pratiche mediche, ad esempio – e che tendono a legare l'individuo all'enunciazione della sua verità. 9 Foucault fa riferimento a quello che, in ID., Surveilleur et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 29 [trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione , Einaudi, Torino 1976, p. 27], chiamava «l'importante testo di Rusche e Kirchheimer». Cfr. G. RUSCHE e O. KIRCHHEIMER, Punishment and Social Structure, Columbia University Press, New York 1939 [trad. it. Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1984]. 10 Questo punto è sviluppato in FOUCAULT, Soggettività e verità cit., pp. 36-37.

Partire dalla questione seguente: il governo per mezzo della verità. Vorrei ricollocare l'analisi dello sviluppo della confessione penale nella storia più generale di quelle che potremmo chiamare le «tecnologie del soggetto» – voglio dire le tecniche attraverso cui l'individuo è condotto, o da solo o con l'aiuto e sotto la direzione di un altro, a trasformare se stesso e a modificare il suo rapporto con sé. Insomma, le analisi che sto per cominciare hanno per oggetto lo studio della confessione nella pratica penale, nella misura in cui essa integra regimi di veridizione e tecnologie del soggetto.

Lezione del 22 aprile 1981

Un'etnologia politica e istituzionale della parola vera. – Dir vero, dir giusto. – Limiti dello studio. – Veridizione e giurisdizione nell'« Iliade» di Omero. – La lotta tra Menelao e Antiloco. – Oggetto della confessione di Antiloco. – Giustizia e «agon»: «agon» e verità. – La corsa e la sfida del giuramento, due liturgie del vero, due meccanismi destinati a rappresentare con esattezza la verità delle forze. – Un rituale di commemorazione. – Veridizione e giurisdizione in «Le opere e i giorni» di Esiodo. - Il «dikazein» e il «krinein». – Il giuramento dei contendenti e dei cogiuranti nel «dikazein»: un gioco a due, il cui criterio è il peso sociale degli avversari. – Il giuramento del giudice nel «krinein»: un gioco a tre, il cui criterio è il «dikaion». – Dal peso sociale degli avversari alla «realtà delle cose»: « dikaion» e «alethes». […]* Per la serie di lezioni che comincio dunque oggi – o meglio, che avevo avviato la volta scorsa, ma nell'ambito di un'introduzione generale –, per la serie di lezioni che vorrei tenere, mi sarebbe piaciuto porre in * Il corso comincia con una frase di cui si sentono solo le ultime parole, seguite da una serie di puntualizzazioni: «... vale a dire qualcosa di un po' austero, di abbastanza noioso, doveva seguire un po' l'andamento della spiegazione di un testo. Dunque, mi sento un po' a disagio nel dover parlare davanti a un pubblico così numeroso. Infatti, come sapete, gli effetti spaziali sono importanti per la parola che si cerca di ottenere, e ci sono cose un po' minuziose che è difficile dire in piedi, con dei microfoni, con uno spotlight e un uditorio così solenne. Allora non so bene come fare, forse, se volete, a un certo punto cambierò un po' la disposizione e cercheremo di parlare in modo meno disteso, o almeno io cercherò di parlare in modo meno disteso. Bene».

esergo un testo che ho trovato in George Dumézil, all'interno di un'opera intitolata Servius et la fortune. Il testo è il seguente: Per quanto si risalga indietro nel comportamento della nostra specie, la parola vera è una forza alla quale poche forze sono in grado di resistere. La verità è ben presto apparsa agli uomini come una delle armi verbali più efficaci, uno dei germi di potenza più prolifici, uno dei fondamenti più solidi delle loro istituzioni1.

Mi sembra che questo testo sia un'introduzione a un tempo breve ed eccellente – non solamente breve, ma eccellente – a quella che si potrebbe definire, con una certa solennità, un'etnologia politica e istituzionale del dir vero, della parola vera. Voglio dire questo: certo, è assolutamente possibile, assolutamente legittimo, assolutamente auspicabile studiare il dir vero, studiare le asserzioni dal punto di vista delle condizioni formali o empiriche che permettono di dire se siano vere o false. Ma io credo che si possa anche studiare il vero secondo una modalità in un certo senso etnologica, intendo il dir vero come pratica sociale – studiarlo come arma nelle relazioni tra individui, studiarlo come modificatore di potenza tra coloro che parlano, e infine come elemento all'interno di una struttura istituzionale. Si tratterebbe insomma di studiare il dir vero, direi anche la veridizione, al tempo stesso nelle relazioni umane, nelle relazioni interumane, nei rapporti di potere e nei meccanismi istituzionali. Più precisamente, il mio progetto, in questa serie di lezioni, sarebbe quello di studiare i rapporti tra ciò che Georges Dumézil chiamava, dunque, la parola vera – i rapporti tra la veridizione e quell'altra parola che potremmo chiamare la parola di giustizia e che consiste insomma nel dire ciò che è giusto e ciò che bisogna fare perché la giustizia sia instaurata e ristabilita. Parola di verità e parola di giustizia, veridizione e giurisdizione: credo che siano le due for1 G. DUMÉZIL, Servius et la fortune. Essai sur la fonction sociale de louange et de blâme et sur les éléments indo-européens du cens romain , Gallimard, Paris 1943, pp. 243-244. Foucault si riferisce a questo passo di Dumézil anche in Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France, 1970-1971, Gallimard-Seuil, Paris 2011, p. 82.

me fondamentali dell'attività di parlare, due forme fondamentali i cui rapporti sono stati sicuramente uno tra i problemi più difficili, più enigmatici che la specie umana e le società umane abbiano dovuto affrontare. In che modo dir vero e insieme dir giusto; in che modo la parola di verità può essere il fondamento della parola di giustizia; in che cosa, in quale misura la parola di giustizia, la giurisdizione ha bisogno di veridizione: penso che si tratti di uno dei problemi più grandi che abbiano attraversato l'intera storia delle nostre società. È dunque all'interno di questo quadro che vorrei situare i discorsi che intendo tenere: rapporti tra la giurisdizione e la veridizione. Ed evidentemente, voglio limitare questo campo molto generale, e limitarlo in quattro modi. In primo luogo, farò solo, a proposito della giurisdizione e della veridizione, un'analisi strettamente storica. Non voglio dire, è chiaro, che i problemi generali e formali dei rapporti tra veridizione e giurisdizione siano senza importanza o senza interesse – è certo che i rapporti tra dir vero e dir giusto meritano di essere studiati in se stessi. Ma mi limito a un problema storico e culturale: vorrei cercare di vedere come sono state legate, in diversi momenti della storia e in forme diverse dell'istituzione giudiziaria, l'attività del dir vero e l'attività del dir giusto, l'attività di veridizione e l'attività di giurisdizione. In secondo luogo, a questa prima limitazione ne aggiungerei una seconda: mi occuperò soltanto del problema della penalità. Certamente, i problemi di giurisdizione e di veridizione meriterebbero di essere trattati a proposito, ad esempio, del diritto civile. È evidente. Mi accontenterò di considerare il problema della penalità per ragioni di semplicità, e anche perché mi sembra che le correlazioni tra l'istituzione giudiziaria e le altre pratiche sociali emergano in questo caso con molta più chiarezza. Parlerò dunque del problema giurisdizione e veridizione a proposito della questione specifica del «mal fare» nelle istituzioni giudiziarie. Come terza limitazione, applicherò la questione dei rapporti tra giurisdizione e veridizione esclusivamente al problema della confessione – ancora una volta, non perché la confessione sia il solo modo di mettere in

relazione veridizione e giurisdizione. Anche il problema della testimonianza, ad esempio, o quello dell'inchiesta, sono problemi attraverso i quali si potrebbe vedere il legame tra veridizione e giurisdizione. Ho scelto la confessione per ragioni che ho ricordato l'ultima volta in cui ci siamo incontrati2. Poiché la confessione, io credo, è un elemento di procedura molto particolare nel nostro sistema penale, molto complesso, molto difficile, mi sembra che la questione della confessione ponga tutta una serie di problemi di diritto assai generali. E anche perché la confessione è una pratica che si ritrova al di fuori del diritto – pratica morale, pratica religiosa – ed è senza dubbio interessante vedere le interferenze tra ciascuna di queste pratiche della confessione. Infine, la quarta limitazione – e con questo arriverò al tema della lezione di oggi – consiste nel fatto che sarebbe interessante poter rintracciare la storia della confessione come forma di legame e di rapporto tra veridizione e giurisdizione nella pratica penale dalle origini sino a oggi. È ovvio che non è possibile seguire questo percorso in modo esauriente in sei lezioni. Sceglierò dunque semplicemente tre momenti che mi sembrano importanti, tre ambiti, e cercherò di chiarirli in successione, restando intesi che non sono un giurista, e non sono neppure uno storico del diritto. Prenderò dunque in considerazione tre ambiti. In primo luogo, l'ambito greco – l'ambito del cosiddetto pre-diritto greco 3, l'ambito del diritto greco –, perché mi sembra che in quel momento vediamo stabilirsi, in forme arcaiche, un certo modo di connessione molto diverso dal nostro tra il vero e il giusto, tra ciò che i Greci chiamavano alethes e ciò che chiamavano dikaion. E mi sembra che, attraverso la struttura agonistica del pre-diritto greco, attraverso la pratica del giuramento e il lento emergere del potere giudiziario, sia possibile vedere in che modo si siano organizzati in Grecia i rapporti tra la veridizione e la giurisdizione, e in che modo il 2 Cfr. Conferenza inaugurale, supra […]. 3 Come segnala Daniel Defert (in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 78, nota 4), il contesto di pre-diritto greco rinvia a L. GERNET, Droit et prédroit in Grèce ancienne, in «L'Année sociologique», 3a serie, 1948-1949, Paris 1951, pp. 21-119; ripreso in ID., Anthropologie de la Grèce antique, Maspero, Paris 1968, pp. 175-260, e in ID., Droit et Institutions en Grèce antique, Flammarion, Paris 1982, pp. 7-11.

problema della confessione vi sia emerso con un'intensità particolare. Dedicherò a questo ambito greco due lezioni: quella di oggi, che sarà incentrata sul problema della lotta, del vero e del giusto – agon, alethes, dikaion – e quella della prossima volta, che sarà incentrata, ovviamente, sul problema di Edipo e del sapere del tiranno. Le due lezioni successive verteranno sull'ambito medievale e cristiano: cercherò di mostrarvi in che modo il diritto medievale ha fatto posto a una concezione del soggetto che era stata elaborata nella pastorale cristiana, e come ha legato a questa concezione del soggetto elaborata dalla pastorale cristiana una certa pratica dell'inchiesta che era connessa allo sviluppo del potere ecclesiastico e del potere regale. Queste due lezioni successive, pertanto, verteranno sul problema: confessione, ammissione, inchiesta. Infine, le ultime due riguarderanno l'ambito moderno e contemporaneo, e saranno incentrate essenzialmente sui problemi della confessione, dell'esame e della perizia. Dunque, prima lezione sul diritto greco – più esattamente sul pre-diritto greco e sul modo in cui, in tutte le prime manifestazioni di questo pre-diritto greco, vediamo collegarsi il problema della lotta, della verità e della giustizia o, ancor più esattamente, della lotta, del vero e del giusto. C'è un testo che è il primo grande testo che testimoni l'esistenza e la pratica di qualcosa che somiglia abbastanza alla confessione giudiziaria. Questo testo si trova in Omore: si può dire che rappresenti la prima emergenza, la prima apparizione di una sorta di confessione giudiziaria o di qualcosa di analogo alla confessione giudiziaria, proprio in un testo di Omero. Siamo nel libro XXIII, all'interno di un lunghissimo passo che va dal verso 257 al verso 650, dove vediamo, nel corso di una scena molto complicata, molto ricca, tutto un gioco di rapporti di forza, manifestazione della verità e regolazione di un litigio4. Questo testo, nel libro 4 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 257-650. Foucault utilizza il testo stabilito e tradotto da P. Mazon, Les Belles Lettres, Paris 1938, vol. IV, pp. 108-123. Foucault aveva presentato una prima versione di questa analisi in Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 72 sgg., e in una conferenza tenuta all'Università Pontificia Cattolica di Rio de Janeiro nel maggio 1973, dal titolo La vérité et les formes juridiques (in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 139, pp. 555-556 [trad. it. La verità e le forme giuridiche, in ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. II: 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 99-100]). Vi presenta questo episodio dell'Iliade come «una specie di gioco di prova, una sorta di sfida lanciata da un avversario a un al-

XXIII, fa parte del racconto dei giochi che sono organizzati e condotti da Achille per onorare la memoria di Patroclo. In questi giochi, e come prima prova di questi giochi organizzati da Achille, c'è una corsa di carri. Alla corsa di carri partecipa un certo numero di concorrenti. Nomino questi concorrenti in ordine di dignità, di preminenza, di statuto – e vedrete che sono aspetti molto importanti in tutta questa storia. C'è Diomede, figlio di Tideo; c'è Eumelo, figlio di Admeto; c'è Menelao, c'è Antiloco, figlio di Nestore, e c'è qualcuno la cui importanza, come vedrete, è abbastanza irrilevante, e che si chiama Merione5. Tra tutti questi concorrenti troviamo dunque, in quarta posizione, Antiloco. Ora, questo Antiloco è posto sin dall'inizio in una luce molto particolare. Antiloco è il figlio di Nestore e, dopo che Achille ha annunciato che si sarebbe svolta una corsa di carri e che chi intende parteciparvi non deve fare altro che alzarsi in piedi, ecco che si alza dopo i primi tre, per manifestare la propria intenzione di partecipare alla corsa. E in quel momento, suo padre, il saggio Nestore, gli si avvicina e gli dice: «Tu sai benissimo che i tuoi cavalli sono lenti, più lenti di quelli degli altri, e che di conseguenza ti andrà male nella corsa che sta per cominciare. Ma – aggiunge Nestore – anche se i tuoi cavalli sono lenti, esistono mezzi, esistono idee, idee grazie alle quali non sempre la forza ha il sopravvento. Ad esempio un boscaiolo, quando ha delle idee, può portare perfettamente a termine più lavoro anche di un boscaiolo dotato di maggior vigore. Allo stesso modo, un pilota non ha bisogno semplicemente di vigore e di forza, ha bisogno di avere idee. Ebbene, allo stesso modo, benché i tuoi cavalli siano più lenti di quelli degli altri, forse potrai vincere se hai delle idee, se impari qualcosa, e questo qualcosa che tu non conosci, io te lo insegnerò»6. E Nestore, allora, gli spiega quella che peraltro sembra una tecnica relativamente semplice, ovviamente per coloro che sanno condurre dei carri: in che modo si deve girare attorno a un cippo. Nella corsa, infatti, tro» [trad. it cit., p. 99]. 5 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 287-305 e 351-352. 6 Ivi, vv. 306-350.

c'è andata e ritorno ed è necessario che tutti i carri girino attorno a un cippo. Nestore insegna dunque ad Antiloco che, quando arriverà all'altezza del cippo, dovrà piegarsi*, trattenere il cavallo che è all'interno e spronare, al contrario, il cavallo che si trova all'esterno, sfiorando il cippo senza ovviamente toccarlo, perché altrimenti fracasserebbe il carro. Ed è così che il rapporto di forza stabilito alla partenza potrà essere corretto, modificato, rovesciato. La corsa, a quel punto, può dunque cominciare, e si svolge. Ora, se la corsa si svolge tra irregolarità pressoché continue, si tratta di irregolarità che vengono innanzitutto dagli dèi. Diomede infatti, che è il più forte di tutti, comincia la corsa in testa, e sarebbe rimasto in testa per tutto il tempo se Apollo, che gli è nemico, non gli avesse teso una trappola, facendogli cadere la frusta, per cui Diomede, che non può spronare i suoi cavalli, si trova in difficoltà. In quel momento Atena, vedendo che Apollo ha teso una trappola a Diomede, che lei invece protegge, infierisce su Eumelo – protetto da Apollo – e credetemi, lo butta direttamente a terra, così che Eumelo è ferito, il carro parzialmente rotto, e nel frattempo Atena procura un'altra sferza a Diomede, che può così continuare la corsa. La gara è quindi interamente condizionata dagli dèi. Ma, sotto un altro aspetto, c'è un'astuzia umana, un'astuzia umana che è precisamente quella di Antiloco. Ora, il fatto interessante è che Antiloco non applica la ricetta che il saggio Nestore gli ha proposto. Antiloco fa un'altra cosa, che sarà appunto oggetto della contestazione e a proposito della quale dovrà istituirsi, stabilirsi una procedura giudiziaria che dovremo studiare da vicino. Che cosa fa Antiloco per suscitare tutti i problemi che seguiranno? Ebbene, ecco: Antiloco era dietro a Menelao, perché Menelao era più forte di lui e quindi andava più veloce. Antiloco si china sui suoi cavalli e dice: «Sarà bene che vi sbrighiate un po' e corriate più veloci, perché è certo che, se non riportate un premio, mio padre Nestore vi farà fare una * Foucault pone una domanda, alla quale il pubblico si mette a ridere: «Dovrà piegarsi verso l'interno – sì, credo che sia verso l'interno, in realtà non lo so, forse voi lo sapete – insomma, per farla breve, dovrà piegarsi – no, deve piegarsi verso l'esterno, vero? In ogni caso, deve piegarsi».

brutta fine e, alla conclusione della corsa, vi sacrificherà» 7. Non appena i cavalli odono queste parole, fanno un balzo e raggiungono Menelao. E i due carri sono perfettamente allineati – perdonatemi se entro in tutti questi dettagli, ma vedrete che sono importanti. Ed ecco i due carri esattamente fianco a fianco. Ora, si trovano l'uno accanto all'altro proprio nel momento in cui il percorso si restringe, per cui uno solo dei due carri può passare, e non due affiancati. In quel momento Menelao dice, anzi grida ad Antiloco: «Fa' attenzione, non potremo passare tutti e due, lasciami dunque passare, mi raggiungerai in seguito, se ci riesci» 8. Antiloco risponde: «Niente affatto. Io tengo ben saldo il mio carro» 9. Tiene la velocità con il suo carro, tanto che sta per accadere un incidente quando Menelao, per evitarlo, rallenta e lascia passare Antiloco. La corsa allora continua, da quel momento in poi in modo regolare. Diomede, che ha recuperato il primo posto grazie all'intervento di Atena, vince la gara. Antiloco, che non ha lasciato passare Menelao, arriva secondo, Menelao terzo. Merione, che non ha un ruolo particolarmente importante, arriva quarto. E lo sventurato Eumelo, che è stato gettato a terra da Atena ed è ferito, con il carro tutto ammaccato e sfasciato, arriva miseramente ultimo. A questo punto, si può procedere all'assegnazione dei premi. Il premio va, beninteso, senza problemi a Diomede, o piuttosto Diomede si appropria del premio avendone il diritto. Ed ecco che, in quel momento, interviene Achille e dice: «Bene Diomede, hai vinto, conquisti il premio, ma il secondo premio lo darò a Eumelo, Eumelo che è stato abbattuto da Atena, che è arrivato ultimo, ma che pure merita il secondo premio perché è molto forte, è perfino il migliore – o aristos – e, a questo titolo, ha diritto al secondo premio»10.

7 Ibid., vv. 403-416 (vv. 410-413: «Adesso vi dico quello che deve compiersi: | non avrete più presso Nestore, capo d'eserciti, | cibo, vi ucciderà anzi col bronzo acuto, | se per vostra ignavia avremo un premio degli ultimi» [trad. it. Iliade, Einaudi, Torino 2012, p. 691]). 8 Ibid., vv. 426-428 [trad. it. cit., pp. 691-693]. 9 Dialogo aggiunto da Foucault. Cfr. vv. 429-431: «Così disse, ma Antiloco incalzava sempre | di più, incitando i cavalli come se non avesse sentito» [trad. it. cit., p. 693]. 10 Ibid., vv. 536-538.

Contro l'assegnazione del secondo premio, Antiloco insorge dicendo: «Sono io, a essere arrivato secondo! Che Eumelo sia stato in effetti gettato in terra da Atena, è una questione tra lui e gli dèi, non doveva far altro che pregare gli dèi e mettersi d'accordo con loro, e sarebbe arrivato al posto che gli spettava! Ma non l'ha fatto, dunque sono io che devo avere il secondo premio. E se tu, Achille, gli vuoi tanto bene da potergli dare qualcosa, e se effettivamente merita qualcosa perché è un bravo auriga, bisogna dargli un premio supplementare, ma non il secondo» 11. Argomento che Achille trova perfettamente giusto e legittimo, per cui accetta di dare a Eumelo un premio supplementare, una corazza, e di attribuire il secondo premio, di conseguenza, ad Antiloco, che di fatto è arrivato appunto secondo. È a questo punto che Menelao si alza e insorge a sua volta dicendo, rivolto ad Antiloco, quanto segue: «Antiloco, tu che sei stato saggio finora, che cos'hai fatto? Hai offuscato il mio valore, hai fatto torto ai miei cavalli gettando davanti a essi i tuoi, che erano molto inferiori ( oi toi poly cheirones esan)»12. E, a tal titolo, Menelao rivendica il premio, il secondo premio. Non vuole, tuttavia, che si dica di lui che ha portato via questo secondo premio facendo violenza ad Antiloco, che ha imposto la propria vittoria servendosi di menzogne: vuole che la verità della sua vittoria sia riconosciuta senza violenza e secondo verità. Propone allora che siano i capi, le guide degli Argivi, a decidere chi, tra lui e Antiloco, debba avere il secondo premio. Subito dopo averlo proposto, si ricrede e dice: «No, alla fine sarò io stesso a emettere il giudizio ( egon autos dikaso)»13. E la traduzione francese – per lo meno quella di cui dispongo – dice: «La mia sentenza sarà giusta»14: sentenza, dike, giusta, itheia. Dike non può essere tradotto, chiaramente, con «sentenza», perché è del tutto evidente che Menelao non pronuncia una sentenza. In realtà, propone un sistema di regolazione: la dike che propone non è la giustizia, non è la sentenza 11 Ibid., vv. 543-554. 12 Ibid., vv. 570-575. 13 Ibid., vv. 577-580. 14 Ibid., v. 580.

giusta: è la giusta regolazione del litigio, del conflitto che lo oppone ad Antiloco. E come si svolgerà, in che cosa consiste la giusta regolazione del conflitto tra lui e Antiloco? Egli propone ad Antiloco di porsi nella situazione rituale del giuramento, in piedi, alla testa dei suoi cavalli, tenendo nella mano destra la sferza, la cui estremità toccherà la testa dei cavalli e, in questa posizione, di giurare che lui, Antiloco, non ha volontariamente e con astuzia intralciato il carro di Menelao15. Ecco cos'è la dike, qual è la forma di regolazione che Menelao propone ad Antiloco. Ed è a essa che Antiloco risponde dicendo non «confesso», e nemmeno «non voglio giurare», ma semplicemente: «Sì, tu Menelao sei il più vecchio e sei il migliore (proteros kai areion)16. Io sono il più giovane e la giovinezza è soggetta all'errore; dunque, io riconsegno a te, Menelao, il premio che pure era mio. «Prendi questo secondo premio» – si tratta di una cavalla – «e sei vuoi anche più del premio che Achille mi ha donato, sono disposto a dartelo. E sono disposto a dartelo perché non voglio che tu, Menelao, smetta di volermi bene, non voglio caderti dal cuore, e non voglio neppure essere colpevole nei confronti degli dèi»17. Al che Menelao dà una risposta che è quella della magnanimità – gli dice: «Ora che hai rinunciato al giuramento e di conseguenza hai riconosciuto, io rinuncerò al premio contestato. Lo lascio a te, Antiloco, perché tu, Antiloco, di solito sei saggio, perché so bene che se hai fatto quel che hai fatto è perché sei stato vinto dalla tua stessa giovinezza, e perché ti sei battuto contro i Troiani per me, Menelao – tu, tuo padre, tuo fratello, tutti voi vi siete battuti per me. E, a causa di questo, io rinuncio al premio, ma d'ora in poi non pensare più di ingannare chi è migliore e più forte di te»18. E pertanto il secondo premio ritorna ad Antiloco, dopo il premio supplementare dato a Eumelo. Menelao avrà dunque il terzo pre-

15 Ibid., vv. 580-585. 16 Ibid., vv. 587-588. 17 Ibid., vv. 557-595. 18 Ibid., vv. 602-611.

mio, e il quarto sarà attribuito a Merione. Quanto al quinto, che resta, vedremo cosa diventerà, perché chiarisce un aspetto di questa storia. Perdonatemi se sono stato lento, meticoloso, se ho raccontato questa storia che forse molti di voi conoscono già. Di fatto, è una scena molto complessa, sul significato e sulla struttura della quale credo ci si debba interrogare. Prima domanda: è giusto e legittimo far intervenire questa scena, citarla, convocarla, in una storia della pratica giudiziaria? Abbiamo a che fare proprio con una scena giudiziaria? Non si tratta semplicemente di una contestazione tra due atleti che si battevano durante i giochi? Non si tratta semplicemente di un episodio che riguarda solo i giochi? Non dobbiamo forse cercare la vera scena giudiziaria in un altro passo di Omero, il celebre passo del libro XVIII nel quale descrive lo scudo di Achille, e in cui si vede una scena di cui parleremo ben presto, e che è una scena giudiziaria, con due persone che si battono per la regolazione del prezzo del sangue, che sono circondate da cogiuranti e si presentano, in mezzo alla folla, davanti a giudici che devono pronunciare la loro sentenza19? Forse è questa la vera scena giudiziaria, e non l'altra che, dopotutto, è solo un litigio tra due atleti che miravano, che aspiravano entrambi allo stesso premio. In realtà, io credo che anche questa scena sia, in tutto e per tutto, una scena giudiziaria. È una scena giudiziaria perché, in primo luogo, tutte le decisioni prese da Achille per assegnare il premio supplementare a Eumelo, per accettare la sfida di Menelao, sono state prese con il parere e l'accordo dei guerrieri lì presenti e ai quali si chiedeva se, effettivamente, le cose potessero e dovessero andare appunto in quel modo. Ogni volta che Achille vuole modificare qualcosa rispetto ai risultati apparenti della corsa, fa appello all'opinione dei guerrieri20. D'altra parte, il vocabolario uti19 OMERO, Iliade, XVIII, vv. 468-617 (descrizione dello scudo di Achille); cfr. L. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne, Recueil Sirey, Paris 1955, p. 62 («La nostra più antica testimonianza [di regolazione giudiziaria] è un testo omerico ( Il., XVIII, v. 497 sgg.), la famosa “scena giudiziaria” dello Scudo di Achille in cui vediamo due avversari, uno dei quali pretende di aver versato il prezzo del sangue, mentre l'altro sostiene che non è stato pagato»). Questa scena è commentata in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 76-78. 20 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 534-539. Cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 16: nel suo capitolo Jeux et Droit (Remarques sur le XXIIIe chant de l'Iliade), Gernet

lizzato in questo testo omerico e i gesti indicati da questo vocabolario sono sempre nettamente giuridici. Quando consideriamo ciò che ciascuno dei concorrenti fa nel momento in cui va a ritirare il premio o a rivendicare il premio, ritroviamo gesti, gesti che saranno, nei documenti più tardi, assolutamente caratteristici delle pratiche con cui si marca l'appropriazione di qualcosa21. Dietro questa scena e i gesti che i diversi concorrenti fanno per entrare in possesso del loro premio, si pone la questione di quale sia lo statuto giuridico dei premi che vengono assegnati in questo modo. A chi appartengono? Sono forse dei donatori fino al momento in cui qualcuno se ne appropria – quando [il premio] è attribuito a colui che vince? Oppure li si deve considerare come res nullius che si trova là, in mezzo al campo, di cui qualcuno si approprierà in funzione della vittoria? Qual è il titolo di proprietà, qual è la legittimità dell'appropriazione che la vittoria conferisce? Insomma, esiste di fatto tutta una serie di questioni giuridiche molto precise e molto complesse che attraversa la scena di Omero e che è possibile individuare attraverso i gesti compiuti e le parole impiegate22. E poi, soprattutto, la prova più efficace del fatto che abbiamo a che fare non con una scena di gara atletica, ma con una vera e propria scena giudiziaria, è che il giuramento richiesto da Menelao ha una forma rituale, una forma giuridico-religiosa molto rigorosa. Bisogna che Antiloco stia in piedi, che tenga la sferza in mano, che la sferza tocchi la testa dei cavalli. E d'altronde, nel momento in cui presenta ad Antiloco la formula del giuramento e gli dice «fai questo e quello», Menelao precisa bene che, da una parte, propone la sua dike, vale a dire la forma di regolazione giupropone degli sviluppi a proposito di quella «specie di diritto virtuale del gruppo» che si realizza in modo molto specifico nel momento in cui, spiega, «Achille ha proposto di concedere il secondo premio ad Eumelo [e] c'è la ratifica da parte degli spettatori». 21 Ibid., pp. 11-14. 22 Ibid., pp. 9, 11-12 e 13-14. Foucault allude alla discussione riportata da Gernet nel capitolo Jeux et Droit (Remarques sur le XXIIIe chant de l'Iliade), capitolo in cui quest'ultimo sviluppa la sua ultima tesi sull'utilizzo del vocabolario giuridico in Virgilio e in Omero per descrivere scene di gioco, lo statuto dei premi e la contestazione dei premi. Gernet sostiene, ad esempio: «Res nullius, i premi lo sono per eccellenza, e di proposito deliberato: […] I premi, seguendo l'espressione di Achille (v. 273) “attendono” i concorrenti, sono alla mercé di coloro che li sapranno conquistare» (ibid., p. 13).

diziaria che ha scelto e, dall'altra, che tutte queste forme, tutti questi rituali sono, come lui dice, conformi alla themis, cioè alle regole che consentono la risoluzione di un litigio23. Siamo nel mondo di Dike e di Temi, nel mondo delle regole, nel mondo della risoluzione di un conflitto. Ma se è vero che si tratta proprio di una procedura giudiziaria, bisogna d'altra parte ricordarsi anche – e credo che sia un aspetto molto importante di tutta la storia – che questa procedura giudiziaria è in ogni caso in rapporto di diretta continuità con la lotta, con la rivalità atletica, con l'agon. Tra la scena giudiziaria e l'agon, tra la scena giudiziaria e la lotta, non c'è in realtà eterogeneità. Dalla lotta atletica fino alla scena giudiziaria, abbiamo una sorta di prolungamento, un continuum che non impedisce affatto che la scena giudiziaria sia una vera e propria scena giudiziaria. Essa è colta però interamente attraverso uno scontro, uno scontro atletico, che è uno scontro tra due guerrieri, uno scontro fra due eroi, certo, ma che è pur sempre uno scontro. E lo prova il fatto che in questa storia non c'è giudice. C'è sicuramente un pubblico. Ci sono persone che esprimono il loro parere, che approvano. Ma chi approva che cosa? Non la sentenza, ma la regolarità stessa della procedura. I guerrieri sono d'accordo che le cose si svolgano proprio in questo modo. Ma non c'è un giudice per dire: «Ecco in che modo le cose devono essere regolate, ed ecco a chi deve andare il premio». Sono gli stessi combattenti che si sono affrontati nella corsa che ora si combattono in questa regolazione giudiziaria. Si sono affrontati prima durante la corsa; e ora si affrontano sulle condizioni alle quali sarà possibile regolare il dibattito e il conflitto che è sorto tra di loro. E il giuramento stesso, il giuramento ha esattamente la forma della lotta, poiché si tratta in realtà di una sfida che viene lanciata da Menelao ad Antiloco. Menelao dice in fondo ad Antiloco: «Avrai forse l'imprudenza di prestare giuramento, di prestare giuramento in nome di Zeus, davanti a Zeus, e di affermare che non hai barato? Sei capace di farlo?». Ed è all'interno di questa competizione, di questo scontro, di questa sfida che Antiloco – il 23 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 580-585.

quale ha raccolto la sfida della corsa – rinuncerà a raccogliere la sfida del giuramento. Ed è lì che perderà la sua causa: ha perduto la sua causa come si perde nel corso di una lotta quando non si può raccogliere una sfida che è stata lanciata da un avversario. Dobbiamo dunque tenere presente che abbiamo a che fare con una scena che è tipicamente, esattamente giudiziaria, e con una scena che ha nello stesso tempo anche il preciso ordito di un agon, di un conflitto. Vi cito in proposito un testo di Gernet che tratta dell'alterco tra Menelao e Antiloco, in un libro molto interessante e importante che s'intitola Droit et société en Grèce, dove dice: Il diritto che comincia ad apparire nella scena in questione, nella scena tra Menelao e Antiloco, il diritto che comincia ad apparire in questa scena non vi fa la sua comparsa a titolo di tecnica speciale e professionale. Questo diritto promana esso stesso dalla vita dei giochi, c'è continuità tra il costume agonistico e il costume giudiziario. La questione di competenza vi si regola da sola, l' agon, la lotta, ambito prestabilito per la decisione attraverso la lotta, è anche un ambito favorevole per la decisione attraverso la sentenza24.

Primo punto da tenere bene in mente per l'analisi di questa scena è dunque la continuità tra l'agon e l'elemento giudiziario, tra lo scontro della lotta e lo scontro giudiziario. L'ordito è lo stesso. Secondo problema, secondo punto da sottolineare è il problema della verità e del gioco della verità. Allora, consideriamo appunto tutta la questione della lotta, tutta la questione dell'agon, vale a dire della corsa e dello scontro tra i vari partecipanti. Che cosa accade nell' agon, la lotta considerata nella sua forma atletica, che è l'ambito all'interno del quale vedremo emergere la procedura giudiziaria? In fondo, si potrebbe porre la domanda: a cosa serve questa corsa? Infatti la corsa che vediamo svolgersi in questi giochi, in fondo, non è affatto simile a quelle che conosciamo o che potremmo aspettarci. Vale a dire che non consiste affatto nel pren24 Cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., pp. 17-18.

dere persone che abbiano in partenza opportunità il più possibile uguali tra loro perché alla fine, dopo le diverse peripezie della corsa, emerga un vincitore che, perché la corsa sia valida, dev'essere il più imprevedibile possibile. Diciamo che, per noi, una corsa valida è una corsa nella quale le opportunità sono rese pari in partenza: il vincitore è quindi il più incerto possibile e, successivamente, le peripezie della corsa fanno emergere l'imprevedibile vincitore dalla parità di partenza. Si può dire che la corsa, così come è organizzata da Achille – come la vediamo svolgersi in questo testo omerico – è esattamente il contrario. Infatti, quando Achille invita alla gara dei carri, gli eroi si alzano l'uno dopo l'altro. E cosa vediamo, quando si alzano l'uno dopo l'altro? Vediamo alzarsi per primo Eumelo, di cui ci viene detto che è il più forte; e poi Diomede, di cui ci viene detto che è estremamente forte; e poi Menelao, i cui cavalli sono veloci; e poi c'è Antiloco, i cui cavalli sono un po' meno veloci; e poi c'è Merione, di cui non ci viene detto praticamente nulla. La designazione stessa tramite gli aggettivi che sono accostati ai nomi mostra sin dall'inizio quali siano le rispettive forze e il vigore dei destrieri di ciascun eroe. Non sono affatto definiti pari in partenza. Al contrario, si alzano a turno a seconda della loro forza, che va in ordine decrescente da colui che deve vincere a colui che non ha alcuna opportunità di vincere. Abbiamo dunque una presentazione degli eroi che ci indica già quale sia in verità la loro forza. E poi, dopo questa enumerazione degli eroi, subentra l'enumerazione dei doni che corrisponderà esattamente alla classifica e ai diversi concorrenti che sono stati enumerati. Al primo verrà data una schiava, al secondo una cavalla, al terzo un paiolo, al quarto due talenti d'oro e al quinto un vaso a due anse25. E in fondo, abbiamo così l'ordine sia della forza di ogni eroe sia del valore delle ricompense, e tutto secondo una scala conforme alla verità. Tanta è la verità della forza rispettiva di ognuno; tanto è il valore, tanta la fama, la ricchezza, la bellezza di ciascuno dei doni – e non si deve fare altro che abbinarli. Significa che la 25 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 262-270 (l'enumerazione, in realtà, avviene prima che gli eroi si alzino).

corsa non ha più ragion d'essere: si sa già tutto. Ma si sa già tutto perché la corsa ha tutt'altra funzione rispetto a quella di far emergere un vincitore tra individui resi uguali e tra i quali non è possibile prevedere chi vincerà. L'ordine è già predeterminato e, dunque, qual è fondamentalmente la funzione della corsa? La funzione della corsa è solo quella di sviluppare, in qualche modo, e di drammatizzare un ordine di verità che è già dato in partenza. E se la corsa è così drammatica, è appunto perché c'è qualcuno che viene a interferire, e interferisce facendo cosa? Facendo in modo che la verità non appaia. È ciò che fanno gli dèi quando intervengono – Apollo da una parte e Atena dall'altra – portando via la sferza dell'uno, facendo cadere l'altro: impediscono che la corsa assuma la sua vera funzione che, in un certo senso, è quella di essere la cerimonia visibile di una verità già visibile. Le peripezie della corsa e l'intervento degli dèi, come peraltro l'intervento di Antiloco, faranno appunto in modo di mascherare questa verità, nasconderla e impedirle di essere quel che deve essere: vale a dire, semplicemente, lo svolgimento liturgico di una verità già conosciuta. E il dibattito attorno alle ricompense consisterà semplicemente nel sapere in che modo ristabilire la verità delle forze che era già data in partenza dalla presentazione sia dei concorrenti sia delle ricompense – e che la corsa, anziché rendere manifesta, ha mascherato. La corsa dovrebbe avere la funzione di rendere manifesta una verità già riconosciuta. La sua funzione è di far apparire solennemente, in una gara che è allo stesso tempo una cerimonia, le forze differenti degli eroi. La sua funzione è in fondo quella di farli sfilare secondo il loro vero valore. E di conseguenza, lungi dall'essere una prova nel corso della quale individui uguali potranno confrontarsi e far emergere un vincitore imprevisto, la corsa non deve essere nient'altro che una liturgia del vero. O, se volete, per forgiare un'espressione – anzi, non per forgiarla, perché la si trova già nel vocabolario del greco tardo... – si potrebbe in ogni caso utilizzare la parola aleturgia: vale a dire che si tratta di una procedura rituale per far apparire alethes, ciò che è vero. E in rapporto a questa corsa inte-

sa come aleturgia, come liturgia del vero, tutte le peripezie appariranno come imbrogli, inganni e astuzie. E a quel punto capiremo probabilmente meglio cosa ci fosse di tanto perverso nel comportamento in apparenza – per noi – così normale di Antiloco nei confronti di Menelao. Sempre a tal riguardo, vorrei ora riprendere il problema della contestazione tra Menelao e Antiloco. Infatti, proprio su questa contestazione e su quanto è accaduto tra loro, c'è un certo numero di cose da notare. In primo luogo, ci sono due elementi che tornano continuamente a proposito di Antiloco. Antiloco, che ha dunque commesso l'atto che verrà contestato, non cessa di essere chiamato, da un capo all'altro della scena, «il saggio Antiloco». A ogni istante si dice: «Antiloco, tu che sei saggio, benché così giovane», «Antiloco, tu che sei così riflessivo» 26. Antiloco era saggio, era accorto, era riflessivo già di per sé, in quanto figlio di Nestore, e dunque con la possibilità di beneficiare dei suoi consigli, ecc. E in secondo luogo, cosa che ritorna anch'essa a più riprese nel testo, per quanto saggio fosse, si è lasciato ingannare. Ingannare da che cosa? Da qualcosa, e questo qualcosa è la sua giovinezza. Lo dirà lui stesso, peraltro, nel momento in cui finalmente cederà: «La giovinezza ha vinto la mia ragione»27. Il che non gli impedisce di essere saggio! Ma c'è stato, in un certo senso all'interno dello stesso Antiloco, un conflitto, una lotta, una gara tra la sua giovinezza e la sua ragione – ed ecco che la giovinezza ha avuto la meglio, almeno per un certo tempo, sulla sua ragione. Ora, quale conseguenza ha avuto il fatto che lui, il tanto saggio Antiloco, sia stato, almeno per un istante, obnubilato e vinto dalla sua giovinezza? Cos'ha fatto, in quella famosa corsa, per provocare tanta inquietudine e suscitare un procedimento giudiziario così complesso? Ha forse infranto qualche regola? Evidentemente no. Ricorderete infatti cos'è accaduto. Antiloco si trovava alla pari con Menelao, che aveva raggiunto, e si è limitato a rifiutare di cedergli il passo nel momento in cui era necessa26 Cfr. ibid., v. 305 [trad. it. cit., p. 687: «[Nestore] consigliava con saggezza il figlio già saggio»]; v. 570 [trad. it. cit., p. 699: «Antiloco, che una volta eri saggio»]. 27 Ibid., vv. 588-590 [trad. it. cit., p. 699: «.. e sai bene quali sono gli eccessi dei giovani | che hanno cuore rapido, ma mente fragile»].

rio che uno dei due rallentasse i suoi cavalli affinché l'altro potesse passare. Ha semplicemente rifiutato di cedere il passo – e ha rifiutato di cedere il passo a Menelao, che era il più forte. In questo consiste l'irregolarità. L'irregolarità non dipende dall'esistenza di una regola che interdica di passare alla tale o talaltra condizione. L'irregolarità consiste in, o il punto della contestazione verterà su questo: Menelao era il più forte, e colui che non era il più forte ha impedito che il più forte passasse e apparisse come il più forte; e quando la corsa termina, egli è dunque secondo davanti a Menelao che è terzo (ma Omero aggiunge – insomma, il testo omerico aggiunge – che se la corsa fosse durata più a lungo, Menelao avrebbe potuto raggiungere di nuovo Antiloco e Antiloco sarebbe stato battuto28). Vedete bene che l'elemento di difficoltà, il punto in cui verte il dibattito, non è che Antiloco abbia violato una legge. Egli ha impedito che la verità si manifestasse: non ha voluto cedere a chi era il più forte; non ha voluto far posto a ciò che era vero, cioè che Menelao era più forte di lui. Non ha infranto una regola della corsa: ha voluto alterare la corsa intesa come liturgia della verità. E in che modo, allora, la verità verrà ristabilita? Verrà ristabilita per mezzo del giuramento. E a questo punto, bisogna far intervenire un piccolo elemento non menzionato finora, che è il seguente: all'inizio del testo, quando si spiegano le condizioni alle quali si svolgerà la corsa, si dice che, nel punto in cui si trova il famoso cippo attorno al quale si deve girare, si invia un histor, un testimone, uno che è là per vedere, e che si chiama Fenice29. Ora, quando alla fine della corsa si accende la discussione 28 Ibid., vv. 523-527. 29 Ibid., vv. 359-361. Il termine histor non compare nel libro XXIII. Sui significati che gli vengono attribuiti e gli aspetti della funzione che designa, cfr. le indicazioni fornite da Daniel Defert in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 79, nota 12: egli cita da una parte Gaudemet (J. GAUDEMET, Les institutions de l'Antiquité, Sirey, Paris 1967, p. 140), che attribuisce alla parola «la radice is = wid (latino: video [vedere])», e dall'altra Marcel Detienne (M. DETIENNE, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Maspero, Paris 1967; ried. 1981, p. 101 [trad. it. I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 76], che insiste sugli aspetti di «testimone» e di «memorialista». Da notare che, secondo l'analisi di Foucault, la funzione dell'histor presenta delle differenze tra la scena della corsa descritta nel libro XXIII e quella dello scudo di Achille descritta nel libro XVIII. Nella prima scena l' histor è un testimone – il testo greco recita (v. 359): … para de skopon eisen antitheon Phoinika, opaona

tra Antiloco e Menelao, si fa forse appello a questo testimone, a colui che ha visto, a colui che avrebbe potuto dire: «Sì, è accaduto questo e quest'altro»? Assolutamente no: nel corso di tutta la discussione non si tira in ballo né Fenice, né l'histor, né lo si farà poi. È anche presente un pubblico, che però non interviene se non quando si tratta di decidere della validità delle regole di procedura: non interviene in alcun modo, né a livello dell'accertamento dei fatti, né a livello della giustizia della sentenza. La verità viene ristabilita, ma grazie a che cosa? Ebbene, è ristabilita nel corso di un episodio molto particolare, che è l'episodio del giuramento, o piuttosto l'episodio dell'offerta di giuramento, con la posizione rituale: si tratta per Antiloco di giurare che non ha ostacolato i cavalli di Menelao, che non li ha intralciati volontariamente e con astuzia. La parola utilizzata in questo caso è interessante: è il termine kerdos30, che peraltro non vuol dire esattamente «astuzia», ma «profitto», «ricerca del vantaggio», e che può essere una parola impiegata in senso sia positivo sia negativo. Qui il senso è negativo: vale a dire che questa cosa, per noi assolutamente normale, che fa parte dell'essenza stessa della corsa – che ciascuno miri al suo profitto e al suo vantaggio –, qui assume un senso negativo, assume il senso di astuzia insana, di astuzia malvagia, di astuzia perversa. Perché, in questa corsa, è necessario che nessuno cerchi il proprio vantaggio: è necessario che la corsa si svolga in modo tale che la verità, cioè il rapporto e le differenze di forze nella loro verità si manifestino come in una cerimonia e come in una liturgia. E il giuramento interviene a quel punto. Interviene come procedura giudiziaria per il fatto che, ormai, una volta lanciata la sfida del giuramento, c'è una sola alternativa. La prima ipotesi è che Antiloco presti il patros heoio, hos memneoto dromous kai aletheien apoeipoi («[Achille] vi mandò osservatore [skopon] il divino Fenice, lo scudiero del padre, che ricordasse [ memneoto] bene la corsa e riportasse il vero [aletheien]») – ma un testimone a cui non si fa appello. Nella seconda, invece, è «colui che sa», nel senso di colui che ha fissato nella memoria e riporta non ciò che ha visto, ma le procedure di riparazione e di risoluzione delle controversie (cfr. FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 77). A noi sembra che solo in questa seconda funzione la legge scrit ta si sostituirà all'histor (ibid., p. 78) in forme ulteriori di regolazione dei conflitti. Sulla figura dell'histor, cfr. anche Lezione del 28 aprile 1981, infra, nota 86 […]. 30 OMERO, Iliade, XXIII, vv. 581-585.

giuramento: allora, a quel punto, Menelao sarebbe obbligato a cedere; ma, di colpo, la contestazione tra Antiloco e Menelao si troverebbe trasferita dal livello umano del loro conflitto alla dimensione divina (sarebbe in qualche modo Zeus che Antiloco dovrebbe affrontare, Zeus che scuote la terra e con il quale Antiloco dovrebbe scontrarsi se prestasse il giuramento che Menelao gli chiede). L'agon si troverebbe dunque così – e si è dunque trovato così – trasferito, attraverso la sfida del giuramento, dalla corsa alla contestazione tra i due partecipanti, dalla contestazione all'offerta di regolazione attraverso il giuramento. Il giuramento, se venisse prestato, farebbe passare l'agon, farebbe passare la contestazione – che resterebbe una contestazione, che resterebbe uno scontro – dallo scontro Menelao-Antiloco allo scontro Antiloco-Zeus. Ed è questo, lo scontro, che Antiloco non vuole rischiare: il trasferimento della struttura agonistica dagli uomini agli dèi è ciò in cui Antiloco inciamperà31. Ed è infatti quel che accade. A trovarsi realizzata è dunque la seconda ipotesi: Antiloco rinuncia a prestare il giuramento. Ma bisogna ancora considerare in che modo avviene la rinuncia al giuramento. Si può dire che sia veramente una confessione nel senso in cui la intendiamo noi? Se chiamiamo «confessione» un atto definito e ritualizzato attraverso il quale, nel corso di un litigio, colui che è accusato di una colpa riconosce la validità delle accuse rivolte contro di lui e la vittoria del suo accusatore, si può dire, sicuramente, che Antiloco ha confessato. Si tratta in tutto e per 31 Cfr. su questo punto GERNET, Droit et prédroit en Grèce ancienne cit., pp. 94-95: «Cosa significa? Se Antiloco rifiuta il giuramento, Menelao vince; se lo presta, il premio resta a lui. Ma non sembra che in questo ci sia l'equivalente di una prova da cui si possa dedurre il diritto. Secondo una concezione propriamente arcaica, quella che chiameremmo l'amministrazione della prova si rivolge non a un giudice che debba valutare, ma a un avversario che si tratta di “vincere”. A connotare negativamente il pre-diritto nel caso specifico è che non è in questione una verità oggettiva che possa fondare una sentenza: nel caso presente, non si precede nemmeno alla sentenza, si decide semplicemente tra gli avversari. E questo al termine di una prova. La prova può variare. Nel pre-diritto si può dire che è sempre del tipo dell'ordalia, vale a dire del proce dimento che permette di decidere o di sospendere rinviando una delle due parti o entrambe a un altro mondo in cui si decide la loro sorte. In Grecia, la mitologia attesta ampiamente la pratica dell'ordalia in generale. Non la vediamo utilizzata così spesso come diceva Glotz a fini di regolazione pregiudiziaria; ma il pensiero che la governa è quello che impone l'uso del giuramento come presunto mezzo di prova; è quello che perpetua molto più tardi, al di fuori del diritto, il rituale di giuramenti che sono di fatto ordalie».

tutto di una confessione. Ma questa confessione non consiste nel dire: «Ho commesso la tale colpa». E non consiste in ciò per due ragioni. In primo luogo, perché Antiloco non lo dice, e perché l'atto verbale non si svolge secondo la celebre formula «ho fatto, ho detto, ho commesso la tale o talaltra cosa», ma secondo un'altra procedura. E in secondo luogo, vedete bene che non si tratta veramente di colpa. In realtà, in cosa consiste la confessione? Consiste nel dire a Menelao – ed effettivamente dice, l'atto verbale da lui pronunciato consiste in questo –: «Tu eri il più forte, tu eri il primo, tu eri davanti a me» (proteros kai areion, «tu eri il primo, tu eri il più forte»32). Questo però non vuol dire affatto che Menelao fosse avanti, che il carro di Menelao precedesse quello di Antiloco. Vuol dire che Menelao era sì il proteros, era il primo, ma nell'ordine, in un certo senso, della verità delle forze, nell'ordine della verità degli status, nell'ordine della fama propria di ciascuno degli eroi. La corsa aveva la funzione di ritualizzare questa situazione e questo rapporto; e quel che ha fatto Antiloco – e che ora rinuncia a fare – era di voler spegnere, soffocare, indebolire la fama di Menelao. Era di recargli ombra, recargli torto, come dice Menelao stesso33, e passare di conseguenza davanti a lui in questo ordine della realtà, che è anche l'ordine della fama e l'ordine della gloria. La quasi-confessione non consiste dunque qui nel riconoscere una colpa davanti a un'istanza giudiziaria che esiga di sapere cosa è accaduto. Questa quasi-confessione di Antiloco, che rinuncia alla lotta, che non raccoglie la nuova forma di agon propostagli con la sfida del giuramento, e si dichiara vinto in questo nuovo episodio della lotta, consiste nel lasciare che si manifesti una verità alla quale, durante la corsa, egli aveva, con il suo atteggiamento, frapposto un ostacolo. La confessione consiste nel restaurare, all'interno di una struttura agonistica, le forme nelle quali la verità delle forze doveva apparire ritualmente. Aggiungiamo ora, per terminare con l'episodio del conflitto Menelao-Antiloco – la corsa dei carri – qualche parola che conferma, credo, la 32 OMERO, Iliade, XXIII, v. 588. 33 Ibid., vv. 571-574 [trad. it. cit., p. 699: «Hai disonorato il mio valore, ostacolato i miei cavalli, | facendo passare avanti i tuoi, che sono molto | peggiori»].

funzione di questa quasi-confessione come ristabilimento volontario della verità delle forze nel rito della gara. Si tratta di questo: non va dimenticato che la corsa di carri ha luogo nel contesto rituale dei funerali di Patroclo, vale a dire che si tratta, con questi giochi, di rendere immortale o, in ogni caso, di far continuare a vivere la memoria di Patroclo, che i vivi potrebbero dimenticare. E, così come sono stati compiuti i grandi sacrifici animali, tutta una grande ecatombe cruenta che ha versato sangue all'ombra già impallidita di Patroclo, allo stesso modo, nella memoria degli uomini, bisogna continuare a fare in modo che Patroclo viva il più a lungo possibile. I giochi sono destinati proprio a questo: in generale, si tratta di un rito della memoria, attraverso il quale la fama delle imprese compiute dagli eroi deve essere mantenuta il più a lungo possibile. Ora, ricorderete che in questa storia un po' curiosa e dalla struttura al tempo stesso molto semplice e molto complessa, c'erano cinque concorrenti; c'erano cinque ricompense; ci sono stati gli dèi che hanno impedito alla verità di manifestarsi; c'è stato Antiloco, che a sua volta ha impedito alla verità di manifestarsi; e infine Eumelo, che ha avuto un premio supplementare. I concorrenti erano cinque; visto che uno di loro ha avuto un premio supplementare, e gli altri quattro hanno avuto i quattro premi previsti, resta un quinto premio, un quinto premio che si trova a essere di troppo. Cosa si farà di questo premio? Ebbene, lo prende Achille. Lo prende per portarlo a chi? Lo porterà a Nestore, il padre di Antiloco. Perché lo porta a Nestore? Forse perché Nestore è un uomo dotato di saggezza e di buon senso? Forse perché aveva dato ad Antiloco una ricetta tanto più ragionevole e meno perversa di quella che è stata applicata dallo stesso Antiloco? Non c'è niente nel testo che lo indichi. In realtà, quel che il testo dice per spiegare il gesto di Achille è quanto segue: se Achille va a prendere l'ultimo premio e lo dà a Nestore, è perché Nestore è troppo vecchio per lottare. Un tempo, quando era giovane, anche Nestore è stato un atleta notevole e un lottatore che vinceva. E quando Nestore vede Achille avvicinarsi a lui e consegnargli il dono, è appunto questo il senso che attribuisce al gesto di Achille. Egli dice: «Ti ringrazio di darmi

questo dono perché, in effetti, anch'io brillavo fra tutti gli eroi, meteprepon heressin. Il mio cuore è ora pieno di gioia nel vedere che tu ti ricordi del mio valore e che non dimentichi l'omaggio che mi è dovuto»34. Vediamo bene che in tutta questa storia – di corsa, di contestazioni, di doni – a essere in questione sono al contempo la manifestazione della verità e la memoria delle imprese compiute. Lotta e memoria, gara e celebrazione come rituale di verità, come aleturgia, manifestazione del vero in piena luce: è di questo che si tratta. E la confessione di Antiloco, in questa immensa cerimonia di memoria, in questa immensa cerimonia in cui la verità deve manifestarsi nella gara della corsa e sopravvive nella memoria degli uomini, in questo grande gioco di verità, la confessione di Antiloco non è niente di più che la rinuncia a quanto aveva, per un istante, e con la frode, tenute velate la verità e la fama vera degli eroi. La confessione di Antiloco è la rinuncia a ciò che poteva impedire che la verità delle forze, delle imprese, delle vittorie venisse a coronare i combattimenti e le gare che potesse perpetuarsi nelle celebrazioni indefinite della memoria. Ricollocando così questa scena giudiziaria, propriamente giudiziaria, nel suo contesto generale, vediamo apparire un certo numero di cose importanti su quella che è, in tutto e per tutto, la prima scena di confessione giudiziaria che conosciamo nella cultura occidentale. In questa scena, c'è un solo e unico individuo a essere accusato, nel caso specifico Antiloco. Un solo individuo che è in una volta sola l'accusato, il portatore di verità, colui al quale spetta di svelarla e che in effetti ha il potere di svelarla; e questo all'interno della struttura dell'agon. L'idea che ci sia un accusato, che questo accusato sia portatore della verità, che tocchi a lui svelarla perché la conosce e perché ha il potere di svelarla, sapete bene che è la 34 Ibid., vv. 645-650. Su questo punto, cfr. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., pp. 63-64, e più in generale pp. 59-64. La continuità tra la guerra e i giochi, continuità di cui è indizio la somiglianza dei meccanismi istituzionali a cui obbediscono la divisione del bot tino e l'attribuzione dei premi, consente di comprendere sia perché Nestore viene onorato sia perché Menelao rimprovera ad Antiloco – che come suo padre e suo fratello ha combattuto per lui – di avergli fatto torto non cedendogli il passo e superandolo durante la corsa.

stessa struttura che troveremo nell'Edipo35. Anche Edipo è l'accusato. Anche lui è il portatore della verità. Anche a lui tocca svelarla. Ed è lui che, in quanto re, ha il potere, svelandola, di trarne le conseguenze. In quella che sarà la confessione di Edipo rispetto a quella che è stata la confessione di Antiloco, abbiamo la stessa struttura o lo stesso tipo di sovrapposizione. Ma con una differenza: ed è che, nel caso di Antiloco, tutto si situa all'interno di una struttura che è la struttura della lotta, che è la struttura dell'agon, che è la struttura della gara tra due guerrieri all'interno di una civiltà o, in ogni caso, all'interno di un gruppo sociale che è quello dei guerrieri. Invece con Edipo, come cercherò di spiegarvi la prossima volta, questa stessa sovrapposizione – questa manifestazione e le procedure di manifestazione non si svolgeranno più in alcun modo nella forma dell' agon, nella forma della gara, dello scontro tra gli eroi o tra i guerrieri. Ci troveremo piuttosto all'interno di una struttura giudiziaria e politica molto più complessa, costituita, come attraverso una serie di variazioni, da istituzioni diverse – quelle religiose, quelle aristocratiche, quelle tiranniche – e sarà attraverso il gioco di tutte queste diverse strutture che colui che è accusato sarà anche colui al quale spetterà di dire la verità. Dallo status di accusato a quello di colui che dice la verità (vale a dire che confessa ciò di cui è accusato), il cammino di Edipo, come vedrete, sarà infinitamente più lungo di quello percorso dalla figura immediata e quasi ieratica di colui che, nel corso della lotta, avendo impedito alla verità di svelarsi, esita ad affrontare Iuppiter in persona e la collera di Iuppiter o di Zeus, e preferisce lasciare che la verità si dispieghi nella liturgia che le è propria. L'unità d'atto, la scena unica della sfida del giuramento lanciata da Menelao, davanti a cui Antiloco cede, la vedremo in qualche modo esplodere attraverso tutta una serie di strutture, di istituzioni, di pratiche politiche e giudiziarie diverse quando l'accusato non sarà più un eroe, non sarà più un guerriero – quando sarà un re, quando sarà un tiranno, quando deterrà un potere che è un potere politico assolutamente differen35 SOFOCLE, Œdipe roi, trad. P. Mazon, Les Belles Lettres, Paris 2007 [trad. it. Edipo re, Mondadori, Milano 1982].

te da quello che era dato dalla fama, dal prestigio e dalla prestanza dell'eroe guerriero dell'epoca omerica. Sarà necessario per questo che appaia un'istanza giudiziaria incaricata di dire la verità attraverso procedure molto più complesse del giuramento. Ecco dunque la prima parte di quello che volevo dirvi questa sera. Mi accorgo però che il tempo è passato; colpa mia perché mi sono dilungato troppo, un po' anche per via delle circostanze, visto che si parla più lentamente quando si sta in piedi. Allora, la mia proposta, se non siete troppo stanchi, è che mi facciate qualche domanda su quello che ho detto. E poi, eventualmente, se avete ancora dieci minuti da perdere, o un quarto d'ora, vi dirò due o tre cose che riguardano un altro momento – vi parlerò insomma di certe modificazioni e certi spostamenti nella storia della confessione giudiziaria in Grecia tra Antiloco ed Edipo*.

[…]** Ciò che volevo evocare è l'apparizione, nel diritto greco postomerico, in un periodo compreso tra il VII e il VI secolo, di due forme di regolazione giudiziaria in cui il giuramento svolge appunto un ruolo importante, ma in realtà due ruoli differenti. Possiamo trovare traccia dell'esistenza di questi due modi di regolazione giudiziaria in Esiodo, ai versi 35-39 di Le opere e i giorni, là dove, rivolgendosi a Perse con il quale ha difficoltà e problemi, il poeta dice: «Regoliamo qui la nostra contesa (diakrinmetha neikos) attraverso uno di quei retti giudizi che, resi in nome di Zeus, sono i migliori di tutti. Tu hai già preso e depredato abbastanza i beni altrui prodigandoti in grandi ossequi ai re divoratori di doni, sempre pronti a giudicare secondo una tale giustizia (basileas dorofagous, hoi tende diken ethelousi dikassai36)»37. Troviamo dunque due * La registrazione del corso s'interrompe qui, mentre Foucault sta dicendo «Avete forse...». Introduciamo un'interruzione che corrisponde al cambio di nastro della registrazione. Questo cambio è all'origine di una lacuna che non è possibile colmare attraverso il dattiloscritto depositato all'Imec. ** Il corso riprende con una frase di cui si sentono solo le ultime parole: «... di lavoro in comune e la solennità di questa arena rendono le cose un po' più difficili». 36 ESIODO, Le opere e i giorni, vv. 35-39. 37 Su questo punto, cfr. FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 85 sgg.

termini. Il termine dikassai, dikazein, in greco classico, e poi il verbo diakrinometha, la cui forma classica e attiva è krinein, giudicare. Mi sembra proprio che ci troviamo di fronte a due forme differenti di giustizia. Il testo di Esiodo indica semplicemente, e oppone, la cattiva giustizia – quella dei re, che è il dikazein – e la buona giustizia, che propone a Perse come strumento per regolare la loro controversia. Che cos'è la cattiva giustizia? È la giustizia dei re, dei capi locali, dei capi di famiglie aristocratiche, che sono sensibili ai regali e alle corruzioni, e che rendono così una cattiva giustizia – grazie alla quale si possono depredare i beni altrui. A questa cattiva giustizia Esiodo oppone un'altra giustizia, per la quale impiega un altro termine che non è dikazein o dikassai, ma è diakrinometha (krinein, fondamentalmente, a partire dalla parola krinein). L'espressione stessa, o il termine stesso, sembra appunto indicare che si tratta di un ricorso che verrebbe fatto di comune accordo, accordo preliminare tra coloro che decidono di regolare così insieme la loro controversia. Sembra inoltre, in base al testo, che questo giudizio si svolga davanti a un'autorità, un'autorità che emette le sue sentenze in nome di Zeus. E Zeus qui non è semplicemente – com'era, ad esempio, nella frase del giuramento pronunciata da Menelao – colui alla cui collera e alla cui vendetta ci si espone si si pronuncia un giuramento falso. Qui sembra invece che Zeus sia colui che, con la mediazione di una qualche autorità che a lui si richiama, permetterà di emettere la sentenza adeguata in opposizione alle cattive sentenze dei re. Il testo di Esiodo sembra indicare l'esistenza di due sistemi di pratiche giudiziarie differenti, ma è abbastanza difficile ricavarne molto di più. Per contro, la legislazione di Gortina38 – che è una delle più antiche 38 Ibid., oltre a R. DARESTE, B. HAUSSOULIER e T. REINACH (a cura di), Recueil des inscriptions juridiques grecques, Ernest Leroux, Paris 1891-1894, pp. 355-493; The Law Code of Gortyn, testo, traduzione inglese e commento a cura di R.F. Willetts, de Gruyter, Berlin 1967. La Legge di Gortina è stata scoperta nel 1884 tra le rovine greco-romane di Gortina, a Creta, da F. Halbherr. Questa compilazione del diritto di famiglia greco, risalente al V secolo a.C., figura tra i testi giuridici più antichi e più completi conosciuti fino a oggi. Il testo, redatto in dorico, è inciso nella pietra e diviso in sette capitoli, che regolano in particolare le questioni della divi sione dei beni, del matrimonio, dell'adulterio, del divorzio, dell'adozione, dei reati sessuali, dei danni causati dagli animali oltre che di quelli causati agli animali, della sorte degli schiavi che

di cui abbiamo testimonianza per la Grecia e che si colloca un po' dopo Esiodo, ma prima dell'epoca classica – ci dà appunto indicazioni su queste due forme giudiziarie, sul dikazein e sul krinein: il dikazein caratterizzato da ciò che accade nella cattiva giustizia, e poi il krinein che, al contrario, è applicato in quella che Esiodo chiama la buona giustizia 39. Cosa accade nel dikazein? Nel dikazein, i contendenti prestano anch'essi giuramento come nella contestazione tra Menelao e Antiloco, vale a dire che si espongono alle vendette che gli dèi esercitano nei confronti degli spergiuri. Ma, in questo dikazein, c'è qualcosa di più, c'è qualcos'altro che non trovavamo nello scontro Menelao-Antiloco: i contendenti, infatti, in quella forma di pratica giudiziaria, sono accompagnati da sostenitori, da persone che giurano con loro; e che giurano non di essere stati i testimoni di un fatto, e nemmeno di detenere una certa verità, ma che prestano lo stesso giuramento di una delle parti in causa, vale a dire che s'impegnano con colui che sostengono. Si tratta in realtà non di testimoni di verità che vengano a stabilire cos'è realmente accaduto e permettano di decidere dei contendenti e degli avversari; ma di cogiuranti che sono necessariamente o da una parte o dall'altra; e, cogiurando con ciascuno dei contendenti, si espongono con lui all'eventuale vendetta degli dèi nei confronti degli spergiuri40. A cosa serve questo giuramento, questo cogiuramento dei sostenitori di ognuno dei due avversari, accanto a loro? Essenzialmente, sembra, a

sono fuggiti, degli uomini liberi asserviti, o ancora dell'amministrazione della giustizia. Il testo fa parte di un insieme più ampio di testi legali ai quali si riferisce in diverse occasioni. Per altre informazioni sulla Legge di Gortina, cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., pp. 51-59, oltre a M. GAGARIN, Writing Greek Law, Cambridge University Press, New York 2008, capp. VI e VII, pp. 122-175. 39 Cfr. L. GERNET, Appendice III. La désignation du jugement: dikazein et krinein , in ID., Recherche sur le développement de la pensée juridique et morale en Grèce. Étude sémantique , Ernest Leroux, Paris 1917; ried. Albin Michel. Paris 2001, pp. 445-448, oltre a ID., Droit et société dans la Grèce ancienne cit., pp. 63-64. Nella Legge di Gortina, «se il giudice è obbligato a pronunciarsi secondo il suo criterio, e non applicando meccanicamente la regola delle prove, si dice krinein, e non più dikazein: questa forma di giudizio è sempre accompagnata da un giuramento del giudice». 40 Cfr. ID., Droit et société dans la Grèce ancienne cit., pp. 98-100.

manifestare il peso sociale di ciascuno di coloro che vengono a giurare 41. E, certamente, più cogiuranti hanno, più manifestano la loro potenza sociale, e più mostrano che ci sono persone che rischiano di essere coinvolte, di esporsi alla collera degli dèi se il giuramento non è un vero giuramento42. Per questo, poco fa, facevo allusione al libro XVIII di Omero, in cui troviamo una scena come questa, nella quale ci sono due contendenti: sullo scudo di Achille sono rappresentati due contendenti, circondati da persone che sembrano essere a loro volta dei cogiuranti, e si affrontano gruppo contro gruppo43. In questa pratica del cogiuramento – ci troviamo sempre all'interno del giuramento, sempre nello scontro, fino a un certo punto, nella stessa situazione di gara che abbiamo visto poco fa tra Menelao e Antiloco, con la differenza che ora sono dei gruppi ad affrontarsi, c'è colui che giura e poi i suoi cogiuranti – in questa pratica, qual è il ruolo della sentenza? Di certo quello di proclamare il vincitore tra i due avversari. Ma esso lo fa da una parte autenticando la regolarità delle procedure – affermando che le regole sono state osservate come si deve –, e dall'altra proclamando, come se si trattasse dell'esito di un rapporto di forza, da che parte si trova il buon diritto e chi ha vinto in questo scontro. La sentenza aveva dunque, in fondo, la funzione di registrare i risultati di tale scontro. Nella legge di Gortina si precisava, ad esempio, che in un conflitto di proprietà la tesi confermata da nove testimoni doveva automaticamente avere la meglio44 – con nove testimoni dalla propria parte, si 41 Per il parallelo nel diritto feudale e una trattazione del sistema della prova in rapporto con l'importanza sociale dell'accusato nell'XI secolo, cfr. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche cit., pp. 114-115. 42 Cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 99 («Sappiamo del resto che in epoca antica [i testimoni] possono presentarsi sotto l'aspetto di cogiuranti, e si tratta così poco di una verità obiettiva che un organismo giudiziario avrebbe la missione di scoprire, bensì piuttosto di una forza che si manifesta e s'impone, che il procedimento primitivo consisterà nell'aumentare i sostenitori di una causa per pronunciarsi in suo favore o contro di essa»). 43 OMERO, Iliade, XVIII, vv. 468-617. 44 Cfr. C. GLOTZ, La solidarité de la famille dans le droit criminel en Grèce , Albert Fontemoing, Paris 1904, p. 297 («tra i doveri reciproci dei vicini compare l'obbligo di garantirsi reciprocamente contro i sequestri illegali. Ma qui il richiedente non sceglie i suoi uomini: a Gortina sono convocati i nove proprietari più vicini»); cfr. G. SMITH, The Administration of Justice from Hesiod to Solon, The University of Chicago Libraries, Chicago 1924, p. 67, nota 2 («la forza della sentenza sta nel fatto che, dopo che ciascuna parte ha prestato i suoi giuramenti, vince la parte nella quale ha giurato la maggioranza. I nove vicini evidentemente prestano giu -

risultava vincitori. Si tratta sempre di uno scontro, di un rapporto di forza che decide l'esito del litigio, con la differenza che ad affrontarsi sono gruppi sociali e che – particolare che non abbiamo visto nello scontro tra Menelao e Antiloco – c'è un'istanza che interviene in qualche modo a concludere lo scontro e a proclamare al contempo che si è svolto come doveva e che il tale ha la meglio sul talaltro. È questo il dikazein. È proprio questo dikazein che, manifestamente, Esiodo non apprezza affatto – vi vede tutta una serie di possibili irregolarità provenienti dai re, dai responsabili della giustizia, dai capifamiglia che sono incaricati di stabilire o di ristabilire la pace tra coloro che contestano. È dunque questo, il dikazein. Rispetto a tutto ciò, la legge di Gortina fa apparire un altro tipo di giudizio che è intervenuto, almeno all'inizio, quando non c'erano regole prestabilite per risolvere un litigio. In quest'altra forma di giurisdizione, ramento, ma il contenuto è omesso del tutto e le circostanze nelle quali viene prestato sono molto oscure»); e GAGARIN, Writing Greek Law cit., p. 140 (che riproduce il testo originale in appendice e la traduzione inglese). Glotz si basa su DARESTE, HAUSSOULIER e REINACH , Recueil des inscriptions juridiques grecques cit., pp. 432-434, dove è spiegato che, all'epoca, era richiesto un numero fisso di testimoni e di cogiuranti («I cogiuranti, di cui un frammento di Gortina e uno di Lyttos ci dànno il nome tecnico, devono essere distinti dai testimoni giurati di cui ci siamo occupati poco fa, benché le due istituzioni siano molto vicine: la differenza consi ste nel fatto che i testimoni giurati depongono su un fatto di cui hanno conoscenza personale, mentre i cogiuranti assumono, sulla fiducia, fatto e causa per il loro cliente – di solito un parente – in quanto, in generale, sono convinti della sua lealtà», ibid., p. 434). GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 99, nota 5, precisa che «Nei casi di cogiuramento che ci sono attestati, sappiamo che è richiesto un numero minimo di giuramenti. In una iscrizione di Gortina concernente una contestazione di proprietà in occasione di un'espropriazione immobi liare, si credeva persino di leggere il principio […] secondo cui la parte che avesse prodotto il maggior numero di cogiuranti tra i vicini del fondo avrebbe vinto la causa: si tratta di una lettura che pare debba essere abbandonata; ma è certo che in un caso simile si è molto vicini al principio maggioritario...»); cfr. F. HALBHERR, Cretan Expedition III. Epigraphical Researchers in Gortyna, in «American Journal of Archeology», I (1897), n. 3, pp. 159-238, in particolare pp. 192-193 («Le controversie in questi casi andranno rimesse ai neotas, e i sette neotas che sono stati eletti come agoranomoi emetteranno un giudizio sotto giuramento. E il giudizio emesso deve essere favorevole alla parte per la quale la maggioranza avrà prestato giuramento (vale a dire, il giudizio dipenderà dalla maggioranza dei voti), e questo collegio di sette, avendo incamerato l'ammenda della parte che ha perso la causa, deve darne metà alla parte che ha vinto la causa e metà alla città»); GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 99, nota 6 («Sulla concezione formalista della testimonianza a Gortina [esigenza di un numero fisso di testimoni]»); GLOTZ, La solidarité de la famille dans le droit criminel en Grèce cit., p. 296 («Il secondo sistema, quello dei cogiuranti in numero determinato, sembra essere stato in uso a Cuma […], a Chaleion e a Gortina»).

la grande differenza sta in questo: è il giudice stesso a prestare giuramento45 e dunque avremo tre giuramenti, il giuramento di ciascuna delle due parti, e poi un altro giuramento che è il giuramento del giudice. Sul significato di questo giuramento, gli storici del diritto hanno, com'è ovvio, discusso a lungo46. Certuni – come Dareste47 – ritenevano che il significato di questo giuramento fosse il seguente: il giudice prometteva semplicemente di osservare le leggi48. A questo si potrebbe obiettare che il krinein era una forma di giustizia a cui si ricorreva quando non c'era una legge esplicita: non si vede, dunque, la ragione per cui sarebbe necessario prestare giuramento di osservare le leggi, se non esiste una legge rispetto ai casi sottoposti a quella forma di giustizia. Altri storici pensano che fosse una sorta di giuramento assertorio attraverso il quale il giudice avrebbe detto: «Ecco, a mio parere, cosa è vero, ecco cosa è accaduto» 49. Ma nemmeno questa spiegazione è convincente, perché in molti casi (come per esempio le divisioni successorie), non si vede molto bene quale sarebbe il contributo di un giuramento assertorio. Perciò un altro storico del diritto – Gernet – pensa che questo giuramento sia un giuramento attraverso il cui il giudice si espone personalmente, assume il rischio e lega il suo de-

45 GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 63 (nella Legge di Gortina, «questa forma di giudizio [detta krinein] è sempre accompagnata da un giuramento del giudice»). 46 Foucault si basa qui sulla trattazione presentata ibid., p. 64 e nota 5 («Ma per cominciare, qual è la sua natura [del giuramento del giudice]? Se ne discute: gli uni propendono per un giura mento promissorio, gli altri per un giuramento assertorio»). Quanto a Gernet, prende le distanze da questo dibattito, in cui vede l'impronta di un «intellettualismo inopportuno». 47 Rodolphe Dareste de la Chavanne (1824-1911), membro dell'Institut de France e consigliere della Cour de Cassation, era archivista paleografo e storico del diritto antico. Ha curato con B. Haussoulier e T. Reinach l'edizione del Recueil des inscriptions juridiques grecques cit., ed è autore di numerose opere, tra cui le Études d'histoire du droit, L. Larose e Forcel, Paris 1889 e le Nouvelles études d'histoire du droit, L. Larose, Paris 1902. 48 GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 64, nota 5 («Che, con questo giuramento, il giudice s'impegni a pronunciarsi secondo verità e giustizia, è la concezione che poteva presentarsi inizialmente allo spirito dei moderni: è ancora quella degli editori delle Inscriptions juridiques [I, 435, nota 2: “... il giudice […] delibera in qualche modo come giurato”»]). L'editore principale delle Inscriptions juridiques era Dareste. 49 Cfr. ibid., p. 64, nota 5. Secondo Gernet, la teoria della natura assertoria del giuramento – del giuramento come asserzione della verità di un fatto – fu sviluppata da Kurt Latte nel suo Heiliges Recht. Untersuchungen zur Geschichte der sakralen Rachtsformen in Greichenland , J.B. Mohr (P. Seibeck), Tübingen 1920, p. 41.

stino al valore della propria sentenza 50. E accosta il giuramento del giudice a quello che possiamo trovare molto più tardi nel giuramento delle Anfizionie di Delfi, ad esempio, dove a proposito di contestazioni relative ai beni e ai territori di Apollo, i giudici erano tenuti a prestare, prima di giudicare, un giuramento all'inizio del processo. Giuramento che è il seguente: Chiamato a deliberare sui beni e i territori di Apollo, io giudicherò tutta la questione per quanto è possibile secondo verità, senza favore e senza odio, non delibererò ingiustamente in alcun modo. Se mantengo il mio giuramento, possa io ottenere ogni sorta di prosperità. Se lo tradisco, che Temi, Apollo Pittico, Lete, Artemide, Estia e il fuoco eterno mi facciano perire miseramente e mi rifiutino ogni salvezza51.

Credo che in questo giuramento – nell'esistenza di questa procedura con giuramenti da parte del giudice – si trovino differenze capitali rispetto alle procedure precedenti52. Il fatto che il giudice presti questo giuramento e si esponga di persona, se non giudica come deve, alla vendetta degli dèi, darà un senso nuovo al giuramento delle parti. I due avversari, ora, quando prestano giuramento, non lo fanno come una sorta di sfida agonistica del tipo: «Io mi espongo alla vendetta degli dèi prestando il mio giuramento: tu farai altrettanto?». Il giuramento dei due avversari, in una procedura di questo tipo, non è più lo strumento che permette di risolvere il litigio, non è la forma regolare nella quale lo scontro arriva a 50 GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 64, nota 5 («Un giuramento è essenzialmente una procedura di impegno della persona»); ibid., p. 65 («i riti del giuramento impegnano la persona di colui che giura»). 51 Ecco un altro giuramento dello stesso tipo, ritrovato nel sito del tempio di Apollo Delio e che risale al II o al I secolo a.C.: «Gli strateghi faranno prestare giuramento ai giudici chiamati a giudicare […] Il giuramento sarà il seguente: “Io giuro per Iuppiter, per Apollo Liceo, e per la Terra, che giudicherò, nell'istanza tra le parti con i loro giuramenti, secondo quello che mi sembrerà più giusto. Non giudicherò in base a un testimone, se questo testimone non mi sembrerà dire la verità. Non ho ricevuto alcuno dono in relazione a questo processo, né io stesso, né un altro al mio posto, uomo o donna, né attraverso sotterfugi di sorta. Possa io prosperare se tengo fede al mio giuramento, ma la sventura mi colga se spergiuro» (DARESTE, HAUSSOULIER e REINACH, Recueil des inscriptions juridiques grecques cit., p. 158). 52 Cfr. FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 97-98.

manifestarsi. È semplicemente un atto che introduce un'istanza, è un modo, per ciascuno dei due avversari, di rendere manifesta la sua posizione e di sollecitare ritualmente, e nelle forme dovute, l'arbitrato di un giudice. Quanto al giudice, egli non è più, dal momento in cui presta un simile giuramento, colui che garantisce la regolarità delle procedure e constata, che misura il gioco delle forze tra gli avversari. Appare piuttosto in una terza posizione, come colui che attribuirà la vittoria, che deciderà in che modo conviene risolvere il litigio, quali ripartizioni sono dovute. E, di colpo, il ruolo della sentenza non è più quello di proclamare chi è vincitore, chi ha osservato o violato le regole, chi, grazie al suo giuramento e a quello dei suoi cogiuranti, ha più peso o più forza. Il ruolo della sentenza e il ruolo del giudice è quello di dire cosa, tra i due avversari, è giusto, vale a dire il dikaion53. Nella procedura che abbiamo visto nel libro XXIII di Omero non è mai in questione il dikaion (il termine dikaion, peraltro, non esiste in Omero: alla sentenza non si chiede di essere giusta nel suo contenuto, le si chiede di essere conforme a Temi, cioè all'insieme di regole di procedura che consentono di risolvere un litigio). Invece, a partire dal momento in cui si arriva a [disporre] di un meccanismo giudiziario che, al di fuori delle leggi e di conseguenza al di fuori delle regole di Temi, dovrà determinare per bocca di un giudice una sentenza tra due avversari che presentano ciascuno la propria tesi, ecco che questa sentenza non potrà appoggiarsi su nient'altro, non potrà riferirsi a nient'altro che è a un certo ambito di giustizia. Un ambito di giustizia che è stato pensato, meditato dal giudice, ammesso da coloro che sono soggetti alla giustizia e dalla popolazione intera – tutti coloro che partecipano in un modo o nell'altro a questo giudizio. Ed è in questo che consiste il dikaion. L'emergere del termine dikaion – quale elemento giusto che funge da principio regolatore della sentenza – è correlativo all'apparizione di un giudice che, prestando giuramento, afferma la sua autonomia rispetto alle parti e non lascia più che il procedimento giudiziario si svolga nella 53 Ibid., pp. 98 sgg.

forma dell'agon, dello scontro agonistico tra le due parti. Fino a che la soluzione di un litigio avveniva nella forma dell' agon – della lotta, di una lotta che aveva il suo culmine nel giuramento – il giudice non poteva essere niente di più del garante o del testimone della regolarità stessa della procedura e delle forme; ed è quanto accadeva nel dikazein. A partire dal momento in cui avremo un ambito nel quale la giustizia dovrà intervenire come istanza autonoma incaricata di giudicare non della semplice regolarità delle forme, ma del contenuto stesso della sentenza da emanare, quando dovrà decidere tra i due avversari, in quel momento bisognerà pure che il giudice si riferisca a qualcosa, e questo sarà appunto il dikaion. Di colpo, la struttura agonistica si allenta: non si ha più semplicemente a che fare con due contendenti che si affrontano, tutt'al più con dei garanti della regolarità del loro scontro; avremo invece una struttura terza, con un giudice e due contendenti, e la scena tra il giudice e i due contendenti si riferirà a un ambito nuovo di cui Omero non aveva l'idea, che è l'ambito del dikaion. A questo punto è chiaro che bisognerebbe addentrarsi in problemi storici che qui mi limito semplicemente a indicare. In ogni caso è evidente che l'emergere, [da una parte] di una struttura giudiziaria autonoma che afferma la propria indipendenza e, fino a un certo punto, la propria sovranità e, dall'altra, di questo ambito del dikaion, si lega in fondo all'apparire di tutto un problema di economia rurale 54: il problema del debito, il problema della suddivisione delle proprietà, di tutto un insieme di questioni di ordine economico, di questioni commerciali e agricole, che sono appunto ciò che, agli occhi di Esiodo, non poteva essere di competenza del vecchio dikazein aristocratico, nel quale i due contendenti si opponevano l'uno all'altro a suon di giuramenti davanti a qualcuno che non era altro che il garante della forma e che, di fatto, serviva piuttosto gli interessi dell'uno che non quelli dell'altro. Ciò che Esiodo rivendicava, che richiedeva, verso cui si orientava quando invitava Perse ad arrivare con lui a 54 Cfr. su questo punto M. DETIENNE, Crise agraire et attitude religieuse chez Hésiode , Latomus, Bruxelles 1963.

qualcosa che doveva essere un dikakrinein o un diakrinesthai reciproco, era appunto il ricorso all'arbitrato, un arbitrato rispetto al quale ciascuno fosse d'accordo e che doveva stabilirsi in funzione del dikaion55. Mi sembra che ci troviamo di fronte a due processi che mi limito semplicemente a segnalare, e che sono legati a tutte quelle trasformazioni sociali, a quell'emergere di problemi economici e sociali nuovi, a tutta quella grande crisi del VII-VI secolo in Grecia che introdurrà l'età classica. Nell'ambito di questa crisi, assistiamo a due processi: da una parte, l'autonomizzazione dell'istanza giudiziaria che si pone al di sopra degli agonisti, al di sopra dei lottatori; e, in seguito, la specificazione di una regione del dikaion in cui non si tratta più semplicemente del rispetto delle regole della themis – in cui non si tratta più semplicemente del rispetto della buona procedura – ma di stabilire ciò che è giusto in sé. E giusto perché? Perché è così che è la realtà delle cose: è il dikaion e l'alethes56. La verità, a questo punto, non ha più il suo luogo di emergenza, di manifestazione nel giuramento dei protagonisti. La verità deve manifestarsi nella formulazione di quello che è il dikaion, di quello che è il giusto. È proprio questa l'epoca in cui appaiono sia la poesia sia la filosofia greche, che si dànno entrambe come compito di dire insieme il dikaion e l'alethes, dikaion e alethes che sono iscritti nell'ordine stesso del mondo. E credo che con questo ci sia l'introduzione a un mondo giuridico, a un mondo filosofico e a un mondo di sapere che è totalmente diverso. Per la prima volta – mi sembra – si ha il legame tra questo dikaion e questo alethes, tra questo giusto e questo vero, che sarà il problema, si può dire costante, del mondo occidentale. Bene. Si tratta semplicemente di indicazioni*.

55 Rispetto al problema di sapere se l'arbitrato rappresenta «la forma più antica di regolazione giudiziaria», cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 62, oltre al capitolo intitolato L'institution des arbitres publics à Athènes, ibid., pp. 103-119. 56 Cfr. FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 103 sgg. * Applausi tra il pubblico.

Lezione del 28 aprile 1981

Rappresentazione del diritto nell'«Edipo re» di Sofocle. – Un paradigma giudiziario. – I moventi della tragedia. – Due « anagnoriseis», tre aleturgie. – Veridizione e profezia. – Veridizione e tirannide. – Veridizione e «testimonianza di confessione». – Grandezza delle parti, libertà di parola e condizioni dell'effetto di verità nell'inchiesta. – Il riconoscimento attraverso il coro, condizione del riconoscimento da parte di Edipo. – Dal dir vero al dire «io». – Una procedura conforme al « nomos», una veridizione che ripete quella del profeta e completa quella dell'uomo della «techne technes». Vi devo due tipi di scuse. Una prima scusa tradizionale, che dovrei rinnovare – o piuttosto, che non rinnoverò – ogni volta, perché, non essendo né giurista, né storico del diritto,non vorrei che vi attendeste da me un rigore tecnico che io non sono in grado di assicurarvi. Quel che mi interessa nella riflessione sul diritto sono sicuramente gli aspetti filosofici che un certo numero di pratiche o di tecniche giuridiche può implicare. Mi interessa inoltre il contesto culturale nel quale le pratiche giudiziarie hanno potuto svilupparsi e organizzarsi – che si tratti, nel sistema penale, del problema della prigione per esempio, oppure, ancora una volta nel sistema penale, del problema della confessione. Sarà sempre, dunque, un

po' oscillando tra riferimenti propriamente giuridici e riferimenti extragiuridici che cercherò di analizzare i diversi temi che vorrei trattare. La seconda richiesta di scusa che vi rivolgo riguarda il fatto che oggi vi presenterò quella che forse è la milionesima riflessione su Edipo, sull' Edipo re, la tragedia di Sofocle1. Milionesima riflessione che ha dalla sua un'unica giustificazione: che non l'incentrerò sulla cosa straordinaria, mostruosa, unica che Edipo ha compiuto, ma, al contrario, sul modo molto regolare, stavo per dire del tutto comune, in cui questa cosa è stata portata alla luce da Edipo e per Edipo. In altre parole, quello che vorrei presentarvi in forma un po' disordinata, come una semplice lettura del testo e niente di più, perché possiamo eventualmente discuterne in seguito, sono solo alcune riflessioni sul modo in cui sono connessi, nella tragedia di Sofocle, il mal fare di Edipo e il dir vero. O ancora, se volete, non è

1 Oltre a questa, Foucault ha proposto numerose analisi dell' Edipo re; nel 1971 (Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 177-192), nel 1972 (Le savoir d'Œdipe, conferenza tenuta a Buffalo, ibid., pp. 23-253), nel 1973 (La verità e le forme giuridiche cit.) e nel 1980 (Du gouvernement de vivants. Cours au Collège de France , Gallimard-Seuil, Paris 2012, lezioni del 9, 16, 23 e 30 gennaio 1980). Il tema della verità come effetto dell'adeguamento di due dire-a-metà, da una parte, e della messa in relazione di enunciati e di forme di visibilità dall'altra, importante in Mal fare, dir vero e nella conferenza del 1972, sarà ripreso nel quadro di una comparazione tra l'Edipo re e lo Ione nel 1983 (FOUCAULT, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France, 1982-1983 cit., lezioni del 19 e 26 gennaio 1983, pp. 79-129). Sempre nel contesto di questa comparazione, è ripreso anche il tema della necessaria successione di momenti di veridizione, necessità riferita all'assunzione della verità da parte del soggetto in Mal fare, dir vero, e al diritto di parlare in Il governo di sé e degli altri.

tanto Edipo, l'interdizione edipica o la maledizione edipica che vorrei studiare2, ma piuttosto la veridizione edipica3. Cercherò di riprendere la questione della veridizione in forme diverse, in termini sia [di] pratiche giudiziarie sia di esperienze culturali. Edipo – intendo dire l'Edipo re di Sofocle – è, come sapete, una rappresentazione fondatrice del diritto. Quando dico questo, sicuramente dico una banalità e un luogo comune: tutti sanno che, nella tragedia greca, il pro2 Probabile riferimento alla lettura della tragedia proposta da Freud nell' Interpretazione dei sogni, dove paragona lo «svelamento […] sapientemente differito» dell'identità di Edipo al «lavoro di una psicoanalisi». Ricordiamo che, secondo Freud, il destino di Edipo «ci commuove soltanto perché sarebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l'oracolo ha decretato la stessa maledizione per noi e per lui […] Come allora, anche oggi il sogno di avere rapporti sessuali con la madre è frequente in molti uomini […] Esso è […] la chiave della tragedia e il complemento del sogno della morte del padre. La favola di Edipo è la reazione della fantasia a questi due sogni tipici e, nello stesso modo in cui i sogni di adulti sono vissuti con sentimento di rifiuto, così la leggenda deve accogliere nel suo contenuto anche orrore e autopunizione» (S. FREUD, Die Traumdeutung, 1899 [trad. it. L'interpretazione dei sogni, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. III, pp. 244-245]. Foucault contesta questa ipotesi fin dal 1971: «Freud, – dice allora, – procedendo nella direzione dei rapporti dal desiderio alla verità, ha creduto che Edipo gli parlasse nelle forme universali del desiderio; mentre gli raccontava i limiti storici del nostro sistema di verità (di quel sistema nel quale Freud era appena inciampato)» (Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 185); egli parla a questo proposito di «errore di Freud», ma anche «dei culturalisti a proposito dell'errore di Freud» – probabile allusione, secondo Daniel Defert (ibid., p. 193, nota 18) a B. MALINOWSKI, Sex and Repression in Savage Society, Routledge & Kegan Paul, London 1927 [trad. it. Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Boringhieri, Torino 1974]. Nello stesso senso, cfr. J.-P. VERNANT, Œdipe sans complexe, in «Raison présente», IV (1967), pp. 3-20; ripreso in ID. e P. VIDAL-NAQUET, Œdipe et ses Mythes, Éd. Complexe, Bruxelles 2006, pp. 1-22 [trad. it. Edipo senza complesso, in J.-P. VERNANT e P. VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nell'antica Grecia , Einaudi, Torino 1976, pp. 6487]. Vernant, che discute un testo di Anzieu (D. ANZIEU, Œdipe avant le complexe ou l'interprétation psychanalytique de Mytes, in «Les Temps modernes», 1966, n. 245, pp. 675-715), confuta la tesi dell'universalità e astoricità dei desideri che secondo Freud costituiscono il «complesso di Edipo». Cfr. inoltre B. KNOX, Oedipus at Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time, Yale University Press-Oxford University Press, London-New Haven 1957, pp. 4-5. 3 Come Vernant, Foucault ritiene, contro Freud, che la storia di Edipo non sia «la favola più antica del nostro desiderio e del nostro inconscio» (FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche cit., p. 97). Come Deleuze e Guattari (G. DELEUZE e F. GUATTARI, Capitalisme et schizophrénie, vol. I: L'Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972 [trad. it. L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975]), egli cerca «dietro quella che si pretende sia la storia di Edipo, qualcosa che ha a che fare […] con la storia di un potere, di un potere politico» (FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche cit., p. 98). Ma nel 1981, come nel 1973, l'intento non è quello di mostrare nell'Edipo «uno strumento di limitazione e di costrizione per gli psicoanalisti, a partire da Freud, utilizzano per contenere il desiderio e farlo rientrare in una struttura familiare definita dalla nostra società in un momento determinato» (ibid.); per lui si tratta invece di «un determinato tipo di relazione tra potere e sapere, tra potere politico e conoscenza»; un determinato tipo di relazione «di cui la nostra civiltà ancora non si è liberata», e che la tragedia di Edipo rappresenterebbe, o addirittura avrebbe in qualche modo instaurato ( ibid.). La giustapposi-

blema, il tema della rappresentazione del diritto – della rappresentazione fondatrice del diritto – è essenziale. Che si tratti di Eschilo nel Prometeo o nell'Orestea, che si tratti di Sofocle con l'Antigone o l'Elettra, il problema dello scontro tra diritti, o scontro tra il diritto della famiglia e il diritto della città, il problema della fondazione della legge, il problema dell'istituzione originaria del tribunale, la questione della vendetta – tutto zione delle analisi del libro XXIII dell' Iliade di Omero (lezione del 22 aprile 1981) e del testo di Sofocle (28 aprile 1981) suggerisce che, più che il «triangolo edipico padre-madre-figlio», preso di mira da Deleuze e Guattari, ad attirare la sua attenzione nell' Edipo re è la triangolazione del gioco di verità già individuato da L. GERNET, Les temps dans les formes archaïques du droit (in «Journal de Psychologie», LIII [1956], pp. 379-406; ripreso in ID., Droit et institutions en Grèce antique cit., pp. 121-156, in particolare p. 128: «Il gioco diventa triangolare: una verità di un altro tipo si afferma, in cui si produrrà la nozione di un tempo socializzato»); una triangolazione che secondo Gernet non risulta da un'evoluzione, ma corrisponde a una mutazione (p. 127). La lezione del 22 aprile prendeva in considerazione procedure o rituali giudiziari che opponevano due parti nella forma della lotta, procedure o rituali immediatamente efficaci, in tutti i sensi della parola «immediatamente»: dove il solo tempo di riferimento è il tempo giudiziario; in cui la verità giuridica è prodotta nel presente del rito; in cui non dipende da «ciò che è accaduto» (p. 131) e in cui di conseguenza non c'è modo di stabilire una «verità storica» (al momento di regolare la controversia che oppone Menelao e Antiloco, l' histor, sottolinea Foucault, non viene consultato); in cui il compito dei testimoni o dei cogiuranti non comporta di essere «degli informatori tanto o poco validi su di un fatto passato» – per lo più, nota Gernet, essi non hanno conosciuto il fatto: testimonianza e cogiuramento sono affermazioni di solidarietà fondate su un sapere che non è discutibile né discusso (pp. 134-136); dove una delle parti è, «secondo le regole del gioco, autorizzata a utilizzare contro l'altra una certa arma o un'altra»; dove convincere e vincere sono tutt'uno (p. 132); e dove in fine si tratta di ordalia, la quale è «senza rapporto con la nozione positiva di prova» e «fa uscire tanto dal tempo umano quanto dallo spazio umano» (p. 133). La lezione del 28 aprile 1981 è dedicata all'analisi di Edipo – il quale, invece, fa di tutto per stabilire, mediante diversi procedimenti, «che cosa è accaduto». Altro tipo di verità – verità che, per citare ancora Gernet (p. 131), rappresenta appunto «quello che noi chiameremmo verità storica»; e verità prodotta in un altro tipo di gioco, in cui domina un altro tipo di enunciati, non più performativi ma constatativi. A questo altro gioco corrisponde un altro tipo di temporalità, che ne costituisce il quadro e la condizione di possibilità: un «tempo astratto e quantitativo» che include «la nozione di un passato che vale in quanto tale» (p. 155). La mutazione è segnata dalla trasformazione dell'ufficio del testimone: oramai, per modo di dire, ridotto a neutralità, egli diventa, in quanto mnemon, il custode del ricordo del passato in vista di una decisione di giustizia (p. 152). Da notare che la triangolazione del gioco di verità è solo uno degli aspetti della tragedia di Sofocle che Foucault studia, in quanto il dramma stesso si organizza come una successione dei tipi di sapere o di aleturgie, articolando in modo differente passato, futuro e presente (su queste articolazioni, cfr. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. 99, nota 3). Per ora, la triangolazione del gioco di verità nell'Edipo re si mostra solo confusamente, nella misura in cui Edipo, oltre al fatto di essere marito e figlio della stessa donna e padre e fratello degli stessi figli, è anche giudice e parte in causa, o meglio incriminante e incriminato. Quest'ultima confusione o ambiguità, che fa di lui al contempo il soggetto e l'oggetto della ricerca, è in Mal fare, dir vero l'aspetto più importante – a differenza di quanto si osserva nella tradizione psicoanalitica.

questo costituisce una sorta di trama se non universale, per lo meno assolutamente costante nella tragedia greca. Mi sembra peraltro che, in generale, nella maggior parte delle società indoeuropee, in ogni caso nel teatro che conosciamo, a partire dal teatro greco fino al teatro del XVI e XVII secolo, la questione della rappresentazione del diritto nel teatro sia stata una costante. Dopotutto, il teatro di Shakespeare – o almeno, tutto il versante del teatro politico di Shakespeare – mi sembra che abbia avuto come problema centrale il tema della fondazione del diritto sovrano: in che modo […] un sovrano può arrivare a esercitare legittimamente un potere di cui si è appropriato con la guerra, con la rivolta, con la guerra civile, con il crimine, con la violazione dei giuramenti? Mi sembra che anche nel teatro classico francese – penso evidentemente soprattutto a Corneille – siano affrontati e rappresentati problemi di diritto pubblico. E mi sembra che anche in Schiller il problema del diritto, la rappresentazione nel teatro della fondazione del diritto, sia essenziale. Mi sembra che potrebbe essere interessante studiare tutto il teatro, tutta la storia del teatro nelle nostre società, in funzione di questo problema della rappresentazione del diritto. Si ha un po' l'impressione – mi sembra, insomma, che sarebbe una pista da studiare – che, dal teatro greco almeno fino al termine del XVIII secolo, il teatro nelle società europee abbia avuto una funzione, non l'unica, ma tra le sue funzioni, quella di diventare il luogo, di fornire una scena al dibattito sul problema del diritto. Cosa che non è accaduta per il romanzo, mentre è accaduta forse con l'epopea. Accade forse anche con il western americano che, dopotutto, è anche un problemi di diritto, di scontro tra diritti, di scontro tra legge e vendetta, di diritto di conquista. Mi sembra che ci sia tutto un lato delle istituzioni di rappresentazione, delle arti rappresentative nelle società europee, che risponde alla questione della fondazione del diritto e il cui significato è rendere manifesti in un modo o nell'altro i problemi fon-

damentali del diritto. Ma ora lasciamo stare questa questione – pista di lavoro possibile4. L'Edipo re è in ogni caso, in modo chiaramente visibile, una rappresentazione del diritto, poiché vi si tratta di un crimine, di un crimine nel suo duplice aspetto di infrazione rispetto a leggi fondamentali e di contaminazione della purezza religiosa5, due aspetti che sono peraltro del tutto indissociabili nel pensiero e nella cultura dei Greci. Vi si pone, inoltre, il problema della scoperta dell'autore del crimine, e, come problema finale 4 Foucault ha menzionato la «pista di lavoro» teatrale in numerosi corsi. Nel febbraio del 1976, egli sviluppa un insieme di osservazioni a proposito, da una parte, della tragedia greca come «tragedia del diritto», e dall'altra della tragedia shakespeariana come «rituale di rimemorazione dei problemi di diritto pubblico», caratterizzazione che estende alle tragedie di Corneille e di Racine («Il faut défendre la société», Cours au Collège de France, 1976 , Gallimard-Seuil, Paris 1997, pp. 155-157 [trad. it. «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 1998, pp. 153156]). Nel marzo 1978, Foucault propone un insieme di considerazioni sulla «pratica teatrale della ragion di Stato» ed evoca l'apparizione, nell'età classica, di un «teatro politico, il cui rovescio è il funzionamento del teatro, nel senso letterale del termine, come luogo privilegiato della rappresentazione politica e in particolare del colpo di Stato»; egli osserva che il teatro di Shakespeare, di Corneille e di Racine offre «spesso, quasi sempre, rappresentazioni di colpi di Stato» (Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France, 1977-1978 , Gallimard-Seuil, Paris 2004, p. 271 [trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (19771978), Feltrinelli, Milano 2005, p. 193]). Le indicazioni fornite ci permettono di precisare come si debba intendere uno dei termini utilizzati da Foucault in La verità e le forme giuridiche cit., p. 98, per definire la funzione che assegna all' Edipo re, termine commentato di recente da PH. CHEVALLIER, Michel Foucault et le christianisme, ENS éditions, Lyon 2011, pp. 160-163. Quando Foucault dice che la tragedia di Sofocle è «rappresentativa […] di un determinato tipo di relazione tra potere e sapere, tra potere politico e conoscenza, di cui la nostra civiltà ancora non si è liberata», si dovrebbe attribuire al termine «rappresentativa» un senso teatrale – «drammatico», dice Foucault alla fine della lezione –, vale a dire un senso aleturgico (cfr. Situazione del corso, infra […]). Se, seguendo Daniel Defert (in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 242), si ritiene che «la questione posta […] attraverso Edipo, “chi parla?”, sia la questione stessa degli anni 1970» e che «[la] ripresa della Grecia arcaica servisse allora, come era già servita al giovane Nietzsche wagneriano, da metafora per l'attualità», allora, la funzione che Foucault assegna all'Edipo re (o alla lettura che ne propone) è la funzione stessa che Vernant descrive come propria della tragedia: esprimere «trasponendoli secondo le esigenze di un genere letterario nuovo i conflitti interni del pensiero sociale» (non tuttavia il pensiero della cit tà del V secolo: il pensiero attuale); e, più in generale, «attraverso il dibattito aperto dal dram ma, lo stato stesso dell'uomo si trasforma in problema» (VERNANT, Œdipe sans complexe cit., p. 3 e ID., Mythe & société en Grèce ancienne , François Maspero, Paris 1974; ried. 1982, p. 206 [trad. it. Mito e società nell'antica Grecia, Einaudi, Torino 2007, p. 203]). 5 Su questo punto, cfr. FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 161-193. Sulla questione della contaminazione, è possibile che una delle fonti di Foucault sia stata L. MOULINIER, Le pur et l'impur dans la pensée et la sensibilité des Grecs jusqu'à la fin du IVe siècle avant J.-C., Klincksieck, Paris 1952, testo analizzato in J.-P. VERNANT, Le pur et l'impur, in «L'Année sociologique», 1953-1954, pp. 331-352; ripreso in ID., Mito e società nell'antica Grecia cit., pp. 115-134.

– che resta aperto, peraltro, nell'opera –, quello della punizione del criminale. In modo molto schematico, possiamo dire che nel caso, ad esempio, dell'Elettra o dell'Antigone, il problema era di sapere in che modo fare spazio al diritto familiare all'interno del diritto della città, come metterli l'uno di fronte all'altro e come coordinarli l'uno con l'altro. Nel caso dell'Edipo si pone un problema giuridico molto più semplice: si tratta di scoprire l'assassino sconosciuto. La questione della procedura da impiegare per scoprire l'assassino sconosciuto è ben nota non solo nel diritto classico greco, ma anche nella filosofia greca classica. Per esempio, nel libro IX delle Leggi di Platone, paragrafo 874 a, trovate esattamente il problema di Edipo – non Edipo in particolare, ma il caso generale della situazione edipica6. Platone descrive il caso in cui, mentre l'omicidio è evidente, non si scopre chi è l'assassino e [in cui] costui resta introvabile malgrado tutti gli sforzi degli inquirenti. Abbiamo dunque questa situazione giuridica semplice – molto più semplice che nell'Elettra, per esempio, o nell'Antigone: è stato commesso un crimine, bisogna trovare il colpevole di cui non si conosce né il nome né l'identità. Detto questo, per definire la situazione di partenza, nel corso di tutto il testo, una serie di termini giuridici di tipo tecnico – molto precisi, ma perfettamente comprensibili per il pubblico greco – mostra chiaramente che il dramma si svolge proprio come un processo. Com'è ovvio, non si tratta della rappresentazione fedele ed esauriente di un processo. Ma possiamo dire che c'è un paradigma giudiziario perfettamente chiaro che si organizza attorno alla questione: come trovare il colpevole di cui si conosce il crimine, ma di cui non si conosce l'identità? A titolo di semplice orientamento, vi indicherò alcuni di questi elementi del paradigma generale. Prendiamo per esempio, proprio all'inizio del testo, il momento in cui, dopo che Edipo ha inviato Creonte a informarsi presso l'oracolo di Delfi per sapere perché Tebe fosse stata afflitta 6 Cfr. PLATONE, Leggi, libri VII-X. Due estratti del libro IX delle Leggi si applicano alla situazione di Edipo. Il primo determina le pene da infliggere a colui che ha ucciso il padre o la ma dre (IX, 869 a-c). Il secondo, che Foucault esamina nel dettaglio più avanti nel corso della stessa lezione, fissa le disposizioni da adottare quando l'assassino è sconosciuto (IX, 874 a-b).

dalla peste, assistiamo al ritorno di Creonte, che reca con sé la risposta. Edipo domanda a Creonte: «Vediamo dunque, di quale delitto ci informa Apollo?»7. Il testo greco usa il verbo menuein, che la traduzione francese8 rende dicendo che Apollo indica il crimine come causa della peste. In realtà, il verbo menuein è un termine tecnico, che designa una forma di azione giudiziaria ben precisa9. Nel diritto greco classico, esistevano due modi di denunciare un crimine, davanti al consiglio (la boule) e davanti all'assemblea. Una di queste procedure era possibile, ammissibile, quando colui che sporgeva la denuncia era un cittadino: si trattava della exangelesia. Quando invece colui che denunciava il crimine non era un cittadino e non poteva presentare la sua denuncia sotto questa forma, doveva adottarne un'altra, la menusis – che è appunto quella in questione. Ora, in effetti, poiché Apollo non è tebano, non può, come se fosse invece un cittadino, intraprendere un'azione legale nella forma dell' exangelesia: egli presenta una menusis, che è appunto il termine tecnico qui impiegato. Abbiamo dunque a che fare con una denuncia, da parte di un non-cittadino, per un crimine commesso nel territorio della città 10. Interessante da osservare è che questa menusis di Apollo, la denuncia che sporge, assume due forme: ha assunto la forma della peste, la peste che viene mandata come reazione all'impurità, come conseguenza dell'impurità provocata dal crimine; e poi la denuncia è anche l'oracolo che è stato pronunciato e che Creonte riporta. La procedura giudiziaria designata per nome dal te7 SOFOCLE, Edipo re, v. 102: poiou gar andros tende menuei tychen . «Di quale uomo denuncia (menuei) così la morte? (tychen)», nella traduzione di Masqueray ( Œdipe-Roi, in SOFOCLE, Œuvres, vol. I, Les Belles Lettres, Paris 1922, p. 144). «Ma qual'è dunque l'uomo di cui l'oracolo denuncia (menuei )a morte?» in quella di Mazon (SOFOCLE, Œdipe-Roi, Les Belles Lettres, Paris 2007, pp. 10-11). Da notare che la parola greca tradotta con «morte» è tyche, «sorte» (sui diversi significati di tyche nel testo della tragedia di Sofocle, cfr. KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., pp. 176-181). 8 Daniel Defert (in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 192, nota 1) dà come riferimento l'edizione di Masquenay (cfr. nota 7). Foucault, a Lovain-la-Neuve, utilizza sia la citata traduzione di Mazon (cfr. nota 7) sia Œdipe-Roi, in SOFOCLE, Tragédies complètes, prefazione di P. Vidal-Naquet, traduzione di P. Mazon, Gallimard, Paris 1973. I riferimenti forniti di seguito rinviano a SOFOCLE, Œdipe-Roi, Les Belles Lettres, Paris 2007. 9 Su menuein e menusis, cfr. KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., p. 80, opera su cui sembra basarsi l'analisi sviluppata da Foucault in questo paragrafo e nei tre paragrafi che seguono. 10 Ibid., p. 81.

sto è percepita come inserita sia nell'azione divina (la vendetta di Apollo) sia nel rito religioso della profezia (dell'oracolo). A questa menusis, a questa denuncia di Apollo, Edipo risponderà come un grande responsabile di giustizia: «Poiché esiste denuncia, io ricomincerò» – qui cito il testo, o in ogni caso la traduzione – «ricomincerò dal principio»11. Ciò corrisponde esattamente all'episodio, anch'esso giuridicamente ben definito, che deve seguire la denuncia del crimine quando essa è stata accolta sia dal consiglio sia dall'assemblea: si designano degli inquirenti – zetetai12 – che sono incaricati di indagare e di riconsiderare le cose dall'inizio, per sapere quale sia la verità di questa denuncia. E, per sottolineare bene il carattere del tutto giudiziario della procedura che avvia, Edipo da una parte promette una ricompensa a chiunque gli fornirà un'informazione, dall'altra maledice coloro che nascondono ciò che sanno e infine, in terzo luogo, assolve quanti testimonieranno contro se stessi13. Ora, nella straordinaria ricchezza e complessità del testo, con tutto l'insieme di risonanze che si ripercuoteranno per tutta la tragedia, sappia11 SOFOCLE, Edipo re, v. 132. 12 Cfr. su questo punto KNOX, Oedipus and Thebes: Sofocles' Tragic Hero and His Time cit., pp. 80-81. 13 SOFOCLE, Edipo re, vv. 224-275. Su questo punto, cfr. KNOX, Oedipus and Thebes: Sofocles' Tragic Hero and His Time cit., pp. 81-82. Promettere, maledire, assolvere: tre speech acts, come Foucault aveva detto riprendendo il concetto di Austin durante la conferenza inaugurale (cfr. supra […]); tre «parole efficaci», per riprendere la terminologia di Marcel Detienne in I maestri di verità nella Grecia arcaica cit. – una delle tre pubblicazioni che hanno configurato la congiuntura nella quale le Leçons sur la volonté de savoir (e, di conseguenza, le prime lezioni su Edipo) sono state elaborate (cfr. D. Defert in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 266). Parole di tipo magico-religioso che «realizzano» e «compiono», come viene espresso in greco dal verbo krainein (DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. 36); che non sono «il riflesso di un avvenimento preformato», ma «uno degli elementi della sua realizzazione» (ibid., p. 39); che una volta articolati diventano «una potenza, una forza, un'azione» (ibid., p. 37) e per questa ragione appartengono all'ambito dell'immediato e dell'irrevocabile. All'inizio della tragedia, Edipo re – Edipo in quanto re: poiché la verità, in quel caso, è ancora «connessa a certe funzioni sociali»; «è inseparabile da determinati tipi di uomini, dalle loro qualità proprie e da un piano del reale definito, nella società greca arcaica, attraverso la loro funzione» (ibid., p. 32) – è, come l'indovino, un «maestro di verità»: enunciando la giustizia, egli «“dice la verità”, o piuttosto, egli veicola la “verità”»; e, dicendola o veicolandola, la realizza (la parola carica di efficacia, scrive Detienne ( ibid., p. 40) «è subito una realtà, una realizzazione, un'azione»). Al termine della tragedia, tanto Edipo quanto la parola efficace – forma di dir vero del maestro di verità – sono decaduti dalla loro sovranità.

mo che la maledizione rivolta contro coloro che nascondono ciò che sanno, l'assoluzione concessa a quanti testimoniano contro se stessi, assumeranno il senso drammatico – o meglio, il senso tragico piuttosto – che vi è ben noto. Ma bisogna riconoscere anche che non si tratta semplicemente degli effetti dell'economia drammatica dell'opera: la famosa maledizione che Edipo scaglia contro il criminale sconosciuto e che ricadrà sulla sua testa è al contempo una procedura giudiziaria perfettamente attestata nel diritto ateniese classico. Per esempio, nel celebre processo per sacrilegio del 415 (il 415 è qualche anno dopo l'Edipo, ammesso che l'Edipo sia stato davvero rappresentato nel 420), raccontatoci da Tucidide 14 e che in seguito racconterà Plutarco15, abbiamo attestazioni di procedure di questo genere: ricompensa e promessa a coloro che potevano fornire informazioni; e c'era inoltre l'assicurazione di impunità per coloro che avessero denunciato contro se stessi. E la famosa maledizione che Edipo pronuncia contro il criminale sconosciuto che si rivelerà essere lui stesso è nata, persino nella scelta dei termini, come eco molto diretta di una pratica religiosa e giudiziaria che era comune all'epoca e che Platone attesta. Nel libro IX delle Leggi, a proposito dell'omicida sconosciuto, appunto, si dice quanto segue: «Se uno è trovato morto e non si conosce l'uccisore, e nessuna indagine ha potuto scoprirlo, si devono pronunciare le interdizioni contro l'assassino» – quello che fa Edipo – «l'araldo proclami nella pubblica piazza che l'assassino, chiunque egli sia, non deve mettere piede, in nessun luogo sacro del proprio paese o di quello della vittima» 16 – ed è, ancora esattamente, quel che dice Edipo. E in questo caso, «se lo fa e viene scoperto, che sia messo a morte e gettato senza sepoltura fuori dai confini»17 – e proprio di questo si discuterà alla fine dell'opera di Sofocle. Sono dunque attivati gli strumenti stessi dell'inchiesta. E l'inchiesta si svolgerà, anche in questo caso, in un modo che è giuridicamente ben rico14 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, VI, 27-29 e 60-61. 15 PLUTARCO, Vite degli uomini illustri. Vita di Alcibiade , 18-21. 16 PLATONE, Leggi, IX, 874 a-b [trad. it. Leggi, in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1971, vol. VII, p. 316 (traduzione modificata)]. 17 Ibid., IX, 874 b [trad. it. cit.].

noscibile. C'è in primo luogo Tiresia – Tiresia l'indovino, come sapete – che si presenta, e che si presenta in tutto e per tutto come un testimone. Sono gli stessi testi a dirlo: «egli è venuto», eiseleluthas18 – eiserchomai significa comparire, comparire nel senso giuridico, tecnico del termine. «Sono venuto, – dice Tiresia, – perché tu mi hai chiamato», kaleis19 – anche qui, abbiamo un termine giuridico. Tiresia si comporterà come un testimone riluttante20 che viene minacciato, ed Edipo alla fine porrà termine alla sua testimonianza mandandolo via con una formula anch'essa rituale, aphes, «vattene»21. E il coro, dopo che Tiresia se n'è andato, discuterà della sua testimonianza come discuterebbe di una testimonianza una giuria. Dopo Tiresia, si presenta Creonte – non come testimone: viene anzi a lamentarsi davanti al coro, davanti alla giuria, di essere stato oggetto di accuse calunniose da parte di Edipo. E a quest'accusa, al rimprovero che muove a Edipo, Edipo, da parte sua, risponderà con un'altra accusa. Lo accuserà di kako technia22, impiegando un termine giuridico che significa, in generale, o «manovra fraudolenta» o, in modo più specifico, «subornazione di testimone», che in effetti è quanto Edipo rimprovera a Creonte. Gli rimprovera di aver subornato il testimone che doveva essere 18 SOFOCLE, Edipo re, v. 319: ti d'estin; hos athumos eiselelythas. Trad. di P. Mazon: «Cosa c'è? E perché un tale smarrimento al pensiero di essere venuto?». Secondo KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., pp. 84 e 226, nota 134, eiselelythas è il termine tecnico che significa «comparire davanti a un tribunale» (coming in to court). 19 SOFOCLE, Edipo re, v. 432. 20 Su questo punto cfr. KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., p. 82: «Ma quando l'appello di Edipo al profeta è seguito dall'inquietante rimpianto di essere venuto, ci troviamo a un tratto in un contesto familiare, l'esame del testimone riluttante». 21 Foucault sembra citare il testo a memoria: Edipo congeda Tiresia (cfr. la fine del v. 431: apostrapheis apei), ma non utilizza il termine aphes. È Tiresia a pronuncirlo, al momento di comparire davanti a Edipo (cfr. v. 320: aphes m'es oikous; trad. di Mazon: «Va', lasciami tornare a casa». Per KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocle's Tragic Hero and His Time cit., p. 84, aphes è, nel vocabolario giudiziario, il termine tecnico che significa liberazione ( release), assoluzione (acquittal) o rinvio (dismissal). 22 SOFOCLE, Edipo re, vv. 642-643: Dronta gar nin, o gynai, kakos eilepha soma syn technei kakei. Trad. P. Mazon: «Non l'ho forse sorpreso [o donna] mentre ordiva contro la mia persona un intrigo criminale?». Secondo KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., p. 90, c'è qui un riferimento a un punto della tecnica giudiziaria del V-IV secolo. Nel vocabolario della pratica giudiziaria, kakotechnian (termine che evoca le ultime parole del verso, technei kakei) significa «estorcere una falsa testimonianza», ciò di cui, precisamente, Edipo accusa Creonte, che egli sospetta di aver subornato Tiresia. Su questo punto, Knox ( ibid., p. 229) rinvia in particolare a PLATONE, Leggi, XI, 936 d.

l'oracolo e che egli ha riportato falsandone il senso. Almeno, è ciò che Edipo rimprovera a Creonte. E infine l'ultima scena, quella che comporterà appunto l'apparizione della verità e sulla quale dovremo evidentemente soffermarci più a lungo, è – in questo caso molto direttamente – una scena giudiziaria di testimonianza, d'inchiesta: interrogatorio, estorsione di confessione sotto minaccia, con minaccia di tortura, e finalmente la confessione. Il quadro generale dell'opera è dunque un quadro procedurale perfettamente riconoscibile. Ancora una volta, non è la rappresentazione esatta di un processo, ma è un paradigma giudiziario perfettamente comprensibile e riconoscibile per gli ascoltatori e gli spettatori greci. Allora, dopo questa introduzione un po' noiosa e tecnica, dobbiamo ora concentrarci sulla questione che intendo porre: su questa scena, o in questa scena giudiziaria, che cosa viene esattamente rappresentato? Tutti sanno, a partire da Aristotele –, a patto che si conosca Aristotele, evidentemente, ma in fondo, poco importa – che la tragedia greca si basa su due elementi: la peripezia, che rovescia la fortuna dei personaggi e trasforma la buona sorte in sventura, la fortuna in disgrazia 23; e, in secondo luogo, l'altra molla importante è il riconoscimento, cioè il fatto che l'identità reale di un personaggio fino ad allora sconosciuto o misconosciuto si riveli. La maggior parte delle tragedie greche, infatti, si basa su questi due meccanismi; e in generale è la peripezia 24, vale a dire il rovesciamento della situazione, a permettere di riconoscere la verità di ciascuno. L'Edipo re ha la particolarità di essere, fra tutte le tragedie greche, se non la sola, almeno una delle pochissime nelle quali non è la peripezia – vale a dire la trasformazione degli eventi, della fortuna dei personaggi – a 23 Secondo Aristotele, le storie sono semplici o complesse a seconda che le azioni che esse imitano siano semplici o complesse. È semplice l'azione che «svolgendosi […] con coerenza e con unità, giunge alla soluzione senza peripezia e senza riconoscimento»; è complessa l'azione in cui questo rovesciamento ha luogo «col riconoscimento o con la peripezia o con ambedue insieme» (ARISTOTELE, Poetica, X [trad. it. Laterza, Roma-Bari 1983, p. 214]). 24 La peripezia (peripeteia) è «il mutamento improvviso […] da una condizione di cose nella condizione contraria; e anche questo […] è sottoposto alle leggi della verosimiglianza o della ne cessità» (ibid., XI [trad. it. cit., p. 215]). Aristotele propone Edipo come esempio: «Così, per esempio, nell'Edipo, venuto [il messo da Corinto] con la persuasione di annunziare cosa gradita a Edipo e di sgombrargli l'animo dal terrore in cui era per i suoi rapporti con la madre, ecco che, rivelandogli il segreto della sua nascita, produsse l'effetto contrario» (ibid.).

rivelare la verità. È la rivelazione della verità, è l' anagnorisis25, il riconoscimento del personaggio nella sua identità reale a costituire la peripezia che provocherà la caduta di Edipo e farà di quest'uomo invidiato, la cui sorte sembrava più desiderabile di quella di chiunque altro, un uomo votato all'abominio e alla rovina definitiva. Si tratta dunque di una tragedia che poggia interamente sul meccanismo del riconoscimento, dell' anagnorisis. In realtà – ed è a questo punto che vorrei inserire la mia analisi e metterla in rapporto con le analisi correnti – mi sembra che ci siano due anagnoriseis, due forme di riconoscimento nell'Edipo re. Da una parte, c'è un asse che va dall'ignoranza o dall'incoscienza di Edipo stesso all'obbligo in cui si trova di riconoscere chi è. È l'asse del riconoscimento individuale, l'asse di Edipo in quanto soggetto di un'azione di cui non ha il ri25 Il riconoscimento (anagnorisis), altro elemento dell'azione complessa, è «il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, e quindi alla reciproca amicizia o inimicizia tra i personaggi dell'azione drammatica destinati alla buona o alla cattiva fortuna» (ibid.). Aristotele propone, in due occasioni, il riconoscimento di Edipo come un modello di bellezza tragica. Nel capitolo XI scrive: «La più bella forma di riconoscimento si ha quando intervengono contemporaneamente casi di peripezia, come nell'esempio sopra citato dell' Edipo» (ibid.). Nel capitolo XVI precisa: «Fra tutte, la miglior forma di riconoscimento è quella che scaturisce dalle vicende dell'azione medesima, quando cioè ci colpisce inaspettatamente e al tempo stesso avviene per cause verosimili, come nell'Edipo di Sofocle». Distingue questa forma: 1) dal riconoscimento «attraverso segni» (dia ton semeion), che è «fra tutte la meno artistica e delle quali pure fanno uso grandissimo i poeti quando non sanno trovare di meglio», 2) dai riconoscimenti «creati artificialmente dal poeta» (hypo tou poietou), 3) dal riconoscimento «che si ha mediante la memoria» (dia mnemes) e 4) dal riconoscimento «che nasce da un ragionamento» (ek syllogismou) (ibid., XVI [trad. it. cit., pp. 228-229]). Su questo punto, cfr. J.-P. VERNANT, Ambiguïté et renversement. Sur la structure énigmatique d'Œdipe Roi, in Échanges et Communications. Mélanges offerts à Claude Lévi-Strauss à l'occasion de son soixantième anniversaire , Mouton, Paris – Le Haye 1970, vol. II, pp. 1253-1273; ripreso in ID. e VIDAL-NAQUET, Œdipe et ses Mythes cit., pp. 2353 [trad. it. Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell' Edipo re, in VERNANT e VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nell'antica Grecia cit., pp. 88-120]. A tale studio Foucault fa riferimento durante la lezione del 16 gennaio 1980 al Collège de France (FOUCAULT, Du gouvernement des vivants cit.). Nel 1972, Foucault insiste, come Vernant, sul fatto che l' anagnorisis in Edipo re ha la caratteristica particolare di essere «riflessa»: colui che cerca è l'oggetto della ricerca; chi ignora è colui a proposito del quale si tratta di sapere (Le savoir d'Œdipe, in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 225; nello stesso senso cfr. VERNANT, Ambiguità e riconoscimento. Sulla struttura enigmatica dell' Edipo re, cit., p. 99), che rinvia a sua volta a Knox: «Edipo conduce un'inchiesta, giudiziaria e scientifica insieme, sottolineata dall'impiego ripetuto del verbo zetein. Ma l'investigatore è anche l'oggetto dell'inchiesta, lo zeton è anche lo zetoumenon, come l'esaminatore, l'inquirente è anche la risposta alla domanda. Edipo è lo scopritore e l'oggetto della scoperta, colui stesso che è scoperto»

cordo – o piuttosto, di cui non possedeva le chiavi o i significati – e di cui si rivela alla fine della tragedia che non soltanto è stato lui a commetterla, ma [che] l'ha commessa essendo il figlio di colui che ha ucciso, e il figlio di colei che ha sposato. Dunque, con questa anagnorisis individuale abbiamo l'emergere della verità del soggetto. Poi abbiamo un altro asse, quello di cui vorrei piuttosto occuparmi: l'asse dell'instaurazione della verità, non agli occhi di Edipo, ma agli occhi di un personaggio che è, credo, come in tutte le tragedie greche, assolutamente capitale, che è il coro. Se infatti Edipo cerca davvero la verità, la cerca affinché il coro possa riconoscerla – il coro, vale a dire i cittadini, cioè ancora l'assemblea del popolo, vale a dire ciò che viene costituito come istanza giudiziaria che ha il compito di scoprire, di stabilire la verità, e infine di convalidarla 26. Com'è che la verità di Edipo si rivela agli occhi del coro? È quest'asse, quello dell'instaurazione della verità in termini di validità e di legittimità giuridica, che vorrei studiare. Nella tragedia c'è un caso che colpisce: il fatto che, se è vero che Edipo, sino alla fine, è colui che non si riconosce per quel che è, per contro bisogna invece riconoscere che non solo la verità, la verità di ciò che egli è, è conosciuta dagli spettatori prima dell'inizio dell'opera, ma che tutta l'opera è scandita da elementi che servono a ricordare agli spettatori che, loro, invece, conoscono questa verità. Ciò non toglie che tale verità sia, nel corso dell'opera, prodotta esplicitamente almeno tre volte. Questa verità così difficile da conoscere, e che Edipo rifiuterà a lungo di riconoscere, viene detta interamente, completamente, esaurientemente, una prima volta, da due personaggi – sono infatti sempre due personaggi insieme e in qualche modo abbinati che, parlando in modo complementare uno rispetto all'altro, producono questa verità 27. La prima coppia a 26 Probabile riferimento a DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., pp. 76-77. Per questo autore, il fatto che il coro svolga ormai tale funzione è segno che «per la parola efficace è l'atto di morte», mentre «l'assemblea dei cittadini “realizza” (krainei)»; le antiche nozioni di telos e di krainein «ora sono solo metafore»; il potere nel senso magico-religioso, potere di compiere, di realizzare, diventa il potere nel senso politico, potere di governare. «L'efficacia magico-religiosa è divenuta ratifica del gruppo sociale». 27 Che la verità sia sempre prodotta da una coppia di personaggi che parlano in modo complementare l'uno rispetto all'altro – ciò che Foucault, in Le savoir d'Œdipe, chiama la «legge delle

produrre la verità è quella formata da Apollo e Tiresia: è Apollo a indicare perché c'è la peste, ed è Tiresia a dire chi è il colpevole. Prima manifestazione di verità, prima produzione di verità, prima veridizione – che, per un certo numero di ragioni, che bisognerà studiare, non funziona, non fa presa, non è accettata, non è convalidata né legittimata. E in seguito c'è una seconda produzione di verità. Anche la seconda produzione di verità è opera di due personaggi che si completano l'un l'altro: sono Giocasta ed Edipo i quali, richiamando i loro ricordi in condizioni di cui dovremo riparlare, dicono entrambi tutte le cose che consentono di riconoscere Edipo come lo sposo di sua madre e l'assassino di suo padre. Anche questa seconda veridizione, questa seconda aleturgia, resta in sospeso e non è accettata: non è convalidata, rimane con un elemento d'incertezza. Ed è solo alla terza volta, alla terza aleturgia, quando appare una nuova coppia, che la verità è infine non prodotta, perché lo era già, ma quemetà» (p. 226) – rinvia da una parte, attraverso il motivo del symbolon (cfr. SOFOCLE, Edipo re, v. 221), al tema dell'indizio e della prova (FOUCAULT, Le savoir d'Œdipe cit., p. 229; cfr. anche Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 191), ma ha anche a che fare con ciò che Detienne (I maestri della verità nella Grecia arcaica cit., p. 70) chiama la «laicizzazione della parola»: il declino della parola magico-religiosa a favore della «parola-dialogo» ( ibid., p. 59), dialogo tra i partner di ogni aleturgia (Apollo e Tiresia, Edipo e Giocasta, il messaggero di Corinto e il pa store del Citerone), dialogo anche tra le loro veridizioni. Del resto, i due temi sono intimamen te legati: la nozione positiva della prova è un correlato della «parola-dialogo», in cui la verità – nel senso della «verità storica», dunque di verità storicizzata –, ormai relativa, è funzione della conformità degli enunciati alla realtà, realtà che da una parte è reputata preesistere alla parola pronunciata, e dall'altra è costituita come riferimento oggettivo per la parola dialogata; questa stessa nozione positiva della prova è per contro estranea alla parola magico-religiosa, la quale fa prova, allo stesso modo in cui, veicolando la verità, essa fa realtà (cfr. su questo punto ibid., p. 75, oltre a GERNET, Le temps dans les formes archaïques du droit cit., ried. 1982, pp. 129137). Se, come scrive Foucault, ci sono due anagnoriseis in Edipo re – l'asse del riconoscimento individuale e l'asse dell'instaurazione della verità –, allora, sul secondo asse, la storia che la tra gedia racconta e che Foucault studia è, come mera ipotesi, intrecciata attorno a un problema di prova (problema che coinvolge il modo in cui la verità è concepita), la storia della sostituzione della «parola-dialogo» alla «parola efficace», del «pensiero razionale» al pensiero magico-religioso, e di una logica della [non-]contraddizione a una logica dell'ambiguità (su questa storia, cfr. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., pp. 111-112). Come il giuramento, la maledizione pronunciata da Edipo partecipa dell'ordalia; ma il «cambiamento di stato» o lo «spostamento dell'essere» (GERNET, Le temps dans les formes archaïques du droit cit., p. 133) a cui essa rinvia, con il passaggio dal registro della «parola efficace» a quello della «parola-dialogo», al di là della destituzione «individuale» di Edipo di cui essa è il mezzo, consiste nella laicizzazione di aletheia e nella mutazione del gioco di verità di cui la tragedia prende atto e che dipinge. Al termine del dramma, non si tratta più di giurare (pratica esaminata da Foucault durante la lezione del 22 febbraio 1981), ma di giudicare.

sta volta accettata, convalidata, e produce gli effetti giudiziari e gli effetti drammatici che ci si attende. E questa terza coppia che dice la verità, questa terza coppia di veridizione, questa terza ondata di aleturgia, è messa in atto dalla coppia costituita dal messaggero che viene da Corinto e da uno schiavo, il pastore del Citerone. Saranno questi due, allora, combinando gli elementi del loro sapere, a produrre la verità. Apollo e Tiresia, il livello degli dèi. Edipo e Giocasta, il livello dei re e dei capi. Il messaggero e il pastore, il livello degli schiavi e dei servi. E saranno lo schiavo e il servo, proprio loro, a produrre la veridizione che né i re né gli dèi erano stati capaci di produrre – non erano stati, in ogni caso, capaci di produrre in condizioni tali per cui l'istituzione giuridica potesse riconoscere loro validità. Tre manifestazioni di verità, tre aleturgie, tre tipi di veridizione – è appunto quello che vorrei studiare28. Come si è svolta ciascuna di queste veridizioni? Come si è svolta ciascuna di queste aleturgie? E perché è proprio la terza ad avere, in qualche modo, funzionato? Perché è stata la terza a produrre, di fatto, la verità? Allora, consideriamo la prima aleturgia, la prima coppia: il dio e l'indovino. Ricordate cosa accade. Poiché la peste infierisce su Tebe, Edipo ha inviato Creonte a consultare Apollo. Creonte è ritornato con il responso dell'oracolo. E cosa dice? L'oracolo dice questo. In primo luogo, la peste sarà vinta da una purificazione. «E poiché è necessaria una purificazione, purificazione da cosa?», domanda Edipo. «È la purificazione da un assassinio». Ma qual è dunque l'assassinio da cui ci si deve purificare? Il responso dell'oracolo, riportato da Creonte, dice che «si tratta 28 Nel 1971, 1972 e 1973, Foucault analizza Edipo re in termini non di successione di aleturgie, ma di scontro tra diversi tipi di sapere – sapere riferito agli dèi, oracolare e mantico o profetico, da una parte; sapere riferito agli uomini, giudiziario e scientifico o empirico, dall'altra. Sulla tragedia di Sofocle in quanto successione di saperi, cfr. tra altri il frammento conservato della trascrizione della lezione tenuta il 17 marzo 1971 e Le savoir d'Œdipe cit., pp. 189-192 e 225251; in quanto successione di aleturgie, cfr., prima di Mal fare, dir vero, il corso del 1979-1980 al Collège de France, Du gouvernement des vivants. La differenziazione materiale dei saperi è teorizzata in M. FOUCAULT, L'archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969 (D. DEFERT, Le savoir d'Œdipe, ibid., p. 251) [trad. it. L'archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980]. La teorizzazione della differenziazione formale delle aleturgie, già in atto in Mal fare, dir vero (cfr. la Situazione del corso, infra, […]) viene portata a compimento in Il coraggio della verità cit. (cfr. in particolare la lezione tenuta il 1° febbraio 1984).

dell'uccisione di Laio». Ma da chi è stato commesso questo assassinio? «Da qualcuno che si trova nel paese stesso, che è a Tebe» 29, è questa la risposta dell'oracolo, che a questo punto si ferma e non dice altro, perché – come si afferma nel testo – il dio non dice mai altro da quel che vuol dire30. Diciamo che, con questa risposta dell'oracolo, siamo in un certo senso a metà della vicenda, poiché si tratta semplicemente della denuncia da parte del dio di un assassinio che è stato commesso, e di cui si conosce la vittima. Sappiamo che sono questo assassinio e questa vittima ad aver generato la peste, e resta l'altra metà (in un certo senso) da colmare – cioè la metà relativa all'assassino. Si conosce la vittima: ora si deve conoscere l'assassino. È a questo punto che appare Tiresia – Tiresia che è stato chiamato anche lui da Edipo come testimone. Tiresia che è in qualche modo il doppio di Apollo, il doppio del dio. È il suo rovescio: è cieco mentre, ovviamente, il dio vede tutto. Ed è lui che è in grado di decifrare e di completare quello che il dio ha detto in un discorso complementare, di dire chi è effettivamente l'assassino. Tiresia è interrogato secondo la forma giuridicamente valida del testimone riluttante. E poiché si rifiuta di dire la verità che conosce, vediamo le minacce di Edipo, vediamo in che modo Edipo reagisce al rifiuto del testimone di dire ciò che sa. Edipo comincia con il biasimarlo del male che fa ai suoi concittadini non dicendo la verità 31 – primo rimprovero. Secondo rimprovero, più grave: «Tu rechi affronto alla città e, di conseguenza, non solo commetti un torto generale nei confronti dei tuoi concittadini, ma sono la vita e l'esistenza stessa della città che rischiano di essere compromesse dal tuo atteggiamento»32. Infine, in terzo luogo, Edipo rovescia il rifiuto, si rivolge contro Tiresia, che rifiuta di parlare, e pronuncia contro di lui un'accusa. Lo sospetta di avere commesso lui il crimine, perché non vuole parlare o perché, parlando, parla in condizioni tali che non si possa arrivare a comprendere esattamente cosa 29 SOFOCLE, Edipo re, vv. 96-111. 30 Ibid., vv. 278-281. 31 Ibid., vv. 322-323. 32 Ibid., vv. 330-331.

ha voluto dire e chi accusa33. Al punto che, di fronte all'accusa effettivamente pronunciata da Edipo, l'indovino dice tutto. Dice: «Chi ha commesso il crimine? È Edipo»34. Esagerando peraltro un po', nel corso della discussione gli dice: «Non solo tu hai ucciso Laio, ma, come se non bastasse, hai sposato tua madre. Giocasta era tua madre»35. Dunque la verità è detta – tutta la verità è detta e, al limite, la tragedia potrebbe concludersi qui. O piuttosto, comincia il problema di sapere perché questa vicenda, enunciata in tal modo, e da autorità che non possono essere sottovalutate – dato che si tratta dell'oracolo e di un indovino di cui il testo ha sottolineato molto spesso che non s'ingannava mai e che diceva la verità –, per quanto sia detta in queste condizioni, non viene accolta. In primo luogo, non è accolta da Edipo, beninteso – ed evidentemente si possono trovare giustificazioni al comportamento di Edipo, poiché si troverebbe accusato, si trova di fatto accusato da questi responsi dell'oracolo da una parte e dell'indovino dall'altra. Ma l'aspetto molto interessante e su cui vorrei soffermarmi, è il fatto che il corifeo e lo stesso coro non accettino quello che è stato il verdetto dell'oracolo. O in ogni caso rifiutino esplicitamente di accettare quella che è la divinazione di Tiresia. Il corifeo, per esempio, nel momento in cui Tiresia ed Edipo si affrontano nel corso dell'interrogatorio e in cui Edipo respinge le accuse di Tiresia, dice: «Siete trascinati entrambi dalla collera, Edipo e Tiresia» 36. E quando Tiresia si ritira, il coro dice questo: «Non posso credergli – a proposito di Tiresia – non posso credergli e non posso smentirlo. Che dire? Non lo so»37. Vale a dire che il corifeo e il coro rifiutano di accettare questa parola rivestita di tutte le autorità sacre? Credo che, se si considera un po' il modo in cui queste parole sono presentate nell'opera, si possa comprendere perché esse non siano accettabili dal coro e dal corifeo. 33 Ibid., vv. 345-349. Il carattere enigmatico della veridizione profetica diventerà, in Il coraggio della verità cit. […], uno dei tratti mediante i quali Foucault distinguerà questa forma di dir vero dalla parrhesia. 34 Ibid., vv. 352 e 362. 35 Ibid., vv. 366-367. 36 Ibid., vv. 404-405. 37 Ibid., vv. 485-486.

In primo luogo, la parola del dio e la parola dell'indovino sono parole che vengono pronunciate solo se il dio e l'indovino lo vogliono espressamente. Questo è sottolineato a più riprese: nessuno può costringere il dio a parlare se non vuole. E quando Edipo incalza l'indovino Tiresia perché parli, questi gli dice: «Ma non sei tu a comandarmi. È il dio. Io sono servo di Lossia, e di conseguenza parlerò se lo voglio»38. Il rifiuto di parlare, legittimato sia dal fatto che il dio è il dio, sia dal fatto che l'indovino è il servitore del dio, è assolutamente tipico. Egli rifiuta l'autorità politicogiudiziaria che potrebbe e che potrà – come vedremo alla fine della tragedia – estorcere legittimamente una confessione o una testimonianza o una dichiarazione. Nell'ordine giudiziario, si è obbligati a parlare. Se colui che viene interrogato ha il diritto di dire: «Io rifiuto di parlare perché non è a voi che devo obbedire», in quel momento la macchina giudiziaria non può più funzionare. Dunque, prima di tutto si tratta di una parola che parla solo se lo vuole. In secondo luogo, si tratta di una parola che ha, con la verità, una relazione assolutamente curiosa,o almeno molto strana, che non è la relazione che potrebbe avere con la verità un testimone comune. Tiresia lo dice: «In me abita la forza del vero»39. E il coro, a proposito della profezia del dio, dice questo: «Ha brillato in tutto il suo splendore la parola scaturita dal Parnaso nevoso»40. Abbiamo dunque a che fare con una parola che è di per sé autorità a se stessa, che da sé decide di parlare o di non parlare, e che è portatrice, per una sorta di diritto di natura, della verità. La reca con sé: la verità la abita, oppure essa abita la verità. C'è un legame di appartenenza tra questa parola del dio e dell'indovino e la verità. Da qui l'uso del verbo phemi, pronuncio, affermo41. Phemi, nel senso vero e rigoroso del termine, significa: «quando parlo, affermo che ciò che dico

38 Ibid., vv. 408-410. 39 Ibid., v. 356. 40 Ibid., vv. 473-475. 41 Cfr. per esempio ibid., v. 362: «Dico che l'uccisore di quell'uomo, che vai cercando, sei tu» (Phonea se phemi tandros ou zeteis kyrein).

è vero» – e l'affermazione e il fatto che io la affermi bastano a costituire la legge, la cauzione, la garanzia di questa verità. In terzo luogo, come terzo carattere di questa parola, è che essa si autorizza a partire da un vedere, e da un vedere che ha una forma evidentemente del tutto particolare. In primo luogo, ovviamente, perché da parte del dio, da parte di Apollo, tutto è visto – peraltro non c'è differenza tra ciò che Apollo vede e ciò che Apollo vuole: egli vuole ciò che vede, egli vede ciò che vuole, basta che lo abbia visto perché divenga effettivamente, a scadenza più o meno lunga, la verità e la realtà. D'altra parte, anche dal lato dell'indovino, il rapporto tra ciò che dice e ciò che vede è del tutto singolare. Per cominciare, perché, ovviamente, l'indovino è cieco (Edipo non dimentica di ricordarglielo: «Sei cieco, e le tue orecchie sono chiuse come i tuoi occhi […] Non vivi che di tenebre» 42). Nello stesso tempo, questo indovino che vede pur essendo cieco vede il futuro come il presente e il passato (e l'indovino può dire a Edipo: «Tu non vedi in quale sciagura ti trovi ora […] Non ti accorgi dell'ondata di disastri che ti inghiottirà, abbassandoti al livello dei tuoi figli»43). Significa che l'indovino vede tutto ciò che gli umani non possono vedere (perché sarà il futuro, perché non è ancora accaduto), in un'atemporalità che è caratteristica del suo rapporto con la verità44. Comprendiamo bene perché Edipo non si riconosca in questa parola – in questo tipo di parola profetica, oracolare, o parola divina. Egli non può riconoscersi in queste parole accusatorie. Lo dice peraltro all'indovi42 Ibid., vv. 370-371 e 374. 43 Ibid., vv. 413 e 424-425. 44 Secondo J.-P. VERNANT (Figuration de l'invisible et catégorie psychologique du double: le colossos, relazione tenuta al convegno su Le signe et les systèmes de signes, Royaumont, 12-15 aprile 1962, pubblicata in ID., Mythe et pensée chez les Grecs, Librairie François Maspero, Paris 1974, vol. II, p. 75, nota 32 [trad. it. Mito e pensiero presso i Greci , Einaudi, Torino 1978, pp. 354-355, nota 3]), l'indovino Tiresia, come il colossos, «appartiene sia al mondo dei vivi che a quello dei morti. L'immagine del “veggente cieco” traduce appunto questa ambiguità». Personaggio omerico, egli ha il dono di vedere nel mondo dei viventi ciò che gli altri vivi non vedo no (Aletheia) e di ricordarsi nel mondo dei morti – il mondo dell'Oblio (Lethe) – di ciò di cui gli altri morti non si ricordano (Mnemosyne). Aletheia o Mnemosyne, il suo dono di veggenza è una onniscienza che ingloba passato, presente e futuro (su questo punto, cfr. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. 18).

no: «Dici solo parole stolte»45, «parli invano»46, sono parole vuote. Ma nemmeno il coro può riconoscersi in tali parole, o piuttosto non può riconoscere la validità delle sue stesse parole. Quello che vorrei sottolineare lungo tutta quest'opera è che, tra il riconoscimento da parte di Edipo di ciò che è lui stesso e il riconoscimento della validità giuridica della verità da parte del coro, c'è una continua correlazione. Edipo potrà riconoscere se stesso solamente quando il coro avrà riconosciuto la validità di quanto è detto. Ed Edipo non si riconosce nelle parole dell'indovino e nell'oracolo del dio; e nemmeno il coro può riconoscere questa validità. Credo che il coro che si leva in quel momento, dopo la partenza di Tiresia, sia molto importante, perché mostra bene quale sia la funzione del coro lungo l'intera tragedia: il coro è l'istanza che prova, accetta o rifiuta, stabilisce la verità detta. E non appena Tiresia è partito, il coro intona il suo canto. Considerato un po' più da vicino, si tratta di un canto molto interessante. Ci sono due parti, in questo coro. Prima di tutto, una parte consacrata all'oracolo, agli oracoli in generale. Il coro dice questo: «Sì, gli oracoli dicono la verità. Quando l'oracolo pronuncia ciò che dice, noi possiamo essere sicuri che ciò che dice è accaduto, accade, accadrà. Ha scagliato la sua freccia e colui verso il quale l'ha lanciata farà bene a sbrigarsi e a correre veloce, perché la freccia è già dietro di lui e in ogni caso lo raggiungerà. Egli corre, dovrebbe correre, ma in ogni caso è condannato. Tra le fiamme e i fulmini, la freccia è stata scagliata»47. Ci troviamo in un mondo che è certamente quello della fatalità, il mondo del lampo e della luce, che è dunque il mondo della verità, il mondo inevitabile. 45 SOFOCLE, Edipo re, v. 433. 46 Ibid., v. 365. 47 «Chi è colui che la rupe profetica di Delfi disse aver compiuto delitti indicibili fra tutti con mani insanguinate? | È tempo per lui di muovere, fuggendo, piede più possente che i destrieri veloci come tempesta. | Armato contro lui si scaglia con fuoco e con fulmine il figlio di Zeus, e terribili insieme seguono le Erinni inesorabili. | Risuonò infatti voce dal Parnaso innevato apparsa che ognuno si metta sulle tracce dell'uomo sconosciuto. | Già va errando per la foresta selvaggia e per antri e per rocce come toro, | solitario, miserabile con misero passo, gli oracoli scaturiti dall'ombelico della terra cercando di eludere; ma essi, sempre vivi, volano attorno a lui» (ibid., vv. 463-482 [trad. it. Edipo re. Edipo a Colono. Antigone , Mondadori, Milano 2012[).

A questo punto – ed è qui che comincia la seconda parte del coro – il coro dice: «Ma sì, solo che questo non vale per me». O meglio, non lo dice in questo modo, dice piuttosto: «La freccia è stata sì scagliata tra le fiamme e i fulmini. Ma, quanto a me, la mia opinione fluttua nel vento, e non posso né credere né smentire ciò che Tiresia dice, non vedo nulla, né davanti a me, né dietro di me»48. In contrappunto e in opposizione a questo mondo della fatalità, dell'atemporalità, della luce pura, di quello che è il bagliore del lampo e, di conseguenza, manifesta la verità e insieme annoda il destino, di fronte a questo il coro fa valere in un certo senso il suo diritto a non credere, il suo diritto a non sapere, il suo diritto a trovarsi nell'oscurità e a non vedere se non ciò che gli è dato esattamente. Niente al di là, dalla parte dell'avvenire – che significa piuttosto, per i Greci, niente dietro di sé; niente [dalla parte] del passato, cioè niente di ciò che è davanti a sé49. Solo l'imminente potrà essergli accessibile – e il 48 «In modo terribile, terribile davvero, mi turba il saggio indovino, a cui io non posso credere ma nemmeno negare fiducia. Non so cosa dire; e sto sospeso fra le attese, senza poter vedere né qui né indietro. | Quale contesa v'era infatti per i Labdacidi o per il figlio di Polibo? Né mai in passato né ora | io venni mai a conoscenza di una prova che mi forzi a muovere contro la fama di Edipo diffusa tra il popolo, ponendomi come vendicatore dei Labdacidi per le loro misteriose morti. | Ma se Zeus e Apollo di certo comprendono e sanno le vicende dei mortali, tra gli uomini, invece, che un indovino valga più di me non è giudizio veritiero. Un uomo per saggezza | può superare una saggezza di altri, ma mai, prima di aver visto una parola corretta, io potrei assentire a coloro che biasimano» (ibid., vv. 483-506 [trad. it. cit., pp. 79-81, modificata]). 49 Su questo punto, cfr. anche FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., p. 414: «... per i Greci quel che abbiamo dinanzi agli occhi non è il nostro avvenire, bensì il nostro passato, vale a dire che si entra nell'avvenire con lo sguardo rivolto verso il passato». Nella lezione tenuta il 24 marzo 1982, Foucault evoca questa rappresentazione del rapporto con il passato e con l'avvenire nel quadro di un'analisi della praemeditatio malorum, la premeditazione dei mali, esercizio in cui egli vede una prova della verità nel senso non di una prova che verta sulla verità delle opinioni che accompagnano le rappresentazioni, ma di una prova di se stessi come soggetti di verità (ibid., pp. 414 sgg.). Egli indica così l'orizzonte entro il quale si sono sviluppati i dibattiti a cui la praemeditatio malorum – che rende presente l'avvenire per annullarlo (p. 422) e si esercita a guardare in faccia il peggio per ridurre l'immaginario che vi aderisce (p. 423) – ha dato luogo nel corso dell'Antichità: da una parte svalutazione del pensiero dell'avvenire, che «prae-occupa» e condanna o all'immaginazione o all'impotenza (p. 416); dall'altra, valorizzazione della memoria (p. 415). Tanto nell'Ermeneutica del soggetto, quanto in Mal fare, dir vero, il riferimento al rapporto dei Greci con l'avvenire e il passato segnala l'attenzione accordata da Foucault alla dimensione temporale dei giochi di verità e alla fondazione di una coscienza storica in Occidente (p. 415). Se, come egli suppone, questa fondazione mette in gioco la possibilità di pensare che possa esistere una memoria che sia nello stesso tempo un pensiero dell'avvenire, bi sogna osservare, sulla scia di Knox, che Edipo, anche quando cerca di stabilire «ciò che è accaduto», è colui che si preoccupa dell'avvenire; preoccupato di prevenire (la realizzazione dell'ora-

coro lo rende esplicito dicendo: «Zeus e Apollo sono chiaroveggenti, a loro è noto il destino dei mortali, ma gli umani? Gli umani?» 50. E il coro pone allora la questione dell'indovino, di Tiresia. Dice: «L'indovino può forse dire la verità?». Ebbene, dice, «tra gli uomini, si può davvero considerare che un indovino possieda doti superiori alle mie?» 51. E la questione, evidentemente, per il solo fatto di essere stata posta, implica una risposta negativa. «L'indovino n on ha doti superiori alle mie. E – dice – se è vero che ci sono certi uomini che sanno più degli altri, bisogna anche che forniscano delle prove»52. Ecco, credo, due elementi importanti. In primo luogo, non esistono doti superiori a quelle del coro – vale a dire che non esiste istanza, nell'ordine della verità del momento, che sia superiore a quella del giusto, a quella dell'assemblea, a un potere che, nel tribunale, deciderà cosa è vero e cosa non lo è, chi è colpevole e chi non lo è. Dunque, superiorità di questa istanza giudiziaria. E in secondo luogo necessità, per questa istanza giudiziaria, di funzionare in base alla prova – e il coro continua parlando di Edipo e dicendo a suo proposito che Edipo, invece, ha fornito delle prove. Ha dato prove della sua saggezza e del suo amore per Tebe (il riferimento, ovviamente, è alla Sfinge e alla vittoria riportata da Edipo sulla Sfinge). Ha dato prove e, di conseguenza, soltanto delle prove potranno colo) e di guarire (Tebe dalla peste), egli ha, con il tempo, il rapporto «scientifico» del medico (cfr. supra […]) – a differenza di Giocasta che, respingendo ogni previsione ( foresight) «rifiuta non solo il punto di vista religioso, ma altrettanto il punto di vista scientifico» (KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., p. 144). Nella tragedia di Sofocle, questo rapporto «scientifico» di Edipo con il tempo è insieme la condizione della sua perdita e della salvezza di Tebe – problema e soluzione. Sulla questione della dimensione temporale dei giochi di verità nella Grecia antica, cfr. GERNET, Le temps dans les formes archaïques du droit cit.; ried. 1982, pp. 121-156; sulla concezione del tempo e del rapporto con il tempo all'interno di certe tecniche di sé nell'antica Grecia, cfr. J.-P. VERNANT, Le fleuve «amélès» et la «mélétè thanatou», in «Revue philosophique», 1960, pp. 163-179, e Aspects mythiques de la mémoire et du temps, in «Journal de psychologie», 1956, pp. 1-29; ripresi in VERNANT, Mythe et pensée chez les Grecs cit., vol. II, pp. 108-123 e 80-107 [trad. it. cit., pp. 125-143 e 93124]; sui rapporti tra memoria, verità ( A-letheia) e oblio (Lethe), e le loro trasformazioni nel corso di ciò che egli chiama «il processo di laicizzazione», cfr. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit. 50 SOFOCLE, Edipo re, vv. 497-499. 51 Ibid., vv. 499-500. 52 Ibid., vv. 502-506.

valere contro di lui: «Prima di aver visto – idoimi, dice il testo – giustificare le parole del dio, non posso approvarle»53. Idoimi, phanera54: tutta questa serie di parole mostra bene che ci troviamo all'interno dell'ordine del vedere, ma di un vedere che non più per nulla quello del lampo divino capace, al contempo, di far apparire le cose e di annodare il destino. Non è più lo sguardo divino che attraversa il tempo ed è atemporale. Ciò che il coro reclama e ciò per cui non può accettare quanto è stato peraltro detto perfettamente nella veridizione oracolare, ciò che vuole, sono cosse visibili, sono prove, è una dimostrazione. Verità del vedere, del vedere da sé, del vedere che costituisce prova, è questo che la giuria reclama, è questo che il coro e il corifeo richiedono. Ed è questa la ragione per cui la prima veridizione – in cui peraltro tutto è stato detto – si trova a essere rifiutata, si trova messa fuori gioco. Comincia allora – tralascio un certo numero di elementi, in particolare l'episodio con Creonte di cui potremo riparlare, se volete, almeno nella discussione che seguirà – la seconda aleturgia, la seconda fase di veridizione. Questa aleturgia ha luogo non più al livello del dio e del suo indovino, ma al livello dei re, tra Giocasta ed Edipo. È Giocasta la prima a intervenire, dopo che Tiresia e Creonte si sono allontanati, e a riprendere le cose precisamente dal punto in cui il coro le aveva lasciate, vale a dire a riprendere il problema della veridizione profetica e divinatoria. Giocasta afferma: «Se il dio vuole rivelare le cose, può farlo perfettamente, e sa farlo perfettamente da sé»55. Quanto all'indovino, ella dice, rivolgendosi a Edipo: «Sappi che mai creatura umana può possedere l'arte ( techne) di predire»56. 53 Ibid., vv. 504-506: All' oupot' egog' an, prin idoim orthon epos, memphomenon an katapheien. Trad. P. Mazon: «Ma, fino a che non avrò visto verificarsi i detti degli accusatori, io mi rifiuto di ammetterli» (vv. 504-506). Illustrazione del fatto che quando la «parola efficace» perde la sua sovranità «il dialogo integra perfino l'ambivalenza della mantica» (P. VIDAL-NAQUET, Prefazione, in DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. X). 54 SOFOCLE, Edipo re, v. 508: Phanera gar ep' auto pteroess' elthe kora pote : «Manifesta una volta la Vergine alata scese sopra di lui» [trad. it. cit., p. 81]. 55 Ibid., vv. 724-725. 56 Ibid., vv. 708-709.

Ritornerò tra poco sul problema della techne, ma credo che questo primo intervento di Giocasta situi con precisione il problema, la questione. Può esistere una techne della predizione? E se non esiste una techne della predizione, può esserci un'altra tecnica per produrre la verità? Giocasta, a partire da questa ricusazione della veridizione divina e divinatoria, dice a Edipo: «Del fatto che gli indovini non posseggano l'arte di predire, ti fornirò la prova»57. «Te ne fornirò la prova». Questa scena della prova, della dimostrazione che l'arte di predire è priva di fondamento, si svolgerà per tutta la scena con un intervento di Giocasta, un dialogo con Edipo e infine un monologo di Edipo o un racconto di Edipo. Dunque, tre elementi: Giocasta, dialogo Giocasta-Edipo e monologo-racconto di Edipo. L'elemento iniziale (quello di Giocasta) e l'elemento terminale (il monologo di Edipo) si corrispondono, sono assolutamente simmetrici. Giocasta, nel suo primo intervento, mostra che le predizioni non dicono la verità, poiché spiega a Edipo come ha potuto fare in modo che suo figlio, malgrado le predizioni, non uccidesse Laio. E alla fine della scena, sempre nel contesto di questa dimostrazione che gli indovini non dicono la verità, Edipo, a sua volta, spiegherà come, malgrado la predizione che egli avrebbe ucciso Polibo, malgrado la predizione che avrebbe ucciso suo padre, è riuscito a non uccidere colui che credeva suo padre, vale a dire Polibo. In questi due elementi, all'inizio e alla fine, abbiamo il dispiegarsi dei procedimenti umani attraverso i quali, in primo luogo, si sfugge alle predizioni degli indovini e, in secondo luogo, si può dimostrare al contempo che le predizioni degli indovini non dicono la verità. E successivamente, tra questi due elementi, si ha tutto un lungo dialogo fra Edipo e Giocasta che si svolge, ancora una volta, nella forma di domande e risposte, come nella testimonianza. Edipo interroga Giocasta e le pone una serie di quesiti. Le fa un certo numero di domande e la interroga come un testimone. A partire da cosa? A partire da cose che lei ha appreso sulla morte di Laio: ciò che le è stato riferito, le dicerie pub57 Ibid., v. 710.

bliche, i ricordi che ha avuto, l'aspetto fisico di Laio, il numero di persone che lo accompagnavano, se ci sono stati o meno dei sopravvissuti – in breve, tutta un'inchiesta a partire da quanto Giocasta aveva potuto sapere o apprendere. E, naturalmente, nel corso di questo gioco di domande e di risposte, la verità si svela ed è praticamente detta. È praticamente detta, e tuttavia non sarà accettata – né da Edipo né da Giocasta, che non saranno in grado di vedere davvero cosa stanno dicendo. Non ne trarranno le conseguenze ultime, che permetterebbero loro di identificarsi e riconoscersi negli episodi che loro stessi hanno raccontato. E sfuggono. Sfuggono in che modo? Ebbene, da una parte perché nella storia che raccontano manca un certo elemento; o piuttosto resta un elemento equivoco, che è il numero di persone che hanno ucciso Laio. Le testimonianze che sono state riportate, le dicerie pubbliche, tutto quello che Giocasta ha potuto apprendere sembra indicare che Laio è stato ucciso da numerose persone. Ora, Edipo sa bene che la persona di cui lui teme, di cui praticamente sa che si tratta di Laio, sa bene di averla uccisa da solo. Ecco che questo costituisce un elemento di incertezza attraverso il quale potranno sfuggire, in qualche modo, all'aspirazione a quella verità che stanno scoprendo. Inoltre, essi sfuggono alla verità che hanno appena scoperto convincendosi che si possa sfuggire al destino e che la tecnica umana consenta di passare attraverso le trame e i fili che sono stati tesi dagli dèi. Non è possibile che Laio sia stato ucciso da suo figlio, poiché ha preso tutte le precauzioni affinché non accadesse. Ecco dunque la verità, ma una verità che non è sempre riconosciuta da Edipo, una verità nella quale Edipo non si riconosce ancora, pur avendola lui stesso formulata. A questo punto abbiamo un secondo intervento del coro, che risulta anch'esso capitale, perché è al tempo stesso molto vicino e del tutto simmetrico a quello che ho ricordato poco fa, dopo la prima fase di veridizione. Esso è molto vicino, del tutto simmetrico e insieme molto meno chiaro. Per cominciare, questo intervento si pone in una relazione di simmetria rovesciata rispetto al primo. Nel primo, ricordate che il coro aveva esordito affermando l'onnipotenza degli dèi, aveva

evocato la freccia scagliata dagli dèi che in ogni caso raggiungerà colui al quale mirava. Ma, di fronte a questo, in nome dell'impossibilità di vedere in avanti o all'indietro, aveva reclamato per sé una prova solida. Nel coro che segue la discussione tra Edipo e Giocasta, le cose, lo svolgimento stesso del testo, procedono in senso inverso. All'inizio, infatti, il coro si apre in modo abbastanza strano, con una maledizione pronunciata contro la tirannide e contro l'eccesso, l'arroganza dei tiranni che si giudicano al vertice della fortuna e che in seguito vengono precipitati al punto più in basso58. E, dopo questa maledizione scagliata contro la tirannide, ecco che si riparla della famosa questione degli oracoli – degli oracoli di cui si era detto, nel primo coro, che sicuramente erano veri, ma che in fondo occorreva anche qualcos'altro. Ed ecco, in questo secondo coro, la questione degli oracoli è sviluppata fino alla fine e quel che si proclama è la necessità di rispettarli. Erano insufficienti nel primo coro; ed ecco che ora sono da rispettare assolutamente, e maledizione a chi n on accetta la lezione di questi oracoli, a chi non accetta quanto viene detto da questi oracoli59. Ci troviamo dunque di fronte a qualcosa di abbastanza enigmatico, e che bisognerebbe cercare di spiegare. Com'è possibile, da una parte, che la veridizione di Giocasta ed Edipo sia tale per cui essi dicono la verità, ma non sono in grado di riconoscervisi? E com'è possibile, dall'altra, che il coro non dica che la riconosce – che riconosce la verità di ciò che è detto – ma che cessi di prendere posizione direttamente a favore di Edipo? Ha un atteggiamento ambiguo, strano: critica della tirannide ed elogio degli oracoli. Allora, proprio come poco fa ci si interrogava su cosa fosse 58 Ibid., vv. 872-896: «La dismisura genera il tiranno: la dismisura, se di molte cose si riempie follemente, non opportune e non convenienti, | salita sulla cima più alta, subito precipita nell'abisso della necessità, | dove non ha saldo il piede. La lotta per la salvezza della città prego il dio di non interrompere; non cesserò mai di avere il dio a difensore. | Ma se taluno in atti o discorsi superbamente procede, senza temere Dike e non rispettando le sedi degli dèi, mala sorte lo col ga per il suo sciagurato orgoglio, | se ingiustamente cercherà guadagno e da sacrileghi atti non si asterrà, o follemente toccherà ciò che è intangibile. | Chi mai in questi casi si vanterà di allontanare nell'animo i dardi dell'ira? Se tali azioni si onorano, a che questo mio canto? » [trad. it. cit., pp. 101-103]. 59 Ibid., vv. 906-910.

la veridizione divina (quale ne fosse la forma, e la ragione per la quale essa non era, dal punto di vista della giustizia, accettabile), credo che ci si debba ora interrogare su cosa sia stata la veridizione di Edipo. In che modo ha detto la verità e qual era il suo sapere? In altre parole, anziché interrogarsi come si fa abitualmente sull'ignoranza di Edipo, mi piacerebbe interrogarmi un po' su quello che sapeva, e su come lo sapeva. Infatti ne sapeva molto: Edipo è pieno di sapere60. Nel corso della discussione tra Edipo e Tiresia c'è un passo che è abbastanza importante: è quando Tiresia ha lanciato contro di lui un'accusa che egli considera (e crede realmente) calunniosa. Edipo esclama bruscamente: «O ploute tyranni techne technes, quanta gelosia susciti»61. O ploute tyranni techne technes: Oh ricchezza, oh tirannide – potere, sovranità, «corona»62 traduce Mazon – e techne technes, arte suprema. Ricchezza, tirannide, arte suprema: evocando questi tre elementi, è inteso che Edipo li attribuisce a se stesso – se suscita gelosia da parte di Tiresia è perché possiede la ricchezza, possiede il potere e possiede la techne technes.

60 Già in Le savoir d'Œdipe cit. (cfr. pp. 234, 245 e 250-251), Foucault privilegia il motivo del sapere di Edipo rispetto a quello della sua ignoranza o della sua inconsapevolezza: in Edipo, egli vede «non [il] blasone dell'inconscio, [la] figura del soggetto che ignora se stesso, ma la figura del sovrano portatore di un sapere eccessivo, di un sapere che vuole liberarsi dalla misura e dal giogo» (p. 250). Il privilegio accordato abitualmente al motivo del difetto di sapere – indipendentemente dal fatto che quel difetto assuma la forma dell'ignoranza o dell'incoscienza – viene ricondotto alla difficoltà «in un sistema di pensiero come il nostro […] di pensare il sapere in termini di potere, dunque di eccesso, dunque di trasgressione» (noi lo pensiamo «in termini di giustizia, di purezza, di “disinteresse”, di pura passione di conoscere»). Questa difficoltà è a sua volta ricondotta al fatto che noi pensiamo il sapere «in termini di coscienza» (p. 251). Da notare che i temi del desiderio appassionato di conoscere e del sapere di Edipo sono sviluppati anche sia da Vernant (Ambiguïté et renversement cit., ried. 2006, pp. 27 e 35-36), sia da Knox (cfr. su questo punto la voce «Edipo» nell'indice allestito per Oedipus and Thebes cit., pp. 276277, voce che si articola in diverse sottovoci tra cui «e lo spirito scientifico», «progresso intellettuale», «come investigatore», «come interrogante», «come rivelatore», «come maestro», «come scopritore», «come fisico», «come matematico», o anche «nome»). Né Vernant né Knox, tuttavia, associano questi temi a una problematizzazione dei termini entro i quali siamo arrivati a pensare il sapere. 61 SOFOCLE, Edipo re, vv. 380-382. 62 Ibid., vv. 380-381: «Ah, ricchezza, corona, sapere che superi tutti gli altri saperi» nella traduzione di Mazon; «Oh ricchezza, potenza, superiorità nell'arte» in quella di Masqueray.

Che il potere sia affiancata da questi due attributi mi sembra qualcosa di importante. L'abbinamento ricchezza-esercizio del potere, ricchezza-sovranità, ricchezza-tirannide – lasciamo questo termine con tutto quanto ha di equivoco – è un abbinamento classico, abituale; si esercita il potere perché si è ricchi, o si diventa ricchi perché si esercita il potere, in ogni caso è scontato che le due cose si appartengano reciprocamente. Per contro, l'espressione techne technes, che costituisce il terzo elemento della trilogia e che accompagna la tirannide simmetricamente alla ricchezza, questa techne technes, questa arte suprema, questo sapere supremo in cosa consiste? Credo che si tratti, in ogni caso, di qualcosa di abbastanza rilevante, perché nei testi arcaici, se potere e ricchezza sono sempre associati, il potere non è mai associato alla nozione di techne, non è mai associato a questa idea di un sapere tecnico, di un'arte particolare. Si tratta invece, come sapete, di un tema assolutamente capitale e importante nelle discussioni filosofiche e politiche del V e del IV secolo. Tutta la discussione tra i sofisti, Socrate e Platone, verterà attorno a tale questione: è possibile considerare l'esercizio del potere politico come una techne, come una tecnica che si apprende, che si insegna e che consente all'uomo politico di esercitare il potere come garantisce all'architetto di saper costruire una casa? Questa espressione, techne technes, è importante perché diventerà precisamente, in seguito, l'espressione tradizionale per designare il governo – il governo non solo nel senso globale, collettivo dell'arte politica ma anche, come sapete, nel senso del governo degli individui gli uni da parte degli altri, il governo delle anime. L'espressione techne technes sarà utilizzata fino alla pastorale cristiana per designare il modo – dunque l'arte, la tecnica – che permette di governare le anime e di condurle alla loro salvezza. Ritorniamo alla nozione di techne di Edipo. In cosa consiste? E perché egli può, parlando di se stesso, parlando del potere che esercita, evocare la techne technes? Credo che, a questo proposito, si debba paragonare Edipo ad altri due personaggi i quali, precisamente, non posseggono la techne pur esercitando un potere.

In primo luogo con Creonte – Creonte che è il fratello di Giocasta, che dunque è suo cognato, e che egli ha inviato a Delfi per consultare l'oracolo, che fa ritorno, che riferisce l'oracolo, e che Edipo accusa di aver falsificato il responso dell'oracolo, che Edipo accusa di connivenza e di complicità con Tiresia per sottrarre a lui, Edipo, il potere. A questa accusa lanciata da Edipo, Creonte risponde dicendo: «Ma in fondo capisci bene che io non posso essere geloso di te né aver voglia di prendere il tuo posto, ed esercitare il potere al tuo posto, perché la mia vita è buona» 63. Questo ragionamento ha proprio la forma della difesa ed è tipicamente sofistico: per allontanare un'accusa, si mostra come sia inverosimile fare ciò di cui si è accusati (ne troviamo altri esempi in Antifonte64). Dunque, «è assolutamente inverosimile che io voglia prendere il tuo posto, perché conduco una buona vita». E in cosa consiste questa buona vita che Creonte descrive? Ebbene, lui dice, è «una vita da re». È «una vita da re, nella quale mi si fanno regali, mi si rivolgono preghiere, si cerca di ottenere il mio favore, mi si circonda spontaneamente di onore – e questo a causa della mia nascita. Dunque non ho preoccupazioni. Il popolo mi fa dei regali, ed anche tu, Edipo, mi circondi di premure» 65. In altre parole, il quadro che Creonte offre del proprio personaggio è quello di uno che vive come un re senza essere un re, o piuttosto senza governare a sua volta. Ha l'arche, vale a dire una posizione di rango. Ha la dynasteia, vale a dire la potenza. Non ha la tyrannis, non ha la tirannide, cioè non ha l'e63 Ibid., vv. 583-586. 64 Si tratta di Antifonte il Sofista, citato da Senofonte, o del suo contemporaneo, Antifonte il Lo gografo, menzionato da Tucidide. Il secondo, nato verso il 480, iniziò dedicandosi all'arte oratoria e redigendo arringhe e discorsi a pagamento, prima di svolgere un ruolo decisivo durante la rivoluzione oligarchica dei Quattrocento; processato dopo la caduta degli oligarchi, fu condannato a morte e giustiziato nel 411 per aver partecipato a un'ambasciata a Sparta e contri buito al rovesciamento della democrazia ateniese (J. NICOLE, L'apologie deì'Antiphon d'après des fragments inédits sur papyrus d'Egypte , Librairie Georg & Cie, Librairies de l'Université, Genève-Bâle 1907, pp. 12-14). Se Antifonte il Sofista e Antifonte il Logografo siano la stessa persona è stata una questione più volte discussa, tra gli altri da Gernet nella sua introduzione ad ANTIFONTE, Discours suivis des Fragments d'Antiphon le Sophiste , Les Belles Lettres, Paris 1923, pp. 1-25, opera che Foucault probabilmente conosceva, e da G.J. Pendrick in ANTIFONTE, The Fragments, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 1-25, che invece non ha potuto conoscere. 65 SOFOCLE, Edipo re, vv. 587-600.

sercizio individuale, personale, del potere66. Tutto gli deriva dal suo status. Tutto gli viene dalle sue prerogative. Tutto gli viene da questa preminenza. Egli non ha dunque bisogno di techne: non ha bisogno di arte, di conoscenze, di saper-fare per essere là dov'è e per ricavarne i benefici. Ecco perché potrà utilizzare per se stesso una parola molto importante: dirà che è sophron67, che è saggio, che è riflessivo, che è temperante. Non esercitando il potere, non avendo bisogno di techne, la virtù che praticherà è dunque la misura che gli permetterà, pur esercitando la sua preminenza e le sue prerogative, di non essere arrogante né eccessivo in rapporto agli altri. Virtù fondamentale della prerogativa aristocratica: essere sophron. E, di conseguenza, niente techne. Quanto a Tiresia, si può dire che possegga anche lui una techne, come Edipo? La parola techne, nel testo di Sofocle, compare tre volte a proposito di Tiresia, ma ogni volta in modo del tutto ironico. In primo luogo, il termine techne è utilizzato riferendosi a Tiresia da Edipo in due riprese68. Da una parte, quando Edipo gli dice: «Ma insomma, quando la Sfinge stava devastando la terra di Tebe, tu esercitavi già la tua techne?». È un modo per dire: «Se tu, Tiresia, possedevi una techne, che cosa te ne facevi, e perché non l'hai applicata nel momento in cui la Sfinge infieriva su Tebe? Dunque, tu non possiedi nessuna techne». Allo stesso modo, un po' più avanti Edipo gli dice: «Ma, con tutta la tua techne, o la tua cosiddetta techne, qualcosa che potrebbe essere come una tecnica, non sei sta66 Probabile allusione ai versi che seguono, nei quali i tre concetti – arche, dynasteia, tyrannis – sono menzionati: «Come dunque il regno (tyrannis) potrebbe essermi più grato di un potere (arche) e di una signoria (dynasteia) senza affanni?» (Pos det' emoi tyrannis hedion echein arches alypou kai dynasteias ephy [ibid., vv. 592-593]). 67 Ibid., vv. 587-589 [trad. it. cit., p. 85]: «In me certo non era naturale il desiderio di regnare (tyrannos einai), ma piuttosto quello di agire da re (tyranna dran); e così, credo, chiunque altro sappia essere saggio» (ego men oun out'autos himeiron ephyn tyrannos einai mallon e tyranna dran, out'allos hostis sophronein epistatai). 68 La parola techne appare nel dialogo tra Edipo e Tiresia ai vv. 357 e 389. La prima volta è menzionata all'interno della seguente replica: «Da chi l'hai appresa [la forza della verità]? Non certo dalla tua arte (Pros to didachteis; ou gar ek ge tes technes )» (ibid., vv. 592-593 [trad. it. cit., p. 85]); la seconda volta, nella replica con cui Edipo, dopo aver deplorato le invidie generate dalla ricchezza, il potere e la techne technes, interpella in questo modo Tiresia, che è «cieco nella sua arte (ten technen d'ephy typhlos)»: «Poiché, dimmi dunque, in cosa tu sei indovino veritiero? Come mai, quando qui c'era l'orrida cantatrice, non desti un responso che liberasse questi cittadini?» (ibid., vv. 389-392 [trad. it. cit., p. 73]).

to capace di risolvere l'enigma». E infine Giocasta utilizza il termine techne una terza volta a proposito di Tiresia dicendo, nel passo che peraltro ho evocato poco fa: «Nessun mortale ha mai posseduto la mantike techne, l'arte della divinazione»69 – vale a dire che l'indovino non ha techne, e l'idea di una mantike techne, di un'arte divinatoria, non può essere sostenuta*.

Gli dèi [non udibile] hanno la certezza; gli uomini hanno semplicemente il tekmerion, hanno il segno, hanno la traccia, hanno l'impronta 70. Troviamo il termine tekmerion anche in Aristotele, peraltro nel senso di prova – si tratta di ciò che consente di dimostrare. Nel testo dell' Edipo re mi sembra che tekmerion sia utilizzato soprattutto per designare un mo69 Ibid., vv. 708-709. * Inseriamo qui una cesura che corrisponde alla sostituzione del nastro per la registrazione. L'operazione ha prodotto una lacuna che è possibile colmare in parte grazie al dattiloscritto depositato all'Imec. Riproduciamo nella sua totalità l'estratto pertinente: «Difatto, ciò che caratterizza la pratica di Tiresia non è il possesso di una techne. Se Tiresia dice la verità, è perché esiste un legame di natura tra ciò che dice e la verità. La verità abita le sue parole – “ho in me la verità, lo sai”, afferma Tiresia. E questa possibilità di dir vero senza fare ricorso a una techne permette a Tiresia […]. Quando parla di ciò che fa, impiega il termine phronein, egli pensa, riflette, si ripiega su se stesso ed è entro di sé che, ascoltando la parola del dio, può cogliere la ve rità ed enunciarla. Abbiamo dunque, se volete, tre elementi: da una parte, il potere di Creonte, potere aristocratico, potere che si esercita con il diritto e attraverso il diritto della preminenza, potere che implica come virtù il sophronema; abbiamo il potere di Creonte che è un potere di sapere la verità e di dirla, ma che a sua volta non implica una tecnica particolare, perché esiste una connaturalità tra ciò che egli dice e la verità, e il potere di Tiresia, che ha esercitato un'attività e manifestato la sua forza e la sua virtù come uomo attraverso la riflessione su se stesso e attraverso il pensiero nella sua profondità originaria. In rapporto a esso, cosa farà Edipo? In cosa consisterà la techne di Edipo? Perché lui, invece, possiede precisamente una techne, mentre gli altri due non la posseggono: essa consiste nella capacità di trovare ( euriskein). Le persone che parlano di Edipo si riferiranno a questa capacità che lui possiede e che caratterizza propriamente la sua techne, la sua capacità di trovare. La città si è rivolta a lui perché trovi qualche rimedio (v. 27), al popolo intero egli annuncia la soluzione che ha trovato (v. 68), rimprovera ai Tebani di non essersi impegnati a scoprire l'assassino e [annuncia] che lui lo scoprirà (v. 258). Cercherà di scoprirlo lui stesso (v. 340). Crede di aver scoperto il complotto tramato da Creonte (v. 546) e Tiresia gli dice anche, è forse il sapere degli uomini... Gli dèi hanno la certezza » (dattiloscritto, lezione del 28 aprile 1981, pp. 14-15). 70 In greco: sapheneian men theoi echonti, hos de anthropois tekmairesthai . Secondo KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., p. 123, si tratta di una frase di Alcmeone di Crotone, filosofo e medico del V secolo a.C., che per primo avrebbe utilizzato il verbo tekmairesthai in un senso scientifico, per distinguere il sapere degli uomini da quello degli dèi. Cfr. anche ibid., p. 239, nota 55.

vimento di conoscenza che permette di andare da ciò che non si sa a ciò che si sa (e di costituirsi, di conseguenza, quando si è ignorante, come soggetto che alla fine sa), attraverso un certo numero di traiettorie che vanno dal presente al passato, dal passato al presente, dalla presenza all'assenza o dall'assenza alla presenza71. Dal presente al passato: a ogni istante, Edipo spiega che, a partire da ciò che si ha ora sotto gli occhi – a partire, per esempio, dai testimoni che ancora esistono – bisogna risalire a quanto è potuto accadere il famoso giorno in cui Laio è stato ucciso. Il tekmerion è anche ciò che permette, in senso inverso, di ridiscendere dal passato al presente: è quel che Giocasta vuol fare e che rimprovera peraltro a Edipo di non fare. A partire da ciò che è accaduto (vale a dire, che si è sfuggiti sinora alle predizioni degli indovini e agli oracoli degli dèi), bisogna considerare che anche adesso è così, e che non si è prigionieri di queste predizioni, perché già nel passato è stato possibile sfuggirvi. Il tek71 Nell'Edipo re il termine tekmerion non compare. Certo, la forma tekmairetai, costruita a partire dalla stessa radice, è menzionata una volta, per bocca di Giocasta: oud'hopoi aner ennous ta kaina tois palai tekmairetai; trad. P. Mazon: «L'uomo non sa giudicare con mente assennata il presente mediante il passato»; ed è con una parola costruita a partire dalla stessa radice ( dystekmarton, «difficile da inferire») che Edipo esprime in un primo tempo la sua reticenza a ricercare la causa della morte di Laio (v. 109; cfr. su questo punto KNOX, Oedipus and Thebes: Sophocles's Tragic Hero and His Time cit., p. 123). All'interno di Le savoir d'Œdipe, dove il tema delle tracce visibili che permettono di collegare il passato al presente è già sviluppato, per caratterizzare la techne grazie alla quale Edipo è capace di trovare (euriskein), sono citate altre parole (Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 242): basano (da basanos, v. 510), semenas (v. 597), o anche semeia (v. 1059). Formuliamo dunque due ipotesi, a proposito di questa evoluzione del lessico su cui Philippe Chevallier attira l'attenzione (CHEVALLIER, Michel Foucault et le christianisme cit., pp. 167-169). La prima: da uno stadio all'altro del lavoro di Foucault sull'Edipo l'interpretazione si emancipa dalla lettera del testo per conservare solo alcuni temi, rappresentati da un'unica parola – tekmerion, histor – a volte non tradotta; una parola che, all'occorrenza, non è in quanto tale altro che un elemento del testo analizzato o non lo è se non in forme derivate, oggetto – al contempo prelevato e innestato –, come dice Philippe Chevallier (ibid., p. 205). La seconda: per le lezioni su Edipo tenute nel 1980 e nel 1981, «l'immensa documentazione sulla quale Foucault si basava sempre» (D. DEFERT, Situation du cours, in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 278) comprende Oedipus at Thebes di Knox, libro di cui secondo Daniel Defert (ibid., p. 253), egli era venuto a conoscenza nel corso delle conferenze americane su Le savoir d'Œdipe. Ora, tekmairesthai (giudicare a partire da prove, inferire) è, accanto a skopein (guardare, esaminare) e historein (interrogare, indagare), uno dei tre termini utilizzati da Knox per definire i metodi di investigazione di Edipo, metodi che sono «quelli dello spirito critico dell'età che egli rappresenta» (KNOX, Oedipus at Thebes cit., p. 120): si tratta, secondo il filologo, di una «parola che (benché sia utilizzata in un altro senso in Omero) riassume, nel suo significato del V secolo – formare un giuramento a partire da prove, da tracce visibili [evidence] – il nuovo spirito scientifico».

merion è ciò che permette di passare dalla presenza all'assenza, cioè, prendendo i testimoni che sono qui in questo momento, [di] cercare di ritrovare quello che ci è sfuggito e ancora ci sfugge. E si tratta di andare dall'assenza di coloro che hanno semplicemente sentito dire, o di coloro che sanno semplicemente che ci sono persone che hanno visto, alla presenza, vale a dire al testimone, a colui che ha potuto effettivamente vedere, udire ed essere là. Tutta quest'arte della scoperta che utilizza i segni, le tracce, le impronte, che permette di risalire da ciò che non si sa a ciò che si sa a partire da elementi materiali che conducono in modo probabile dall'uno all'altro, caratterizza, credo, la techne di Edipo. E quest'arte della scoperta, quest'arte di Edipo, che cosa consente di mettere in luce? Certamente non i decreti degli dèi, poiché essi sono conosciuti da persone come Tiresia, nel quale risiede il potere della verità. Il sapere di Edipo non consente di scoprire certamente le leggi, quelle leggi di cui il coro dirà che sono state generate nell'Olimpo e che nessun mortale le ha fatte nascere. Ciò che la techne di Edipo, Edipo che si definisce figlio di Tyche 72... consente di scoprire è appunto l'incontro, l'evento, ciò che si produce: l'incontro tra ciò che accade agli uomini – o i tentativi degli uomini, gli affanni degli uomini – e i decreti degli dèi. È un'arte di scoprire, attraverso gli indizi, gli eventi. [Più] precisamente, abbiamo a che fare con un'arte, techne, che è 72 Cfr. SOFOCLE, Edipo re, vv. 1080-1081 (ego d'emauton paida tes Tyches neumon | tes eu didouses ouk atimasthesomai): «io mi considero figlio della Fortuna, Fortuna la Generosa, e non ne provo vergogna» (trad. Mazon); frase pronunciata dopo l'uscita di scena di Giocasta, che lo ha scongiurato senza successo di porre fine alla sua inchiesta. Su questa identificazione e sul disprezzo di Edipo, che interpreta in modo erroneo ciò che dice Giocasta, cfr. VERNANT, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell'Edipo re cit., pp. 103 sgg. Tanto l'identificazione quanto il disprezzo rinvierebbero da una parte all'«immagine mitica dell'eroe esposto e salvato» che «si prolunga nel V secolo, in una forma traslata, in una certa rappresentazione del tyrannos» (p. 104), e dall'altra nel rituale ateniese del capro espiatorio, il pharmakos, «controfigura del re, ma alla rovescia, simile a quei re del Carnevale che s'incoronano per la durata di una festa» (p. 111). Tra techne e tyche, Edipo sarebbe insomma quella piega nel discorso – figlio della Fortuna, protetto dalla sorte – che è la condizione di possibilità del suo sapere e del suo potere; una piega che lui avrebbe assorbito in un discorso (discorso generale sul tyrannos e il pharmakos; discorso singolare sul suo destino) che gli veniva non da sé ma da altri. Da notare che il verso 1080 è già citato da Foucault in Le savoir d'Œdipe; vi fa riferimento per caratterizzare il potere (p. 236) e il sapere (p. 243) tirannici, e lo associa in entrambi i casi all'orgoglio di Edipo.

imparentata – il testo di Sofocle lo dice chiaramente – con due altre technai dello stesso tipo, la medicina e l'arte della navigazione (con un riferimento alla navigazione, con due alla medicina, il testo di Sofocle mette in relazione la techne di Edipo con queste due arti). Sapete bene che questa trilogia – l'arte di governare, l'arte di guarire, l'arte di navigare – sarà assolutamente fondamentale in tutto il pensiero, in tutta la tematica del pensiero politico occidentale fino, praticamente, al XVII o XVIII secolo. Trilogia classica che, all'epoca di Sofocle, assimila il capo politico al medico e al nocchiero, e mostra di conseguenza che esiste un sapere specifico dell'esercizio del potere politico [e] che questo sapere non può riassumersi e nemmeno basarsi realmente su ciò che è stato detto profeticamente dagli indovini o dagli dèi. Un sapere peculiare all'esercizio del potere politico – e questo sapere ha la forma tecnica della scoperta della verità a partire da elementi materiali che vengono interrogati nel loro significato o in ciò a cui rinviano da una tecnica che è propria dell'esercizio di questo sapere. Naturalmente si trattava di un'idea per l'epoca del tutto nuova, un'idea che era dibattuta e nella quale si poteva riconoscere l'idea secondo cui Edipo è l'uomo della techne technes. Per l'uditorio greco dell'epoca veniva delineata e così evocata una discussione perfettamente contemporanea: quella nuova scienza di governo […] di cui i filosofi e i sofisti discutevano la stessa possibilità e che Edipo rivendica in diretta connessione con l'esercizio del potere politico o, più esattamente, in diretta connessione con quella precisa forma di esercizio del potere politico che è la tirannide. La tirannide, beninteso, con il senso ambiguo che ha all'epoca: tirannide è al tempo stesso l'esercizio di un potere personale da parte di qualcuno che ha uno statuto di eroe, da parte di qualcuno che ha peraltro un rapporto privilegiato con gli dèi, che gli permette di dare le sue leggi alla città; ma dall'altra il tiranno è anche – ecco l'altro aspetto del personaggio tirannico – l'uomo dell'eccesso, l'uomo dell'abuso, colui che fa del suo potere un uso che oltrepassa la misura e che va oltre la norma. È in fondo quello che accade alla techne di Edipo: con la sua techne, Edipo in

effetti metterà in moto una serie di inchieste che, servendosi effettivamente di tutte le combinazioni di segni, di tutte le piste rintracciabili, di tutti i tekmeria, finirà per trovare la verità; ma nello stesso tempo, con questa medesima techne, Edipo ha creduto di poter sfuggire ai decreti degli dèi – ed è in questo, in tale eccesso, che incontrerà la sua sconfitta. Che la techne del potere politico sia sufficientemente precisa, sufficientemente informata, sufficientemente razionale per poter scoprire la verità delle cose, va bene; ma nel cercare, con questa techne, di opporsi a quelli che sono stati i decreti degli dèi, c'è qualcosa di legato all'abuso stesso del potere tirannico. Ed è così che possiamo comprendere il coro che chiude la seconda aleturgia, la seconda veridizione, quella di Edipo e Giocasta che, a loro volta, dopo il dio e l'indovino, hanno detto di nuovo la stessa verità. Questo coro adesso si fa comprensibile. Prima di tutto, elogio delle leggi – dei nomoi – alle quali devono conformarsi, dice il coro, le parole e gli atti: i nomoi sono nati nell'Olimpo, e nessun mortale li ha generati. In secondo luogo, in questo coro, denuncia della dismisura del tiranno, che ha alti e bassi e che, appunto, nell'esercizio del suo potere cerca di sfuggire a quanto è stato fissato dagli dèi e dalle leggi, e maledizione contro coloro che fanno sfoggio del loro orgoglio, non cercano che la ricchezza, violano quello che non deve essere violato. E infine, ultimo punto di questo coro, elogio degli oracoli che vanno rispettati: con questi personaggi tirannici, violenti ed eccessivi, si considerano caduchi e si ha la pretesa di abolire gli oracoli resi un tempo all'antico Laio, Apollo si vede privato di ogni onore, il rispetto degli dèi svanisce. Questo coro enigmatico si spiega se lo si confronta, per le sue funzioni, con quello che concludeva la scena tra Edipo e Tiresia. Nel primo coro, si trattava di dire perché la verità oracolare non è soddisfacente. E nel secondo coro, ora, dopo la seconda veridizione, si tratta di ricusare il sapere di Edipo o, piuttosto, di riprenderne solamente la parte conforme al nomos e invece di condannare, di votare alla maledizione quella parte della techne che è servita ad alimentare gli eccessi del suo potere tirannico.

A questo punto può cominciare l'ultima aleturgia, l'ultima produzione di verità, l'ultima veridizione. Non si presenta più come quella degli dèi (che è stata ricusata per le ragioni che vi ho detto), né come quella dei re (che ha avuto la sua utilità e la sua fecondità, ma che aveva il suo rovescio e il suo eccesso). La veridizione che sarà riconosciuta è quella dei servi. Abbiamo dunque due personaggi: il messaggero di Corinto che viene ad annunciare che Polibo è morto, e il pastore del Citerone che Edipo, in funzione della sua techne e nella sua ricerca di tekmeria, è andato a cercare nel profondo della sua foresta. Questi due personaggi, il messaggero che arriva spontaneamente e il pastore che è stato convocato, sono messi a confronto. E proprio da tale confronto emergerà la verità. Il coro, peraltro, l'annuncia in anticipo. Assumendo in forma paradossale e quasi ironica la posizione del profeta, dice: «Se sono buon profeta, se una luce rivela il vero, sì, per l'Olimpo – riferimento molto esplicito al momento in cui la verità apparirà per bocca stessa dei servi, riferimento molto esplicito all'oracolo degli dèi e all'autorità della parola divina – sì, per l'Olimpo, da domani tu vedrai che il Citerone è diventato la patria di Edipo e che si saprà la verità sulla nascita di Edipo»73. Come si svolge quest'ultima aleturgia? Ebbene, si svolge – in questo caso totalmente, compiutamente – come un vero interrogatorio giudiziario, condotto esattamente secondo le regole. In primo luogo, interrogatorio sull'identità. Quando arriva il pastore del Citerone, Edipo, in qualità di responsabile della giustizia, pone la domanda: «Questo pastore, che ci è stato portato, è proprio quello che il messaggero di Corinto ha conosciuto un tempo e che gli ha affidato quel famoso bambino che sarebbe diventato Edipo?». Edipo, dunque, pone la domanda e fornisce un primo elemento di risposta. Dice: «Io non lo conosco. Non posso nemmeno sapere se sia la stessa persona. Ma riconosco i servi che lo hanno portato, e questi servi sono i miei» 74. Il corifeo, a quel punto, completa dicendo: «Io riconosco questo pastore. È proprio quello 73 SOFOCLE, Edipo re, vv. 1087-1097. 74 Ibid., vv. 1110-1116.

che era al servizio di Laio»75. E il Corinzio, il messaggero di Corinto, apporta il terzo elemento del riconoscimento. Dice infatti: «Quest'uomo che vedo ora davanti a me è proprio quello di cui parlavo 76 e che un tempo mi ha dato, mi ha affidato, il bambino in questione»77. Dopo questo interrogatorio sull'identità, è possibile interrogare il pastore su ciò che ha fatto e su ciò che è accaduto. Il pastore, naturalmente, rifiuta più che può di dire ciò che sa. Rifiuta per cominciare perché ha commesso la colpa di non uccidere Edipo come gli avevano chiesto Laio e Giocasta, e poi perché sa bene che quello che sta per dire scatenerà la catastrofe. Ma, mentre il dio poteva dire, all'inizio della tragedia: «Io parlo solo quando voglio» – o, in ogni caso, è questo che si diceva del dio, che non parla se non quando vuole –; mentre Tiresia poteva dire: «Io non ti obbedisco, perché non sono servo tuo, sono servo di Lossia», qui, invece, il pastore sarà obbligato a parlare. Gli si ricorda che deve parlare. E poiché è sempre riluttante, si minaccia di torturarlo: «Che gli si leghino le mani»78, ordina Edipo, «ti farò parlare, senza che tu venga ucciso» 79. E la minaccia di morte scandirà tutto l'interrogatorio – com'era previsto dal diritto ateniese classico: per ottenere una confessione era del tutto lecito praticare la tortura, dal momento che si trattava di uno schiavo, alla sola condizione che il padrone desse l'autorizzazione a torturare il suo schiavo80. Ora, è appunto questo il caso: Edipo stesso, in quanto detentore del 75 Ibid., vv. 1117-1118. 76 Ibid., v. 1120. 77 Il Corinzio domanda: «E dimmi ora, ti ricordi di avermi dato allora un bambino, perché io lo allevassi come mio proprio figlio?» (ibid., vv. 1142-1143 [trad. it. cit., p. 119]. 78 Ibid., v. 1154. 79 Ibid., v 1158. 80 Su questo punto, che secondo Foucault (Le savoir d'Œdipe cit., p. 245) «segnala chiaramente il carattere giudiziario dell'ultimo episodio», cfr. GERNET, Droit et société dans la Grèce ancienne cit., p. 153, dove è scritto che «la facoltà di testimoniare esclude l'impiego della tortura: ora la tortura degli schiavi si pratica ampiamente nelle cause di omicidio, e ne abbiamo nume rosi esempi […] la legge proclamerebbe che la testimonianza dello schiavo può essere ammessa, non vieterebbe di ricorrere a un altro mezzo di prova; in altri termini, lo schiavo testimonierà puramente e semplicemente, se l'avversario vi acconsente: l'avversario può esigere che si sottoponga lo schiavo alla tortura». Gernet precisa che «il consenso del padrone» è necessario per assicurare la comparizione dello schiavo testimone poiché, essendo «proprietario, egli può fare opposizione». Più in generale, cfr. ibid., capitolo Aspects du droit athénien de l'esclavage , p 151-172. cfr. anche KNOX, Oedipus at Thebes: Sophocles' Tragic Hero and His Time cit., pp.

potere, in quanto esercita il potere sul servo, lo minaccia lui stesso di morte; e di conseguenza il servo sarà obbligato a dire la verità, a dire questa verità, la verità di ciò che lui stesso ha fatto. Sarà obbligato a confessare. E l'interrogatorio, in effetti, riguarda un punto ben preciso: ciò che il testimone stesso ha fatto. Ora non si tratta più di parole profetiche. Non si tratta più dello sguardo generale che percorre tutto il tempo:; non si tratta più della luce che proviene dalla freccia scagliata. Si tratta di cosa il testimone stesso ha potuto fare. «Ti ricordi che io ti ho detto proprio questo?»81, dice il servo di Corinto. «Chi ti ha dato il bambino? Con quale intento hai fatto la tal cosa e l'altra ancora?» 82. La risposta del servo è una risposta grammaticalmente ben contrassegnata. A ogni istante, il servo risponde: «Sì, io stesso ho trovato questo bambino nella valle del Citerone. Sì, io custodivo le pecore. Sì, sono io che ho liberato i tuoi piedi»83. «Sì, è a me che Giocasta ti aveva affidato» 84. «Sono io a non averlo ucciso – autos»85. Ci troviamo di fronte, credo, alla formula stessa – e all'introduzione sulla scena – della procedura della confessione, qualificata nella tragedia anche dal ruolo assegnato al coro come ciò che, in opposizione alle altre forme di veridizione, produrrà effettivamente una verità incontestabile. Perché la verità sia giuridicamente accettabile, non è necessario che siano gli dèi a parlare. Perché al verità sia effettivamente accettabile, non è necessario che siano i re a produrla – perché se effettivamente essi utilizzano quel saggio metodo dei tekmeria, dei segni, lo fanno anche per sfuggire al destino degli dèi. Con lo schiavo, abbiamo una parola di verità. Una parola di verità che non passerà neppure attraverso i sistemi di riferimento più o meno probabili che permettono di far emergere quello che si vuol sapere da ciò che non si sa. In quel caso abbiamo una parola interamente vera perché colui che la pronuncia può dire: «Sì, io ho fatto questo. Sì, 97-99. 81 SOFOCLE, Edipo re, vv. 1132-1140. 82 La domanda è posta da Edipo al pastore, ibid., v. 1174. 83 Indicazioni fornite dal messaggero (ibid., vv. 1025-1028, 1031-1034). 84 Ibid., v. 1174. 85 Ibid., v. 1179.

sono stato io – autos – io l'ho visto, io l'ho sentito, io l'ho dato, io l'ho fatto»86. E con questa parola, che passa peraltro tra le labbra di uno schiavo minacciato di morte, apparirà la verità stessa di Edipo. Il coro riconosce questa verità, la accetta, è questa a fare giustizia. Ed è a partire dal momento in cui questa verità è stata effettivamente riconosciuta, o piuttosto è nel momento stesso in cui questa verità viene riconosciuta dal coro e da tutti – e dagli spettatori – è in quel momento che Edipo si riconosce. Si riconosce come colui che ha fatto tutto questo. Anche se tutti gli elementi di verità che lui stesso aveva enunciato, anche se tutte le predizioni intorno a lui gli dicevano già e gli avevano già detto più volte come stavano le cose, egli non può riconoscersi se non quando una confessione è stata resa. Una confessione di cui noterete che non è la sua: Edipo non confessa – come mai potrebbe confessare? Edipo non confessa, la confessione viene dallo schiavo. Ed è a partire dal momento in cui lo schiavo ha prodotto la confessione attraverso questa procedura che Edipo, riconoscendosi e abitando, in un certo senso, il personaggio che è stato designato dalla confessione dello schiavo, potrà dire: «Così, alla fine, tutto sarebbe vero! Io mi rivelo il figlio di colui da cui n on dovevo nascere, mi rivelo lo sposo di colei a cui non avrei dovuto con86 Foucault, in Leçons sur la volonté de savoir (p. 179), vede e indica nel personaggio del pastore del Citerone non un soggetto che confessa, ma un histor, un testimone; lo stesso accade in Le savoir d'Œdipe, dove sottolinea (p. 248) le occorrenze del verbo historein: historeis al v. 1146, historei ai vv. 1150 e 1156. A differenza dei cogiuranti, il pastore è colui che ha visto e udito. A differenza dell'histor della scena dello scudo di Achille (libro XVIII dell' Iliade), ciò che egli serba nella memoria in vista di una decisione di giustizia – poiché l' histor è un «erede del mnemon» (DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. 76, nota 80) – è ciò che ha visto e udito, non più la maniera in cui si risolvono le controversie (FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 77). E a differenza di Fenice (libro XXIII dell' Iliade) gli viene chiesto di riportare – vale a dire di confessare, nel senso definito da Foucault nella conferenza inaugurale – ciò che ha visto e sentito, che in quel caso si rivela decisivo. Triplice trasformazione: sul piano giuridico è appunto una nuova nozione del vero che appare, contemporaneamente a un nuovo soggetto. In questo nuovo gioco di verità, l' histor non è più, in quanto mnemon, un equivalente funzionale di quello che sarà più avanti la legge scritta ( Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 78): egli «prefigura, già in Grecia, le istituzioni caratteristiche di un diritto moderno che sono quelle degli archivi e della registrazione» (GERNET, Droit et institutions en Grèce antique cit., pp. 152-153). La «verità storica» – quella verità che l'inchiesta produce nella forma della ricostituzione (cfr. il tema del symbolon nelle Leçons sur la volonté de savoir e in Le savoir d'Œdipe) – diventa al contempo la «verità» alla quale il dire retto deve essere adeguato, e il criterio a partire dal quale le parti sono decise. Sull'histor, cfr. supra, [lezione del 22 aprile 1981], nota 29.

giungermi, mi rivelo l'assassino di chi non avrei dovuto uccidere»87. Ecco che anche Edipo, a sua volta, a proposito di tutti i suoi crimini, potrà dire «io». Perdonatemi la lettura piuttosto lunga e in ogni caso anche assolutamente parziale di quest'opera di Sofocle. Non dovete pensare nemmeno per un istante che abbia voluto presentarvi una qualunque interpretazione globale, esauriente, dell'Edipo re. Non dovete neppure pensare che abbia inteso proporvi un capitolo di storia del diritto concernente l'emergere o lo stabilirsi della confessione nella procedura penale greca. Ho semplicemente voluto mostrarvi una fase di questa procedura della confessione che, all'epoca in cui Sofocle ha scritto l'Edipo re, era, se non recente, per lo meno parte di un insieme giudiziario, di una pratica giudiziaria, di cui l'Atene classica si vantava, di cui si attribuiva lustro e merito, e sulla quale al tempo stesso s'interrogava... Mi sembra interessante vedere con quale solennità, infine, la confessione arrivi a prodursi, in questa rappresentazione rituale culturalmente e politicamente così importante del diritto che la città ateniese dava a se stessa. Vorrei anche sottolineare che questa presa di coscienza di Edipo va di pari passo con la validazione da parte del coro; o ancora che la scoperta di sé a cui la maggior parte dei commentatori e degli analisti si fermerà, questa scoperta di sé da parte di Edipo in fondo non è che l'altra faccia della produzione legittima di verità che è giuridicamente accettabile e che è effettivamente accettata dal coro. La verità legittima è quella che è prodotta nella forma non della profezia, e nemmeno della deduzione a partire da indizi, ma è quella che è costruita nella forma dell'interrogatorio dei testimoni, dell'interrogatorio dei testimoni oculari che finiscono per essere obbligati a confessare ciò che loro stessi hanno visto, detto, fatto. Infine, vorrei sottolineare che – come vedete – Edipo, come uomo della techne, si trova collocato tra la parola profetica e la testimonianza della confessione. In un certo senso, è a Edipo, uomo della techne e anche uomo della tirannide, che si deve questa procedura della ricerca di testi87 SOFOCLE, Edipo re, vv. 1182-1185.

moni. È lui ad aver ricusato la forma profetica e oracolare della veridizione: è sempre lui ad aver voluto questo interrogatorio dei testimoni; è lui ad essere andato a cercare, ad aver mandato a cercare il pastore del Citerone. In questo senso – è il volto buono del tiranno – in quel momento Edipo è ancora il salvatore della città: è sempre colui che l'ha fatta risorgere, è sempre il buon nocchiero; ed è anche grazie a questo, grazie a questa verità prodotta, che la città potrà essere salvata. Ma – ed è l'aspetto opposto, quello della dismisura del tiranno – volendo servirsi di questa techne contro i decreti degli dèi per sfuggirvi, non ha fatto altro che stringere fino alla propria condanna i fili del destino che era stato ordito per lui. In questo senso, Edipo è stato necessario perché la verità apparisse, è stato necessario perché fosse allestita la forma regolare della macchina giudiziaria che è in grado di produrre la verità. Poi però è stato eliminato come «di troppo» da quella macchina giudiziaria che lui stesso aveva predisposto. E la lezione della tragedia, dal punto di vista della fondazione del diritto, è che la veridizione ottenuta con la procedura corretta, benché non passi attraverso la stessa via della parola degli dèi, benché non possa essere schivata, benché non sia possibile esserne dispensati per il fatto che il dio abbia parlato, questa veridizione indispensabile non può tuttavia che confermare, se ben condotta, la parola profetica degli dèi. Il dramma di Edipo è consistito dunque nel fatto che, pur avendo allestito una procedura di veridizione, proprio per suo tramite è voluto sfuggire alla parola profetica degli dèi. Quando la veridizione è ottenuta con la procedura corretta – quando, effettivamente, la macchina giudiziaria funziona così bene da arrivare a estrarre la verità più essenziale dalle labbra più inessenziali, che sono quelle dello schiavo – in quel momento, la verità che appare attraverso questa procedura puramente umana, ma conforme al nomos, conforme alla legge, questa procedura non fa altro che confermare e rinviare di conseguenza alla parola profetica degli dèi. Questa veridizione così sviluppata e così regolata non obbedisce alla dismisura del tiranno: ha a che fare con il nomos, ha a che fare con la legge, la legge che

proviene dall'Olimpo. È questa legge, è la fedeltà a questo nomos a permettere che il dir vero dello schiavo che ha visto venga a garantire per il coro il dir vero di un indovino che era cieco. La piazza pubblica, con le istituzioni giudiziarie di cui è la scena, dà cauzione, garantisce e conferma ciò che era stato detto nel bagliore della profezia divina. Ecco come si può trovare nell'Edipo re, ancora una volta, non tanto una testimonianza diretta di quale sia stata la procedura giudiziaria ateniese, non una testimonianza diretta di quale sia stata la sua storia reale, ma la prima rappresentazione drammatica della nuova pratica giudiziaria (relativamente nuova, all'epoca) che faceva della confessione e di tutte le procedure regolari della confessione un elemento essenziale nel sistema giudiziario. Bene, se avete domande da pormi, perché mi sono dilungato...*

* È stata posta una domanda, che però non è decifrabile. La registrazione viene interrotta.

Lezione del 29 aprile 1981

Ermeneutica del testo ed ermeneutica di sé nel cristianesimo primitivo. – Veridizione di sé nell'Antichità pagana. – L'esame di coscienza pitagorico: purificazione di sé e mnemotecnica. – L'esame di coscienza stoico: governo di sé e rimemorazione del codice. – La « expositio animae» storica: medicina delle passioni e grado di libertà. – La penitenza nel cristianesimo primitivo. – Il problema della reintegrazione. – La penitenza, uno statuto che manifesta uno stato. – Significati della « exomologesis». – Una vita in forma di confessione, una confessione in forma di vita. – Un rituale di supplica. – Ancor più del modello medico o giudiziario, quello del martire. – Veridizione di sé e mortificazione di sé. – Dalla manifestazione pubblica di sé come peccatore alla verbalizzazione di sé: tentazione e illusione. Dopo questa preistoria della confessione riferita alla Grecia, vorrei ora passare alla storia della confessione, dii quella confessione che tanta importanza ha avuto nella morale, nel diritto, nella religione e nella letteratura, nelle istituzioni e, insomma, in tutta la cultura dell'Occidente. Credo che tale confessione, la confessione che riguarda noi e la cui forma, se anche non domina, per lo meno compenetra e attraversa tante delle nostre pratiche e tante delle nostre istituzioni, quella confessione nella

quale siamo chiamati a riconoscerci, non sia affatto cominciata prima del cristianesimo. Siamo certamente abituati a caratterizzare il cristianesimo come una religione che lega l'individuo a e con obblighi di verità. Tuttavia in generale, quando pensiamo agli obblighi di verità che il cristianesimo impone agli individui, pensiamo alla verità di un dogma, alla verità del testo, alla verità della tradizione, alla verità di un insegnamento che è impartito, garantito e autenticato, come ben sapete, da un'autorità istituzionale. Io credo però che il cristianesimo abbia anche comportato e continui a comportare un altro tipo di obbligo di verità, che si situa in tutt'altra dimensione e che ha avuto per la nostra storia culturale, per la nostra storia istituzionale, ma anche, direi, per la storia della nostra soggettività, un'importanza almeno altrettanto grande degli obblighi di quella che potremmo chiamare la fede. Mi sembra infatti che uno dei tratti fondamentali del cristianesimo sia di aver legato l'individuo all'obbligo di cercare in se stesso la verità di ciò che è. Il cristianesimo ha legato l'individuo all'obbligo di ricercare, in fondo a se stesso e a dispetto di tutto ciò che potrebbe nascondere tale verità, un certo segreto, un segreto il cui svelamento, la cui manifestazione dovrà avere, nel suo cammino verso la salvezza, un'importanza decisiva. Dunque, innanzitutto, obbligo di cercare la verità in se stessi. Obbligo poi di decifrare attraverso tutti gli ostacoli tale verità, e ciò al fine di mettere in atto, rispetto alla propria salvezza, un tentativo o una tappa decisiva. E infine, in terzo luogo, obbligo non solo di scoprire tale verità, ma di manifestarla – di manifestarla non solo ai propri occhi mediante un certo numero di atti, di azioni quali ad esempio l'esame di coscienza, ma anche obbligo di manifestare tale verità ad altri, o almeno a un altro, attraverso un certo numero di riti, un certo numero di procedimenti e di procedure che, come sapete, sono concentrati in parte, ma in parte soltanto, nel sacramento della penitenza. Questo obbligo di cercare la verità di se stessi, di decifrarla come condizione di salvezza e di manifestarla a qualcun altro, mi sembra essere

un tipo di obbligo di verità molto diverso da quello che lega l'individuo a un dogma, a un testo, a un insegnamento. E mi sembra [che] uno dei grandi problemi storici del cristianesimo sia stato appunto quello di sapere quale sia il tipo di legame che può essere stabilito tra l'uno e l'altro di questi obblighi, in che modo l'obbligo di credere possa essere legato all'obbligo di scoprire in sé la verità. Come legare la verità della fede alla verità del sé? Come articolare l'una all'altra l'ermeneutica del testo e l'ermeneutica della coscienza? Mi sembra che tale problema abbia attraversato tutto il cristianesimo. In ogni caso, si tratta proprio della questione esplosa nel XV e XVI secolo e che ha dato luogo alla Riforma – la Riforma intesa in senso generale o le Riforme –, in quanto il protestantesimo è appunto stato la grande impresa attraverso cui la cultura occidentale, la cultura europea, il cristianesimo occidentale, ha cercato di risolvere tale problema o di ristabilire a nuove condizioni e in termini nuovi il legame tra l'obbligo di credere alla verità e l'obbligo di scoprire in sé qualcosa che è una verità, che sarebbe la verità del testo e al contempo la verità di se stessi. Ecco la sfida che il protestantesimo ha cercato di raccogliere. Chiaramente non è questo che oggi vorrei porre in evidenza e neppure, beninteso, studiare a fortiori. Si tratta invece di considerare nella sua specificità, nella sua singolarità, quel tipo di obbligo di verità che non l'obbligo dell'adesione alla fede, ma l'obbligo dell'ermeneutica di se stessi. Un obbligo che nella storia delle religioni occidentali mi pare un fatto di importanza straordinaria – un evento a tutti gli effetti nella storia delle religioni tradizionali del bacino mediterraneo, e certamente un evento altrettanto fondamentale nella storia della soggettività. E se è vero che si è spesso attribuita al cristianesimo quella curiosa invenzione che sarebbe il peccato – penso che per la definizione storica del cristianesimo, per la storicità stessa del cristianesimo, sia molto più importante il fatto che esso non si sia mai sviluppato indipendentemente dalle grandi tecniche che ha scoperto – o, in ogni caso, sviluppato –, tecniche che dovevano permettere di assicurare quella che chiamerei, riferendomi a un termine

che ho già utilizzato, la veridizione di se stessi. Obbligo di dir vero su se stessi. È dunque questo l'obbligo che vorrei studiare nel cristianesimo – o almeno nel cristianesimo primitivo, quello che si può dire concluso – compiuto e al tempo stesso concluso – con sant'Agostino. Nella lezione di questa sera, se siete d'accordo, vorrei proiettare rapidamente tre fasci di luce. Innanzitutto sul problema della veridizione di sé nella civiltà antica, prima del cristianesimo ed essenzialmente nella pratica filosofica. Sarà un'esposizione sicuramente molto rapida, semplicemente un background, un piano di riferimento che permetterà di situare meglio – almeno spero – la specificità, la particolarità, l'importanza della veridizione di sé nel cristianesimo. Successivamente, in una seconda parte, cercherò di mostrarvi cosa è stata la veridizione di sé nella penitenza canonica dei primi secoli, fino al V secolo. E infine, in una terza parte, proverò a studiare la veridizione di sé non nella penitenza canonica, ma nella vita e nelle pratiche monastiche del IV-V secolo. Prima parte, dunque: la veridizione di sé nell'Antichità pagana. L'obbligo di dire la verità su se stessi non è sicuramente un'invenzione del cristianesimo. Era tutt'altro che inesistente nella cultura antica. Molto semplicemente, per darvi qualche indicazione, bisogna in primo luogo ricordarsi che in ogni caso l'obbligo di dire la verità o, almeno, l'incitamento a dire la verità esisteva nelle pratiche religiose. [Da una parte], nelle pratiche della religione popolare. Per esempio, è stata ritrovata in un certo numero di templi – come a Epidauro, come Cnido – una serie di iscrizioni che mostravano come gli individui, quando avevano commesso una colpa, cercassero di farsela perdonare dal dio che ne era stato offeso, di farsi perdonare riconoscendo quella colpa – e riconoscendola pubblicamente1. Per esempio, nel tempio di Cnido è stata 1 Per quanto concerne le iscrizioni a Cnido, cfr. W. BLÜMEL, Die Inschriften von Knidos, R. Habelt, Bonn 1992; inoltre, per indicazioni e studi supplementari, cfr. A. CHANIOTIS, Under the Watchful Eyes of the Gods: Divine Justice in Hellenistic and Roman Asia Minor, in S. COLVIN (a cura di), The Greco-Roman East: Politics, Culture, Society, Cambridge University Press, New York 2004, pp. 1-43, particolare pp. 3-10; H.S. VERSNEL, Beyond Cursing: the Appeal to Justice in Judicial Prayers, in C.A. FARAONE e D. OBBINK (a cura di), Magika Hiera:

riportata alla luce una stele in cui il colpevole si riconosce reo di un furto e lo proclama2. Sono state ritrovate, per esempio, iscrizioni nelle quali qualcuno che, al contrario, è stato vittima di un furto, chiede con questa iscrizione al ladro di restituirgli gli abiti che gli sono stati sottratti; gli domanda di restituire gli abiti e di riconoscere la sua colpa in modo che questa colpa gli venga perdonata3. D'altra parte, al di là di queste pratiche […] della religione popolare, all'interno delle religioni orientali, che hanno assunto l'importanza che conoscete sotto l'Impero romano, le procedure della confessione, dell'ammissione della colpa, erano di uso corrente. Vi rinvio al celebre testo di Giovenale nella sesta Satira, là dove il poeta racconta come, nella religione di Iside, quando una donna, in un giorno in cui avrebbe dovuto osservare l'obbligo di astinenza sessuale, ha invece avuto rapporti con suo marito, si reca a trovare il sacerdote di Iside, confessa di avere avuto rapporti sessuali con il marito in questo periodo di divieto e – in cambio, peraltro, del dono di un'oca ben ingrassata – si fa perdonare con questo regalo e con questa confessione la colpa commessa4. Ancient Greek Magic and Religion, Oxford University Press, Oxford 1991, pp. 60-106; e H.S. VERSNEL, Pepremenos: The Cnidian Curse Tablets and Ordeal by Fire , in R. HÄGG (a cura di), Ancient Greek Cult Practice from the Epigraphical Evidence: Proceedings of the Second International Seminar on Ancient Greek Cult , Astroms, Stockholm 1994, pp. 145-154. Per quel che riguarda le iscrizioni a Epidauro, cfr. DARESTE, HAUSSOULIER e REINACH, Recueil des inscriptions juridiques grecques cit., pp. 494-499 (iscrizioni sul lato di una stele a Epidauro che permettono di «conoscere i nomi dei debitori del dio di Epidauro»). Più in generale, cfr. W. BURKERT, Causalité religieuse: la faute, les signes, les rites , in «Metis. Anthropologie des mondes grecs anciens», IX (1994), n. 1, pp. 27-40, in particolare p. 34 («Si potrebbero aggiungere diverse iscrizioni di alcuni santuari dell'Asia Minore dette iscrizioni penitenziali, Bußinschriften, le quali segnalano che il dedicante ebbe una malattia, riconobbe una colpa, fece penitenza e fu guarito. Offre dunque la stele come testimonianza della grazia del dio»); ID., Creation of the Sacred, Harvard University Press, Cambridge 1996. 2 Cfr. CHIANOTIS, Under the Watchful Eyes of the Gods: Divine Justice in Hellenistic and Roman Asia Minor cit., pp. 3-6 (trattazione, esempi e riferimenti bibliografici relativi agli studi delle iscrizioni contenenti confessioni e ammissioni). 3 Ibid., pp. 6-10 (trattazione, esempi e riferimenti bibliografici relativi agli studi delle iscrizioni concernenti maledizioni contro malfattori). 4 GIOVENALE, Satirae, VI, 526-541 [trad. it. Satire, Rizzoli, Milano 2011, p. 143]: «... andrà fino ai confini dell'Egitto ad attingere acqua dalla calda Meroe con cui spruzzare il pavimento del tempio di Iside […] ogni qualvolta essa non ha saputo resistere all'amplesso durante i giorni consacrati all'astinenza, e meriterebbe una pena ben grave per il letto violato: ecco, il serpen te d'argento ha mosso infatti la sua testa! Ma ora egli piange e borbotta cose profonde; Osiride concede finalmente il perdono, vinto da un'oca grassa, naturalmente, e da una piccola sacra fo-

Esisteva dunque un certo numero di pratiche religiose di confessione della colpa a fini di perdono all'interno delle pratiche religiose abituali. Non insisto su questo punto. Mi interessano molto di più – essendo quelle che ritroveremo, una volta che siano passate attraverso una quantità di trasformazioni, nella pratica monastica del IV-V secolo – le pratiche di veridizione, di scoperta e di manifestazione della verità di se stessi nella pratica filosofica e nelle diverse correnti filosofiche. Tali pratiche di veridizione hanno assunto – ritengo – due forme principali: una è la forma dell'esame di coscienza, e l'altra è la forma dell'esposizione dell'anima (expositio animae) a qualcuno – un amico, un direttore, un direttore di coscienza, ecc. Per cominciare, l'esame di coscienza5. L'esame di coscienza è attestato molto presto nella pratica e nella vita filosofica dell'Antichità greca. Sapete bene che si fa risalire questa pratica a Pitagora, o per lo meno alla corrente pitagorica. Alcuni versi di Pitagora sono stati regolarmente riportati da tutta una serie di autori antichi come Plutarco, Arriano, Diogene Laerzio, Porfirio o Ierocle6. I versi di Pitagora citati nel corso di tutta caccia». Foucault evoca il culto della divinità egizia Iside nel contesto di una discussione sulla cura di sé nella sua lezione del 20 gennaio 1982, durante la seconda ora (FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., p. 99). Frédéric Gros aggiunge informazioni e riferimenti sulla divinità di Iside (ibid., nota a p. 112). 5 Foucault ha proposto numerose analisi dell'esame di coscienza pitagorico in altri corsi. Nell'Ermeneutica del soggetto, nella lezione del 24 marzo 1982, durante la seconda ora, interpreta l'esame di coscienza pitagorico come avente la «funzione principale di rendere possibile una purificazione del pensiero prima di prender sonno» e non di giudicare se stessi. «L'esame di coscienza, cioè, non è compiuto per giudicare quello che si è fatto» (ibid., p. 428); cfr. anche la lezione del 27 gennaio 1982, seconda ora, in cui Foucault accosta l'esame di coscienza alla dire zione di coscienza e alla parrhesia (ibid., pp. 145-146) e la lezione del 13 gennaio 1982, prima ora, dove discute l'esame di coscienza come tecnologia di sé (p. 42). Frédéric Gros rinvia anche alla lezione del 12 marzo 1980 al Collège de France ( Du gouvernement des vivants cit.), dove Foucault tenta «un'archeologia dell'accoppiamento cristiano tra verbalizzazione delle colpe ed esplorazione di sé, facendo estrema attenzione a sottolineare una discontinuità irriducibile tra l'esame pitagorico-stoico e l'esame cristiano (al triplice livello del campo d'esistenza, degli strumenti e degli obiettivi)» (L'ermeneutica del soggetto cit., p. 553, nota 9). Rinviamo inoltre il lettore alle note 7 e 8 di Frédéric Gros ( ibid., p. 502) per informazioni e fonti utili sul pensiero e sull'organizzazione dei primi gruppi pitagorici. 6 Pieter Cornelius van der Horst, nella sua edizione Les vers d'or de Pythagore , commenta in modo particolareggiato e segue le articolazioni ulteriori di questo esame di coscienza pitagori co nelle opere di Orazio, Seneca, Arriano, Porfirio, Plutarco, Diogene Laerzio, Cicerone e altri. Cfr. PITAGORA, Les vers d'or pythagoriciens, E.J. Brill, Leiden 1932, pp. 22-25. Foucault sviluppa queste riprese dell'esame di coscienza nel pensiero di Epitteto, Marco Aurelio, Platone,

l'Antichità sono i seguenti: «Non accogliere il sonno nei molli occhi prima di aver ripercorso tre volte ciascuna delle azioni della giornata: in quale modo ho sbagliato? Che cosa ho fatto? Quale mio dovere non ho compiuto»7. Alcuni autori come Ierocle e Porfirio, aggiungono a questi altri due versi, che attribuiscono sempre all'Antichità pitagorica: «Comincia dalla prima [delle tue azioni] e poi percorrile tutte. In seguito, | se ti accorgerai di aver commesso delle colpe, rimprovera te stesso; ma se avrai agito bene, rallegrati con te stesso» 8. Si ammette in generale che questi ultimi due versi citati da Ierocle e Porfirio non siano autentici 9. E in effetti hanno un tono così nettamente, così tipicamente stoico che le possibilità che appartengano all'antica tradizione pitagorica risultano molto scarse. Ciò non toglie che questi antichi versi della tradizione pitagorica siano importanti, perché attestano una pratica ben consolidata. L'aspetto interessante in questo richiamo all'esame di coscienza è prima di tutto il fatto che abbia luogo la sera – e voi sapete bene, se siete stati allevati come si deve secondo i precetti dell'educazione cristiana, che è proprio di sera che dovete svolgere il vostro esame di coscienza. In questo senso siete pitagorici. E la ragione per cui l'esame di coscienza è un esame vespertino ed è rimasto un esame vespertino a partire dai pitagorici è molto precisa, ed è legata alla dottrina stessa di Pitagora: vale a dire che Porfirio e Seneca nella sua lezione del 24 marzo 1982, seconda ora (cfr. L'ermeneutica del soggetto cit., pp. 426-433). Le note di Frédéric Gros sono ugualmente istruttive (cfr. ibid., pp. 54555, note 13-26). 7 PITAGORA, Les vers d'or pythagoriciens cit., vv. 40-42, p. 2 (greco antico) [trad. it. Vita di Pitagora, Rusconi, Milano 1998, p. 167]. 8 IEROCLE, Commentaire sur les vers d'or des Pythagoriciens, trad. M. Meunier, L'Artisan du livre, Paris 1925, vv. 42-44, pp. 28 e 218-228; PITAGORA, Les vers d'or pythagoriciens cit., p. 2 (greco antico). Sembrerebbe, di fatto, che [Ierocle] non aggiunga questi due versi nella sua Vita di Pitagora [cfr. trad. it. cit.]. Porfirio, invece, aggiunge la doppia forma dell'esame di coscienza esteso all'esame del mattino, cfr. ibid., XI, 20-23 [trad. it. cit., p. 167, dove non sono riportati i versi, ma le frasi che seguono: «E raccomandava di riflettere soprattutto su due particolari momenti: l'uno quando ci si accinge a cadere nel sonno, l'altro quando ci si alza dal sonno. In ambedue questi casi infatti conveniva considerare ciò che era stato già fatto e ciò che si stava per fare, chiedendo ciascuno a se stesso il rendiconto di ciò che era avvenuto e dandosi pensiero del futuro»]. Per un'analisi della doppia forma nella tradizione pitagorica, cfr. il commento di P.C. van der Horst, p. 23; oltre alla trattazione di foucualt in L'ermeneutica del soggetto cit., lezione del 24 marzo 1982, p. 429. 9 Cfr. il commento di P.C. van der Horst in PITAGORA, Les vers d'or pythagoriciens cit., pp. 2324 (per un'analisi della questione se i versi 42-44 risalgano a un periodo posteriore).

nel sonno si ricevono dei sogni, che tramite questi sogni si è messi in contatto con il mondo spirituale o il mondo ideale e che, di conseguenza, prima di rischiare di entrare in contatto con questo altro mondo in uno stato intermedio tra il sonno e la veglia, è necessario purificare se stessi. Ed esattamente come si purifica il corpo prima di entrare in contatto con un luogo religioso o con un rito religioso, allo stesso modo, prima di entrare in contatto con l'altro mondo attraverso il sogno, bisogna purificare la propria anima. E l'esame di coscienza è appunto una pratica purificatoria10. D'altra parte, sembra che l'esame pitagorico avesse un altro significato e un altro valore. Infatti, in uno dei numerosi testi che si riferiscono a questi versi di Pitagora e che troviamo nel De senectute, Cicerone dice che se i pitagorici raccomandano l'esame di coscienza la sera – e, di conseguenza, il richiamo alla memoria di quanto si è fatto durante il giorno – questo accade […] memoriae exercendae gratia, per esercitare la propria memoria11. Ora, voi sapete, a tale proposito, quale sia stata l'importanza della pratica della memoria presso i pitagorici 12: è a loro […] che si attribuisce l'invenzione della mnemotecnica. In ogni caso, il valore spirituale della memoria e dell'esercizio della memoria è fondamentale nei pitagorici. Passare in rassegna la propria giornata, ricordarsi di tutto ciò che si è fatto di bene e di male, ha dunque al contempo valore purificatorio rispetto all'altro mondo con il quale si sta per entrare in contatto, e inoltre valore di esercizio di quella facoltà così fondamentale che è la facoltà della memoria. È un metodo di mnemotecnica. 10 FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., lezione del 24 marzo 1982, seconda ora, pp. 428429. 11 CICERONE, Cato Maior de senectute, XI, 38: «... ius augurium, pontificium, civile tracto, multumque etiam Graecis litteris utor, pythagoreorumque more, exercendae memoriae gratia, quid quoque die dixerim, audierim, egerim, commemoro vesperi» [trad. it. La vecchiezza, Rizzoli, Milano 1998: «... tratto il diritto augurale, pontificio, civile, leggo molto anche opere greche, e secondo l'uso dei Pitagorici, per esercitar la memoria, richiamo alla mente la sera che cosa ho detto, udito, fatto ogni giorno»]. 12 Cfr. il commento di P.C. van der Horst in PITAGORA, Les vers d'or pythagoriciens cit., p. 24 (il passo «di Cicerone, De senectute, XI, 38, colpisce per l'aggiunta di memoriae exercendae gratia... Sembra che la mnemotecnica svolga un ruolo importante in queste meditazioni serali»).

Sorvolo sulla lunga storia – peraltro conosciuta pochissimo, molto difficile da conoscere per l'assenza di documenti – delle pratiche di direzione di coscienza all'interno delle diverse scuole filosofiche. Vorrei passare direttamente a quella che potremmo chiamare una delle ultime forme, una delle ultime grandi forme dell'esame di coscienza nell'Antichità prima del cristianesimo: si tratta dell'esame di coscienza stoico, di cui abbiamo una descrizione molto precisa nel libro III, par. 36, del De ira di Seneca13. Vi leggerò questo passo: Che c'è mai di più bello di questa abitudine di pesare l'intera giornata? Che bel sonno viene dopo l'esame di se stesso, quanto sereno, profondo e libero, quando l'animo ha riscosso una lode o un biasimo, e fattosi osservatore e censore della sua condotta, ha fatto un'indagine sui propri costumi! Mi avvalgo di questa facoltà e ogni giorno compaio davanti al tribunale della mia coscienza. Allontanata dalla vista la lucerna, quando mia moglie, che ormai è al corrente della mia abitudine, fa silenzio, allora io esamino attentamente la mia intera giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: nulla mi nascondo, su nulla chiudo un occhio. Perché dovrei temere qualcuno dei miei errori, potendo dire: «Bada di non farlo più, per questa volta ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico […] Quel tale l'hai redarguito con più franchezza del dovuto, e così non lo hai corretto, ma offeso»14.

Un simile esame di coscienza pone un certo numero di problemi, in ogni caso merita un certo numero di rilievi. Sicuramente c'è innanzitutto qualcosa di paradossale nel vedere degli stoici come Seneca – ma Seneca si riferisce esplicitamente in questa pratica a un'abitudine che aveva Sestio, che si trova anche in Marco Aurelio e a cui fa allusione Epitteto 15 – 13 SENECA, De ira, III, 36 [trad. it. L'ira, Rizzoli, Milano 2010]. Foucault sviluppa altre analisi di questo testo in ID., La cura di sé, Feltrinelli, Milano 2001, p. 64; L'ermeneutica del soggetto cit., lezione del 24 marzo 1982, seconda ora, pp. 429-432; Du gouvernement des vivants cit., lezione del 12 marzo 1980 (cfr. l'analisi di Frédéric Gros in L'ermeneutica del soggetto cit., p. 554, nota 17). 14 SENECA, De ira, III, 36, 2-4 [trad. it. cit., pp. 234-235]. 15 MARCO AURELIO, Pensieri, V, 1 [trad. it. Pensieri, Utet, Torino 1984, p. 307]; EPITTETO, Diatribe, III, 10, 1 [trad. it. Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, p. 621]. Cfr. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., lezione del 3 febbraio 1982, seconda ora, e lezione del 24 marzo

nel vedere dunque tutti questi stoici accordare tanta importanza a una pratica come quella dell'esame di coscienza, se l'esame di coscienza doveva avere la funzione di misurare l'importanza relativa delle colpe le une rispetto alle altre e se doveva avere la funzione di misurare in qualche modo la gravità del peccato. Poiché per gli stoici tutte le colpe sono uguali tra loro (basta aver commesso un'infrazione, poco importa dopotutto che sia grave o non grave, non esiste grandezza relativa a partire dal momento in cui si è commessa una colpa). Dunque il testo deve voler dire qualcosa di diverso dalla ricerca del grado di colpevolezza. Cosa dice questo testo? Innanzitutto, sembra che l'esame sia anch'esso, come per i pitagorici, direttamente legato al sonno. L'esame di coscienza appare come una preparazione al sonno. Ma non sembra che si possa prestare a questa pratica stoica un'intenzione purificatrice come nel caso dei pitagorici. Mi sembra che, se la qualità del sonno è importante e se la qualità del sonno dipende in parte da questo esercizio dell'esame di coscienza, è perché la qualità del sonno è rivelatrice dello stato dell'anima, della sua tranquillità e della padronanza che ha potuto mantenere su tutti i suoi desideri e su tutti i suoi appetiti. Un buon sonno è un sonno che rivela un'anima tranquilla e padrona di se stessa. Questo per quanto riguarda la preparazione al sonno. D'altra parte, credo che in questo testo si debba anche sottolineare il vocabolario utilizzato, vocabolario che, come vedete, non è affatto il vocabolario medico delle malattie dell'anima e dei loro sintomi. È un vocabolario che, almeno al primo sguardo, appare soprattutto giudiziario. Troviamo espressioni che sono manifestamente espressioni giuridiche: cognoscere de moribus suis, causam mean dico, «compaio al tribunale della mia coscienza», «l'animo […] ha fatto un'indagine sui propri costumi»16. Sembra dunque che il soggetto, in questo esame di coscienza, sia 1982, seconda ora. 16 SENECA, De ira, III, 36, 2 («Qualis ille somnus post recognitionem sui sequitur: quam tranquillus, quam altus ac liber, cum aut laudatus est animus aut admonitus et speculator sui censorque secretus cognovit de moribus suis»); III, 36, 3 («Utor hac potestate et cotidie apud me causam dico») [trad. it. cit., p. 234].

rispetto a se stesso al contempo il giudice e l'accusato, o – se volete – che in questo esame questi si divida in due e che da una parte accusi se stesso o giudichi se stesso, mentre dall'altra è colui che viene giudicato. In un certo senso l'esame organizzerebbe una scena giudiziaria in cui il soggetto si troverebbe a svolgere contemporaneamente i due ruoli. Ma quando si guarda da vicino, ci si accorge in realtà che, malgrado questi due o tre riferimenti alla pratica giudiziaria, il vocabolario ha tutto un altro tono, è un vocabolario amministrativo molto più che un vocabolario giudiziario. È il vocabolario della gestione di un bene, è vocabolario della gestione di un territorio, è il vocabolario del governo e dell'amministrazione. Seneca, per esempio, in questo testo dice di essere speculator sui – lo speculator è colui che sorveglia la correttezza di un'operazione, che sorveglia se le cose sono state fatte proprio come dovevano esser fatte17. Afferma inoltre totum diem mecum scrutor – cioè afferma di esaminare con se stesso tutta la giornata trascorsa18. Dice anche che riprende le misure – remetiri19 – a proposito delle cose che ha potuto dire o delle cose che ha potuto fare. Non è dunque tanto, rispetto a se stesso, un giudice, quanto piuttosto un amministratore; un amministratore che, una volta compiuto il lavoro o terminato l'anno di gestione, fa i conti, rivede tutte le misure e considera se ogni cosa è stata fatta proprio come doveva essere fatta. E quando si esamina quali siano le colpe di cui, al termine del suo esame di coscienza, Seneca si rimprovera – ricorderete che, alla fine, gli viene in mente di aver parlato con troppa aggressività durante una discussione con qualcuno, o di non aver corretto come si doveva colui al quale muoveva dei rimproveri e, anziché rimproverarlo in modo da poterlo correggere, lo ha offeso – vediamo che le diverse colpe che Seneca ha scoperto nel suo esame di coscienza sono in ogni caso di una natura molto singolare. In realtà, è possibile parlare davvero di colpe? Di fatto – è lui 17 Ibid.: «et speculator sui censorque secretus». 18 Il testo latino reca «totum diem meum scrutor» («esamino attentamente la mia intera giornata»). Ibid., III, 36, 3 [trad. it. cit., p. 234]. 19 Ibid. («Cum sublatum e conspectu lumen est et conticuit uxor moris iam mei conscia, totum diem meum scrutor factaque ac dicta mea remetior; nihil mihi ipse abscondo, nihil transeo»).

stesso a dirlo – si tratta di errori, si è sbagliato, anziché aver commesso qualcosa di assimilabile a un peccato o a una colpa. E perché si tratta di errori? Perché non aveva abbastanza presenti alla mente i fini che il saggio deve proporsi. Un saggio, per esempio, quando entra in rapporto con un altro, deve proporsi il bene di questo altro. Avrebbe dovuto fare in modo che i suoi rimproveri facessero del bene all'altro, mentre così non è stato. Ili fine che doveva proporsi non è stato raggiunto; ed è proprio in questa misura – in questa incapacità in cui si è trovato – in questo errore di calcolo che non gli ha permesso di conseguire il fine proposto – che si trova qualcosa che l'esame di coscienza doveva rivelare e notare. Egli non aveva applicato come è necessario fare le regole di condotta che si deducono dai principî generali che devono regolare il comportamento degli individui. L'esame di coscienza, quindi, appare qui come una rimemorazione di atti compiuti durante il giorno – ma questa rimemorazione ha in fondo come fine essenzialmente quello di riattivare i principî fondamentali che devono regolare la condotta degli individui, e questo esame deve permettere allo stesso tempo di riadattare meglio la propria condotta ai principî fondamentali. Si tratta dunque, ancora una volta, di un'impresa di rimemorazione, di un'altra forma di mnemotecnica, ma, a differenza dei pitagorici*, ciò che si coltiva non è semplicemente l'arte della memoria. Si coltiva quest'arte della memoria, o piuttosto si compie un atto di memoria per ricordarsi e per riattualizzare, per meglio radicare nel proprio pensiero e nella propria condotta, le regole di codici che devono gestire in generale la maniera in cui ci si comporta nella vita. Vedete che questo esame di coscienza non può in alcun caso essere considerato come un'impresa volta a scoprire una verità che sarebbe nascosta in fondo al soggetto stesso. Non si tratta di scoprire una verità celata in fondo a sé, ma di ricordare e di rimemorare una verità che è stato possibile dimenticare, o una verità che forse si dimenticherà domani. Memoria, dunque, che non cercherà in fondo a se stessa qualcosa di dimenti* Foucault dice «stoici».

cato, memoria che si rivolge a un codice di condotta che bisogna ricordare incessantemente per paura di dimenticarlo un giorno. E quel che il soggetto dimentica non è dunque se stesso, non è la propria natura, non è la propria origine, non è l'una o l'altra colpa. È ciò che avrebbe dovuto fare, è l'insieme delle regole di condotta. Il richiamo degli errori commessi durante la giornata serve a misurare la distanza che separa quello che è stato fatto da quello che si sarebbe dovuto fare. Il soggetto che pratica l'esame su di sé non è dunque il luogo di processi più o meno oscuri che bisognerebbe decifrare e portare alla luce del giorno. Il soggetto, qui, non è, in fondo, che il crocevia tra regole di condotta di cui bisogna ricordarsi e il punto di partenza di azioni future che dovranno essere conformi o che dovrebbero essere conformi a tale codice. Il soggetto si situa nel punto di intersezione tra il codice e le azioni; e il suo atto di esame di coscienza si situa proprio lì. Le azioni compiute sono effettivamente conformi al codice? E, operando questa misurazione, si riattiva il codice per le azioni future. Azioni passate, riattualizzazione della memoria, azioni future: ecco il funzionamento dell'esame di coscienza in Seneca. Nessuna ermeneutica di sé, nessuna decifrazione di un segreto che sarebbe sigillato in fondo a sé. Non c'è soggettività, nell'esame di coscienza di Seneca. Passiamo ora a un secondo testo di Seneca che si riferisce a un'altra pratica, ma che io richiamo sia per la sua importanza nella filosofia antica sia per la sua importanza futura nel cristianesimo e nella vita monastica: si tratta del problema della confessione ad altri e del rapporto con il direttore di coscienza. Questo altro testo di Seneca si trova all'inizio del grande trattato De tranquillitate animi20. Sapete qual è l'argomento del trattato. Seneca, in modo più o meno fittizio – ma poco importa – introduce il suo trattato sulla tranquillità dell'animo con una domanda rivolta da uno dei suoi amici che si chiama Sereno e che gli chiede un consulto. Il trattato De tranquillitate animi è la risposta a tale richiesta. 20 SENECA, De tranquillitate animi [trad. it. La tranquillità dell'animo, in ID., I dialoghi, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 324-356].

Sereno, dunque, questo giovane amico di Seneca, gli domanda consiglio. E in questo caso abbiamo una domanda che assume esattamente la forma di un consulto medico che Sereno richiede a Seneca, un consulto medico sul proprio stato d'animo – vi rimando per esempio al celebre testo di Galeno sulle passioni dell'anima, in cui Galeno parla di consulti medici che vengono forniti da medici non per problemi del corpo, ma per problemi relativi all'anima21. È in questi termini che Sereno si rivolge a Seneca. «Perché – dice infatti Sereno in questa lettera senza dubbio inventata che Seneca gli attribuisce – perché non dovrei confessarti la verità ( verum) come la si confessa a un medico? Io non mi sento infatti del tutto malato, ma non mi sento neppure del tutto in buona salute» 22. E Sereno, sviluppando questa indicazione, dice: «Infatti, né del tutto malato, né in buona salute, mi trovo in uno stato di malessere, un po' come se mi trovassi su una nave che non procede e che è scossa dal rollio» 23. Soffre, insomma, il mal di mare, e teme pertanto di restare in mare su questa nave immobile in vista della terra ferma – la terra ferma [vale a dire] le virtù stoiche verso le quali vorrebbe muovere, alle quali vorrebbe approdare, la cui solidità costituisce la sua meta, e che gli sono ancora inaccessibili. Quindi, per uscire da questo stato di instabilità e al tempo stesso di immobilità in cui si trova a essere in un certo senso agitato senza muoversi, 21 GALENO, Le passioni e gli errori dell'anima , II e III [trad. it. Le passioni e gli errori dell'anima. Opere morali, Marsilio, Venezia 1984, pp. 58 sgg.]. Cfr. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., lezione del 10 marzo 1982, seconda ora, pp. 353-357; e ibid., p. 530, nota 21 di Frédéric Gros; ID., Histoire de la sexualité cit., vol. III: Le souci de soi, pp. 75-81 [trad. it. Storia della sessualità, Feltrinelli, Milano 1991, vol. III: La cura di sé, pp. 110-124]. 22 SENECA, De tranquillitate animi, I, 2: «Illum tamen habitum in me maxime deprehendo (quare enim non verum ut medico fatear?) nec bona fide liberatum me iis quae timebam et oderam, nec rursus obnoxium. In statu non pessimo, ita maxime querulo et moroso positus sum nec ae groto nec valeo» [trad. it. cit., p. 323: «Colgo, insomma, in me quest'atteggiamento (perché non dovrei dir la verità come a un medico?): non sono, in coscienza, libera da quei difetti che temevo e odiavo né soggetto a essi. Mi trovo in una condizione che, se non è la peggiore, certo è quanto mai dolorosa e strana: non sto né male né bene»]. 23 Ibid., I, 18: «Non esse periculosos hos motus animi nec quicquam tumultuosi afferentes scio; ut vera tibi similitudine id de quo queror exprimam, non tempestate vexor, sed nausea: detrahe ergo quicquid hoc est mali, et succurre in conspectu terrarum laboranti» [trad. it. cit., p. 326: «So che non si tratta di passioni pericolose o sconvolgenti: per esprimermi con una similitudine appropriata, ciò di cui mi lamento, quel che mi turba, non è la tempesta, ma il mal di mare. Strappami dunque a questo malessere, qualunque esso sia, e vieni in aiuto di chi è in pericolo, pur in vista della terra»].

incapace di raggiungere la terra ferma della vita stoica, in uno stato di immobilità instabile, decide verum fateri, di confessare la verità a Seneca. In cosa consiste questo verum? Cos'è il vero di cui Sereno parla a Seneca quando gli si rivolge come ci si rivolge a un medico, spiegandogli lo stato della propria anima? Cos'è quella expositio animae che rappresenta un genere importante, una pratica importante nella vita filosofica – nella vita individuale peraltro – di tutta una classe sociale importante dell'Impero romano? Il rapporto con il direttore di coscienza? Il verum che è dato, che è manifestato nella expositio animae consiste forse nelle colpe, nei pensieri segreti, nei desideri di cui ci si vergogna? Niente affatto. In realtà, quando si considera l'expositio animae che Sereno presenta a Seneca perché Seneca possa compiere la sua operazione medica, il testo appare come un accumulo di dettagli a mio parere abbastanza irrilevanti. Sereno spiega ad esempio che si serve del vasellame ereditato dal padre, che si turba facilmente e si agita quando tiene discorsi pubblici. Di fatto, dietro questo disordine apparente di annotazioni che sembrano aneddotiche, è facilissimo riconoscere in modo evidente tre grandi ambiti che corrispondono alle tre grandi forme di vita che troviamo tradizionalmente nella filosofia greco-romana: l'ambito delle ricchezze, l'ambito della vita politica e l'ambito della gloria. Acquisire ricchezza, partecipare agli affari della città e conquistare la stima, l'onore della pubblica opinione sono le tre grandi possibilità di attività per un uomo libero, le tre grandi questioni di morale che la riflessione filosofica pone. Bisogna ricercare le ricchezze? Bisogna o no ritirarsi dagli affari della città? Vale la pena di ricercare la stima degli altri e una gloria immortale? Vedete che il quadro dell'esposizione di Sereno non è del tutto definito, a differenza dell'esame di coscienza di cui si parlava poco fa, tramite il reale svolgimento della sua vita passata. Non è assolutamente definito dalla sua biografia. Non è neppure riferito a una teoria dell'anima o dei suoi elementi. È la classificazione del tutto tradizionale dei diversi tipi di attività che è possibile esercitare e dei fini che è possibile perseguire. E in ciascuno di questi am-

biti, Sereno esporrà dunque di volta in volta il proprio atteggiamento, insomma esporrà la propria anima. Ma che cosa esporrà della propria anima? Ebbene, c'è a questo proposito una parola che ricorre praticamente in tutto il testo e che mi sembra un filo conduttore importante a proposito di ciascuno di questi ambiti e dei diversi aspetti di questi ambiti. La parola che ritorna incessantemente è placet, mihi placet – ecco cosa mi piace, ecco cosa non mi piace. È il filo conduttore della sua analisi. Per esempio, nei suoi rapporti con gli altri, dice: «Mi piace essere utile ai miei amici» 24. Oppure, a proposito delle ricchezze e del lusso, dice: «Mi piace nutrirmi di un cibo semplice e non avere altri mobili se non quelli che ho ereditato. Ma da un altro lato – dice – ecco che mi piace lo spettacolo del lusso»25. Oppure «prendo piacere a elevare il tono dei miei discorsi pensando che i posteri li conserveranno»26. Vedete che, esponendo in questo modo quello che gli piace, Sereno non cerca affatto di rivelare quei desideri profondi [nei quali] i cristiani vedranno una delle manifestazioni di una concupiscenza fondamentale, sempre presente, nascosta. Enumerando ciò che gli piace e che non gli 24 Ibid., I, 10: «Placet vim praeceptorum sequi et in mediam ire rem publicam; placet honores fascesque non scilicet purpura aut virgis abductum capessere, sed ut amicis propinquisque et omnibus civibus, omnibus deinde mortalibus paratior utiliorque sim» [trad. it. cit., p. 325: «Sono deciso a seguire la sostanza delle nostre massime e a entrare nella vita politica: sono deciso ad aspirare alle cariche e ai fasci, non certo attratto dalla porpora o dalle verghe, ma per essere pronto e utile agli amici, ai congiunti, a tutti i cittadini»]. 25 Ibid., I, 7-8: «Placet minister incultus et rudis vernula, argentum grave rustici patris sine ullo nomine artificis, et mensa non varietate macularum conspicua nec per multas dominorum ele gantium successiones civitati nota […] Cum bene ista placuerunt, praestringit animum apparatus alicuius paedagogii, diligentius quam in tralatu vestita et auro culta mancipia et agmen servorum nitentium» [trad. it. cit., p. 324: «Mi piace un servo non raffinato e uno schiavo non ammaestrato, l'argenteria massiccia del padre campagnolo, senza alcuna firma d'artista, e una tavola non pregiata per la varietà delle venature né rinomata in città per essere passata attraverso le mani di molti nobili padroni […] Quando mi sento soddisfatto di tutto questo, ecco colpirmi l'animo l'eleganza di una scuola di giovani paggi, i servi abbigliati con più cura che per una processione e ornati d'oro e schiere di splendidi schiavi»]. 26 Ibid., I, 15: «Rursus, ubi se animus cogitationum magnitudine levavit, ambitiosus in verba est altiusque ut spirare, ita eloqui gestit, et ad dignitatem rerum exit oratio. Oblitus tum legis pressiorisque iudicii, sublimius feror et ore iam non meo» [trad. it. cit., p. 326: «Ma ecco, quando l'animo si è innalzato a grandi pensieri, diventa ricercato nello stile e desidera dare un tono sia al sentimento sia alla parola e il linguaggio adegua l'altezza delle idee: dimentico della norma e del criterio di moderazione, mi levo su in alto e non sono più io che parlo con la mia bocca»].

piace, si accontenta di voler indicare il più esattamente possibile a quali cose è ancora attaccato, e da quali si è già distaccato: «Mi piace un cibo semplice e non mi piace rimpinzarmi come un maiale, ma mi piace al contempo lo spettacolo del lusso e sono contento quando vengo invitato da qualcun altro a un ricevimento»27. Dunque, l'equilibrio – o piuttosto l'individuazione – di ciò che gli piace e di ciò che non gli piace non è affatto l'indizio della presenza in lui di un desiderio o di una concupiscenza nascosti, è semplicemente un indicatore di libertà. Un indicatore di libertà che gli permette di dire: «Ecco di cosa posso fare a meno, ed ecco di cosa non sempre riesco a fare a meno». Questo verum che egli propone di dire, e che si propone di dire a Seneca interpellato in quanto medico, è la prova in termini di piacere dei legami che lo tengono legato alle cose di cui non è padrone. Non si tratta in alcun modo della rivelazione di una natura nascosta: infatti, questa expositio animae è in realtà quel che potremmo chiamare un bilancio delle dipendenze, alla lettera un inventario – quasi in senso contabile –, un inventario della sua libertà. Come si addice appunto a un prospetto contabile, con gli elementi positivi (tutte le cose semplici che gli piacciono e che, di conseguenza, provano quanto si sia già distaccato) e accanto tutti gli elementi negativi (vale a dire tutti i piaceri che ancora lo legano a cose di cui non può essere padrone). Bisogna dunque intendere la confessione di Sereno come l'attuazione di un corpus di regole morali che gli sono ben note. Risponde in un certo senso a un normale questionario sul quale tutti sono d'accordo. Un questionario che, se volessimo renderlo esplicito, sarebbe press'a poco così: «A proposito del denaro, a che punto sei nella scala delle libertà? A che punto sei nella scala del tuo affrancamento? Rispetto alla vita pubblica, rispetto alle preoccupazioni politiche, rispetto alle cure per la tua carriera, a che punto sei della tua libertà? Che importanza attribuisci all'opinione degli altri?». Di fronte a questi interrogativi, Sereno mostra di conoscere bene le risposte che il saggio potrebbe fornire. Tralascio la replica 27 Ibid., I, 7-8.

di Seneca, perché in questo passo mi interessa soprattutto l' expositio animae di Sereno – ma in ogni caso la replica di Seneca si pone esattamente allo stesso livello (infatti Seneca deve appunto rispondere come medico, poiché quello che gli viene richiesto è un consulto). La risposta di Seneca non consiste affatto nel formulare una diagnosi su una malattia segreta che spiegherebbe lo stato di malessere in cui si trova Sereno; la risposta di Seneca si pone esattamente al livello di questa specie di scala o di inventario della libertà e delle dipendenze. Seneca si limita a dirgli: «Non credere di essere un malato che non riesce ancora a guarire. Tu sei semplicemente uno che è stato malato e che non si rende ben conto di essere guarito. Vale a dire che nel quadro e nell'inventario delle tue libertà, per l'essenziale tu ti sei distaccato da ciò che ancora ti legava in maniera eccessiva – da quel lato, sei guarito. Ma c'è ancora un certo numero di piccoli legami che ti trattengono, e da questo devi ancora liberarti» 28. Insomma, Seneca si limita a indicare a Sereno a quale stadio si trovi lungo il tragitto che deve condurlo fino alla terra ferma delle virtù stoiche. Seneca fa esattamente il punto. Vedete bene che ci troviamo di fronte a un tipo di veridizione di sé che è perfettamente coerente, perfettamente sistematica, che peraltro ha corrisposto a una pratica la cui diffusione è stata anch'essa relativamente ampia nella tarda Antichità. Potete già indovinare quanto siamo ancora lontani dal tipo di veridizione che si svilupperà nel cristianesimo. È dunque essenzialmente in termini di codice di condotta e di grado di libertà che si farà la prova della veridizione. La veridizione di sé nella penitenza 28 Ibid., II, 1-2 [trad. it. cit., p. 327: «Anch'io da tempo, o Sereno, cerco tra me in silenzio a che paragonare una tale disposizione d'animo né potrei accostarla più opportunamente ad alcuno stato se non a quello di coloro che, liberati da grave e lunga malattia, sono colpiti di tanto in tanto da piccole febbricole e da leggeri disturbi e, sfuggiti agli ultimi strascichi del male, sono inquietati dai sospetti e, ormai sani, porgono il polso al medico e se la prendono con ogni alte razione di temperatura. Costoro, o Sereno, non hanno il fisico poco sano, ma poco riabituato alla salute: così resta un certo tremolio o brivido nel mare anche tranquillo, quando s'è calmato dopo la tempesta. […] Non si richiedono, quindi, dei rimedi troppo forti che ci siamo già lasciati dietro, di lottare talvolta con te, di adirarti talvolta con te, di sorvegliarti talvolta con se verità. Siamo alla fase ultima: abbi fede in te e sii convinto che vai per la strada giusta, per nul la distratto dalle orme oblique di molti fuorviati di qua e di là, di taluni brancolanti ai bordi della strada»].

cristiana assumerà evidentemente tutt'altro andamento e tutt'altra forma*.

Veridizione del cristianesimo: vorrei affrontare la questione sotto due aspetti**. Per cominciare, intendo parlarvi della veridizione nella penitenza cristiana. Qui voi vi trovate in una facoltà cattolica, non vi recherò dunque l'offesa di ricordarvi quel che sapete molto bene: la penitenza così come la conosciamo nella pratica cattolica attuale, con […] obbligo almeno annuale di ricorrere al sacramento della penitenza all'interno di un rituale che comporta la confessione dei peccati, è un'invenzione molto recente, che risale all'incirca al XII secolo. La penitenza non era un sacramento, non implicava confessione, e non era obbligatoria per tutti i cristiani. Sorvolo sui lunghissimi dibattiti relativi all'origine della penitenza e allo statuto che ha potuto avere nel cristianesimo primitivo. Troviamo quella che viene considerata una delle prime testimonianze dell'esistenza di una penitenza e del suo problema con Il pastore di Erma29. Il problema della penitenza nel cristianesimo primitivo era il seguente: una volta che si è battezzati, non si deve più peccare. Se si pecca, allora si deve essere espulsi dalla comunità ecclesiastica. Esiste tuttavia un rimedio che permetta all'individuo di essere reintegrato, anche quando il suo peccato dovrebbe averlo escluso, anche quando si è escluso da sé dalla comunità a causa dell'esistenza del peccato? In altre parole, la penitenza è il proble* Foucault interrompe la lezione e si rivolge agli ascoltatori nei seguenti termini: «Bene allora, vi porrò una questione che potremmo chiamare di metodo. Dato che parlo, in generale, molto più a lungo di quanto vorrei, sia perché forse sono come Sereno, mi lascio un po' trasportare, sia perché l'uditorio numeroso – cosa di cui mi felicito e per la quale vi ringrazio – non facilita molto la rapidità di espressione. Bene, volete dunque che interrompiamo per cinque minuti e che discutiamo, ad esempio, di ciò che vi ho detto? O che passi subito, anche per mezz'ora, tre quarti d'ora, a trattare della veridizione cristiana? Siete per l'interruzione o siete per... No? Chi è a favore dell'interruzione? Potete alzare la mano? Sento che non m'interromperò, temo. Bene». ** Foucault s'interrompe ancora una volta e si rivolge all'uditorio nei seguenti termini: «Perdonate, tutto questo ha un carattere discontinuo, un po' formale; si tratta di punti di riferimento, non di una storia, una storia continua e minuziosa delle evoluzioni, delle trasformazioni, delle sovrapposizioni. Potremmo considerarli più esortazioni a una ricerca o indicazioni di lavoro possibile che non un'analisi completa ed esauriente». 29 Il pastore di Erma [trad. it. Il pastore di Erma, Città Nuova, Roma 2007].

ma del secondo battesimo. È possibile essere battezzati una seconda volta? O si può essere reintegrati da qualcosa che non sia un secondo battesimo? Ecco, se volete, il quadro generale entro il quale si poneva il problema nel II secolo. Ma lasciamo stare questo problema che riguarda le origini. Vorrei semplicemente ricordare che questa penitenza – la quale ha assunto le forme che conosciamo solo a partire dal XII secolo –, la penitenza così com'è attestata tra la fine del II secolo e il Medioevo, […] era una penitenza non rinnovabile. Si poteva fare penitenza una volta, e una volta sola, nel corso della vita; infatti, se già era una fortuna aver avuto la possibilità di commettere un peccato grave dopo il battesimo e di non essere esclusi dalla comunità, era evidente che non lo si poteva commettere ancora indefinitamente. Dunque, una sola penitenza. In secondo luogo, questa penitenza era a volte la conseguenza e il seguito di un peccato grave e determinato che si fosse eventualmente commesso – come ad esempio [il] peccato di adulterio, o ancora quando si era arrivati a rinnegare la religione cristiana (è il famoso problema dei lapsi30). Ma la penitenza poteva anche [intervenire] – e molto spesso interveniva – semplicemente quando l'individuo considerava di avere commesso abbastanza peccati, o in ogni caso che la sua vita di cristiano fosse stata sufficientemente cattiva da concepire il desiderio di cambiare globalmente vita, pentirsi di tutti i peccati e preparare una buona volta prima della morte una penitenza che doveva assicurargli la salvezza. In terzo luogo, bisogna ricordarsi che questa penitenza non era una procedura particolare: non consisteva nel fare l'una o l'altra cosa, come, ad esempio, un digiuno o un'elemosina o delle preghiere. La penitenza era uno statuto. Era uno statuto che inglobava tutti gli aspetti dell'esi30 Cfr. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) cit., lezione del 22 febbraio 1978, pp. 127-129; p. 323, nota 16 e p. 325, nota 27. La questione se la riammissione dei lapsi nella Chiesa fosse subordinata o no alla confessione e alla penitenza pubblica è menzionata da Cipriano in tre lettere, rivolte una al clero (XVI), un'altra ai martiri e ai confessori (XV) e la terza ai fedeli (XVII). Su questo punto, cfr. l'introduzione del Canonico Bayard alla Correspondance de saint Cyprien , Les Belles Lettres, Paris 1925, pp. XVIII-XXII, e la nota di Michel Senellart in FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione cit., lezione del 22 febbraio 1978, p. 325, nota 27.

stenza. A dire il vero non si faceva penitenza, o meglio, per fare penitenza si diventava penitenti – e diventare penitenti significava vivere in modo diverso dagli altri. Ciò significava, beninteso, avere un posto particolare, spazialmente determinato, nella comunità. Significava adottare un certo modo di alimentazione, con il digiuno. Significava, naturalmente, il divieto di avere rapporti sessuali. significava l'impossibilità di diventare sacerdote anche una volta usciti dalla penitenza. La penitenza era infatti uno statuto che si sollecitava presso l'autorità, presso il vescovo. E una volta accordato questo statuto penitenziale, quando si era praticato questo statuto penitenziale, quando si era vissuti secondo questo statuto penitenziale per un tempo abbastanza lungo – il problema era sapere se il tempo era stabilito prima o se terminava soltanto quando c'era il consenso da parte del vescovo, forse anche da parte della comunità. Ma lasciamo perdere tutti questi problemi istituzionali... In ogni caso, al termine della penitenza, si rientrava nella Chiesa e nella comunità con una seconda cerimonia che era quella della riconciliazione. Imposizione della penitenza; svolgimento dello statuto penitenziale per mesi, per anni, talvolta addirittura fino alla morte, e riconciliazione mediante una cerimonia che poteva, peraltro, aver luogo sul letto di morte dell'individuo. Allora, in questo contesto, all'interno di questo statuto penitenziale sollecitato, imposto, che coinvolgeva tutti gli aspetti dell'esistenza, che si concludeva con una cerimonia particolare, qual era il posto della veridizione? Era forse necessario dir vero? In che modo bisognava dir vero? In che modo bisognava manifestare la verità? E quale verità si doveva manifestare? Ebbene, il posto della veridizione era certamente molto importante in questa pratica e in questa istituzione della penitenza primitiva. Una prova diretta è la pratica stessa della penitenza – l'insieme delle condotte, dei comportamenti, degli atti che caratterizzavano questo statuto penitenziale – è molto spesso designata nella letteratura dell'epoca da una parola, una parola che troviamo nei testi greci, ma che troviamo anche nei testi latini nella sua forma greca, come se i Latini non riuscissero a tra-

durla molto bene. Il termine è quello di exomologesis – exomologesis, exomologein. Homologein significa dare il proprio accordo, trovarsi d'accordo. Exomologein significa riconoscere qualcosa – riconoscere qualcosa, dichiarasi d'accordo, è un termine che troviamo regolarmente nel greco classico. Si tratta di un termine, peraltro, che ha un senso preciso nel vocabolario giuridico, vuol dire proprio dire confessione (nel testo dell' Edipo re che vi ho citato ieri, quando lo schiavo si vede obbligato a riconoscere di essere proprio lui ad avere, contro gli ordini di Laio, consegnato Edipo vivo al pastore di Corinto, dice: exomologeo, «riconosco, sì, confesso»31). È dunque il termine della confessione. Nella letteratura cristiana, il termine exomologesis designa, in realtà, un certo numero di cose. Designa in primo luogo l'atto di fede: quando si riconosce la verità dell'insegnamento ricevuto, si dice exomologein. Il termine può anche designare l'atto mediante il quale, davanti a Dio, ci si può riconoscere come peccatori. E in un antichissimo testo – come sapete il primo che ci dia indicazioni sulla pratica comunitaria delle chiese cristiane primitive, la Didaché – troviamo in un famoso passo che, quando si fa la preghiera collettiva, si deve exomologein amartemata, cioè bisogna riconoscere i propri peccati32. Un'interpretazione manifestamente tendenziosa e che è stata imposta per secoli ha voluto far dire a questo testo che sin dalla Chiesa primitiva bisognava confessare i propri peccati; bisognava confessare i propri peccati, li si confessava pubblicamente davanti a tutti nel corso della preghiera collettiva – il che ha fatto nascere la leggenda della confessione pubblica dei peccati. In realtà, il testo della Didaché vuol dire soltanto una cosa, che bisogna riconoscersi come peccatori davanti a Dio nel corso di una preghiera che è, questa sì, collettiva; ma nel testo della Didaché non esiste designazione di confessione, di formulazione verbale, di enunciazione verbale dei peccati. Per contro, quando si tratta della vera e propria pratica penitenziale – vale a dire dell'ac31 SOFOCLE, Edipo re, vv. 1155-1185. 32 Didaché, IV, 14, 27-30 [trad. it. Didaché. Dottrina dei dodici apostoli, San Paolo Milano 2003, p. 47: «Confessa i tuoi peccati nell'assemblea e non andare alla preghiera se la tua coscienza è consapevole di qualcosa di male. Questa è la via della vita»].

cettazione, dell'imposizione dello statuto di penitenza, del suo svolgimento, della riconciliazione – il termine exomologesis è a sua volta regolarmente impiegato, e con un significato ben preciso. Per schematizzare un po' le cose, possiamo rappresentarle come segue. In primo luogo, mentre la penitenza è sollecitata o imposta, l'esposizione delle colpe è necessaria. È necessaria perché e in che modo? Ebbene, se è il penitente, colui che vuol essere penitente, a sollecitare dal sacerdote o dal vescovo – all'epoca diciamo pure che non c'è differenza – di ricevere la penitenza, allora si rivolge al vescovo e gli espone le ragioni per le quali vorrebbe essere penitente. E verosimilmente, benché non si abbiano indicazioni molto precise, doveva esistere una sorta di enunciazione verbale delle colpe commesse. Sembra riferirsi a questa pratica san Cipriano, quando parla di expositio causae, l'esposizione della causa, termine assolutamente giuridico che dimostra come si pensasse appunto in termini giuridici almeno questa prima fase dell'atto penitenziale, o piuttosto questo primo passo a partire dal quale si sarebbe arrivati allo statuto penitenziale e allo svolgimento della penitenza33. Ma notate bene che questa expositio, questa confidenza che si faceva al vescovo per sollecitare lo statuto di penitente, da una parte non apparteneva al rituale stesso della penitenza – ne costituiva semplicemente il preliminare – e dall'altra era evidentemente una pratica di tipo privato. Non segreta, in fondo si svolgeva comunque da uomo a uomo, e ancora una volta fuori dal rituale specifico della penitenza. E d'altra parte non sembra che la parola exomologesis fosse impiegata per designare quell'esposizione della colpa che comporterà l'imposizione dello statuto di penitente. Per contro, il termine exomologesis è impiegato esplicitamente per altre due situazioni. Prima di tutto, cominciando dalla fine, al momento 33 Cfr. CIPRIANO, Epistulae, LV, 6, 1: «... ut ad communicationem temere prosilirent sed traheretur diu paenitentia et rogaretur dolenter paterna clementia, et examinarentur causae et vo luntates et necessitates singulorum, secundum quod libello continetur quem ad te pervenisse confido, ubi singula placitorum capita conscripta sunt» [trad. it. Lettere, vol. II: Lettere 51-81, Città Nuova, Roma 2007, pp. 32-33: «... [ma abbiamo prescritto] che si facesse penitenza a lungo e si implorasse il perdono del Padre, e si vagliassero le condizioni e le volontà e le esigenze dei singoli, secondo quanto è contenuto nell'opuscolo, che spero ti sia giunto, dove sono elen cati i singoli articoli del regolamento stabilito»].

stesso della riconciliazione, vale a dire al momento della cerimonia che si svolgeva spesso il Venerdì santo*. L'esistenza di questo episodio particolare è attestata da un certo numero di testi. San Cipriano, ad esempio, parla regolarmente, a proposito della penitenza, delle tre fasi seguenti: paenitentiam agere, exomolgesim facere, impositio manus34. Cioè, si fa penitenza – è lo statuto di penitente che viene assunto dal penitente fino al momento della riconciliazione; si ha poi exomologesim facere, fare l'exomologesi; e infine l'impositio manus, che è il rito tramite il quale si è propriamente riconciliati. Dunque, tra lo svolgimento dello statuto penitenziale e l'imposizione delle mani, vi è tale exomologesi. In cosa consiste? In realtà, Cipriano non fornisce indicazioni in queste lettere, ma abbiamo indicazioni precise in testi sia anteriori sia più tardi. Testi anteriori: li troviamo in Tertulliano. Più esattamente nel De pudicitia di Tertulliano che, come sapete bene e meglio di me, è stato scritto all'epoca in cui l'autore era montanista, fatto che evidentemente può indurre a considerare con un certo scetticismo che questo testo sia una descrizione reale dei riti di penitenza35. Ma bisogna guardare bene di cosa si trattava, quando Tertulliano parlava di riti di penitenza in questo De pudicitia. Tertulliano non condannava la pratica della penitenza; al contrario, era assolutamente favorevole a che si facesse penitenza. Ciò che non voleva e che criticava era che si potesse, una volta che si era penitenti, non restarlo più ed essere riconciliati. Era sul punto della riconciliazione e non sul punto della penitenza che si è trovato in conflitto con altre autorità religiose o, se volete, con l'autorità religiosa. * Foucault è in dubbio: «No, scusatemi, che aveva luogo il giorno della celebrazione della Crocefissione o della Resurrezione, insomma, di venerdì». 34 Cfr. CIPRIANO, Epistulae, XV, 1, 2: «... ante actam paenitentiam, ante exomologesim gravissimi adque extremi delicti factam, ante manum ab episcopo et clero in paenitentiam impositam» [trad. it. Lettere, vol. I: Lettere 1-50, Città Nuova, Roma 2003, pp. 165-167: «... prima che sia stata resa la confessione della più grave e della maggiore colpa, prima che siano state imposte dal vescovo e dal clero le mani per la penitenza»]. Il Canonico Bayard, curatore dell'edizione Les Belles Lettres dell'epistolario di Cipriano, descrive questo passo a margine come «tutto il processo della disciplina penitenziale» (cfr. CIPRIANO, Correspondance cit., vol. I, p. 43, nota 1). 35 TERTULLIANO, De pudicitia [trad. it. La pudicizia, in ID., Opere montaniste, Città Nuova, Roma 2012, vol. II].

Nel De pudicitia, descrive due cose. Da una parte, nel capitolo III, 5, evoca il penitente alla porta della Chiesa. È la sola forma di penitenza che Tertulliano accetti: è quella – dice – che è stata inviata solo da Dio. E la penitente che osserva questo rito preferisce arrossire davanti alla Chiesa che non restare in comunione con essa: «Si ferma infatti davanti alle sue porte, tutti gli altri ammonisce con l'esempio del suo marchio, richiama a sé le lacrime dei fratelli»36. Sembra trattarsi della descrizione del penitente così com'è nel suo statuto di penitente e quando non è riconciliato. Per contro, al capitolo XIII, 7 dello stesso testo, Tertulliano evoca ciò che lui osteggia, ovvero il rito di riconciliazione, perché non vuole che i penitenti siano riconciliati. Ecco che si scatena allora contro questo rito, che descrive forse con un po' di enfasi, probabilmente esagerando un po', ma ascoltiamo in ogni caso il suo racconto. Si rivolge al sacerdote nel ruolo del pastore che riconduce all'ovile il gregge smarrito: Tu stesso, quando ammetti in chiesa la penitenza di un adultero a implorare l'assemblea dei fedeli, lo fai prostrare in mezzo, coperto del cilicio e lordo di cenere, con infamia e ribrezzo, davanti alle vedove, davanti ai presbiteri, e riesce a indurre tutti alle lacrime, di tutti lecca le orme, di tutti si aggrappa alle ginocchia37.

È verosimile che questo testo, che critica dunque tale pratica, descriva tuttavia una pratica reale. E se, nella teatralità del testo di Tertulliano, si può scorgere una nota di indignazione contro questo genere di pratiche, sembra di poter trovare in esso un certo numero di gesti molto precisi che caratterizzavano l'exomologesi di colui al quale sarebbe stata concessa la riconciliazione – il cilicio, il prenderlo per mano, il fatto che sia coperto di cenere, che si prosterni, che baci le impronte dei suoi fratelli, che si rotoli umilmente ai loro piedi. Peraltro, che l'exomologesi si svolgesse proprio in questo modo (la manifestazione di verità nella penitenza, questo riconoscimento della ve36 Ibid., III, 5 [trad. it. cit., pp. 268-269]. 37 Ibid., XIII, 7 [trad. it. cit., pp. 306-307].

rità nella penitenza) viene confermato in testi più tardi, quando ad esempio Girolamo evoca la penitenza di Fabiola. Fabiola infatti aveva divorziato dal marito, e si era risposata prima della morte del primo marito, il che era molto male. Ha dunque fatto penitenza, e nella lettera [LXXVII] Girolamo descrive tale penitenza così: Tutta la città di Roma ha potuto vederla, quando la vigilia di Pasqua si è accodata alla schiera dei penitenti davanti alla Basilica che un tempo apparteneva a quel Laterano che fu decapitato dalla spada di un Cesare. Vescovo, sacerdoti e popolo, tutti piangevano con lei che aveva i capelli scarmigliati, il volto pallido, le mani squallide, la testa bassa, cosparsa di cenere […] Era fisicamente sfatta […] Si percuoteva quel volto che l'aveva fatta piacere al suo secondo marito […]. La sua ferita lei l'ha mostrata a tutti; su quel corpo sbiancato tutto Roma in lacrime ha potuto osservarne le cicatrici38.

Abbiamo qui un rituale, un grande rituale di supplica, di cui non dobbiamo dimenticare che è comunque, in molti dei suoi elementi, molto vicino ai rituali di supplica che troviamo nella tragedia greca e che erano effettivamente praticati nella società greca – quella romana era indubbiamente un po' diversa. In breve, abbiamo un rituale che affonda le sue radici in tradizioni lontane, un rituale di supplica, ma con un posto ben definito nella procedura penitenziale. E vedete che questo rituale, chiamato appunto exomologesis, non comporta una confessione dei peccati, ma una manifestazione spettacolare, una manifestazione spettacolare del fatto che si è peccato, della coscienza che si ha di essere peccatori, del rimorso che si prova a esserlo, e della volontà di non peccare più e di essere reintegrati. Ma al di fuori di questo episodio ben preciso che si è chiamato exomologesis, il termine exomologesi, il termine di riconoscimento che i Latini dunque in generale non traducono, ma che rendono talvolta con ammissione, si riferisce anche, molto più ampiamente, a tutto lo svolgimen38 GIROLAMO, Epistulae, LXXVII, 4 e 5 [trad. it. Le lettere, Città Nuova, Roma 1997, vol. II, pp. 345 e 347 sgg.].

to della penitenza stessa. Che la parola exomologesi voglia dire infine essere penitente e condurre la vita del penitente, che la vita del penitente sia chiamata riconoscimento, ammissione, confessione, è in ogni caso importante ed essenziale. Nell'Adversus haereses di Ireneo, I, 13, 5, si parla ad esempio di una persona che ha fatto ritorno alla Chiesa dopo averla lasciata e che ha passato tutto il resto della vita nell' exomologesi39. Nel De penitentia di Tertulliano, al capitolo XII, è evocato un re di Babilonia che avrebbe fatto exomologesi per sette anni40. Ovviamente il termine exomologesi non si riferisce in questo caso a quel rituale molto particolare che avrebbe luogo nella chiesa al momento della riconciliazione, ma alla penitenza stessa, che è nel suo insieme exomologesi. In che cosa la vita del penitente poteva essere al contempo un' exomologesi, una confessione, un riconoscimento? Di questa pratica penitenziale, Tertulliano diceva che non doveva svolgersi semplicemente in conscientia, all'interno della coscienza, ma che doveva essere actus, che doveva essere un atto da intendere nel senso quasi teatrale della parola 41. Deve trattarsi di un actus manifesto, deve trattarsi anche di una disciplina, vale a dire di tutta una maniera, una regola di vita che coinvolge, dice Tertulliano, habitus et victus, il modo di comportarsi e il modo di nutrirsi, di alimentarsi42. In De paenitentia, IX, Tertulliano esplicita in cosa debba consistere questa vita di penitenza: bisogna dormire sotto il sacco e la cenere, avvolgere il corpo in stracci scuri, abbandonare la propria 39 IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, I, 13, 5: «omne tempus in exomologesi consummavit» [trad. it. Contro le eresie, Città Nuova, Roma 2009, pp. 118-119: «... in seguito, dopo che con gran fatica i fratelli riuscirono a convertirla, passò il resto della sua vita nella penitenza, piangendo e lamentandosi della depravazione che aveva subito da questo mago»]. 40 TERTULLIANO, De paenitentia, XII, 7 [trad. it. La penitenza, Edizioni San Clemente-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011, pp. 160-161: «... per sette anni aveva praticato l'exomologesis nello squallore, le unghie avevano assunto l'aspetto ferino degli artigli dei leoni e per l'incuria i capelli erano diventati orridi come le penne delle aquile. Ma quale felicità in cambio di un trattamento così duro! Gli uomini l'avevano in orrore, ma Dio l'accoglieva!»]. 41 Ibid., XII, 9, 1 [trad. it. cit., pp. 144-145: «Pertanto, il procedimento di questa seconda e unica penitenza è tanto più rigoroso quanto più laboriosa è la prova, poiché non si svolge di fronte alla sola coscienza, ma deve compiersi anche con qualche atto esterno»]. 42 Ibid., XII, 9, 3 [trad. it. cit., pp. 146-147: «L'exomologesis, quindi, è la disciplina che insegna all'uomo di prostrarsi e umiliarsi, imponendo un genere di vita che attiri la misericordia anche riguardo al modo stesso di vestirsi e di nutrirsi»].

anima alla tristezza, correggere con trattamenti rudi le membra colpevoli. Il penitente alimenta di solito le preghiere con i digiuni. Egli geme, piange, grida giorno e notte al Signore suo Dio. Si rotola ai piedi dei sacerdoti. S'inginocchia davanti a coloro che sono cari a Dio, incarica tutti i fratelli di intercedere per ottenere il perdono 43. Ed è questo che costituisce al contempo la penitenza e l'exomologesi. E nei testi più tardi si fa riferimento agli stessi tipi di pratiche. In una lettera scritta a Cipriano da un chierico della chiesa romana, quest'ultimo dice a proposito degli apostati: «È tempo per loro di fare penitenza (paenitentiam agere), di mostrare (probare) il dolore che provano, di esprimere ( ostendere) la loro vergogna, di manifestare (monstrare) la loro umiltà e di esibire la loro modestia (modestiam exhibere)»44. Non si dà penitenza senza questa attività che consiste nell'esibire, nel mostrare, nell'esprimere, nel manifestare. Cipriano, nel De lapsis, dice: «Unite le vostre lacrime alle nostre, confondete i vostri gemiti con i nostri»45. Ambrogio, nel De paenitentia, I, 5, 24, dice: Confitentur gemitibus, confitentur fletibus, confitentur liberis, non coactis vocibus, «Confessano con i loro gemiti, confessano con le loro lacrime, confessano con parole – vocibus liberis, non coactis – che non sono costretti, ma che sono liberi»46. E nella Parenesi […]* [di Paciano47 voi vedete che la penitenza è definita come qualcosa che non deve svolger43 Ibid., XII, 9, 4 [trad. it. cit., pp. 146-149]. 44 Si tratta di un estratto di una lettera di presbiteri e diaconi di Roma a Cipriano, sulla questione della reintegrazione degli apostati. Il testo latino si trova nella Patrologia Latina (J.-P. MIGNE [a cura di], Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, vol. IV, col. 306): «Tempus es igitur ut agant delicti poenitentiam, ut probent lapsus sui dolorem, ut ostendant verecundiam, ut monstrent humilitatem, ut exhibeant modestiam, ut de submissione provocent in se Dei clementiam, et de honore debito in Dei sacerdotem eliciant in se divinam misericordiam». (Ringraziamo B. Coulie). 45 CIPRIANO, Liber de lapsus, in Patrologia latina cit., vol. IV, coll. 463-494 [trad. it. Gli apostati, in CIPRIANO, Opere, Utet, Torino 1980, pp. 127 sgg.; XXIII, p. 163]. 46 AMBROGIO DA MILANO, De paenitentia, I, 4, 24, ll. 53-55: «Negarunt sermone, sed confitentur gemitibus, confitentur heiulatibus, confitentur fletibus, confitentur liberis, non coactis vocibus» [trad. it. La penitenza, Città Nuova, Roma 1976, p. 45: «Hanno rinnegato con la bocca, ma testimoniano di continuo con i gemiti, con gli ululati, con le lacrime, con le parole schiette, sincere»]. * Inseriamo qui una cesura che corrisponde al cambiamento di nastro per la registrazione. Questo cambiamento ha prodotto una lacuna che è possibile colmare grazie al dattiloscritto depositato all'Imec, pp. 16-17. L'estratto utile viene riprodotto di seguito tra parentesi quadre nel testo.

si in maniera nominale con con la cenere, il sacco, il digiuno, l'afflizione e la partecipazione di un gran numero di persone alle preghiere. Da tutte queste indicazioni possiamo trarre alcune considerazioni. La penitenza non può essere dissociata da qualcosa d'altro che può essere chiamato exomologesi e che può essere o l'episodio finale che incorona in un certo senso la vita del penitente e che lo condurrà alla riconciliazione finale, o l'exomologesi intesa come la forma spettacolare, teatrale, della vita di penitenza. Non si può essere penitenti senza attuare nello stesso tempo exomologesi, una pratica di veridizione che è parte integrante dello stesso processo penitenziale. Ma questa veridizione non assume mai la forma di un'enunciazione verbale delle colpe. Possono esserci certamente grida, lamenti e riconoscimento, in questo modo, della colpa commessa. A rigore si può proclamare che si è peccatori e che si sono appunto commesse delle colpe. In tutto questo non c'è nulla che possa essere ricondotto a un esame di coscienza, che sarebbe l'enunciato riflesso e quasi analitico della colpa commessa. Si tratta di una verità espressiva, teatrale, di uno spettacolo nel quale non entrano – non si dicono – i peccati commessi, nel quale piuttosto si mostra che si è peccatori. Mi sembra che ad aver trovato la traduzione più efficace di questo termine exomologesi, in cui il Romano si è trovato in difficoltà, sia ancora una volta Tertulliano. Egli ha impiegato l'espressione publicatio sui, rendere pubblico se stesso. Rendere pubblico il fatto che si è peccatori e rendere manifesto al pubblico il proprio statuto di peccatori, apparire al pubblico con questo statuto di peccatori].

[Qual è il modello cui si riferisce questa pratica dell' exomologesi? Ritroviamo anche qui] un'argomentazione medica o giudiziaria. Per esem47 Il dattiloscritto depositato all'Imec reca «Paranesi di Paciano». Paranesi, da leggersi parenesi, indica un genere letterario (consolazione, esortazione), in voga presso gli autori ecclesiastici dei primi secoli. Foucault fa riferimento allo stesso testo in Du gouvernement des vivants cit. Secondo Michel Senellart, si tratta di un testo di Paciano, vescovo di Barcellona (IV secolo), Paraenesis sive exhortatiorius libellus ad poenitentiam , in Patrologia latina cit., vol. XIII, coll. 1082 d sgg.

pio, troviamo spesso questo argomento: quando vi recate da un medico, bisogna pure che scopriate le vostre piaghe perché vi guarisca; allo stesso modo, se volete essere guariti dai peccati che avete commesso, dovete mostrare le vostre piaghe, mostrarle a colui che deve guarirvi, al Christus medicus che è colui che ci guarirà e ci condurrà alla nostra salvezza. Troviamo anche argomenti di tipo giudiziario che hanno la forma seguente: quando un accusato vuole ottenere il perdono dal giudice, sa benissimo che, se confessa e riconosce umilmente la sua colpa, placherà il suo giudice. Allo stesso modo, riconosciamo il nostro peccato davanti a Dio e forse lo placheremo. O ancora, quando il giorno del giudizio il diavolo si alzerà contro di noi e ci accuserà, se non avremo parlato noi per primi, Dio sarà più severo, mentre se avremo preceduto l'accusa del diavolo con la nostra penitenza, se ci saremo mostrati agli occhi di Dio proprio come penitenti, il diavolo sarà obbligato a tacere nel giorno terribile. Ma, a dire il vero, questa spiegazione medica, questa spiegazione anche giudiziaria della pratica dell'exomologesi e della necessità di una veridizione non mi sembrano le ragioni fondamentali. Il vero modello al quale si riferisce questa pratica dell'exomologesi, [questa] grande manifestazione spettacolare di se stessi come peccatori, non sono la malattia o le ferite e la medicina, non è il crimine e il giudizio. Il vero modello, lo avvertite bene, è il martirio. Vale a dire che, praticando la penitenza, colui che ha commesso un peccato fa quel che possono fare soltanto coloro che affrontano le persecuzioni dei pagani per la maggior gloria di Dio e per il suo onore e in sua testimonianza. La grande questione attorno alla quale ha ruotato tutta l'organizzazione della penitenza è certamente la questione dei lapsi, di color che non hanno voluto affrontare il martirio per salvarsi la vita. E la penitenza che è stata organizzata in parte (solo in parte, ma in ogni caso lo è stata) per rispondere al seguente interrogativo – «Come reintegrare i lapsi?» – è un modo per sostituire al martirio reale che non si è voluto affrontare una sorta di piccolo martirio, di martirio in scala ridotta, che si impone a se stessi per raggiungere in qualche modo coloro che hanno effettivamente

saputo affrontare il martirio. La penitenza è una mortificazione, una mortificazione in senso stretto. Ciò vuol dire da una parte che ci si mostra come peccatori, come appartenenti al regno della morte. Sotto il sacco e la cenere si mostra che di fatto, nella propria verità di peccatori, si appartiene a un mondo che è il mondo della morte., e che non si è scelto il mondo della vita a costo di morire a questo mondo; ma, sottomettendosi a queste macerazioni, si mostra che ora, benché si è peccato e benché, attraverso il peccato, si sia mostrato che si era scelto questo mondo della vita che è nello stesso tempo un mondo di morte, si è pronti a scegliere un mondo che sarà l'altro mondo e che per questo si è pronti ad affrontare la morte. Si uccide in sé il mondo di morte che non si era voluto lasciare peccando. Ci si mostra come si è, ci si mostra morti a causa del peccato, e ci si mostra pronti a morire per non peccare più. La veridizione e la mortificazione sono intimamente legate in questa pratica della penitenza. Se la pratica della penitenza implica questa exomologesi è perché si deve, attraverso la penitenza, da una parte morire a questo mondo, e dall'altra attestare, attestare pubblicamente agli occhi di questo stesso mondo che si è pronti a sacrificarlo, che si è pronti a sacrificare se stessi in questo mondo per arrivare all'altro mondo. Significa che ci troviamo di fronte a una veridizione di se stessi, a un atto rituale attraverso il quale si mostra la verità di sé; ma in rapporto a cosa, in funzione di cosa, in connessione con cosa? Con la mortificazione di sé, vale a dire con il sacrificio di sé. Si produce la verità di sé solo nella misura in cui si è capaci di sacrificare se stessi. Il sacrificio di sé per la verità di sé, o la verità di sé per il sacrificio di sé: questo è al cuore del rito dell' exomologesi penitenziale. Come vedete, siamo di fronte a qualcosa che è evidentemente al di là di ogni misura comune, sia rispetto alla veridizione così come abbiamo potuto trovarla nella pratica stoica di Seneca, di cui vi ho parlato, [sia rispetto] alla pratica della veridizione, dell'esame di se stessi quale potevamo trovare in molte altre forme della pratica cristiana. In ogni caso, questo legame tra veridizione e mortificazione mi sembra un fatto assolutamente essenziale all'interno di questo primo rituale

della penitenza cristiana. Dunque, il mio intento – ma penso che ora sia troppo tardi – sarebbe stato quello di spiegarvi come nel IV e nel V secolo si trovi un'altra forma di veridizione: si tratta di quella forma che si è sviluppata nelle istituzioni monastiche e che collega anche, in un certo modo, veridizione e mortificazione, ma attraverso pratiche e riti completamente diversi. Mentre in questa veridizione di cui vi ho parlato, in questa exomologesi penitenziale, vedete che tutta la produzione di verità avviene in una sorta di grande teatralizzazione della vita, del corpo, dei gesti, con una componente verbale assolutamente irrilevante, al contrario, nelle pratiche monastiche che si sviluppano a partire dal IV e dal V secolo, la mortificazione di sé sarà ancora legata alla veridizione, ma con un mezzo nuovo e fondamentale come intermediario, che ha una certa importanza nella storia della cultura e della soggettività occidentale, e che sarà il linguaggio. È mediante la verbalizzazione continua di se stesso che il monaco dovrà, egli stesso, realizzare il legame tra veridizione e mortificazione. Diciamo che il penitente stabilisce questo legame veridizionemortificazione nel suo corpo; mentre il monaco lo stabilisce anche nel suo corpo, perché in un certo modo è penitente, ma lo stabilisce al contempo attraverso un certo esercizio continuo e permanente di linguaggio.

Il corso è seguito da uno scambio con l'uditorio che riproduciamo in extenso. FOUCAULT Allora è questo, a seconda dei casi, che vi racconterò o questa sera o la prossima volta, perché il tempo è passato. Volete pormi delle domande? Bene. Sì? DOMANDA Il costume che sembra esistesse nel Medioevo, anche se più tardi rispetto al V secolo, secondo il quale le persone anziane si ritiravano a vita monastica dopo aver condotto una vita attiva e familiare, potrebbe essere accostato alla penitenza attenuata?

FOUCAULT Sì, certo. Sapete bene che il grande rituale di penitenza che ho evocato attraverso i testi di Tertulliano non è scomparso. Ha perduto l'importanza e l'estensione che aveva in seguito a un certo numero di fattori – l'apparizione della penitenza tariffata di cui vi parlerò la prossima volta, a partire dal VII-VIII secolo, l'organizzazione della penitenza sacramentale a partire dal XII-XIII secolo –, ma la pratica della penitenza, cioè l'acquisizione dello statuto di penitente con un modo di vita particolare e spettacolare, è rimasta. In fondo, è rimasta essenzialmente sotto due forme, potremmo anche dire sotto tre forme. La vita monastica è una maniera di scegliere uno statuto di penitente, è una modalità della vita di penitente. In secondo luogo, ci sono quelli che, alla fine della vita, di fatto si ritiravano e conducevano un'esistenza di penitenza prima di morire, il che era conforme alla pratica che è attestata nel V secolo. L'autorità religiosa non gradiva affatto, peraltro, che le persone aspettassero il momento in cui cominciavano a essere vacillanti per fare penitenza, ma era questa la maniera per assicurarsi la salvezza nel modo più sicuro e al contempo facendo penitenza per il minor tempo possibile. Bene, questo è ovvio. E infine, come terzo fattore, abbiamo le confraternite di penitenti le quali implicavano un certo modo di esistenza relativamente particolare, ma soprattutto con obblighi ricorrenti in occasione di certe feste dell'anno, in certe condizioni. Dunque, se volete, la penitenza è ben lungi dall'essere scomparsa. DOMANDA In che modo, in certi momenti, questa penitenza drammatica [non udibile] rompe con quell'obbligo di veridizione che esisteva già nell'Antichità pagana? Lei ha detto praticamente che questo problema dell'obbligo di esser vero di fronte a se stesso esisteva già nell'Antichità pagana. FOUCAULT Sì, ma in tutt'altra forma. DOMANDA Dunque, il cristianesimo ha ripreso questa forma di veridizione, ma è qualcosa di differente?

FOUCAULT No, è la forma di veridizione che troviamo nelle scuole filosofiche con esame di coscienza, rapporto con un direttore, consulto dell'altro. Ritroverete tutto questo nell'equivalente, insomma in quella che è stata la prosecuzione dell'esistenza filosofica nel cristianesimo. Questa prosecuzione, come sapete, è la vita monastica. La vera vita monastica è stata definita – soprattutto nel monachesimo originario, dunque nel monachesimo orientale – come la vera vita filosofica. Dunque è assolutamente normale – come spiegherò la prossima volta – che si ritrovi questa pratica. La pratica della penitenza che è attestata nei primi secoli cristiani non ha nulla a che vedere, proprio nulla, con questa pratica filosofica. È tutt'altra cosa. È in realtà un rito di supplica. Se si è richiamata a qualcosa, è ai grandi riti di supplica che possiamo trovare nella civiltà greca. DOMANDA Se può interessare anche altri, mi piacerebbe molto sapere qual era esattamente il rapporto del sacco e della cenere con la morte. FOUCAULT Ebbene, credo che il sacco fosse costituito in realtà di pelo di capra. Non ho in mente riferimenti precisi, ma anche prima, indipendentemente dal cristianesimo, e al di fuori del cristianesimo, in molte società dell'Oriente mediterraneo, il sacco, la veste di pelo di capra, era segno di rinuncia e di ingresso nel mondo della morte. Per il secondo elemento, poi, la cenere, credo che il simbolismo sia facile. DOMANDA Lei sembra dire che il ricorso al sacco e alla cenere esprima l'accettazione del fatto di essere nella morte, mentre questa mortificazione sembra piuttosto una volontà di tornare alla vita attraverso la mortificazione e non l'esteriorizzazione di... FOUCAULT Mi sono spiegato male, senza dubbio. Ma forse c'è un incrocio. È ciò che determina la ricchezza e l'intensità di questa pratica di veridizione. Colui che ha peccato è colui che, anziché scegliere ciò che nella Didaché, nella tradizione delle comunità giudeo-cristiane, viene chiamata la via della vita, ha scelto invece la via della morte. Egli è dunque morto alla sola vera vita che è la vita cristiana o la vita

in Dio. È dunque dalla parte della morte. Rivestirsi di sacco e di cenere significa dunque manifestare ciò che è in verità, uno che ha scelto la via della morte. Cosa si può fare quando si è scelta la via della morte per passare alla via della vita e scegliere la vita? Ebbene, bisogna morire a questa via della morte, rinunciarvi, per entrare nella vera vita spirituale che implica il morire a questo mondo. Ed è dunque, se volete, questo incrocio tra la manifestazione del fatto che si è realmente morti a causa del peccato e la volontà di morire a questo mondo del peccato per vivere un'altra vita, a manifestare e a far sì che il rito di veridizione sia assolutamente legato a quella nozione di cui non ho parlato perché non ne ho avuto il tempo, ma di cui vedete che è centrale, che è la metanoia. La metanoia si ha quando ci si converte e si sceglie un mondo, il vero mondo, al posto del mondo della morte. O la vera vita al posto della morte. DOMANDA Qui, il ruolo dell'opinione pubblica è scomparso completamente? FOUCAULT Ah no, non è scomparso del tutto, poiché è proprio davanti a tutti che questo avviene. E al momento della riconciliazione – la riconciliazione, ricorderete, secondo la descrizione che ne dà Tertulliano o Girolamo a proposito di Fabiola – tutto avviene nella chiesa, con il penitente che supplicava alla porta della chiesa che viene preso per mano e che attraversa tutta la chiesa. E là, durante questo tragitto, geme, piange, supplica i suoi fratelli di riammetterlo nella loro comunità e dunque, se volete, c'è una partecipazione degli altri che si manifesta in questo modo. Peraltro, credo che nel testo di Girolamo (o forse in un altro), si dica che anche coloro che assistono piangono con colui che domanda la sua reintegrazione. Dunque, se volete, c'è un rito di partecipazione. DOMANDA E non c'è più necessità di riconoscimento della verità da parte dell'opinione pubblica, per il fatto che si ha un riconoscimento attraverso il coro?

FOUCAULT Di fatto non ci troviamo più di fronte a una forma completamente giuridica di convalida che dica: «È proprio così che sono andate le cose». Basta che sia il soggetto stesso a dire «io sono un peccatore» perché questo costituisca la verità, e non si ha bisogno di un sistema di prove. Voglio dire che non si ha bisogno di un vero e proprio sistema di prove, perché di fatto ci sono mille segni che in un certo numero di casi... e in particolare la famosa e diabolica questione dei lapsi all'epoca di san Cipriano faceva sì che, ad esempio, prima di riconciliare qualcuno, si prendessero informazioni, si domandasse a più persone se effettivamente si era pentito. Ci si faceva inviare delle lettere. Ci sono richieste di informazioni. Dunque, se volete, c'è tutto un piccolo lavoro d'inchiesta, ma che non era integrato nel rituale. Per quanto riguarda il rituale poi, ciò che m'interessa non è tanto il sistema delle verificazioni che le Chiese, l'autorità ecclesiastica potevano far nascere, ma il modo in cui il soggetto stesso è chiamato a manifestarsi nella sua verità. Mi interessa – ed è la ragione per cui vi ho parlato di questo forse un po' troppo a lungo – vedere ad esempio in Seneca e nelle regole della vita stoica l'obbligo di esporre la propria anima a qualcun altro: si raccomanda di procedere a un esame di sé, ma ci si accorge in fondo che si tratta di un problema di riattualizzazione, di riattivazione di codici e di determinazione del punto in cui ci si trova nel progresso filosofico verso la libertà. Non parlano di se stessi, e il solo termine che sembra riferirsi alla soggettività tra quelli impiegati da Sereno o da Seneca, che è il placet – ecco qualcosa che mi piace, ecco qualcosa che mi dispiace –, non implica affatto un intento di mostrare la propria soggettività, quanto piuttosto il tipo di azione, il grado di libertà. Con il rito di penitenza cristiano, è molto interessante vedere che non c'è nessuna elaborazione verbale, o se preferite nessuno di quei compiti di analisi precisa che trovavamo negli stoici, ma qualcosa di molto massiccio, di molto rozzo se volete, di molto teatrale, ma nel quale ciò che viene mostrato, ciò che deve essere mostrato, è la verità del soggetto stesso. Ciò

che egli è. E la sua verità, la sua verità al punto d'incrocio, insomma al punto d'inflessione della metanoia, della conversione, là dov'è morto e al contempo vuole resuscitare a un'altra vita. E quella che deve essere colta è la sua soggettività, la sua soggettività di morto vivente, di morto che sceglie la vita. Dunque, quanto cercherò di mostrarvi la prossima volta a proposito dei monaci, è il fatto che i monaci riprendono un po' quella forma, si mettono anche loro a dire la loro soggettività, ma attraverso tutta una griglia verbale straordinariamente complicata, straordinariamente analitica, e che aprirà al campo dell'analisi, che aprirà inoltre a quello del rapporto di sé a sé, un ambito che nell'Antichità era assolutamente sconosciuto. DOMANDA C'è anche da stabilire un rapporto con la nozione cristiana di colpevolezza. Si sente fortissimo il senso di colpa. Forse questa colpevolezza non può apparire se non nella misura in cui c'è antropo... FOUCAULT Sì, sì, insomma, io vedo... DOMANDA … antropologizzazione... FOUCAULT Sì, neanch'io riesco a dirlo... DOMANDA … antropologizzazione del soggetto, mentre non c'è antropologizzazione del soggetto nell'esame di coscienza stoico? FOUCAULT Io non direi «antropologizzazione», direi che non esiste soggettivazione praticamente. DOMANDA Tra gli stoici, ma tra i cristiani... FOUCAULT Allora, tra i cristiani vedete una soggettivazione, in un certo senso. Ancora una volta, è la verità del soggetto che... DOMANDA … e colpevolizzazione nello stesso tempo... FOUCAULT Certo, il problema della colpevolizzazione è evidente. Sono contento che si abbia una discussione, perché in fondo il mio progetto era portarvi qualche documento e qualche elemento di discussione su cui poter lavorare un po' insieme. Rispetto a quello che vi ho detto, ci sono due cose che mi sembra meritino di essere sottolineate. In primo luogo, nel cristianesimo mi sembra molto più impor-

tante questo rapporto dell'individuo con la sua verità che non il problema del peccato. Perché in fondo, rispetto a «peccare», «peccati», alla nozione di amartema ad esempio, alla nozione di colpa, Dio solo sa se i pitagorici, se gli stessi stoici non ci hanno riempito le orecchie con tutto questo. Allora, si dice sempre che è stato il cristianesimo a introdurre il senso del peccato, ma così si dice quando si parla di senso del peccato? Anche rispetto a questo, gli stoici, i pitagorici avevano un codice di condotta straordinariamente esigente, straordinariamente complicato; a ogni istante bisognava fare attenzione per non commettere una colpa. Ciò che mi sembra essere proprio del cristianesimo e che se volete, nella storia della soggettività occidentale costituisce un elemento di rottura, è la tecnica, è il legame di verità, ed è l'insieme delle tecniche messe a punto per ricavare la verità di se stessi a proposito del peccato. Ma, più del senso del peccato, a me sembra importante la verità di se stessi a proposito del peccato. La seconda che vorrei sottolineare, e sulla quale mi soffermo un po' più a lungo, è che non si può tracciare una linea diretta tra lo gnothi seauton di Socrate e ciò di cui parlavo. Vale a dire che l'esigenza di conoscenza di sé dei cristiani non deriva dallo gnothi seauton. Direi meglio che anche le pratiche stoiche dell'esame di coscienza o dell' expositio animae sono tutt'altra cosa dallo gnothi seauton. Lo gnothi seauton è un atto filosofico attraverso il quale si stabilisce un certo modo di relazione con la verità in generale, e non una maniera di stabilire un rapporto con la propria verità. È per conoscere le matematiche che bisogna conoscere se stessi secondo Socrate e Platone. In ogni caso, è per conoscere le verità eterne che bisogna conoscere se stessi. Mentre tra gli stoici e gli epicurei troveremo cose un po' simili, le tecniche di conoscenza di sé sono diverse e hanno tutt'altro obiettivo che non quello di essere una condizione per la conoscenza in generale. E tra i cristiani ancora di più. Ed è questa specificità delle tecniche di conoscenza di sé, irriducibili allo gnothi seauton, che vorrei sottolineare.

Bene, allora vi sottoporrò una questione puramente pratica, poiché sono in ritardo rispetto al programma che mi ero prefissato. La prossima volta, volevo parlarvi soprattutto del diritto medievale, insomma un po' di diritto medievale. Volete lo stesso che vi parli delle pratiche monastiche dell'esame di sé? Sì? La cosa non vi annoia? Anche se questo comporterà una deviazione rispetto al quadro che mi ero proposto e che dovrebbe comunque essere rivolto a degli storici del diritto? Vi sembra che non vi infastidisca? Posso? Bene, bene. Molto bene, allora, grazie.

Note

Lezione del 6 maggio 1981

Pratica della veridizione nelle istituzioni monastiche del IV-V secolo: gli «Apophtegmata Patrum» e gli scritti di Cassiano. – Il monachesimo tra vita di penitenza ed esistenza filosofica. – Caratteri della direzione di coscienza antica. – Caratteri della direzione di coscienza nel monachesimo: un'obbedienza indefinita, formale e autoriferita; umiltà, pazienza e sottomissione; inversione del rapporto di verbalizzazione. – Caratteri dell'esame di coscienza nel monachesimo: dall'«actum» alla «cogitatio». – Mobilità del pensiero e illusione. – «Discrimen» e «discretio»: confessione e origine del pensiero. – Veridizione di sé, ermeneutica del pensiero e soggetto di diritto. L'ultima volta avevo richiamato molto brevemente le forme di confessione che possiamo trovare nel cristianesimo primitivo e precisamente – insomma, più precisamente – nei rituali di penitenza. Mi era sembrato che la confessione che troviamo nei rituali di quella che chiamiamo in senso stretto confessione – quella confessio oris, confessione verbale dei peccati, che sarà istituzionalizzata e farà parte del sacramento della penitenza, ma in modo molto più tardivo, cioè non prima dell'XI-XII secolo. Questa confessione, che troviamo legata ai rituali di penitenza nei primi secoli cristiani, mi è sembrato che dovesse essere intesa come una sorta di manifestazione, di manifestazione di sé, di manifestazione espressiva e

simbolica di sé che presenta la duplice caratteristica, in primo luogo di non avere come oggetto, come fine, come termine, quello di scoprire in fondo a se stessi una verità nascosta, e in secondo luogo di non utilizzare come strumento principale l'espressione verbale. E credo che sia con la pratica monastica che vediamo apparire – un po' più tardivamente, vale a dire nel IV-V secolo – una pratica nuova che mi sembra abbia avuto, nella storia di quelle che potremmo chiamare le relazioni tra soggettività e verità in Occidente, un'importanza assolutamente fondamentale. In altre parole, non è nell'ambito della penitenza canonica, ma piuttosto nell'ambito di queste pratiche monastiche evidentemente molto localizzate all'interno di alcune istituzioni – istituzioni, peraltro, la cui importanza culturale e sociale sarà grandissima fino al cuore del Medioevo – che troviamo il grande cambiamento destinato a introdurci ai problemi centrali, ai problemi principali della confessione nelle culture occidentali. A proposito delle istituzioni monastiche, vorrei molto rapidamente ricordarvi due cose che non bisogna mai dimenticare riguardo al monachesimo del IV-V secolo. In primo luogo, il monachesimo ha un rapporto ambiguo con l'ascetismo. È assolutamente vero che il grande movimento di sviluppo, di proliferazione delle istituzioni monastiche nel IV secolo s'iscrive in un movimento più generale, un movimento ascetico d'insieme che ha scosso per molteplici ragioni il mondo cristiano dalla metà o dalla fine del III secolo all'inizio del V secolo. Il monachesimo fa parte di questo movimento ascetico, ma si deve anche tenere bene in mente che le istituzioni monastiche costituiscono nello stesso tempo un certo modo di organizzare, di regolare, di frenare, di contenere quello stesso movimento ascetico di cui esso fa parte. Si tratta in un certo modo di riprenderlo, di dargli un corpo istituzionale, per poter evitare gli sconfinamenti, gli eccessi individuali, le divergenze sia comportamentali sia dottrinali che l'ascetismo individuale, un certo tipo di ascetismo di tipo concorrenziale, poteva manifestare. Si trattava di lottare, dunque, contro queste divergenze, contro questi eccessi individuali; di lottare anche, evidentemente, contro l'influenza gnostica

o contro l'influenza manichea che si manifestava in molti aspetti di questo movimento ascetico. Dunque, si tratta di un ascetismo che però si è istituzionalizzato. E l'istituzione cenobitica – insomma il cenobio, la vita in comune, l'organizzazione di un monachesimo comunitario con una struttura gerarchica forte – mostra bene che, al cuore del monachesimo, si troverà non solo un'aspirazione ascetica, ma ci saranno anche fortissime strutture di potere. La seconda cosa che bisogna ricordare a proposito di questo stesso monachesimo è che esso si trova nel punto d'incontro tra due istituzioni o due pratiche anteriori di cui vi avevo appunto parlato l'ultima volta. A convergere sono, da un lato, la penitenza, di cui vi avevo parlato, e dall'altro le pratiche, le tecniche dell'esistenza filosofica. [Da un lato], infatti, il monachesimo si presenta come una sorta di forma di vita penitente. La vita del monaco è una vita penitentiae, è una vita di penitenza, vale a dire di mortificazione, che ha la funzione di assicurare all'individuo che muore a questo mondo e sta per nascere alla vera vita. Proprio in questa vita di penitenza ritroveremo molti elementi che contrassegnano i riti di penitenza di cui parlavo la volta scorsa – come ad esempio il digiuno, l'interdizione dai rapporti sessuali e una forma sociale di abbigliamento. Tutto questo porterà in qualche modo a trasporre all'interno della vita monastica organizzata un certo numero di elementi importanti che si trovavano nello statuto penitenziale di cui vi parlavo l'ultima volta. E d'altra parte, nell'incontro con questa pratica penitenziale, troveremo alcune pratiche, un insieme di pratiche che derivano, invece, direttamente dalla filosofia. Questo incrocio tra la vita di penitenza e la vita filosofica è verosimilmente uno dei punti essenziali dell'istituzione monastica. Il monastero, la vita monastica sono considerati come la vera vita filosofica. L'organizzazione di monasteri – basta vedere cosa è accaduto ad Antiochia, ma lasciamo perdere i dettagli – è avvenuta in parte assumendo come riferimento l'organizzazione delle scuole filosofiche. E il monastero è stato chiamato, si è designato, ha rivendicato a sé lo statuto

di scuola di filosofia, in quanto la vita monastica deve essere destinata, come la vita filosofica, a dare accesso alla verità. Vivere come un filosofo o vivere come un monaco, condurre la vera vita filosofica nel monastero, significa darsi la possibilità di accedere alla verità, e di accedere alla verità passando attraverso il dominio di sé e la conoscenza di sé. Se pensiamo dunque alla posizione ambigua del monachesimo all'interno del movimento generale dell'ascetismo, quando pensiamo alla sua situazione nel punto d'incontro tra il rituale di penitenza e la vita filosofica, allora riconosciamo in esso un certo numero di elementi che sono assolutamente fondamentali e che iscrivono in modo molto netto il monachesimo nella tradizione della cultura antica. In primo luogo, l'idea che non si possa avere accesso alla verità senza pagare questo accesso con un certo modo di esistenza specifica: non ogni esistenza può arrivare alla verità, e chi vuole camminare fino alla verità deve adottare un certo modo di esistenza, un certo modo di vita che è particolare. Si tratta di un'idea specifica della filosofia antica – o in ogni caso caratteristica della filosofia antica: non esattamente specifica, poiché la si trova anche altrove, ma comunque caratteristica della filosofia antica. La ritroviamo qui: il monaco avrà diritto ad avere accesso alla verità. In secondo luogo, questo accesso alla verità richiede una purificazione di sé, che assume due forme gemelle e abbinate: vale a dire, rinuncia e mortificazione. Vivere di una vita che è come la morte e che, proprio perché è come la morte in questo mondo, assicurerà l'accesso all'altra vita; e d'altra parte, connessa a questa rinuncia e a questa mortificazione, la conoscenza di sé. Il monachesimo – proprio a causa della situazione in cui si trovava e di questa istituzionalizzazione dell'ascetismo individuale – considererà la purificazione mediante mortificazione e conoscenza di sé attuabile solo attraverso un certo rapporto. Non semplicemente con se stessi – non semplicemente un rapporto di conoscenza con se stessi o un rapporto di ascetismo e di mortificazione rispetto a se stessi – ma anche e nello stesso tempo un rapporto con l'altro, un rapporto con il maestro.

Mi sembra che questo insieme di caratteri fondamentali possa spiegare lo sviluppo, all'interno della pratica monastica, di ciò che vorrei studiare ora un po' più da vicino – vale a dire le pratiche di veridizione di se stessi o il modo in cui, nel monachesimo, il dir vero su di sé è diventato un elemento assolutamente fondamentale, essenziale di questa vita ed è stato alla fine, in una forma assolutamente nuova, iniettato, innestato, impiantato all'interno della cultura occidentale. A partire di qui, questa pratica di confessione, questa tecnologia molto complessa di veridizione di se stessi, avrà una fortuna considerevole. Allora io vorrei, questa sera, studiare un po' la veridizione di se stessi, il dir vero su di sé nelle istituzioni monastiche. Studierò tali pratiche attraverso un certo numero di testi ben noti 1. Tra questi i famosi Apophtegmata Patrum2, vale a dire quei racconti che sono stati raccolti e che costituiscono altrettanti aneddoti, altrettanti exempla – altrettanti esempi, altrettante piccole scene dal valore simbolico ed educativo che circolavano nei diversi monasteri o da un monastero all'altro e che costituivano un insegnamento. Un insegnamento sul modo di vivere, sul buon modo di vivere nei monasteri a partire da un certo numero di aneddoti e di esempi. In secondo luogo, e soprattutto, mi baserò sui testi di Cassiano. Come sapete, Cassiano è quel cristiano di origine illirica che, dopo un soggiorno a Roma, è stato attratto dal movimento monastico che era già molto ben sviluppato e ampiamente istituzionalizzato in Siria e in Egitto. Dunque, come faceva un certo numero di cristiani occidentali, si è recato a visitare i monasteri siriani e anche quelli del Basso Egitto. Vi è rimasto a lungo, ha vissuto la vita dei monaci, ha frequentato i monaci più celebri, e infine ha fatto ritorno in Occidente. E là ha scritto, credo su richie1 Sulle fonti patristiche di Foucault, cfr. PH. CHEVALLIER, Foucault et les sources patristiques, in PH. ARTIÈRES, J.-F. BERT, F. GROS e J. REVEL (a cura di), Michel Foucault, Éditions L'Herne, Paris 2011, pp. 137-142, oltre a ID., Michel Foucault et le christianisme cit., pp. 188193. Alle fonti secondarie menzionate da Philippe Chevallier, bisogna forse aggiungere, a proposito della direzione di coscienza, I. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1955: si ritrovano qui numerosi estratti citati da Foucault, nel medesimo ordine. 2 Apophtegmata Patrum [trad. it. Vita e detti dei Padri del deserto, Città Nuova, Roma 2012].

sta del vescovo di Aix, due testi. Uno, che s'intitola Le istituzioni cenobitiche3, in cui racconta in che modo il monachesimo del Basso Egitto e della Siria sia stato istituzionalizzato, quali siano le regole di vita che vengono imposte, e soprattutto se vengono imposte ai novizi; in queste Istituzioni troviamo lo schema organizzativo di un monastero possibile – e di fatto proprio per istituire, per organizzare un monastero, Cassiano lo ha scritto. E un altro testo molto più lungo, quello delle Conferenze4, dove racconta un certo numero di conversazioni importanti che ha avuto con alcuni monaci, i più celebri e i più santi delle comunità siriane ed egiziane. Cassiano, in fondo, è colui che ha introdotto in Occidente la pratica e nello stesso tempo la teoria della vita monastica. È stato lui il principale agente del trasferimento, della traslazione dal monachesimo orientale al monachesimo occidentale5. Insieme ad altri, ovviamente, come san Girolamo, ma è certamente nei suoi testi che troviamo nel modo più dettagliato una testimonianza su ciò che è stata questa pratica monastica tra la fine del IV e l'inizio del V secolo. Cassiano, nell'organizzazione del monachesimo occidentale, ha dunque avuto un ruolo assolutamente determinante. San Benedetto, un po' più tardi, ha ripreso un numero non trascurabile delle sue idee e dei suoi principî. A far sì che Cassiano sia stato relativamente dimenticato nella tradizione spirituale del cristianesimo – dimenticato come nome, mentre le sue idee si erano invece cristallizzate in istituzioni – ha giocato il fatto che Cassiano era, come molti monaci del Basso Egitto, impregnato di tradizione origeniana. La condanna dell'origenismo qualche tempo dopo, o prima (non mi ricordo), rispetto alla morte di Cassiano6, ha comportato che il suo nome sia stato in qualche 3 G. CASSIANO, De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remedis [trad. it. Le istituzioni cenobitiche, Edizioni Scritti Monastici Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo (Pordenone) 2007]. 4 ID., Collationes Sanctorum Patrum [trad. it. Conferenze ai monaci, Città Nuova, Roma 2000]. 5 Cfr. C. BADILITA e A. JAKAB (a cura di), Jean Cassien entre l'Orient et l'Occident, Éditions Beauchesne, Paris 2003. 6 Origene, nato ad Alessandria verso il 185, subentra a Clemente alla guida della scuola di catechesi di Alessandria. La sua opera comprende, tra l'altro, l' Esapla, che mette a confronto sei versioni, ebraiche e greche, del Vecchio Testamento e costituisce «il primo tentativo di stabilirne un testo critico». Teologo ed esegeta, viene imprigionato e torturato durante la persecuzione ordinata da Decio, e muore a Cesarea verso il 254. Letto attraverso le teorizzazioni dei suoi

modo cancellato, mentre, ancora una volta, la tradizione che egli aveva ripreso e importato in Occidente è stata assolutamente determinante nella nascita e nello sviluppo del monachesimo nell'Europa occidentale. Ecco dunque i testi su cui mi baserò. La prima cosa che mi sembra fondamentale rispetto a questo dovere, a quest'obbligo, a questa pratica di veridizione su di sé nelle istituzioni monastiche è la seguente. Tra le pratiche monastiche di cui troviamo testimonianza negli Apophtegmata Patrum o nelle opere di Cassiano, l'obbligo di dir vero su se stessi s'iscrive sempre all'interno di una relazione con l'altro, relazione con l'altro che è considerata come relazione indispensabile, fondatrice, e che è nello stesso tempo una relazione di obbedienza, una relazione di sottomissione. Io credo che questa iscrizione del dovere di dir vero su se stessi all'interno di una relazione di obbedienza a un altro sia al contempo fondamentale e nuova. Quanto al «nuovo», voi mi direte che non è senza dubbio del tutto nuovo poiché, in fondo, l'intera Antichità pagana (come la si chiama) aveva ben conosciuto quel tipo di rapporto singolare e tanto importante del discepolo con il maestro, o del direttore con colui che viene diretto. Ma io credo appunto che la differenza tra il rapporto discepolo-maestro nell'Antichità pagana e il rapporto discepolo-direttore o diretto-direttore nel monachesimo e nell'istituzione monastica stia nel fatto che il rapporto d'obbedienza non esiste nell'Antichità e che è di invenzione – o forse di impostazione – cristiana7. Ecco quel che voglio dire. Nell'Antichità, certamente, troviamo di continuo l'idea che chi non conosce un'arte, e vuole affrontare la vita, vuole accedere alla saggezza, vuole imparare la filosofia, ha bisogno di un direttore – di un direttore che lo guidi, di un direttore che lo conduca, di un direttore che lo prenda per mano e gli faccia compiere il cammino. discepoli, tra i quali Evagrio Pontico, è classificato tra gli eresiarchi. Nel IV secolo, i suoi de trattori più influenti sono Girolamo, che ammira l'esegeta ma combatte il teologo, ed Epifanio di Salamina. Nel VI secolo, è condannato dal sinodo domestico riunito da Giustiniano nel 543 e dal quinto concilio ecumenico di Costantinopoli nel 553. Queste condanne sono pronunciate dopo la morte di Cassiano verso il 435 (cfr. J.C. POLET [a cura di], Patrimonie littéraire européen, vol. I: Traditions juive et chrétienne, De Boeck Université, Bruxelles 1991, p. 249). 7 Cfr. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) cit., pp. 133 sgg.

Che questo direttore sia una guida, che abbia dunque un'autorità, com'è ovvio, è perfettamente ammesso. Gli epicurei, ad esempio, avevano un'organizzazione molto rigorosa e molto gerarchica nella quale coloro che servivano da guide, da direttori per i più giovani, per coloro che erano meno avanzati nel cammino filosofico, portavano il nome di hegemones: erano quelli che guidano. La direzione, nell'Antichità, poteva assumere molte forme. Poteva assumere forme del tutto congiunturali – come, ad esempio, quando qualcuno attraversava un momento difficile e andava a chiedere a chi era più avanti nella saggezza, o più padrone di se stesso, e aveva più familiarità con quelle tecniche di sé di cui vi ho parlato, di aiutarlo a superare questo momento difficile: un lutto, la morte di una moglie, di genitori, di figli, un rovescio di fortuna, un esilio. Si trattava di circostanze in cui nell'età antica – ovviamente se si apparteneva a un certo ambiente sociale e si disponeva di un certo agio e di una certa cultura – lo si poteva fare: in quei casi, si andava a trovare qualcuno che aiutasse a superare questo momento difficile. Era questa l'arte della consolazione. Esistevano specialisti della consolazione. Uno come Antifonte8, per esempio, sofista, aveva ad Atene un ufficio di consolazione dove, dietro pagamento, aiutava le persone a superare questi momenti difficili. Uno come Crantore 9, per esempio, scriveva trattati di consolazione che venivano ricopiati, e che acquistavano o di cui si faceva dono a un amico che stesse appunto attraversando un momento difficile. Guida congiunturale, guida provvisoria evidente8 Cfr. [PSEUDO] PLUTARCO, Vita dei dieci oratori, Antifonte di Ramnunte , 18 [trad. it. in I presocratici, Bompiani, Milano 2006, p. 1731: «Mentre si dedicava alla poesia, compose un' Arte per non soffrire, quasi come una cura prescritta dai medici agli ammalati. Allestita a Corinto una stanza vicina alla piazza, proclamò di essere in grado di curare coloro che avevano dolori con i discorsi e, conosciute le cause, consolava i sofferenti. Giudicando, però, quest'arte inferiore a quanto egli meritava, si rivolse alla retorica»]. 9 Su Crantore (ca 335-275 a.C.), filosofo dell'Accademia, cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, IV, 5 (L'Accademia) [trad. it. Laterza, Roma-Bari 1976, vol. I, pp. 145-147]. Secondo C.E. MANNING (On Seneca's “Ad Marciam”, E.J. Brill, Leiden 1981, p. 12), che rinvia, tra altri, a Cicerone (Academica, II, 44, 135), i Romani avevano grande stima del suo Peri penthous pros ippoklea e vedevano in lui il primo a praticare la consolazione ( paramythetikos logos) come genere letterario specifico. Cfr. anche J. VAN WAGENINGEN, Bijdrage tot de Kennis der Consolatio mortis bij Grieken en Romeinen, Verslagen en Mededeelingen der koninklijke Akademie van Wetenschappen, Afdeeling Letterkunde, Amsterdam 1918, pp. 175-198.

mente, a cui si può opporre la guida molto più continua che si potrebbe trovare nelle scuole filosofiche – dove si prendeva un individuo in un'età, in generale, ma non necessariamente, giovanile, per poi guidarlo un certo numero di anni fino al momento in cui avesse raggiunto infine il possesso della regola*, raggiunto la saggezza, e in cui potesse applicare da solo le regole di vita che aveva appreso. È quel che facevano le scuole filosofiche, ma anche quel che facevano molti individui al di fuori dell'istituzione di della scuola. Quando Seneca, ad esempio, scrive per Sereno il trattato De tranquillitate animi10, in fondo prende in carico un individuo: gli propone una regola di vita morale e sorveglia effettivamente in che modo Sereno riesce a progredire. La lunga corrispondenza tra Seneca e Lucilio 11 è un po' di questo tipo: una guida al di fuori di un'istituzione filosofica propriamente detta, ma comunque una guida del meno avanzato da parte di colui che è più avanzato. Ritroviamo tutto questo anche nella pratica medica, dove il medico non aveva semplicemente la funzione di curare le malattie, ma anche quella di prescrivere un regime di vita. Per regime di vita, non s'intende solo un regime curativo: come vivere per restare in buona salute, per godere di buona salute, per approfittare al meglio della propria vita? Questa regolamentazione della vita era data dai medici che seguivano l'individuo e vedevano se questi avesse effettivamente ben interiorizzato, ben appreso le regole. Tutto questo ci conduce precisamente a un certo numero di caratteri della direzione antica i quali la contrappongono molto chiaramente al rapporto diretto-direttore che troviamo nel monachesimo. Infatti, nella direzione antica di cui vi ho fornito qualche esempio, è molto chiaro che tutta l'operazione era orientata verso una fine – verso una fine intesa al tempo stesso come scopo dell'operazione e come conclusione – raggiunta la quale si sarebbe arrestata. Si trattava, ad esempio, di essere guidati fino a che non si fosse acquisita la salute e imparato a sorvegliare da sé la pro* Foucault sembra riprendersi per correggersi dopo aver detto: «raggiunto il possesso della regola». Sembra che volesse dire: «raggiunto la saggezza». 10 SENECA, De tranquillitate animi [trad. it. cit.]. 11 ID., Epistulae morales [trad. it. Lettere a Lucilio, Zanichelli, Bologna 1973].

pria salute. Si trattava di essere guidati per tutto il tempo in cui si aveva bisogno di essere consolati. Si trattava di essere guidato fino a diventare sophos, fino a diventare saggio. Ecco dunque il primo carattere: c'era un obiettivo, uno scopo preciso; e di conseguenza c'era una guida provvisoria. In secondo luogo, questa guida, nella direzione antica, rispondeva a un principio di competenza: la guida sapeva più di colui che richiedeva di essere guidato. Certo, abbiamo per lo meno un celebre esempio che va nella direzione opposta: è l'esempio di Socrate, Socrate che, appunto, guidava pretendendo di non sapere lui. Ma, dopotutto, questo non significava altro che rovesciare specularmente un certo tipo di rapporto. Si trattava appunto di condurre l'individuo sino al punto in cui avrebbe saputo – o, in ogni caso, avrebbe scoperto – che già sapeva. E c'era almeno una cosa che Socrate sapeva e che l'altro non sapeva: il fatto che l'altro sapesse senza sapere di sapere. In questa misura, con questo giro di spirale supplementare, vedete bene che ritroviamo sempre il medesimo principio del plus di competenza, del plus di sapere in colui che guida rispetto a colui che è guidato12. Come terza caratteristica di questa direzione antica, troviamo che essa consisteva essenzialmente nell'apprendimento di un codice, di una regola di condotta, di un modo di vivere spesso estremamente dettagliato, che doveva in qualche modo fungere da codice permanente per il comportamento degli individui per tutto il resto della loro vita. Infine, come ultimo punto che riassume tutti gli altri, aggiungiamo che, una volta appreso questo codice, questa regolamentazione del comportamento, ben interiorizzata grazie alla competenza di colui che guidava in quanto sapeva, diventa finalmente capace di fare a meno del mae12 Foucault riprende questo tema in Il coraggio della verità cit. Gli imprime tuttavia una trasformazione: Socrate è presentato come uno che «si definisce come colui che non sa» (p. 39); ma per condurre l'individuo, non «fino al punto in cui […] arrivi a scoprire che sapeva già», bensì fino al punto in cui scoprirà che non sa: «Laddove il professore dice: io so e voi ascoltatemi, Socrate dirà: non so nulla, e se mi occupo di voi non è per trasmettervi un sapere che vi manca. Mi occupo di voi affinché, capendo di non sapere nulla, impariate per ciò stesso a occuparvi di voi stessi» (p. 95).

stro; e può farne a meno perché è divenuto padrone di se stesso. L'operazione di guida consiste essenzialmente in una sorta di cambio di padrone: si accetta che l'altro sia padrone per poter essere sicuro di divenire padrone di sé e attraverso di sé. E quando Seneca, ad esempio, fa l'esame di coscienza di cui vi ho parlato la volta scorsa, lo fa perché è diventato padrone di se stesso e può, in quanto padrone assoluto di se stesso – da sé – giudicare le proprie azioni, esaminarle, dire ciò che è bene e ciò che non è bene. Egli è letteralmente padrone di se stesso, vale a dire che non ha più bisogno di qualcuno che lo governi, perché è lui a governarsi. Per darvi un esempio molto schematico di questo tipo di apprendistato, di questo tipo di dominio, mi riferirò semplicemente a un testo medico, che è un testo di Ateneo, ili medico del I secolo i cui testi sono stati citati da Oribasio. Nel terzo volume della traduzione di Daremberg 13, a p. 161, troviamo la descrizione di una regola di vita medica e del modo – certamente riassunto in forma molto schematica – in cui ci si deve porre sotto la direzione di un medico per poter diventare padroni della propria vita, padroni in un certo senso della propria salute. Ateneo dice questo: «A partire dai quattordici anni, è utile – o meglio necessario – per tutti includere fra le materie di insegnamento non solo le altre scienze ma anche la medicina, e ascoltare i precetti di quest'arte»14 (ricordatevi del termine «ascoltare», dovremo ritornarvi). Vedete in ogni caso che l'argomento di cui si tratta è l'apprendimento di una scienza, l'apprendimento di un corpus di conoscenze, anche se bisogna comprendere bene cosa i Greci intendessero con la parola gnome: si tratta di una conoscenza, ma al tempo stesso anche di un precetto; di una verità, e insieme di una regola. Si tratta dunque di apprendere la medicina come un corpus indissociabile di conoscenze e di precetti, di sapere e di regole. Bisogna ascoltare i precetti di quest'arte, per poter essere spesso consiglieri esperti di noi stessi sulle cose utili alla salute. L'obiettivo è dunque, come vedete, diven13 Su Charles-Victor Daremberg, cfr. P. DUMAÎTRE, Charles-Victor Daremberg (1817-1872): médecin hélleniste, in «Clio medica», XX (1985-1986), n. 1/4, pp. 45-57. 14 ATENEO, in ORIBASIO, Collezioni mediche [trad. fr. Collection des médecins grecs et latins. Livres incertains, Imprimerie impériale, 1858, vol. III, p. 164].

tare esperti consiglieri di nei stessi, essere padroni di noi stessi e diventare, a un certo punto, le nostre guide. Non vi è infatti, – continua Ateneo, – alcun istante della notte o del giorno in cui non abbiamo bisogno della medicina; che si passeggi o che si resti seduti, che si faccia un bagno o che ci si spalmi di unguenti, che si mangi o che si beva, che si dorma o che si sia svegli, insomma qualunque cosa si faccia nel corso di tutta la nostra vita, e nelle diverse occupazioni che a essa attengono, abbiamo bisogno di consigli15.

Si conferma così l'idea, del tutto caratteristica di queste arti, di condurre se stessi e di essere condotti, l'idea secondo la quale non è possibile vivere, cioè il bios – la vita – non può essere vissuta come si deve senza che a ogni istante, sotto ciascuno dei suoi aspetti, in tutti i suoi momenti e qualunque sia l'attività che si dispiega, esista una regola che ci dica cosa fare. Non si può vivere, il bios non può esser vissuto senza un sistema di regolamentazione, senza una codificazione straordinariamente rigorosa che permetta a ogni istante di decidere cosa fare e cosa non fare. Si ha dunque costantemente bisogno di consigli – all'occorrenza, poiché è di questo che qui si tratta – di consigli medici; ma, dice Ateneo, abbiamo bisogno di consigli lungo tutto il corso della nostra vita, abbiamo bisogno di consigli per impiegare questa vita in modo utile e senza inconvenienti. Ora, è faticoso ed è impossibile rivolgersi sempre al medico per tutti questi dettagli16.

Dunque è chiaro, abbiamo bisogno di regolare interamente la nostra vita attraverso un codice costante e rigoroso di condotta. Di questo codice, solamente il sapere medico è detentore: bisognerebbe dunque, a ogni istante, disporre di una sorta di direttore di vita medico che ci dica cosa fare; abbiamo bisogno di consigli a ogni istante. E poiché questo sarebbe 15 Ibid. Questa frase di Ateneo è riportata da Foucault anche in ID., Storia della sessualità, vol. III: La cura di sé cit., pp. 104-105. 16 ATENEO, in ORIBASIO, Collezioni mediche [trad. fr. cit., p. 164].

evidentemente impossibile, bisogna apprenderlo presso un maestro che ci fornisca questo sapere sotto forma sia di conoscenze sia di precetti e, una volta che lo si sia acquisito, possiamo allora diventare i consiglieri di noi stessi. Vedete dunque il processo, la curva generale attraverso la quale passa questa guida nella pratica di direzione antica. Diciamo che il rapporto di dominio che è qui descritto è modellato interamente su una forma che ben conoscete e che è quella della pedagogia: la relazione tra il discepolo e il maestro, con il discepolo che accetta per un certo tempo di sottomettersi all'autorità di un maestro per diventare maestro a sua volta, maestro delle proprie attitudini, dei propri atteggiamenti, della propria salute, del proprio corpo, maestro di se stesso, eventualmente maestro di altri discepoli se lo vuole e se ne è capace. Si tratta dunque di acquisire il dominio. Ora, io credo che proprio il modello pedagogico della guida degli individui venga infranto nel monachesimo. La vera grande rottura nella storia di questa famosa pedagogia, o psicagogia, antica, si produce a questo punto. Credo che il monachesimo infranga la forma antica del rapporto pedagogico per il fatto che vi introduce, vi inserisce la lama forse fatale dell'obbedienza – la oboedientia. Uno dei tratti assolutamente caratteristici della pratica monastica è la depedagogizzazione di questo rapporto di dominio. Cos'è questo rapporto di obbedienza o quest'obbligo di obbedienza che interviene a ristrutturare e, nello stesso tempo, a sconvolgere interamente la relazione pedagogica antica? In che modo si presenta questo rapporto di obbedienza? In primo luogo, si presenta sotto la forma del seguente principio: in ogni modo, in ogni caso, e per tutto il tempo, si ha bisogno di un direttore. E c'è una frase che sarà ripetuta per più di un millennio a proposito della direzione spirituale. Si tratta di una frase, o piuttosto, di un testo, che s'ispira ai Proverbi: «Colui che non ha direttore – o piuttosto, colui

che non è diretto – cade come una foglia morta» 17. Questo, naturalmente, è vero per i principianti. È vero per i novizi – nelle Istituzioni di Cassiano, c'è un intero capitolo dedicato a questa presa in carico dei novizi da parte di coloro che devono dirigerli. Appena entrati, un direttore si occupa di loro, per i primi giorni; successivamente, un nuovo direttore si occuperà più a lungo di loro, suddivisi in piccoli gruppi di dieci18. Ritroviamo qui il modello organizzativo di alcune scuole filosofiche: abbiamo una normale presa in carico, che s'iscrive completamente nella tradizione del rapporto maestro-discepolo caratteristico della pratica filosofica antica. Ma l'aspetto del tutto particolare, che è proprio dell'istituzione monastica, è il fatto che, anche quando si sia cessato di essere novizi, non si può fare a meno di una certa forma di rapporto di direzione 19. Naturalmente, n on 17 Michel Senellart (cfr. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 325, nota 29) osserva che la frase menzionata non si trova né nei Proverbi (indicati come fonte in Mal fare, dir vero), né nei Salmi (indicati come fonte in Sicurezza, territorio, popolazione). Egli nota che «la formula citata è probabilmente il frutto dell'unione di due passi»: 1) Proverbi, 11, 14 («Per mancanza di consiglio decade il popolo») e 2) Isaia, 64, 6 («Tutti avvizzimmo come foglie»). Se l'ipotesi della fusione è esatta, la fonte del secondo passo potrebbe anche essere Salmi, 1, 1-3. Tuttavia, alla luce di altre citazioni che illustrano questa lezione, è anche possibile che Foucault si sia basato su HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., p. 169, il quale cita Doroteo di Gaza («Si dice nei Proverbi: coloro che non sono governati cadono come foglie: la salvezza sta in un ampio consiglio») e propone come fonte di «coloro che non sono governati cadono come foglie», Proverbi, 11, 14, 70. La stessa frase è menzionata in FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., p. 356. 18 CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 7 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo): «Quando dunque qualcuno è stato accolto e riconosciuto perseverante, come in precedenza abbiamo rilevato, una volta che abbia deposto i propri abiti e abbia indossato la veste del monastero, non gli si permette subito di essere aggregato alla comunità dei fratelli, ma vie ne affidato alla guida di un anziano il quale tiene la sua dimora in un luogo appartato e non lontano, ha cura dei pellegrini e di quanti sopravvengono e presta loro ogni servizio per un accoglimento premuroso e umano. L'aspirante, trascorso un anno intero in quest'incarico, e dopo che egli avrà prestato per i pellegrini il suo doveroso servizio senza provocare alcun biasimo sul proprio conto, raggiunti ormai i primi gradi della pazienza e dell'umiltà attraverso l'esercizio di quegli uffici, e fattosi ormai riconoscere maturo in quella lunga operosità, da quel momento egli verrà destinato a essere aggregato nel numero dei fratelli, a un altro anziano, il quale pre siede a un gruppo di dieci giovani a lui affidati dall'abate perché li educhi e li guidi secondo quanto si legge che venne praticato da Mosè nell'Esodo» [trad. it. Le istituzioni cenobitiche cit., p. 113]. 19 Su questo punto cfr. insieme ad altri riferimenti ibid., IV, 37: «L'astuto serpente continuamente osserva il nostro calcagno, ed è quanto dire che pone continuamente insidie al cammino verso la nostra sorte e cercherà perciò di farci cadere fino al termine della nostra vita. Pertanto a nulla gioverà aver cominciato bene e aver confermato con pienezza di fervore gli inizi della rinuncia al mondo, se poi anche una fine in tutto corrispondente non avrà assicurato e concluso quei principî. A nulla gioverà, se l'umiltà e la povertà di Cristo, che tu ora hai promesso davanti a

esiste un'istituzione peculiare di questo tipo di direzione che si rivolga a degli anziani, mentre per i novizi c'è qualcuno che è espressamente designato per essere il loro direttore: nel caso degli anziani, non è la stessa cosa. Ma tutte le raccolte di racconti – che siano gli Apophtegmata, che siano le Conferenze – tutte le raccolte di racconti concernenti la vita monastica mostrano bene che proprio quando uno crede di essere diventato padrone di se stesso e di poter fare a meno di essere guidato, almeno da qualcun altro, quando si sopravvaluta e ritiene di non aver più bisogno di un altro e di potere dunque dirigersi da solo, è proprio in quel momento che cade. È sempre possibile la caduta, anche di chi è più avanti di tutti sulla strada della santità, quando non ammette o non ammette più la possibilità o l'obbligo di essere diretto, quando è o vuol essere padrone di se stesso. Dunque, non abbiamo testimonianza di direzione istituita per tutti fino al termine della vita, ma troviamo molto chiaramente il principio secondo cui la direzione non può essere provvisoria, secondo cui sussiste in ogni caso un bisogno fondamentale, continuo e permanente di direzione per ogni anima. In realtà, a essere in questione, come potete ben vedere, a essere in gioco in tutto questo, è l'idea di uno stato di perfezione. Non esiste stato di perfezione per il monaco cristiano, a dispetto di ciò che avrebbero potuto dire certi filosofi o certe scuole di filosofia antica. Non esiste stato di perfezione, indipendentemente da quel che dicono certi gnostici o certi dualisti. È questo che viene affermato e mostrato nel principio che potremmo chiamare di direttività, se volete, o nel principio secondo cui deve sempre esistere un rapporto possibile di direzione durante l'intera esistenza di un individuo. Quanto al riconoscimento che si ha sempre bisogno di essere diretti, vi citerò solo un esempio – un aneddoto che troviamo negli Apophtegmata e che viene ripreso in almeno due occasioni da Cassiano 20. È la storia Lui di praticare, da te non saranno osservate fino al termine della tua vita così come hai cominciato. E perché tu possa essere fedele a questa pratica, procura di tener d'occhio il capo di quel serpente, ed è quanto dire non perdere di vista il primo apparire dei pensieri da lui suggeriti, e manifestarli subito al proprio padre anziano» [trad. it. cit., p. 141]. 20 Secondo J.-C. Guy, il racconto relativo a Pinufio nelle Istituzioni cenobitiche «è riprodotto quasi letteralmente dallo stesso Cassiano in Conferenze, XX, 1, 2-5» (cfr. CASSIANO, De institu-

del monaco Pinufio, la cui santità era così straordinaria che egli attirava a sé, appunto come consigliere, persone che avevano bisogno di essere guidate. La sua santità era riconosciuta a tal punto che, nel monastero in cui si trovava, si voleva fare di lui il superiore; ma, ogni volta che si trovava in questa situazione, egli fuggiva, andava a nascondersi in un altro convento dove si presentava per svolgere funzioni di giardiniere, cuoco, ecc., insomma, le funzioni più umili. Semplicemente, la sua santità riluceva ogni volta, e di conseguenza egli attirava sempre nuovi discepoli che domandavano di essere diretti. E, in tutti questi casi, fuggiva. Dunque, Pinufio è l'esempio del principio secondo cui non ci si deve mai considerare come se si fosse raggiunta una situazione definitiva di dominio, nei confronti degli altri, certamente, ma anche nei confronti propri. Non si deve mai ritenere di essere arrivati al dominio di sé. Bisogna dunque, di conseguenza, essere rispetto all'altro – a un altro – in questa condizione di dipendenza e di sottomissione. La seconda caratteristica – dopo quella, indefinita, dell'obbedienza o del rapporto di dominio rispetto all'altro – è data dal fatto che l'obbedienza è, nel monachesimo, una relazione formale. Cercherò di spiegarmi. Ricordate che, nell'Antichità, seguire il maestro era la condizione perché venisse trasmesso un certo sapere, una certa capacità di cui il maestro, più competente del discepolo, era in possesso; e, grazie alla sottomissione provvisoria, all'ascolto provvisorio del maestro da parte del maestro, veniva trasmessa al discepolo. L'autorità del maestro si fondava sulla sua competenza – competenza tecnica o saggezza. Nel monachesimo, al contrario, l'obbedienza è una pratica il cui valore non dipende da colui al quale si obbedisce, il cui valore non dipende dalla natura, dalla qualità stessa dell'ordine a cui si obbedisce. Il valore dell'obbedienza dipende essenzialmente dal fatto che si obbedisce. Questa è la cosa importante. Certamente, bisogna cercare di porsi sotto la direzione della migliore guida possibile. Ma da cosa è costituita la guida migliore possibile nella pratica monastica? Da colui che sarà il tis coenobiorum [trad. it. cit., pp. 134 sgg.]; e ID., Collationes Sanctorum Patrum [trad. it. cit.].

meno indulgente, cioè colui che lascerà al discepolo la minore libertà possibile, cioè colui che lo sottometterà di più. Ma bisogna andare oltre. A far avanzare nella via della santità, e a permettere dunque di procedere sul cammino che deve condurre alla vita e alla verità, è il puro fatto di obbedire, quale che sia l'ordine e quale che sia il maestro. Chiunque egli sia. E troviamo negli Apophtegmata, come del resto anche in Cassiano, un certo numero di esempi di discepoli che procedono molto in fretta sul cammino della santità, poiché il loro maestro è un cattivo maestro, poiché è un maestro ingiusto, un maestro collerico, poiché è un maestro che dà loro ordini assurdi, perché è in fondo uno qualunque. C'è un esempio celebre, non ricordo più il nome della persona: riguarda una donna, una donna ricca, che aveva deciso di rinunciare alla vita e che aveva accettato come forma di rinuncia di diventare la serva di qualcun altro. Era capitata con una padrona che era verso di lei giusta, non indulgente ma giusta. Allora aveva chiesto al vescovo di trovarle una donna vecchia particolarmente ingiusta e collerica, di cui assecondava tutti i capricci, a tal punto e così bene da riuscire a conseguire la salvezza proprio grazie al fatto che colei di cui era la serva era ingiusta 21. È così anche per le celebri storie degli ordini assurdi che ritornano – in quel caso, molto di frequente – negli Apophtegmata e in Cassiano. È la storia, ad esempio, dell'abate Giovanni, che compie il suo cammino di santità come discepolo di un monaco il quale, un giorno, gli fa piantare nel deserto, molto lontano da qualunque sorgente e da qualunque pozzo, un bastone disseccato, e gli chiede di innaffiarlo due volte al giorno, promettendogli che il bastone sarebbe fiorito (questa, peraltro, è un'aggiunta di una versione più tarda, ma poco importa, dopotutto). Non c'è bisogno di dirvi cosa è accaduto: un anno dopo, il bastone era sempre secco, il maestro dell'abate Giovanni rimprovera al suo discepolo di non averlo innaffiato abbastanza, e così, ancora per un anno, egli continua a innaffiarlo. E naturalmente, l'albero finisce per fiorire, il bastone disseccato alla fine 21 CASSIANO, Collationes Sanctorum Patrum, XVIII, 14 [trad. it. cit., vol. II, pp. 247-249].

mette i fiori22. È anche la storia di Patermutus, che era entrato con il suo giovane figlio in un convento. Per provare la sua obbedienza agli ordini dei superiori, gli viene chiesto di andare al fiume ad annegare suo figlio. E Patermutus si reca ad annegare il figlio fino al momento in cui, chiaramente, viene fermato dal superiore del convento23. Di certo possiamo riconoscere in queste due storie – quella del bastone secco che fiorisce e quella di Patermutus – alcune grandi figure scritturali che voi riconoscete bene quanto me. Ma non è semplicemente la presenza di queste figure scritturali – l'abate Giovanni che innaffia il bastone disseccato, Patermutus disposto a sacrificare suo figlio24 – non è semplicemente per aver riprodotto queste figure scritturali che questi sono santi o che sono progrediti molto nel cammino della santità. È perché, attraverso queste figure, 22 Secondo J.-C. Guy, esistono numerose versioni di questa storia, spesso narrata nella letteratura occidentale sull'obbedienza. La prima, presentata da Cassiano nelle Istituzioni cenobitiche, mette in scena Giovanni di Licopoli, «una delle più celebri figure del monachesimo egiziano del IV secolo», che sarebbe nato attorno al 300 e morto attorno al 395 [trad. it. cit., p. 127, nota 24]. La seconda, presentata negli Apophtegmata Patrum, è attribuita a Giovanni Nano (greco «Colobos») di Scete, che sarebbe nato verso il 339 e morto nel 409 [trad. it. Vita e detti dei Padri del deserto cit., p. 231]: questa seconda versione aggiunge il miracolo del bastone che sviluppa le radici e produce frutti. Una versione ulteriore, ancora più abbellita, si trova nel panegirico copto di Giovanni Colobos a opera di Zaccaria, alla fine del VII secolo [ ibid., pp. 254257]. Foucault riporta la prima versione in Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 134; si riferisce alla seconda in Mal fare, dir vero. Secondo J.-C. Guy, è verosimile che la versione proposta negli Apophtegmata Patrum sia posteriore a quella data da Cassiano (cfr. De institutis coenobiorum [trad. it. cit., p. 128, nota 1]). 23 Ibid. [trad. it. cit., pp. 131-132, dove il nome attribuito all'abate è Muzio]. Nella versione dell'episodio riportata da Cassiano, dei fratelli «già prima appostati sulla rive del fiume» portano via il bambino come «strappato in certo qual modo dall'alveo dell'acqua», impedendo così «che fosse condotta a termine l'esecuzione di quell'ordine, a cui il padre s'era disposto con la sua obbedienza e con la sua devozione». J.-C. Guy indica che un racconto simile si ritrova «secondo una tradizione diversa corrispondente a un quadro di vita anacoretica, nelle collezioni di apoftegmi: Alphabetikon, Sisoes 10 (Patrologia Graeca [J.-P. MIGNE, a cura di, Patrologiae Cursus Completus, Series Graeca] vol. LXV, 393 C) e Sistematica, XIV, 8 (Patrologia Latina cit., vol. LXXIII, 949 D)». Foucault riferisce anche questa storia, che egli presenta come la prova di Lucio durante la lezione del 22 febbraio 1978; la fonte citata è la Storia lausiaca dove tuttavia, secondo Senellart, essa non si trova (FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione cit., pp. 134 e 136, nota 33). 24 Cassiano avvicina esplicitamente i sacrifici di Patermutus [Muzio] e di Abramo: «Questa sua fede e questa sua devozione tornarono talmente gradite a Dio che ben presto esse vennero com provate da una testimonianza divina. Venne infatti immediatamente rivelato al monaco anziano che quel padre, con quella sua obbedienza, aveva adempiuto un'opera simile a quella di Abramo. Il vecchio, già abate del cenobio, stando ormai, dopo breve tempo, per lasciare la di mora di questo mondo per raggiungere Cristo, lo propose a tutti i fratelli come suo successore, e così lo lasciò abate del monastero» [trad. it. Le istituzioni cenobitiche cit., p. 132].

essi si esercitano a una forma di obbedienza pura, un'obbedienza che non doveva il suo valore al valore dell'ordine, ma semplicemente al fatto di seguirlo. Principio dell'obbedienza a x, principio di obbedienza in ogni caso. Anche su questo, dobbiamo essere cauti: non è cosa totalmente e assolutamente estranea alla pedagogia antica. Nell'Apologia di Socrate, ad esempio, possiamo osservare molto nettamente la distinzione tra la didaskalia e la opheleia. Il maestro non si limiterà a insegnare – come richiede la didaskalia, che significa far passare il sapere che egli possiede al discepolo che non lo possiede – ma deve anche essere utile, cioè far fare all'individuo un certo numero di esercizi che permettano al discepolo di avanzare lungo il cammino della virtù, esercizi che non sono una vera e propria trasmissione di sapere o il trasferimento di una maggiore competenza a una competenza minore. Resta il fatto, tuttavia, sempre ben sottolineato e molto evidente, che sia negli Apophtegmata Patrum sia in Cassiano il maestro non insegna mai qualcosa al discepolo. Non è mai colui che, possedendo una competenza maggiore, insegnerà, trasmetterà in termini di sapere o in termini di precetti ciò che si deve fare. Sottopone piuttosto il discepolo a un certo numero di prove che sono prove di obbedienza. Come terza caratteristica di questa obbedienza – dopo la prima, cioè il fatto di essere continua e indefinita, e la seconda, il fatto di essere formale – diremo che essa è autoriferita. È autoriferita nella misura in cui l'obbedienza nell'istituzione monastica ha in realtà un solo obiettivo, un solo scopo. A cosa deve condurre il discepolo? A essere obbediente, a trovarsi in uno stato permanente di obbedienza. E questo stato permanente di obbedienza – che in fondo non è il termine, ma è l'obiettivo permanente del rapporto di obbedienza nei confronti di un maestro – questo stato permanente di obbedienza si manifesta nelle tre virtù che, credo, è importante caratterizzare bene.

Lo stato di obbedienza25 a cui conduce la prova di obbedienza continua si manifesta nell'humilitas, l'umiltà, che consiste nel considerarsi sempre come l'ultimo in mezzo a tutti gli altri. Essere l'ultimo significa ritenere che tutti gli altri, quali che essi siano, possono darci degli ordini e che noi dobbiamo, in tali condizioni, obbedire a quegli ordini. Rapporto di obbedienza nei confronti dell'altro, dove l'altro è definito non, ancora una volta, dalla sua competenza o dal suo valore, ma dal fatto di essere assolutamente altro. A chi è assolutamente altro, si deve obbedienza. È questa l'humilitas26. In secondo luogo, come secondo aspetto, abbiamo la patientia. Patientia significa non resistere mai a un ordine impartito. San Nilo scriveva – frase che godrà della fortuna storica che ben conoscete –: «Non essere diverso da un corpo inanimato, o da una materia prima impiegata da un artista, essere come un cadavere, come un corpo senz'anima, essere come una materia grezza tra le mani dell'altro, e non resistere mai» 27. Esempio, storia, exemplum che serve a illustrare questo principio è la storia del co25 Sull'importanza della nozione di stato di obbedienza, cfr. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione cit., pp. 134-135; Michel Senellart osserva che, nel manoscritto del corso, Foucault aveva messo in risalto la parola «stato» e annotato in margine «nozione importante». 26 Sull'humilitas, cfr. CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 39 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo): «L'umiltà viene comprovata da questi indizi: se essa mantiene mortificata ogni sua volontà; se essa non terrà celato non solo alcuno dei suoi atti, ma nessuno dei suoi pensieri al proprio superiore; se nulla sarà riservato al proprio discernimento, ma tutto verrà rimesso al suo giudizio e verranno ascoltati avidamente e volentieri i suoi consigli; se in tutto egli sarà pronto a obbedire e conserverà la costanza della pazienza; se non soltanto non sarà lui a recare ingiuria ad altri, ma non si lamenterà e non si rattristerà per quelle recate a lui da altri; se nulla egli farà che non sia suggerito dalla regola o dall'esempio dei padri anziani; se egli si accontenterà anche delle posizioni più umili e se considererà se stesso come un pessimo operaio, immeritevole di tutto quello che gli viene offerto; se considererà se stesso inferiore a tutti gli altri in modo da non ammetterlo soltanto a parole, a fior di labbro, ma nell'intimo del proprio cuore; se saprà dominare la propria lingua, senza mai alzare troppo la voce; se non sarà troppo facile e pronto ad abbandonarsi al riso» [trad. it. cit., p. 142]. 27 NILO [EVAGRIO PONTICO], Logos asketikos, 41, in Patrologia Graeca cit., vol. LXXIX, 769 D – 772 A, citato in HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., p. 190: «Quando, scrive san Nilo, si incontrano tali maestri (come quelli che ha descritto), essi richiedono di scepoli che abbiano rinunciato a se stessi e a ogni loro volontà al punto da non differire in nulla a un corpo inanimato, o dalla materia prima impiegata da un artista, in modo che l'anima nel corpo fa ciò che vuole senza che il corpo opponga alcuna resistenza, e come l'artista dà prova del suo saper fare senza che la materia lo impedisca in alcun modo nel perseguire il suo scopo, così il maestro mette in atto la sua scienza della virtù perché avrà dei discepoli docili che non lo contraddicono in nulla».

pista. Copiare, ricopiare la Sacra Scrittura era evidentemente, al di fuori della salmodia e della partecipazione alle cerimonie collettive, l'attività più importante, la più santa, la più sacra: copiare, ricopiare la Scrittura. Ora, il buon copista è colui che, dal momento in cui il suo maestro lo chiama, anche quando è impegnato a tracciare sulla sua pergamena, sul suo papiro, i caratteri più santi e persino il nome di Dio, è capace di sollevare la sua penna nell'istante stesso in cui sente l'ordine del maestro e di correre a obbedire all'ingiunzione che gli viene rivolta 28. Dunque, non oppone resistenza: abbiamo qui il principio dell'abolizione di ogni volontà autonoma. Rapporto all'assolutamente altro, abolizione della volontà autonoma. Come terza virtù – dopo l'humilitas quale rapporto con l'assolutamente altro, dopo la patientia quale assenza di autonomia, la virtù più interessante, la più paradossale, la più fondamentale – è la subditio. La subditio è la sottomissione, significa essere sottomessi. Si tratta di una nozione molto importante. È importante perché si oppone – la si deve opporre – a quella che poteva essere, ad esempio, nel pensiero politico, morale, filosofico antico, l'idea di una sottomissione alla legge. Certamente l'Antichità conosceva il principio di obbedienza, ma a cosa si doveva obbedire? Si doveva obbedire alla legge. Qui, nella subditio, nella sottomissione, non si tratta di obbedire alla legge come codice di obblighi o di interdetti. Si tratta in realtà di lasciare che il principio di obbedienza compenetri tutto il comporta28 CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 12 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo): «... non appena odono il segnale [che...] invita alla preghiera o all'esecuzione di qualche lavoro, ognuno di essi, a gara, lascia il proprio posto al punto che uno, addetto all'esercizio di scrivano, non oserebbe condurre fino al termine la lettera appena iniziata: allorché giunge al suo orecchio il segnale di chi ha battuto la porta, si alza con tutta rapidità senza interporre al cuna dilazione, neppure per quanta ne occorrerebbe per completare la figura di un apice già cominciata; al contrario, lasciando incomplete le prime linee della lettera già iniziata, egli non si preoccupa tanto del compenso lucrativo del suo lavoro, quanto di eseguire a puntino gli ordini dell'obbedienza» [trad. it. cit., p. 117]. Secondo J.-C. Guy, «gli Apophtegmata Patrum riportano un esempio particolare corrispondente esattamente a questa pratica generale: Marco, discepolo di Cristiano, 1». Cfr. anche HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., p. 200, che rinvia a Patrologia Graeca cit., vol. LXV, 273 D – 296 A. Foucault riprende lo stesso esempio in Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 134.

mento, non bisogna fare nulla che non sia, in qualche modo, comandato da qualcun altro. Frase assolutamente fondamentale di san Basilio: «Ogni atto che si compia senza l'ordine o il permesso di un superiore è un sacrilegio che condurrà alla morte e non al beneficio, anche quando sembri buono»29. Dunque, non si deve fare nulla che non sia in qualche modo ordinato da un altro. E san Barsanufio 30 diceva che i giovani non solo non devono osare – com'è riportato nelle Istituzioni cenobitiche di Cassiano31 – non solo non osano lasciare la loro cella senza che il preposto lo sappia: non dànno per presupposta l'autorizzazione del loro superiore nemmeno quando si trovano a dover soddisfare un bisogno naturale. C'è dunque, bisogna che ci sia, una rinuncia alla volontà tale per cui nulla nel comportamento possa apparire, nulla possa essere fatto nel corso della vita, dell'esistenza, del giorno, della notte, nulla debba essere compiuto che non sia compiuto perché c'è stato un ordine. Questa compenetrazione totale di tutta l'esistenza, di tutte le azioni, da parte della volontà di un altro, degli altri, di un x, è, credo, ciò che è al cuore stesso di questa nozione di subditio, che è importante, dunque, per la sua opposizione all'idea dell'obbedienza a una legge – la legge è ciò che ci obbliga a fare qualcosa o ci proibisce di fare qualcos'altro; essa implica di conseguenza che, per il resto, siamo liberi. C'è dunque un'opposizione radicale tra la subditio monastica e la sottomissione greco-romana alla legge. È una nozione importante, perché vedete che, con essa, arriviamo a un esito esattamente contrario rispetto a quel dominio di sé che costituiva l'obiettivo della pedagogia antica. In questa pratica monastica, si tratta invece di arrivare al risultato contrario, cioè a non essere mai padrone di sé, ma a fare in modo che ci sia sempre in sé, in noi stessi, qualcuno 29 BASILIO, De renunt. saec., n. 4, in Patrologia Graeca cit., vol. XXXI, 363 B, citato in HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., pp. 190-191: «Ogni atto compiuto senza l'ordine o il permesso di un superiore è un furto e un sacrilegio che porta alla morte, e non al profitto, anche se ti sembra buono». 30 Barsanufio (V-VI secolo), eremita nei pressi di un monastero nei pressi di Gaza, ha corrisposto con Giovanni di Gaza: cfr. BARSANUFIO e GIOVANNI DI GAZA, Epistolario, Città Nuova, Roma 1991. 31 CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 10 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo) [trad. it. cit., pp. 115-116].

che sia maestro e padrone di tutto. Si tratta dunque di annullarsi come volontà, di rinunciare a se stessi, di rinunciare a volere e a essere sé e a essere se stessi nel proprio volere. Abbiamo qui il passaggio importante – o piuttosto l'abbinamento importante – fra il tema della mortificazione del corpo, che caratterizzava la penitenza e che caratterizza ancora la vita penitenziale del monaco, [e la mortificazione del sé]. Si passa dalla mortificazione del corpo, o piuttosto si aggiunge alla mortificazione del corpo, la mortificazione del sé32: si tratta si sopprimere se stessi in quanto sé. Ed è questo abbinamento mortificazione del corpo – mortificazione di sé a essere, io credo, proprio il cuore di questo rapporto di obbedienza. Infine, terza ragione per la quale questo rapporto di obbedienza nella sua singolarità è fondamentale, è il fatto che, per arrivare a questa subditio, per fare in modo che ci sia sempre, al posto della propria volontà, la volontà di un altro o di qualche altro che voglia al nostro posto e che trasforma tutti gli atti volontari della nostra esistenza in atti di sottomissione, perché questo sia possibile, si pone evidentemente un'esigenza. Un'esigenza semplice, evidente: il fatto che bisogna parlare. Bisogna parlare, bisogna dire tutto quello che accade in noi, tutto ciò che vogliamo fare, tutto ciò che desideriamo, tutto ciò che progettiamo di fare, tutto ciò che sta accadendo in noi, tutti i movimenti del nostro pensiero. E questo – il fat32 Su questo punto, cfr. tra gli altri riferimenti ibid., IV, 35 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo): «La nostra croce è il timore del Signore. Come infatti uno, se è stato crocifisso, non ha più la possibilità di muoversi o di rivoltare le proprie membra secondo il volere della propria volontà, così pure noi non dobbiamo volgere la nostra volontà e i nostri desideri secondo quello che, al momento, ci torna gradito e dilettevole, ma dobbiamo regolarci secondo la legge del Signore, dove essa intende condurci. Chi è affisso al patibolo della croce, non s'avvince alle cose presenti, non si preoccupa degli attacchi del suo cuore, non si mette in apprensione per il suo avvenire, non si lascia dominare dal desiderio di possedere e neppure prendere da sentimenti di superbia, di contesa e d'invidia; non si rammarica delle ingiurie che ora riceve e non si ricorda di quelle ricevute in passato; egli insomma, pur sentendosi ancora vivo nel corpo, è convinto d'essere già morto per tutti gli elementi del mondo, volgendo ormai lo sguardo del suo cuore verso la meta, alla quale egli non dubita di giungere al più presto. Allo stesso dobbiamo anche noi, grazie al timore del Signore, considerarci crocifissi a tutti gli elementi del mondo, ed è quanto dire considerarci morti non soltanto ai vizi della carne, ma anche agli stes si elementi del mondo, tenendo gli occhi della nostra anima fissi alla meta, alla quale noi dobbiamo sperare di giungere in ogni momento. In questo modo noi potremo così dominare e mortificare ogni nostra concupiscenza e tutte le tendenze della nostra carne» [trad. it. cit., p. 139]. Tra le fonti secondarie cfr. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., pp. 160-167.

to che la subditio nei confronti dell'altro, la rinuncia a sé passi attraverso la verbalizzazione resa all'altro – è spiegato molto chiaramente, molto semplicemente, in un testo che credo sia assolutamente fondamentale nella storia dell'Occidente. Nel quarto capitolo delle Istituzioni di Cassiano, leggiamo quanto segue: è necessario che i giovani monaci imparino a vincere la loro volontà obbedendo agli ordini più contrari alle loro inclinazioni. E per potervi arrivare facilmente, si insegna ai principianti a non nascondere per falsa vergogna nessun pensiero – nullas cogitationes, torneremo su questo, perché è molto importante – a non nascondere nessun pensiero che roda loro il cuore; ma, non appena tali pensieri insorgono, bisognerà che li manifestino ai più anziani33. Il principio della confessione perpetua è, evidentemente, direttamente legato al principio generale dell'obbedienza34. L'obbedienza indefinita, l'obbedienza formale, l'obbedienza che deve condurre a uno status di obbedienza – humilitas, patientia, subditio – tutto questo implica necessariamente la verbalizzazione. E credo che in questo ci sia qualcosa di fondamentale nella storia della cultura occidentale: è quel che potremmo chiamare l'inversione dell'asse di verbalizzazione nel rapporto di dominio. Nell'Antichità, colui che parla è evidentemente il maestro. Il maestro è colui che parla – la prova migliore è data dal fatto che il discepolo manifesta obbedienza nei confronti del suo maestro in un atto, in un'attività, in un atteggiamento che è designato dal termine greco akouein: egli ascolta. Ascoltare e obbedire sono la stessa cosa, o comunque sono strettamente correlati. Sono legati, poiché il comando è correlato all'attività di parola. Colui che dirige parla, mentre chi viene diretto ascolta. E ancora una volta, se Socrate serve da contro-esempio, si tratta di un contro-esempio piuttosto sofisticato, che conferma comunque ciò cui fa da contro-esempio, poiché Socrate fa parlare il discepolo. Ma per quale ragione 33 CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 9 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo) [trad. it. cit., p. 114]. Su questo punto, che egli chiama «l'apertura di coscienza», J.-C. Guy rinvia a HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., pp. 152-177. 34 Su questo punto cfr. ibid., pp. 171 e 200-201.

fa parlare il discepolo? Perché, a un certo punto, il discepolo, infine, giunto al termine del cammino, scopra la verità in sé e possa dirla. Nel momento in cui dice la verità, ha effettivamente raggiunto il punto in cui può essere padrone di se stesso – o in ogni caso padrone del proprio sapere. Dunque, mentre nell'Antichità la verbalizzazione avviene a partire dal maestro in direzione del discepolo che rappresenta l'istanza dell'ascolto, al contrario, in questo nuovo rapporto di obbedienza che le istituzioni monastiche sviluppano, avremo una struttura completamente rovesciata. Per obbedire, al contempo perché si obbedisce sia per obbedire sia per poter restare sempre nello stato di obbedienza, è necessario parlare. È necessario parlare di sé. La veridizione è un processo: la veridizione di se stessi – il dir vero su di sé – è una condizione indispensabile per l'assoggettamento a un rapporto di potere nei confronti dell'altro. E di colpo, è l'altro che ascolterà ed è colui che è sottomesso che parlerà. In questa inversione, vedete tutte le eco storiche che circolano e rimbalzano attraverso la nostra cultura. Penso che ci troviamo di fronte a una frattura fondamentale. Il problema, ora, è il seguente: in che modo opererà tale veridizione? E in che modo – affinché tale rapporto di obbedienza, questo fondamentale rapporto con l'altro si mantenga attraverso e grazie alla veridizione – questa veridizione dovrà organizzarsi e svilupparsi?*

Allora, come si svolge questa veridizione? Dir vero su se stessi per poter obbedire e per arrivare a questo stato di obbedienza […] implica evidentemente due cose: in primo luogo esaminare se stessi; in secondo luogo, dire effettivamente, in un atto verbale.

* Michel Foucault si rivolge al pubblico nei seguenti termini. «Bene, allora, forse volete che ci fermiamo un po'? Ne avete abbastanza? Ci fermiamo cinque minuti prima di ricominciare, oppure volete fare domande? Cosa preferite? Ditemi... Scusate. Fermiamoci cinque minuti, perché il discorso dopo rischia di essere piuttosto lungo...».

In primo luogo, esaminare se stessi. C'è una cosa che è molto caratteristica: l'esame di coscienza – di cui vi ho mostrato la volta scorsa che si trattava di una pratica corrente nell'Antichità pagana e comunque all'interno di un certo numero di scuole filosofiche – non trova praticamente menzione nel primo cristianesimo. In particolare, i rituali di penitenza di cui vi parlavo poco fa non implicavano in alcun modo che si raccomandasse all'individuo: «Raccogliti, rifletti sui tuoi peccati, cerca di ricordartene, e poi li dirai a qualcuno». Assolutamente no: il rituale di penitenza non passava affatto attraverso questo. Non si trovano quasi riferimenti all'esame di coscienza – a parte alcuni, che vi citerò proprio perché permettono di situare con precisione la trasformazione che si produrrà, e che si produrrà solamente con il monachesimo. Trovate in Clemente Alessandrino l'idea che è importante conoscere se stessi: auton gnonai – auton, heauton. Ma perché è importante conoscere se stessi? si chiede Clemente Alessandrino. Perché quando ci si conosce, si riconosce Dio in sé e ci si può rendere simili a Dio a partire dal momento in cui si è riconosciuta questa presenza di Dio in sé 35. Eccovi una sorta di tema del riconoscimento, della reminiscenza platonica: siamo molto lontani dall'esame di coscienza quale abbiamo potuto trovare nei testi filosofici antichi o troveremo nel monachesimo. Abbiamo anche un testo di Origene, nel secondo libro del commentario al Cantico dei Cantici*. In questo testo, Origene commenta un passo del Cantico dei Cantici, dove si dice: «Se tu non ti conosci, se non conosci le cause della tua bellezza, finirai nella stalla delle capre» 36. E Origene commenta facendo notare che le capre sono animali a un tempo inquieti ed erratici, im35 CLEMENTE ALESSANDRINO, Il pedagogo, III, 1, 1: «Conoscere se stessi, a quanto pare, è l'insegnamento più grande fra tutti. Infatti chi conosce se stesso troverà Dio, e chi ha conosciu to Dio diventerà simile a lui» [trad. it. Città Nuova, Roma 2005, p. 252]. * Foucault si rivolge all'uditorio e aggiunge: «a chi lo volesse, potrei dare il riferimento esatto». 36 Non si fa allusione a capretti nella seconda omelia di Origene sul Cantico dei Cantici. Foucault si riferisce probabilmente a I, 9: «Se non avrai conosciuto te stessa, o bella tra le donne, esci sulle tracce delle greggi e pascola non le greggi di pecore, non di agnelli, ma i tuoi capretti. Colloca infatti le pecore a destra e a sinistra i capri […] Sulle tracce dei pastori – egli dice – ti troverai ultima, non tra le pecore ma tra i tuoi capretti, e se prenderai dimora con questi, non potrai stare con me, cioè col buon pastore» [trad. it. Il Cantico dei Cantici, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1998, pp. 53-55].

magini del peccato: si cadrà dunque nel peccato se non si conosce se stessi. In cosa consiste questa conoscenza? domanda Origene. Commenta dicendo: «Ci sono due modi di conoscenza di sé […]: o conoscersi come sostanza, o conoscersi nei propri affetti»37. Prima questione, conoscersi come sostanza (ousia): il problema è sapere, riconoscere, saper riconoscere se l'anima è corporea o no, semplice o composta, creata o increata, se è contenuta o no nel seme dei genitori o se invece vi è stata portata in seguito. Dunque, come vedete, si tratta di una questione fondamentalmente filosofica relativa alla natura dell'anima – è questo che Origene chiama conoscere se stessi. Dice anche c'è un altro modo di conoscenza di se stessi, che consiste nel conoscere i propri affetti, conoscersi secondo i propri affetti: sapere se sono buoni o no, se l'anima è lontana dalla sua meta o no, se ha fatto il male volontariamente o no, se sa dominarsi, se ha potuto controllare i suoi moti di collera. Come vedete, dunque, Origene si riferisce a una pratica che è assolutamente omogenea, o a un tipo di conoscenza di sé che è del tutto omogeneo a quello che si poteva trovare negli stoici. Dunque, in Clemente Alessandrino troviamo [un']eco del principio della reminiscenza platonica, [e] in Origene un'eco manifesta di pratiche che incontriamo tra gli stoici, che troviamo ad esempio in Seneca. Per contro, quando ci si rivolge a testi più tardi e che derivano direttamente o indirettamente dalla pratica monastica, ci accorgiamo che la questione dell'esame di coscienza – l'investigazione dell'anima da parte dell'anima stessa – diventa una questione importante e insieme tecnica, [che] pone problemi tecnici straordinariamente complessi (in ogni caso molto più complessi rispetto a quanto è stato appena detto, e che si trova in Origene o in Clemente Alessandrino). Lo troviamo essenzialmente sotto due forme. 37 ORIGENE, Commentario al Cantico dei Cantici, II, 5, 7: «Mi sembra che l'anima debba acquisire una conoscenza di sé di due tipi: cos'è in se stessa, e in che modo si muove; vale a dire cosa ha nella sua sostanza e nelle sue disposizioni?»; ibid., II, 5, 21: «Tra queste realtà, all'anima toccherà dunque di avere una certa conoscenza di sé, in base alla quale deve sapere qual è la sua sostanza, se è corporea o incorporea, se è semplice o composta di due, di tre parti, o anche di un numero maggiore».

In primo luogo, il ricorso alla pratica dell'esame vespertino, l'esame di coscienza che si deve svolgere ogni sera e di cui Pitagora e Seneca avevano dato l'esempio, avevano dato la formula – insomma, i pitagorici e le persone come Seneca. Di questo esame vespertino troviamo una descrizione, o piuttosto numerose descrizioni, in diversi testi di Crisostomo, che, come sapete, è stato con san Girolamo uno dei chiacchieroni più impenitenti che il cristianesimo abbia mai prodotto. Allora, il buon Crisostomo è ritornato spesso sull'esame di coscienza. In un'omelia sul Salmo 4, ad esempio, troviamo questo: «Non bisogna addormentarsi prima di riflettere a quel che si fa. Chiedi, – dice Crisostomo, – chiedi conto alla tua coscienza la sera a proposito delle azioni compiute ogni giorno, e condanna il pensiero che ha peccato»38. Vedete bene, dunque, quanto l'esame vespertino sia ancora vicino all'esame di Seneca 39. Nella sessantesima omelia sulla Genesi, si dice: «Sediamo, senza testimone, nel tribunale della nostra coscienza»40. In Crisostomo ritroviamo dunque la stessa immagine che c'era in Seneca: bisogna essere giudici di se stessi e ogni sera si deve sedere in un tribunale in cui si è al contempo il proprio giudice e il proprio accusato. Altro testo di Crisostomo: «Se respingi i tuoi peccati dalla tua memoria, Dio se ne ricorderà. Se li conservi nella tua memoria, 38 GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia sul quarto salmo: «Dopo il pasto della sera, quando state per andare a dormire, soli e senza testimoni, approfittate della calma e del silenzio che vi circondano per penetrare nel segreto della vostra coscienza: costringetela a rendere conto dei pensieri colpevoli che avete avuto durante il giorno, degli artifici tramati da voi, degli inganni che avete adottato a danno del prossimo, dei vostri desideri licenziosi. In questa calma profonda, sottoponetevi al vostro interrogatorio personale, trasformate la vostra coscienza in giudice dei vostri pensieri depravati, scavate e riconduceteli sotto i vostri occhi, lacerate la vostra anima, castigate questa peccatrice […] fate, ogni giorno, questo esercizio, o fratelli miei; non addor mentatevi senza avere meditato sulle cattive azioni che avete compiuto durante il giorno e, l'indomani, sarete meno inclini a scivolare lungo la china del male […] La sera, dite alla vostra anima: fa' il tuo rendiconto, e castigatela per i suoi pensieri criminali; legatela come a una colonna e flagellatela dicendole: o anima mia, non ti ritrovo più» [trad. fr. Homélie sur le Psaume quatrième, in Œuvres complètes, Bordes, Nancy 1867, vol. VIII, p. 157]. 39 Sulla prossimità tra la concezione dell'esame di coscienza in Seneca e in Giovanni Crisostomo, cfr. M. FOUCAULT, Technologies of the Self, in P.-H. HUTTON, H. GUTMAN e L.H. MARTIN (a cura di), Technologies of the Self. A Seminar with Michel Foucault , The University of Massachusetts Press, Amherst 1988 [trad. it. Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 11-47]. 40 Per una traduzione in una lingua moderna, cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Homelies on Genesis, 46-67, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 1992, pp. 184-185.

Dio li dimenticherà»41. Il che significa che la memoria di Dio e la memoria dell'uomo sono opposte e complementari: tu dimentichi, Dio si ricorda; tu ti ricordi, Dio dimenticherà. L'anima custodisce in sé i suoi peccati e i sogni sono come testimonianze. Il testo, in realtà, è molto complicato e lo si dovrebbe analizzare in dettaglio, poiché vi troviamo l'idea secondo cui, quando ci si ricorda dei propri peccati, Dio li dimentica. Ma perché Dio li dimentica? Perché, quando ci si ricorda dei propri peccati, l'anima non li conserva più in sé. Mentre quando li conserva in sé, cioè quando non li memorizza, vale a dire quando li dimentica, in quel momento essi ritornano sotto forma di sogni, e i sogni sono testimonianze *. È molto interessante come tipo di meccanismo, ma in un testo come quello sul rapporto tra la memoria e i sogni vediamo che l'eco del pitagorismo è ancora netta42. Sempre in Crisostomo, nell'omelia sul Salmo 50, troviamo, ancora a proposito dell'esame di coscienza, il passo seguente: «Non possiedi un libro in cui tu scriva i conti quotidiani? Bisogna che tu abbia un libro nella tua coscienza – Eche biblion en to syneidoti43 – bisogna che tu abbia un libro nella tua coscienza e che vi scriva le tue colpe. Quando vai a letto e prima di dormire, apri questo libro e leggi cosa c'è al suo interno» 44. 41 ID., Omelia 24, De Peccato et confessione, in Patrologia Graeca cit., vol. LXIII, col. 741: «O nobiltà dell'anima; egli non ha consegnato all'oblio la memoria del peccato ma, anche se perdonato, l'ha impressa nella sua coscienza come un'immagine. Ed ecco cosa accade: se custodi sci il peccato nella tua memoria, Dio non se ne ricorda; se lo dimentichi, Dio invece se ne ricorda. Hai fatto qualcosa di male? Ricordatene, affinché il tuo Signore possa dimenticarlo. Hai fatto qualcosa di buono? Dimenticalo, affinché il tuo Signore possa ricordartelo». * Foucault si rivolge all'uditorio e aggiunge: «Se volete, coloro che s'interessano a tali problemi potranno fare riferimento a questi testi, di cui vi darò le indicazioni precise». 42 Su questo punto, cfr. VERNANT, Aspects mythiques de la mémoire et du temps cit., pp. 1-29, riprodotto in ID., Mythe et pensée chez les Grecs cit., vol. I, pp. 80-107, in particolare pp. 94 sgg. [trad. it. Aspetti mitici della memoria e del tempo, in Mito e pensiero presso i Greci cit., pp. 93-124, in particolare pp. 106 sgg.], e ID., Le fleuve «amélès» et la «mélétè thanatou» cit.; ripreso ibid., pp. 108-123 [trad. it. Il fiume Améles e la 'meléte thanatou', ibid., pp. 125-143]. Da notare che il secondo di questi studi, che fornisce indicazioni preziose sulle nozioni di melete, epimeleia, epimeleia mnemes, ameleia, ameletesia o ameletesia mnemes, annuncia alcuni temi che saranno sviluppati da Foucault nei suoi corsi sulla cura di sé. Non che ne siano dipendenti: ma è possibile che, tra le sue fonti secondarie, compaiano questi studi di Vernant. 43 La frase completa è: Eche biblion en to syneidoti, kai graphe ta amartemata ta kathemerina . (Si ringraziano Emmanuel Francis e Vincent Francis). 44 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Psalmum Homilia (seconda omelia sul Salmo 50), in Patrologia Grecae cit., vol. LV, col. 581: «Non hai un libro, a casa tua, in cui tu scriva il compito quotidiano? Fai in modo di avere un libro nella tua coscienza, e scrivici i tuoi peccati quotidiani».

Dunque, questa idea secondo cui si deve... come vedete comincia già a spostarsi rispetto alla pratica stoica; l'idea secondo cui si deve avere sempre accanto a sé una sorta di piccolo notebook, di quadernetto degli appunti, un taccuino in cui annotare quel che accade a mano a mano che accade, gli atti che si sono compiti, le colpe, i cattivi pensieri. Li si deve annotare, o fare come se li si annotasse, dice Crisostomo. E poi la sera si fa come se si aprisse questo libro della giornata in cui tutta la giornata è iscritta, e poi lo si passa in rassegna. Ora, il tema della tavoletta che si deve tenere accanto per annotare volta per volta tutto ciò che accade, rinvia di fatto a una pratica monastica di cui Atanasio ci dà testimonianza nella Vita Antonii, in cui attribuisce a sant'Antonio il seguente precetto: «Che ciascuno tenga quotidianamente registro di quel che fa notte e giorno. Che ciascuno annoti per iscritto»45. Ciò che Crisostomo avrebbe proposto più tardi in forma di metafora – «Fa' come se tu avessi un libro» – era di fatto presentato da Atanasio e attribuito a sant'Antonio come una pratica reale, un precetto effettivo. «Che ciascuno annoti per iscritto le azioni e i moti della sua anima» – vale a dire non semplicemente ciò che ha fatto, ma i moti stessi dell'anima – «che li si annoti per iscritto, come se li si dovesse far conoscere agli altri. Che la lettera scritta svolga il ruolo dei nostri compagni»46. Dunque, il testo risulta fondamentale. È necessario scrivere. Si deve scrivere tutto quello che si fa, si devono scrivere tutti i moti dell'anima. E 45 ATANASIO DI ALESSANDRIA, Vita di Antonio, LV, 7-9: «Ogni giorno ciascuno si chieda conto delle azioni compiute durante il giorno e durante la notte […] Osserviamo ancora quest'altra precauzione per essere sicuri di non peccare: ciascuno annoti e scriva le azioni e i moti dell'anima,, come se dovessimo farli conoscere gli uni agli altri» [trad. it Edizioni Paoline, Milano 2010, pp. 177-178]. 46 Ibid.: «Ciascuno annoti e scriva le azioni e i moti dell'anima, come se dovessimo farli conoscere gli uni agli altri; state certi che, per la vergogna di essere conosciuti, smetteranno di peccare e di nutrire nel cuore pensieri malvagi. Chi desidera essere visto peccare? Chi, dopo aver peccato, non preferisce mentire pur di rimanere nascosto? Come, dunque, non compiremmo atti impuri sotto gli occhi degli altri, così se scriviamo i nostri pensieri come se dovessimo rivelarceli a vi cenda, ci custodiremo attentamente dai pensieri impuri per la vergogna che altri vengano a conoscerli. Lo scrivere, dunque, sarà per noi come lo sguardo dei nostri compagni di ascesi e così, poiché nello scrivere arrossiremo come se fossimo visti, non avremo più pensieri malvagi» [trad. it. cit., p. 178].

perché è necessario scriverli? Perché, a partire dal momento in cui è scritto, in cui è inciso in lettere, è come se lo si mostrasse agli altri. E vedete che anche qui è evocato il famoso problema della scelta tra anacoresi e cenobio, tra vita solitaria e vita comunitaria. E sant'Antonio l'Anacoreta, a differenza dei monaci, i suoi successori pacomiani e basiliani, dice: a partire dal momento in cui si scrive, è come se si avesse un compagno, perché le lettere scritte sono virtualmente leggibili, virtualmente lette da qualcun altro; e questo rapporto con l'altro è assicurato dall'annotazione di tutto quel che accade nell'anima attraverso il medium della scrittura. Credo che qui ci troviamo esattamente al punto di congiunzione tra le tecniche di sé, le tecniche del sé, le tecnologie di sé che possiamo trovare nell'Antichità pagana, e tecniche nuove […] che si caratterizzano essenzialmente per il fatto che il rapporto con l'altro – e la sottomissione all'altro – risulta fondamentale, oltre a essere caratterizzate dall'esaustività e dalla continuità. Dire tutto, per tutto il tempo, a qualcuno – x che è l'altro o che è il principio dell'altro – è quel che emerge da questi testi sul libro, sulla scrittura: la necessità di avere un libro di conti su se stessi, accanto a sé, per lo sguardo eventuale dell'altro. Saranno questi elementi – che appaiono, dunque, in questo testo di sant'Atanasio – a essere sviluppati nella vita monastica così come viene descritta, e in dettaglio, da Cassiano. In Cassiano, nelle Istituzioni cenobitiche e nelle Conferenze, come si svolge di fatto, o più esattamente in cosa consiste l'esame di coscienza? E qual è la sua forma specifica? La prima questione da porre è, in fondo, su cosa verta l'esame di coscienza. Ricordate che nel caso di Seneca l'esame di coscienza verteva sulle azioni compiute, che peraltro non consistevano tanto nelle colpe che si credeva di aver commesso, quanto piuttosto nei momenti in cui si aveva l'impressione di non essersi comportati come si doveva, di non aver effettivamente raggiunto i fini che ci si proponeva, in cui si avvertiva di essere in divergenza con i principî. Si trattava in ogni caso sempre di azioni, e di azioni giudicate e misurate – il termine si trovava in Seneca – in rapporto ai principî. Era la polarità azioni-principî a costituire la materia prima,

l'oggetto, il campo al quale doveva applicarsi l'esame di coscienza. Nel caso dell'esame di coscienza descritto da Cassiano, di cosa bisogna prendere coscienza? Qual è l'oggetto della coscienza? Il testo lo dice molto chiaramente: «Nullas cogitationes celare, non nascondere alcun pensiero, alcuna cogitazione»47. Significa che il punto essenziale di questo esame non sarà più l'azione nel suo rapporto di adeguatezza o inadeguatezza con il principio. Sarà invece il pensiero stesso: «Che cosa ho pensato? Che cosa penso?». Cosa significa questo slittamento dall'actum alla cogitatio – slittamento essenziale? Non significa evidentemente che nella vita monastica il problema delle azioni non si ponga più. Sì, al limite si può dire che non si poneva nella misura in cui, quando un'azione contraria alle leggi era stata compiuta, il monaco era espulso se l'azione era grave – o, in ogni caso, era sottoposto a una punizione, molto codificata, peraltro, se l'azione, se il misfatto, se l'infrazione non era troppo grave. Ma non si tratta di questo nell'esame di coscienza. Nell'esame di coscienza, in questione è la cogitatio. E perché la cogitatio, il pensiero, è così importante? Molto semplicemente, perché l'obiettivo della vita monastica è la contemplazione 48. Per contemplazione s'intende che l'obiettivo del monaco è arrivare a vedere Dio. O meglio, arrivare a guardare Dio. Meglio ancora, arrivare a guardare lo sguardo dello spirito ben fisso su Dio – nella misura in cui questi è l'Essere unico. Il che significa che nella contemplazione tutti i pensieri devono unificarsi verso questo oggetto e grazie a questo oggetto che colpisce il pensiero e che è Dio; e in questa unità, il pensiero deve trovare la sua immobilità. La contemplazione come esercizio di unificazione e di immobilizzazione del pensiero in Dio è il punto verso cui si orientano tutte queste tecniche della vita monastica. Capite bene, in tali condizioni, che se l'obiettivo del monaco è unificare e immobilizzare i propri pensieri nello sguardo di Dio, in questo 47 CASSIANO, De institutis coenobiorum, IV, 9 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo) [trad. it. cit., p. 115]. 48 ID., Collationes Sanctorum Patrum, XIV, 13: La scienza spirituale. Discorso dell'abate Nestore [trad. it. cit., vol. II, p. 122].

sguardo rivolto a Dio, allora, entro tali limiti, l'ostacolo, il nemico, la cosa che si deve vincere e di cui bisogna sbarazzarsi è la cogitatio nel senso – ricordato peraltro da Cassiano – di co-agitatio49, vale a dire nel senso di moto del pensiero. Tutti questi pensieri molteplici, tutti questi pensieri in movimento che si producono nello spirito costituiscono l'ostacolo principale per chi voglia contemplare Dio. Il maggior problema della tecnica di una spiritualità governata, orientata alla contemplazione, è l'agitazione interna del pensiero. Mentre per la morale antica il problema principale era l'agitazione del corpo e delle passioni per effetto degli eventi esterni, il problema fondamentale della vita monastica non sarà l'agitazione degli affetti a causa degli eventi esterni, ma l'agitazione del pensiero a causa di un moto interiore. Ed è questo che viene analizzato a lungo in un capitolo che – se siete interessati all'argomento – dovete assolutamente, incondizionatamente leggere, che è, a mio parere, assolutamente fondamentale nella storia delle tecnologie di sé nella storia occidentale, nella cultura occidentale: si tratta della ottava Conferenza di Cassiano, che è dedicata alla mobilità del pensiero50. In questo capitolo, in questa Conferenza, si dice che lo spirito è [fondamentalmente mobile]. Peraltro è caratteristico il fatto che Cassiano usi un termine greco, mentre il testo è scritto in latino; utilizza due parole greche che provengono da Evagrio, suo maestro. […] Egli dice che lo spirito è aikinetos e polykinetos51, vale a dire che è sempre in movimento e che compie movimenti svariati in tutte le direzioni: la sua natura è tale che non può restare in ozio. L'idea secondo cui la mente è fondamentalmente mobile comporta un certo numero di conseguenze. 49 Su questo punto, cfr. FOUCAULT, Tecnologie del sé, in Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé cit., p. 44: «Ciascuno fornisce anche un'etimologia, non so quanto attendibile, di cogitationes, il termine latino che traduce logismoi». 50 Si tratta, di fatto, della settima Conferenza (CASSIANO, Collationes Sanctorum Patrum, VII: La mobilità dell'anima e gli spiriti del male. Prima conferenza dell'abate Sereno [trad. it cit., vol. II, p. 270]). 51 Ibid.: «Nous itaque, id est mens, aeikinetos kai polykinetos definitur, id est semper mobilis et multum mobilis» («La mente pertanto, per la stessa condizione della natura umana, non può rimanere oziosa») [trad. it. cit., p. 274].

In primo luogo, l'importante conseguenza che la nozione stessa di cogitatio, corrispondente al greco logismos, diventa una nozione peggiorativa. Il logismos greco era un atto di pensiero, era un ragionamento: era una nozione neutra, o piuttosto positiva52. Al contrario, nei testi della spiritualità cristiana, il termine logismos e il termine cogitatio, che peraltro viene utilizzato soprattutto al plurale, sono sempre pensieri peggiorativi: indicano una sorta di agitazione del pensiero, un pensiero divergente, un pensiero che va in un senso o nell'altro e che impedisce la contemplazione53. Il secondo carattere di questo pensiero, e la ragione per cui è sempre necessario sorvegliarlo, è il fatto che non solo è costantemente agitato e impedisce la contemplazione di Dio, ma che è un pensiero ingannevole su se stesso. Ciò è altrettanto importante. Il problema degli stoici era, infatti, lavorare sul proprio pensiero. Ma per quale ragione? Per evitare che conservassimo nella mente false opinioni. Bisognava impedire che ci ingannassimo sulle cose – sull'ordine del mondo, sulle leggi universali che reggono la natura. Non ci si doveva ingannare sulla physis, non ci si doveva ingannare sui kathekontai. Il problema della spiritualità cristiana non è di sapere se il pensiero si inganni sulle cose. Il problema è piuttosto di sapere se il pensiero si faccia illusioni su se stesso. Cosa significa farsi illusioni su se stesso? Ebbene, il problema era molto semplice – ancora una volta, si trattava di un problema tecnico. Al monaco viene in mente un'idea. Si tratta di un'idea apparentemente buona, ad esempio l'idea di 52 Logismos è derivato da lego (originariamente «radunare, raccogliere, scegliere», da cui «contare, enumerare», come logikos, «concernente la parola, la ragione, logico». Pierre Chantraine lo traduce con «calcolo, ragionamento» (Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Éditions Klincksieck, Paris 1968, vol. II, p. 626). 53 Nello stesso senso, cfr. tra altre la nota integrativa di L. Brottier in GIOVANNI CRISOSTOMO, Sermons sur la Genèse, Les Éditions du Cerf, Paris 1998, p. 373. Nell'opera di Giovanni Crisostomo, ad esempio, logismoi «può avere […] un valore neutro di pensieri […]; un valore positivo di ragionamenti […], segno caratteristico dell'uomo nella tradizione stoica, o più frequentemente una connotazione negativa […] di origine ebraica trasmessa da Origene […] e innestata da Evagrio nella tradizione ascetica in cui logismoi e demoni sono spesso intercambiabili […]. Pertanto, questi logismoi sorti dalle passioni […] designano sia le passioni rappresentate frequentemente dall'immagine di un mare tumultuoso […], sia le opinioni personali, che si oppongono alla fede ecclesiale, in particolare i sistemi degli eretici».

digiunare. Buona idea, che si può dunque accogliere nella mente: infatti, se ci si mette davvero a digiunare, quest'idea potrà aiutare la mente a dirigersi verso Dio; essa dunque fa parte del movimento di convergenza verso Dio. Ma chi può provare che l'idea di digiunare non sia in realtà un mezzo per noi, attraverso il digiuno, di farci valere tra i nostri fratelli monaci, dimostrando che possiamo digiunare più di loro? Chi può provare che l'idea di digiunare non sarà in fondo un mezzo con cui indeboliremo il nostro corpo al punto da non riuscire più a resistere ad altre tentazioni, come quella della golosità? Di conseguenza, questa buona idea di digiunare era in realtà una cattiva idea 54. Bisogna dunque interrogare l'idea, non in termini di verità rispetto alle cose, ma in termini di qualità interna. O piuttosto, bisogna interrogarla su se stessa, per sapere se nasconda in sé qualcosa di diverso da questa banalità buona *. Si tratta, evidentemente, di una differenza fondamentale rispetto all'esame stoico. Arriviamo pertanto a quest'altra domanda: se il pensiero s'inganna su se stesso, perché questo accade? Forse perché il nostro giudizio non era valido? In un certo senso sì, ma non basta. Gli stoici potevano accontentarsi di questa risposta, ma quando il monaco vede sorgere in sé – quando sorprende, mentre sorge in lui fin dal suo primo movimento, dal suo primo emergere – un pensiero come quello del digiuno, deve chiedersi da dove gli venga quel pensiero, perché solo questa risposta potrà garantirgli che il pensiero è buono o non lo è. In altre parole, questo pensiero gli viene da Dio, o gli viene da Satana? Se viene da Dio, sarà una buona idea e non ci saranno illusioni nell'idea che si presenta: il pensiero non si farà illusioni su se stesso. Invece, se viene da Satana, sarà ingannevole. Dunque, come vedete, a caratterizzare l'esame cristiano, l'esame di se stessi, è il fatto che, anziché vertere sugli atti, verte sul pensiero – sul pensiero e sulla mobilità del pensiero. Si tratta, attraverso questo esame, di sapere se il pensiero non si faccia illusioni su se stesso, e […] per decidere se c'è illu54 Su questo esempio, che riguarda Giovanni di Licopoli, cfr. CASSIANO, Collationes Sanctorum Patrum, I, 21 (Propositi e fini del monaco, Discorso dell'abate Mosè) [trad. it. cit., vol. I, p. 93]. * Parola quasi impercettibile, che proponiamo a titolo di ipotesi. È possibile anche che Foucault dica: «questa idea».

sione o no, o se può esserci illusione, si tratta di decidere quale sia l'origine stessa del pensiero. Allora, vedete bene che l'esame di coscienza, se è questo l'obiettivo che si propone – esaminare i pensieri in funzione del potere di illusione che possono comportare e in relazione alla loro origine – avrà una forma molto diversa da quella che si poteva trovare peraltro negli stoici o che si poteva trovare in Crisostomo quando parlava dell'esame vespertino. Capite bene che in tali condizioni – se si devono sorvegliare in questo modo i nostri pensieri nella loro natura propria, nella loro eventuale illusorietà e nella loro origine – non si tratta di attendere la sera per rammemorare le cose, per rammemorare ciò che si fa. Si tratta di rapporto attuale e permanente: una sorta di rapporto verticale attraverso il quale si sorveglia se stessi e si sorveglia costantemente il proprio pensiero. D'altra parte, vedete bene che non può trattarsi di verificare se una certa cosa è conforme a una regola, come nel caso degli stoici; si tratta di scoprire cosa è nascosto in fondo a sé, vale a dire da dove viene il pensiero, qual è la sua qualità intrinseca, se comporta o meno un'illusione. In breve non si tratta più di far emergere, come per gli stoici, la verità delle cose per regolare su di essa il proprio comportamento; si tratta di far emergere quel che può esserci di verità – o di illusione, verità opposta a illusione e non più verità opposta a errore – quel che può esserci di verità o di illusione all'interno del pensiero stesso. Credo che ci troviamo di fronte al momento in cui comincia in Occidente quella che si chiama, che possiamo chiamare, una ermeneutica di sé. Un'ermeneutica di sé che ha come oggetto principale – oggetto che, storicamente, è apparso inizialmente in queste pratiche di ermeneutica di sé – la cogitatio, la sua qualitas e la sua origo, il pensiero, la [sua] qualità e la sua origine. E per comprendere in cosa consista questo esame e quale debba essere la sua forma, Cassiano si riferisce a più riprese a tre paragoni che sono, credo, assolutamente caratteristici di questa attitudine all'esame di sé che verte sul pensiero, sulla sua qualità e sulla sua origine. Per cominciare, abbiamo il paragone con il mugnaio. Dobbiamo essere il mu-

gnaio di noi stessi, dobbiamo essere il mugnaio del nostro proprio pensiero – vale a dire che, esattamente come il mugnaio quando vede arrivare il grano che passerà sotto la mola verifica se il grano è buono o no, se è secco o se è umido, se è marcio o se è sano, allo stesso modo noi, mugnai del nostro pensiero, nel momento in cui la m ola del nostro spirito sta ruotando con un movimento che è appunto quello dell'agitazione stessa dello spirito, dobbiamo a ogni istante cercare di seguire i grani e di individuare i buoni e i cattivi pensieri55. Altra metafora è quella del centurione, il sottufficiale che, vedendo sfilare gli uomini davanti a sé, identifica immediatamente chi è adatto a fare il soldato e chi no, chi può fare l'una o l'altra cosa e chi non ne è in grado, chi gode di buona salute e chi è malato. Noi dobbiamo essere il centurione, il sottufficiale, l'ispettore permanente dei nostri stessi pensieri56. E infine, terza metafora – utilizzata a più riprese – è quella del cambiavalute. Il cambiavalute è colui che, quando gli si portano delle monete, procede a verificarle. Cosa ne fa? Le sottopone alla probatio, alla prova. Ne fa la prova per sapere cosa? Tre cose. Prima di tutto, il metallo è puro? In secondo luogo, il laboratorio da cui provengono queste monete è un laboratorio legittimo, legale, e l'effigie che recano impressa è a sua volta un'effigie legittima? Terza domanda: siamo certi che il peso non sia alterato, che l'usura, la corruzione del metallo, non abbiano indebitamente alleggerito la moneta? Noi dobbiamo essere in permanenza i cambiavalute del nostro stesso pensiero, dei nostri pensieri57. A ogni idea che si presenta, a ogni momento delle nostre cogitazioni, dob55 Ibid., pp. 129-131. Cfr. anche FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., p. 265, e ID., Tecnologie del sé cit., p. 45. 56 CASSIANO, Colletiones Sanctorum Patrum, VII, 5 (La mobilità dell'anima e gli spiriti del male. Prima conferenza dell'abate Sereno) [trad. it. cit., vol. II, p. 276]. Sulla metafora del centurione, cfr. anche FOUCAULT, Tecnologie del sé cit., p. 45. 57 CASSIANO, Colletiones Sanctorum Patrum, 20-22 (Propositi e fini del monaco, Discorso dell'abate Mosè) [trad. it. cit., vol. I, pp. 89-95]. Cfr. anche FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., p. 265, e ID., Tecnologie del sé cit., pp. 45-46. Per un paragone tra la metafora del cambiavalute in Epitteto da una parte e in Evagrio Pontico e Cassiano dall'altra, cfr. ID., L'ermeneutica del soggetto cit., p. 450, e ID., Tecnologie del sé cit., p. 41. Qui non troviamo nessun paragone con il tema del cambiamento di valore della moneta nei cinici che è sviluppato in Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., pp. 219220 e 231-233.

biamo porci la domanda: l'idea è buona? Il suo metallo è puro? Da quale laboratorio proviene – vale a dire, viene dal laboratorio del demonio o dal laboratorio di Dio? E infine, il suo peso è giusto? Non è forse logorata, corrotta – vale a dire, non è forse mescolata a un desiderio cattivo? Questa attività permanente, che fa di noi il mugnaio del nostro pensiero, il centurione delle nostre idee, il cambiavalute di quel che accade in continuazione nel nostro spirito, è quanto la spiritualità cristiana ha definito con una parola che ha conservato per secoli, che è la parola discretio58, la discrezione o il discrimen. La possibilità di vagliare i nostri pensieri: è questo che deve fare, fondamentale, l'esame di coscienza. Vedete che siamo lontanissimi dalla metafora del giudice o dell'amministratore che, con Seneca, la sera, misura gli atti per sapere se sono stati o no conformi alla regola. Qui si ha tutta un'altra tecnica di sé, si entra in tutt'altro sistema di rapporto con sé e in tutt'altro sistema di veridizione. Ma vedete bene che si pone subito un problema, che è il seguente: se a ogni istante noi possiamo essere ingannati su noi stessi, se a ogni istante possiamo scambiare un'idea buona per un'idea cattiva e viceversa, che cosa ci garantirà che questa discretio, questo discrimen, questa attività di discriminazione nei nostri pensieri non sarà a sua volta illusoria? Che cosa ci assicurerà che non ci sia in noi non so quale spirito malvagio che ci inganna continuamente, e che fa sì che nel momento stesso in cui noi crediamo che le cose siano buone, nel momento stesso in cui crediamo che siano vere, in realtà siano false, poiché non cessa di ingannarci? In che modo riusciremo a dominare la piccola ipotesi – che risuona forse

58 Sulla nozione di discretio, cfr. CASSIANO, Colletiones Sanctorum Patrum, I, 20 (Propositi e fini del monaco. Discorso dell'abate Mosè) [trad. it. cit., vol. I, p. 89].

nella mente di quanti, tra voi, hanno fatto studi di filosofia 59 – la piccola ipotesi del maligno dentro di noi? Ebbene, la domineremo attraverso una pratica che è, per l'appunto, quella della confessione. È parlandone che si opererà quel discrimen, quella discriminazione di cui abbiamo bisogno per l'esame della nostra coscienza. Dobbiamo esaminarci tutto il tempo, ma avremo la certezza che, nel nostro esame, non ci inganniamo e che separiamo correttamente 59 Allusione alla prima delle Meditazioni di Descartes: «De iis quae in dubium revocari possunt. Supponam igitur non optimum Deum, fontem veritatis, sed genium aliquem malignum, eundemque summe potentem et callidum, omnem suam industriam in eo posuisse, ut me falleret» («Sulle cose che si possono mettere in dubbio. Supporrò dunque che sia non un vero Dio, sovrana fonte della verità, ma un certo genio maligno, tanto ingannatore ed astuto quanto potente, che abbia impiegato tutta la sua abilità ad ingannarmi» [trad. it. Meditazioni metafisiche, in ID., Opere, Utet, Torino 1981, p. 201]). In questa allusione, coloro che, tra gli ascoltatori, aves sero affrontato studi di filosofia, avranno senza dubbio avvertito un'eco della controversia che oppose Derrida a Foucault a proposito dell'interpretazione della prima Meditazione, che apre il secondo capitolo (Il grande internamento) della Storia della follia. Ricordiamo che Foucault – il quale si propone di «fare la storia di quest'altra forma di follia, della forma per mezzo della quale gli uomini, nel gesto di sovrana ragione che chiude il prossimo in manicomio, comunicano e si riconoscono attraverso il linguaggio spietato della non-follia; [di] rintracciare il momento di questa congiura» (cfr. Prefazione alla prima edizione, in FOUCAULT, Storia della follia nell'età classica cit., p. 41) – sostiene che ci sia per Descartes «un'impossibilità di essere folle, essenziale non all'oggetto del pensiero, ma al soggetto pensante» (ibid., p. 114); nella prima Meditazione – egli scrive – «la follia è esclusa dal soggetto che dubita. Come ben presto sarà escluso che egli non pensi e che non esista» (ibid., p. 115). Derrida ritiene che «la lettura che qui ci viene proposta di Descartes e del cogito cartesiano contiene nella sua problematicità la totalità di questa Storia della follia» (J. DERRIDA, L'écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, p. 52 [trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982, p. 40]); ma non vede che, come scrive Foucault, «fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l'avvento di una ratio» (FOUCAULT, Storia della follia nell'età classica cit., p. 116), evento o avvento che segnerebbe il «decreto cartesiano» (J. DERRIDA, Cogito e storia della follia, in ID., La scrittura e la differenza cit., p. 60). Egli solleva, a proposito di questa tesi una serie di questioni, tra le quali quella di sapere se ciò che Descartes ha detto ha proprio il significato, e il significato storico, che Foucault suppone. Sul significato e la funzione che Derrida attribuisce all'ipotesi del genio maligno nell'interpretazione della prima Meditazione opponendosi a Foucault, cfr. DERRIDA, Cogito e storia della follia cit., in particolare pp. 65-67; e, in maniera critica, FOUCAULT, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco (Appendice II in ID., Storia della follia nell'età classica cit., in particolare pp. 794-795). Perché «il genio maligno e il cogito divengano, secondo il desiderio di Derrida, la vera scena dove si incontra la follia, – scrive Foucault, – occorre cancellare tutto ciò che mostra che l'episodio del genio maligno è un esercizio volon tario, controllato, padroneggiato e dal principio alla fine guidato da un soggetto meditante che non se ne lascia mai sorprendere» (ibid., pp. 797-798), esercizio che ha luogo «dopo che l'esercizio della meditazione ha escluso il rischio di essere folli». Nell'interpretazione «classica» della prima Meditazione, questo momento di esclusione è cancellato, non per disattenzione, ma «per sistema»: un sistema che, tra altre caratteristiche, evita di «analizzare le modalità d'implicazione del soggetto nei discorsi» (ibid., p. 799).

il grano dalla pula, il cattivo soldato dal buono, la moneta autentica da quella falsa, se non smetteremo di parlare. Vale a dire, se diciamo le cose, se diciamo cosa accade nella nostra mente via via che si presenta alla mente. E perché la confessione permette di sfuggire a questo paradosso dell'esame che potrebbe ingannare se stesso? Ebbene, se la confessione permette di uscire da questo paradosso, è per due ragioni, una accessoria, l'altra fondamentale. Quella accessoria è data dal fatto che, parlando al nostro direttore, il nostro direttore potrà darci dei consigli, darci dei pareri, indicarci le preghiere da fare, le letture raccomandate, la condotta da tenere. Là, nei consigli del direttore, abbiamo un punto, un elemento, uno strumento di discriminazione. Ma bisogna notare che questa parte dell'operato del direttore, dei consigli del direttore, è straordinariamente ridotta, se si considerano i testi di Cassiano, [il quale] a questo proposito è molto parco, e praticamente si limita a fornire indicazioni molto schematiche su quelli che potremmo chiamare i rimedi di questa medicina spirituale. Questo perché la vera ragione per la quale confessare permetterà la discretio, la discriminazione, è che la confessione stessa – il solo fatto di parlare, di parlare ad alta voce e di parlare a qualcun altro – è di per sé un atto operatore di discretio. E se la confessione è operatrice di discretio, lo è secondo due modalità, per due ragioni. In primo luogo, perché se i pensieri sono di buona qualità, se la loro origine è pura, se sono monete d'oro autentiche, non faranno fatica a essere confessati; se, al contrario, provengono dal male, se le monete che si presentano al pensiero sono fatte di oro impuro o corrotto, allora faranno fatica a manifestarsi, rifiuteranno di essere detti e tenderanno a nascondersi. La vergogna a confessare è sempre un segno della natura malvagia di quello che si confessa: «Il demonio – cito Cassiano – nonostante tutta la sua astuzia, non riuscirà a ingannare e far cadere il giovane in altro modo, se non convincendolo a nascondere al padre anziano i suoi pensieri per orgoglio o per vergogna. I nostri padri indicano come un segno generale, evidente e dimostrativo della condotta diabolica, quando

noi ci asteniamo per vergogna dal manifestarla al padre anziano» 60. E perché i pensieri si confessano così facilmente quando sono buoni e così difficilmente quando sono cattivi, perché arrossiamo, perché esitiamo? È per una ragione cosmo-teologica, cioè il fatto che un pensiero malvagio viene certamente da Satana. Ora, Satana, angelo della luce, è stato condannato, a causa del suo orgoglio, alle tenebre: il giorno gli è dunque interdetto*. […] Questo legame tra il potere dell'illusione e il sé può avvicinare, fino a un certo punto, il cristianesimo al buddhismo – ma con una differenza comunque importante: il fatto che, nel buddhismo, è il principio stesso dell'individuazione a essere alla radice dell'illusione, mentre nel cristianesimo il principio dell'illusione risiede nell'attaccamento a sé, in una certa modalità affermativa e conservativa del rapporto con sé. Perché? Perché il rapporto con sé, quando ha la forma dell'attaccamento, non è nient'altro che l'effetto della tentazione da parte dell'altro, la tentazione attraverso l'altro che è l'opera del demonio. La terza ragione per cui tutto questo è, credo, importante, è che dobbiamo comprendere bene che l'illusione che ci si è fatti su se stessi, l'illusione che il cristianesimo ha posto ancora una volta non nel corpo, ma nel sé, è assolutamente differente dall'errore a cui gli stoici davano la caccia. Gli stoici volevano fare in modo che non ci si ingannasse sul mondo nelle opinioni. Ora invece non bisogna più ingannarsi su se stessi: è questa la posta in gioco di tale spiritualità e di tale tecnica 61. Si può dunque 60 CASSIANO, De nstitutis coenobiorum, IV, 9 (Le norme suggerite a coloro che rinunciano al mondo) [trad. it. cit., p. 115]. * A questo punto c'è una lacuna che corrisponde a un secondo cambio di nastro di registrazione. È possibile colmarla parzialmente mediante il dattiloscritto depositato all'Imec. Riproduciamo l'estratto relativo, limitandoci a semplici correzioni di ortografia: «[Esso può vivere solo] nell'oscurità della coscienza, negli arcana conscientiae, e pertanto la confessione, traendolo dal suo oscuro labirinto del pensiero lo farà, lo costringerà a confrontarsi con quello che è per lui l'elemento più ostile, vale a dire la luce. E se il diavolo è onnipotente nell'ombra e nella notte della coscienza, è invece impotente nella luce del giorno e nella luce del discorso» (dattiloscritto, lezione del 6 maggio 1981, p. 22). 61 Sull'oggetto e la posta in gioco del controllo delle rappresentazioni nell'esame e nella direzione di coscienza così come sono praticate dagli stoici e dai cristiani, cfr. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto cit., pp. 449-451. Secondo Foucault, si tratta, per gli stoici, di «verificare l'indipendenza dell'individuo rispetto al mondo esterno», per cui le rappresentazioni sono conside-

dire che l'ermeneutica di sé è un'invenzione del cristianesimo. Ciò che il cristianesimo ha inventato non è affatto il disprezzo del corpo, non è affatto il senso del peccato. Ciò che il cristianesimo ha inventato, che ha introdotto, credo, nella cultura antica, è il principio di una veridizione di sé attraverso un'ermeneutica del pensiero. E penso che, a partire da qui, potrà derivare tutta una serie di forme culturali, morali, religiose, filosofiche. Credo inoltre che il cristianesimo, introducendo il principio di una veridizione di sé attraverso l'ermeneutica del pensiero, abbia introdotto una forma di soggetto che il diritto, il pensiero giuridico, la pratica giudiziaria, non hanno mai potuto assimilare. Una delle grandi poste in gioco della cultura occidentale sarà sapere in che modo si possa innestare l'uno nell'altro, in che modo si possa riunire in un unico soggetto il soggetto della veridizione spirituale così come è stato costituito attraverso queste tecniche monastiche, e il soggetto di diritto che peraltro le istituzioni implicano. È [di] questo rapporto tra il soggetto della veridizione spirituale e il soggetto giuridico attorno al problema della confessione – confessione penitenziale e confessione giudiziaria – che cercherò di parlarvi nelle prossime due lezioni*

rate come «l'occasione per rammentarsi di un certo numero di principî veri, principî relativi alla morte, alla malattia, alla sofferenza, alla vita politica, e così via» e, attraverso questa rievocazione, di vedere «se si è capaci di reagire conformemente a tali principî, se sono cioè diventati […] quella voce del padrone che si leva non appena ringhino le passioni, e che sa farle tacere ». Per i cristiani – Foucault si riferisce in questo caso a Evagrio Pontico e a Cassiano – l'intento è «prescrivere un atteggiamento ermeneutico nei confronti di se stessi, consistente nel decifrare la concupiscenza che può sussistere all'interno di pensieri apparentemente innocenti, per riconoscere quelli che vengono da Dio e quelli che giungono dal Seduttore»: «decifrare, al di là delle apparenze, una verità nascosta, e che sarebbe quella del soggetto stesso». * Foucault conclude la lezione rivolgendosi agli ascoltatori così: «Ecco. Perdonatemi se mi sono dilungato. Avete domande o volete andare via subito?».

Lezione del 13 maggio 1981

Caratteristiche dell'exagoreusis nel IV-V secolo. – Rinuncia a sé. – Verità del testo e verità di sé. – Affrancamento e adattamento dell'ermeneutica del testo e dell'ermeneutica di sé nel protestantesimo. – Illusione, evidenza e senso (Descartes e Locke). – Illusione di sé e su di sé e inconscio (Schopenhauer e Freud). – Giuridificazione della confessione nella tradizione ecclesiastica dal IV al VII secolo. – Compenetrazione dell' exagoreusis e dell'exomologesi nelle prime comunità monastiche e di laici. – Caratteri e origini della penitenza tariffata: modello monastico e modello del diritto germanico. – Sacramentalizzazione e istituzione della confessione obbligatoria nel XIII secolo. – Giuridificazione dei rapporti tra l'uomo e Dio. – Forme e significati della confessione nella confessio oris. […]* L'ultima volta, avevo cercato di mostrarvi quella pratica a mio avviso molto singolare, e anche molto importante nella storia della cultura occidentale, che si è sviluppata nelle istituzioni monastiche del IV-V secolo della nostra èra e che Cassiano ha analizzato dettagliatamente nelle Istituzioni cenobitiche e soprattutto nelle Conferenze – la pratica per la quale i Greci usavano abbastanza spesso il termine exagoreusis, che si può tradurre, se volete, con confessione permanente di se stesso. Se ho in* La registrazione comincia con una frase incompleta: «Ci eravamo fermati l'ultima volta, ricorderete...».

sistito su questa pratica dell'exagoreusis è perché mi sembra che, con essa, la confessione entri nella storia della cultura occidentale come una dimensione importante e polivalente di cui ritroveremo gli effetti, gli sviluppi, le conseguenze in una serie di ambiti, che vanno da quello religioso a quello filosofico, a quello giuridico, ecc. In cosa consiste dunque questa pratica dell' exagoreusis, della confessione permanente su se stessi, e perché è importante? Mi sembra importante in primo luogo come tale, per la sua forma e il suo meccanismo interno, che è molto singolare e molto differente, credo, da tutto ciò che si era potuto vedere in precedenza, tanto nella pratica filosofica della morale antica, quanto nei riti penitenziali del cristianesimo. Nella sua forma e nel suo meccanismo interno, ricorderete che l' exagoreusis – la confessione permanente di se stessi – non verte sugli atti. Verte invece sui pensieri – sulle rappresentazioni, sulle immagini, sulle volontà, sui desideri, su quella specie di flusso ininterrotto e sempre agitato che i Padri latini chiamano le cogitationes, i logismoi, quella realtà mobile del pensiero di cui in quel momento si impara a diffidare come di un pericolo interiore e incessante1. 1 Su questo punto, cfr. HAUSHERR, Direction spirituelle en Orient autrefois cit., pp. 152-153: «Ciò che è indispensabile manifestare ai [padri] spirituali non sono i peccati, ma i pensieri, i logismoi. […] Quello che il padre spirituale ha bisogno di sapere, e soprattutto il figlio spirituale di manifestargli, sono le inclinazioni attuali, e queste si lasciano individuare dai “movimenti degli spiriti” senza che ci sia bisogno di ricordare un passato il cui stesso ricordo, troppo dettagliato, può fare più male che bene […] Ciò che al direttore importa sapere, e ancora di più a colui che è diretto manifestare, sono i “movimenti degli spiriti”, le suggestioni, gli impulsi del l'interiorità. Quando questi impeti o questi slanci interiori si sono sviluppati fino all'atto esteriore o al consenso della volontà, la manifestazione al direttore arriva troppo tardi. Bisognerà allora ricorrere alla confessione, e prendere la decisione di non aspettare, la prossima volta. La psicologia degli asceti, infatti, ha distinto, prima di sant'Agostino, i momenti della tentazione. Abbiamo la prosbole, che è senza responsabilità, anaitios […] Vengono in seguito: il syndiasmos, colloquio interiore con la suggestione; in seguito la pale, la lotta contro di essa; questa può concludersi con la vittoria, o con l'assenso, syncatathesis, che è il peccato in atto; ripetuti, questi atti producono il pathos propriamente detto, la passione; e, al culmine di questa, la terribile aikmalosia, la “cattività dell'anima”, ormai incapace di scuotere il giogo del Maligno. L'oggetto proprio della exagoreusis ton bole. Bisogna schiacciare la testa del serpente non appena si mostra; massacrare i figli di Babilonia sin dalla loro più tenera età; svellere la pianta prima che si radichi in profondità: sono le metafore classiche in questa materia. E tutto questo si fa per strategia: vigilanza – nepsis, attenzione, guardia del cuore e dello spirito, preghiera, specialmente invocazione del santo nome di Gesù, ecc. Un elemento essenziale di questa guerra è precisamente il ricorso al padre spirituale».

In secondo luogo, questo tipo di esame proprio dell'exagouresis non si sviluppa nella forma della memoria. Non ho bisogno di dirvi quanto questa forma della rimemorazione fosse importante nella cultura antica o in ogni caso, praticamente, per una grande parte della filosofia greca. L'esame di se stessi non avviene nella forma della memoria. L'esame di se stessi deve avvenire nella forma del controllo permanente, nella forma di una sorta di rapporto verticale tra sé e sé che permetta di sorvegliarsi e di vedere, di verificare, di mettere alla prova tutto ciò che risulta entrare nella coscienza in un determinato momento – in altre parole, essere i censori di se stessi. E ricorderete che abbiamo ritrovato questa immagine della censura che è, in Cassiano, così prossima a quella che Freud, in un'altra dimensione, descriverà in seguito. In terzo luogo, in questo metodo di esame permanente di se stessi, di censura del flusso mobile del pensiero, non si tratta assolutamente di commisurare i propri pensieri a un criterio di verità. Non si tratta di sapere se siano pensieri veri o falsi, opinioni fondate o meno. Non si tratta nemmeno di commisurare i propri pensieri a una legge morale. Si tratta – ed è questo, credo, a essere molto importante – di sapere se questi pensieri non si propongano come altro rispetto a ciò che sono, vale a dire se non siano portatori di illusioni. Non siamo nel mondo dell'errore o della colpa: siamo nel mondo dell'illusione o nel sospetto dell'illusione2. Quarta caratteristica dell'exagoreusis: non si tratta, in questo lavoro che si effettua su se stessi, di determinare se si è colpevoli o no, se si è stati effettivamente responsabili o del tal atto, o del tal pensiero, o del tal desiderio. Si tratta di sapere da dove viene ciò che accade in noi e se ciò che accade in noi viene da Dio, o viene da un altro, o viene dall'Altro per ec-

2 HAUSHERR (ibid., p. 217) cita, fra altri esempi, una lettera di Barsanufio: «Fratello, non lanciarti nel discernimento dei pensieri che ti vengono. Non è alla tua portata. Altrimenti, essi ti agiteranno a modo loro come uno che non conosce la loro astuzia. Se ti turbano, di' loro: Io non so di che specie siate. Dio che vi conosce non vi permetterà di confondermi. Getta davanti a Dio la tua impotenza dicendo: Signore, sono nelle tue mani, soccorrimi e strappami dalle loro mani. Ma confessa al tuo abate il pensiero che in te permane e che ti fa la guerra, ed egli ti guarirà per intercessione di Dio».

cellenza, vale a dire da Satana. Ed è dunque in questa dimensione dell'altro dentro di noi che si dispiega la pratica dell'exagoreusis3. Quinta caratteristica dell'exagoreusis: è indissociabile da una pratica continua di verbalizzazione, poiché di fatto non si può operare questa discriminazione tra i pensieri, non si può testare l'illusione che essi recano in sé e ritrovare l'origine se non mediante una pratica permanente e incessante che consiste nel dire, a mano a mano che le si pensa, le cose che giungono al pensiero. Infine, sesta caratteristica: la ricerca del principio dell'illusione in noi e della radice del suo possibile radicamento nella presenza insidiosa di un altro, non ha il compito di stabilire su di noi un dominio totale e perfetto, com'era obiettivo della saggezza antica. Non si tratta neppure di liberarsi esattamente da questo altro che è in noi, per potere ristabilire noi stessi nella nostra identità. Si tratta di fatto, in questa exagoreusis, di distruggere se stessi, di rinunciare a se stessi, una rinuncia a sé che si trova ad avere in qualche modo due ruoli o a essere in due posizioni contemporaneamente […] Da una parte, se voglio appunto conoscere me stesso, se voglio esercitare su di me questo controllo che è così necessario, bisogna che io rinunci a ogni volontà autonoma, a ogni volontà che sia mia 4; è necessario che io mi sottometta all'altro, offra di dirgli tutto ciò che penso. E grazie a questo, al termine e come effetto permanente di questo lavoro permanente, del tutto sottomesso alla volontà dell'altro, avendo purificato il mio cuore da tutti i pensieri mobili che lo turbano, potrò aprirmi a Dio e non avere altra volontà che la volontà stessa di Dio. Andrò dunque

3 Ibid., pp. 213-214: «Bisogna vegliare continuamente alla porta del proprio cuore, o del proprio spirito, e a ogni suggestione che si presenta domandare: Sei dei nostri, o del partito avverso? E proprio perché, per ipotesi, e per esperienza, ci si sa spesso incapaci di distinguere il lupo dalla pecora – in quanto il diavolo si traveste da angelo luminoso – grazie a questa incessante attenzione non mancheranno mai le domande da porre al padre spirituale». 4 Ibid., p. 161: «... ciò che impone ancora la manifestazione dei pensieri (exagoreusis ton logismon) è questo precetto fondamentale di ogni tendenza alla perfezione: abneget emetipsum. Questo se stesso che bisogna rinnegare si chiama, nella lingua comune degli asceti orientali (e di san Benedetto), la volontà propria. Ekkope to oikeiou thelematos: l'escissione la resezione della volontà propria è una delle massime del monachesimo».

da una rinuncia alla mia volontà a un'altra rinuncia alla mia volontà 5; o piuttosto, ci sarà un processo globale di rinuncia alla mia volontà che mi farà passare dal mondo di Satana a quello di Dio, da un regno all'altro, da una legge all'altra. Credo che qui siamo di fronte a qualcosa la cui stessa forma è importante. Mi sembra che questa exagoreusis sia importante anche per un'altra ragione: per il fatto che possiamo dire di avere, con questa exagoreusis, l'apertura, l'inizio dii quella che potremmo chiamare l'ermeneutica di se stessi. E – cosa che credo di avervi spiegato nella prima lezione6, insomma, che credo di aver cercato di inquadrare – mi sembra che una delle cose assolutamente fondamentali nel cristianesimo sia che si tratta di una religione che comporta due insiemi, due tipi, due modi di obbligo di verità. Da una parte, l'obbligo di prestare fede a una verità che è quella della verità rivelata, che è quella del dogma, che è anche quella del testo. E dall'altra vediamo apparire nel cristianesimo, [sia] attraverso l' exomologesi di cui vi ho parlato quindici giorni fa, sia nell' exagoreusis di cui vi parlavo la settimana scorsa e che vi ho riassunto, un obbligo di verità che è l'obbligo di non credere a un dogma, non una verità in forma di atto di fede, ma un obbligo di verità che assume la forma della necessaria esplorazione di se stessi, della necessaria scoperta di una verità in sé, dell'obbligo fondamentale di dire questa verità. Verità del testo, verità di sé. Verità del testo, verità dell'anima. Ermeneutica del testo, ermeneutica di sé. Mi potete chiedere se si abbia effettivamente il diritto di impiegare le parole «ermeneutica di sé» per parlare delle pratiche di exomologesi o soprattutto di exagoreusis. Credo che sia un problema importante e sul quale bisognerebbe eventualmente soffermarsi. Dico «eventualmente soffermarsi» perché purtroppo, con il tempo di cui disponiamo, la forma stessa della conversazione o piuttosto del monologo, è un po' difficile sof5 Ibid., p. 165: «La paternità spirituale non ha altra ragion d'essere che quella di condurre dallo stato di schiavo alla libertà dei figli di Dio, secondo una vecchissima divisione in tre strade: schiavi, fedeli servitori, figli. Questa felice trasformazione si opera grazie alla totale sostituzione della volontà divina alla volontà umana». 6 Sulla nozione di obbligo di verità, cfr. FOUCAULT, Du gouvernement des vivants cit., lezioni del 6 febbraio 1980 e del 26 marzo 1980.

fermarsi a discutere. Pertanto, indico alcuni punti di riferimento, traccio delle piste e, se questo vi interessa, potrete magari lavorarci sopra o se ne potrebbe discutere in un'altra occasione. Una cosa è importante: il fatto che tra l'obbligo di credere e l'obbligo di scoprire se stesso esiste un'appartenenza, esiste un legame fondamentale; fra il testo e il sé, il cristianesimo ha istituito un legame profondo. Infatti, se posso conoscere me stesso, se posso, a poco a poco, attraverso questa cesura permanente esercitata sul mio pensiero, filtrare le idee buone e quelle cattive, operare la discriminazione necessaria, questo accade nella misura stessa in cui avrò un rapporto stabile e ben fondato con la verità del dogma e con la verità del testo. È all'interno dell'atto di fede […], è nel rapporto con la verità rivelata che potrò [effettivamente] compiere questo lavoro di decifrazione o di rivelazione di me stesso. Ma viceversa, perché io possa aderire in maniera completa e totale alla fede che mi è proposta – o meglio: perché possa effettivamente comprendere l'insegnamento che mi viene impartito, o ancora perché possa comprendere il testo della Scrittura, fino alla lettera – bisogna anche che il mio cuore sia puro, vale a dire che io abbia purificato i miei pensieri e che abbia operato su di me un lavoro consistente nel far affiorare, nel portare alla luce, che è effettuato grazie all'exagoreusis. Dunque, questi due rapporti con la verità si condizionano reciprocamente: io devo conoscere la mia verità per aderire alla verità del testo, ed è la verità del testo che mi guiderà nella ricerca che intraprendo sui segreti della mia coscienza. Abbiamo dunque un legame fondamentale tra lettura del testo e verbalizzazione di sé. Se voglio leggere il testo e comprenderlo, devo verbalizzare me stesso. Mi sembra che, nel cristianesimo, il legame tra lettura del testo e verbalizzazione di sé sia fondamentale. Tuttavia, malgrado questa appartenenza, credo che ci siano due tecniche ermeneutiche completamente diverse. In altre parole, non è lo stesso tipo di interpretazione che sarà messo in atto, almeno nel cristianesimo primitivo, allorché si tratta dell'ermeneutica del testo e allorché si tratta dell'ermeneutica di sé. L'ermeneutica del testo nel cristianesimo primitivo – e questo a partire dai primi secoli

del cristianesimo – aveva fatto ricorso a tecniche d'interpretazione che erano perfettamente elaborate e conosciute, tanto nella tradizione giudaica quanto in quella ellenica. Il testo era oggetto di tecniche d'interpretazione numerose, complesse, e perfettamente acquisite. Per contro, l'ermeneutica di sé, vale a dire la possibilità di scoprire qualcosa che è nascosto in fondo a se stessi, il cammino che ci permette di scoprire non l'ignoto ma il nascosto – che è la definizione dell'ermeneutica in generale – è un procedimento che, per quanto riguarda il sé, non trova – credo – né nella cultura greca né nella cultura giudaica gli antecedenti e gli strumenti di cui disponeva l'ermeneutica del testo. L'ermeneutica del testo era già una pratica culturale consolidata. L'ermeneutica di sé – almeno se la tesi che cerco di illustrarvi è vera, vale a dire se effettivamente si tratta di un'invenzione che ha avuto come ambito di fioritura l'ascetismo e il monachesimo nel IV-V secolo – non disponeva di una tecnica specifica. Ed effettivamente, quando si vede come questo accade nelle prescrizioni e nei regolamenti indicati da Cassiano, o prima di lui da Evagrio, o di cui abbiamo testimonianze negli Apophtegmata Patrum, ci accorgiamo che non c'è una vera e propria interpretazione, che l'ermeneutica di sé passa interamente nell'atto di verbalizzazione. È semplicemente il fatto di poterlo dire, è semplicemente il fatto di dirlo, è ciò che accadrà nell'atto verbale – se arrossisco o non arrossisco, se esito o non esito, se con le mie parole esce il diavolo o se al contrario le mie parole fluiscono senza alcuna drammaticità... È questo che permetterà di effettuare la discretio, il discrimen: che permetterà di dire cosa è bene e cosa non è bene nel mio pensiero, dove esiste illusione, dove non esiste illusione, dove c'è presenza del diavolo, dove non c'è presenza del diavolo. In altre parole, è l'atto verbale in se stesso ad avere valore interpretativo, e nient'altro. Dunque, se volete, abbiamo a che fare con una tecnica relativamente (o del tutto) rudimentale, che è interamente localizzata nell'atto di parola, mentre per il testo, al contrario, erano a disposizione tecniche molto più sviluppate.

La terza ragione per la quale ho insistito su questa exagoreusis è dunque la sua struttura interna, è [il] rapporto tra ermeneutica di sé ed ermeneutica del testo, che mi sembra importante nel cristianesimo, e il fatto che, infine, questa dualità tra ermeneutica del testo ed ermeneutica di sé ha un'importanza fondamentale, a mio parere, in tutta la storia del cristianesimo. Mi sembra che tra questi due tipi di ermeneutiche ci siano sempre stati per millecinquecento o duemila anni una tensione, una relazione, un equilibrio, uno squilibrio che hanno costituito la vita e la drammaticità, almeno una parte della drammaticità, della cultura cristiana. […] Opponendo così nella loro permanenza l'ermeneutica del testo e l'ermeneutica di sé, non penso semplicemente a due forme di pensiero, ma a due tipi di pratiche e a due modi di esperienza, due modi di vivere il cristianesimo. E mi sembra che sarebbe possibile seguire questa opposizione e queste relazioni lungo l'intera storia del cristianesimo. Per tutto il Medioevo è possibile vedere molto bene come – indipendentemente dal ruolo preminente e privilegiato dell'ermeneutica del testo – l'ermeneutica di sé abbia dato luogo a tutta una serie di esperienze spirituali, di forme di misticismo che erano spesso parallele, talvolta divergenti, talvolta anche in contraddizione con le strutture istituzionali del testo autorizzato dall'istituzione. E credo che quanto è accaduto nel XVXVI secolo – la Riforma, o l'insieme dei movimenti che hanno accompagnato, circondato e sorretto la Riforma... mi sembra che si possa appunto cogliere, che si possa vedere il conflitto che esplode tra l'ermeneutica di sé e l'ermeneutica del testo. Mi sembra che nella Riforma assistiamo al rifiuto dell'autorità della Chiesa nella sua struttura istituzionale; è il rifiuto di sottomettere l'ermeneutica che si può praticare sul testo a un'autorità istituzionale che emana dogmi; il rifiuto di sottomettere l'ermeneutica di sé all'autorità giurisdizionale del sacerdote nell'ambito di un'istituzione o di un sacramento come quello della penitenza. L'azione del protestantesimo è consistita anche nell'affrancare tanto l'ermeneutica del testo quanto l'ermeneutica di sé. Ma non si è limitato a questo (cioè ad affrancare queste due pratiche ermeneutiche dall'autorità

della Chiesa, dall'autorità dell'insegnamento o dall'autorità della penitenza). Il protestantesimo ha cercato di adattarle l'una all'altra, di metterle in comunicazione e di fare in modo che ciò che si scopre al fondo di se stessi sia la verità stessa della fede, cioè la verità stessa che è data dal testo. Questa specie di interiorizzazione o di raddoppiamento, di involuzione che fa sì che la verità del testo io possa trovarla in me, e che ciò che trovo in me sia la verità del testo, è il cammino che il protestantesimo ha cercato di seguire per risolvere questa tensione fondamentale del cristianesimo. Ancora una parola prima di chiudere queste considerazioni generali sull'ermeneutica di sé nella cultura occidentale. Mi sembra che, se l'esistenza dell'ermeneutica di sé sia stata così importante nella storia del cristianesimo, lo sia stato anche – cosa che, credo, si dimentica troppo spesso – nella storia della filosofia. Quello che si chiama per convenzione e si studia abitualmente sotto il nome di «relazioni tra la filosofia e la religione» è, in generale, sempre incentrato sui rapporti tra verità rivelata o verità del testo da una parte e verità della ragione dall'altra. Ma mi sembra che di fatto […] – e per tutto il Medioevo, com'è abbastanza evidente – la questione che è stata posta dalla filosofia sia sempre stata la seguente: quali sono i rapporti tra la verità del testo, la verità della ragione e la verità del sé? In ogni caso, mi sembra che molti aspetti della filosofia del XVII secolo possano chiarirsi a partire da questo punto di vista. Ad esempio, che si tratti di Descartes o che si tratti anche della filosofia empirista, in fondo cosa è accaduto nel XVII secolo, se non che la pratica filosofica ha rinunciato, e in modo definitivo, ad assumere come riferimento l'autorità del testo? E quando dico «l'autorità del testo» non penso semplicemente all'autorità del testo rivelato, ma all'autorità di ogni testo che venga trasmesso dalla tradizione culturale occidentale: nessuno di essi è ormai dotato di sufficiente autorità per riuscire a imporre la propria verità. La pratica filosofica deve – com'è evidente in Descartes, e com'è evidente anche negli empiristi inglesi – partire esclusivamente da se stessa, cioè partire dallo stesso filosofo. E di conseguenza si pone in quel momento in modo manifesto il problema della verità del sé: la prati-

ca filosofica, anziché porre la questione dei rapporti tra verità della ragione e verità del testo, sposterà il problema verso la questione dei rapporti tra verità della ragione e verità del sé. Ritroviamo a questo punto il celebre pericolo che ossessiona tutta la questione dell'ermeneutica del sé a partire dalla spiritualità di Evagrio e di Cassiano: non c'è forse in me qualcosa di simile a una potenza di illusione che fa sì che anche quando credo di conoscere la verità io inganni me stesso, non nel senso che farei un errore rispetto alle cose, o rispetto alle verità eterne, o rispetto ai principî della ragione, ma nella ragione in cui esisterebbe qualcosa, una potenza, capace di ingannarmi? Io ingannerei me stesso credendo di vedere con evidenza la verità: come sapete, è proprio il problema cartesiano. E il problema cartesiano ha potuto essere risolto solo escludendo la famosa potenza del genio maligno – un'esclusione del genio maligno che non era resa affatto necessaria da una presunta radicalità filosofica propria a Descartes, ma che era piuttosto una necessità assolutamente culturale iscritta nella storia stessa della cultura occidentale da quando, a partire dal IV e V secolo, il rapporto tra sé e sé era oberato, ipotecato in qualche modo, da questo pericolo dell'illusione, che era stato scoperto, messo in luce, denunciato incessantemente dalla spiritualità cristiana. Non mi faccio forse delle illusioni su me stesso? È l'evidenza del cogito che permette a Descartes di sbarazzarsi di questo pericolo posto, stabilito, indicato dalla spiritualità cristiana. Diciamo che la soluzione empirista, la soluzione di Locke, consisterà nel trovare tutto ciò non nell'evidenza, ma nella sensazione – sensazione che, in virtù del suo rapporto immediato con l'esteriorità, sfuggirà ai pericoli che sono propri dell'interiorità del pensiero. E di colpo avremo queste implicazioni (che caratterizzeranno il pensiero classico, almeno fino a Kant, vale a dire che non c'è più alcun pericolo che io mi faccia illusioni su me stesso): io posso ingannarmi, certamente, ma a ingannarmi saranno errori dei sensi, oppure errori metafisici, o errori di ragionamento. Questa possibilità dell'illusione mia su me stesso si trova ormai scongiurata e sarà reintrodotta nella filo-

sofia occidentale solo dopo la critica kantiana, e in qualche modo grazie a [o] attraverso la breccia aperta dalla critica kantiana, quando Schopenhauer riscoprirà non solo la possibilità, ma l'appartenenza fondamentale tra l'individualità de sé e l'illusione. Mi sembra che sia a questo punto che s'introduce e si radica nel pensiero occidentale il problema dell'inconscio, che Freud andrà a cercare proprio là dove Schopenhauer lo aveva situato. Freud è uno schopenhaueriano – non dobbiamo mai dimenticare che la filosofia del XIX secolo è stata dominata in tutta Europa dalla questione di Schopenhauer, da Schopenhauer e dai problemi che ha posto. Si può dire, in modo molto schematico, che quel che Freud ha fatto – riprendendo la questione dell'illusione di sé su di sé là dove Schopenhauer ne aveva indicato la possibilità a partire dalla critica kantiana – per regolare, per trattare tale questione sia stato l'utilizzare metodi interpretativi che erano appunto i metodi di interpretazione del testo che la tradizione cristiana (anche se non si tratta del suo caso) [o] comunque la tradizione giudaica (nel caso di Freud) avevano già messo a punto nel corso dei secoli. Ricordate che, a proposito dell'exagoreusis, vi avevo segnalato una specie di asimmetria, che mi provava che, da una parte, esisteva un'ermeneutica di sé assolutamente legata all'ermeneutica del testo, ma che, se l'ermeneutica del testo disponeva di tecniche interpretative, l'ermeneutica del sé invece non ne aveva: con Freud – o meglio con Schopenhauer – ritorna dopo Descartes la possibilità, la necessità, l'inevitabilità dell'illusione di sé su di sé; e con Freud vediamo svilupparsi un'ermeneutica di sé che arriverà a disporre di tecniche interpretative. Ecco, in termini molto generali, come, sviluppando alcuni di questi schemi, seguendo alcune di queste piste, sarebbe possibile non tanto reinterpretare la filosofia occidentale quanto piuttosto ripercorrere trasversalmente la storia del pensiero o della filosofia occidentale (preferirei dire la storia del pensiero occidentale); riattraversarla dal punto di vista degli effetti che hanno potuto produrvi le forme ben specifiche di spiritualità che il cristianesimo aveva allestito nel IV-V secolo della sua storia. Ecco,

in breve, un po' la conclusione che avrei voluto trarre la volta scorsa senza avere avuto il tempo di svilupparla, e che ora volevo almeno indicare per cominciare. Dunque, non vorrei adesso riprendere questa storia della confessione – e dell'exagoreusis – nella filosofia o nella cultura occidentale. [Intendo] piuttosto cercare di studiare un po' gli effetti di questa forma della confessione e di questo principio della veridizione di sé, l'effetto di quest'obbligo di dir vero su se stessi: vorrei seguirne gli effetti nell'ordinamento giuridico. Per questo, oggi mi occuperò del problema della giuridificazione del dir vero su di sé all'interno della tradizione e dell'istituzione ecclesiastiche, e in seguito, la prossima volta, studierò alcuni effetti e problemi del dir vero su di sé nell'istituzione giuridica propriamente detta. In primo luogo, giuridificazione della confessione nell'istituzione ecclesiastica*. Quindici giorni fa, mi sono occupato di una forma di veridizione di se stessi – quella che troviamo nei riti di penitenza, riti che erano messi in atto, sviluppati, utilizzati nelle comunità cristiane in generale. Poi, la scorsa settimana, ho studiato l'exagoreusis, vale a dire quella pratica molto differente che consiste nel parlare indefinitamente di se stessi e dei moti del proprio pensiero, pratica che, invece, si sviluppa esclusivamente o in modo privilegiato nelle comunità monastiche. Dunque, exomologes nella penitenza e exagoreusis come pratica ascetica e spirituale nelle comunità monastiche. Queste due pratiche – exomologesi penitenziale, exagoreusis spirituale – in realtà rappresentano due poli tra i quali si dispongono diverse forme graduali molto più che due istituzioni o due pratiche perfettamente distinte l'una dall'altra. Tuttavia, mi sembra che durante i primi secoli – dunque nella prima fase, cioè tra il IV e il VII secolo, si assista poco alla volta a una contaminazione sempre più visibile di queste due forme, e insieme a un adattamento, un adeguamento di ciascuna [di esse], l'un all'interno delle comunità cristiane, [l'altra] all'inter* Foucault si rivolge al pubblico come segue: «Se volete... Bene, chiedo scusa, ho fatto una specie d'introduzione piuttosto lunga, conclusione-introduzione. Volete che ci fermiamo cinque minuti per discutere di questo, oppure volete che vada avanti? Scusate? Continuare? Sì? Bene, d'accordo».

no delle comunità monastiche. Un adattamento che indica già una specie di passaggio a forme giuridiche. [1.] Cominciamo dalla cosa di cui vi ho parlato l'ultima volta, cioè l'exagoreusis nelle comunità cristiane. È del tutto evidente che la pratica che consiste, ancora una volta, nell'essere obbligato a dire al proprio direttore spirituale tutti i moti del proprio pensiero, non può essere che una sorta di programma ideale, beninteso perfettamente irrealizzabile. Quando dico che è perfettamente irrealizzabile, non significa né che questa regola sia stata dimenticata, né che l'esistenza di tale principio generale non abbia funzionato in qualche modo da matrice rispetto a un certo numero di altre pratiche. Il principio, in particolare, di un'apertura del cuore – il principio di una direzione spirituale sicuramente necessaria ai novizi, ma in fondo a tutti i monaci – continua a essere mantenuto: lo ritroveremo in tutte le istituzioni monastiche dell'alto Medioevo e del Medioevo in generale. Considero due esempi, uno noto, l'altro meno. Il più noto è naturalmente quello della Regola benedettina stabilita in Occidente, la quale pone come principio che sia una grande consolazione nella vita – vi cito una delle redazioni di questa regola benedettina – avere cui aperias pectus tuum7 (qualcuno cui aprire il tuo cuore), qualcuno con il quale arcana participes8 (che deve partecipare con te ai segreti della tua coscienza) e […] al quale tu devi confidare secreta cordis tui9 (i segreti del tuo cuore). L'altro è un testo che si rivolge ad alcune comunità femminili (è la Regula

7 Questo estratto, che Foucault sembra citare a memoria, è tratto non dalla Regola di san Bene detto, ma dal De officis ministrorum libri tres di sant'Ambrogio di Milano (libro III, 23, 131). Il testo originale dice: «Solatium quippe vitae huius est, ut habeas cui pectus aperias tuum, cum quo arcana partecipes, cui committas secretum pectoris tui». 8 Ibid. 9 Ibid.

ad virgines, che è attribuita a san Donato e risale al VII secolo 10), in cui si dice: Tra tutte le altre osservanze della regola, sopra ogni cosa esortiamo le sorelle […] a dedicarsi con zelo assiduo e incessante alla confessione di ogni pensiero, di ogni parola inutile, di ogni opera, del più piccolo turbamento dello spirito (commotio animi), ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni momento (omnibus diebus, omnibus horis, omnibus momentis) e niente sia nascosto alla madre spirituale […] nemmeno i minimi pensieri (parva cogitata) vanno trascurati nella confessione11.

Vedete dunque che la regola si mantiene, intendo la regola dell' exagoreusis. Ma si mantiene come una specie di traguardo ideale, di fuoco al quale avvicinarsi e che di fatto, concretamente, assumerà tutta una serie di forme, come quelle dell'esame regolare di coscienza la sera e la mattina, o talvolta a determinate ore del giorno, la confessione dei peccati al proprio direttore spirituale, rapporti periodici con il direttore, conversazioni. Ma al di là di tutto questo, e della necessità di adattare questa regola, di per sé impossibile e insostenibile, dell'exagoreusis completa, c'è tutta una serie di altri fattori che hanno condotto, nell'ambito delle stesse 10 La Regola di san Donato, stabilita verso il 655, è una delle due regole elaborate in Gallia per le donne. Comprende 77 capitoli, 43 dei quali direttamente ispirati alla Regola di san Benedetto, mentre gli altri si richiamano alla Regola di san Cesario e a quella di san Colombano. Su questo punto, cfr. M. GAILLARD, Les origines du monachisme féminin dans le nord et l'est de la Gaule (fin Vie siècle – début VIIIe siècle), in CERCOR (Centre européen de recherches sur les congrégations et ordres religieux), Les religieuses dans le cloître et dans le monde des origines à nos jours (atti del secondo convegno internazionale del Cercor, Poitier, 29 settembre – 2 ottobre 1988), Publications de l'Université de Saint-Étienne 1994, p. 50. [Per la traduzione italiana cfr. L. CREMASCHI (a cura di), Regole monastiche femminili, Einaudi, Torino 2003, pp. 173222 sgg.]. 11 Regola di san Donato, cap. XXIII: «Inter caeteras regulae observantias hoc magis super omnia tam iuniores quam etiam seniores monemus sorores, ut assidue et indesinenti studio tam de cogitatu, quam etiam de verbo inutili, vel opere, seu aliqua commotione animi, confessio omnibus diebus, omnibus horis, omnibus momentis semper donetur; et matri spirituali nihil occultetur […] Ergo nec ipsa parva a confessione sunt negligenda cogitata, quia scriptum est: Qui par va negligit, paulatim defluit (Eccl., 19)», in Patrologia Latina cit., vol. LXXXVII: Scriptorum ecclesiasticorum qui in VII saeculi secunda parte floruerunt opera omnia, Paris 1863, p. 282 [trad. it. cit., p. 195].

pratiche monastiche*, delle istituzioni monastiche, delle comunità monastiche, […] ad altre pratiche che sempre più si spostavano si orientavano verso tipi di pratiche quasi giuridiche. Per cominciare, non si deve dimenticare che in Oriente, in Egitto, i monasteri di tipo pacomiano avevano […] una forma, un obiettivo, un tipo di organizzazione molto diversa da quella di cui Cassiano può darci testimonianza – molto diversa in ogni caso da quelle comunità che avevano un ruolo, che si davano un obiettivo essenzialmente contemplativo. I monasteri pacomiani sono, prima di tutto, monasteri di poveri. A popolarli sono fellah egiziani, per i quali gli esercizi spirituali sono evidentemente qualcosa di abbastanza difficile da apprendere. Sono persone che hanno un problema da risolvere, che è quello della vita e della sopravvivenza: il problema della mendicità. Come si riuscirà a vivere? Bisogna mendicare o lavorare? E la regola pacomiana imporrà appunto il lavoro anziché la mendicità, compiendo una delle scelte fondamentali nel monachesimo cristiano fino alla ricomparsa degli ordini mendicanti con san Francesco. Lavoro, dunque. E nello stesso tempo, con il numero molto rilevante di monaci che facevano parte della comunità, si ha naturalmente la necessità di un'organizzazione sul modello della colonia o di tipo militare: organizzazione militare con obblighi di lavoro, orari, gruppi di dieci con dei superiori – in breve, tutto un sistema amministrativo che si sta allestendo all'interno delle comunità monastiche. I monasteri benedettini che conosciamo in Occidente hanno le stesse caratteristiche dei monasteri pacomiani, fino a un certo punto, con due caratteristiche più particolari. Da una parte, un agostinismo che è stato la vera ragione per la quale Cassiano è stato in parte dimenticato. Cosa significa agostinismo? Significa che si diffiderà di tutto quello che poteva essere considerato in quel momento come un residuo di origenismo, vale a dire l'idea che si possa, da soli e mediante un'azione spirituale su di sé, assicurare la propria salvezza e purificare il proprio cuore. Con l'agostini* Foucault si corregge. Sembra che non volesse dire «pratiche monastiche», ma «istituzioni, comunità monastiche».

smo – cioè l'idea che non ci si può salvare in nessun modo senza la grazia di Dio – è ben evidente che tutto quanto è assimilabile all'esercizio spirituale perderà un poco o una gran parte della sua efficacia rispetto alla garanzia della salvezza. E di colpo, in questi monasteri impregnati di agostinismo, il problema della purificazione di se stessi, il problema della santificazione di sé, questo cammino volontarista attraverso le esperienze spirituali verso la perfezione, sparirà a vantaggio di un lavoro che sarà imposto, organizzato, regolamentato. E se si pensa che all'agostinismo si affiancava un ruolo economico e sociale molto importante nei monasteri benedettini a partire dal primissimo Medioevo – insomma, dalla fine dell'Antichità, per tutto l'alto Medioevo – si vede bene perché, alla fine, i monasteri benedettini si sono messi a funzionare secondo un modello molto diverso da quello di cui Cassiano poteva fornire un'idea. Il lavoro diventa un'attività fondamentale – naturalmente con un valore spirituale, poiché fino a un certo punto il lavoro permette di evitare la dispersione dei pensieri, una delle condizioni della contemplazione, e [poiché] il lavoro impone anche all'individuo un'umiltà che risulta necessaria. Ma il lavoro è anche, certamente, lo strumento di indipendenza della funzione liturgica assicurata dai monasteri; dal lavoro dipende inoltre tutta l'importanza economica di queste comunità, che si manifesta e si esercita attraverso tale tipo di regolamentazione, e attraverso ciò passa tutto un genere di disciplina che impone regolamentazione, gerarchia, sorveglianza e, ovviamente, sanzione delle colpe. Ed è così che a poco a poco – abbastanza velocemente, in fondo – nelle regole monastiche, soggiacente al principio generale della confessione permanente a un altro, troviamo una codificazione sempre più serrata delle colpe da non commettere, delle confessioni da fare sulle proprie colpe, e delle punizioni che vi devono corrispondere. In secondo luogo, consideriamo l'altra forma in cui la verità si manifesta, vale a dire quella che troviamo nell'exomologesi, nei rituali di penitenza: ricorderete che questi obblighi di verità non consistevano affatto nell'ammettere, come nell'exagoreusis, il moto perpetuo dei pensieri, ma

nel manifestarsi globalmente per ciò che si è, vale a dire come peccatore. Quando si erano commesse colpe gravi, o quando si sentiva gravare sulla propria vita il peso generale di tutti i peccati, si assumeva lo statuto di penitente e si cercava di affrancarsi dal peso dei propri peccati mostrandosi a tutti nello stato di peccatore. Questo statuto penitenziale era evidentemente tanto difficile da gestire e da mettere in atto quanto lo era la regola della confessione permanente nelle comunità ecclesiastiche. [Da una parte], questo statuto penitenziale era infatti molto pesante, perché quando l'individuo era diventato penitente si trovava isolato rispetto all'insieme della comunità, con tutti gli inconvenienti spirituali – e tutti gli inconvenienti sociali ed economici – che questo poteva implicare. Peraltro veniva messo al bando dalla stessa società; in ogni caso, c'era un certo numero di cose che non poteva fare, come ad esempio sposarsi; e se era sposato, non poteva avere rapporti sessuali con la moglie... In breve, interveniva un invalidamento dell'individuo a partire dal momento in cui acquisiva lo statuto di penitente, e tale statuto non durava alcuni giorni o alcune settimane: la grande drammaturgia penitenziale di cui vi ho parlato si estendeva in generale a interi anni. D'altra parte, il fatto che lo statuto penitenziale fosse così gravoso faceva sì che spesso le persone, anziché fare penitenza, anziché assumere lo statuto di penitenti quando avevano commesso un peccato, dato che si trattava di un grande peccato, preferissero aspettare la fine della loro vita e il momento in cui sentivano di essere veramente arrivati all'estremo per assumere lo statuto di penitenti – il che, ai loro occhi, garantiva la salvezza e consentiva di non essere mortificati troppo a lungo in vita da uno statuto in effetti piuttosto ingombrante. Terzo tipo di inconveniente era il carattere pubblico dello statuto di penitente, che faceva sì che tale statuto pubblico di penitenza fosse naturale, accettabile quando la colpa era di per sé scandalosa e pubblica; [per contro], quando la colpa era segreta, lo statuto pubblico di penitente poneva nei confronti della comunità un certo numero di problemi, di motivi di scandalo, po-

tremmo dire (la penitenza stessa faceva scandalo, rivelando la colpa che fino a quel momento non era stata conosciuta). In breve, tutto questo ha condotto – e abbastanza presto, ne abbiamo qualche segnale già verso il IV-V secolo – a una trasformazione abbastanza rilevante nell'economia generale di quello che potremmo chiamare il regime della penitenza nelle comunità cristiane. Da una parte, si è cominciato a prendere l'abitudine di distinguere penitenza pubblica e penitenza privata. Si è stabilito questo principio: alle colpe pubbliche corrisponderà una penitenza pubblica, mentre alle colpe segrete si attribuirà una penitenza che sarà a sua volta una penitenza privata (penitenza privata che, beninteso, comporta una confessione o al vescovo o al presbitero, che decide per un tipo di compensazione che può essere il digiuno, o l'astinenza sessuale, o la preghiera, o eventualmente il pellegrinaggio – un certo numero di penitenze, di compensazioni che saranno la reazione, la risposta e l'equivalente della sanzione a questa colpa segreta). E in connessione con questo, accanto alla difficoltà di gestire lo statuto generale della penitenza, vediamo estendersi progressivamente alcune pratiche di direzione spirituale piuttosto simili a quelle che si ritrovavano nelle comunità monastiche, ma che diventeranno uno strumento di commutazione, una forma intermedia, una forma attenuata, quando non si potrà chiedere all'individuo di assumere lo statuto di penitente. Ed è così che troviamo questa definizione – risalente come tale al IV secolo – nell'Oriente cristiano: è il testo in cui Gregorio di Nazianzo mostra bene […] come la direzione spirituale, pratica ascetica, pratica essenzialmente destinata alle comunità monastiche, si stia diffondendo nelle comunità cristiane in generale. Questo testo di Gregorio di Nazianzo è molto importante, poiché sarà citato continuamente fino al XVII secolo, quando si parlerà della direzione di coscienza come techne technes, arte delle arti. La famosa espressione techne technes, che Edipo pronuncia – o meglio, che Sofocle mette in bocca a Edipo per designare il potere politico: la techne technes, quell'arte tra le arti che permette di dirigere gli uomini e di guidare la

loro condotta – è ora applicata alla direzione spirituale. Gregorio di Nazianzo scrive: Mi sembra che sia l'arte delle arti e la scienza delle scienze a guidare l'uomo, il più mutevole e il più complesso degli animali. Ci si potrebbe rendere conto di ciò paragonando la cura delle anime alla cura dei corpi e apprendendo quanto quella è laboriosa, e quanto ancor più laboriosa è la nostra, e più preziosa, sia per la natura della materia che tratta, sia per il potere della conoscenza che implica, sia per lo scopo della sua attività12.

Segue un lungo parallelo tra la medicina e la direzione spirituale. E il paragrafo termina in questo modo: Non richiedono, infatti, i medesimi ragionamenti né i medesimi impulsi la femminilità e la virilità, la vecchiaia e la giovinezza, la povertà e la ricchezza, lo speranzoso e il disperato, l'ammalato e il sano, chi governa e chi è governato, […] coloro che sono sposati e i celibi, […] coloro che sono della città e coloro che vengono dalla campagna, coloro che sono ingenui e coloro che sono scaltri […] le anime si curano con vari principî e con varie educazioni. […] la parola conduce gli uni, gli altri si fanno dirigere dall'esempio, gli uni necessitano di sproni, gli altri di freni. […] Ad alcuni giova la lode, ad altri il rimprovero […] questo rimprovero si applica agli uni riprendendoli in pubblico, agli altri ammonendoli in privato13.

12 GREGORIO DI NAZIANZO, Oratio, II, 16 [trad. it. Tutte le orazioni, Bompiani, Milano 2000, p. 19]. L'estratto citato è commentato in B.E. DALEY S.J., Gregory of Nazianzus, Routledge, New York 2006, pp. 54 e 206, nota 234. Sulla guida delle anime come arte delle arti e scienza delle scienze in Gregorio di Nazianzo, cfr. CH.A. BEELEY, Gregory of Nazianzus on the Trinity and the Knowledge of God. In Your Light We Shall See Light , Oxford University Press, New York 2008, pp. 241-247. Secondo questo autore, Gregorio di Nazianzo chiama techne «un'arte o mestiere con propri metodi di valutazione, una scienza o una professione basata su un corpus specifico di conoscenze ( episteme)» (ibid., p. 242). Egli precisa in nota che, nel greco antico, episteme si riferisce per lo più a una competenza pratica o professionale e alla comprensione che l'accompagna, anziché alla conoscenza in generale: quest'ultimo significato è stato sviluppato da Platone e da Aristotele, e da allora il termine è riferito a una conoscenza scientifica, in opposizione a doxa, che designa l'opinione (ibid., p. 242). 13 GREGORIO DI NAZIANZO, Oratio, II, 28-30 [trad. it. cit., pp. 27-29].

Ecco cosa diceva Gregorio di Nazianzo nella seconda delle sue orazioni. Si tratta di un testo estremamente interessante, perché vediamo bene che non si rivolge a una comunità monastica: esso fa della direzione spirituale una sorta di funzione pastorale generale che ogni pastore, ogni presbitero, ogni vescovo, tutti coloro che in generale hanno una responsabilità nei confronti di una qualunque comunità, devono esercitare. Io credo che, con lo sviluppo della funzione pastorale all'interno delle comunità cristiane, si assista a una perdita di importanza del rituale dell' exomologesi, a una sua modifica, ammorbidimento, addolcimento, mentre si diffonde la direzione spirituale. Abbiamo dunque un movimento duplice. Nelle comunità monastiche, la difficoltà di applicare la regola della confessione permanente porta alla penetrazione di altre tecniche – in particolare, la tecnica di punizione in un certo senso individuale della colpa, una volta che è stata commessa. E viceversa, nelle comunità non monastiche, vediamo che il principio dell'exomologesi si attenua: all'obbligo, per coloro che hanno peccato, di assumere lo statuto di penitente, vediamo sostituirsi a poco a poco, vediamo questo obbligo affiancato da un altro, una penitenza adattata, adeguata alle esigenze della direzione spirituale, commisurata all'individuo che ha commesso la colpa e alla colpa commessa. Diciamo, approssimativamente, che si sono costituiti due grandi centri. Uno, il convento, la comunità monastica, centro insieme spirituale ed economico la cui struttura comunitaria è diventata sempre più forte e che ha infine ricevuto un'organizzazione regolamentare rigorosa: al suo interno, le pratiche di direzione spirituale sono state orientate nel senso di una sorta di codificazione delle condotte e delle sanzioni. In secondo luogo, l'altro centro, quello della comunità dei laici sotto la direzione del vescovo e dei presbiteri, che era un centro pastorale e amministrativo nello stesso tempo, e dove la struttura comunitaria era molto meno forte che nei monasteri; in esso la pratica della penitenza si è giuridificata in un altro senso, attraver-

so una sorta di contaminazione con le procedure giudiziarie e amministrative. Abbiamo dunque in queste due forme una compenetrazione, una contaminazione reciproca, una tendenza a omogeneizzarsi fino a un certo punto, certamente senza che il dimorfismo tra queste due forme di vita sia mai soppresso, poiché è stato al contrario una delle grandi dimensioni del cristianesimo, per lo meno del cristianesimo cattolico. Sono due le cose interessanti. Da una parte, tanto nelle comunità monastiche quanto nelle Chiese, non è possibile far parte della comunità senza un obbligo di verità, di verità su se stessi, di verità su se stessi che è legata a un rapporto di dipendenza specifica con qualcuno che è altro. E in secondo luogo, in queste due forme di comunità, questi obblighi di verità […] da formulare a qualcun altro s'impregnano l'uno all'altro, e si tende, poco alla volta, a qualcosa che consiste nell'obbligo di confessare colpe definite da un codice, e che verranno sanzionate in funzione di questo stesso codice. [2.] Questo movimento, che dura dal IV al VI-VII secolo, sarà allora moltiplicato, intensificato, a partire dal VII secolo, quando appare […] all'interno delle istituzioni cristiane quella che potremmo chiamare la prima grande giuridificazione della penitenza, vale a dire la penitenza tariffata. Suppongo che molti di voi sappiano di cosa si tratta: è una forma che ha iniziato a diffondersi a partire dal VII secolo, e i cui agenti di diffusione sono stati i monaci irlandesi, il cui ruolo è stato capitale nell'evangelizzazione dell'Europa occidentale, di una parte della Gallia e anche di una parte della Germania. La penitenza tariffata ha questo di particolare. In primo luogo, è una penitenza che si esercita, che deve essere praticata quando una colpa è stata commessa: la penitenza tariffata risponde dunque in un certo senso alle colpe punto per punto; a una colpa deve corrispondere una penitenza. In secondo luogo, e come conseguenza, cosa assolutamente nuova, la penitenza può essere reiterata: mentre la grande exomologesi – il grande statuto penitenziale che veniva imposto un tempo ai grandi peccatori – non poteva essere iniziata da capo (si diventava

penitenti e lo si restava sino alla fine della propria vita; oppure, se si era riconciliati, non era più possibile assumere di nuovo in seguito lo statuto di penitenti, non si poteva che essere esclusiva dalla comunità, essere scomunicati), nella penitenza tariffata, invece, quante saranno le colpe che si commetteranno, tante saranno le penitenze che si potranno, o si dovranno, adempiere. Si tratta, com'è evidente, di una cosa assolutamente fondamentale in questa storia della giuridificazione: siamo estremamente lontani da tutto quanto fosse mai esistito fino al quel momento, sia sotto la forma di exomologesi, sia sotto la forma di exagoreusis. Qual è l'origine di questa penitenza tariffata? È chiaro che ce ne sono due. Da una parte, un modello monastico, che è proprio quello di cui vi parlavo poco fa. A mano a mano che i conventi diventano comunità rigidamente regolamentate, con una precisa funzione economica – o in ogni caso significativa – con strutture gerarchiche permanenti, con sistemi di sorveglianza e una regolamentazione permanente della vita, era evidente che non era possibile funzionare senza che fosse definito un certo numero di colpe, e senza che fossero definite anche le sanzioni che dovevano rispondere alle colpe. Se questo modello della regolamentazione monastica si diffonde, accade per una ragione molto semplice: quando qualcuno, un laico, aveva commesso un peccato grave e voleva fare penitenza e assumere lo statuto di penitente, doveva poteva farlo e condurre la vita di penitente se non nel monastero? Dunque, nel momento della propria vita in cui si voleva riparare una colpa grave, si andava in convento e là i monaci proponevano a coloro che volevano fare penitenza non certo di assumere lo statuto penitenziale, che peraltro era conferito esclusivamente dal vescovo, ma piuttosto punizioni analoghe alle punizioni regolamentari che si potevano trovare nei monasteri. Il digiuno, ad esempio, o le genuflessioni, oppure non dormire per un certo tempo per cantare salmi – punizioni appunto di tipo monastico. D'altra parte, l'altro modello che interviene, anch'esso molto importante e che ci fa avanzare molto nella storia di questa giuridificazione, è naturalmente il modello del diritto germanico. È il modello del diritto

germanico, perché, come vediamo benissimo... in questa idea che, quando si è commesso un peccato, bisogna offrire una compensazione che permetterà di riscattare il peccato, ritroviamo molto chiaramente il principio del diritto germanico secondo cui una colpa può sempre essere riscattata se si dà una compensazione a colui al quale si è recato danno o a colui che si è offeso. E proprio come questo riscatto funge da punizione e ha in un certo senso due facce – si soddisfa colui che si è offeso e si subisce un castigo – allo stesso modo, alla colpa che si è commessa di fronte a Dio, si risponderà con una penitenza che sarà compensazione per Dio e castigo per il peccatore. Ritroviamo la medesima struttura. Il modello germanico si ritrova nel sistema della penitenza tariffata anche per questo aspetto: ora esiste una proporzionalità calcolata e stabilita tra il peccato e la compensazione che gli si deve dare. Ricorderete molto bene che nell'exomologesi, di cui vi parlavo quindici giorni fa, non c'era alcuna proporzionalità: si era commessa una colpa o ci si sentiva peccatore; ebbene, si doveva mostrare nella maniera più drammatica e più intensa possibile quanto si provasse rimorso per il proprio peccato. E più si esagerava, più ci si rotolava nella polvere, più si digiunava, più si piangeva e si supplicavano gli altri di contribuire con le loro preghiere alla nostra salvezza, più si avevano effettive possibilità di essere salvati – ma in un certo senso proporzionali alla volontà che si aveva di essere salvato, e non alla gravità della colpa. Invece, con la penitenza tariffata, si ha una codificazione come quella che si può trovare nel diritto germanico: ad esempio, quando un chierico aveva rubato un capo di bestiame, i penitenziali del VII-VIII secolo dicono che deve fare penitenza e che la penitenza deve consistere in un anno di regime a pane e acqua, tre anni invece a pane e acqua e un anno senza vino né carne se il chierico aveva ucciso senza premeditazione né odio. Terza caratteristica che avvicina la penitenza tariffata al diritto germanico è che anche il castigo può essere riscattato. Questo è possibile perché le penitenze erano evidentemente molto pesanti ed esisteva un sistema di transazione. Proprio come nel diritto germanico, si poteva tran-

sigere con la persona offesa dicendo: «No, è davvero un po' troppo caro», così come si poteva dire a Dio o al monaco che lo rappresentava che non era possibile mettere in atto quella penitenza, ma che era possibile sostituirla con qualcosa d'altro; ed esisteva un codice di sostituzione. Ad esempio, quando si esitava a praticare una penitenza di un anno intero (penitenza nel senso di escludere vino e carne, di limitarsi a pane e acqua credo per almeno tre giorni la settimana, astinenza sessuale), quando lo si trovava troppo gravoso, c'era un sostituto, una area, che veniva rinchiuso per tre giorni nella tomba di un santo senza cibo né bevande, e persino senza poter dormire, a cantare salmi per tutti e tre i giorni. Oppure, ad esempio, anziché un digiuno speciale, si potevano recitare cento salmi facendo cento genuflessioni; o ancora, si potevano cantare per tre volte cinquantasette cantici. Esisteva dunque tutto un sistema di riscatto che ci introduce molto chiaramente in un sistema che è di ordine giuridico. Infine, quarta caratteristica importante di questa penitenza tariffata, che mostra bene in che modo, attraverso quale scambio si compie tale giuridificazione, è il fatto che le penitenze, le compensazioni imposte dalla Chiesa o dalle comunità ecclesiastiche, s'intrecciano con le pene civili; e spesso troviamo nei penitenziali compensazioni che sono manifestamente civili e religiose insieme. Per esempio, nel penitenziale di san Colombano14, leggiamo: «Se un chierico commette un omicidio […] faccia penitenza con dieci anni di esilio» – siamo nell'ordine della penitenza, della compensazione. Dunque: «a condizione che renda soddisfazione ai parenti della vittima svolgendo il ruolo di figlio e dicendo: “Farò per voi qualunque cosa vogliate”» – vediamo che la Chiesa vigila a che effettivamente la compensazione legale sia […] versata, ma […] questa esigenza fa parte della compensazione. Dunque «darà ai genitori la compensazione legale dovuta [per] la vittima. Si metterà al servizio del padre e della 14 Le opere di san Colombano (600 ca) sono state raccolte nel 1626 da P. Fleming e pubblicate da Migne, cfr. Patrologia Latina cit., vol. LXXX, pp. 209 sgg.; il Penitenziale è stato pubblicato una prima volta nel 1667, una seconda volta ibid., pp. 223 sgg. [trad. it. SAN COLOMBANO, Penitenziale, in ID., Le opere, Jaca Book, Milano 2001]. Il testo è diviso in due parti, la prima relativa ai peccati dei monaci, la seconda relativa ai peccati dei chierici e dei laici.

madre»15 – anche questo proviene direttamente dal diritto germanico. O ancora, «se un laico, non casualmente, in una rissa sparge sangue o ferisce il suo vicino […] sia costretto a risarcire in proporzione al danno arrecato; se è nell'impossibilità di farlo, innanzitutto si sostituisca nel lavoro a colui al quale ha arrecato danno, finché questi è inabile» 16. Dunque, come vedete, abbiamo un intreccio di pene civili e canoniche, o civili e religiose. Di fatto, ritroviamo qui un fenomeno che si delineava già in sant'Agostino o all'epoca di sant'Ambrogio: vale a dire, il fatto che la Chiesa aveva ripreso una parte non trascurabile delle funzioni giurisdizionali che un tempo erano appannaggio delle autorità civili. E di conseguenza la Chiesa, diventando potenza giurisdizionale, assicura, serve da legame tra strutture giuridiche civili e queste forme della penitenza, che originariamente ne erano molto lontane, se si considerano l'exomolgesi e l'exagoreusis così come ve le ho descritte. Vedete dunque in che modo avviene questa contaminazione. In una pratica come quella della penitenza tariffata, evidentemente, la forma di penitenza implica procedure molto diverse da quelle che si potevano trovare tanto nella exomologesi quanto nell'exagoreusis: non si tratta più di una grande drammaticità totale, non si tratta più di dire tutto ciò che si pensa. Non che tutto sia scomparso. In primo luogo, bisogna ricordare che le pratiche della penitenza pubblica, le grandi exomologesi così come ve le ho descritte, non scompariranno per un certo numero di casi gravi, con statuti particolari: l'esclusione da certe liturgie, manifestazioni esteriori e 15 Ibid., cap. I [trad. it. cit., pp. 357-359]: «Se un chierico commette un omicidio uccidendo un suo vicino, faccia penitenza con dieci anni di esilio. Dopo venga riaccolto in patria, se avrà compiuto scrupolosamente la penitenza a pane e acqua – e di ciò sarà garante il vescovo o il sacerdote al quale è stato affidato per il periodo della penitenza – a condizione che renda soddisfazione ai parenti della vittima svolgendo il ruolo di figlio e dicendo: “Farò per voi qualunque cosa vogliate”. Se però non rende soddisfazione ai parenti dell'ucciso, non sia mai riaccolto nella terra natale, ma vada errando, fuggiasco, come Caino». 16 Ibid., cap. XXI [trad. it. cit., pp. 367-369]: «Se un laico, non casualmente, in una rissa sparge sangue o ferisce il suo vicino, o gli provoca una menomazione, sia costretto a risarcire in pro porzione al danno arrecato; se è nell'impossibilità di farlo, si sostituisca nel lavoro a colui al quale ha arrecato il danno, finché questi è inabile, e cerchi un medico e, dopo che il malcapita to si sarà completamente ristabilito, faccia penitenza a pane e acqua per quaranta giorni».

violente di umiliazione e di macerazione. Queste penitenze pubbliche, per un certo numero di casi, resteranno in vigore fino al XIII, XIV, XV secolo persino – si avrà peraltro anche una gerarchia tra le penitenze solenni, le penitenze pubbliche e le penitenze private. Dunque, la pratica dell' exomologesi continua, ma diventa sempre più marginale, e sempre più riservata a un certo numero di casi del tutto particolari. Ma […] i rituali stessi di questa penitenza privata, che ora è così giuridificata nella sua forma, comportano ancora alcuni elementi dell'exomologesi drammatica. È così che un penitenziale (credo che sia quello di san Colombano, ma non ne sono sicuro), a proposito della confessione al presbitero che impone la compensazione dice: Il penitente, nel momento in cui confessa i suoi peccati al prete e nel quale questi gli impone la compensazione che deve adempiere, deve trovarsi per terra, in ginocchio, a mani tese, il volto in lacrime, ed esporrà in quel momento la sua costrizione. Poi, nel momento in cui il prete gli imporrà la penitenza, la compensazione propriamente detta, si sdraierà completamente faccia a terra, gemerà, sospirerà, piangerà17.

Troviamo dunque elementi dell'exomologesi che persistono in questa parte peraltro giuridificata. Resta il fatto che, nonostante tali forme antiche e tradizionali della drammaticità penitenziale, la penitenza tariffata costituisce una pratica nuova, che attribuisce […]* 17 Non abbiamo individuato il riferimento di questa citazione. * Introduciamo qui una cesura che corrisponde alla sostituzione del nastro di registrazione. Questa sostituzione è all'origine di una lacuna che è possibile colmare parzialmente attraverso il dattiloscritto depositato all'Imec. Riproduciamo qui il relativo estratto: «Resta il fatto che […] nonostante queste forme antiche [e] tradizionali della drammaticità penitenziale, la penitenza tariffata costituisce una pratica nuova, che attribuisce alla manifestazione della verità una grande importanza, una manifestazione della verità che ormai deve essere verbale. È verbale e deve essere essenzialmente verbale affinché il sistema stesso della penitenza tariffata possa funzionare. È necessaria prima di tutto una dichiarazione analitica della colpa da parte di colui che l'ha commessa. Questa dichiarazione analitica si rende necessaria poiché esiste un codice che ha previsto una certa penitenza, una certa compensazione per una certa colpa; ha anche previsto modifiche della compensazione in funzione di una modifica delle circostanze della colpa. Bisognerà dunque che il penitente, colui che sollecita la penitenza o colui al quale viene im-

[…] la difficoltà relativa allo statuto stesso dell'atto penitenziale su cui sembra che si sia cominciato a riflettere solo a partire dal X-XI secolo. Cosa significa infatti, e qual è l'effetto di una penitenza come quella? Non siamo ancora all'epoca in cui la penitenza è un sacramento: quando chiede che gli si imponga una penitenza, il penitente, in un certo senso, non fa altro che anticipare, con la sua confessione e con le compensazioni che offre, il giudizio e la condanna che Dio potrebbe stabilire. Condannandosi in parte da sé, accettando da solo e del tutto volontariamente la compensazione, spera di attenuare la punizione che inevitabilmente gli sarà imposta quando comparirà al suo giudizio finale. Di fatto, questo pone molte difficoltà teoriche, e si avverte benissimo attraverso i testi che esistono due modelli i quali si sovrappongono continuamente. A livello della pratica, dell'organizzazione stessa della procedura, ci troviamo in un mondo o in una pratica in cui il modello giudiziario è, se non onnipotente, per lo meno estremamente presente. Codice, colpe, sanzioni: siamo all'interno di un modello giudiziario. Ma se si trattasse di un giudizio – se fosse veramente un giudizio con una condanna e posta, esponga le circostanze del suo atto, le intenzioni che aveva, con quanta frequenza era solito commetterlo, che dica qual è il proprio statuto, lo statuto della vittima se ha leso qualcuno (ovviamente, la gravità della colpa non è la stessa a seconda che si sia ucciso uno schiavo o un uomo libero, un povero o un ricco, ecc.). Necessità di una dichiarazione anamnestica. In secondo luogo, necessità del dialogo che s'introduce a questo punto, che è anch'esso un elemento importante del dialogo nella forma dell'interrogatorio. Infatti, poiché abbiamo ora a che fare con un sistema codificato, si ritiene che chi ha commesso la colpa non conosca esattamente il codi ce, non sappia cosa influirà sulla definizione della colpa, introducendo una circostanza aggravante o attenuante ai fini della compensazione... Solo colui che impone la penitenza conosce tutto questo. Dunque, colui al quale si confessano le proprie colpe e che imporrà la penitenza deve porre domande, deve interrogare. E nel Penitenziale romano-germanico si legge: “Bisogna che colui al quale si confessano le proprie colpe vigili affinché il penitente non dissimuli nessuna delle sue tare spirituali, affinché nessuno dei peccati eliminati nel Penitenziale resti nascosto; con la sua insistenza, colui al quale si confesserà farà ricordare tutte queste cose al penitente”. In questi testi non troviamo ancora la parola “confessore”, che tuttavia non tarderà a comparire; in ogni caso compare il suo personaggio. Personaggio che non coincide con colui che impone la penitenza perché gli è stata richiesta e perché ne ha l'autorità, ma con colui al quale si parla, colui al quale si confessa e colui che potrà rispondere alla confessione attraverso una serie di domande che gli permetteranno […]» (dattiloscritto, lezione del 13 maggio 1981, pp. 1718).

una pena in funzione della colpa – d'un tratto Dio si troverebbe in qualche modo vincolato dalla decisione presa dal prete di accordare la penitenza e di imporre una compensazione. E di conseguenza, il giudizio finale non avrebbe più ragion d'essere: saremmo in presenza della sostituzione di questo giudizio umano al giudizio di Dio. Il che è inammissibile; di conseguenza all'interno di questa pratica, che è peraltro nettamente giudiziaria, è costante il riferimento al modello medico. In realtà, la penitenza è una medicina. Si è malati: il peccato è una malattia, oppure il peccato è una ferita. E proprio come, quando si va [dal] medico, gli si spiega quali sono le malattie che si hanno o gli si mostrano le proprie ferite; proprio come, quando si va dal medico, ci si spoglia per mostrargli i mali di cui si soffre o le ferite che si hanno, allo stesso modo la confessione assumerà qui la forma della visita dal medico. Si mostrano al prete le proprie ferite, e lui vi consiglia alcuni rimedi, e si accettano i rimedi sperando che ci guariscano. È molto interessante vedere come, all'interno di una pratica già completamente giuridificata nella realtà, l'impossibilità di pensare la penitenza come un tribunale porti con sé la riattivazione del tema della penitenza come medicina – tema che era presente nei testi del III, IV o V secolo e che, in quel contesto, deriva la sua utilità dall'impossibilità di pensare, in qualche modo, la realtà giuridica di ciò che si fa, peraltro, in forme giuridiche. Il secondo punto sul quale evidentemente bisogna insistere è che, ormai, la verbalizzazione della colpa diventa un elemento capitale. Verbalizzazione della colpa che assume dunque la forma che vi ho detto in funzione dell'esistenza del codice. Verbalizzazione della colpa che si giustifica naturalmente con la necessità, per colui che impone la penitenza, di conoscere la colpa. Verbalizzazione che si giustifica una terza volta in funzione del modello medico. Infine, nei testi del IV secolo troviamo [la] giustificazione, [la] valorizzazione di questo atto verbale: il fatto che confessando una colpa si compie un sacrificio. Mentre la verbalizzazione dell'exagoreusis monastica era una vera rinuncia a sé, qui la verbalizzazione appare come un sacrificio – un sacrificio in qualche modo parziale, un

inizio di compensazione. L'espressione compare a partire dal X-XI secolo: la confessione stessa è un inizio di compensazione, perché se ne ha vergogna; ci si vergogna di confessare a qualcuno quello che si è fatto, e il sacrificio compiuto con la verbalizzazione è in qualche modo l'inizio della compensazione. È a tal punto l'inizio della compensazione che in casi estremi, in casi di urgenza, in particolare in caso di morte imminente e spesso nelle battaglie, la possibilità di confessarsi a un laico è perfettamente ammessa. Non siamo all'interno del mondo dei sacramenti: il potere di colui che impone la penitenza è in realtà semplicemente un sapere; egli sa quale penitenza bisogna mettere in atto se ci si vuol far perdonare o se si spera di potersi far perdonare i peccati. Dunque, è bene rivolgersi a qualcuno che sa – ma che sia prete, che abbia uno statuto particolare, che detenga, come si dirà, il «potere delle chiavi», questo assolutamente non avviene ancora. E poiché confessare qualcosa è già in parte una compensazione, in stato di necessità e, ancora una volta, se si è in grande pericolo, è perfettamente legittimo confessare la propria colpa a qualcuno – non importa a chi, a chi ci sta accanto in quel momento. E il sacrificio verbale che si è così compiuto nella confessione avrà valore di compensazione. [3.] Eccoci alla terza fase di mutazione, la vera giuridificazione della penitenza, che si opererà tra l'XI e il XIII secolo, giuridificazione che si svolge secondo il modello paradossale della sacramentalizzazione della penitenza. Assai singolare è che la penitenza diventi un sacramento a partire dal momento in cui è del tutto e pienamente giuridificata. A questo proposito, esistono sia spiegazioni tecniche sia spiegazioni storiche più generali. Comincerò richiamando velocemente lo schema organizzativo generale. Sapete che nel canone XXI del quarto Concilio lateranense del 1215, è stato imposto a tutti i cristiani l'obbligo di confessarsi almeno una volta all'anno per Pasqua18. Obbligo assolutamente generale, che non tiene 18 Il canone XXI stabilisce che tutti i fedeli, di entrambi i sessi, debbano, una volta raggiunta l'età della ragione, confessare i loro peccati almeno una volta all'anno al proprio sacerdote ed eseguire meglio che possono la penitenza che viene loro imposta, ricevendo il sacramento dell'eu-

neppure conto della questione di sapere se si è peccato oppure no: che si abbia o meno coscienza di aver peccato, bisogna confessarsi – vedete la differenza nettissima rispetto alla penitenza tariffata, che doveva rispondere a un peccato preciso che si era consapevoli di aver commesso. Qui invece bisogna in ogni caso confessarsi (il che pone, evidentemente, un certo numero di problemi): o perché – dice Alessandro di Hales 19 – si sono commessi peccati veniali20 – è anche la tesi di san Bonaventura – o piuttosto – ed è la tesi che infine è stata mantenuta – perché questa regola della confessione annuale è di istituzione ecclesiastica. Poiché si fa parte della Chiesa, bisogna confessarsi: essere cristiano, appartenere alla Chiesa comporta – dunque implica – la necessità di confessarsi, e non il fatto che si sia commesso un peccato. Modifica fondamentale.

carestia per lo meno a Pasqua, a meno che, secondo il loro sacerdote, abbiano una buona ragione per astenersi dal riceverla per un certo tempo; questo sotto pena di essere, in vita, esclusi dalla Chiesa (scomunicati) e, alla morte, privati della sepoltura cristiana. Chiunque desideri confessare i propri peccati a un altro sacerdote deve essere stato previamente autorizzato dal suo sacerdote; in mancanza di questa autorizzazione, l'altro sacerdote non può concedergli l'assoluzione. Lo stesso canone raccomanda che il sacerdote agisca come un abile medico, indagando accuratamente le circostanze del peccato, al fine di comprendere la natura del parere da fornire e il rimedio da applicare per guarire il malato. Insiste sul segreto della confessione, in quanto il sacerdote deve guardarsi dal tradire il peccatore e dal rivelare la sua identità con pa role o gesti quali che siano, e ordina che il sacerdote il quale osi rivelare un peccato che gli sia stato confidato nel tribunale penitenziale sia deposto e relegato in un monastero fino alla fine dei suoi giorni. Cfr. H.J. SCHROEDER (a cura di), Disciplinary Decrees of the General Councils, B. Herder Book Co., Saint Louis-London 1937, pp. 259-260. 19 Alessandro di Hales, nel Gloucestershire, è nato verso il 1185, morto a Parigi nel 1245. Filosofo e teologo, è prima uno dei maestri secolari dell'Università di Parigi. Roger Bacon ci dice che nel 1210 egli era Magister regens alla Facoltà delle Arti, prima di entrare a far parte, nel 1220, della Facoltà di Teologia. Nel 1231 prende l'abito dei Francescani ma continua, come monaco, ad assicurare il suo insegnamento all'Università. La sua opera più importante è la Summa universae theologiae, iniziata nel 1231 circa e rimasta incompiuta. È la prima Summa nella quale si faccia sistematicamente uso dei trattati di fisica, metafisica, etica e logica di Aristotele, e di al cuni dei suoi commentatori arabi, tra i quali Avicenna. In questo senso, Alessandro di Hales apre la strada a Tommaso d'Aquino (W. TURNER, voce «Alexander of Hales», in The Catholic Encyclopedia, Appleton Co., New York 1907, vol. I (all'indirizzo www.newadvent.org/cathen/01298a.htm> [consultato il 21 gennaio 2010]. 20 Il Concilio di Trento, che inizia nel 1545 e comprende venticinque sessioni distribuite nell'arco di diciotto anni, stabilirà durante la quattordicesima sessione che i peccati veniali possono essere omessi senza colpa dalla confessione, ed essere espiati con altri mezzi. Su questo punto, cfr. SCHROEDER (a cura di), Disciplinary Decrees of the General Councils cit., p. 261, nota 23.

In secondo luogo, quest'obbligo della penitenza si trova associato, in questo famoso canone XXI, a tutto un dispositivo istituzionale. Dispositivo territoriale, poiché bisogna confessarsi a colui che viene chiamato il proprio prete, vale a dire il prete della propria parrocchia (salvo autorizzazione, il che ha dato luogo a tutti i conflitti che alcuni di voi conoscono e che gli altri possono ben immaginare). Esso è inoltre legato a un dispositivo liturgico, poiché è all'interno del ciclo liturgico e nel momento della Pasqua che questa confessione viene resa necessaria. E anche a un dispositivo punitivo, poiché esistono sanzioni speciali sia per i fedeli che non accettano questo dovere, sia per i preti che, da parte loro, sono legati all'obbligo di confessare le loro pecorelle e che, se vi si sottraggono o se non eseguono ciò che devono fare come è necessario, saranno anch'essi puniti. Infine, un dispositivo procedurale abbastanza preciso, poiché il canone spiega almeno nelle linee generali come si debba fare la confessione […] presto ne riparleremo. Contemporaneamente alla conferma di quest'obbligo universale della penitenza da parte del quarto Concilio lateranense, vediamo emergere – proprio nello stesso momento, nello stesso periodo – il principio secondo cui la penitenza è un sacramento. Che la penitenza sia un sacramento è un'idea, un tema che assolutamente non interviene prima dell'XI-XII secolo circa. Sicuramente non si è dovuto aspettare il Concilio lateranense: vediamo l'idea profilarsi, delinearsi, in Lanfranco21, ad esempio: nel De celanda confessione22, Lanfranco colloca il sacramento della penitenza tra quelli che chiama i sacramenti della Chiesa, accanto alla fede, al bat21 Su Lanfranco, cfr. A. CHARMA, Lanfranc. Notice biographique, littéraire et philosophique , Hachette, Paris 1840; M. GIBSON, Lanfranc of Bec, Oxford University Press, Oxford 2003. Teologo nato verso il 1010 nella regione di Pavia e morto nel 1089 a Canterbury, è inizialmente monaco e priore dell'abbazia di Bec e, in seguito, dell'abbazia di Caen. A partire dal 1066 è coinvolto da Guglielmo il Conquistatore nella riforma della Chiesa d'Inghilterra; nel 1071 diventa arcivescovo di Canterbury dopo che Guglielmo il Conquistatore ha fatto deporre il suo predecessore con il pretesto di simonia. Nel 1075, tradendo il segreto della confessione, avverte Guglielmo il Conquistatore del complotto tramato da Raoul de Gaël, conte di Norfolk, e da Roger de Breteuil, conte di Hereford. Waltheof, conte di Huntingdon, Northampton e Nor thumbria, che si era confessato a lui, viene condannato a morte. 22 Cfr. LANFRANCO, Œuvres, Paris 1648, pp. 379-382, citato in CHARMA, Lanfranc. Notice biographique, littéraire et philosophique cit., p. 62.

tesimo e alla consacrazione del corpo e del sangue. Ed è solo con Pietro Lombardo23 che, a metà del XII secolo, si definisce il celebre settenario dei sacramenti, in cui la penitenza è posta al quarto posto, dopo il battesimo, la cresima e l'eucarestia. Ora, diventando sacramento, vedete bene che la penitenza non può più essere quello che era nel caso della penitenza tariffata, vale a dire una garanzia che il peccatore cerca di procurarsi sulla salvezza futura. La penitenza, poiché è sacramento, è un'operazione, un'operazione complessa con tre attori: il peccatore, il prete e Dio. Questa operazione si svolge contemporaneamente nel tempo e nell'eternità: il prete assolve, assolve davvero. E a questo proposito sono molto evidenti le differenze nelle formulazioni: ancora nell'XI-XII secolo abbiamo formule di assoluzione deprecativa (cioè in cui il prete al quale si domanda penitenza chiede a Dio di concedere l'assoluzione del penitente); e successivamente, la formula dichiarativa di assoluzione diventa regolare a partire dal XIII secolo (il prete dice «io ti assolvo», e dal momento in cui il prete ha pronunciato questa frase il penitente è assolto). E mentre la sacramentalizzazione della penitenza conferisce questo potere reale d'assoluzione al prete, ecco che il prete diventa libero di scegliere la compensazione che vuole. E di colpo, il codice che esisteva e che era in vigore nella penitenza tariffata – a tale colpa, il tale tipo di compensazione... – non è più vincolante. Ora il prete, grazie al potere che ha di assolvere, può decidere in modo assolutamente libero la penitenza, la compensazione che reputa necessaria e sufficiente. Dire «in modo assolutamente libero» è troppo schematico: di fatto, esistevano comunque limiti e regole; ma in fondo, in generale, è libero. Ora, contemporaneamente e proprio grazie al fatto che la penitenza diventa un sacramento – vale a dire, un'operazione reale che assolve effet23 Su Pietro Lombardo (detto anche Magister sententiarum), nato verso il 1100 e morto nel 1160, teologo scolastico che conobbe Pietro Abelardo, studiò e insegnò a Parigi, ed è l'autore di Libri quatuor sentetiarum, cfr. M.L. COLISH, Peter Lombard, E.J. Brill, New York 1994; PH.W. ROSEMANN, Peter Lombard, Oxford University Press, New York 2004 e ID., The Story of a Great Medieval Book: Peter Lombard's “ Sentences”, Broadview Press, Peterborough (Ontario) 2007.

tivamente il peccatore dal peccato che ha commesso – ecco che la vediamo paradossalmente giuridificarsi del tutto. Vale a dire che la posizione di metafora giuridica nella quale si trovava nell'ambito della penitenza tariffata, quando era una sorta di giudizio e un modo per anticipare il vero giudizio che si metteva in relazione con la fine dei tempi... Vale a dire, anziché consistere in questa anticipazione, ed essere collocato in questa posizione simbolica, l'atto di penitenza – il rituale penitenziale – sarà effettivamente un atto di tipo giuridico. Assistiamo a una ristrutturazione di tutto il sistema giudiziario entro il quale la penitenza è inserita e dal quale era stata confusamente contaminata. Questa ristrutturazione avviene dapprima con la distinzione molto netta tra la giurisdizione penitenziale e la giurisdizione non penitenziale. Distinzione fra il tribunale, il forum iustitiale, con il potere di giurisdizione e di disciplina legato alla gerarchia ecclesiastica, potere di giurisdizione e che sarebbe stato trasmesso all'apostolo in quanto era prelato: è là, davanti a questo forum iustitiale, che si decidono le pene canoniche, l'interdetto, la deposizione, l'infamia. E dall'altra c'è il forum poenitentiale, il tribunale penitenziale, il cui potere è stato conferito all'apostolo in quanto era prete e con la famosa frase che assume ora il suo senso e il suo statuto – «rimetterò i peccati a coloro ai quali tu li rimetterai»24: è là, in questo forum poenitentiale che il prete ha il compito di amministrare in quanto prete e grazie al potere delle chiavi che riceve al momento della sua ordinazione, il prete effettivamente assolve. Egli assolve. Ancora, perché possa assolvere, è necessario che abbia effettivamente ricevuto un potere speciale che gli è stato conferito dal vescovo, oltre al potere delle chiavi; il che comporta che la sua decisione di assolvere o non assolvere assuma effettivamente la forma di una sentenza. E infine, bisogna che essa si basi sulla duplice conoscenza e della legge e delle colpe commesse. Vedete bene che ci troviamo di fronte a una sovrapposizione (in quel momento diventata effettiva) fra la struttura sacramentale e la forma giudiziaria della penitenza. Questa sovrapposizione della struttura sacra24 Vangelo di Matteo, 6, 4-15.

mentale e di una forma giudiziaria, l'attuazione della forma giudiziaria completa grazie alla sacramentalizzazione della penitenza, è stata evidentemente una cosa molto importante; una cosa molto importante che ha posto tutta una serie di problemi sui quali non posso ritornare, ma che voi potete sospettare. È essenzialmente a partire da lì che si sono posti alla Chiesa i grandi problemi della teologia morale. È una cosa molto importante anche perché, con questo episodio della giuridificazione attraverso la sacramentalizzazione, vedete che la Chiesa ha stabilito un modello giuridico, un modello giudiziario per il rapporto tra l'uomo e Dio. La cosa che non sarebbe mai venuta in mente a un cristiano delle origini – che tra l'uomo e Dio il rapporto fosse dell'ordine della legge, potesse essere dell'ordine della colpa [e] della sanzione; che tra l'uomo e Dio la scena fosse una scena giudiziaria – proprio questo è il grande risultato raggiunto dalla Chiesa del XII-XIII secolo. Ciò è legato evidentemente da una parte a tutto il dibattito, tutta la difficoltà, tutti i conflitti sorti a proposito dell'esercizio effettivo di un certo tipo di potere temporale da parte della Chiesa. Era sicuramente legato al problema della redistribuzione dei poteri giudiziari all'interno della feudalità. Era legato anche al problema della definizione delle sfere d'azione e d'influenza e di sovranità, di esercizio del potere, tra la Chiesa e le monarche nascenti. In ogni caso, la Chiesa è diventata – ed è la cosa importante, dal nostro punto di vista – l'istituzione all'interno della quale si giuridificano fondamentalmente i rapporti tra Dio e l'uomo. Da lì comincia, o si sviluppa, il grande oblio di sant'Agostino; da lì comincia anche tutta una serie di effetti e di conseguenze che saranno proprio il bersaglio della Riforma. E la Riforma – Lutero, Calvino – sarà appunto l'immenso sforzo per degiuridificare i rapporti tra l'uomo e Dio, da quella giuridificazione che era stata l'opera della Chiesa del XIII secolo, o meglio XII-XIII secolo25. 25 Secondo J. BOSSY (The Social History of Confession in the Age of the Reformation , in «Transactions of the Royal Historical Society», 5a serie, XXV [1976], p. 26), Lutero distingueva tra i peccati di natura tale da turbare la comunità – «adulterio, assassinio, fornicazione, furto, usura, calunnia, ecc.», e i «peccati segreti del cuore», tra cui sembra aver considerato soprattutto

Ma vedete anche – ed è con questo che vorrei terminare – che in questa sovrapposizione della forma sacramentale e della forma giudiziaria, al centro stesso dell'edificio e, in un certo senso, per far tenere insieme queste due parti (la cui sovrapposizione pone peraltro tanti problemi teorici e pratici), avremo proprio la confessione. La confessione che a quel punto si svilupperà con una tecnologia straordinariamente avanzata, progredita. La confessione che deve, in questa confessio oris, in questa «confessione verbale», costituire una delle parti assolutamente essenziali del rituale di penitenza. La confessione deve cominciare con un atto di fede, che peraltro illustra bene l'articolazione tra i due grandi obblighi di verità, verità nei confronti del dogma – verità nei confronti della fede – e verità in sé. In secondo luogo, la confessione deve cominciare con una confessione nella forma, in un certo senso, di libera associazione, o, in ogni caso, di sviluppo spontaneo: il penitente deve dire cosa gli pesa sul cuore e sulla coscienza e di cui si ricorda, come può e come vuole. Successivamente, il confessore deve sottoporlo a un questionario, un questionario dallo schema prestabilito. Raimondo di Peñafort26 – che è gli «impulsi sessuali interiori, senza conseguenza manifesta». Contro i sostenitori della psicologizzazione del peccato e del sacramento della penitenza, egli riteneva che questi ultimi riguardassero esclusivamente l'individuo e Dio e non costituissero materia di confessione. Questa dottrina, scrive J. Bossy, «lasciava intatta la tradizionale confessione annuale e privata al sacerdote, ma la limitava alle offese di natura tale da turbare la comunità, turbamento generato dal l'odio» (ibid.); essa fa di Lutero una figura più tradizionalista che non rivoluzionaria ( ibid., p. 27). 26 Su Raimondo di Peñafort, che sarebbe nato in Catalogna intorno al 1175 e morto nel 1275, cfr. P. MICHAUD-QUANTIN, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen-Âge (XII-XVI siècles), Nauwelaerts, Leuven 1962, pp. 34-43. Dottore in diritto civile e in diritto canonico dell'Università di Bologna, dove insegna per tre anni, prende l'abito dei Domenicani nel 1222 e, durante il suo noviziato, è incaricato di redigere una summa dei casi di penitenza, la Summa de casibus poenitentiae o Summa de poenitentia, prima compilazione di questo tipo. Gregorio IX lo incarica, nel 1230, di codificare il diritto canonico e di elaborare la raccolta ufficiale delle Decretali, compito che lo impegna fino al 1234. Rientrato in Spagna, diventa generale dell'ordine dei Domenicani nel 1238, ma ben presto si dimette per dedicarsi a un'impresa di conversione degli ebrei e dei musulmani attraverso la disputa e la discussione; raccomanda ai membri del clero di imparare l'ebraico e l'arabo e di basare la loro argomentazione su fonti talmudiche e coraniche, ed esorta Tommaso d'Aquino a redigere la Summa contra gentiles. Secondo Michaud-Quantin, la Summa, che comprendeva tre libri nella prima redazione e quattro nella seconda, raccoglie «in una sola rubrica peraltro molto lunga, l'ultima del libro III» – 70 paragrafi e 130 colonne, ossia «un po' più della decima parte del volume complessivo dei primi

stato il grande teorico o, potremmo dire, il grande tecnologo della penitenza nel XIII secolo – ha elaborato un lungo elenco dei sette peccati capitali e di tutti i loro derivati, in tutto quarantatré, che devono servire da schema alla confessione. Ma uno come Escobar27, ad esempio, proporrà come quadro per la confessione una serie di schemi che si sovrappongono gli uni agli altri e di cui il confessore può servirsi, o scegliendone uno, o seguendoli tutti, o proponendone alcuni; c'è lo schema dei dieci comandamenti dati da Dio, quello dei sette peccati capitali, quello dei cinque sensi del corpo, quello dei dodici articoli della fede, quello dei sette sacramenti della Chiesa e delle sette opere di misericordia. Bisogna inoltre tre libri» – gli aspetti essenziali presenti nei primi manuali di confessione. La dottrina e la pratica che sono insegnate in questa rubrica sono molto simili a quelle di Alano di Lilla e degli autori che l'hanno seguito: la Summa esamina i tre elementi costitutivi della forma sacramentale, contrizione, confessione e compensazione; raccomanda un esame di coscienza metodico «nel quadro offerto dai sette peccati capitali»; invita a stabilire una proporzione tra la penitenza e la gravità di ogni colpa. Peraltro, sconvolge la prospettiva che gli autori di manuali di confessione avevano adottato fino a quel momento. Da una parte «il vecchio professore di Bologna ha inteso fare un'esposizione di tipo essenzialmente giuridico»: pertanto, delle 24 rubriche che compongono i primi due libri, 23 recano lo stesso titolo delle rubriche delle Decretali; la Summa ignora il problema delle colpe «interiori» come l'invidia, l'orgoglio o l'accidia, ma si preoccupa dei duelli giudiziari, dei tornei o dell'impiego delle armi da getto ( ibid., pp. 36-37). D'altra parte, egli «non giudica l'atto esteriore se non in funzione dei moventi, dell'intenzione e delle circostanze che lo circondano, poiché la sentenza pronunciata è appunto un “giudizio delle anime” che si situa sul piano spirituale: esiste o non esiste peccato, e la formula generalmente impiegata nell'esposizione Imputatur ei mostra che si tratta essenzialmente di una questionoe di responsabilità intima e personale» (ibid., pp. 38-39). Il metodo dei «casi» – o «casi di coscienza» – è adeguato a questa concezione dell'elemento morale della colpa. 27 Su Andrés Dias de Escobar, nato a Lisbona nel 1348 e morto nel 1450, cfr. MICHAUD-QUANTIN, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen-Âge cit., pp. 71-72; TH.N. TENTLER, Sin and Confession in the Eve of Reformation , Princeton University Press, Princeton 1977, pp. 38-40; oltre al terzo capitolo di G.A. ARROYO, Les manuels de confession en castillan dans l'Espagne médiévale, Université de Montréal, Montréal (all'indirizzo , consultato il 21 gennaio 2010). Benedettino, nominato vescovo di Ciudad Rodrigo nel 1408, poi di Tabor, Ajaccio e Megara, Escobar ha partecipato ai concili di Costanza (1414-1418), Basilea (1431-1437) e Ferrara-Firenze (14371439). È autore di numerose opere, tra cui due opuscoli complementari, Lumen confessorum, destinato ai sacerdoti, e Modus confitendi, chiamato a volte Confessio generalis, destinato ai fedeli. Il primo espone la giurisdizione penitenziale, ricorda la dottrina sacramentale, riassume le consegne date per l'esame di coscienza nel Modus confitendi e dà direttive relative alla compensazione, al rifiuto dell'assoluzione o all'astensione dalla comunione. Il secondo fornisce il canovaccio di un esame di coscienza dettagliato, in un quadro limitato dai comandamenti di Dio, i peccati capitali e le «colpe commesse attraverso i cinque sensi, rispetto alle opere di misericordia e riguardo ai 12 articoli del Credo» (MICHAUD-QUANTIN, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen-Âge cit., p. 71).

procedere all'esame generale della vita dell'individuo attraverso, ancora una volta, uno o alcuni o tutti questi schemi. Ci troviamo dunque di fronte a un tipo di veridizione che, come vedete, è completamente diverso sia dalla exomologesi sia dalla exagoreusis. Non si tratta più di dire tutto quello che viene in mente. Non si tratta neppure di mostrarsi nello stato di peccatore. Si tratta di rispondere verbalmente a un questionario che risponde a schemi ben prestabiliti. Infine, per determinare la forma di tale confessione, un certo numero di caratteristiche dell'enunciazione stessa deve caratterizzare questa ammissione della confessione. Sono le famose qualità della confessione secondo Raimondo di Peñafort – l'elenco peraltro è cambiato, ma in fondo credo che gli elementi siano grosso modo sempre gli stessi. La confessione deve essere sollecita; deve essere frequente; deve essere amara, vale a dire accompagnata da lacrime; deve essere integrale; deve essere volontaria; deve essere fedele, vale a dire radicata nella fede; deve essere pura, nel senso che non vi si deve mescolare alcuna vanità (non si deve andar fieri dei peccati che si sono commessi); deve essere nuda, senza veli, nel senso che deve svolgersi faccia a faccia; deve essere morosa, vale a dire che deve svolgersi lentamente (non si deve, dice Raimondo di Peñafort, far scorrere i propri peccati come un contabile che fa i calcoli in un'addizione); deve essere accusatoria, nel senso che si deve mostrare chiaramente di che cosa si è colpevoli; deve essere propria, cioè riguardare solo se stesso e non accusare il vicino; deve essere vera e deve essere discreta, vale a dire che ogni peccato va ben isolato dagli altri. Abbiamo così la confessio oris: vedete che la manifestazione della verità è ora al contempo interamente verbale e interamente giuridica. Ho detto «interamente verbale», ma non è del tutto vero, perché in qualche modo resta un certo numero di residui della vecchio exomologesi, a circondare l'elemento verbale divenuto ora essenziale. Compaiono ora solo come una scorta, ma è abbastanza interessante richiamarli. Bisogna che, nel corso di questa confessione orale, il penitente assuma un certo atteggiamento. Se è un uomo, deve togliersi il berretto, in modo che il

confessore veda bene il suo volto (capirete presto perché). Se invece si tratta di una donna, o di un ragazzo giovane, si deve abbassare il copricapo perché il confessore non veda i volti di cui un testo dice che sono come il vento ardente del deserto; eventualmente, bisogna che anche la donna o il ragazzo restino di profilo, perché il confessore non li veda in faccia e non possa essere sedotto da loro. Tutto questo è molto importante, e avrà grande sviluppo: è tutto il problema dell'atto verbale di confessare come supporto alla contaminazione del peccato e come supporto di impurità – una certa forma di transfert. Tra i rituali fisici che accompagnano la confessione c'è anche, come sapete, la regola per cui, fino al XVI secolo, la confessione non si svolge in un confessionale – il confessionale, anzi, non esisteva prima del XVI secolo28. Ma bisognava anche che la confessione non si svolgesse in una zona buia e remota della chiesa: tutti dovevano poter vedere colui o colei che si confessava con il confessore perché, appunto, in questo atto verbale non ci fosse... Non bisognava che questo atto verbale fosse il supporto [di un] contatto del male tra il peccatore e colui che doveva confessarlo. Registriamo dunque una certa importanza, anche se marginale, secondaria, dei riti fisici – ma vedete che siamo molto lontani dal grande rituale di exomologesi. L'importanza dell'elemento fisico, la necessità di vedere (peraltro, da parte del confessore) colui che si sta confessando aveva anche […] un'altra ragion d'essere: doveva infatti permettere al confessore di decifrare, attraverso l'atteggiamento del confessato, quello che eventualmente poteva nascondere o che si vergognava di dire. Ciò avrebbe anche permesso di vedere se aveva realmente vergogna e se provava contrizione, o se era indifferente alle sue colpe, o addirittura contento di

28 Sull'«invenzione» del confessionale, che consacra la concezione psicologizzante del peccato e della confessione, cfr. BOSSY, The Social History of Confession in the Age of the Reformation cit., pp. 28-31. Alcune norme per la costruzione dei confessionali sono state fissate da Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (1564-1584).

averle commesse. C'è un testo molto significativo di Alano di Lilla 29, nel Liber poenitentialis, che dice: Si deve capire l'interno dall'esterno, il volto è animi signaculum. Quando il volto è inclinato e le lacrime scendono abbondanti, è il se-

29 Su Alano di Lilla, cfr. MICHAUD-QUANTIN, Sommes de causistiques et manuels de confession au Moyen-Âge cit., pp. 14-19, oltre a ALANO DI LILLA, Liber poenitentialis, vol. I: Introduction doctrinale et littéraire, a cura di J. Longère, éditions Nauwelaerts et Giard, Louvain-Lille 1965. Secondo Longère, Alano di Lilla nacque tra il 1117 e il 1130 e morì nel 1203; inse gnò a Parigi e Montpellier, dove sarebbe stato coinvolto nelle lotte dottrinali contro il catarismo, prima di prendere l'abito cistercense. Diversi indizi suggeriscono che il Liber poenitentialis sia stato redatto dopo il 1191. L'analisi di Longère sottolinea il carattere misto, al contempo giuridico e medico, del rapporto stabilito nella penitenza. «Il sacerdote deve agire come fidelis medicus preoccupato di stabilire una buona diagnosi, distinguendo con precisione i diversi peccati e le “loro circostanze”, badando a non apparire privo di discernimento ( indiscretus). Bisogna che il sacerdote sappia scegliere le soluzioni migliori tra quelle offerte dai Penitenziali, che sappia inoltre “che non si può pesare per tutti con la stessa bilancia, benché tutti siano incatenati dallo stesso vizio”. Che non dimentichi di essere misericordioso come gli raccomanda la Scrittura, ma che sia severo (districtum iudicium debet iudicare) per coloro che perseverano nel male». E Longère prosegue: «Di certo, non troviamo nulla di originale in tutti questi consigli. Si osserverà tuttavia, ed è l'aspetto interessante di questi sviluppi preliminari, che essi insistono sul ruolo del sacerdote e sull'importanza che questi ha, non tanto come ministro di un sacramento quanto piuttosto come medico ( fidelis, sapiens medicus) che deve, per guarire il suo paziente, conoscere lui e la sua malattia, e che resta abbastanza padrone del rimedio da amministrare. Questo significa stabilire già i prestiti che saranno fatti ai Penitenziali e “relativizzarne” le tariffe» (Liber poenitentialis cit., p. 161). P. Michaud-Quantin pone il Liber poenitentialis in rapporto con i «penitenziali» del periodo anteriore, e indica la ricomparsa del modello medico accanto a quello della penitenza tariffata: «Dalla fine dell'età patristica fino al XII secolo, un penitenziale è un tariffario, un prontuario, che fornisce un elenco di tutti i peccati possibili […] indicando rispettivamente importanza, natura e durata della penitenza pubblica che dev'essere imposta al colpevole. Sono caratterizzati da un grande disordine nell'esposizione e per il resto da una notevole severità, ogni peccato mortale richiede in linea di principio sette anni di penitenza; soprattutto, colpiscono per il loro automatismo, il sacerdote che li utilizza non svolge alcun ruolo personale nell'applicare la loro prescrizione, non ha lo stesso margine di valutazione che i codici moderni lasciano al giudice nell'applicazione delle pene. Già all'inizio dell'XI secolo Burchard di Worms , nella sua collezione canonica […] faceva appello all'iniziativa e al giudizio personale del sacerdote. Il Decretum di Graziano metteva in rilievo, nella prima metà del XII secolo, il principio Poenitentiae sunt arbitrariae, le penitenze da imporre devono in ogni caso essere determinate dal confessore ad arbitrium, secondo la sua valutazione, ed esigeva di conseguenza che egli si informasse sulle circostanze oggettive e soggettive che accompagnavano la colpa confessata […]. La prima preoccupazione, alla quale non deve essere estranea la conoscenza diretta che Alano aveva della polemica antisacramentale e anticlericale del catarismo, si esprime con una lunga preghiera-esortazione iniziale e una conclusione che contiene precetti e rimedi sotto il titolo “Quali sono i rimedi che convengono al medico delle anime”. L'autore infatti considera il confessore essenzialmente come il medico della vita spirituale, e questo para-

gno di una buona contrizione interiore; se lo sguardo è dritto e il volto senza tristezza, la contrizione invece è meno intensa30.

Dunque, abbiamo tutta un'organizzazione […] molto complessa, molto meditata, di questo atto verbale rispetto al quale comprendiamo bene perché occorrano ora tante precauzioni, trattandosi della fase essenziale. È la fase essenziale tanto per la forma giudiziaria quanto per la struttura sacramentale dell'edificio. In un certo senso ne costituisce il punto di congiunzione. In cosa consiste infatti ora la confessione penitenziale? Consiste, come dirà san Tommaso, nella materia stessa della penitenza: proprio a questo deve rivolgersi l'atto d'assoluzione che sarà formulato dal prete. Ora, cosa accadrà? In questo atto di confessione e nell'assoluzione che lo segue, possono accadere due cose che in un certo senso falseranno o truccheranno la procedura. Da una parte, può accadere che il penitente nasconda alcuni dei suoi peccati, o che non li esprima in tutta la loro gravità, o che non provi contrizione nell'enunciarli quando domanda la penitenza. Dall'altra, per quanto riguarda la parola di assoluzione – di questo speech act, di questo atto performativo che consiste nel dire «io ti assolvo» – può esserci trucco se, ad esempio, il prete non ha il potere che deve detenere per praticare effettivamente la confessione (può anche darsi il caso che non sia prete, o che sia scomunicato – esistono molte ragioni per le quali tale atto potrebbe essere truccato, falsato). Ora, se da parte di colui che si confessa c'è un oblio volontario, o c'è assenza di costrizione, cosa accade? Il sacramento non ha luogo: si è proposta al sacramento una materia non adeguata all'opera del sacramento e, di conseguenza, non c'è affatto sacramento, indipendentemente dalla legittimità dei poteri del prete, dalla sincerità (dalla regolarità, piuttosto) gone presiede alle direttive che guideranno il suo atteggiamento e la sua azione» (MICHAUDQUANTIN, Sommes de casuistique et manuels de confession au Moyen-Âge cit., pp. 15-17). 30 Cfr. ALANO DI LILLA, Liber poenitentialis, vol. II: La tradition longue, a cura di J. Longère, éditions Nauwelaerts et Giard, Lovain-Lille 1966, p. 32: «Considerandus est etiam corporis gestus, vel faciei habitus, ut per exteriora comprehendantur interiora, quia cum vultus sit quasi animi signaculum, et figura, per vultum potest perpendi quae sit voluntas interna; quia si vul tus est in terra demissus, fletibus irriguus, internos significat cruciatus; si vero facies fuerit erecta, nulla tristitiae gerens vestigia, minor videtur esse poenitentia».

della parola di assoluzione che il prete ha pronunciato. [Ma se], invece […] è da parte del prete che qualcosa non va, non funziona, e impedisce che lo svolgimento sia legittimo? Se effettivamente il penitente ne è informato, è chiaro che si ricade nel caso precedente e non c'è sacramento. Ma se, invece, il penitente è in assoluta buona fede – crede realmente che il prete abbia davvero il potere necessario ad accordargli l'assoluzione, anche se questi poteri non ce li ha – ciò basta, e l'assoluzione è data effettivamente. Vediamo di conseguenza che l'elemento essenziale in questa operazione giuridico-sacramentale è di fatto l'atto verbale con cui il penitente annuncia i suoi peccati – ammesso che tale atto verbale sia un atto di verità, vale a dire che egli dica proprio, con tutta la contrizione che pretende di avere, tutti i peccati di cui può avere coscienza. L'espressione actus veritatis – «atto di verità» – è, credo, un'espressione relativamente tarda che troviamo nei testi del XV secolo. Tuttavia definisce, caratterizza in modo assolutamente efficace ciò di cui ora si tratta: al cuore stesso del rituale penitenziale, e restando peraltro eguale tutto il resto (vale a dire essendo rispettate tutte le regole da parte di colui che parla, per quanto lo riguarda in tutta sincerità), l'atto verbale – l'atto di confessione, l' actus veritatis – diventa l'elemento essenziale di questa procedura. Ecco. Ci troviamo, credo, nel momento in cui la confessione, prendendo posto in una struttura sacramentale e all'interno di una forma interamente giuridificata, si pone anche come elemento fondamentale della penitenza. La prossima volta cercherò di mostrarvi – anche se molto più rapidamente – come, tra le forme della giurisdizione civile, le forme della giustizia civile, si verifichi un fenomeno parallelo, all'incirca nella stessa epoca, e successivamente gli effetti che questo avrà nella storia del diritto penale*.

* Foucault si rivolge all'uditorio dicendo: «Bene. Vi ringrazio. Avete domande da porre? No?».

Lezione del 20 maggio 1981

Giuridificazione nelle istituzioni ecclesiastiche e politiche. – Dal Dio giudice allo Stato di giustizia: sovranità e verità. – Confessione, tortura e prova inquisitoria della verità. – Confessione, tortura e prove legali. – Confessione, legge sovrana, coscienza sovrana e impegno punitivo. – Autoveridizione, evidenza e drammaturgia penale. – Eteroveridizione, esame e psichiatria legale. Riferire l'atto all'autore: la questione della soggettività criminale nel XIX secolo. – La monomania e la costituzione del crimine come oggetto psichiatrico. – La degenerazione e la costituzione del criminale come oggetto della difesa sociale. – Dalla responsabilità alla pericolosità, dal soggetto di diritto all'individuo criminale. – La questione della soggettività criminale nel XX secolo. – Ermeneutica del soggetto e significato del crimine per il criminale. – Accidente, probabilità e indice di rischio criminale. – La veridizione del soggetto, breccia nel sistema penale contemporaneo. Dopo aver cercato di mostrarvi come si era formata la pratica della confessione all'interno delle istituzioni cristiane, avrei voluto mostrarvi come, nella pratica giudiziaria del Medioevo, il ricorso alla confessione avesse assunto un posto sempre più importante. Il posto importante – sempre più importante – assunto dalla confessione nelle istituzioni giudiziarie del Medioevo è sicuramente effetto della contaminazione da parte

della pratica penitenziale di cui ho cercato di illustrarvi quanto, da una parte, fosse stata importante e come, dall'altra, si fosse giuridificata a sua volta. Ma credo anche che l'importanza assunta dalla confessione nella pratica giudiziaria del Medioevo sia l'effetto di modifiche proprie delle istituzioni di giustizia. Ed è questa integrazione, questo sviluppo, questo solidificarsi della pratica della confessione nelle istituzioni giudiziarie del Medioevo che avrei voluto esporvi. Successivamente, avrei voluto mostrarvi quali effetti paradossali avevano prodotto, nella teoria e nella pratica penali […] moderne e contemporanee, l'introduzione e lo sviluppo di questa pratica della confessione e, attraverso lo sviluppo di tale pratica della confessione, ciò che potremmo chiamare l'introduzione del soggetto confessante. Effetti, credo, talmente paradossali che la macchina penale che conosciamo attualmente ne è stata in parte deregolata, e in ogni caso si è infilata in una serie di vicoli ciechi da cui è ben lungi, credo, dall'essere uscita. Mi sembra infatti – ed è questo il punto a cui vorrei arrivare – che introducendo questo soggetto confessante si credesse fermamente di poter determinare la fortunata coincidenza tra l'autore del crimine e il soggetto che doveva risponderne. E infatti, credo proprio che sia stato introdotto un terzo, un terzo personaggio – diciamo in ogni caso che è stato introdotto un ordine di realtà che si è, di fatto, rivelato quasi inassimilabile alla pratica penale e persino alla sua teoria. Questo oggetto nuovo, questo soggetto confessante, si è rivelato infatti un personaggio molto ingombrante, indispensabile per il funzionamento della macchina penale, ma al tempo stesso di troppo; un terzo personaggio sollecitato di continuo a dire quel che gli si domanda, e che dice sempre meno di quello che ci si aspetta, sempre qualcosa di leggermente diverso da quanto potrebbe consentire di far funzionare la macchina. Così che il personaggio di colui che dice la verità, che dice la verità del suo crimine, lungi dall'essere – come probabilmente si era sperato a lungo – la chiave di volta del sistema penale, vi ha aperto, credo, una breccia irreparabile.

Ma, dicendo questo, non vorrei farvi credere che per me l'istituzione penale abbia introdotto, quasi inavvertitamente, nel suo meccanismo un trascurabile elemento estraneo che alla fine avrebbe provocato molti fastidi. La confessione non è la pecora nera nell'ovile della penalità, è stata una forma culturale, è stata ed è ancora una pratica sociale al di fuori dell'istituzione giudiziaria. Questa forma culturale, questa pratica sociale non è rimasta stabile nel corso dei secoli. Ed è senza dubbio la trasformazione, l'evoluzione della pratica stessa della confessione, della pratica stessa del soggetto confessante, che ha potuto produrre sulla pratica penale un certo numero di effetti di ritorno nei quali questo stesso meccanismo si è trovato impigliato e spesso in difficoltà. Se la confessione, o piuttosto ciò che si dice durante e attraverso la confessione, mette tanto a disagio la giustizia penale, non è perché la confessione sia di per sé un meccanismo pericoloso e perverso; è piuttosto perché lo statuto e le forme della veridizione di se stessi si sono profondamente modificati all'interno delle nostre società. E se la confessione – intendiamo quella che è stata introdotta nel Medioevo, o in ogni caso istituzionalizzata durante il Medioevo nella pratica penale – ora non funziona più, è perché si tratta di tutt'altra confessione, inserita in tutt'altro meccanismo penale. Ecco lo sviluppo che avrei voluti dare alla mia esposizione: da una parte, istituzionalizzazione della confessione nella pratica giudiziaria, e in secondo luogo deregolamentazione della macchina penale per effetto della pratica della confessione. Curva ascendente, potremmo dire, e curva discendente. Ma il modo troppo maldestro in cui ho organizzato le mie lezioni finora, il fatto che l'abbia tirata per le lunghe, che vi abbia raccontato sui fraticelli della prima cristianità tutta una serie di storie che affascinavano me, ma forse annoiavano voi, e che in ogni caso hanno fatto ritardare tutti, tutto ciò ha fatto sì che ora io mi trovi praticamente obbligato a scegliere. Sono obbligato a scegliere tra l'esposizione della linea ascendente e l'esposizione della linea discendente: o mostrare come la pratica della confessione si è iscritta, si è consolidata nel diritto penale a partire dal Medioevo, oppure mostrare come la veridizione del soggetto

abbia introdotto nel diritto penale, a partire dal XIX secolo, una crisi da cui sembriamo non essere ancora usciti. E poiché sono stato invitato qui dall'Istituto di criminologia (che ringrazio per il suo gesto), mi è sembrato che sarebbe stato forse più conforme a quello che ci si aspetta da me insistere su questo secondo aspetto delle cose, vale a dire studiare un po' più da vicino la comparsa del criminale – del criminale confessante – come fattore perturbante all'interno delle istituzioni punitive: studiare, se volete, la crisi del regime comune alla sanzione del crimine e alla manifestazione del criminale. È dunque su questo che vorrei insistere in questa serata. Ma dopotutto vorrei comunque, prima di arrivare a questo, accennare in modo molto schematico a quella che avrebbe dovuto essere un'altra lezione sull'istituzionalizzazione della confessione nella giustizia criminale del Medioevo. Avrei voluto mostrarvi, infatti, che il ricorso privilegiato alla confessione nelle pratiche penali si è iscritto, in generale, in una sorta di grande giuridificazione della società e della cultura occidentali nel Medioevo, giuridificazione che è evidente – come ho cercato di mostrarvi la volta scorsa – nelle istituzioni, nelle pratiche, nelle rappresentazioni proprie del cristianesimo. Lo abbiamo visto in particolare a proposito della penitenza: in che modo la penitenza è diventata un sacramento, ha ricevuto il valore e la forma di un sacramento mentre si è giuridificata nella sua forma. L'ho ricordato anche a proposito delle nuove linee di separazione, così accuratamente ma anche così difficilmente tracciate, tra le giurisdizioni penitenziali e le giurisdizioni disciplinari nella Chiesa. Potremo vederlo di sicuro anche a proposito dei dibattiti infiniti tra giurisdizioni ecclesiastiche e giurisdizioni civili. Potremmo vederlo anche a proposito dell'Inquisizione, che in questa giuridificazione delle pratiche ecclesiastiche rappresenta un progresso considerevole. Potremmo vederlo inoltre a proposito dell'insieme delle rappresentazioni attraverso le quali si cerca di definire e di manifestare i rapporti tra Dio e gli uomini: il Dio giudice, il Dio che troneggia al vertice del suo tribunale, il Giudizio universale (naturalmente, si tratta di temi molto antichi che il cristianesimo

non aveva introdotto, ma piuttosto ereditato dal giudaismo; ma sono temi che riprendono molto vigore a partire dal XII secolo, e che in seguito si accompagnano alla comparsa di temi che, invece, sono del tutto nuovi, come ad esempio il tema del purgatorio o il sistema delle indulgenze). Tutto questo giuridifica, se volete, l'insieme dei rapporti tra l'uomo e Dio. Tale giuridificazione, che è così manifesta nelle istituzioni ecclesiastiche e nelle rappresentazioni religiose, è molto evidente anche durante il Medioevo, soprattutto a partire dal XII secolo, nelle istituzioni politiche. Senza entrare nei dettagli, diciamo brevemente che l'affermazione e la crescita del potere monarchico nel contesto delle istituzioni feudali si sono basate sull'esercizio e sullo sviluppo del potere giudiziario. È in quanto giudice, in quanto arbitro, in quanto si fa appello a lui per comporre litigi o in quanto lui stesso fa appello a cause che vuole risolvere, che il re stabilisce il suo potere al di sopra del potere feudale o negli interstizi del potere feudale. È nella forma giurisdizionale che il re prende e fa valere le sue decisioni. In breve, secondo una formula molto nota, la prima forma dello Stato moderno è stata quella di uno Stato di giustizia. Ora, a mano a mano che il potere politico e il potere giurisdizionale si compenetrano in questo modo, inevitabilmente le forme delle procedure giuridiche si modificano. In particolare, la procedura accusatoria attraverso la quale qualcuno – indipendentemente dal fatto che si trattasse della vittima oppure che rappresentasse la vittima – […] accusava un altro di avergli recato torto, questa procedura, come sapete bene, incentrava l'intero meccanismo penale sul confronto tra due avversari o due parti in gioco. E costoro, l'accusatore e l'accusato, secondo regole ed eventualmente sottoponendosi a un certo arbitrato, dovevano regolare il loro litigio o eventualmente perseguire la loro vendetta in una guerra privata. E, come capite bene, una simile forma di risoluzione di un litigio, quando a intervenire è il sovrano, o su richiesta di un querelante, o con la mediazione di uno dei suoi procuratori, fa sì che il problema non possa più essere posto negli stessi termini. Il problema non è più semplicemente quello di

permettere ai due avversari che si affrontano di regolare, di risolvere in base a un certo numero di regole, il loro conflitto, garantendo appunto il rispetto di tali regole. Il problema, a partire dal momento in cui è al sovrano che spetta di decidere, sarà quello di stabilire la verità e di adottare una sanzione in funzione dei fatti stabiliti. La necessità di una veridizione s'iscrive nel contesto dello slittamento che fa sì che la giustizia penale risalga, se volete, dalla risoluzione del conflitto nella forma di un confronto tra due individui alla risoluzione di un conflitto nella forma di una decisione da parte di una corte sovrana o in quella della decisione da parte del sovrano. Di qui la necessità di ricorrere, per stabilire questa verità, a mezzi d'inchiesta più o meno vicini a quelli che allora (e già da tempo, peraltro) erano utilizzati nelle inchieste amministrative e fiscali. E a partire dal momento in cui stabilire la verità diventa un elemento essenziale della procedura, l'affermazione della verità da parte dell'accusato stesso diventerà un elemento importante. La confessione, stabilire la verità attraverso la confessione del colpevole, diventa un elemento importante della procedura, o meglio lo ridiventa, perché di fatto, durante tutta la fase del diritto romano, la prova attraverso la confessione era stata riconosciuta e ammessa, solo che quel tipo di procedura era quasi scomparso, o in ogni caso era entrato in una fase di massiccia regressione a partire dal VII o VIII secolo. Ora, è interessante e, credo, molto importante in questa storia, notare che la confessione in quest'epoca non è semplicemente invocata all'interno della procedura d'inchiesta come una sorta di testimonianza privilegiata. La confessione non è semplicemente una prova che sarebbe tanto più decisiva per il fatto di essere fornita, data, dallo stesso autore del crimine. L'importanza del ruolo della confessione deriva dal fatto che essa si pone al confine tra la procedura accusatoria tradizionale e la nuova procedura inquisitoria. Uno dei mezzi della procedura accusatoria, come ricorderete, è proprio la prova, prova che è proposta tanto dall'accusatore a colui che egli accusa, quanto dal giudice. Era la prova dell'acqua, del fuoco, il duello giudiziario, a permettere di decidere non propriamente quale

fosse la verità, ma chi dovesse essere considerato come vincitore in questo confronto, in questa lotta, in questa tenzone, tra le due parti in gioco. Ora, l'estorsione della confessione costituirà nella procedura inquisitoria – e […] in quella forma particolare di procedura inquisitoria che troviamo appunto nell'Inquisizione – […] una sorta di stranissima mescolanza tra lo stabilire una prova e lo stabilire una verità attraverso il sistema di dimostrazione: in questo caso, la testimonianza del soggetto su se stesso significa stabilire una verità e al contempo costituire una prova. Non bisogna affatto considerare la tortura, che permette di strappare la verità, come il mezzo più rapido per arrivare alla verità: bisogna considerare che, in realtà, si tratta di una prova – «se io ti sottometto alla prova della tortura, se ti faccio subire ogni sorta di sofferenza, vincerai o perderai, cederai o al contrario riuscirai a resistere tacendo, come ad esempio colui che non si brucia con la prova del ferro incandescente, come colui che non annega nella prova dell'acqua, come colui che risulta vincitore in un duello giudiziario?». È chiaro perché la confessione si trovi così intimamente legata alla tortura, o alla minaccia della tortura, e perché lo resti così a lungo nella procedura inquisitoria: in fondo, si tratta di uno dei residui della procedura accusatoria trasferito all'interno della procedura di inquisizione – ottenere la verità mediante una prova di confessione che è raggiunta con la tortura, tortura alla quale si può resistere, o alla quale invece si può cedere. La confessione sotto tortura permette di produrre l'elemento di verità di cui si ha bisogno nella nuova procedura inquisitoria; e permette di produrlo come una sorta o al termine di una sorta di prova giudiziaria, quasi di duello, duello evidentemente ineguale tra l'accusato e colui che lo tortura, vale a dire colui che rappresenta il potere che lo sovrasta. L'estorsione della confessione rappresenta, in fondo, ciò che potremmo chiamare la prova inquisitoria della verità. E credo che [se si comprende bene] il posto particolare che la confessione ha avuto in quel momento, quando si è reintrodotta all'interno della procedura criminale, si possano, allora, comprendere molti tratti di questa pratica.

Da una parte, certamente, l'importanza che essa ha avuto nell'Inquisizione. Inoltre il fatto che si trattasse – e bisogna rammentarlo bene – non di una pratica assolutamente priva di regole, ma di una pratica regolata: a differenza della tortura quale può venire praticata dalle nostre polizie contemporanee, la tortura dell'Inquisizione, all'interno di quel tipo di procedura, non era l'utilizzazione di tutti i mezzi possibili per strappare alla fine all'individuo la verità che poteva conoscere. Era in realtà un esercizio ben determinato, nel quale il giudice aveva il diritto di utilizzare l'una o l'altra tortura come l'uno o l'altro strumento, per un certo tempo; oltre non poteva andare, e doveva conformarsi molto scrupolosamente al quadro delle prove previste. Si spiega così il fatto che l'accusato stesso potesse in qualche modo vincere se resisteva alla prova. E se resisteva alla prova – a seconda dei tipi di procedura la situazione poteva cambiare, non entro nei dettagli – se si resisteva alla sua azione giudiziaria. Lo dico tralasciando una volta ancora tutta una serie di variazioni, ma in generale, quando si riusciva a resistere alla tortura, a perdere era il procuratore. Il che illustra efficacemente la struttura di prova di tale confessione. E così si spiega anche, credo, la difficoltà a situare esattamente questa prova all'interno della procedura inquisitoria. Qual era esattamente lo statuto di verità della confessione così ottenuta? Che valore di prova si poteva attribuire a una dichiarazione estorta in questo modo attraverso la confessione? C'era tutta una serie di difficoltà a proposito delle quali i giuristi hanno discusso spesso e a lungo. Così, si riteneva che una confessione ottenuta sotto tortura non avesse valore legale, che potesse produrre i suoi effetti solo se fosse stata ripetuta al di fuori della tortura, come se si trattasse di una testimonianza fornita dall'individuo su se stesso. Certamente, quando l'individuo tornava sulle confessioni ottenute attraverso la tortura e la testimonianza che forniva fuori della tortura non coincideva con quella sotto tortura, allora lo si torturava di nuovo, in modo che la minaccia della tortura... Insomma, le cose erano complicate, ma credo che sia interessante prestare bene attenzione […] al significato della tortura in questa procedura della confessione, al posto che aveva ai

confini, nel punto d'incontro […] tra le procedure accusatorie (con la pratica della prova) e la procedura inquisitoria (con l'inchiesta e la ricerca per stabilire la verità). Non dirò nulla, perché sono costretto a procedere molto velocemente su tutto questo, sull'evoluzione, sugli slittamenti, sulla regressione di questa pratica dell'estorsione della confessione nella giustizia criminale fino al XVIII secolo. Ricorderò solamente, innanzitutto, che questa procedura ha subito una fase di regressione, e che in seguito è ricomparsa. In particolare, l'estorsione della confessione mediante tortura è ricomparsa nel XVI e nel XVII secolo, con lo sviluppo delle grandi strutture statali; considererò come testimonianza di questa nuova fortuna la Costituzione Carolina di Carlo V, alla fine del primo terzo del XVI secolo e, in Francia, diverse ordinanze criminali, quella di Francesco I, e ancora quella del 16701. Ricorderò anche, peraltro, che il sistema della confessione era legato a un'organizzazione assai singolare di quelle che vengono chiamate le prove legali: è all'interno del sistema delle prove legali che la confessione deve prendere posto. Il sistema delle prove legali definiva in maniera molto precisa il valore di ogni elemento di prova in rapporto a una certa quantità di prove, considerata suscettibile di dar luogo a una certezza perfetta. È quanto si chiamava una prova completa. Dunque avevamo – e abbiamo avuto, fino alla metà del XVIII secolo, e persino alla fine del XVIII secolo – un prospetto completo del modo in cui si poteva stabilire la verità di un delitto, con un certo numero di principî, alcuni dei quali sono noti, ma le cui conseguenze sono assai singolari e spesso paradossa1 Françoise Tulkens e Michel van de Kerchove hanno, successivamente, diretto ricerche sulla genealogia dei codici penali, ricerche nelle quali viene analizzata la Constitutio criminalis Carolina dell'imperatore Carlo V (1532); cfr. Y. CARTUYVELS, D'où vient le code pénal? Une approche généalogique des premiers codes pénaux absolutistes au XVIII e siècle, De Boeck Université, Paris-Bruxelles 2006, pp. 27-32. Sulla Constitutio criminalis Carolina cfr. anche F.-CH. SCHRÖDER, Die peinliche Gerichtsordnung Kaiser Karls V und der Heiligen Römischen Reichs von 1532, Reclam, Stuttgart 2000; C. EMSLEY, Crime, Police, and Penal Policy: European Experiences 1750-1940, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 18-20; sull'ordinamento criminale del 1670, cfr. A. ESMEIN, Histoire de la procédure criminelle et spécialement de la procédure inquisitoire depuis le XIIIe siècle jusqu'a nos jours, Topos-Duchemin, Vaduz-Paris 1969, ried. Éd. Panthéon-Assas, Paris 2010.

li. Ad esempio il principio per cui due testimoni oculari di un fatto costituiscono una prova completa, ma un testimone oculare, contrariamente al principio del diritto romano, non è un'assenza di prova, è una prova a metà, e a una mezza prova deve corrispondere una mezza colpevolezza, così che un fatto stabilito in base a una prova a metà comporterà una punizione a metà. Questo sistema, peraltro, era assai complicato, e includeva quelle che venivano chiamate le prove complete, quelle che venivano chiamate le semiprove, poi c'erano gli indizi, c'era tutta una serie di elementi di prova con gradazioni, indizi di capacità produrre la prova che erano diversi e che si dovevano sommare gli uni agli altri per arrivare a una prova completa. E ancora una volta, se l'addizione non era completa, non voleva dire che la prova non fosse stata stabilita e che dunque non si potesse condannare: ciò autorizzava il giudice a imporre una condanna che era, nella sua gravità, proporzionale alla quantità di prova che egli era stato in grado di produrre. E la confessione in questo svolge evidentemente un ruolo, ha un posto, un posto privilegiato nella misura in cui è, in modo palese, una prova di grande valore; ma è interessante notare che questa confessione non doveva mai, in alcun modo, bastare da sola, e che doveva esserci almeno un indizio supplementare in grado di confermare la confessione. In breve, vi era tutto un calcolo che vincolava in qualche modo il giudice, e che gli permetteva di calcolare il valore giudiziario, la verità giudiziaria di cui aveva bisogno. Se ho sottolineato questi due aspetti che caratterizzano, credo, la pratica della confessione nelle istituzioni giudiziarie dal Medioevo fino al XVIII secolo – vale a dire il suo legame con la tortura e il suo posto privilegiato all'interno di questo bizzarro sistema delle prove legali – è perché questi due elementi spariranno dal sistema giuridico, dai codici, dalla pratica penale, nella seconda metà del XVIII secolo in generale, o talvolta all'inizio del XIX. Ora, [malgrado la scomparsa di] questi due elementi che hanno in qualche modo accompagnato e servito da contesto alla pratica della confessione – la tortura e il sistema delle prove legali – la confessione non solo non perderà la sua importanza nel momento in cui la

tortura scompare e nel momento in cui sparisce il sistema delle prove legali, [ma] al contrario, in questi nuovi codici che sono i codici moderni e la cui struttura, la cui ossatura, la cui architettura generale resta ancora attuale, la confessione acquisterà importanza, e un'importanza decisiva, come non aveva mai avuto. E per svariate ragioni. La prima, che è la più implicita e probabilmente anche la più importante, ha a che fare con il significato generale del sistema penale; ha a che fare con i fondamenti stessi del diritto di punire che si esercita attraverso questo sistema penale. Infatti, nei codici moderni e contemporanei, sapete bene che a fondare, o a essere ritenuta tale da fondare la legge è la volontà di tutti, la quale si esprimerebbe nella legge decisa e convalidata da un atto del corpo legislativo nella misura in cui costituisce un corpo sovrano. E di conseguenza uno dei temi più frequenti e più essenziali nella teoria penale del XVIII secolo, ma anche nella teoria penale contemporanea, è il principio secondo cui quando qualcuno ha commesso un crimine è lui stesso – attraverso la legge alla quale si pensa abbia accordato il suo assenso o che si ritiene sostenga volontariamente – a punirsi, e a punirsi attraverso l'istituzione del tribunale che pronuncia la sentenza in conformità con la legge che si ritiene egli stesso abbia voluto. Nel sistema penale moderno, colui che ha commesso il crimine è in un certo modo anche colui che si punisce da sé. La finzione secondo la quale ci si deve riconoscere nella legge che ci colpisce – finzione che peraltro è anche un'esigenza – spiega il posto simbolico e insieme centrale occupato dalla confessione. Perché, in fondo, la confessione esiste? Non solo perché l'individuo dica: «Ebbene, ho commesso il tale crimine» ma perché, dicendo questo, egli manifesti in qualche modo il principio stesso della legge penale, perché arrivi in qualche modo, in qualità di colpevole, a riconoscere mediante la sua confessione la sovranità sia della legge, sia del tribunale che lo punirà e nei quali egli si riconosce. La confessione non consiste semplicemente, nel sistema moderno, nel riconoscere il proprio crimine, [ma] nel riconoscere al contempo, attraverso il riconoscimento del proprio crimine, la validità della punizione che si subirà. La confessione è dunque, in

questo senso, una sorta di rito di sovranità mediante il quale il colpevole legittima i suoi giudici a condannarlo e riconosce nella decisione dei giudici la propria volontà. La confessione è in questo senso l'evocazione del patto sociale, ne è la restaurazione. Sebbene in questa parola di confessione il colpevole possa (e in termini rigorosamente giuridici, niente affatto psicologici) suggellare la punizione che lo separa dal corpo sociale o che lo spoglia dei suoi diritti, nello stesso tempo questa confessione segnerà la prima tappa della sua reintegrazione (poiché attraverso la confessione si riconosce di aver rotto il patto fondamentale, ma, riconoscendolo, si segna il primo passo, si compie il primo tratto di strada in direzione di tale reintegrazione). La confessione, da questo punto di vista, è un atto che assume il suo senso alla radice stessa del sistema punitivo. È un atto teorico e funzionale. È un atto che deve manifestare secondo verità quello che è l'esercizio del diritto di punire. È la prima ragione per cui la confessione è così importante nei sistemi penali moderni e contemporanei. L'altra ragione per cui la confessione è importante è il regime di verità a cui devono essere sottoposte tanto l'inchiesta quanto la sentenza. Il sistema delle prove legali è dunque scomparso, in generale, nella seconda metà del XVIII secolo: […] questo significa che ormai spetta al giudice decidere, nel suo foro interiore, che cosa è probante e che cosa non lo è tra gli elementi di dimostrazione che gli vengono sottoposti, che si tratti del procuratore o che si tratti dell'accusato, o di coloro che lo difendono. Il valore probatorio non è definito da un codice preliminare: è semplicemente la coscienza del giudice o del giurato che, in quanto tale, in nome della sua autorità, nella sua sovranità, cartesiana o empirica, come preferite, deve decidere che in effetti qualcosa costituisce una prova, che qualcosa stabilisce una verità che è assolutamente inconfutabile ed evidente. Non si tratta più dei quel calcolo che somma elementi preliminarmente misurati di prova: si ammette – e si è ammesso, peraltro, per ragioni politiche, e inoltre per ragioni filosofiche, e anche a causa di motivazioni istituzionali – che la verità non si pesa secondo unità definite in anticipo, che

si ha a che fare (che si deve avere a che fare) nella pratica penale con una sorta di verità indivisibile che non può essere calcolata secondo criteri propri della pratica giuridica, che la verità che deve intervenire nella pratica penale è qualcosa di comune a tutti. Ogni cittadino, ovviamente a patto che sia adulto, che sia ragionevole – e, secondo la definizione dell'epoca, secondo i codici dell'epoca, ovviamente a condizione che sia un uomo – ogni cittadino deve poter riconoscere ciò che è vero o falso in scienza e coscienza: sovranità, dunque, della coscienza comune in rapporto alla sovranità. Da questo, potete ben comprendere l'importanza della confessione come prova inconfutabile, che è come l'equivalente dell'evidenza in materia penale: dal momento in cui non si tratta più di sommare frammenti calcolabili di verità, ma di produrre una verità che sia evidente a tutti – e in particolare ai giudici e ai giurati – la confessione diventa la forma di prova più ricercata. Infine, la terza ragione per cui la confessione diventa così importante, è che la punizione, in questi nuovi codici, ha ricevuto la duplice funzione di punire, certamente, ma anche di emendare e di correggere: vale a dire che si tratta di ottenere, attraverso la punizione, che il soggetto sia trasformato in rapporto alla colpa commessa e grazie alla punizione che subisce; trasformato in rapporto alla colpa commessa, trasformato anche in rapporto alle colpe che potrebbe commettere. La punizione deve dunque essere correttiva – e la confessione, come modo di riconoscersi colpevole, costituisce il primo elemento o, potremmo dire, la prima garanzia di quello che potremmo chiamare il patto punitivo: «confessando, io accolgo la punizione come qualcosa di giusto e accetto di partecipare agli effetti correttivi che i giudici si aspettano da essa». Insomma, e per riassumere tutto questo, vedete che la confessione richiama innanzitutto e ripristina il patto implicito sul quale si fonda la sovranità dell'istituzione che giudica. In secondo luogo, la confessione si costituisce una sorta di contratto di verità che permette a colui che giudica di sapere in virtù di un sapere indubitabile. Infine, in terzo luogo, la con-

fessione costituisce un impegno punitivo che attribuisce senso alla sanzione imposta. Possiamo, partendo da qui, indovinare facilmente fino a che punto i codici moderni e le istituzioni penali, per tutto il XIX e il XX secolo, hanno avuto e hanno ancora bisogno di confessione. La confessione del colpevole – al di fuori, beninteso, di tutte le agevolazioni e le facilitazioni che essa può aprire all'inchiesta (cosa che, ovviamente, non è da trascurare), al di fuori di tutto questo – è divenuta un bisogno fondamentale del sistema. E quando dico «fondamentale», non è semplicemente per enfasi retorica, è perché sono appunto i fondamenti del sistema a trovarsi messi in gioco nella confessione e a fare appello alla confessione stessa. Conoscete l'adagio Habemus reum confitentem2, adagio mediante il quale i Romani si compiacevano per un caso così semplice come quello in cui l'accusato confessava. Quanto a noi, abbiamo bisogno di un accusato che confessi. Ne abbiamo bisogno affinché il sistema funzioni pienamente. È vero che la confessione interviene a fugare incertezze, a completare conoscenze lacunose: svolge dunque un ruolo importantissimo nella procedura d'inchiesta. Ma interviene anche – e credo soprattutto – a completare il sistema punitivo in generale, il sistema penale in generale; ha un ruolo importante affinché la giurisdizione, affinché il fatto di pronunciare la sentenza, sia svolto nella sua pienezza. Conosco bene, ovviamente, il prestigio della parola «simbolico». E sarei anche tentato di dire che la confessione svolge, rispetto al sistema penale, un ruolo simbolico. Ma mi sembra che, in realtà, si tratti di qualcosa di leggermente diverso: la confessione infatti non rinvia ad altro se non a ciò che svolge effettivamente sulla scena giudiziaria. Piuttosto interviene su di essa, in essa, a partire da essa – e, pertanto, non credo che si tratti di un elemento simbolico. Bisogna dire allora che si tratta di un elemento performativo, vale a dire di un atto verbale costitutivo di una modificazione definita del reale? Non credo neanche che sia esattamente 2 Adagio attribuito talvolta a Cicerone, di cui esistono versioni differenti: Habemus reum confitentem, Habemus confitentem reum («Abbiamo un accusato che confessa») o ancora Habemus optimum testem, confitentem reum («Abbiamo la prova migliore, un accusato che confessa»).

questo. C'è sì qualcosa di performativo nella procedura penale, ma ad esempio nei casi in cui la corte, quando dichiara colpevole l'accusato, lo costituisce dal punto di vista della legge e delle istituzioni come effettivamente colpevole. C'è del performativo quando la corte dichiara che qualcuno è condannato, perché effettivamente, a partire da quel momento, è condannato. Al contrario, quando l'accusato si dichiara colpevole, si tratta di qualcosa di più del simbolico, se volete, e non si tratta del performativo: l'accusato che si dichiara colpevole non si trasforma per ciò stesso in colpevole. E tuttavia la confessione è, credo, essenziale in tutto questo sistema. Né performativo, né simbolico: potrei dire, spostando un po' il senso abituale della parola, che la confessione, in fondo, appartiene all'ordine del drammatico o della drammaturgia. Se si può chiamare «drammatico» non un qualunque accessorio ornamentale ma ogni elemento che, in una scena, fa apparire il fondamento di legittimità e di senso di quanto vi si svolge, allora direi che la confessione fa parte della drammatica giudiziaria e penale. È un elemento essenziale della sua drammaturgia, nel senso pieno del termine. E se si vuole proprio ammettere che, a differenza del simbolico e del performativo, che non conoscono gradazione, la drammaturgia – il drammatico – può assumere diverse intensità, potremmo dire che la confessione è uno degli elementi più intensi della drammatica giudiziaria, e uno di quelli di cui si ha maggiormente bisogno. L'appetito di confessione – l'appetito di veridizione del crimine da parte del suo autore – è centrale nella nostra giurisdizione criminale. E voi ricorderete forse l'aneddoto col quale avevo cominciato, o che in ogni caso avevo citato nella prima lezione che vi ho tenuto, la storia del magistrato che, interrogando un colpevole, gli diceva: «Ma insomma, lei chi è?». E poiché l'accusato non rispondeva, il tribunale, il presidente, gli diceva: «Ma come vuole che la giudichiamo, se lei non ci dice chi è?». Bisogno di confessione, credo, assolutamente fondamentale nel sistema penale: non si può giudicare – vale a dire che la drammaturgia giudiziaria non può svolgersi pienamente – se l'accusato non ha, in qualche modo, confessato.

In realtà, a partire dal momento in cui questo bisogno di confessione è stato rilanciato – creato fino a un certo punto, in ogni caso rilanciato – dai sistemi moderni, quelli del XVIII secolo e dell'inizio del XIX secolo, […] il rilancio e la permanenza del bisogno di confessione [hanno] fatto deviare tutto il sistema penale verso qualcosa di molto diverso da ciò che si proponeva quando si fondava o cercava di ritrovare fondamenti razionali e universali nel XVIII secolo e, peraltro a questo scopo, faceva appello alla confessione. È come se all'interno del sistema moderno e contemporaneo fosse stata introdotta la trappola della confessione. Per mostrare alcuni di questi effetti del bisogno di confessione nella giurisdizione criminale e moderna, vorrei prendere (in modo un po' paradossale) come filo conduttore quello che succede, o che osserviamo succedere, o l'insieme degli stalli e degli slittamenti che vediamo prodursi quando il bisogno di confessione non è soddisfatto e quando qualcosa sfugge all'interno stesso di questa procedura – quando, alla domanda che si pone a colui che ha commesso il suo crimine, costui non può rispondere oppure dà una risposta diversa da quella che ci si attende. Si può dire in generale che il bisogno della confessione sia stato provato e riconosciuto molto presto, di fatto, come così necessario e così fondamentale che, in un certo numero di casi sui quali ora ritornerò – nei quali la confessione non è stata possibile o non ha potuto svolgere la funzione richiesta […] – si è stati costretti a sostituire o a integrare tale confessione lacunosa o insufficiente con qualcosa d'altro. E questo qualcosa d'altro che si sostituisce all'autoveridizione del soggetto – questa sorta di eteroveridizione, se volete – è stato l'esame; l'esame psichiatrico, l'esame psicologico del criminale, che si sostituirà alla confessione, riempirà le lacune, riempirà gli spazi bianchi o neri lasciati dalla confessione e cercherà di far emergere quella verità del criminale che il criminale stesso non è in grado di formulare. E mi sembra che, attraverso il modo in cui l'esame psichiatrico e psicologico del criminale si sviluppa nel XIX secolo, si veda come attraverso una lente d'ingrandimento cosa era presente, e nascosto a metà, nel bisogno di confessione che era iscritto nei codici istituiti alla

fine del XVIII e all'inizio del XIX secolo. Mi sembra che là si veda emergere […] il punto di diffrazione che farà deviare tutto il sistema: infatti, in questo soggetto di cui si chiedeva la confessione, non si cercava semplicemente di far apparire il soggetto di diritto al quale si chiede conto di un delitto commesso, ma si cercava anche di far emergere una soggettività che intrattiene con il suo crimine una relazione significativa. Credo che a partire da lì cominci la questione della conoscenza del soggetto come soggetto criminale; ed è lì che si trova ciò che fa slittare la confessione e che blocca il sistema penale contemporaneo. In che modo si è posta la questione della soggettività criminale? Si è posta all'inizio del XIX secolo a proposito di una serie di casi che avevano tutti all'incirca la stessa forma e di cui si può osservare lo svolgimento tra il 1800 e il 1835. Il primo caso, accaduto in Germania, e sul quale peraltro ho a disposizione pochi dettagli, e che costituisce davvero il caso princeps, è riportato molto brevemente da Hoffbauer3: è la storia di una serva che porta una bambina nella sua carriola per andare al mercato e che, durante questa corsa, uccide la bambina. Altra vicenda riportata, questa volta da Metzger4, è la storia di un vecchio ufficiale che viveva molto appartato presso un'affittacamere e che si era affezionato al figlio di questo affittacamere, ed ecco che un giorno – cito Metzger – «senza nessun motivo e senza che fosse in gioco nessuna passione, come può essere la collera, l'orgoglio, la vendetta si getta sul bambino e lo colpisce 3 J.CH. HOFFBAUER, (1766-1827) era principalmente filosofo del diritto naturale e dell'etica, ma si interessava anche di psicologia. È l'autore di Untersuchungen über die Krankheiten der Seele und der verwandten Zustände, Trampen, Halle 1802-1807, in tre volumi; oltre che del trattato Die Psychologie in ihrer Hauptanwendung auf die Rechtspflege, nach den allgemeinen Gesischtspunkten der Gesetzgebung, Schimmelpfennig und Compagnie, Halle 1808, tradotto da Chambeyron (J.-B. Baillière, Paris 1827) e integrato dalle note di Esquirol e Itard. Su Hoff bauer e altri psichiatri citati nel prosieguo della lezione – J.D. Metzger, J.-E. Esquirol, E.-J. Georget, W.E. e A. Combe –, cfr. anche FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., pp. 288-294, oltre a ID., L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., pp. 43-63. Sulla storia della professione psichiatrica nel XIX secolo, cfr. J. GOLD STEIN, Console and Classify: The French Psychiatric Profession in the Nineteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1987. 4 J.D. Metzger (1739-1805) era medico, psichiatra e professore all'Università di Königsberg. È l'autore delle Gerichtlich-medizinsche Beobachtungen , 2 voll., J. Kanter, Königsberg 1778-1780.

per due volte con un martello, senza ucciderlo» 5. Terza vicenda è quella di Sélestat, che si svolge nel 1817: siamo in Alsazia, durante un inverno molto rigido in cui esiste la minaccia di carestia; una contadina approfitta dell'assenza del marito, che è partito per lavoro, per uccidere la loro figlioletta, tagliarle la gamba, metterla in una pentola e farla cuocere con dei cavoli6. Parigi, 1827: una serva che si chiama Henriette Cornier va a trovare la vicina dei suoi padroni – era stata messa a servizio – e le chiede con insistenza di affidarle la sua bambina per qualche tempo, dicendo che l'avrebbe sorvegliata7. La vicina esita un po', poi acconsente perché deve lavorare e questo l'avrebbe un po' aiutata, e quando qualche tempo dopo torna a cercare la bambina, ecco che Henriette Cornier l'ha appena uccisa, le ha tagliato la testa e l'ha gettata dalla finestra. A Vienna, qualche tempo dopo, una donna, Catherine Ziegler, uccide il figlio illegittimo e 5 Su questo caso e questo passo di Metzger, cfr. anche FOUCAULT, L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., p. 45. 6 La vicenda di Sélestat è stata riferita inizialmente in un articolo del dottor REISSEISEN, Examen médico-légal d'un cas extraordinaire d'infanticide , in «Annales d'hygiène publique et de médecine légale», VIII (1832), n. 1, pp. 397-411. Tradotto dallo psichiatra C.Ch.H. Marc (17711841), era già stato pubblicato in tedesco nello «Jahrbuch der Staatsarzneikunde», 1817. Il testo di Reisseisen è stato integralmente riprodotto da C.CH.H. MARC, De la folie considérée dans ses rapports avec les questions médico-judiciaires , J.-B. Baillière, Paris 1840, pp. 130-145, prima di essere discusso dallo stesso Marc nelle pagine successive, come i casi di Henriette Cornier e Pierre Rivière. Foucault cita il caso della donna di Sélestat nel Corso al Collège de France Gli anormali cit., durante le lezioni del 22 gennaio 1975 (p. 63), del 29 gennaio 1975 (pp. 97 e 101, nota 38), del 5 febbraio 1975 (pp. 104, 105, 106) e del 12 febbraio 1975 (pp. 126 e 130); oltre che in ID., L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., p. 45. In Gli anormali cit., (pp. 97 e 101, nota 38), Foucault ci dice che il caso di Sélestat è stato analizzato anche da J.P. PETER nel suo articolo Ogres d'archives, in «Nouvelle Revue de psychanalyse», VI (1972), pp. 251-258. 7 Il caso di Henriette Cornier è forse, con Pierre Rivière, quello che è trattato più spesso e più ap profonditamente da Foucault. Lo presenta e lo commenta in Gli anormali cit., durante le lezioni del 22 gennaio 1975 (p. 63), del 5 febbraio 1975 (pp. 104-106), del 12 febbraio 1975 (pp. 127142), del 12 marzo 1975 (p. 252) e del 19 marzo 1975 (pp. 268-269); oltre che in L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., p. 45. Il caso era stato presentato inizialmente da Marc, al quale l'avvocato di Henriette Cornier aveva richiesto un consulto medico-legale, riportato integralmente in MARC, De la folie considérée dans ses rapports avec les questions médico-judiciaires cit., pp. 71-116. Cfr. anche E.-J. GEORGET, Discussion médico-légale sur la folie ou aliénation mentale, suivie de l'examen du procès criminel d'Henriette Cornier, et de plusieurs autres procès dans lesquels cette maladie a été alléguée comme moyen de défense, Migneret, Paris 1826, pp. 71-130; riedito in ID., De la folie, L'Harmattan, Paris 1999. Ulteriori riferimenti vengono forniti da V. Marchetti e A. Salomoni in Gli anormali cit., p. 125, nota 4.

spiega di essere stata spinta a farlo da una forza irresistibile 8. Viene assolta in quanto folle, e liberata dalla prigione, ma dichiara che sarebbe stato meglio tenerla in carcere perché di sicuro avrebbe ricominciato. E in effetti, dieci mesi dopo partorisce un bambino che subito uccide, e dichiara al processo di essere rimasta incinta al solo scopo di uccidere il neonato. Viene condannata a morte e giustiziata. In Scozia, un tale chiamato John [Howison] entra in una casa nella quale uccide una donna anziana che non conosceva, se ne va senza rubare nulla e senza nemmeno nascondersi; quando viene arrestato, nega contro ogni evidenza, e la difesa sostiene la tesi che si tratti di un crimine messo in atto da un demente, poiché è un crimine che non nasce da alcun interesse9. [Howison] viene giustiziato e retrospettivamente si considererà come un segno di follia il fatto che avesse detto a un funzionario lì presente che aveva voglia di ucciderlo. Negli Stati Uniti, nel New England – e mi fermerò in questa enumerazione di casi che hanno avuto tutti la loro importanza e la loro risonanza durante [il trentennio] che va dal 1805 al 1835 – un certo Abraham Prescott uccide in aperta campagna la madre adottiva con la quale aveva sempre avuto buoni rapporti10. Rientra a casa e si mette a piangere davanti al padre adottivo; questi lo interroga e Prescott, senza difficoltà, confessa il crimine. Spiega in seguito che era stato preso improvvisamente da un violento mal di denti e che non ricorda nulla. Prescott è condannato a morte, e benché la giuria faccia nello stesso tempo richiesta di commutazione della pena, viene comunque giustiziato. Queste vicende, insieme ad altre dello stesso tipo, ma restando quelle vicende esemplari, sono state i temi di riferimento, le vicende di riferimento degli psichiatri e dei penalisti dell'epoca – tra gli psichiatri, Metzger, Hoffbauer, Esquirol, Georget, William Ellis, Andrew Combe11. 8 Foucault aveva già presentato e commentato il caso di Catherine Ziegler in L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., p. 45. 9 Cfr. ibid., dove Foucault aveva già citato il caso di John Howison. 10 Cfr. ibid., dove Foucault aveva introdotto il caso di Abraham Prescott. 11 J.-É. Esquirol (1772-1840) era un famoso psichiatra del XIX secolo. È considerato il fondatore del modello di ospedale psichiatrico francese. È autore di numerose opere, tra cui Des maladies mentales considérées sous les rapport médical, hygiénique et médico-légal , 2 voll., J.-B. Baillière, Paris 1838. É.-J. Georget (1795-1828), allievo di J.-É. Esquirol e Ph. Pinel, psichiatra, è auto-

Il primo problema, la prima questione che si pone è la seguente: perché, fra tutti i crimini commessi, proprio questi sono sembrati importanti? Perché sono stati questi la posta in gioco di discussioni infinite tra medici e giudici? Perché è a partire da questi che il funzionamento della giustizia penale ha cominciato a interrogarsi e ad allontanarsi dalla struttura di razionalità che lo caratterizzava quando si era costituito, alla fine del XVIII e all'inizio del XIX secolo? In primo luogo credo che si debba sottolineare, a proposito di tutte queste vicende, che esse presentano un quadro molto diverso da quello costituito dalla giurisprudenza della follia criminale fino ad allora. Diciamo che, fino al termine del XVIII secolo, il problema della follia si poneva di certo nel diritto penale, ma tale questione della follia si poneva in riferimento ai casi precisi, e in pratica solo nei casi in cui il diritto civile e il diritto canonico [la] ponevano a loro volta, vale a dire quando la follia si presentava sotto la forma o della demenza o dell'imbecillità, o del furore. E in entrambi i casi, che si trattasse di uno stato definitivo o di un'esplosione passeggera, la follia non era provata e non era ammessa dal tribunale se non quando si manifestava attraverso tutta una serie di segni numerosi, facilmente riconoscibili e, in ogni caso, esterni rispetto al crimine in quanto tale. Era necessario che la follia venisse provata al di fuori dell'atto criminale. Ebbene, la cosa importante è che in tutti questi casi nessun altro segno di follia è praticamente mostrato dal soggetto al di fuori del suo stesso crimine. La questione non può dunque essere risolta dicendo: «Il soggetto, in effetti, ha dato forse precedentemente, in altre circostanze, segni di follia che potrebbero lasciar supporre […] che non è responsabile del suo crimine?». re di diversi trattati sulla psicopatologia, tra cui De la folie: Considérations sur cette maladie , Crevot, Paris 1820 (L'Harmattan, Paris 1999) e Examen des procès criminels des nommés Léger, Feldtmann, Lecouffe, Jean-Pierre et Papavoine, suivi de quelques considérations médico-légales sur la liberté morale, Migneret, Paris 1825. Anche W.Ch. Ellis (1780-1839) era psichiatra e amministratore di un manicomio in Inghilterra nel XIX secolo; è l'autore di A Treatise on the Nature, Symptoms, Causes, and Treatment on Insanity, with Practical Observations on Lunatic Asylums, Samuel Holdsworth, London 1838. A. Combe (1797-1847) era un medico e frenologo scozzese. Ha studiato in Francia sotto la direzione di J.-É. Esquirol. È autore di numerosi trattati, tra cui Observations on Mental Derangement: Being an Application of the Principles of Phrenology to the Elucidation of the Causes, Symptoms, Nature, and Treatment of Insanity, Marsh, Capen & Lyon, Boston 1834.

Ora abbiamo a che fare con vicende tali per cui si giunge a sospettare la follia per il solo fatto, in primo luogo, che il crimine è senza ragione – che non si trova alcun motivo dovuto a interesse, calcolo, passione –, e in secondo luogo che il soggetto non è in grado di dire alcunché a proposito del suo crimine. Il soggetto è in qualche modo muto rispetto a esso. Innanzitutto, si tratta di crimini senza ragione. Credo che sia questo il motivo del loro interesse, l'elemento che li accomuna. Si tratta di crimini senza passione, senza motivo, senza interesse, non sono neppure fondati su una illusione delirante. In tutti i casi che ho citato, gli psichiatri e i giudici insistono sul fatto che tra i protagonisti del dramma, l'uccisore e la vittima, o l'uccisore e i genitori del bambino ucciso – perché è interessante notare che quasi sempre, o comunque abbastanza spesso, sono storie di infanticidio – non c'è nessuna relazione che permetta di rendere il crimine comprensibile. Nel caso di Henriette Colette, ad esempio, che aveva decapitato la figlioletta della vicina, si è svolta una lunga inchiesta per sapere se per caso lei fosse stata l'amante del padre della bambina e se avesse agito per vendetta. E si è scoperto che non esisteva alcun rapporto. Nella storia della donna di Sélestat – quella che aveva fatto cuocere la coscia di sua figlia con dei cavoli – l'elemento importante della discussione era stato: «C'era carestia all'epoca? L'accusata era povera o no, affamata o no?». E il procuratore aveva detto: se fosse stata ricca, in quel momento non ci sarebbe stato interesse materiale nel mangiare la propria figlia (poiché avrebbe potuto comprare della carne in macelleria), dunque la si sarebbe potuta considerare come alienata. Ma era una donna povera, in condizioni di estrema indigenza, e dunque, in quei tempi di carestia, aveva certamente fame; e dal momento che aveva fame, far cuocere con dei cavoli la gamba di sua figlia era un comportamento interessato; dal momento che si trattava di un comportamento interessato, era un comportamento ragionevole; e dal momento che era ragionevole, ella era folle*12. * Il pubblico si mette a ridere. La trascrizione fornita qui è fedele alla parola pronunciata da Foucault. Differisce invece dalla lezione, costante, data nelle altre versioni pubblicate di questa scena, nelle quali si dice «ella non era folle». Per una discussione su questo punto, cfr. nota 12.

Giocando sulle parole, dirò che questi crimini senza ragione – ed è l'altro aspetto – sono crimini senza confessione; sono crimini di cui non si poteva dire nulla, nulla in questo senso. Erano, certo, crimini assolutamente flagranti: tutte le prove possibili di colpevolezza vi si trovavano riunite; i loro autori, nella maggior parte dei casi, li riconoscevano (c'è un solo caso in cui vediamo il colpevole cercare di negare il proprio crimine, tutti gli altri lo riconoscevano molto facilmente); dunque, giuridicamente, se alla confessione si chiedeva soltanto la conferma materiale di una verità peraltro stabilita, questo sarebbe dovuto bastare e soddisfare i giudici. Ora, per quanto queste confessioni vengano rese, vediamo bene che 12 La versione qui presentata differisce dalle altre edizioni pubblicate del testo. Cfr. About the Concept of the “Dangerous Individual” in 19th Century Legal Psychiatry cit., p. 5: «to cook the leg with the cabbage was interested beahavior; se was therefore not insane; e L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., p, 47: «cuocere la gamba con dei cavoli era un comportamento interessato; dunque non era folle». Si sarebbe dunque dovuto pubblicare il testo come segue: «e dal momento che era ragionevole, ella [non] era folle»? Forse. Ma tenendo conto del testo su cui Foucault si basa – Examen médicolégal d'un cas extraordinaire d'infanticide del dottor Reisseisen di Strasburgo, estratto dal volume XI delle «Annales de médicine politique» di Kopp, tradotto dal dottor Marc (cfr. nota 6) – è possibile un'altra interpretazione. Il giudice, nel caso specifico, dichiarò l'imputata colpevole di infanticidio e aggiunse che l'atto «era stato commesso per effetto di un delirio, per cui fu assolta e rinviata all'autorità competente». I medici chiamati a illuminare i giurati concordarono nel dire che la donna aveva commesso l'atto in preda a un accesso maniacale; uno di loro aggiunse che stentava a riconoscere, nell'esecuzione del crimine, sia un accesso di furore, sia un accesso di melancolia – ma, scrive Reisseisen, «si ritenne obbligato, per l'onore dell'umanità, a considerare l'accusata come se fosse stata privata della propria ragione, durante l'orribile evento che l'aveva condotta davanti alla Corte d'assise». Nel suo commento, Reisseisen si chiede se la situazione di miseria e la fame potessero aver causato l'atto, prima di esaminare se l'accusata avesse presentato segni di melancolia o di altre «specie di follia». In entrambi i casi, la risposta è stata negativa. Di qui una prima conclusione: «Quando […] si tiene conto delle circostanze che hanno accompagnato il delitto, quando si considera che, prima e dopo l'azione, né i discor si né le azioni dell'imputata hanno indicato la benché minima traccia di disordine mentale, diventa difficile far quadrare con un simile stato la serie di fatti raccapriccianti che hanno avuto luogo». Questa prima conclusione è immediatamente seguita da una seconda: «Si è dunque costretti – scrive – a considerare l'atto incriminato come il prodotto di un concorso di alienazione mentale, disperazione e propensione istintiva. Ora, poiché la legge ammette solo l'alienazione mentale come attenuante di un crimine, è stato appunto necessario che il medico legale, benché sprovvisto, in quel caso, dei caratteri scientifici che sarebbero potuti servire a determinare la forma dell'affezione intellettuale, si pronunciasse in modo da far accettare che, al momento dell'azione, l'imputata avesse subito un accesso di delirio, e portare così i magistrati a escludere, a loro volta, per l'onore dell'umanità, l'imputazione di un crimine così enorme. “Indignum est crimina atrocitate defendi”». È possibile che sia questo ragionamento – per compiere un tale atto senza essere folle, bisogna essere folle; o almeno si preferisce supporlo «per l'onore dell'umanità» – che Foucault riassume quando dice «e dal momento che era ragionevole, ella era folle».

non è questo che i giudici chiedono: ciò che essi chiedono è che il colpevole dica qualcosa sul suo crimine – che dica perché ha commesso il suo crimine, che senso dava a questo gesto. E se non si può dirne nulla, se l'accusato non può dire nulla del suo crimine, è a questo punto che comincia la difficoltà, è là che comincia a incespicare e a incepparsi la macchina penale. In questo genere di vicende, vediamo bene che la confessione, nella sua materialità, non è sufficiente: si chiede una confessione che svolga il ruolo drammaturgico di cui vi ho parlato. E vediamo bene che in questo caso il riconoscimento da parte del malato, da parte del criminale che dice: «Sì, ho commesso questo assassinio. Punto. È tutto quel che ho da dirne», non funziona; la confessione non funziona secondo la drammaturgia richiesta. Non dico affatto che questa serie di vicende che vi cito – serie interessante, perché la possiamo trovare in Germania, in Austria, in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, dunque vicende isomorfe che mostrano bene come si tratti sempre dello stesso tipo di problema che incontriamo dovunque – abbiano creato la situazione che ora analizzerò. Diciamo semplicemente che hanno fatto esplodere, con la loro singolarità, con i loro paradossi, tutta una serie di questioni che erano implicitamente presenti nel funzionamento della giustizia penale. Hanno fatto apparire, dietro l'autore dell'atto e i meccanismi giuridicamente legittimi dell'imputazione, la questione del soggetto criminale. Hanno fatto nascere, dietro, o piuttosto intrecciate tra loro, la discorsività dell'inchiesta che cerca di stabilire la verità del fatto e la discorsività dell'esame che cerca di stabilire la verità del criminale. Diciamo che il giudice, in sostanza, si rivolge così all'accusato: «Non dirmi semplicemente cosa hai fatto, senza dirmi, nello stesso tempo e attraverso questo, chi sei». E, infine, questa serie di vicende fa nascere l'esigenza di un altro tipo di sapere rispetto a quello che consente di stabilire i fatti. Non ho fatto altro che indicare di che genere fosse il punto di partenza storico-aneddotico di tutta una deriva di cui è ora possibile vedere lo sviluppo. L'ho fatto semplicemente per mettere in

rilievo il radicamento generale e la collocazione storica di questa problematica nella quale il diritto penale moderno ha, credo, incontrato il suo labirinto infinito. Lo sdoppiamento della confessione e la sua apertura a un altro tipo di questioni – vale a dire le questioni della soggettività – sono, credo, iscritti in questo contesto. Sarebbe, beninteso, del tutto insufficiente, per render conto di tutto ciò che è accaduto nel XIX secolo in relazione al principio del dir vero sulla soggettività, limitarsi a questo. E per gettare due spot luminosi su due periodi, su due momenti importanti in questa storia, vorrei considerare, alla metà del XIX secolo – o meglio, alla fine della prima metà del XIX secolo – la questione della monomania e della costituzione del crimine come oggetto psichiatrico, e successivamente spostarmi alla fine del XIX secolo e parlare un po' della nozione di degenerazione e della costituzione del criminale come oggetto della difesa sociale13. In primo luogo, consideriamo la monomania e la costituzione del crimine come oggetto psichiatrico. Alla questione posta dai grandi crimini di cui vi parlavo poco fa, quei grandi crimini mostruosi e muti, quei grandi crimini senza ragione e senza confessione, al problema che essi ponevano, gli psichiatri, come sapete, hanno risposto con la nozione di monomania, di monomania omicida14. Nozione strana, poiché si tratta, per gli psichiatri, di una malattia che ha la particolarità di avere praticamente un solo sintomo visibile, sintomo visibile che è appunto il crimine. E si 13 Foucault aveva sviluppato questi temi in L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit. Egli analizza il periodo contrassegnato al contempo dal primo congresso di antropologia criminale tenutosi a Roma nel novembre 1885 ( Actes du premier Congrès international d'anthropologie criminelle , Bocca, Torino 1886-1887) e dalla pubblicazione di La défense sociale di A. Prins, nel 1910 (PRINS, La défense sociale et les transformations du droit pénal cit.). 14 Foucault aveva introdotto e cominciato a studiare la nozione di monomania in Il potere psichiatrico cit., p. 224, lezione del 23 gennaio 1974; la discute in Gli anormali cit. e in Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Un caso di parricidio nel XIX secolo cit. Su questa nozione, cfr. anche il capitolo Monomania in GOLDSTEIN, Console and Classify: The French Psychiatric Profession in the Nineteenth Century cit., pp. 152-196; oltre ai riferimenti proposti da Jacques Lagrange in FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., pp. 340341, nota 13: R. FONTANILLE, Aliénation mentale et Criminalité (Historique, expertise médico-légale, internement), Allier Frères, Grenoble 1902; P. DUBUISSON e A. VIGOUROUX, Responsabilité pénale et folie. Étude médico-légale, Alcan, Paris 1911; A. FONTANA, Le intermittenze della ragione, in FOUCAULT, Io, Pierre Rivière... cit., pp. 277-291.

tratta al contempo di una nozione molti bizzarra dal punto di vista della penalità, poiché si tratta di un crimine che non avrebbe come sua ragion d'essere alcun interesse né alcuna passione, che avrebbe come unica ragion d'essere soltanto la malattia in quanto tale, malattia che consiste nel commettere il crimine. «Crimine-follia», è questa la nozione paradossale che i medici negli anni tra il 1830 e il 1850 [hanno proposto]. Di fatto, la nozione ha cominciato a regredire verso gli anni Cinquanta, poi è ricomparsa un po' più avanti, diciamo negli anni Settanta. Dunque, possiamo dire che per una trentina-quarantina d'anni, la nozione di monomania omicida come «crimine-follia», crimine assolutamente adeguato a una follia e follia assolutamente adeguata a un crimine, è stata, credo, centrale nella questione del soggetto criminale o del crimine come oggetto per una scienza psichiatrica del soggetto. Crimine che è interamente follia, follia che non è nient'altro che un crimine. Non si tratta, evidentemente, di delineare lo sfondo teorico della nozione né le ragioni per le quali essa è stata costituita. Vorrei semplicemente porre la questione di sapere perché la grande finzione della monomania omicida sia stata la nozione-chiave di questa protostoria della soggettività criminale. Credo che ci si debba in primo luogo interrogare sulla ragione per cui i medici hanno proposto, in qualche modo, all'istituzione giudiziaria la nozione di monomania: perché hanno teso la mano in questo modo all'istituzione giudiziaria. Credo che la ragione sia legata a quello che erano, fondamentalmente, il ruolo e la definizione della psichiatria in quell'epoca. All'inizio del XIX secolo, il compito della psichiatria era essenzialmente quello di definire la propria specificità nell'ambito della medicina e di far riconoscere la propria specificità tra le altre pratiche mediche. Perché, nel momento in cui la medicina mentale cercava di formare in questo modo la propria specificità e di definire la propria specificità e il proprio ambito rispetto a tutte le altre discipline mediche, aveva cercato di intervenire nell'ambito della giustizia, e in particolare della giustizia penale? Credo che non si debba cercare di spiegare questo tentativo, questa tentazione, questo movimento per penetrare nella pratica pe-

nale riferendosi a un qualche imperialismo degli psichiatri interessati ad annettersi un nuovo ambito. Non si deve cercare di spiegarlo come effetto di un dinamismo interno e proprio del sapere medico, che cerca di razionalizzare l'ambito così confuso nel quale si mescolano follia e crimine. Se il crimine, in quell'epoca, è diventato una posta in gioco così importante per gli psichiatri che hanno cercato effettivamente di entrare, di aprire un varco nell'istituzione giudiziaria, credo che sia perché si trattava, per gli psichiatri, non tanto di un ambito di conoscenza da conquistare, quanto di una modalità di potere, della modalità del loro proprio potere che si trattava di garantire e di giustificare. In effetti, se la psichiatria è diventata così importante nel XIX secolo, non è semplicemente perché applicava una nuova razionalità medica al disordine della mente e del comportamento. L'importanza della psichiatria agli inizi del XIX secolo dipende dal fatto che essa funzionava come una sorta di igiene pubblica. Lo sviluppo, nel XVIII secolo, della demografia, delle strutture urbane, il problema della manodopera industriale – tutto questo aveva fatto emergere la questione biologica e medica delle popolazioni urbane con le loro condizioni di esistenza, con le loro condizioni di habitat, di alimentazione, aveva fatto emergere la questione della natalità e della mortalità. Credo si possa dire che il corpo sociale cessi nel XIX secolo, di essere una semplice metafora giuridico-politica, per apparire come una realtà biologica e un ambito di intervento medico. Il medico, a partire da quel momento, deve essere il tecnico del corpo sociale, e la medicina una vera e propria igiene pubblica. E se la psichiatria, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, ha conquistato la sua autonomia e ha assunto nello stesso tempo un così grande prestigio, è perché ha potuto inserirsi nel quadro di una medicina concepita come reazione ai pericoli apparenti o virtuali inerenti al corpo sociale. Gli alienisti dell'epoca hanno potuto discutere all'infinito sull'origine organica o psichica delle malattie mentali, hanno potuto proporre terapie fisiche o fisiologiche. Ma, attraverso le loro divergenze teoriche o pratiche, erano tutti consapevoli di avere a che fare e di doversi occupare di un pericolo sociale, sia che

la follia apparisse loro come legata a condizioni malsane di esistenza (troviamo in molti psichiatri l'idea che la sovrappopolazione, la promiscuità, la vita urbana, l'alcolismo, la dissolutezza sessuale, tutto questo fosse all'origine della malattia mentale), sia che questa follia venisse percepita, in quanto tale, come fonte di pericolo per se stessi, per gli altri, per chi vive attorno, per la discendenza attraverso l'ereditarietà. In ogni caso, gli psichiatri, trattando la follia, erano consapevoli di trattare certo una malattia, ma soprattutto un pericolo. E ciò che li autorizzava a intervenire su questo pericolo era, beninteso, la possibilità di conferire a questo pericolo lo statuto di malattia. La psichiatria, nel XIX secolo, o in ogni caso agli inizi del XIX secolo, mi sembra sia stata molto meno una medicina dell'anima individuale che non una medicina del corpo collettivo. Comprendiamo bene perché in quel momento la psichiatria fosse tanto interessata a dimostrare l'esistenza di qualcosa di così fantastico come la monomania omicida, quella follia stupefacente che si manifesterebbe solamente nel crimine. Comprendiamo, credo, a partire da lì come, per trenta, quarant'anni, non si sia cessato di far funzionare questa nozione benché, come è evidente, abbia pochissime giustificazioni teoriche. Sempre a patto che esista, cosa mostra la monomania omicida? È come la dimostrazione vivente (dovrei dire: come la dimostrazione mortale) che, sotto certe forme, estreme, intense, la follia può arrivare a essere interamente crimine, e nient'altro che crimine; dunque che, per lo meno ai limiti estremi della follia, c'è il crimine – e dunque un'appartenenza essenziale, o una prossimità, una parentela essenziale tra la follia e il crimine. La monomania omicida, d'altra parte, mostra che la follia ha la capacità di recare con sé non semplicemente disordini del comportamento, ma addirittura il crimine assoluto, quello che infrange tutte le leggi della natura e della società: uccidere dei bambini, uccidere il proprio figlio, è veramente il luogo […]* * Introduciamo qui una cesura che corrisponde alla sostituzione del nastro. Poiché il dattiloscritto depositato all'Imec non comprende la trascrizione di questa lezione, non è possibile colmare la lacuna.

[I magistrati] hanno tentato di resistere, naturalmente: esiste tutta una serie di discussioni molto interessanti. Ma, malgrado tutto, attraverso questi rifiuti, queste esitazioni, non hanno affatto respinto tale nozione e si sono lasciati convincere. Non si può dire che siano stati coartati dalla medicina: hanno, alla fine, con più o meno buona volontà, fatto funzionare nell'ambito della loro pratica la nozione di monomania omicida. E perché alla fine l'hanno accettata? Perché i nuovi codici, e soprattutto le riforme di questi nuovi codici, con le circostanze attenuanti e tutta la modulazione della pena che si proponeva loro di stabilire e di amministrare all'interno del codice legale (come sapete, tutte le misure relative alle circostanze attenuanti, dunque tutte queste riforme, risalgono all'incirca agli anni 1830-40), ebbene, a partire dal momento in cui doveva gestire la pena – se non la natura, almeno la quantità della pena – in funzione di qualcosa che non era semplicemente il crimine ma piuttosto il criminale, ecco che, con queste nozioni psichiatriche, avevano in mano uno strumento. Né i grandi teorici come Beccaria e Bentham, né coloro che, di fatto, avevano redatto le nuove legislazioni penali avevano cercato di elaborare qualcosa che rientrasse nell'ordine della conoscenza del soggetto. Ma, da quando la riforma del sistema penale aveva proposto, verso il 1830, le modulazioni dell'applicazione della pena, bisognava proprio munirsi di un nuovo strumento. Di qui il fatto che, mentre prima il codice – in Francia, in particolare, il Codice napoleonico, con il famoso articolo 64 – conosceva semplicemente la demenza o il furore, a partire dal 1840, o meglio 1835-40 (le circostanze attenuanti sono introdotte nel 1832) […] comincia ad accettare l'uso della nozione di follia, di monomania omicida. E di colpo si sono trovati di fatto non solo davanti a una nozione nuova, ma a un soggetto nuovo, cioè il soggetto criminale. Non dovevano più semplicemente punire un crimine, ma dovevano trattare, dovevano in fondo manipolare, dovevano calibrare la loro attività giudiziaria non solamente sul crimine, ma sull'individualità criminale.

Quella che comincia a delinearsi verso il 1840 assumerà negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX un'importanza e un'ampiezza infinitamente maggiori. Tra questi due periodi – diciamo gli anni 1840-50 e gli anni 1880-1900-1910, cosa è accaduto? Nell'ordine della psichiatria propriamente detta, la nozione di monomania è stata abbandonata. Ed è stata abbandonata per due ragioni: in primo luogo perché all'idea, in fondo negativa, di una follia parziale che verte solo su un punto e si scatena solo in certi momenti, si è sostituita l'idea secondo cui una malattia men tale non è necessariamente una lesione del pensiero e della coscienza, ma può riguardare l'affettività, gli istinti, i comportamenti, ecc. In secondo luogo, la monomania è stata abbandonata anche per un'altra ragione, e cioè perché l'idea di malattie mentali dall'evoluzione complessa si è fatta strada. E l'idea di malattie mentali che possono presentare l'uno o l'altro sintomo particolare al tale o al talaltro stadio del loro sviluppo, e questo non solo rispetto all'individuo, ma rispetto alle generazioni, non è altro che l'idea della degenerazione. A partire dal momento in cui si può definire questa grande arborescenza evolutiva, non è più possibile opporvi, ovviamente, i grandi crimini mostruosi e misteriosi, che rimandano a una violenza incomprensibile ed essenziale della follia, e poi la piccola criminalità troppo frequente e troppo familiare perché si abbia bisogno di fare ricorso al patologico. Ormai, che si tratti degli incomprensibili massacri di cui Henriette Cornier e altri avevano dato l'esempio all'inizio del secolo, o che si tratti invece dei minimi delitti concernenti la proprietà, la sessualità, ecc., in ogni caso si dispone ora dello strumento che permette di sospettare un'alterazione più o meno grave degli istinti oppure degli stadi di un cammino ininterrotto verso la malattia. Ed è così che vediamo apparire, nel campo della psichiatria legale, categorie nuove come quella della necrofilia che, come tale, è apparsa per la prima volta verso il 1840, quella della cleptomania verso il 1860, l'esibizionismo nel 1876, e inoltre la presa in carico, da parte della psichiatria legale, di comportamenti come la pederastia, che verrà chiamata omosessualità a partire dal 1869, il sadismo, ecc. Abbiamo

dunque, almeno al principio, una sorta di continuum psichiatrico e criminologico che consente di interrogare in termini medici qualsivoglia grado della scala penale. La questione psichiatrica non si colloca più semplicemente in un certo senso al vertice della criminalità; non è più circoscritta, non è più sollevata semplicemente a proposito di alcuni grandi crimini. Anche quando le si deve dare una risposta negativa, è opportuno, si può in ogni caso legittimamente porla, attraverso l'intero ambito delle infrazioni: tra una donna che ruba biancheria intima in un magazzino e una madre che cuoce la coscia di sua figlia in un pentolone, alla fine si deve comunque, nell'uno come nell'altro caso, si può, nell'uno come nell'altro caso, porre la domanda: «Non si tratta forse di follia?». Ora, evidentemente, tutto questo ha conseguenze estremamente importanti per la teoria giuridica della responsabilità. Nella concezione della monomania, il sospetto patologico si formava proprio là dove non c'era ragione per un certo atto. La follia, dunque, appariva come la causa, come ciò che doveva essere la causa di quello che non aveva senso, e l'irresponsabilità si stabiliva in questo scarto. Ma con questa nuova analisi dell'istinto e dell'affettività avremo la possibilità di un'analisi causale di tutti i comportamenti, criminali o non criminali che siano, e qualunque sia il grado della loro criminalità. A partire di qui, si apre il labirinto infinito nel quale è entrato il problema giuridico e psichiatrico del crimine: se un atto è determinato da un nexus causale che l'analisi del soggetto criminale può identificare, se dunque un atto è determinato da un simile nexus causale, lo si può considerare libero? E in quel momento, si può forse dimostrare la responsabilità del soggetto? E perché si possa condannare qualcuno, è forse necessario che sia impossibile restituire l'intelligibilità causale dell'atto? Ora, vedete che al fondo di questa nuova maniera di porre il problema, si riconosce l'effetto di un certo numero di trasformazioni che ne sono state le condizioni di possibilità. Perché il problema di questo rapporto continuo e multiforme tra psichiatria e criminalità possa stabilirsi, perché si possa sospettare che c'è della follia anche nei comportamenti

più semplici e meno intensamente criminali, è stato necessario, innanzitutto, lo sviluppo intensivo del quadrillage poliziesco nella maggior parte dei paesi europei; il che comporta in particolare una riorganizzazione e una messa sotto sorveglianza dello spazio urbano, oltre che la persecuzione più sistematica e molto più efficace della piccola delinquenza. Si devono anche aggiungere […] i conflitti sociali, le lotte di classe, gli scontri politici, le rivolte armate – che si sia trattato dei rivoluzionari del '48, dei comunardi del '70, degli anarchici degli ultimi anni del secolo, passando attraverso tutti gli scioperi violenti. Tutti questi conflitti sociali hanno indotto i poteri ad assimilare, per screditarli meglio, i delitti politici ai reati di diritto comune; ed è stata così costruita a poco a poco l'immagine di un nemico della società che può essere tanto il rivoluzionario quanto l'assassino, poiché in effetti al rivoluzionario capita di uccidere. A questo ha corrisposto lo straordinario sviluppo, per tutta la seconda metà del secolo, di una letteratura di criminalità (intendo questo termine in senso ampio, includendo tanto i fatti di cronaca nei giornali quanto i romanzi polizieschi e tutta l'aura romanzesca che si sviluppa attorno ai crimini), con eroicizzazione del criminale, certamente, ma anche con l'affermazione che la criminalità è presente ovunque, che è ovunque una minaccia, e una minaccia di cui è possibile ritrovare i segni inquietanti in tutto il corpo sociale. La paura generale del crimine, l'ossessione di questo pericolo che sembra fare corpo con la società stessa [è] così iscritta incessantemente nella coscienza di qualcuno. E Garofalo, nella sua prefazione alla prima edizione della Criminologia (il suo trattato, il suo testo, che reca quel titolo), nel 1887, evocando i novemila omicidi che si contavano annualmente in Europa, esclusa la Russia, diceva: Qual è il nemico che ha così devastato la nostra contrada – l'Europa – qual è il nemico che l'ha devastata in questo modo? È un nemico misterioso e sconosciuto finora alla storia, il suo nome è il criminale»15. 15 «Qual è il nemico che ha così crudelmente devastato quella regione? Questo nemico è misterioso: la storia non lo conosce; il suo nome è IL DELINQUENTE» (R. GAROFALO, Criminologia. Studio sul delitto e sulla teoria della repressione , Bocca, Torino 18912, p. XXI (Prefazione

E a questo si deve evidentemente aggiungere un altro elemento, lo scacco rinnovato e incessantemente segnalato dell'apparato penitenziario. Sapete che uno dei sogni dei riformatori del XVIII secolo, e dei filantropi dell'epoca successiva, era che l'incarcerazione, a patto che fosse razionalmente diretta, rivestisse il ruolo di una terapeutica penale. L'emendazione dei condannati doveva essere il risultato di questa punizione. Ora, come sapete, ben presto ci si è accorti che la prigione portava a un risultato esattamente opposto, che era piuttosto una scuola di delinquenza, e che i metodi più raffinati dell'apparato poliziesco e giudiziario, lungi dall'assicurare una protezione migliore dal crimine, portavano al contrario, con l'intermediario della reclusione, a un rafforzamento del contesto criminale. Ci si trovava dunque, per tutta una serie di ragioni, in una situazione per cui esisteva una fortissima domanda sociale e politica di reazione al crimine e di repressione, e questa domanda concerneva una criminalità che, nella sua totalità, poteva essere pensata in termini giuridici e medici. E tuttavia, l'elemento centrale dell'istituzione penale a partire dal Medioevo – vale a dire, la responsabilità e la pratica della confessione intesa come un'enunciazione da parte dell'individuo che accetta effettivamente tale responsabilità – tutto questo sembrava, in effetti, inadeguato a pensare l'ambito così esteso e così denso della criminalità medico-legale. Tale inadeguatezza si è manifestata sia a livello delle concezioni che a livello delle istituzioni, all'interno dei conflitti che hanno contrapposto nel corso degli anni 1890-1900 la cosiddetta Scuola di antropologia criminale e l'Associazione di diritto penale. Nei confronti dei principî tradizionali della legislazione criminale, la scuola italiana o gli antropologi della criminalità non chiedevano niente di meno, in fondo, che di uscire dal diritto. Chiedevano una vera depenalizzazione del crimine attraverso l'allealla prima edizione francese). In L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., Foucault attribuisce a Garofalo, che ne avrebbe proposto la formulazione più chiara, quella che chiama la «legge del terzo elemento» o «principio di Garofalo»: «Criminal law knew only two terms, the offense and the penalty. The new criminology recognizes three, the crime, the criminal and the means of repression».

stimento di un apparato di tutt'altro tipo rispetto a quello previsto dai codici. Schematizzando molto, direi che per l'antropologia criminale si trattava di abbandonare totalmente la nozione giuridica di responsabilità, di porre come questione fondamentale non tanto quella del grado di libertà dell'individuo, quanto piuttosto quella del livello di pericolo che egli costituisce nella società. Si trattava, per questa antropologia criminale, di rimarcare che gli accusati che il diritto riconosceva irresponsabili (in quanto malati, folli, anormali, vittime di impulsi irresistibili) sono proprio quelli realmente più pericolosi. Si tratta di far valere il fatto che quella che si chiama pena non dev'essere una punizione, ma un meccanismo di difesa della società, e di notare allora che la differenza non è tra responsabili da condannare e irresponsabili da lasciare, ma tra soggetti assolutamente e definitivamente pericolosi e soggetti che, mediante determinati trattamenti, possono cessare di esserlo. Insomma, si trattava di concludere che ci debbono essere tre grandi tipi di reazione sociale al crimine, o piuttosto, al pericolo costituito dal criminale: l'eliminazione definitiva con la morte o la reclusione in un istituto, l'eliminazione provvisoria con trattamento, o l'eliminazione in qualche modo relativa e parziale con la sterilizzazione o la castrazione. Vediamo bene la serie di spostamenti che sono stati richiesti dalla scuola antropologica: dal crimine al criminale, dall'atto effettivamente commesso al pericolo virtualmente presente nell'individuo, e dalla punizione modulata del colpevole alla protezione assoluta degli altri 16. Credo che in quel momento si sia entrati in un regime completamente diverso, che era quello della sicurezza. Tutti questi spostamenti implicavano, ovviamente, che si sfuggisse a un universo del diritto penale che era, in realtà, incentrato sull'atto: si sfugge a un universo del diritto penale nel quale l'elemento centrale era l'imputabilità a un soggetto di diritto di atti commessi infrangendo la legge. Né la criminalità di un individuo, né l'indice di pericolosità di cui era portatore, né la sua condotta virtuale e futura, 16 Per un'analisi di questi spostamenti, cfr. P. PASQUINO, Naissance d'un savoir spécial: la criminologie, in R. LENOIR e J.-J. YVOREL (a cura di), Foucault. Surveiller et punir: la prison vingt ans après, dossier di «Sociétés et Représentations», 1996, n. 3, pp. 173-186.

né la protezione della società in generale da questi possibili pericoli – tutte cose che ora, in questa società di sicurezza, in questa società delle sicurezze, sono diventate così essenziali – niente di tutto ciò può infatti integrarsi esattamente nel sistema dei principî e [delle] nozioni giuridiche attorno alle quali erano articolati i codici allestiti alla fine del XVIII e all'inizio del XIX secolo. E i giudici, magistrati o giurati, se dovevano utilizzare queste nozioni, non erano mai in grado di sapere come avrebbero potuto articolarle sul sistema istituzionale che dava loro il diritto di punire. Non era possibile far funzionare in modo razionale le nozioni di criminalità di un individuo, di pericolosità, di comportamento virtualmente criminale, se non all'interno di qualcosa di completamente diverso da un codice giuridico: non era possibile farle funzionare se non all'interno di un sapere tecnico17. Un sapere tecnico capace di caratterizzare in quanto tale, e in qualche modo al di sotto dei suoi atti, quello che era un individuo criminale. C'era bisogno di un sapere capace di misurare l'indice di pericolo presente in un individuo. C'era bisogno, per tutto questo, di un sapere in grado di fissare la protezione necessaria e sufficiente di fronte al pericolo rappresentato da un individuo. Da qui, l'idea che il crimine non dovesse essere preso in carico dai giudici, o che non potesse essere preso in carico semplicemente dai giudici senza che la giurisdizione effettivamente esercitata dal giudice non fosse accompagnata da un tipo di veridizione completamente diversa da quella che era stato possibile ottenere e definire sia per l'inchiesta, sia per la confessione, nel senso di cui vi ho parlato e che funzionava così efficacemente nei codici dell'inizio del XIX secolo. È necessario un sapere, è necessario che ci sia un tipo di sapere, un tipo di esperienza, un tipo anche di scambio e di dialogo, che non poteva che provenire dalla psichiatria, dalla criminologia, dalla psicologia.

17 Su tali questioni, su cui l'Università cattolica di Lovanio aveva già lavorato, prima del 1981, cfr. CH. DEBUYST (a cura di), Dangerosité et justice pénale. Ambiguïté d'une pratique, Masson, Genève 1981.

E credo che, giunti al punto in cui comincia a emergere la nozione di difesa sociale18, che sarà così importante per tutto il XX secolo, vediamo apparire una forma completamente diversa della verità del soggetto o della veridizione del soggetto, che è estremamente lontana da quella che si poteva chiedere alla veridizione tradizionale della confessione. E mi sembra che si possano cogliere gli effetti di questa nuova esigenza di una conoscenza del soggetto di tutt'altro tipo rispetto a quella che poteva manifestarsi nella confessione – che si possa cogliere in che modo tale nuova esigenza è iscritta nel diritto penale e continua a funzionare – ricordando due cose che, appunto, non derivano tanto dalla storia interna del diritto penale quanto dalle trasformazioni che si sono prodotte altrove. In primo luogo, alla fine del XIX secolo, nel momento in cui, proprio all'interno del diritto penale e per le ragioni che vi ho appena detto, vale a dire la necessità di una difesa sociale, si costituiva nella stessa epoca, o forse si ricostituiva, quella che l'ultima volta ho chiamato un'ermeneutica del soggetto. Un'ermeneutica del soggetto che è evidentemente, nelle sue forme e nei suoi obiettivi, estremamente diversa da quella che era stato possibile trovare nella pratica della spiritualità cristiana. In essa, come ricorderete, l'ermeneutica del soggetto consiste essenzialmente in un portare alla luce i segreti della coscienza – gli arcana conscientiae – mediante il procedimento dell'esame permanente di se stessi e della verbalizzazione esauriente rivolta agli altri. Attraverso tutta una serie di lavori in cui, ovviamente, Freud e la psicoanalisi occupano un posto centrale, l'ermeneutica del soggetto è sfociata, alla fine del XIX secolo, in un metodo di decifrazione molto lontano dalla pratica dell'esame permanente e della verbalizzazione esauriente di cui vi parlavo a proposito della cristianità antica. Si arriva a un'ermeneutica del soggetto, ancora più impegnativa, che ha come strumento e come metodo principî di decifrazione che sono molto più vicini ai principî di analisi di un testo. Tale ermeneutica del sogget18 Su questa nozione, cfr. PRINS, La défense sociale et les transformations du droit pénal cit.; oltre ai testi prodotti nel contesto del seminario di ricerca diretto da Foucault all'Università cattolica di Lovanio, raccolti in F. TULKENS (a cura di), Généalogie de la défense sociale en Belgique cit.

to in forma di decifrazione di un testo deve permettere di radicare i comportamenti di un soggetto in un insieme significativo. Di colpo, a partire dall'ermeneutica del soggetto in questa forma, possiamo vedere che il crimine si costituisce come atto significativo. Questa nuova pratica del soggetto è evidentemente molto diversa da quella che poteva delinearsi nell'antropologia criminale o nella patologia del degenerato – ma dal punto di vista della penalità in quanto tale essa non eliminava, e continua a non eliminare, la difficoltà di queste nozioni, anche se queste [ultime] sono abbandonate. Anzi, la raddoppia, poiché, con l'ermeneutica del soggetto, si porta, si può portare all'interno della stessa pratica penale la questione del rapporto problematico tra la responsabilità di un atto e la sua intelligibilità. La trasporta proprio all'interno della pratica penale poiché mostra che il rapporto di un atto con un soggetto non è semplicemente questione di imputabilità, di causalità più o meno libera, di responsabilità, ma è anche, nello stesso tempo, un rapporto di significazione. La relazione di causalità spodestava il giudice. Quella di significazione gli restituisce le sue funzioni, ma in modo altrettanto ambiguo: che fare della significazione di un crimine? È la prima linea di trasformazione che si può vedere, esterna alla pratica penale, ma che ha pesato e che continua a pesare sulla pratica penale attuale. Credo che l'altra modificazione si possa trovare all'interno del sistema giuridico, ma a proposito della nozione di responsabilità nel diritto civile. Mi sembra – e ancora una volta sarò molto schematico – che nel diritto civile, alla fine del XIX-inizio del XX secolo, si possa cogliere una trasformazione molto importante. Tale trasformazione verte sulla nozione di incidente, di rischio, di responsabilità19. In modo molto generale, dirò che si deve sottolineare l'importanza assunta, soprattutto in questi ultimi anni del XIX secolo, e del resto non solo per il diritto, ma anche 19 Foucault aveva già studiato i temi del rischio e della responsabilità in L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., e li aveva sviluppati in ID., Sicurezza, territorio, popolazione cit. Altri sviluppi, concomitanti o di qualche tempo dopo, sono stati proposti da F. EWALD, L'État Providence, Bernard Grasset, Paris 1986, R. CASTEL, La gestion des risques. De l'anti-psychiatrie à l'après-psychanalyse , Éditions de Minuit, Paris 1981 e J. DONZELOT, L'invention du social, Fayard, Paris 1983.

per l'economia, dal problema dell'incidente – dell'incidente, della sua probabilità, di ciò che permette di ridurre la sua probabilità, di compensare i effetti, ecc. Con lo sviluppo del lavoro salariato, delle tecniche industriali, del macchinismo, dei mezzi di trasporto, delle strutture urbane, sono apparse due cose molto importanti. Per cominciare, i rischi che si fanno correre a terzi: l'imprenditore che espone i suoi operai a incidenti sul lavoro, i trasportatori che espongono a incidenti non solo i passeggeri, ma anche persone che il caso ha messo sulla loro strada. Poi, il fatto che questi incidenti potessero spesso essere attribuiti a una specie di colpa, ma una colpa minima – disattenzione, mancanza di precauzione, negligenza – e commessa per di più da qualcuno che non poteva assumerne la responsabilità civile, né assicurare il pagamento dei danni conseguenti (caso tipico di questa situazione è, ad esempio, la negligenza di un impiegato che provoca una catastrofe mineraria o un incidente ferroviario). Ora, tutto questo comportava la necessità di una rielaborazione della nozione di responsabilità civile. Bisognava che si cancellasse l'eredità del diritto romano che ancora vi si intravedeva – l'idea che la responsabilità fosse necessaria perché ci fosse colpa e che il pagamento di un danno dovesse costituire una sorta di pena civile. Bisognava che si depenalizzasse, che si decolpevolizzasse la responsabilità civile, che la si separasse da ogni riferimento a una colpa soggettiva, che la si sollevasse dall'obbligo di dimostrare l'esistenza di una colpa personale20. Concretamente, nel caso di un incidente sul lavoro, bisognava che gli operai colpiti da un incidente sul lavoro potessero essere indennizzati senza dover provare che il padrone aveva commesso una colpa precisa in violazione di una legge o di un regolamento preciso. Insomma, il problema era quello di fondare secondo diritto una responsabilità senza colpa. Fu questo lo sforzo dei giuristi occidentali – e soprattutto dei giuristi tedeschi, spinti com'erano dalle esigenze della società bismarckiana, società non solo di disciplina, ma di si20 Per un'analisi del modo in cui questo problema è posto e risolto nel diritto, cfr., fra tutte le ri cerche condotte all'Università cattolica di Lovanio, G. SCHAMPS, La mise en danger: un concept fondateur d'un principe général de résponsabilité. Analyse de droit comparé , Bruylant, Bruxelles 1998.

curezza. E mi sembra che l'organizzazione di una responsabilità decolpevolizzata sia stata, accanto alla nuova ermeneutica del soggetto che si era aperta con la psicoanalisi – o diciamo, più in generale, con la psichiatria o la psicologia – l'altra grande linea di forza che ha permesso di porre in termini nuovi la questione della soggettività criminale. Infatti, in modo abbastanza strano, è stata la decolpevolizzazione della responsabilità civile a costituire un modello per il diritto penale – e questo a partire dalle stesse proposizioni che erano state formulate dall'antropologia criminale. In fondo, cos'è una personalità criminale, se non qualcuno che, secondo una concatenazione causale difficile da ricostruire, è portatore di un indice particolarmente elevato di probabilità criminale? Qualcuno che è, fondamentalmente, un rischio di crimine? Proprio come si può determinare una responsabilità civile senza stabilire una colpa, ma per la sola stima del rischio creato contro il quale bisogna difendersi senza che lo si possa annullare, allo stesso modo, si può rendere un individuo penalmente responsabile senza dover determinare se fosse libero, e dunque se ci fosse colpa, ma collegando l'atto commesso al rischio di criminalità costituito dalla sua specifica personalità. Egli è responsabile poiché, con la sua sola esistenza, è creatore di rischio, anche se non è colpevole, anche se non ha scelto in piena libertà il male anziché il bene, anche se non ha scelto di essere nevrotico o psicotico anziché sano. La sanzione non avrà dunque lo scopo di punire un soggetto di diritto che abbia infranto volontariamente la legge. Avrà invece il compito di diminuire, quanto più possibile, o per eliminazione, o per esclusione, o con restrizioni di diverso tipo, o ancora con misure terapeutiche, il rischio di criminalità rappresentato dall'individuo in questione. Abbiamo in questo un punto importante da segnalare nella storia del pensiero penale: è il momento in cui la domanda di confessione – l'elemento drammaturgico che era così essenziale e il cui ruolo era contrassegnato in modo così fondamentale nei codici del XVIII e dell'inizio del XIX secolo – si trova rimpiazzata e sostituita da una domanda di un altro genere. Non si tratta più per il giudice di dire quello che, implicitamente,

diceva un tempo: «Dimmi se, effettivamente, hai commesso il crimine di cui sei accusato. Dimmi se, effettivamente, riconosci nella tua volontà fondamentale la fondatezza e la legittimità della condanna che pronuncerò contro di te». Ora, il giudice pone implicitamente a colui che è accusato la domanda: «Dimmi chi sei, perché io possa prendere una decisione giudiziaria che dovrà essere commisurata certamente al crimine che hai commesso ma anche, al contempo, all'individuo che tu sei». Riprendiamo il dialogo che avevo citato all'inizio di queste lezioni, il dialogo nel quale il giudice chiedeva all'accusato di accettare di parlare di se stesso: «Dimmi perché hai fatto violenza a queste ragazze. Dimmi perché hai voluto ucciderle. Dimmi chi sei, perché io possa giudicarti». Questa richiesta della confessione, non a livello dell'atto, nemmeno a livello della giustificazione e del fondamento della giurisdizione, ma a livello di quello che è l'essere stesso della soggettività criminale, credo che sia qualcosa di assolutamente fondamentale. È qualcosa che pone, nel diritto penale, una questione che penso sia rimasta insoluta. E se tante difficoltà, tanti ostacoli, tante contraddizioni non solo nella teoria, ma persino nella pratica penale, si manifestano e si sentono attualmente, è in gran parte perché – e nella misura in cui – tale questione della soggettività, del dir vero della soggettività criminale, è venuta a sostituire e ad allungare la sua ombra, in qualche modo, sulla semplice questione della confessione, che era: «Hai davvero commesso il crimine di cui sei accusato? Acconsenti effettivamente a esserne punito?». Quest'altra questione della veridizione del soggetto è al contempo la spina, la scheggia, la piaga, la linea di fuga, la breccia di tutto il sistema penale. Mi limiterò a citarvi un ultimo aneddoto21. Si tratta di un argo21 Si tratta della vicenda di Patrick Henry, patrocinato da Robert Badinter. Cfr. R. BADINTER, L'abolition, Fayard, Paris 2000, pp. 43-123. Robert Badinter scrive: «Richiamavo i limiti della conoscenza psichiatrica, l'incertezza degli esperti. Nessuno sapeva realmente chi fosse questo giovane. Certo non loro, i suoi giudici, né gli esperti. Ma era a loro che si chiedeva di ucciderlo. Era dunque questo la pena di morte: questo sacrificio giudiziario nelle tenebre dell'ignoranza» (pp. 116-117). Foucault riporta questo argomento in L'angoisse de juger (intervista di R. Badinter e J. Laplanche), in «Le Nouvel Observateur», n 655, 30 maggio – 6 giugno 1977, pp. 92-96; ripreso in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. III, n. 205, pp. 282-297 [trad. it. L'angoscia di giudicare, in ID., L'emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo cit., pp.

mento che è stato impiegato di recente da un avvocato francese di cui non citerò il nome non per discrezione, ma perché ili suo ruolo nella campagna contro la pena di morte è stato fondamentale. È un argomento che egli ha utilizzato a proposito di una vicenda di rapimento e uccisione di un bambino. Ciò che sto per dire non ha alcuna sfumatura né alcuna intenzione polemica, vorrei semplicemente mostrare [uno] dei paradossi della ragione, quello che potrei chiamare il paradosso o l'antinomia della ragione penale nel nostro sistema attuale... Egli difendeva dunque uno che aveva rapito un bambino e l'aveva ucciso. Questa vicenda, come forse alcuni di voi ricorderanno, ha avuto una grande risonanza, non solo per la gravità dei fatti, ma anche perché era in gioco, o in ogni caso si pensava che fosse in gioco in questo processo, il ricorso alla pena capitale, o invece quello che si sperava sarebbe stato il suo definitivo abbandono. Questo avvocato – che peraltro [non] patrocinava tanto per l'accusato, quanto contro la pena di morte – fa valere per l'accusato un certo numero di argomenti. Tra questi, ce n'è uno che mi ha colpito. Si è voltato verso i giurati, e ha detto loro: «Ma in fondo, l'accusato ha riconosciuto il suo crimine, ha confessato. Ma su questo crimine, che cosa vi ha detto? Che cosa vi ha lasciato conoscere del suo crimine, delle ragioni del suo crimine, della sua natura? Non ne sapete nulla, lui non ha potuto dirvi nulla. Nulla di tutto questo è potuto trasparire, né negli interrogatori a cui è stato sottoposto nel corso dell'istruttoria, né negli esami psichiatrici, nemmeno oggi davanti alla corte d'assise in cui è comparso. Non ha detto nulla, non ha voluto dire nulla, non ha potuto dire nulla. In ogni caso, voi non sapete nulla su di lui». E ha concluso con questa riflessione, che io trovo, ancora una volta, stupefacente, ma stupefacente perché è significativa dell'antinomia della nostra ragione penale; ha dunque terminato la sua argomentazione rispetto a quel punto con questa frase: «Insomma, potete condannare a morte qualcuno che non conoscete?». Ecco, vi ringrazio. 195-210 e ID., L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit.].

Intervista di André Berten a Michel Foucault 7 maggio 1981

BERTEN Michel Foucault è stato invitato all'Università cattolica di Lovanio, in particolare dalla Facoltà di Diritto e dalla Scuola di criminologia, a tenere una serie di lezioni-conferenze, che ha intitolato Mal fare, dir vero, sulla funzione della confessione nella giustizia. Per presentarla ai nostri ascoltatori, vorrei porle alcune domande. Certamente lei è molto conosciuto, insegna al Collège de France, dopo la Storia della follia ha pubblicato una serie di opere – Nascita della clinica, Le parole e le cose, L'ordine del discorso, L'archeologia del sapere, Sorvegliare e punire – e sta scrivendo una Storia della sessualità. Queste opere sono per lo più note, alcune più di altre; certune hanno suscitato dibattiti talvolta appassionanti. Ma mi sembra interessante che lei possa dirci come ha proceduto attraverso una serie di problematiche, una serie di questioni; spiegarci perché si è interessato alla storia della psichiatria, alla storia della medicina, alla prigione e ora alla storia della sessualità, e perché oggi sembra interessato alla storia del diritto. Qual è stato, fondamentalmente, il suo itinerario? Qual è stato il filo conduttore della sua riflessione, se è possibile rispondere a una tale domanda? FOUCAULT Quello che lei mi pone è un quesito difficile. In primo luogo perché il filo conduttore può essere individuato solo una volta che

si sia giunti al traguardo, vale a dire nel momento in cui si è smesso, o si sta per smettere, di scrivere. E poi, in fondo, come lei sa, io non mi considero assolutamente né uno scrittore né un profeta. Lavoro, è vero, […] spesso rispondendo a circostanze, a sollecitazioni esterne, a congiunture diverse, e non intendo affatto stabilire una legge. E mi sembra che se in ciò che faccio esiste una certa coerenza, essa sia forse più legata a una situazione che appartiene a tutti noi, agli uni e agli altri, nella quale siamo tutti coinvolti, che non a una […] intuizione fondamentale o a un pensiero sistematico. È vero, se vuole... Mi sembra che la filosofia moderna – forse a partire dal giorno in cui Kant ha posto la questione «Was ist Aufklärung?», vale a dire «Che cos'è la nostra attualità? Che cosa accade attorno a noi? Che cos'è il nostro presente?» – abbia assunto una dimensione, o abbia visto aprirsi davanti a sé un certo compito che aveva ignorato o che non esisteva prima per essa, compito che consiste nel dire chi siamo, nel dire cosa sia il nostro presente, che cosa sia l'oggi. Si tratta evidentemente di una questione che non avrebbe avuto senso per Descartes. È una questione che comincia ad avere un senso per Kant quando egli si domanda che cosa sia l'Aufklärung. È una questione che, in un certo senso, è ancora quella di Hegel: «Che cos'è l'adesso?». Ed è la questione, inoltre, di Nietzsche. Io penso che la filosofia, tra le diverse funzioni che può e che deve avere, abbia anche quella di interrogarsi su ciò che noi siamo nel nostro presente e nella nostra attualità. [Potremmo dire che] in un certo senso sia su questo che verte la questione; e, in tale misura, da tale punto di vista io sono nietzscheano o hegeliano o kantiano. Bene, ma come sono arrivato a porre questo genere di questioni? Per riassumere in due parole la storia della nostra vita intellettuale […] in Europa occidentale dopo la guerra, potremmo fare alcune considerazioni. [Da una parte], verso gli anni Cinquanta, si disponeva di una prospettiva, di un modo di analisi profondamente ispirato alla fenomenologia, che potremmo dire essere in quel momento, in

un certo senso, la filosofia dominante. Pronuncio questa parola senza alcuna accezione peggiorativa: non si può dire che quel modo di pensare esercitasse [una] dittatura o [un] dispotismo. Ma resta il fatto che nell'Europa occidentale, e in particolare in Francia, la fenomenologia era una sorta di stile generale di analisi. Era uno stile di analisi che rivendicava come uno dei propri compiti fondamentali l'analisi del concreto. Ed è certo che, da questo punto di vista, si poteva restare leggermente insoddisfatti, nella misura in cui il concreto a cui si riferiva la fenomenologia era – come dire? – un po' accademico e universitario. C'erano gli oggetti privilegiati della descrizione fenomenologica, come l'esperienza vissuta, o la percezione, ad esempio, di un albero attraverso la finestra dell'ufficio... Insomma, sono un po' severo, ma il campo di oggetti che la fenomenologia percorreva era in parte predeterminato da una tradizione filosofica e universitaria che forse valeva la pena di aprire almeno un po'. In secondo luogo, un'altra forma di pensiero dominante, importante, era evidentemente il marxismo – che si riferiva invece a tutto un altro ambito di analisi storica al cui riguardo, in un certo senso, girava a vuoto. Infatti, mentre la lettura dei testi di Marx, l'analisi dei concetti di Marx era considerata un compito importante, per contro i contenuti storici, il sapere storico a cui tali concetti dovevano riferirsi, ai quali dovevano essere applicati, erano un po' trascurati; o in ogni caso il marxismo, una storia marxista concreta, non era, per lo meno in Francia, granché sviluppata. C'era poi un terzo orientamento, in Francia, particolarmente sviluppato, costituito dalla storia delle scienze, con personaggi come Bachelard, Canguilhem, ecc., e Cavaillès prima della guerra. Il problema era quello di sapere [se] ci sia una storicità della ragione e [se] si possa fare la storia della verità. In un certo senso potrei dire che io mi sono situato quasi al crocevia tra questi diversi orientamenti e questi diversi problemi. Rispetto alla fenomenologia, mi sono chiesto se, anziché fare la descrizione, un po' interiorizzata, dell'esperienza vissuta, non fosse possibile

analizzare un certo numero di esperienze collettive e sociali. Come hanno mostrato le ricerche di Binswanger e di Kuhn, è importante descrivere la coscienza del folle. Ma dopotutto, non esiste forse anche una strutturazione culturale e sociale dell'esperienza della follia, e questa non deve forse essere analizzata? Il che mi ha portato a circoscrivere un problema storico che era quello di sapere – se si vuole descrivere l'articolazione sociale e collettiva di un'esperienza come quella della follia – quale sia l'ambito sociale, quale sia l'insieme delle istituzioni e delle pratiche che bisogna analizzare storicamente e rispetto alle quale le analisi marxiste sono un po' come abiti preconfezionati, che mal si adattano a questi sviluppi. E in terzo luogo, attraverso tutto questo – attraverso l'analisi di esperienze storiche, collettive, sociali, legate a contesti storici precisi – a chiedermi in che modo sia possibile fare la storia di un sapere, la storia dell'emergere di una conoscenza, e in che modo oggetti nuovi possano entrare nell'ambito della conoscenza, in che modo possano presentarsi come oggetti da conoscere. Se vuole, concretamente, possiamo porre il problema nei seguenti termini. Esiste o no un'esperienza della follia caratteristica di una società o di un tipo di società come la nostra? In che modo questa esperienza della follia ha potuto costituirsi, in che modo ha potuto emergere? E, attraverso l'esperienza della follia, in che modo la follia ha potuto costituirsi come oggetto di sapere per una medicina che si presentava come medicina mentale? O, in altre parole, attraverso quali trasformazioni storiche, attraverso quali modificazioni istituzionali, si è costituita un'esperienza della follia nella quale si trova al contempo il polo soggettivo dell'esperienza della follia e il polo oggettivo della malattia mentale? Ecco, in breve, se non l'itinerario, per lo meno il punto di partenza. E per ritornare brevemente alla sua domanda («Perché aver preso in considerazione proprio questi oggetti?»), direi che mi sembrava – e in questi casi si tratta forse del quarto orientamento, del

quarto punto di riferimento del mio cammino, o del mio procedere incerto, costituito, se vuole, dai testi più letterari, meno integrati nella tradizione filosofica (penso a scrittori come Blanchot, come Artaud, come Bataille, che per molti della mia generazione sono stati, credo, importantissimi) – che dovesse essere, in fondo, la questione delle esperienze limite. Si tratta di quelle forme di esperienza che, anziché essere considerate come centrali ed essere valorizzate positivamente in una società, vengono considerate come le esperienze limite, le esperienze frontiera a partire dalle quali è rimesso in questione ciò che di solito è ritenuto accettabile. E in un certo senso si trattava di fare della storia della follia un'interrogazione sul nostro sistema di ragione... BERTEN Come un'esperienza... La follia come un'esperienza limite... FOUCAULT È così. Ad esempio, qual è il rapporto tra il pensiero medico – il sapere della malattia e della vita – e l'esperienza della morte? E in che modo il problema della morte è stato integrato in questo sapere, o in che modo questo sapere è stato calibrato secondo quel momento, quel punto assoluto che è quello della morte? Stessa cosa per il crimine rispetto alla legge: anziché interrogare la legge in quanto tale, e chiedersi che cosa può fondarla, considerare il crimine come punto di rottura rispetto al sistema, e assumere quel punto di vista per domandare: «Che cos'è dunque la legge?». Considerare la prigione come ciò che deve farci capire cosa sia il sistema penale, anziché prendere in considerazione il sistema penale, interrogarlo dall'interno, sapere in che modo si è fondato, come attualmente si fonda e si giustifica, per dedurne in seguito che cosa sia stata la prigione. Ecco. BERTEN Lei ha presentato la filosofia nella sua attualità – fondamentalmente, a partire da Kant – come se ponesse una questione, che penso sia una questione che ci riguarda tutti, e che consente in fondo all'uomo di interrogarsi sulla sua situazione nella storia, nel mondo, nella società. Mi sembra che attraverso tutto ciò che lei ha

scritto, a partire dalla Storia della follia fino alla Storia della sessualità, ci sia una percezione di questa realtà o, almeno, ci sia la percezione di un elemento di questa realtà che sembra interessarla particolarmente e che riguarda tutto ciò che potremmo chiamare le tecniche di reclusione, di sorveglianza, di controllo – in breve, il modo in cui l'individuo nella nostra società è stato progressivamente controllato. Lei pensa che, di fatto, si tratti di un elemento che, già a partire da un certo periodo, a partire forse dall'epoca classica della nostra storia, sia determinante per comprendere la modernità? FOUCAULT Sì, è vero. Se vuole, non è un problema che io mi fossi posto sin dall'inizio. È solo a poco a poco, studiando un certo numero di cose come appunto la psichiatria, la medicina, il sistema penale, che tutti questi meccanismi – di reclusione, di esclusione, di sorveglianza, di controllo individuale – mi sono sembrati molto interessanti e molto importanti. Direi che ho forse posto tali questioni in maniera un po' selvaggia in un momento preciso, nel momento in cui mi sono accorto della loro importanza. Credo che si debba circoscrivere accuratamente di cosa si tratta ae quale sia il genere di problema che è possibile porre a proposito di tutto questo. Mi sembra che nella maggior parte delle analisi, tanto nelle analisi di tipo propriamente filosofico, quanto nelle analisi più politiche, e persino nelle analisi marxiste, la questione del potere sia stata relativamente marginalizzata... BERTEN Semplificata... FOUCAULT Sì, in ogni caso semplificata. O si trattava di sapere quali fossero i fondamenti giuridici in grado di legittimare un potere politico, o si trattava di definire il potere all'interno di una funzione di semplice conservazione o continuazione di rapporti di produzione. Si trattava della questione filosofica del fondamento, o dell'analisi storica della sovrastruttura. Questo mi sembrava insufficiente, mi è sembrato insufficiente per un certo numero di ragioni. In primo luogo perché, credo – come dimostra un certo numero di cose all'interno

degli ambiti concreti che ho cercato di analizzare – i rapporti di potere sono radicati molto più in profondità rispetto al semplice livello delle sovrastrutture. In secondo luogo, la questione del fondamento del potere è importante, ma – mi dispiace – il potere non funziona a partire dal proprio fondamento. Esistono poteri non fondati che funzionano benissimo e poteri che hanno cercato di fondarsi, che si sono effettivamente fondati e che, alla fine, non hanno funzionato. Se vuole, il mio problema è stato quello di dire a me stesso: «Ma non si può studiare la maniera in cui, effettivamente, il potere funziona?». Quando dico «il potere», non si tratta assolutamente di individuare un'istanza o una specie di potenza che sussisterebbe, occulta o visibile – poco importa –, e che diffonderebbe il suo irradiamento nocivo attraverso il corpo sociale, o che estenderebbe fatalmente la sua trama. Non si tratta per il potere, o per qualcosa che sarebbe «il potere», di gettare una vasta rete sempre più fitta che finirebbe con lo strangolare la società e gli individui. Non è assolutamente di questo che si tratta. Il potere è fatto di relazioni. Il potere non è una cosa. È una relazione tra due individui, e una relazione tale per cui uno può guidare la condotta di un altro o determinare la condotta di un altro – determinarla volontariamente in funzione di un certo numero di obiettivi, che sono i suoi. In altre parole, quando si considera che cosa sia il potere, si vede che esso consiste nell'esercizio di qualcosa che possiamo chiamare il governo, in senso molto ampio. Si può governare una società, si può governare un gruppo, si può governare una comunità, si può governare una famiglia, si può governare qualcuno. E quando dico governare qualcuno, è semplicemente nel senso che si può governare la sua condotta in funzione di strategie utilizzando un certo numero di tattiche. Dunque, se vuole, quello che ho cercato di studiare è la governamentalità in senso lato, intesa come insieme di relazioni di potere e di tecniche che permettono a queste relazioni di potere di esercitarsi. In che modo sono stati governati i folli, in che modo il problema del governo dei malati – e ancora una

volta metto la parola «governo» tra virgolette, conferendole un senso al contempo ampio e produttivo... – in che modo si sono governati i malati, cosa se ne è fatto, quale statuto è stato loro conferito, dove li si è collocati, in quale sistema di trattamento, e anche di sorveglianza, di beneficenza, di filantropia, in quale campo economico le cure da apportare ai malati... È tutto questo, credo, che bisogna cercare di vedere. È certo che questa governamentalità non ha cessato, da un certo punto di vista, di diventare più rigorosa nel corso del tempo. Il potere, in un sistema politico come quelli che abbiamo conosciuto durante il Medioevo, il potere inteso nel senso di governo degli uni da parte degli altri, era tutto sommato a maglie larghe: il problema era di realizzare il prelievo fiscale necessario, utile, o semplicemente voluto... Quel che le persone facevano nel loro comportamento quotidiano non era molto importante per l'esercizio del potere politico (lo era invece senza dubbio per la funzione ecclesiastica). Ma anche per il potere politico, a un certo momento, tutto ciò è diventato estremamente importante – così come oggi per noi, per fare un esempio molto semplice, il tipo di consumi della gente diventa importante economicamente, importante anche politicamente. Ed è vero che il numero di oggetti che divengono oggetti di una governamentalità riflessa all'interno di quadri politici anche liberali è considerevolmente aumentato. Ma io non penso nemmeno che si debba ritenere la governamentalità tale da assumere necessariamente la forma dell'internamento, della sorveglianza e del controllo. Attraverso tutta una serie di interventi, spesso sottili, si arriva infatti a guidare la condotta degli uomini o a guidare se stessi in modo tale che la condotta degli altri non possa avere gli effetti nocivi che si temono. È tutto il campo della governamentalità che ho voluto studiare. BERTEN Per studiare questo oggetto, o i diversi oggetti che ha preso in esame, lei ha utilizzato un metodo storico. Ma ciò che oggi è evidente a tutti – e che peraltro costituisce in gran parte la novità del-

le sue analisi, non tanto dal punto di vista del contenuto, quanto dal punto di vista del metodo – [è che] lei ha operato una sorta di spostamento del metodo storico. Vale a dire che il suo metodo non è più una storia della scienza, non è più un'epistemologia, non è più una storia delle ideologie, non è nemmeno una storia delle istituzioni. Si ha l'impressione che sia tutto questo nello stesso tempo, ma che per pensare, ad esempio, il lavoro della psichiatria, o quello che fanno oggi i criminologi (visto che sono i criminologi ad averla invitata qui), o per pensare istituzioni come la prigione o i manicomi, lei abbia dovuto trasformare profondamente il modo in cui si concepiva la storia. Le sembra, ad esempio, che l'opposizione tra sapere e scienza che compare nella sua opera, soprattutto all'interno di un certo numero di scritti di carattere prevalentemente metodologico, sia molto importante dal punto di vista del genere di storia che lei ci propone? FOUCAULT Io credo, in effetti, che il tipo di storia di cui mi occupo comporti un certo numero di caratteristiche o di handicap, come preferisce. In primo luogo, la cosa che vorrei dire è che, ancora una volta, la questione da cui parto è: «Che cosa siamo, e che cosa siamo oggi? Cos'è questo istante che è il nostro?». Dunque, se vuole, si tratta di una storia che parte appunto da questa attualità. La seconda cosa è che, cercando di porre problemi concreti, io parto necessariamente da – e, cosa che mi sembra interessante, assumo, scelgo come ambiti – dei punti che mi sembrano particolarmente fragili o sensibili all'interno dell'attualità. Vale a dire che io non potrei mai concepire una storia che sia propriamente speculativa e il cui campo non sia determinato da qualcosa che accade attualmente. La cosa interessante non è tanto seguire ciò che accade o seguire, come si dice, la moda – ad esempio, una volta che si siano scritti dieci libri, molto buoni peraltro, sulla morte, non c'è bisogno di scriverne un undicesimo con il pretesto che si tratta della questione all'ordine del giorno. Si tratta di... Il gioco consiste nel cercare di stabilire, tra le cose di cui non si è ancora parlato, quali siano quelle che attualmente presentano, mo-

strano, offrono alcuni indizi più o meno diffusi di fragilità nel nostro sistema di pensiero, nel nostro modo di riflessione, nella nostra pratica. C'era, ad esempio, verso il 1955, quando lavoravo negli ospedali psichiatrici, una sorta di crisi latente, qualcosa di cui si avvertiva il progressivo sfaldamento. Non se n'era ancora parlato molto ma, tuttavia, la si viveva abbastanza intensamente – la prova migliore è che contemporaneamente in Inghilterra, e senza che avessero mai avuto alcun rapporto tra di loro, anche personaggi come Laing e Cooper si misuravano con il medesimo problema. Si tratta dunque di una storia che si riferisce sempre a un'attualità. La stessa cosa vale in relazione al problema della medicina. Vero che quella del potere medico – o in ogni caso del campo istituzionale all'interno del quale il sapere medico funziona – era una questione che cominciava a porsi, che era anzi posta abbastanza diffusamente verso gli anni Sessanta, e che è entrata nella sfera pubblica solo dopo il 1968. È dunque una storia dell'attualità che si sta delineando. BERTEN Sì, ma rispetto a quest'attualità, in fondo, la maniera in cui lei elabora la storia mi pare originale. Mi sembra che, in fondo, sia regolata dall'oggetto stesso che lei analizza. È in ragione dei problemi che percepisce come fragili o come problemi-chiave nella nostra società, che lei è indotto a rifarne la storia per chiarirli, certamente, ma a rifarne la storia in modo specifico... FOUCAULT Allora, a livello degli obiettivi che pongo facendo questa storia, spesso la gente ha letto ciò che ho fatto come insiemi di analisi al tempo stesso complicate, un po' ossessive, e che portano al risultato per cui alla fine, purtroppo, ci troveremmo imprigionati nel sistema che abbiamo costruito, a causa dei tanti lacci che ci trattengono, e della difficoltà di sciogliere i nodi che la storia ha stretto attorno a noi! Mentre, in realtà, io faccio esattamente il contrario! Infatti, quando ho cercato di studiare qualcosa come la follia o la prigione... Consideriamo, se vuole, l'esempio della prigione. Quando si discute-

va con la gente, ancora pochi anni fa – diciamo, all'inizio degli anni Settanta – della riforma del sistema penale, una cosa mi colpiva parecchio. Per esempio, ci si poneva di certo la questione teorica del diritto di punire. Per un altro verso, si poneva di certo il problema di come organizzare il regime penitenziario. Eppure questa specie di evidenza, secondo cui la privazione di libertà sarebbe in fondo la forma più semplice, più logica, più ragionevole, più equa di punire qualcuno perché ha commesso un'infrazione non veniva assolutamente interrogata. Ora, ciò che ho inteso fare, è mostrare quanto, in fondo, l'adeguamento, per noi così chiaro e semplice, della pena alla privazione di libertà fosse in realtà qualcosa di recente. Qualcosa di recente, sì: si tratta di un'invenzione, un'invenzione tecnica, le cui origini sono certamente lontane, ma che è stata effettivamente integrata nel sistema penale e ha fatto parte della razionalità penale a partire dalla fine del XVIII secolo. E io ho cercato di interrogare le ragioni per cui la prigione era divenuta in questo modo una sorta di evidenza nel nostro sistema penale. Si tratta dunque, attraverso questa analisi storica, di rendere le cose più fragili, o piuttosto di mostrare perché, e come, le cose abbiano potuto costituirsi in questo modo, ma mostrando al contempo che esse si sono costituite attraverso una storia precisa. Bisogna dunque mostrare e la logica delle cose – o, se vuole, la logica delle strategie all'interno delle quali le cose si sono prodotte –, e mostrare che, tuttavia, non si tratta d'altro che di strategie e che, di colpo, cambiando un certo numero di elementi, cambiando strategia, prendendo le cose in altro modo, di colpo, quello che ci sembrava evidente cessa di esserlo. Il nostro rapporto con la follia è un rapporto storicamente costituito. E dal momento che è storicamente costituito, può essere politicamente distrutto. Dico «politicamente» attribuendo alla parola «politica» un senso molto ampio: in ogni caso, ci sono possibilità di azione, poiché è attraverso un certo numero di azioni, di reazioni, attraverso un certo numero di lotte, di conflitti, per rispondere

a un certo numero di problemi che si sono scelte proprio quelle soluzioni. Ho voluto reintegrare molte evidenze della nostra pratica nella storicità stessa di tali pratiche. E pertanto farle decadere dal loro statuto di evidenza per restituire loro la mobilità che hanno avuto e che devono continuare ad avere nel campo delle nostre pratiche. BERTEN Nelle sue conferenze attuali, lei utilizza il termine «veridizione», che si riferisce a un «dire la verità» e che riguarda un problema di verità. Nel metodo e in ciò che lei ha detto rispetto al suo interesse per l'attualità e al modo in cui ha considerato la storia e la costituzione stessa di questa attualità, in qualche modo ha rimesso in questione quelli che si poteva pensare fossero i fondamenti dell'una o dell'altra pratica. A proposito del potere, ci ha detto, in fondo, che il potere non funziona a partire dal suo fondamento, ma che, effettivamente, ci sono sempre alcune giustificazioni o riflessioni filosofiche che mirano a fondare il potere. Il suo stesso metodo storico, che è un metodo che traccia una sorta di archeologia o di genealogia – forse secondo gli oggetti o secondo lo sviluppo stesso del suo pensiero – mira a mostrare che, alla fine, non esiste un fondamento per le pratiche di potere. Sarebbe d'accordo nel dire, da un punto di vista filosofico e nell'insieme della sua ricerca, che ciò a cui lei mira è una sorta di decostruzione di ogni impresa che intenda dare un fondamento al potere? FOUCAULT Ma io credo che l'attività di conferire un fondamento al potere, l'attività che consiste nell'interrogarsi su […] ciò che fonda il potere che io esercito, o […] su ciò che può fondare il potere che si esercita su di me, sia una questione importante. È essenziale. Direi che si tratta della questione fondamentale. Ma il fondamento che si dà in risposta a tale questione fa parte di un campo storico all'interno del quale essa occupa un posto del tutto relativo. Vale a dire che il fondamento non si trova, ma è molto importante, in una cultura come la nostra – la questione è se si possa trovarlo altrove o meno, in altre culture, ma a questo non so dare risposta... Il fatto che per noi,

non solo da secoli, ma da millenni, un certo numero di cose, come in particolare l'esercizio del potere politico, si interroga da solo o si vede interrogato da persone che pongono la questione: «Ma cos'è che vi fonda? Cos'è che vi legittima?». Rispetto a questo, c'è un lavoro critico... BERTEN Quello che lei trova importante è appunto il lavoro critico attorno a tale questione, che ritorna sempre di nuovo, e che interroga la verità... FOUCAULT È questo che ritorna sempre di nuovo. Sono duemila anni che ci si interroga sul fondamento del potere politico – ho detto duemila anni, ma in realtà sono duemilacinquecento. Ci si interroga sul potere politico, ed è questo interrogarsi a essere fondamentale. BERTEN E, in fondo, il tipo di storia che lei ha fatto è appunto un'analisi, di strategie, ha detto lei, ma è anche un'analisi del modo in cui un certo numero di pratiche ha cercato un proprio fondamento. FOUCAULT Assolutamente. Assolutamente. Userò un termine barbaro, ma le parole sono barbare solo quando non esprimono chiaramente quello che intendono dire, tanto che molte parole familiari sono barbare, perché dicono molte cose insieme oppure non dicono nulla, mentre certe espressioni tecniche costruite in modo bizzarro non sono barbare se dicono abbastanza chiaramente quel che vogliono dire... Dirò dunque che io faccio la storia delle problematizzazioni, vale a dire la storia del modo in cui le cose costituiscono problema. Come e perché e secondo quale modo particolare la follia ha costituito problema nel mondo moderno? E perché è diventata un problema importante? Un problema talmente importante che un certo numero di cose, come, ad esempio, la psicoanalisi – che Dio sa quanto si sia diffusa attraverso tutta la nostra cultura – fa comunque parte di un problema assolutamente interno al rapporto che si può avere con la follia. È la storia di questi problemi. In che modo la malattia – che pure, evidentemente, ha sempre costituito problema, è stata og-

getto di un nuovo tipo di problematizzazione, mi sembra a partire dal XVIII e dal XIX secolo... Dunque, non è né storia delle teorie, né la storia delle ideologie, e nemmeno la storia delle mentalità a interessarmi. È piuttosto la storia dei problemi, o se preferisce la genealogia dei problemi: perché un problema, e perché proprio quel tipo di problema, perché proprio quel modo di problematizzazione appare a un certo momento a proposito di un certo ambito. Ad esempio, a proposito della sessualità, […] ho impiegato molto tempo prima di cominciare ad accorgermi di come si potesse rispondere a questo interrogativo: qual è stato il nuovo problema? Non si tratta tanto, a proposito della sessualità, di sapere e di ripetere all'infinito la questione: «Vediamo, è il cristianesimo, o è la borghesia, o è l'industrializzazione ad aver portato alla repressione della sessualità?». La repressione della sessualità è interessante solo nella misura in cui, da una parte, fa soffrire un certo numero di persone, ancora oggi; e dall'altra perché ha assunto forme sempre diverse, pur essendo sempre esistita. Quel che mi sembra importante riuscire a far emergere è come e perché questo rapporto con la sessualità o questo rapporto con i nostri comportamenti sessuali abbiano costituito un problema, e sotto quali forme. Infatti essi hanno sempre costituito un problema, ma è certo che questo non è avvenuto allo stesso modo tra i Greci del IV secolo a.C., tra i cristiani del III-IV secolo, nel XVI-XVII secolo, oppure adesso... A interessarmi è questa storia delle problematizzazioni: […] in che modo, nelle pratiche umane, arriva un momento in cui in un certo senso le evidenze si confondono, le luci si spengono, si fa sera. E la gente comincia ad accorgersi di agire alla cieca e che, di conseguenza, è necessaria una nuova luce. Ci vuole una nuova luce. C'è bisogno di una nuova chiarificazione, e di nuove regole di comportamento. E allora, ecco che un nuovo oggetto appare, un oggetto che appare come problema. BERTEN Vorrei porle un'ultima domanda. Lei è stato invitato dalla Facoltà di Diritto e sembra interessarsi ora in modo particolare al di-

ritto e al fenomeno giuridico. Potrebbe spiegare brevemente da dove viene questo interesse per il diritto, e che cosa si aspetta di ricavarne? FOUCAULT Senta, io credo di essermi sempre un po' interessato al diritto. Da profano: non sono uno specialista del diritto, non sono un giurista. Ma, tanto a proposito della follia quanto a proposito del crimine o della prigione, ho incontrato il problema del diritto, il problema della legge. E la questione che ho sempre posto è stata quella di sapere in che modo le tecnologie di governo, in che modo i rapporti di potere intesi nel senso che abbiamo appena indicato, in che modo tutto questo poteva prendere forma all'interno di una società che pretende di funzionare in base al diritto e che, almeno in parte, funziona in base al diritto. Ciò che vorrei studiare sono i legami, i rapporti tra cause e conseguenze, e anche i conflitti, le opposizioni, le irriducibilità tra il funzionamento del diritto e la tecnologia del potere. E mi sembra che interrogare le istituzioni giuridiche, interrogare il discorso e la pratica del diritto a partire da queste tecnologie di potere possa presentare un certo interesse – non perché tutto ciò debba sconvolgere interamente tanto la storia quanto la teoria del diritto, ma perché mi sembra che possa gettare una certa luce su alcuni aspetti piuttosto importanti della pratica e della teoria giudiziarie. Pertanto, interrogare il sistema penale moderno a partire dalla pratica punitiva, dalla pratica correttiva, a partire da tutte le tecnologie attraverso le quali si è voluto modellare, modificare, ecc., l'individuo criminale, mi sembra che permetta senza dubbio di far apparire un certo numero di cose. Dunque, se vuole, io m'imbatto di continuo nel diritto, senza per questo considerarlo come oggetto particolare. E se Dio me ne lascia il tempo, dopo la follia, dopo la malattia, il crimine, la sessualità, l'ultima cosa che vorrei studiare, è proprio il problema della guerra e dell'istituzione della guerra in quella che potremmo chiamare la dimensione militare della società. E anche in quel caso, mi troverei a imbattermi nel problema del diritto, tanto come diritto delle genti, del diritto internazionale, ecc., ,quanto

come problema della giustizia militare, insomma cos'è che fa sì che una nazione possa chiedere a qualcuno di morire in suo nome. BERTEN Ebbene, speriamo tutti che Dio le conceda il tempo... FOUCAULT Io non glielo auguro. BERTEN … per poter continuare a leggere le sue storie, quelle storie molteplici che ci hanno tanto arricchito. La ringrazio.

Intervista di Jean François e John De Wit a Michel Foucault 22 maggio 1981

DOMANDA Lei sta tenendo in Belgio, all'Università cattolica di Lovanio, una serie di conferenze che vertono sulla confessione. In cosa consiste per lei l'interesse di questa problematica, e che posto occupa nell'insieme della sua opera? FOUCAULT Il problema che ho sempre cercato di affrontare è, in generale, quello di sapere in che modo la verità ha a che fare con le cose e come accade che un certo numero di ambiti venga integrato poco alla volta nella problematica e nella ricerca della verità. Ho tentato di porre la questione a proposito dell'individuo umano e, in particolare, della condotta umana; ho tentato di porla a proposito della follia, per esempio. A lungo, nei confronti della follia, sono state adottate reazioni sociali o religiose accuratamente regolate. Ma che il comportamento di qualcuno ritenuto folle, che quello che pensa, i suoi desideri, la ragion d'essere del suo comportamento divengano l'oggetto di una ricerca di verità e che, attorno a questo, si costituisca un ambito di sapere medico, è qualcosa la cui storia è relativamente recente e relativamente breve. Dobbiamo sapere in che modo la questione della follia è diventata una questione che si è integrata nei problemi generali del sapere. In che modo i folli sono entrati nel campo della ricerca di verità? È un problema. Ho an-

che cercato di porre tale questione a proposito del linguaggio, del lavoro, e inoltre della storia naturale. È ciò che ho fatto in Le parole e le cose. Ho cercato inoltre di porre tale questione a proposito del crimine. Tradizionalmente, si è sempre opposto al crimine un certo numero di reazioni istituzionalmente regolate, ma, a partire da un determinato momento, questa pratica è stata accompagnata da un'interrogazione che non era più semplicemente un'interrogazione in termini di diritto su cosa può legittimare la punizione, ma una questione di verità: che cos'è il criminale? Allo stesso modo, a proposito della sessualità, il mio problema non è sapere quali siano state le forme successive che sono state imposte a titolo di regolamentazione al comportamento sessuale, bensì sapere in che modo il comportamento sessuale sia diventato, in un dato momento, non solamente oggetto di preoccupazioni pratiche, ma anche oggetto di preoccupazioni teoriche. Tutto ciò rimanda a una questione più remota rispetto a quelle della prigione e della follia: la questione della verità della follia comincia a porsi tra il XVII e il XIX secolo; per la sessualità, invece, bisogna risalire al cristianesimo dei primi secoli. È in quell'epoca che si incontra una pratica di primaria importanza nella nostra cultura e che, a mio parere, è stata decisiva per la storia della sessualità: si tratta della confessione. La pratica istituzionale attraverso cui vediamo formarsi la questione della verità in relazione alla follia è la reclusione o l'ospedalizzazione – la questione della storia della follia è il rapporto tra l'esclusione e la verità. Nel caso della criminalità, il problema era l'istituzione della prigione non quale semplice esclusione, ma anche quale procedura di correzione; ora, è attraverso il progetto di riforma, di emendazione del detenuto, che si pone la questione della verità. Nel caso della sessualità, è attraverso la pratica della confessione che la questione della verità si pone. Esclusione, follia, verità. Correzione, prigione, verità. Comportamento sessuale, confessione, verità. Abbiamo qui tre serie.

DOMANDA Ho l'impressione che, in Sorvegliare e punire, sapere cosa sia il criminale risulti una questione poco presente, mentre la questione della verità del folle è tematizzata più esplicitamente in Storia della follia. FOUCAULT È vero che riguardo alla prigione – o piuttosto, al costituirsi della questione della verità in relazione alla criminalità – avrei dovuto porre assai di più l'accento sulla seconda metà del XIX secolo. Ma mi sono accorto che la pratica dell'imprigionamento era conosciuta piuttosto male dal punto di vista storico, e che molto spesso si confondeva l'istituzione della prigione con la pratica dell'incarcerazione punitiva. La prigione esisteva nel Medioevo e nell'Antichità, ovviamente. Il mio problema era far emergere la verità della prigione, e vedere all'interno di quale sistema di razionalità, di quale programma di governo degli individui, e dei delinquenti in particolare, si è potuto pensare che la prigione fosse uno strumento essenziale. Ma, in realtà, ho in programma uno studio sulla psichiatria criminale che si dovrebbe collocare nel punto di congiunzione tra la storia della follia e la storia dell'incarcerazione punitiva, e che dovrebbe mostrare in che modo si pone la questione della verità del criminale. Anche le mie ricerche sulla confessione contribuiscono a fare progredire tale questione. DOMANDA Il seminario che abbiamo organizzato con lei alla Scuola di Criminologia e che verte sulla difesa sociale presenta un certo interesse in relazione al tentativo di combinare il campo della follia e il campo della criminalità? FOUCAULT Sì, certamente. Credo infatti che con la dottrina della difesa sociale si pensi di trovare la modalità, di cui per decenni si è andati alla ricerca, per far funzionare simultaneamente un sistema di diritto e un sistema di verità. Siamo di fronte a uno dei problemi che si collocano al limite di tutto quello che ho cercato di fare: in che modo una società come la nostra si trova continuamente di fronte a una sfida, che raccoglie sempre ma che non riesce a superare, e che è la sfida

di far funzionare insieme un sistema di diritto e un sistema di verità. Questo vale a proposito della follia, del crimine e della sessualità: non se ne esce. DOMANDA Ha intenzione di pubblicare un'opera sulla confessione? Che posto occupa la confessione rispetto all'insieme di tali questioni? FOUCAULT In questo momento esito a pubblicare qualcosa su tale tema poiché, in un certo senso, lo studio della confessione è puramente strumentale a qualcosa d'altro. Avevo inizialmente incontrato tale questione nella storia della psichiatria per un periodo posteriore a quello che avevo studiato nel mio libro [del 1961]. È a partire dal 1830 che la questione della confessione fa la sua comparsa in psichiatria – ne avevo parlato a proposito di Leuret. Si comincia ad ascoltare il discorso del folle chiedendogli: «Cosa dici, che cosa vuoi dire e chi sei tu, tu che vuoi dire quello che dici?». La questione della confessione è stata molto importante anche per il funzionamento del diritto penale contemporaneo. È apparsa molto chiaramente negli anni 1830-50, nel momento in cui si passati da una confessione che coincideva con l'ammissione della colpa a una domanda supplementare: «Dimmi cos'hai fatto, ma dimmi soprattutto chi sei». La storia di Pierre Rivière era, a questo proposito, molto significativa. Ci troviamo davanti a un crimine che nessuno comprende. E al giudice istruttore, nel 1836, viene in mente di dire: «Bene, è evidente che hai ucciso tua madre, tua sorella e tuo fratello, ma non riesco a capire perché tu li abbia uccisi. Scrivilo». C'è qui una richiesta di confessione che Pierre Rivière ha esaudito, ma in maniera talmente enigmatica che il giudice non sapeva che farne. E inoltre, incontriamo la questione della confessione a maggior ragione a proposito della sessualità. La confessione è un elemento strumentale che incontro di continuo. Ed esito tra il fare una storia della confessione in quanto tale, come una sorta di tecnica con i suoi vari aspetti, e il trattarla esclusivamente all'interno di studi su diversi ambiti nei quali si trova messa in gioco, vale a

dire a proposito della sessualità e a proposito della psichiatria criminale. DOMANDA La questione della confessione non è tuttavia fondamentale rispetto alla questione della verità del soggetto? FOUCAULT Assolutamente. È quello che mi spinge a domandarmi se non avrei dovuto fare una storia della confessione in quanto tale. Vi si trova, infatti, qualcosa di decisamente fondamentale nel modo in cui siamo legati a quelli che chiamo gli obblighi di verità. Per obbligo di verità, bisogna intendere due cose: vale a dire, da una parte, l'obbligo di credere, di ammettere, di postulare, che avvenga nell'ordine della fede religiosa o nell'ordine dell'accettazione di un sapere scientifico e, dall'altra, l'obbligo di conoscere la nostra propria verità, e insieme di dirla, di manifestarla e di autenticarla. Il problema è insomma di sapere se il legame con la verità di ciò che siamo abbia una forma particolare, specifica nell'Occidente cristiano. La questione non riguarda semplicemente la storia della psichiatria e la storia della sessualità: riguarda la storia della verità e la storia della soggettività in Occidente. Al punto che mi chiedo se non dovrei fare magari una storia della soggettività-verità. Penso comunque che, per essere efficaci, si debbano mostrare questi rapporti all'opera in ciascun ambito. Credo infatti che il pensiero non pensi solamente là dove pensa se stesso, nella forma della filosofia o della riflessione su di sé. C'è del pensiero denso, importante, che serve da supporto e da condizione di esistenza e anche da condizione di funzionamento in tutta una serie di pratiche. In un'istituzione psichiatrica c'è un pensiero da cercare. È per questo che non mi interesso granché delle facili denunce rivolte al discorso medico, oppressivo, ideologico... Mi sembra assai più interessante far emergere quello che può esserci di pensiero profondo, rigoroso, e che coinvolge il nostro destino storico, in istituzioni che pure sembrano solo esprimere la barbarie, l'arcaismo, la stupidità istituzionale. In una prigione c'è del pensiero, per quanto stupida sia la prigione.

DOMANDA A che punto è la realizzazione del suo progetto sulla storia della sessualità? Lei aveva annunciato che avrebbe compreso sei volumi... FOUCAULT Come molti altri, mi sono accorto di avere sottoscritto a torto il postulato secondo cui la storia del sapere e della repressione moderna della sessualità aveva avuto inizio verso il XVII-XVIII secolo, con la grande campagna a proposito della sessualità dei bambini. I celebri testi di medicina del XVIII-XIX secolo sulla masturbazione infantile, che oggi sono presentati come assolutamente identici alla morale borghese, per alcuni sono in qualche modo direttamente tradotti da testi di medici greci. Tra questi testi dei primi secoli, troviamo ad esempio una descrizione sugli effetti di esaurimento dovuti agli eccessi della sessualità e una messa in guardia dai pericoli sociali di tale esaurimento per il genere umano nel suo insieme. Quando ci si accorge che questi testi hanno avuto un'esistenza più o meno intensa, o più o meno discreta, tra il I e il XVIII secolo, e che sono stati tradotti nel XVIII secolo, non ci si può più permettere di fare un'analisi in termini di repressione moderna della sessualità, di mentalità borghese o di necessità industriale. Questa repressione è apparsa in un contesto completamente diverso, ed è già visibile nei testi antichi. Bisognava dunque, contrariamente a ciò che pensavo, risalire molto più indietro nel tempo. E ho trovato in effetti un gran numero di testi cristiani o di testi più antichi che riguardano la masturbazione, l'immaginazione, il fantasma, ecc. DOMANDA Questa constatazione ha modificato la sua analisi riguardo alla creazione del dispositivo della sessualità? FOUCAULT In parte sì, in parte no. Ci si accorge, naturalmente, sempre di più che non ci si può servire dell'idea di meccanica repressiva come chiave per l'intelligibilità della storia dei rapporti tra la sessualità e la verità. L'avevo già detto, ma probabilmente non abbastanza. Quando dico che bisogna liberarsi da questo schema di repressione, non significa da parte mia, come alcuni hanno creduto, sostenere che

la sessualità non sia repressa. La repressione mi sembra costituire l'effetto globale: per ogni epoca esiste un profilo di repressione, uno schema repressivo, una linea di repressione. Non è il principio della trasformazione in quanto tale. È pericoloso vedervi il principio stesso delle cose. Ci sono ad esempio alcuni storici che, ossessionati dall'idea dello schema repressivo, vale a dire del codice, dell'interdetto, dicono ancora che nel XVIII secolo gli omosessuali venivano bruciati. Il che si trova effettivamente nei codici, ma quanti ce ne sono stati nel XVIII secolo in tutta Europa? Credo che non sia arrivati a dieci. Per contro, è possibile vedere omosessuali arrestati a decine, a centinaia, ogni anno, a Parigi, nel Jardin du Luxembourg o al Palais Royal. Repressione? Non è la legge, in ogni caso, a permetterci di comprendere questo sistema di arresti. Li si arresta in generale per ventiquattr'ore. Cosa significa? Che cosa accade in realtà? In realtà s'instaura un tipo di rapporto nuovo tra l'omosessualità e il potere politico, poliziesco e amministrativo. DOMANDA L'articolazione che lei ha presentato – tra creazione del soggetto e produzione di un dispositivo di sessualità – viene a essere modificata dalla sua riscoperta dei testi antichi? FOUCAULT Bisogna sbarazzarsi dello schema della repressione e sostituirgli qualcos'altro come principio di spiegazione. Riferendomi ai testi antichi di cui vi parlerò, la mia attenzione è stata sempre più attratta da quelle che chiamerei le tecniche o le tecnologie di sé. Mi sembra infatti che, nella società, oltre alle tecniche di produzione di oggetti e oltre alle procedure di comunicazione con gli altri, esistano anche procedure di formazione e di trasformazione di sé. La sessualità, a un certo punto, è diventata una posta in gioco estremamente importante nella società e le tecniche di sé si sono organizzate attorno a essa. È diventata l'oggetto privilegiato del sé. Il problema che assilla i testi antichi di morale è la collera, e non il comportamento sessuale: ci si interroga sui sistemi da adottare per non avere reazioni violente nei confronti degli altri, il problema è

di sapere come mantenere il controllo. Quanto al comportamento sessuale, ovviamente, si prescrive un certo numero di regole, ma è palese che non è molto importante: si avverte benissimo che il problema etico generale non gira attorno alla sessualità. Il problema della collera si sposta – e in questo caso c'è uno specifico apporto del cristianesimo, e del monachesimo in particolare. Vediamo apparire due problemi, legati tra loro: il problema della gola e il problema della sessualità. Come fare per non mangiare troppo, e come avere il controllo di quella cosa che non è tanto, per il monaco, il rapporto sessuale con un altro, quanto piuttosto il desiderio sessuale, la fantasmagoria sessuale, la sessualità come rapporto di sé con sé, con manifestazioni come l'immaginazione, il fantasticare, la masturbazione, ecc. Attorno a quelle tecniche di sé che erano manifestamente legate al monachesimo, vediamo la sessualità prendere a poco a poco il sopravvento sul problema della collera, che era un problema sociale (si tratta di un problema tipico di una società in cui l'agone con gli altri, la concorrenza con gli altri nello spazio sociale, erano estremamente importanti). Seguendo la storia delle tecniche di sé, si comprende molto meglio la valorizzazione della sessualità e la mescolanza di interesse, di angoscia, di preoccupazione che il comportamento sessuale suscita. Il problema sarà quello di sapere perché, soprattutto a partire dal XVII-XVIII secolo, queste tecniche di sé relative alla sessualità funzioneranno al di fuori del monachesimo. Per capire meglio lo stato del dispositivo moderno della sessualità, bisogna collegarlo alla storia delle tecnologie di sé. Lo schema della repressione è insufficiente: abbiamo bisogno di un'altra chiave. Avevo già accennato a tutto questo nel mio primo libro sulla sessualità, ma in maniera probabilmente troppo negativa. L'interdetto della masturbazione, ad esempio, è certamente quello ripetuto con più frequenza, il più insistente nell'educazione moderna dei bambini. Ora, non si è soppressa la masturbazione perché la si è vietata: si può anzi supporre che sia diventata

una posta in gioco più importante, qualcosa di più desiderabile proprio a partire dal momento in cui, culturalmente, i bambini hanno iniziato a vivere all'interno di questa sorta di interdetto, di curiosità, di sollecitazione. Non si può dunque comprendere il rapporto così profondo con la masturbazione come questione principale della sessualità dicendo che essa è interdetta. Credo che essa sia piuttosto legata a una tecnologia di sé. DOMANDA Mi sembra che in precedenza lei abbia associato la creazione del dispositivo della sessualità, le tecnologie disciplinari, alla creazione di diverse sostanze quali il delinquente, l'omosessuale... Adesso lei sembra associare piuttosto la creazione del dispositivo della sessualità e la creazione di tali sostanze (di tali oggetti, di tali etichette) alle tecniche di sé. È così, a suo parere? FOUCAULT Ho accordato una certa importanza alla nozione di disciplina perché, studiando le prigioni, mi sono accorto che ci trovavamo di fronte a quella che potremmo chiamare una tecnica di governo degli individui, un modo di incidere sulla loro condotta, e che questa modalità di governo degli individui costituiva una tecnica del tutto coerente di cui ritroviamo la forma, a parte alcuni adattamenti, nella prigione, nella scuola, nella fabbrica, ecc... È evidente che non si tratta della sola tecnica di governo degli individui e che, per esempio, il modo in cui attualmente viene costituito una specie di orizzonte assicurativo dell'esistenza, un orizzonte di sicurezza, è qualcosa in cui la [condotta]* degli individui è assicurata, ma in un modo completamente diverso da quello delle discipline. Le tecnologie di sé sono anche – almeno in parte – diverse dalle discipline. Il controllo che si basa sul comportamento sessuale non ha affatto la forma disciplinare che si può trovare, ad esempio, nelle scuole. Si tratta di qualcosa d'altro. DOMANDA Si tratta comunque di una certa qual produzione, secondo una modalità disciplinare, di etichette sessuali? * Nella trascrizione originale compare «conduzione».

FOUCAULT È una lunga storia. I Greci e i Romani non disponevano di una nozione come quella di sessualità. I cristiani neppure. Mi si dirà che il fatto che non possedessero la nozione non significa che la realtà non fosse definita in questo modo per loro. Ma io penso in ogni caso che il campo delle nozioni sia molto importante […]*. I Greci e i Latini disponevano di un termine per designare gli atti sessuali, quello di aphrodisia. Gli aphrodisia sono gli atti sessuali di cui, peraltro, è molto difficile sapere se comportino necessariamente il rapporto tra due individui, la penetrazione. Si tratta in ogni caso di attività sessuali, ma senza alcun riferimento a una sessualità presente in permanenza nell'individuo, coni suoi legami e le sue esigenze. Con i cristiani ci troviamo di fronte a qualcosa d'altro: abbiamo a che fare con la carne e la concupiscenza, che indicano chiaramente la presenza nell'individuo di una potenza permanente. Ma la carne non è affatto la sessualità. Anziché studiare quanto, con una certa imprudenza, avevo programmato nel mio primo libro, vorrei ora definire in cosa consistano quelle diverse esperienze che sono gli aphrodisia per i Greci, la carne per i cristiani e la sessualità per l'uomo moderno. DOMANDA Si può dire, dunque, che per lei la creazione del soggetto, la personificazione sessuata, nasca con la comparsa della sessualità e con la creazione del dispositivo della sessualità? FOUCAULT Sì, è esattamente questo. Nella cultura greca, dove esistevano gli aphrodisia, l'idea che ci fosse qualcuno di sostanzialmente, identitariamente, omosessuale, non esisteva affatto. C'erano persone che si dedicavano ad aphrodisia decorosi, conformi alle consuetudini, e altre invece che vi si dedicavano in maniera impropria, ma a nessuno poteva venire in mente di identificare qualcuno con una forma di sessualità. Ed è a partire dal momento in cui, effettivamente, si è avuto quello che io chiamo il dispositivo della sessualità, vale a dire * Si è perduta una frase nel passaggio da una pagina all'altra della trascrizione originale. Sono leggibili solamente l'inizio e la fine: «Quando si analizza il modo in cui le cose [ due parole illeggibili], ci si accorge che non avevano un'esperienza della sessualità».

un complesso di pratiche, di istituzioni, di saperi diversi che hanno costituito la sessualità come un ambito coerente e ne hanno fatto una sorta di dimensione assolutamente fondamentale dell'individuo... che diviene indispensabile la domanda: «Chi sei tu dal punto di vista sessuale?». A tal proposito, non sono sempre riuscito a farmi capire bene da certi movimenti di liberazione sessuale in Francia. A mio avviso, così come può essere importante tatticamente, in un determinato momento, poter dire: «Io sono omosessuale», altrettanto, più a lungo termine, in una strategia più ampia, la questione di sapere che cosa si sia dal punto di vista sessuale non deve più porsi. Non si tratta dunque di proclamare la propria identità sessuale, ma di rifiutare alla sessualità e alle diverse forme di sessualità il diritto di identificarci. Bisogna rifiutare l'obbligo, che ci viene imposto, di identificarci con un certo tipo di sessualità e a partire da essa. DOMANDA Qual è stato il suo coinvolgimento nei movimenti per l'emancipazione dell'omosessualità in Francia? FOUCAULT Non ho mai fatto parte di alcun movimento di liberazione sessuale. In primo luogo perché non appartengo a nessun movimento, di nessun genere. In secondo luogo perché respingo l'idea che un individuo possa essere identificato con la sua sessualità e a partire da essa. Per contro, ho fatto un certo numero di cose, discontinue e puntuali, a proposito dell'aborto, ad esempio, oltre che a proposito sia di casi di omosessualità, sia del problema generale dell'omosessualità. Ma mai all'interno di una militanza continua. Abbiamo qui a che fare con un problema che ho voluto porre e che per me è molto importante, e che concerne il modo di vita. Così come mi oppongo all'idea che si sia identificati dalla propria azione o dalla propria appartenenza a un gruppo, allo stesso modo si pone per me il problema di sapere in che modo definire, per sé e per le persone che ci sono immediatamente vicine, un modo di vita concreto e reale nel quale il comportamento sessuale e tutti i piaceri che lo accompagnano possano

essere integrati in una maniera che sia al contempo la più trasparente e la più soddisfacente possibile. Per me, la sessualità è una questione di modo di vita, dipende da una tecnica di sé,. Non nascondere mai nulla della propria sessualità, non porre mai la questione del segreto, mi sembra che debba essere una regola di vita, che non coincide però con il principio della proclamazione. Una proclamazione che non mi sembra indispensabile; direi persino che la trovo spesso pericolosa e contraddittoria. Voglio poter fare ciò che ho voglia di fare e lo faccio. Ma non chiedetemi di proclamarlo. DOMANDA In questo rifiuto di essere identificati con la propria sessualità e a partire da essa, dobbiamo vedere l'indizio di un rifiuto più generale da parte sua di ogni obbligo di identificarsi con i propri comportamenti e le proprie apparenze e a partire da essi? FOUCAULT In effetti per me si tratta di una scelta fondamentale. DOMANDA Nei Paesi Bassi, lei viene spesso associato a Hocquenghem, a proposito, tra l'altro, della sua opera Il desiderio omosessuale. Hocquenghem afferma che non può esserci solidarietà tra il proletariato e il sottoproletariato, il quale sarebbe mosso da un desiderio omosessuale che implica un certo modo di vita. Cosa pensa di tale tesi? Questa scissione, che era un grande problema nel XIX secolo, sembra ripetersi all'interno dei movimenti di sinistra a proposito dei movimenti a favore della liberazione sessuale... FOUCAULT Ci sono molte cose interessanti in Hocquenghem e, su certi punti, credo che ci troviamo abbastanza d'accordo. Preferisco tuttavia non parlare del suo libro: per farlo con cognizione di causa, bisognerebbe rileggerlo. Questa scissione è effettivamente un grande problema storico. La tensione tra un sedicente proletariato e un sedicente sottoproletariato ha caratterizzato in modo molto netto la fine del XIX secolo. Non sono sicuro che esista il proletariato, né che esista il sottoproletariato. Ma è vero che, nella società, nella coscienza della gente, ci sono state alcune linee di demarcazione. Ed è vero che in Francia, e

in molti paesi d'Europa, un certo pensiero di sinistra si proclamava invece a favore del proletariato. È vero che, ideologicamente, si sono avute due grandi famiglie che non si sono mai intese davvero, da una parte gli anarchici e dall'altra i marxisti. Una divisione abbastanza simile c'è stata anche tra i socialisti – anche adesso si nota molto bene che l'atteggiamento dei socialisti nei confronti della droga e dell'omosessualità si differenzia da quello dei comunisti. Ma credo che questa opposizione oggi si stia sfaldando. A separare il proletariato dal sottoproletariato era il fatto che gli uni lavoravano e gli altri no. Questa frontiera minaccia di dissolversi con l'estendersi della disoccupazione. È senza dubbio per questo che temi un po' marginali, quasi folcloristici, come erano quelli della sessualità, diventano problemi molto più generali. DOMANDA Lei è intervenuto, credo, nel quadro della riforma del Codice penale in Francia, sulla questione dello stupro, e ha sostenuto che si dovesse decriminalizzare lo stupro. Qual è, esattamente, la sua posizione su questo tema? FOUCAULT Io non ho mai fatto parte di alcuna commissione di riforma del diritto penale, ma esisteva una commissione di riforma del diritto penale e alcuni dei suoi membri hanno chiesto che io venissi ascoltato come consulente sui problemi del diritto sessuale. Mi ha sorpreso constatare quanto le discussioni fossero interessanti. Nel corso di queste discussioni, ho cercato di porre un problema, che era il seguente. Da una parte, è possibile che la sessualità sia realmente di competenza delle leggi? Non si deve forse delegalizzare tutto quello che concerne la sessualità? Ma allora, se nulla di quanto rientra nell'ordine della sessualità deve comparire nelle leggi, che fare rispetto allo stupro? È questa domanda che ho posto. Ho semplicemente detto, nel corso di questo dialogo con Cooper 1, che ci troviamo di 1 La conversazione alla quale si fa riferimento – Enfermement, psychiatrie, prison (entretien avec D. Cooper, J.P. Faye, M.O. Faye, M. Zecca) , in «Change», ottobre 1977, n. 22-23: La folie encerclée, pp. 76-110 – è riprodotta in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. III, pp. 332-360 [trad. it. Internamento, psichiatria, prigione, in ID., Follia e psichiatria. Detti e scritti, 1957-1984 ,

fronte a un problema che bisognava discutere e al quale io non so rispondere. Mi trovo in imbarazzo, ecco tutto. Forse per qualche imprecisione nella traduzione, o nella comprensione reale, una rivista inglese ha alzato la voce dicendo che io volevo decriminalizzare lo stupro, che ero dunque un orribile fallo... No, scusate, queste persone non hanno capito nulla, proprio nulla. Ho semplicemente chiarito in quale dilemma ci si poteva trovare. E non è scagliando anatemi violenti contro coloro che pongono i problemi che li si potrà risolvere davvero. DOMANDA Lei ha detto in un'intervista, credo del 1973, di essere contrario ai tribunali popolari. In quel caso faceva l'esempio della Cina. Oggi si potrebbe parlare dell'Iran, dove l'ayatollah Khomeini non sa nemmeno più quante persone ha fatto condannare a morte. Che cosa pensa di questi tribunali? FOUCAULT Ho avuto effettivamente una conversazione con un maoista sui tribunali popolari, conversazione che è stata riprodotta in «Les Temps modernes»2. Era un'epoca in cui, in Francia, molte persone reclamavano, nei confronti e contro la giustizia istituzionale e borghese, una giustizia popolare, prendendo a esempio quanto era accaduto in Francia durante la Rivoluzione. Ritenevano che ci fosse una volontà di giustizia tra il popolo, e che i tribunali popolari fossero fatti per esprimere e manifestare quel bisogno di giustizia. Io ho sottoposto a critica la nozione di tribunale popolare. In quei movimenti emozionali intensi che esprimono la richiesta, da parte delle persone, di un intervento forte, non c'è bisogno di giustizia, c'è invece bisogno di vendetta: queste persone vogliono battersi, coloro coi quali ce l'hanno sono i loro nemici. C'è un fondo di guerra sociale che è ancora ben presente quando, del tutto spontaneamente, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 195-227]. 2 La conversazione alla quale si fa riferimento – Sur la justice populaire. Débat avec les maos (entretien avec Gilles et Victor, 5 février 1972) , in «Les Temps modernes», n. 310, pp. 355-366 – è riprodotta in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. II, pp. 340-369 [trad. it. Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti, in ID., Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 71106].

le persone vogliono linciare qualcuno che, talvolta, ha semplicemente commesso un furto. Questi viene percepito come il nemico sociale, e, in quanto tale, lo si vuole abbattere. Coloro che vogliono fondare un tribunale popolare su qualcosa che in realtà è una guerra s'ingannano doppiamente. Infatti, o non fanno quello che la gente vuole e non fanno la guerra, o fanno ciò che la gente vuole e non fanno la giustizia. Dirò le cose in maniera ancora più cruda. Voi sapete perfettamente che se vengono istituite giurie esclusivamente popolari, la pena di morte sarà applicata a tutti quanti, anche ai ladri di polli. C'è, dunque, questo fondo di guerra sociale: colui che ruba fa la guerra, colui che è derubato si batte contro colui che ruba. Non va dimenticato, allora, si deve avere il coraggio di dire che la giustizia è fatta per impedire questo, e non per rifletterlo. Il tribunale popolare riflette tutto ciò. Khomeini è esattamente questo. Anche questa discussione è stata intesa male. La gente vi ha visto un'apologia di quella giustizia che non avrebbe neppure la forma di un tribunale popolare, e che si ridurrebbe allo sgozzamento. No, no... DOMANDA In Le parole e le cose, lei ha parlato della morte dell'uomo. Questo significa che l'umanismo non serve da riferimento alla sua azione militante? Lei rifiuta forse in nome della morte dell'uomo l'impegno in nome dei diritti dell'uomo? FOUCAULT Si deve ricordare il contesto nel quale ho scritto questa frase e insieme ciò che ho voluto dire. Lei non può immaginare in quale bagno di sermoni e di sproloqui umanisti si fosse immersi durante gli anni del dopoguerra. Tutti erano umanisti: Camus era umanista, Sartre e […] lo erano, Stalin era umanista. Non esisteva discorso che avesse una pretesa filosofica, politica o morale, che non si sentisse obbligato a collocarsi sotto il segno dell'umanismo. Non sarò così crudele da ricordare che anche gli hitleriani si dicevano umanisti. Il che non compromette l'umanismo, ma permette molto semplicemente di dire che, in quell'epoca, non si poteva più pensare all'in-

terno di quella categoria. Io non potevo porre come obiettivo del mio pensiero l'essere umanista, poiché avrei contribuito a una confusione intellettuale totale. Più in generale, il problema era quello di non darsi, come fondamento immediato e totalmente ammissibile, la concezione del soggetto che la tradizione filosofica si era data sino ad allora. Anche per una filosofia radicale come la fenomenologia, il soggetto, che si considerava come soggetto fondatore, era una sorta di dato. La messa in discussione del soggetto è stata una questione comune a molti, in quell'epoca. Li si è unificati tutti sotto il termine, assolutamente inadeguato, di strutturalismo. Prendete ad esempio il caso della psicoanalisi. È in nome dell'umanismo, in nome del soggetto umano nella sua sovranità, che molti fenomenologi, per lo meno in Francia, come Sartre, o Merleau-Ponty, non potevano ammettere l'inconscio, o lo ammettevano solamente come una specie di ombra, di margine, di eccedenza, in quanto la coscienza non poteva essere destituita dei suoi diritti sovrani. Il rinnovamento della psicoanalisi è consistito appunto in quello: l'inconscio non può essere inteso come un'ombra o un surplus della coscienza. Los stesso vale per la linguistica. Se è stata così importante in quell'epoca, è perché permette di dire che è troppo semplice e troppo inadeguato voler rendere conto di quel che è detto dalle persone tenendo conto molto semplicemente dell'intenzione del soggetto. L'idea di un inconscio e l'idea di una struttura della lingua inducevano a riformulare in qualche modo dall'esterno la questione del soggetto. Quello che alcuni facevano con la linguistica, io ho cercato di farlo in parte con la storia. Non esiste forse una storicità del soggetto? È possibile ammettere il soggetto come una specie di invariante meta- o transtorica? DOMANDA Mi domando se si possa conciliare il movimento a favore del rispetto dei diritti dell'uomo con ciò che lei dice contro il sogget-

to umanista. Qual è, in fondo, la razionalità delle sue forme di impegno politico, della sua militanza, come lei la chiama? FOUCAULT Cerco di considerare i diritti umani nella loro realtà storica senza per questo ammettere che esista una natura umana. I diritti dell'uomo sono stati conquistati al termine di una lotta, una lotta politica che ha fissato un certo numero di limiti per i governanti e ha cercato di definire alcuni principî generali che nessun governo dovrebbe travalicare. Ora, è molto importante avere contro i governi, di qualunque genere, limiti accuratamente definiti, frontiere ben tracciate che, quando siano valicate, suscitino l'indignazione, la rivolta, e consentano la lotta. Dunque, come fatto storico e come strumento politico, i diritti dell'uomo mi sembrano qualcosa di importante. Tuttavia non li assocerei né a una natura umana, né a un'essenza dell'essere umano in generale. E neppure a una qualche forma di governo: poiché, per definizione, nessuna forma di governo ha per vocazione il rispetto dei diritti dell'uomo; al contrario, i governi tendono per vocazione a non rispettarli. Potrei dire, al limite, che i diritti dell'uomo coincidono con i diritti dei governati. DOMANDA Qual è la coerenza delle sue forme di militanza? FOUCAULT Preferisco dire che, al limite, io cerco di stabilire una coerenza; direi che questa coerenza non è altro che la coerenza della mia vita. È vero, mi sono battuto su certi punti – si tratta di frammenti di esperienza, di frammenti di autobiografia. Mi sono fatto una certa esperienza degli ospedali psichiatrici. Ho avuto, per altre ragioni, esperienze con la polizia. E anche a proposito della sessualità, ho una certa esperienza. È la mia biografia. Ho cercato di battermi quando ho intravisto un legame logico, un'implicazione, una coerenza tra un elemento e l'altro. Ma non mi pongo come il combattente universale di un'umanità sofferente in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti, e, rispetto alle lotte a cui mi sono associato, resto libero.

Direi dunque che la coerenza è strategica. Se mi batto a proposito del tale o del talaltro punto è perché, in effetti, sono importanti per la mia soggettività. Mi rendo perfettamente conto che il punto d'appoggio e la coerenza passano anche da lì. Ma, a partire da queste scelte, che si sono delineate in base a un'esperienza soggettiva, si può passare ad altre cose, in modo da avere una coerenza reale, uno schema o un principio di razionalità che non si fonda su una teoria generale dell'uomo. DOMANDA Lei ha affermato poco fa che rifiuta l'idea di identificarsi e di identificare qualcuno con un certo tipo di sessualità e a partire da essa. Non è forse possibile vedere, in questo rifiuto di essere identificato e al contempo in questo rifiuto di essere localizzato dal potere, una chiave delle sue diverse forme di impegno? La morte dell'uomo è prima di tutto il rifiuto di una concezione sostanzialista e astorica dell'uomo... FOUCAULT Sì, è così... DOMANDA Non si può dire, in un certo senso, che Foucault è un libertario? FOUCAULT Se vuole, in certo senso. Ma in una certa ideologia libertaria c'è spesso una rivendicazione, precisamente deliberata, dei «bisogni fondamentali», della «vera natura», e così via. Io non mi collocherei in questa prospettiva. Quello che cerco, è un'apertura permanente delle possibilità. Ad esempio, quella che viene chiamata sociobiologia consiste nel ridiscendere dalla biologia fino alle conseguenze estreme delle determinazioni biologiche per la strutturazione della condotta umana. Nelle mie ricerche storiche, che spero abbiano un senso politico, cerco invece di risalire il più a monte possibile per cogliere tutte le contingenze, gli eventi, le tattiche, le strategie, ecc., che hanno portato a una certa situazione che non bisogna considerare come acquisita una volta per tutte, anche se è realmente data. È stata costituita e può dunque essere «de-costituita» dalla politica. Sì, si

tratta di un movimento di risalita storica con proiezione su uno spazio di possibilità politiche. È questo il movimento che io compio. DOMANDA Che cosa pensa del cambiamento che ha attualmente luogo in Francia? Insomma, io non so se sia un grande cambiamento... FOUCAULT No, ma nessuno lo sa, appunto. Ed è questo a essere interessante – il fatto che non solo nessuno sa, ma che ancora non è niente, il che significa che tutto è ancora da fare. Può darsi che non accada nulla, ma la situazione è aperta. Ed è aperta perché il Partito socialista è stato sensibile a un certo numero di problemi. La sua forza viene da questo, ma anche dal fatto che tutta una serie di persone che non avevano mai fatto politica finora e che diffidavano della scena politica si è spontaneamente riconosciuta tanto nel candidato Mitterand, quanto soprattutto nella vittoria di Mitterand. Non si deve affatto disprezzare tale atteggiamento. Queste persone si battevano su diversi fronti, l'ecologia, il femminismo, l'antinucleare, il diritto alla casa, e così via. Si battevano, ma non avevano alcun orizzonte di vittoria comune. Si sono ritrovate in questa vittoria, che è una possibilità, più che un traguardo. È la vittoria di una possibilità. La vittoria di Giscard sarebbe stata la vittoria di un'impossibilità, la disfatta di una possibilità. DOMANDA I suoi interrogativi rispetto alla psicoanalisi sono cambiati a più riprese, mi sembra. In Malattia mentale e personalità, lei vi si era opposto, e appariva piuttosto come behaviorista. Il punto di vista sviluppato in Storia della follia, in Nascita della clinica e anche in Sorvegliare e punire è completamente diverso. In Le parole e le cose, per contro, lei parlava della psicoanalisi come di una controscienza, soprattutto nella sua versione lacaniana. Che cosa pensa, attualmente, della psicoanalisi? FOUCAULT Malattia mentale e personalità è un'opera che ora colloco completamente al di fuori di ciò che ho fatto in seguito, benché sia stata una porta d'accesso. L'ho scritta in un'epoca in cui i diversi sensi della parola «alienazione», quello filosofico, quello storico-socio-

logico e quello psichiatrico, erano confusi in una prospettiva fenomenologico-psichiatrico-marxista. Queste cose ora sono diventate completamente estranee l'una all'altra, ma non era questa la situazione di allora. Io ho cercato di barcamenarmi in quel contesto, e in questa misura Malattia mentale e personalità è proprio l'espressione di un problema al quale in quel momento non ho dato alcuna soluzione. Neppure in seguito, ma almeno ne sono uscito. Ho ripreso il problema in un altro modo, dicendo. «Riprendiamo la cosa così come si presenta, vediamo in che modo le persone sono state effettivamente trattate, anziché fare grandi slalom tra Hegel e la psichiatria, passando per il neomarxismo. Cerchiamo di fare il punto storico, e studiamo la gestione effettiva e reale del folle». Dunque, se il mio primo testo sulla malattia mentale è coerente, non lo è certamente rispetto agli altri. Lasciamolo dunque da parte. DOMANDA D'accordo, ma cosa pensa ora della funzione della psicoanalisi? FOUCAULT In Le parole e le cose, si trattava di considerare i tipi del discorso scientifico, o presunto scientifico, e di vedere quali siano state le loro trasformazioni e le loro relazioni reciproche. Là, ho cercato di vedere quale ruolo singolare la psicoanalisi poteva svolgere rispetto a questi ambiti di conoscenza*. DOMANDA Come si può spiegare il fatto che gli psicoanalisti respingano l'idea che la psicoanalisi possa figurare tra le tecniche di soggettivazione? Non è sorprendente? FOUCAULT Che respingano questa idea, è un fatto. Perché? Come sa, è abbastanza importante nella storia di una disciplina, o di un sapere o di una pratica, accettare la propria storia, per quanto umiliante sia. Io ho comunque notato che gli psichiatri non amano affatto che si cerchi di ripensare la storia delle loro conoscenze attraverso una pra* La trascrizione originale segnala: «Interruzione, manca una parte dell'intervista che verteva a quel punto sul carattere non scientifico della psicoanalisi e sul fatto che la psicoanalisi è prima di tutto una tecnica di sé, cosa che gli psicoanalisti rifiutano di ammettere. Questo dovrebbe essere completato».

tica asilare. Osservo, per contro, che Einstein ha potuto dire che la causalità fisica si radicava nella demonologia senza per questo ferire i fisici. Perché mai gli psichiatri sono feriti e i fisici no, se non perché gli uni sono veri scienziati che non hanno nulla da temere per la loro scienza, mentre gli altri hanno molto timore che il fragile statuto scientifico del proprio sapere sia compromesso dalla storia? Pertanto, quando gli psicoanalisti si saranno tranquillizzati riguardo alle storie della loro pratica, avrò molta più fiducia nella verità di quello che dicono. DOMANDA Il lacanismo apporta un cambiamento profondo nella psicoanalisi? FOUCAULT No comment, come dicono i funzionari di un dipartimento di Stato quando si pone loro una domanda imbarazzante. Non ho abbastanza familiarità con la letteratura psicoanalitica moderna, e capisco troppo poco i testi di Lacan per dire qualunque cosa. In modo puramente impressionistico, potrei dire che l'impressione è che ci sia un cambiamento notevole. Ma non posso dire di più.

Situazione del corso

… la confessione è diventata, in Occidente, una delle tecniche più altamente valorizzate per produrre la verità. Siamo diventati, a partire da quel momento, una società particolarmente confessante. La confessione ha propagato lontano i suoi effetti: nella giustizia, nella medicina, nella pedagogia, nei rapporti familiari, nelle relazioni amorose, nella realtà più quotidiana e nei riti più solenni; si confessano i propri crimini, si confessano i peccati, si confessano i pensieri e i desideri, si confessa il proprio passato e i propri sogni […] facciamo a noi stessi, nel piacere e nella pena, confessioni impossibili a ogni altro, e di cui facciamo dei libri. M. FOUCAULT, La volontà di sapere1

A proposito delle sue lotte e dei suoi libri, nelle due interviste concesse a Lovanio Foucault dice che sono, «in un certo senso, frammenti di autobiografia»2: hanno a che fare, arriva a dire, con «[i suoi] problemi personali con la follia, la prigione, la sessualità». Precisa di avere «sempre fatto in modo che tra [sé] e [sé] si verificasse una sorta di andirivieni, di interferenza, di interconnessione tra attività pratiche e il lavoro teorico o la ricerca storica che stav[a] facendo» 3. Da una parte, le questioni teoriche e storiche che egli pone sono «[caricate] di un rapporto immediato e contemporaneo con la pratica»4. Dall'altra, egli ha «sempre cercato di 1 M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 [trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 54-55]. 2 ID., L'intellettuale e i poteri, in ID., Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984 cit., pp. 217-223 e 218. Cfr. anche l'Intervista di Jean François e John De Witt a Michel Foucault , supra […]. 3 ID., L'intellettuale e i poteri cit., p. 218. 4 Ibid.

fare in modo che questo lavoro teorico non pretendesse di dettar legge rispetto a una pratica attuale»5. Peraltro, «rispetto alle lotte a cui [si è] associato, [resta] libero»6. Né «combattente universale di un'umanità sofferente in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti», né soggetto in generale che studi un oggetto in generale, dice di battersi «a proposito del tale o del talaltro punto […] perché, in effetti, sono importanti nella [sua] soggettività», prima di aggiungere che è possibile, a partire da un'esperienza soggettiva, «passare ad altre cose» senza fondarsi su «una teoria generale dell'uomo» 7. All'indistinzione delle cause, Foucault oppone l'implicazione personale. Posizione singolare e singolarmente esigente, che rifiuta di elidere il soggetto di desiderio o di confonderlo con il soggetto della conoscenza sotto il pretesto di un metodo che l'assolva e lo renda assente; che rifiuta, inoltre, di eludere la questione del lavoro di sé su di sé, da cui questo soggetto procede, riducendola a una questione di appartenenza. Di Mal fare, dir vero sarebbero innumerevoli le letture possibili. Quella che ha guidato la stesura di questa Situazione del corso è orientata da una domanda, declinata in più formulazioni. Quali sono i compiti che Foucault ha assegnato alla critica? In che modo, nella sua vita e nella sua opera, ha legato politica ed etica? Cosa significava per lui essere un filosofo nella città? Quali forme ha dato al coraggio della verità? Per rispondervi si è scelto di esaminare come Foucault ha problematizzato il potere della verità nei cicli in cui si iscrivi Mal fare, dir vero, e di provare a individuare le conseguenze che ne ha tratte. Lo si farà seguendo tre linee di sviluppo. La prima situa il corso di Lovanio nella serie dei testi sulla giustizia penale (Foucault parla a questo proposito di «repressione» nel 1971 e di «tecniche di dominio» nel 1981). Più in generale, le analisi proposte dal filosofo sono iscritte nel secondo dei «tre campi di genealogia» possibili, una «ontologia storica di noi stessi, nei nostri rapporti con un campo di 5 Ibid., pp. 218-219. 6 Cfr. Intervista di Jean François e John De Witt a Michel Foucault cit., supra […]. 7 Ibid.

potere»8. La confessione è intesa come un mezzo per produrre il vero nel diritto; al di là della confessione, è «tutta una tecnologia di verità, che la pratica scientifica e il discorso filosofico hanno a poco a poco squalificato, nascosto e scacciato» a essere esaminata, per mostrare come «la verità-prova», che appartiene «all'ordine dell'evento», abbia assunto la forma della «verità-constatazione», che appartiene all'ordine della conoscenza9. La seconda linea di sviluppo prende atto di quello che Foucault, in La volontà di sapere, chiama esaurirsi dell'ipotesi repressiva. Mal fare, dir vero si colloca nel ciclo delle tecniche di sé e della versione attenuata del governo, nel punto di giunzione tra il secondo ambito di genealogia e il terzo, definito come una «ontologia storica dei nostri rapporti con la morale»10. La posta in gioco è studiare il modo in cui, al di qua e al di là della repressione, la stessa soggettivazione produce l'assoggettamento. Come gli aphrodisia in Soggettività e verità, la confessione è «una superficie di rifrazione»11 a partire dalla quale le modalità storiche del rapporto con sé sono esaminate sotto quattro aspetti: «sostanza etica», «modo di assoggettamento», «pratica di sé» e «telos»12. L'ultima linea di sviluppo individua in Mal fare, dir vero la prosecuzione del lavoro sul problema filosofico già trattato in Le parole e le cose, e le premesse della soluzione che Foucault gli darà in Il coraggio della verità. Il corso apre il ciclo della critica aleturgica, che completa la critica archeologica e quella genealogica. Attraverso la storia delle forme di produzione della confessione, Foucault studia quella della «soggettività-veri8 M. FOUCAULT, On the Genealogy of Ethics: An Overview of Work in Progress , intervista, in H. DREYFUS e P. RABINOW, Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982, pp. 229-251; ripresa in ID., Dit et écrits cit., vol. IV, n. 344, p. 618 [trad. it. Sulla genealogia dell'etica: compendio di un work in progress , in H. DREYFUS e P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente , La casa Usher, Firenze 2010, p. 310. 9 M. FOUCAULT, La casa della follia, in F. BASAGLIA e F. ONGARO, Crimini di pace, Einaudi, Torino 1975, pp. 151-169, poi La maison des fous, in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 146, p. 694 [ora anche La casa dei folli, in ID., Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984 cit.]. 10 ID., Sulla genealogia dell'etica: compendio di un work in progress cit., p. 310. 11 ID., L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) cit., p. 4. 12 Su questi quattro aspetti del rapporto con sé, che Mal fare, dir vero contribuisce a mettere in risalto pur senza nominarli, cfr. ID., Sulla genealogia dell'etica: compendio di un work in progress cit., pp. 311-313, oltre a ID., Usage des plaisirs et techniques de soi cit., pp. 556-557.

tà». Ritorno al dibattito con Kant, di cui gli editori dell' Introduzione all'Antropologia pragmatica dicono che avrebbe «alimentato l'intera opera». In filigrana, un interrogativo si presenta di continuo: se la verità «non è constatata ma suscitata», se è «produzione, anziché apofantica» 13, che cosa può o che cosa deve essere la filosofia critica? E una risposta programmatica, evocata troppo brevemente a Lovanio: «un contropositivismo che non è il contrario del positivismo, ma piuttosto il suo contrappunto»14.

1. La repressione e i suoi oggetti In che modo la politica e l'etica sono legate, nei testi di Foucault sulla giustizia penale? In che modo la questione del potere della verità vi viene posta? Per rispondere a queste domande, andrebbe ricordato che l'autore di Sorvegliare e punire diceva di lavorare «rispondendo a circostanze» 15, vale a dire anche a seconda delle battaglie cui si associava. Bisognerebbe ricordare anche che, secondo Deleuze, la pratica era per lui «un insieme di elementi di passaggio da un punto teorico a un altro, e la teoria il passaggio da una pratica a un'altra»16. E ritornare brevemente sulla sua lotta a fianco dei membri della Gauche prolétarienne (Gp) e all'interno del Groupe d'information sur les prisons (Gip), non per spiegare l'opera attraverso la vita, bensì – senza cedere alla tentazione della totalizzazione biografica – per scoprire che cosa esiga l'etica della filosofia critica così come da lui concepita.

Circostanze. 13 ID., La casa dei folli cit., p. 97. 14 Cfr. Conferenza inaugurale, supra […]. 15 Cfr. Intervista di André Berten a Michel Foucault, supra […]. 16 ID., Les intellectuels et le pouvoir, in «L'Arc», 1972, n. 49, pp. 3-10; ripresa in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 106, p. 307 [trad. it. Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze, in ID., Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1972, p. 107].

Le circostanze sono date, prima di tutto, dalla repressione dei movimenti studenteschi del 1968. In Tunisia, dove insegna, le manifestazioni sono represse duramente: decine di militanti vengono imprigionati. Foucault nasconde studenti ricercati dalla polizia e fornisce informazioni agli avvocati di quelli detenuti. Dopo il loro processo, chiede al ministero degli Esteri francese di porre termine al proprio distacco 17. In Francia, dove rientra, dodici organizzazioni della sinistra extraparlamentare sono state dichiarate fuorilegge nel giugno del 1968. Nel 1970, la morsa si stringe attorno alla Gp, organizzazione maoista che raccoglie, al seguito di Benny Lévy18, militanti provenienti in particolare dall'Union des jeunesses communistes marxistes-leninistes o dal Mouvement du 22-Mars. In febbraio, alcuni minatori sono rimasti uccisi in un'esplosione di grisù a Fouquières-lès-Lens; poco dopo, bottiglie Molotov sono state lanciate contro gli uffici dell'amministrazione delle miniere. Nove militanti della Gp vengono arrestati, così come i direttori di «La cause du peuple» 19. Il 27 maggio, la Gp viene interdetta in base alla legge sui gruppi di lotta e le milizie private20. Il 9 giugno viene adottata una legge «mirante a reprimere forme nuove di delinquenza»21; essa istituisce una forma di responsabilità collettiva e colpisce con la minaccia di due anni di carcere la partecipazione 17 D. DEFERT, Chronologie, in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. I, p. 33 [trad. it. Cronologia, in FOUCAULT, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. I (1954-1969), Feltrinelli, Milano 1997, p. 20]. 18 Benny Lévy, alias Pierre Victor, è uno dei due «maoisti» con i quali Foucault, nel 1972, discute della giustizia popolare; l'altro – Gilles – è André Glucksmann (cfr. Sur la justice populaire: Débat avec les maos, in «Les Temps modernes», 1972, n. 310 bis: Nouveau Fascisme, Nouvelle Démocratie, pp. 335-366; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 108, pp. 340-369 [trad. it. Sulla giustizia popolare: dibattito con i maoisti , in ID., L'emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo cit., pp. 86-111]. Filosofo, normalista, Benny Lévy è, con Alain Geismar, uno dei leader della Gauche prolétarienne. Apolide, è protetto da Sartre, che ne fa il proprio «segretario particolare» dal 1974 al 1980 e ottiene per lui la nazionalità francese. 19 B. BRILLANT, Intellectuels et extrême-gauche: le cas du Secours rouge, Centre national de la recherche scientifique – Institut d'histoire du temps présent (Cnrs – Ihtp), Lettre d'information n. 32, luglio 1998, pp. 6-8. 20 Su questo punto, cfr. il Rapport n. 1622 sur les agissements, l'organisation, le fonctionnement, les objectifs du groupement de fait dit «Département, protection, sécurité», redatto da B. Grasset, relatore della commissione d'inchiesta presieduta da G. Hermier, registrato presso la presidenza dell'Assemblée nationale il 26 maggio 1999 (www.assembleenationale.fr/dossiers/dps/rl622p03.asp, consultato il 10 luglio 2010).

pacifica a un raduno vietato22. Quasi duecento militanti vengono imprigionati, sia in applicazione della nuova legge, sia per ricostituzione di lega dissolta, reato che vendere «La cause du peuple» basta a far scattare23. Vi è anche la reazione della Gp alla repressione. Dichiarata fuorilegge, continua la lotta in modi diversi. Innanzitutto, con l'allargamento della resistenza24 e l'apertura di un Fronte democratico25: l'organizzazione mobilita intellettuali che, grazie alla loro notorietà, sono al riparo dal rischio di essere arrestati e condannati. Il 9 giugno, Beauvoir e Leiris depositano lo statuto dell'associazione degli Amis de «La cause du peuple» 26; 21 Legge n. 70-480, 8 giugno 1970, che mira a reprimere alcune forme nuove di delinquenza, in «Journal officiel de la République française», 9 giugno 1970, p. 5324. 22 La legge n. 70-480, 8 giugno 1970 «puniva con due anni di carcere chiunque avesse continuato a partecipare volontariamente a un'adunata illecita o proibita, quando per il verificarsi di questa adunata […] fossero state commesse azioni violente». Essa consentiva di «condannare anche chi non avesse commesso alcuna violenza, sulla base di azioni compiute da terzi, provocatori compresi, e la pena comminata poteva essere in certi casi altrettanto pesante, se non addirittura più pesante, di quella in cui incorrevano gli autori delle violenze». Lo spirito delle incriminazioni che questa legge introduceva nel Codice penale era «in totale contraddizione con il principio affermato nell'articolo 121-1 del nuovo Codice penale, il quale stabilisce che “nessuno è responsabile penalmente se non delle proprie azioni”» (risposta del ministero della Giustizia, in «Journal Officiel du Sénat», 20 agosto 1998, p. 2727, alla domanda scritta n. 06958 del signor Emmanuel Hamel (Rhône, Union pour un Mouvement Populaire [Ump]), in «Journal Officiel du Sénat», 19 marzo 1998, p. 881 (www.senat.fr/questions/base/1998/qSEQ980306958.html, consultato il 1° luglio 2010). 23 Secondo Laurent Quéro, l'interdizione della Gauche prolétarienne il 27 maggio 1970 e la legge dell'8 giugno 1970 sulla repressione di alcune forme nuove di delinquenza «portarono in carcere durante l'estate del 1970 centinaia di militanti dotati di un forte capitale culturale e sociale» (Les prisonniers enfin: de l'indifférence à l'«effet de souffle», in P. ARTIÈRES e M. ZANCARINI-FOURNEL [a cura di], 68. Une histoire collective [1962-1981] , La Découverte, Paris 2008, p. 569). Daniel Defert informa che il provvedimento riguardò quasi duecento militanti, ripartiti in una decina di prigioni francesi ( L'émergence d'un nouveau front: les prisons, in P. ARTIÈRES, L. QUÉRO e M. ZANCARINI-FOURNEL (a cura di), Le groupe d'information sur les prisons. Archives d'une lutte, 1970-1972, Éditions de l'Imec, Paris 2003, p. 316 [trad. it. L'emergenza di un nuovo fronte: le prigioni , in FOUCAULT, L'emergenza delle prigioni cit., pp. 2130]. 24 DEFERT, L'emergenza di un nuovo fronte: le prigioni cit., p. 22. 25 Su questo punto, cfr. J. RANCIÈRE, La légende des philosophes. Les intellectuels et la traversée du gauchisme, in ID., Les scènes du peuple (Les révoltes logiques, 1975/1985) , Horlieu éditions, Lyon 2003, pp. 295-298; DEFERT, L'emergenza di un nuovo fronte: le prigioni cit., p. 22, oltre a QUÉRO, Les prisonniers enfin: de l'indifférence à l'«effet de souffle» cit., p. 570. 26 All'associazione, considerata una «organizzazione di sinistra che si propone di ricostituire un'associazione disciolta», non viene riconosciuta capacità giuridica. Su questo punto, cfr. F. LUCHAIRE, La décision du 16 juillet 1971. Allocution devant le Conseil Constitutionnel , in Dossier thématique: Anniversaire de la loi del 1901 relative au contrat d'association , 2001 (al-

l'11 giugno, Sartre, diventato direttore del giornale 27, pubblica, con altre personalità28, un appello a ricostituire il Secours rouge per la difesa dei rivoluzionari imprigionati29. In secondo luogo, con la pratica giurisdizionale alternativa: i militanti accusati di aver lanciato le bottiglie Molotov vengono processati – e assolti – dalla Cour de sûreté de l'État nel dicembre 1970; contemporaneamente, la Gp organizza a Lens il processo sulla vicenda delle miniere davanti a un tribunale popolare. Sartre, che esercita il ruolo di procuratore, arriva ad attribuire allo Stato e alla direzione delle miniere la responsabilità per la morte dei minatori 30; la sua requisitoria è basata sulla controinchiesta condotta da alcuni medici e studenti di ingegneria. In terzo luogo, vi è la lotta per ottenere lo statuto di prigioniero politico: intra muros, i militanti intraprendono uno sciopero della fame per ottenere i diritti di riunione, accesso alla stampa e comunicazione con l'indirizzo www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/français/documentation-publications/dossiers-thematiques/2001-anniv.-loi-de-1901-relative-au-contrat-d-association/allocution-de-monsier-francois-luchaire.1646.html, consultato il 10 luglio 2010), oltre al Rapport n. 1622 sur lesagissements, l'organisation, le fonctionnement, les objectifs du groupement de fait dit «Département, protection, sécurité» et les soutiens dont il bénéficierait cit., (cfr. nota 20). 27 Pierre Le Dantec, arrestato il 22 marzo 1970, e Michel Le Bris, arrestato il 20 aprile 1970, sono stati condannati rispettivamente a un anno e a otto mesi di reclusione (BRILLANT, Intellectuels et extrême-gauche: le cas du Secours rouge cit., pp. 6-8). 28 J.-P. SARTRE, Appel pour le Secours rouge (18 giugno 1970), Bibliothèque Nationale de France, Dipartimento manoscritti, fondo Sartre (NAF 28 405); faldone «Articles et conférences, 1944-73» (Catalogue génétique générale des manuscrits de Jean-Paul Sartre , Institut de textes et manuscrits modernes [Item], École Normale Supérieure [Ens]-Cnrs, Paris, p. 2). 29 Come sottolinea Bernard Brillant, il riferimento, nel 1970, al Soccorso rosso internazionale, associazione creata nel 1922 dalla Terza internazionale per difendere i militanti comunisti incarcerati, è significativo: «gioca sui due registri del politico e del mitologico, inscrivendo la rifondazione del S[ecours] r[ouge] nella riappropriazione di una storia (quella della fondazione, in Francia, di un'organizzazione comunista erede della Rivoluzione d'Ottobre), percepita come “deviata” da un P[artito] c[omunista] f[rancese] che le organizzazioni di estrema-sinistra qualificano come “revisionista” o “traditore”» (BRILLANT, Intellectuels et extrême-gauche: le cas du Secours rouge cit., p. 2). 30 Sartre giunge alla conclusione della responsabilità dello «Stato-padrone» e dei suoi «esecutori», che «intenzionalmente […] scelgono il rendimento anziché la sicurezza» e «antepongono la produzione delle cose alle vite umane» (cfr. J.-P. SARTRE, Sur les mineurs [dicembre 1970], Bibliothèque Nationale de France, Dipartimento manoscritti, fondo Sartre (NAF 28 405). L'analisi di Sartre è la seguente: «Si tratta […] di perdite e di incidenti inevitabili ma di incidenti e di perdite imposti dalla corsa al profitto. L'esplosione di grisù, la silicosi, chiamiamole pure fatalità, ma diciamo che si tratta di fatalità procurate a certi uomini da altri uomini che li sfruttano e che sacrificano la salute o la vita dei lavoratori alla produttività» (Catalogue génétique général des manuscrits de Jean-Paul Sartre cit., p. 2).

la loro organizzazione31 e per denunciare la repressione; extra muros, l'Organisation des prisonniers politiques (Opp), cellula della Gp animata da Serge July e Benny Lévy, s'incarica di «fare del loro processo una tribuna politica, secondo la tradizione leninista»32. Vi è infine una richiesta rivolta a Foucault su suggerimento di Daniel Defert, il quale si è unito alla Opp su invito di Jacques Rancière 33: come a Lens, organizzare una commissione d'inchiesta, ma sugli istituti penitenziari34. L'impegno di Foucault è totale; diverso, tuttavia, da quello che la Gp si aspetta. Da subito, egli integra le dimensioni della repressione e dell'accecamento. Il fatto è che, in un primo tempo, il Maggio '68 è passato di fianco alle prigioni senza vederle35, mentre in un secondo tempo i militanti, di fronte alla repressione, hanno optato per forme di azione che lasciavano gli altri detenuti nell'ombra. Falsa coscienza di intellettuali presi nella trappola del discorso criminologico, malgrado il loro ardente desiderio di essere «coscienza ed eloquenza»36, malgrado il loro ardente desiderio di dire «il vero a coloro che non lo vedono ancora e in nome di coloro che non possono dirlo»37? Effetto remoto della diffidenza di Marx e dell'ostilità di Lenin nei confronti dei prigionieri di diritto comune, considerati come un sottoproletariato non politicizzato, addirittura reazionario38? Quando Foucault, durante il Dibattito con i maoisti sulla giustizia popolare, dice a Benny Lévy che, da quel momento in poi, il sistema penitenziario avrebbe assicurato soltanto la funzione di prelevare la po31 Déclaration des emprisonnés politiques en grève de la faim (1° settembre 1970), riprodotta da ARTIÈRES, QUÉRO e ZANCARINI-FOURNEL (a cura di), Le groupe d'information sur les prisons. Archives de lutte, 1970-1972 cit., p. 31. 32 Ibid. 33 Su questo punto, cfr. DEFERT, L'emergenza di un nuovo fronte: le prigioni cit., p. 22. 34 Ibid., p. 23. Cfr. anche QUÉRO, Les prisonniers enfin: de l'indifférence à l'«effet de souffle» cit., pp. 570-571. 35 DEFERT, L'emergenza di un nuovo fronte: le prigioni cit., p. 25; M. PERROT, La leçon des ténèbres. Michel Foucault et la prison, in «Actes. Cahiers d'action juridique», LIV (1986), p. 75. 36 Ibid. 37 FOUCAULT, Gli intellettuali e il potere. Conversazioni tra Michel Foucault e Gilles Deleuze cit., p. 109. 38 G. SALLE, Mettre la prison à l'épreuve. Le Gip en guerre contre l'«Intolérable», in «Cultures & Conflits», LV (2004), n. 55, pp. 71-96; PH. ARTIÈRES, P. LASCOUMES e G. SALLES, Prison et résistance politique. Le grondement de la bataille, ivi, pp. 5-14.

polazione in sovrannumero, svolta in precedenza anche dall'esercito e dalla colonizzazione39, il giovane filosofo della Gp e della Opp oppone resistenza. Stessa reazione quando Foucault aggiunge che, come apparato di Stato, la giustizia penale ha «sempre funzionato in modo da introdurre contraddizioni»40 tra la popolazione, o evoca la «barriera ideologica (relativa al crimine, al criminale, al furto, alla teppa, ai degenerati, alla sottoumanità)»41, che forma attorno alle prigioni un secondo recinto. La rottura principale, obietta, è quella «fra una minoranza operaia e […] la plebe che si proletarizza: questa plebe, è l'operaio che viene dalla campagna, e non il delinquente, il brigante, l'attaccabrighe»42. Foucault avrebbe potuto rimproverargli la sua cecità. Non lo fa, né allora, né dopo. Come Deleuze osserverà più tardi, non si trattava per lui del «modo di vivere di un soggetto: il soggetto che vede è a sua volta un posto nella visibilità, una funzione derivata della visibilità»43. L'accecamento è pensato come una dimensione del problema posto al momento della repressione che colpisce quelle e quelli con cui si è alleato – l'accecamento o, più in generale, l'invisibilità del visibile e, con una torsione supplementare, l'invisibilità di questa invisibilità, di cui nel 1966 già scriveva che è per Blanchot ciò che la finzione deve mostrare 44. «Ciò che gli intellettuali hanno scoperto a partire dalle esperienze politiche degli ultimi anni, – dice a Deleuze nel 1972, nell'ambito di una conversazione pubblicata con il titolo Gli intellettuali e il potere, – è che le masse non hanno bisogno di loro per sapere; sanno perfettamente, chiaramente, molto meglio di loro, e lo dicono bene. Ma esiste un sistema di potere che blocca,

39 FOUCAULT, Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti cit., p. 87. 40 Ibid., p. 41. 41 Ibid., p. 87. 42 Ibid., p. 90. 43 G. DELEUZE, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1986, p. 64 [trad. it. Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 64]. 44 «La finzione – scrive Foucault – consiste dunque non tanto nel far vedere l'invisibile, quanto nel far vedere come sia invisibile l'invisibilità del visibile» (M. FOUCAULT, La pensée du dehors, in «Critique», 1966, n. 229, pp. 523-546; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. I, n. 38, p. 524 [trad. it. Il pensiero del di fuori, in ID., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, p. 117].

vieta, invalida questo discorso e questo sapere» 45. E aggiunge: «Gli intellettuali stessi fanno parte di questo sistema di potere, l'idea che essi siano gli “agenti” della coscienza e del discorso è parte di questo discorso» 46. Da tale analisi si ricavano due doveri, che sembrano aver determinato le forme del suo impegno a fianco dei membri della Gp e della Opp.

I due doveri dell'intellettuale. Dovere negativo e attivo di riserva, da una parte. Negativo (che assume la forma di un'ingiunzione negativa): il ruolo dell'intellettuale, dice, «non è più di porsi “un po' avanti o un po' a lato” per dire la verità muta di tutti»47. Dunque, niente tribunale popolare né commissione d'inchiesta. Attivo: bisogna invece lottare affinché quelle e quelli che hanno conquistato per esperienza la «coscienza come sapere» possa anche «occupare» la «coscienza come soggetto»48 ed esercitare il loro potere di informazione. L'8 febbraio 1971, durante una conferenza stampa a favore dei militanti incarcerati che praticavano lo sciopero della fame, Foucault legge e distribuisce il Manifesto del Groupe d'information sur les prisons, o Gip; l'acronimo, confida a Daniel Defert, ricorda quello della Gp, «con questo iota di differenza che si erano sentiti in dovere di introdurvi gli intellet-

45 FOUCAULT, Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze cit., p. 109. 46 Ibid. (traduzione modificata). 47 Ibid. 48 Ibid., p. 109. Le parole citate sono estratte dalle frasi che seguono, rivolte a Deleuze da Foucault: «È in questo senso che la teoria non sarà l'espressione, la traduzione o l'applicazione d'una pratica, ma una pratica essa stessa […] lotta non per una “presa di coscienza” (è da molto tempo che la coscienza come sapere è acquisita dalle masse e che la coscienza come soggetto è presa, occupata dalla borghesia), ma per minare e prendere il potere, a fianco e con tutti quelli che lottano per questo e non in disparte per illuminarli. Una “teoria” è un sistema regionale di questa lotta» questa posizione si distingue da quella di Sartre, il quale diceva di voler assumere «con e per l'oppresso coscienza dell'oppressione», testimoniare «per l'oppresso contro l'oppressore» e contribuire così «a formare un'ideologia costruttrice e rivoluzionaria» (cfr. J.-P. SARTRE, Situation de l'écrivain en 1947 , in ID., Qu'est-ce que la littérature? [1947], Gallimard, Paris 1985, p. 239).

tuali»49. I maoisti avevano stretto alleanza con alcuni intellettuali famosi; il Gip fa appello a «intellettuali specifici», pronti a «sovvertire la loro posizione di sapere nel potere e di potere nel sapere» 50 per raccogliere e diffondere le testimonianze delle persone imprigionate. La prima delle «inchieste intolleranza»51 è condotta nei mesi di marzo e aprile. Coinvolge «centinaia di persone»52 – medici, avvocati, operatori sociali, parenti dei prigionieri, prigionieri – tutta gente che, in un modo o nell'altro, conosce la prigione nel senso letterale del termine. Le informazioni raccolte vengono diffuse attraverso opuscoli prodotti dal Gip. I filosofi che li coordinano – Deleuze, Hélène Cixous, Jacques-Alain Miller, François Régnault... – hanno in comune il fatto di pensare, relativamente al linguaggio, tanto la lettera viva quanto la lettera morta: sensibili ai suoi effetti, alcuni di loro l'affrontano non solo come universitari, ma anche come gente di teatro, o psicoanalisti. Compito positivo e attivo di trasformazione della pratica teorica, dall'altra parte. Il ruolo dell'intellettuale è anche (addirittura piuttosto, dice Foucault) quello «di lottare contro le forme di potere là dove ne è a un tempo l'oggetto e lo strumento: nell'ordine del “sapere”, della “verità”, della “coscienza”, del “discorso”» 53. I militanti della Gp erano «pien[i] di sapere»54 – certamente, di un sapere che non è «nella dimensione dell'akouein», dell'ascolto (per riprendere le parole che utilizzava nel 1972 in Le savoir d'Œdipe)55. Quali evidenze trafiggevano loro gli occhi – e ce li trafiggono ancora oggi? Erano anche pieni di volere. Quando 49 DEFERT, L'emergenza di un nuovo fronte: la prigione cit., p. 25. 50 Ibid., p. 23 (traduzione modificata). 51 DEFERT, Cronologia, in FOUCAULT, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste cit., vol. I, p. 23. 52 M. FOUCAULT, Enquête sur les prisons: brisons les barreaux du silence (intervista di C. Angeli a M. Foucault e P. Vidal-Naquet), in «Politique-Hebdo», n. 24, 18 marzo 1971, pp. 4-6; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 88, p. 176 [trad. it. Inchiesta sulle prigioni: rompiamo le barriere del silenzio, in ID., L'emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo cit., p. 35]. 53 FOUCAULT, Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze cit., p. 109. 54 Cfr. la Lezione del 28 aprile 1981, supra […]. 55 FOUCAULT, Le savoir d'Œdipe, in Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France, 1970-1971, suivi de Le savoir d'Œdipe cit., p. 240.

donne e uomini di desiderio s'ingannano o si lasciano ingannare, quali sono gli interessi e (per riprendere le parole utilizzate da Deleuze in Gli intellettuali e il potere) gli «investimenti, sia economici che inconsci»56 che, loro malgrado, li rendono complici del proprio accecamento? E, dati questi investimenti e questo accecamento, in che modo parlare – quali modi inventare per dire e scrivere – allo scopo di trasformare effettivamente la pratica teorica, poiché è a questo che mira la critica? La posta in gioco è la lotta da condurre: benché questa trasformazione esiga una forma di distacco da sé, il distacco di per sé non basta. Non si tratta per Foucault di psicoanalisi, ma, nella lotta ingaggiata, di un annodarsi conseguente ed esigente della politica e dell'etica. Vero tour de force, il primo corso tenuto al Collège de France dal 9 dicembre 1970 al 17 marzo 1971 può essere letto come un dialogo criptato con la Gp. Il problema posto è quello della volontà di sapere; più esattamente, è il duplice problema della volontà di verità, «episodio centrale»57 della storia della volontà di sapere nella nostra civiltà e dell'elisione del soggetto di desiderio, elisione che nel discorso filosofico e scientifico sembra essere una condizione della verità. Foucault annuncia che esplorerà il discorso filosofico, le pratiche pregiuridiche e giuridiche, e il discorso poetico. Con il pretesto di questa esplorazione, comincia col sostenere che quanto, a partire da Aristotele, definisce la filosofia è la rimozione «[del]la questione sofistica o socratico-sofistica del “perché si desidera conoscere?”»58, rimozione attualizzata in un'apofantica «che pretende di disporsi all'essere secondo il modo della verità»59. In seguito, descrive come, nella Grecia antica, diritto e verità siano stati inizialmente legati nella forma binaria della prova, mediante enunciati manifestamente performativi, nel quadro di rituali agonistici, e successivamente nella forma ternaria della constatazione, per mezzo di enunciati apparente56 FOUCAULT, Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze cit., p. 116. 57 ID., Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 6. 58 Ibid., p. 16. 59 Ibid., p. 67.

mente descrittivi, nel quadro di rituali che sostituiscono (o sembrano sostituire) la giurisdizione all'agon. Per arrivare infine, attraverso un commento dell'Edipo re di Sofocle, a mostrare – ed ecco il tour de force – come il gesto di esclusione del criminale, il quale porta a compimento la definizione della città con il pretesto di purificarla, ripeta il gesto di esclusione del Sofista e la forclusione del soggetto del desiderio, che definiscono ciò che filosofia e scienza dicono di essere e di dover essere nella loro interiorità. Dal discrimen (dal discernimento) al crimen e dal crimen alla rimozione (in tutti i sensi della parola): Foucault mostra che il sistema del falso e del vero ha, nelle società occidentali, una funzione di esclusione analoga a quella del sistema dei divieti e dell'opposizione follia/ragione 60, e che esso si articola con i sistemi di dominio 61. Abbiamo visto che, oltre al problema dei prigionieri politici, la sua mobilitazione riguarda l'insieme dei detenuti; allo stesso modo, oltre alla Gp, è evidente che egli mira a un ambito più vasto. Il corso si rivolge a tutti coloro, uomini e donne, che vogliono sapere senza voler sapere nulla della propria volontà di sapere; che si riconoscono nel soggetto presupposto dal discorso che fa della verità la propria causa (materiale, formale, efficiente e finale); che, col pretesto di questa verità, aggirano la questione del desiderio che li tiene sotto il suo influsso. E poiché il discorso, nelle Leçons sur la volonté de savoir, è molto condensato, Foucault s'impegna, a partire da lì, a svilupparlo. Il primo dovere dell'intellettuale assumeva la forma di una pratica di ascolto e di trasmissione dell'informazione: zoom in avanti, contrapposto al segreto. Il secondo ha la forma di un'esplorazione politico-epistemica della storia, che mira non a ritrovare il medesimo nel passato, ma a mettere in risalto il differente, il singolare e il contingente nel presente: zoom all'indietro e campo lungo contrapposti all'illusione di necessità. Le «inchieste-intolleranza» nel registro dell'attività pratica sono precedute e se60 Ibid., p. 4 61 Ibid., p. 6.

guite da inchieste archeologiche e genealogiche in quello dell'attività teorica. Noi guardiamo le prigioni senza vederle, tolleriamo l'intollerabile, accettiamo l'inaccettabile: dal «fatto dell'accettazione», si tratta di risalire «al sistema dell'accettabilità, analizzata a partire dal rapporto sapere-potere» – è «il livello dell'archeologia» 62. Bisogna anche far vacillare le evidenze a partire dalle quali, ricodificato, l'intollerabile è tollerato: mostrare «al di là della capacità d'inganno proprio dei meccanismi di potere da esse fatti giocare e, ancora, prescindendo da tutte le giustificazioni elaborate», che esso non è stato reso accettabile da «qualche diritto originario»63 – è il livello della genealogia. Per molti aspetti – dice Foucault nel marzo 1971 – l'istituzione prigione è come un iceberg. La parte visibile funziona come giustificazione: «Ci vogliono delle prigioni perché ci sono dei criminali». La parte nascosta è però la più importante, la più temibile: la prigione è uno strumento di repressione sociale. […] Ecco delle cifre che fanno riflettere: il 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio e circa il 16 per cento è costituito da immigrati64.

A Jalila Hafsia che, nell'agosto 1971, lo interroga sui suoi progetti al Collège de France, risponde: C'è un problema che m'interessa da molto tempo: è quello del sistema penale […] Ne trarrò senza dubbio una serie di corsi durante i ventisette anni che ancora mi restano da passare al Collège de France. Non dico che consacrerò a ciò tutti e ventisette, ma senza dubbio un certo numero. Insieme a degli amici […], abbiamo formato una sorta di piccolo gruppo. Come dire? Una sorta di gruppo d'intervento e d'azione sulla giustizia, il sistema penale, le istituzioni penitenziarie in Francia e abbiamo lanciato un'inchiesta sulle condizioni dei

62 M. FOUCAULT, Qu'est-ce que la critique? [Critique et Aufklärung], seduta del 27 maggio 1978, in «Bulletin de la société française de philosophie», LXXXIV (1990), n. 2, p. 49 [trad. it. Illuminismo e critica cit., p. 40]. 63 Ibid. 64 FOUCAULT, Inchiesta sulle prigioni: rompiamo le barriere del silenzio cit., p. 36.

detenuti in Francia […] Ecco a cosa sto consacrando le mie attività e forse i mesi e gli anni a venire65.

E all'acuta osservazione della sua interlocutrice secondo cui, fin dall'inizio, egli ha «subordinato il discorso logico a un discorso morale» e che approderà non a una metafisica, ma a un'etica, risponde precisando: «Cerco semplicemente di vedere, di far apparire e di trasformare in un discorso leggibile da parte di tutti ciò che nel sistema di giustizia attuale può esservi di insopportabile per le classi più svantaggiate»66.

Giustizia e verità. Il problema che preoccupa Foucault può essere approssimativamente formulato in questi termini: la lotta contro il sistema penale è una lotta importante67, tuttavia è difficile, a causa della verità. Egli lo esamina sullo sfondo di un altro problema di cui, già nel 1968, diceva che «non è privo di importanza per la pratica politica»68: quello «dello statuto, delle condizioni di esercizio, del funzionamento, dell'istituzionalizzazione dei discorsi scientifici»69. Nell'aprile del 1971, aggiunge alle Leçons sur la volonté de savoir una Leçon sur Nietzsche. Riguardo all'autore della Genealogia della morale, dice che concepisce la verità come un effetto: quello che una conoscenza «serva, dipendente, interessata» produce attraverso «il gioco di una falsificazione originaria e sempre ricominciata che pone la distinzione del vero e del falso»70. Ma la giustizia non è forse uno dei modi di produzione della verità, nel senso nietzschiano della parola? 65 ID., Un problème m'intéresse depuis longtemps, c'est celui du système pénal (conversazione con J. Hafsia), in «La Presse de Tunisie», 12 agosto 1971; ripreso in FOUCAULT, Dits et écrits cit., vol. II, n. 95, p. 206 [trad. it. Un problema m'interessa da molto tempo, quello del sistema penale, in ID., L'emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo cit., pp. 54-55]. 66 Ibid., p. 56. 67 FOUCAULT, Sulla giustizia popolare: dibattito con i maoisti cit., p. 93. 68 ID., Réponse à une question, in «Esprit», 1968, n. 361; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. I, n. 58, p. 688 [trad. it. Risposta a una domanda, in ID., Il sapere e la storia. Sull'archeologia delle scienze e altri scritti, Ombre corte, Verona 2007, p. 99]. 69 Ibid.

Come osserva nel Dibattito con i maoisti sulla giustizia popolare, le decisioni sono prese da giudici ritenuti neutrali rispetto alle parti, «in funzione di una certa norma di verità e di un certo numero di idee sul giusto e l'ingiusto»71 al termine di un rituale – inchiesta, esame – destinato a «stabilire la 'verità' o ottenere la 'confessione'» 72. Le pratiche giudiziarie hanno il potere di trasmutare la forza in diritto e il risentimento di fronte alla violenza poliziesca in assenso di fronte all'evidenza penitenziaria; alla coscienza dell'arbitrarietà, esse sostituiscono spesso l'illusione del necessario. Se è così, è perché nel corso della procedura opera un effetto di verità. Per lottare contro la passività e la cecità, bisogna scovare i meccanismi di produzione di questo effetto. Il secondo corso al Collège de France, Théories et institutions pénales, studia l'evoluzione dell'inchiesta e analizza le forme di controllo sociale che si sono sviluppate a partire dal XVI secolo e che hanno fatto nascere l'esame. Si iscrive nel progetto abbozzato nelle Leçons sur la volonté de savoir, che consisteva nel «seguire la formazione di certi tipi di sapere a partire dalle matrici giuridico-politiche che hanno dato loro nascita e che servono loro da supporto»73. Il discorso viene ripreso nel 1973 in La verità e le forme giuridiche. Foucault dice di voler fare, della verità, non una storia interna, ma una storia esterna: studiarla non dove essa si pensa nelle forme della storia delle scienze, ma là dove, impensata, informa di sé pratiche e pensieri. Le pratiche giudiziarie, dice, sono pratiche a partire dalle quali si costituiscono ambiti di sapere, che fanno apparire «degli oggetti nuovi, dei nuovi concetti, delle nuove tecniche» e «forme totalmente nuove di soggetti e di soggetti di conoscenza» 74. Le cinque confe70 M. FOUCAULT, La volonté de savoir, in «Annuaire du Collège de France», LXXI: Histoire des systèmes de pensée, année 1970-1971 (1971), pp. 245-249; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 101, p. 243. 71 ID., Sulla giustizia popolare: dibattito con i maoisti cit., p. 78 72 Ibid., p. 72. 73 ID., Théories et institutions pénales, in «Annuaire du Collège de France», LXXII: Histoire des systèmes de pensée, année 1971-1972 (1972), pp. 283-286; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 115, p. 389 [trad. it. Teorie e istituzioni penali (1971-1972) , in ID., I corsi al Collège de France. I Résumés, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 19-24]. 74 ID., A verdade e as formas juridicas (conferenze tenute presso l'Università cattolica pontificia di Rio de Janeiro dal 21 al 25 maggio 1973); riprese in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 139, p. 539

renze di Rio de Janeiro sviluppano il confronto tra procedure agonistiche, a struttura binaria, che sono altrettanti commutatori della forza in diritto, e procedure organizzate dal mito della disgiunzione tra sapere e potere, a struttura ternaria, che mascherano l'appartenenza della forza e del diritto per mezzo di verità a cui il diritto è adeguato. Verità dell'atto, prodotta nella forma dell'inchiesta; verità del criminale, foggiata in quella dell'esame. Nel 1975, Sorvegliare e punire propone una «genealogia dell'attuale complesso scientifico-giudiziario dove il potere di punire trova le sue basi, riceve le sue giustificazioni e le sue regole, estende i suoi effetti e maschera la sua esorbitante singolarità»75. A partire dal XIX secolo, al di là della verità dell'atto, si cerca la verità del trasgressore; più esattamente, è quella del criminale, che la prigione ha sostituito al trasgressore e che è legata al suo atto da tutta una serie di determinazioni biologiche, psicologiche o sociali. «Una conoscenza nuova, nuove tecniche, discorsi “scientifici” si propongono e s'intrecciano con la pratica del sapere di punire» 76: al teatro penale, si rappresenta un nuovo dramma. Altra implicazione: si giudica l'atto, «ma, nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell'ambiente o della ereditarietà» 77. Altri personaggi: medici, psichiatri, criminologi, delinquenti... Se la repressione passa inosservata, è perché ormai la verità del criminale ne costituisce il velo, tramato da parvenze di scienza: la mitezza penale è il velo del velo, intessuto di parvenze di diritto78. I tribunali e le prigioni sono le manifatture del simulacro in cui, di continuo, fatti vengono trasformati in verità e delinquenti vengono fabbricati a partire da esseri umani detenuti. (La vérité et les formes juridiques) [trad. it. La verità e le forme giuridiche, ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste cit., vol. II (1971-1977): Poteri, Saperi, Strategie cit., p. 84]. 75 ID., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione cit., p. 26. 76 Ibid., pp. 25-26. 77 Ibid., p. 20. 78 Ibid., p. 27. Secondo Foucault, «attraverso l'analisi della dolcezza penale come tecnica del potere, si potrebbe capire, in uno stesso tempo, come l'uomo, l'anima, l'individuo, normale o anormale, sono venuti a porsi accanto al delitto come oggetti dell'intervento penale; e per quale via un modo specifico di assoggettamento ha potuto dare origine all'uomo come oggetto di studio per il discorso “scientifico”».

Queste istituzioni occupano una folla di praticanti e di teorici di un sapere ritenuto vero e di un potere ritenuto retto, ma sono costretti a dimenticarlo se preferiscono misconoscere che di tali prodotti, anche solo nella forma del salario, beneficiano. A tutti questi testi, Mal fare, dir vero aggiunge, nel 1981, l'elemento della confessione, già individuato nel 197279. La questione interessava Foucault da tempo: già nel 1975 si stupiva che nella maggior parte dei sistemi giuridici «quello che si dice contro se stessi costituisca una prova» 80. Non è difficile del resto immaginare «che qualcuno cerchi di imputarsi qualcosa o per scagionarne altri o per scagionare se stesso da un'altra colpa»81: in ogni caso, la tortura e altre tecniche consentono di carpire confessioni non conformi alla realtà82. Alcune questioni esaminate a Lovanio sono l'eco di Leçons sur la volonté de savoir. Se, nella confessione, la conformità alla realtà non è una condizione della verità, da dove deriva il fatto che sia tenuta per vera e a cosa serve supporlo? Problematizzazione congiunta dell'asse del riferimento nel linguaggio e della funzione della confessione nella giustizia. Altre questioni sono un prolungamento di Sorvegliare e punire. Si puniscono «delle aggressioni, ma attraverso queste delle aggressività; degli stupri, ma nello stesso tempo delle perversioni; degli assassinî che sono anche pulsioni e desideri»83. Se il criminale ha preso il posto del trasgressore e deve confessare non più solamente ciò che ha fatto, ma ciò che è (o che deve essere per averlo potuto fare), la confessione può forse essere qualcosa di diverso dalla «scheggia, la piaga, la linea di fuga, la breccia di tutto il sistema penale» 84? Problematizzazione del soggetto che, nella confessione, è costituito correlativamente alla verità – problematizzazione della soggettività-verità. 79 FOUCAULT, Sulla giustizia popolare: dibattito con i maoisti cit., pp. 71 sgg. 80 ID., Michel Foucault. El filosofo responde (conversazione con C. Bojunga e R. Lobo, tradotta da P.W. Prado jr), in «Jornal da tarde», 1° novembre 1975; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 163, p. 810 (Michel Foucault: Les réponses du philosophe). 81 Ibid. 82 Ibid. 83 FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione cit., p. 20. 84 Cfr. Lezione del 20 maggio 1981, supra […].

Al termine del corso si aprono due nuove questioni. Non più quella sulla funzione della confessione nel processo di giurisdizione. Né quella sul suo funzionamento all'interno «delle società dell'esilio (società greca), delle società del riscatto (società germaniche), delle società della marchiatura (società occidentali fino alla fine del Medioevo) e società che imprigionano, la nostra», poiché Mal fare, dir vero riprende da La société punitive queste distinzioni. Piuttosto, quella della sua funzione in quel singolare processo di veridizione che è l'opera di Foucault. Quella, inoltre, della lunga serie di soggetti che, da Pierre Rivière a Patrick Henry, confessano di aver ucciso senza potere né spiegare né spiegarsi che cosa li ha spinti, in quel momento, malgrado tutti i loro sforzi (Pierre Rivière ci ha provato, in un disperato faccia-a-faccia con se stesso, nel momento in cui non restava più, ai suoi occhi, altro che la morte). Questioni strane, senza dubbio. Tuttavia, se si ammette che Foucault è criptico quanto Lacan è ermetico, e per le stesse ragioni – perché voleva che «il lavoro necessario per comprenderlo fosse un lavoro da realizzare su se stessi» 85 –, esse possono costituire delle chiavi per analizzare in che modo, al di là del suo impegno contro il sistema penale, la sua filosofia critica annodi politica ed etica.

2. La conoscenza e il suo soggetto. 85 M. FOUCAULT, Lacan, il «liberatore» della psicoanalisi (intervista di J. Nobécourt, trad. di A. Ghizzardi), in «Corriere della Sera», 11 settembre 1981; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 163, p. 205 (Les réponses du philosophe). Come lettore, Foucault è attento alla «trama dimostrativa», ma anche alla «trama ascetica» dei testi filosofici e al loro incrocio; nelle Meditazioni di Descartes, ad esempio, egli vede «un insieme di proposizioni che formano sistema, che ogni lettore deve percorrere se vuole provarne la verità; e un insieme di modificazioni che formano esercizio, che ogni lettore deve effettuare, dalle quali ogni lettore deve essere toccato, se a sua volta vuole essere il soggetto che enuncia, per proprio conto, questa verità» ( Mon corps, ce papier, ce feu, in ID., Histoire de la folie à l'âge classique cit., p. 594, Appendice II [trad. it. Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco in ID., Storia della follia nell'età classica cit., p. 787].

La confessione, dunque. Nell'opera di Foucault, che funzione ha? Risposta sommaria: di costituire una cerniera tra quello che, in Il soggetto e il potere, egli chiama la seconda e la terza parte del suo lavoro, lo studio dell'«oggettivazione del soggetto in ciò che chiamerei “pratiche di divisione”»86, processo che «fa di lui un oggetto», e quello della soggettivazione, «il modo in cui un essere umano trasforma se stesso in soggetto» 87. Vale a dire: studiare i rapporti tra le due serie, le serie {oggetto; divisioni «oggettive»88; tecniche di dominio} e la serie {soggetto; divisione soggettiva; tecniche di sé}. Più radicalmente: studiare l'assoggettamento in quanto procede in un caso da una forzatura oggettiva, nell'altro da una ripresa soggettiva. Coglierlo nel punto preciso in cui, per via di tale ripresa, la servitù diventa volontaria. Per aprire così un passaggio che conduce dall'illusione della ripresa all'esigenza del distacco, dalla docilità all'indocilità riflessa, e dalla servitù alla non-servitù volontaria.

Un compito impegnativo. Articolare l'oggetto e il soggetto – o, più esattamente, problematizzare la loro articolazione nella conoscenza, interrogare al contempo ciò che Foucault chiama «la forma della conoscenza» e «la norma 'soggetto-oggetto'»89 – non è solamente un progetto che, a partire dall' Introduzione all'«Antropologia» di Kant, persegue con costanza. Dal momento che, al di là della repressione, egli critica la tradizione filosofica e il discorso della scienza, si tratta anche di un'esigenza. Difficoltà: se il genealogista vuole mettere in evidenza non solo la storicità del «malato mentale» o del 86 ID., The Subject and Power, in DREYFUS e RABINOW, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics cit., pp. 208-226, trad. di F. Durand-Bogaert; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 306, p. 223 [trad. it. Il soggetto e il potere, in DREYFUS e RABINOW, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente cit., pp. 279 sgg.]. 87 Ibid. 88 Ibid., p. 281, dove Foucault evoca diverse partizioni operate dalle «pratiche di divisione», folle/normale, malato/sano, criminale/«bravo ragazzo». 89 FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., p. 285.

«criminale», ma anche quella del soggetto di conoscenza, allora deve, nel campo filosofico e in quello scientifico, fare i conti con la riluttanza. Certamente, come dice nel 1973 in La verità e le forme giuridiche, la pratica e la teoria psicoanalitiche hanno «rivalutato nella maniera più fondamentale la priorità un po' sacra conferita al soggetto che si era stabilita nel pensiero occidentale»90. Resta il fatto che «nel campo di ciò che si potrebbe chiamare la teoria della conoscenza o in quello dell'epistemologia, o della storia delle scienze, o ancora della storia delle idee», la maniera in cui il soggetto è concepito è «ancora molto filosofica, molto cartesiana e kantiana» (poiché, si preoccupa di precisare, «al livello di generalizzazione in cui mi colloco, non faccio differenza tra filosofia cartesiana e kantiana»). Resta anche che «una certa tradizione universitaria o accademica del marxismo non l'ha fatta ancora finita con questa concezione filosofica tradizionale»91. Sin dall'inizio, Foucault si accinge dunque al compito di rielaborare la teoria del soggetto, come ricorderà qualche decina d'anni più tardi. Compito impegnativo. Non basta stabilire che «la relazione tra soggetto e verità, o semplicemente di conoscenza, è turbata, oscurata, velata dalle condizioni di esistenza» – il che traduce nelle analisi marxiste tradizionali quella «specie di elemento negativo» che è «l'ideologia»92. Non basta nemmeno stabilire che la nozione di un «soggetto dotato di coscienza dove forma liberamente o riconosce liberamente delle idee alle quali crede» è un «dispositivo […] perfettamente ideologico» 93 (come afferma Althusser), e che questa modalità del rapporto immaginario degli individui con le loro condizioni di esistenza è lo stigma dell'ideologia su un soggetto della conoscenza (come si deduce da Althusser). Parlare di ideologia significa suggerire che, anteriormente alla conoscenza, esistano un sogget90 ID., La verità e le forme giuridiche cit., p. 85. 91 Ibid. 92 Ibid., p. 96. 93 L. ALTHUSSER, Idéologie et appareils idéologiques d'État (Notes pour une recherche), in «La Pensée», 1970, n. 151 (http://classiques.uqac.ca/contemporains/althusser_louis/ideologie__et __AIE.pdf [consultato il 30 ottobre 2011]), p. 43 [trad. it. Ideologia e apparati ideologici di Stato, in ID., Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 104].

to, un oggetto e, tra di essi, un velo che può essere sollevato; significa stabilire che, accanto alla falsa coscienza, ce ne sono altre che un lavoro ha aperto alla verità, un lavoro che autorizzerebbe quelle e quelli che vi sono dedicati a svelarla. Foucault vuole mostrare che «le condizioni politiche, economiche di esistenza non sono un velo o un ostacolo per il soggetto di conoscenza, e dunque le relazioni di verità»94. Ritorno a Nietzsche: al di là della verità, si tratta di fare la storia del soggetto che il discorso della scienza presuppone, di costruire la genealogia di quell'evento che è la coscienza. Di mettere in evidenza, dunque (contro Althusser, il quale presuppone che l'ideologia in generale sia eterna – proprio come, secondo Freud, l'inconscio è eterno – e ritiene che tra queste proposizioni esista «un nesso organico» che impone «un rapporto diretto» tra le due tesi 95), la storicità di ciò che fa e divide un soggetto: di ciò che questi si ricorda e di ciò che dimentica; di ciò di cui ha coscienza e di ciò di cui è incosciente, in altre parole. Su questo terreno scivoloso, Foucault avanza lentamente. «Alla radice della conoscenza, non esiste coscienza»96, dice nella Leçon sur Nietzsche. C'è una volontà di potenza, che è riferita all'oggetto «nella forma della sostanza, dell'essenza intelligibile, della natura o della creazione»; una volontà il cui soggetto – quel «sistema di deformazioni e di prospettive», quel «principio delle forme di dominio», che riceve dall'oggetto «il marchio della sua identità e della sua realtà» 97, è il punto di emergenza. Certamente, per la tradizione filosofica, la relazione di conoscenza presuppone che la volontà cancelli da se stessa «tutto ciò che non sia luogo vuoto per la verità», «tutti i suoi caratteri individuali, tutti i suoi desideri e tutte le sue violenze»98. La lezione di nietzsche è che, nella conoscenza, il rapporto tra la volontà e la verità non ha come condizione la libertà (li94 FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche cit., p. 96. 95 ALTHUSSER, Ideologia e apparati ideologici di Stato cit., p. 98. 96 M. FOUCAULT, Leçon sur Nietzsche. Comment penser l'histoire de la vérité avec Nietzsche sans s'appuyer sur la vérité , conferenza tenuta presso l'Università McGill di Montréal nell'aprile del 1971, in ID., Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 203. 97 Ibid. 98 Ibid., p. 206.

bertà della verità e libertà della volontà), ma la violenza. E la lezione di Foucault lettore di Nietzsche è che non esiste «nella violenza del conoscere, un rapporto costante, essenziale e preliminare che l'attività della conoscenza dovrebbe al contempo effettuare e dispiegare»99. Il rapporto «soggetto-oggetto» che serve a fondare quest'attività è in realtà «il prodotto» e «l'illusione originaria»; lo stesso accade per «tutti i suoi derivati come a priori, oggettività, conoscenza pura, soggetto costituente»100. Per quelle e per quelli che si identificano con il soggetto della tradizione filosofica e del discorso scientifico, si tratta di una «formidabile ferita narcisistica»101 (per trasporre quanto Foucault dice del colpo inferto da Pasteur ai medici, che evoca in Il potere psichiatrico). Il modo in cui il soggetto è concepito è anche il modo in cui essi si concepiscono: difficile, per degli intellettuali che sognano di essere gli «agenti della “coscienza”»102, accettare che il soggetto di questo sogno sia ridotto al rango di effetto illusorio della «forma particolare di potere-sapere rappresentato dalla conoscenza»103. Non c'è da stupirsi se, al pari di Descartes, si aggrappano all'evidenza; non c'è da stupirsi se non si arrendono senza opporre resistenza. Per avere la meglio sulla loro convinzione, la prima arma di Foucault è la precisione terminologica. Da subito, egli presta attenzione a «fissare il vocabolario»104: «conoscenza» fa riferimento al favoloso «sistema che permette di conferire un'unità preliminare, un'appartenenza reciproca e una connaturalità al desiderio e al sapere»; «sapere» fa riferimento a ciò che bisogna pure «strappare all'interiorità della conoscenza per ritrovarvi l'oggetto di un volere, la fine di un desiderio, lo strumento di un dominio, la posta in gioco di una lotta» 105. Ma questa precisione non basta, anche se è necessaria: bisogna non solo dire, ma fare – strappare alla conoscenza la traccia dell'agon tra una volontà di 99 Ibid., p. 202. 100 Ibid. 101 FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., p. 287. 102 ID., Gli intellettuali e il potere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze cit., p. 109. 103 ID., Il potere psichiatrico cit., p. 296. 104 ID., Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 18. 105 Ibid.

potenza e l'oggetto a cui essa si dedica. Per porre la questione del soggetto, Foucault riprende uno dei temi delle Leçons sur la volonté de savoir, quello della «verità-prova», a struttura binaria, e della «verità-constatazione», a struttura ternaria. Nel 1974 scrive: A lungo, e in buona parte ancora ai nostri giorni, la medicina, la psichiatria, la giustizia penale, la criminologia si sono collocate nella zona di confine che sta tra una manifestazione della verità secondo le norme della conoscenza e una produzione della verità nella forma della prova, dove però quest'ultima ha sempre teso a nascondersi sotto la prima e a farsi giustificare da essa106.

A partire dall'esempio della psichiatria, egli mostra come la funzione di produzione della verità, che si è progressivamente attenuata nell'ospedale pasteuriano, sia invece divenuta ipertrofica nell'ospedale psichiatrico del XIX secolo, «luogo di una gara, campo istituzionale in cui a essere in gioco sono vittoria e sottomissione», oltre che «luogo di diagnosi e di classificazione»107. In seguito, sulla scena del teatro che ha allestito, fa entrare Charcot. Il direttore della Salpêtriere mostra come, «su richiesta del potere-sapere medico», vengano prodotti fenomeni (letargia, catalessi...) che contribuiscono a fare dell'isteria un oggetto per la scienza; mostra anche in che modo, con l'aiuto della nosografia, la relazione di potere che ne costituisce la condizione di possibilità scompaia all'interno di quel particolare tratto sintomatico che è la suggestionabilità («virtù suprema dell'isteria, docilità senza pari, vera santità epistemologica» 109); e infine mostra come lo statuto di pur soggetto di conoscenza gli sia conferito dall'oggetto così costituito. Nuova ripresa in Sorvegliare e punire a proposito della giustizia penale e della criminologia. Tuttavia, malgrado la ripetizione, l'oggetto sembra essere, rispetto alla conoscenza, quello che il criminale è rispetto 106 FOUCAULT, Il potere psichiatrico cit., p. 285. 107 Ibid., p. 289. 109 Ibid., p. 291.

alla repressione: punta emergente di un iceberg che, per il resto, sfugge alla vista. Dai lavori dedicati all'analisi delle «pratiche di divisione», gli ascoltatori e i lettori di Foucault riterranno il concetto di sapere-potere. Per lo più dimenticheranno, invece, il soggetto al quale «quella forma singolare di potere-sapere rappresentato dalla conoscenza»110 ha dato origine. Tra i personaggi che ha studiato, noteranno quelli che le «pratiche di divisione» hanno separato dagli altri. Non riusciranno a cogliere, nello specchio sospeso sullo sfondo del quadro che il commentatore di Las meninas dipinge111, la silhouette che rappresenta al tempo stesso il soggetto della rappresentazione e loro stessi, il riflesso del soggetto sovrano. Difetto di discernimento? È proprio come se, nell'ordine della conoscenza, il discrimen e il crimen respingessero ai margini i soggetti che le «pratiche di divisione» oggettivano per rimuovere anche la questione della divisione soggettiva. Le genealogie del malato mentale o del criminale suscitano il transfert. Quando però Foucault mira al soggetto della tradizione filosofica e del discorso della scienza (quale che ne sia la modalità, cogito, soggetto della rappresentazione, coscienza), il transfert si trasforma in resistenza.

Riluttanza. Difficoltà. Ammettere che la crisi della giustizia penale o la crisi della criminologia e della psichiatria – le «discipline» che si sono specializzate nel crimen e nel discrimen – «mette in discussione i loro limiti o le loro incertezze nel campo della conoscenza»112 è, per un filosofo, una cosa tutto sommato abbastanza facile. Accettare, in più, che questa crisi metta in questione «la stessa conoscenza, la sua forma, la norma “soggetto-ogget110 Ibid., p. 296. 111 M. FOUCAULT, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines , Gallimard, Paris 1966 [trad. it. Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane , Rizzoli, Milano 1978]. 112 ID., Il potere psichiatrico cit., p. 285.

to”»113 è un'altra questione, senza alcun dubbio più difficile. Ma passare dagli oggetti che queste «discipline» hanno separato al soggetto diviso! Riguardo al soggetto della filosofia e della scienza, mettere in discussione l'unità; nel soggetto della conoscenza, mettere in evidenza un desiderio che lo oltrepassa; mostrare – di nuovo, poiché era già l'intento delle Leçons sur la volonté de savoir – che, se nella tradizione filosofica e nel discorso della scienza, «il soggetto del desiderio e il soggetto della conoscenza sono tutt'uno», è perché «il desiderio viene a essere eliso, con la sua efficacia»114. Per il parresiasta – visto che la parrhesia è messa in atto da Foucault prima che faccia ricorso al termine – la sfida è dura: far vedere sia il soggetto, sia la sua scissione, sia la loro invisibilità, sia l'invisibilità della loro invisibilità. Non meno dura, tuttavia – è la regola del gioco del coraggio della verità –, la sfida lanciata a quelle e a quelli che scelgono di ascoltarlo: accettare di domandarsi che cosa proteggano difese così numerose; acconsentire, al di là della forma della conoscenza, a mettere in questione il proprio godimento. A fronte di una formidabile ferita, di aspre sfide, un'opera sull'argomento mille volte ripreso. Il primo tomo di Storia della sessualità esce nel 1976, un anno dopo Sorvegliare e punire. Forse perché si tratta di rilanciare la questione del soggetto? Dopo aver pensato di intitolarlo Sexe et vérité115, Foucault opta per La volontà di sapere, titolo già dato al corso del 1970-71 al Collège de France. Come scriverà otto anni dopo nell'introduzione all'Uso dei piaceri, «la nozione di desiderio o quella di soggetto desiderante costituiva allora se non una teoria, quanto meno una tematica generalmente accettata»116; è questo punto debole nella corazza dei suoi contemporanei che egli attacca per «evenementalizzare» 117 il sogget113 Ibid. 114 ID., Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 19. 115 M. FOUCAULT, Le jeu de Michel Foucault (conversazione con D. Colas, A. Grosrichard, G. Le Gaufrey, J. Livi, G. Miller, J. Miller, J.-A. Miller, C. Millot, G. Wajeman), in «Ornicar? Bulletin périodique du champ freudien», 1977, n. 10, pp. 62-93; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. III, n. 206, p. 312 [trad. it. Il giuoco di Michel Foucault , in AA.VV., Ornicar? Prospettive della psicoanalisi. Scritti di Jacques Lacan e di altri, Marsilio, Venezia 1978, pp. 265-295. 116 ID., Storia della sessualità cit., vol. II: L'uso dei piaceri, pp. 10-11. 117 Sul concetto di evenementalizzazione, cfr. ID., Illuminismo e critica cit., pp. 53-54.

to sovrano. Il progetto presentato è quello di «comprendere come, nelle società occidentali moderne, [si sia] costituito qualcosa come una “esperienza” della “sessualità”, nozione familiare e che tuttavia non compare affatto prima dell'inizio del XIX secolo»118. Egli immagina di costruire una genealogia del desiderio e del soggetto desiderante – il che non vuol dire, preciserà Foucault nel 1984, fare «una storia delle concezioni successive del desiderio, della concupiscenza o della libido», ma un'analisi delle pratiche attraverso le quali gli individui sono stati spinti a fermare l'attenzione su se stessi, a decifrarsi, riconoscersi e confessarsi soggetti di desiderio, mettendo in gioco gli uni con gli altri un certo rapporto che permette loro di scoprire nel desiderio la verità del loro essere, sia esso naturale o corrotto119.

Il cuore del libro è un capitolo intitolato Scientia sexualis. Foucault all'inizio vi distingue i motivi della verità-constatazione e della verità-prova. Per tutto il XIX secolo, scrive, il sesso sembra essersi iscritto entro registri di sapere distinti, biologia della riproduzione e medicina del sesso. Tra l'una e l'altra, tuttavia, non si è avuto «nessuno scambio reale, nessuna strutturazione reciproca; la prima non ha praticamente svolto, rispetto all'altra, che il ruolo di una lontana garanzia, e ben fittizia» 120. In seguito, rispetto alla verità-prova, tocca il tema del rifiuto di vedere e di ascoltare, rifiuto che verte «su quel che si faceva emergere, o di cui si sollecitava imperiosamente la formulazione»121. Charcot, ancora una volta: appoggiando l'estremità di un bastone122 sulle ovaie di una paziente, provoca a piacere la comparsa e la sparizione di una contrattura isterica; ma si fa scomparire G., la malata, quando «reclama il bastone-sesso con parole 118 ID., Histoire de la sexualité cit., vol. II: L'usage du plaisirs, foglio allegato all'edizione originale. 119 ID., Storia della sessualità cit., vol. II: L'uso dei piaceri, p. 11 (traduzione modificata). 120 ID., La volontà di sapere cit., pp. 50-51. 121 Ibid., p. 51. 122 Armonica: al di là di Charcot, la descrizione evoca certe forme di mantica analizzate da DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica cit., p. 43: «Il re di giustizia, maestro di “verità”, è provvisto del medesimo privilegio di efficacia: in effetti i suoi detti di giustizia, i suoi themistes, sono una sorta di oracolo […] la sua potenza si esprime nel bastone del capo».

che non comportano alcuna metafora»123. Risultato dell'operazione: due nuove serie, che combinano in maniera inedita vecchi motivi. Serie della verità-constatazione, del soggetto della conoscenza e di quella «immensa volontà di sapere che ha sostenuto l'istituzione del discorso scientifico in Occidente»; serie della verità-prova, del soggetto di desiderio e di quella «volontà ostinata di non-sapere» che rovescia il discorso scientifico come un guanto, accumulando «credulità senza età» e «accecamenti sistematici»124. La prima serie è rappresentata dai significanti di «biologia» e «riproduzione»; la seconda da «medicina» e «sesso». Tuttavia Foucault non si limita a mostrare che Charcot non vuole sapere nulla del desiderio. Nella medicina che il maestro della Salpêtrière esercita con passione, a essere in questione – come Freud vedrà bene – è il sesso. Ciò nonostante, egli conosce evidentemente la biologia della riproduzione; vi fa riferimento, a suo modo, nelle proprie manipolazioni (è sulle ovaie di G. che Charcot appoggia il suo bastone). Metafora che indica forse come le serie distinte ai fini dell'analisi debbano essere sovrapposte, proprio come accade nella sua pratica? Tra Charcot e G., la relazione è di conoscenza; ma i due termini che questa conoscenza mette in relazione potrebbero scriversi d/S e d/O, o meglio Ud/Sc e Dd/Oc. Charcot, individuo interpellato come soggetto della conoscenza (Sc) dal discorso della scienza, è anche un uomo tormentato dal desiderio (U d); G., oggetto di conoscenza (Oc), è a sua volta – se ne ricorda tra i vapori di nitrato d'amile che la si costringe a inalare – una donna desiderante (D d). E cosa importa se il suo desiderio non è per lui quello che è per lei? Cosa importa se, da parte di lui, è un desiderio di sapere e potere che prende il posto di quello che, da parte di lei, assume manifestamente, nel dispositivo della sessualità, la forma di un desiderio sessuale (orientato o meno alla riproduzione): nella relazione di conoscenza, è l'incontro tra questi desideri misconosciuti a essere efficace. È il desiderio che fa inarcare il corpo quello che, affascinati, Charcot e i suoi discepoli osservano; il desiderio 123 FOUCAULT, La volontà di sapere cit., p. 52, nota 1. 124 Ibid., p. 51.

che genera l'illusione che li rende simili; il desiderio che sta al principio, per lui, dell'accumulo di sapere-potere, e per lei di un compiacimento delirante. Lezione 1. Il soggetto e l'oggetto della conoscenza sono entrambi soggetti al desiderio. «Al» e non «del»: poiché, se la condotta di Charcot e di G. è orientata da un volere, questo volere non assume la forma di una scelta o della decisione di un soggetto individuale; esso è, come Foucault dice a proposito delle relazioni di potere, al contempo intenzionale e non soggettivo125. Lezione 2. È la causa dell'accecamento: tuttavia – cortocircuito, rappresentato nell'esempio proposto dalla contrattura isterica – è sempre il desiderio che vi supplisce. Lezione 3. Questo supplemento vale come garanzia. Nel mondo della rappresentazione, è Dio ad assolvere tale funzione; al di fuori di questo mondo, la sola garanzia, per il soggetto della conoscenza turbato dal desiderio, è quella che, nel suo sconvolgimento, l'individuo che egli ha assunto come oggetto della conoscenza gli fornisce, turbato a sua volta da un desiderio distinto dal suo, ma che vi si subordina. Lezione 4. Se il maestro della Salpêtrière ha come unica garanzia quella incarnata dall'isterica – «i rapporti di potere passano all'interno dei corpi»126 –, se dunque per questa garanzia egli dipende da lei, allora G., facendogli vedere e conoscere ciò che di lei lui vuole vedere e conoscere, diventa complice del potere che a causa e per mezzo del sapere si esercita su di lei. Veramente, e realmente. Ripresa soggettiva? No, poiché non si tratta né di una scelta, né della decisione di un soggetto individuale. Sì, poiché la molla di questa ripresa che determina la «santità epistemologica»127 dell'isterica è il desiderio, al quale si assoggetta, per quanto ella sia oggetto di conoscenza. È poco per parlare di servitù volontaria; è abbastanza perché Foucault le associ il ter125 Ibid., p. 4. 126 ID., Les rapports de pouvoir passent à l'intérieur des corps (conversazione con L. Finas, in «La Quinzaine littéraire», 1977, n. 247, pp. 4-6); ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. III, n. 197, p. 228 [trad. it. I rapporti di potere passano all'interno dei corpi , in Discipline, Poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984 cit., p. 93]. 127 ID., Il potere psichiatrico cit., p. 291.

mine «docilità» ed evochi una «responsabilità»128 presa in carico e accettata. Tra i protagonisti della scena raccontata, la relazione di dominio passa attraverso la produzione dell'identità che Charcot attribuisce a G.; la condizione della sua attualizzazione è la convalida, da parte di G., dell'identità che le è attribuita129. Bisogna inoltre osservare (lezione 5) che Charcot [e gli psichiatri del XIX secolo] si trovano il corpo isterico direttamente «di fronte»130, vale a dire «in tutto il loro sapere e la loro ignoranza», e che né Charcot né G. sanno come questo accada: il potere investe il corpo senza essere stato prima interiorizzato nella coscienza; i rapporti di forza non devono essere ripresi dalla rappresentazione per essere

128 Ibid. 129 Per un'ulteriore riformulazione di questo punto, in risposta a una domanda che oppone sog getto attivo e soggetto passivo, cfr. FOUCAULT, L'éthique du souci de soi comme pratique de la liberté (conversazione con H. Becker, R. Fornet-Betancourt, A. Gomez-Muller, 20 gennaio 1984, in «Concordia. Revista internacional de filosofía», 1984, n. 6, pp. 99-116); ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 356, p. 719 [trad. it. L'etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste , vol. III: 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica cit., p. 283 (traduzione modificata)]. Se «è vero, per esempio, che la costituzione del soggetto folle può essere effettivamente considerata come la conseguenza di un sistema di coercizione […] voi sapete benissimo che il soggetto folle non è un soggetto non-libero e che il malato mentale si costituisce come soggetto folle proprio nei confronti e di fronte a colui che lo dichiara folle. Mi sembra che l'isteria, che è stata così importante nella storia della psichiatria e nel mondo asilare del XIX secolo, sia l'illustrazione stessa del modo in cui il soggetto si costituisce in soggetto folle. E non è affatto un caso se i grandi fenomeni di isteria sono stati osservati proprio nei luoghi in cui c'era il massimo di coercizione per costringere gli individui a costituirsi come folli». È importante, d'altronde, per quel che ci riguarda, insistere sul seguito della frase: «D'altra parte, e inversamente, direi che se oggi mi interesso al modo in cui il soggetto si costituisce in un modo attivo, attraverso le pratiche di sé, queste pratiche non sono tuttavia qualcosa che l'individuo si inventa da solo. Sono degli schemi che trova nella sua cultura e che gli vengono proposti, suggeriti, imposti dalla sua cultura, dalla sua società e dal suo gruppo sociale» (ibid., pp. 283-84). Riflessioni su quella che i sociologi chiamano la «socializzazione»? Solo a un primo sguardo: Foucault sottolinea che non si tratta soltanto di esami nare in che modo, ad esempio nell'isteria, «il soggetto si costituisce in soggetto folle», ma anche, simmetricamente, come si costituisce come soggetto non folle. Ritorno alle Meditazioni di Descartes e ripresa del tema già esposto in Storia della follia nell'età classica cit., nella prefazione (pp. 41-51) e nel prologo del secondo capitolo (pp. 113-116). Nel 1981, Foucault diceva ad André Berten: «Come hanno mostrato le ricerche di Binswanger e di Kuhn, è importante descrivere la coscienza del folle. Ma dopotutto, non esiste forse anche una strutturazione culturale e sociale dell'esperienza della follia, e questa non deve forse essere analizzata?» ( supra […]). Da un estremo all'altro della sua opera, tale questione si unisce a un'altra: non esiste forse una strutturazione culturale e sociale dell'esperienza della ragione, e questa non va forse analizzata? 130 ID., I rapporti di potere passano all'interno dei corpi cit., p. 96.

efficaci131. O ancora, osservare (lezione 6) che le «esplosioni di isteria» 132 si sono manifestate negli ospedali della seconda metà del XIX secolo, e che costituivano «un contraccolpo dell'esercizio stesso del potere psichiatrico»133: storicità del desiderio a cui Charcot e G. sono soggetti e che, al di fuori della loro stessa coscienza, agisce come commutatore del potere esercitato. Dove si manifestano il soggetto e la sua scissione: S c e Oc simboleggiano la parte cosciente, a cui la tradizione filosofica e il discorso scientifico si richiamano; Ud e Dd la sua parte inconscia, rimossa e dimenticata. Nella relazione di Ud/Sc e Dd/Oc è il piccolo d che investe U e D (sessuati come si deve nel dispositivo della sessualità) a tenere le leve del comando. Questo piccolo d non è tanto un segreto da decifrare, quanto l'effetto su un individuo del discorso che lo determina come soggetto – persino, per ipotesi, l'effetto delle pratiche che mirano a decifrarlo e che, così facendo, non solo lo cifrano, ma lo legano a ciò che, in questa operazione di decifrazione/cifratura (prova), è costituito come la sua verità, verità data nella forma di un'identità adeguata a ciò che sarebbe in realtà (constatazione). La posta in gioco del lavoro intrapreso è fare la storia della rimozione: storia del processo, del suo risultato (Ud/Sc e Dd/Oc) e di ciascuno dei termini dell'equazione del soggetto – compreso il desiderio, che secondo Foucault la doxa emargina allora «dal campo storico»134. Storia della sessualità come annunciato nel 1976? Se si vuole: l'idea è quella di «vedere come gli individui siano stati portati a esercitare su se stessi, e sugli altri, un'ermeneutica del desiderio di cui il loro comportamento sessuale è indubbiamente stato l'occasione», anche se «non certo il campo esclusivo»135. Ma Foucault arriva presto a ritenere necessario dedicarsi – dopo aver studiato i giochi di verità gli uni rispetto agli altri e i giochi di verità rispetto ai rapporti di potere – allo studio dei «giochi di verità nel 131 Ibid. 132 Ibid., p. 97. 133 Ibid., p. 96. 134 ID, Storia della sessualità cit., vol. II: L'uso dei piaceri, p. 10. 135 Ibid., p. 11.

rapporto di sé con se stesso e la costituzione di sé come soggetto» 136. Storia della sessualità è, anche, una storia del soggetto.

Politica ed etica. Rapporto con la politica? Attorno a Scientia sexualis, che fornisce all'analisi il suo centro di gravità, La volontà di sapere propone un nuovo modo di affrontare il potere. La repressione ha la virtù, tutta euristica, di mettere «in evidenza i contorni sociali che determinano la rimozione» 137; per l'essenziale, tuttavia, non è a questo ordine che appartiene la meccanica del potere messa in atto in Occidente. Al punto di congiunzione tra una anatomopolitica dei corpi e una biopolitica della popolazione, la sessualità si presta a mostrarlo: il potere passa attraverso l'interdizione di fare, ma allo stesso modo attraverso l'obbligo di dire. Più precisamente, essa passa attraverso l'obbligo di dire noi stessi e di dire a un altro la nostra «verità» – o la verità del nostro desiderio, o ciò che nel rituale di una prova è stato costituito come tale; e di dire noi stessi per produrre sui soggetti che noi siamo un effetto di ritorno, che può essere quello di rinchiuderci nella prigione dell'identità che ci è assegnata. Quanto al sapere quale godimento guida la nostra condotta quando, come G., noi incarniamo per qualche padrone l'oggetto che egli vuole conoscere e diamo un secondo giro di chiave alla porta chiusa dietro di noi... Comunque sia, noi diciamo con passione che siamo repressi; ma siamo governati tramite la repressione tanto quanto tramite la verità. È necessario, di conseguenza, avanzare verso un'analitica del potere che permetta di apprenderne l'effettività al di là del «sistema Sovrano-Legge» 138; è necessario sostituire un modello strategico al modello giuridico. Non che la repressione non esi136 Ibid., p. 12. 137 ID., As malhas do poder (conferenza tenuta alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Bahia nel 1976), in «Barbárieñ, 1981, n. 4, pp. 23-27; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 297, p. 198 (Les mailles du pouvoir) [trad. it. Le maglie del potere, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. III: 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica cit., p. 168. 138 ID., La volontà di sapere cit., p. 86.

sta, o che non ci si debba opporre a essa. Ma, da una parte, i meccanismi del potere si sono trasformati: il prelievo – l'operazione su cui Foucault attirava l'attenzione di Benny Lévy all'epoca del Dibattito con i maoisti – «tende a non esserne più la forma principale, ma solo un elemento fra altri»139. E, d'altra parte, è la nostra «docilità» – la nostra compiacenza, la nostra viltà, la nostra mancanza di determinazione – a costituire, del male, la banalità. Quanto all'etica, formuliamo queste ipotesi. Al suo tavolo di lavoro, Foucault prosegue una conversazione in cui è in questione non solamente il potere, ma anche il soggetto. La volontà di sapere elabora il tema dell'accecamento, presente a partire dalla Leçon sur Nietzsche (si pensi a questa citazione: «Perché l'uomo non vede le cose? Si trova lui stesso sulla strada; egli nasconde le cose»)140. Questa elaborazione passa attraverso una discussione della dialettica del signore e del servo simile a quella pensata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito (non sono solo le coscienze, ma anche degli inconsci a essere messi a confronto dall' agon di cui il soggetto e la verità sono gli effetti). Il tutto può esser letto come una confutazione delle tesi di Althusser sull'assoggettamento (questioni: cos'è che lascia impensato, in Ideologia e apparati ideologici di Stato, la distinzione tra i «'cattivi soggetti' che provocano all'occasione l'intervento di questo o quel distaccamento dell'apparato (repressivo) di Stato» e i «buoni soggetti» che «marciano “da soli”, cioè con l'ideologia (le cui forme concrete vengono realizzate negli apparati ideologici di Stato)» 141? Dal momento che Dio è morto, è sufficiente stabilire che i secondi sono «presi in questo quadruplo sistema di interpellare come soggetti, di assoggettamento al Soggetto, di riconoscimento universale e di garanzia

139 Ibid., p. 210. 140 FOUCAULT, Leçon sur Nietzsche. Comment penser l'histoire de la vérité avec Nietzsche dans s'appuyer sur la vérité cit., p. 199. 141 ALTHUSSER, Ideologia ed apparati ideologici di Stato cit., p. 118.

assoluta»142? In che modo avanzare su tali questioni facendo a meno della nozione di ideologia? Sottovoce, può essere che Foucault dialoghi anche con Lacan. Sappiamo che, nel corso di una conferenza tenuta nel 1969, ha esaminato un problema di cui dice di aver preso in prestito la formulazione da Beckett («Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla» 143): quella della «funzione-autore»144. Sviluppare un'analisi del genere, ci dice, permetterebbe forse di introdurre una «tipologia dei discorsi»145 e di «riesaminare i privilegi del soggetto» 146. Allo scopo di «togliere al soggetto (o al suo sostituto) il suo ruolo di fondamento originario, e di analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso», egli ha suggerito di porre queste domande: «Come, secondo quali condizioni e sotto quali forme qualcosa come un soggetto può apparire nell'ordine dei discorsi? Quale posto può occupare in ogni tipo di discorso, quale funzione esercitare, e obbedendo a quali regole?» 147. Sappiamo anche che, nel suo seminario del 1969-70, Lacan, che lo ha ascoltato148, mette in relazione non il soggetto di desiderio e il soggetto di conoscenza, non il soggetto e l'oggetto della conoscenza – non Ud/Sc e Dd/Oc –, ma l'agente/la verità e l'altro/la produzione, quattro posti occupati da quattro termini (S 1, il significante-padrone; S2, il sapere; $, il soggetto; a, il plus-godimento). La permutazione circolare dei termini definisce la struttura dei quattro discorsi – il discorso del padrone, dell'isterica, dell'università e dello psicoanalista –, che rendono conto dei modi di assoggettamento, cioè delle modalità del rapporto di un soggetto con il suo desiderio. 142 Ibid. Oltre a Ideologia e apparati ideologici di Stato, di Althusser, la questione della garanzia evoca le Meditazioni di Descartes, e la discussione che oppone Foucault e Jacques Derrida a proposito del soggetto cartesiano (su questo punto, cfr. supra [Lezione del 6 maggio 1981, nota 59]. 143 M. FOUCAULT, Qu'est-ce qu'un auteur?, in «Bulletin de la Société française de philosophie», LXIII (1969), n. 3, pp. 73-104; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. I, n. 69, p. 792 [trad. it. Che cos'è un autore?, in ID., Scritti letterari cit., p. 3]. 144 Ibid., p. 9. 145 Ibid., p. 19. 146 Ibid., p. 20. 147 Ibid. 148 L'intervento di Lacan è riprodotto in FOUCAULT, Qu'est-ce qu'un auteur? Cit., p. 820.

Bisognerà, altrove, confrontare questi quattro discorsi alle quattro veridizioni definite in Il coraggio della verità; bisognerà, in particolare, vedere che cosa ci insegna, a proposito dell'etica della psicoanalisi secondo Lacan e dell'etica della filosofia secondo Foucault, il confronto fra il discorso psicoanalitico e il dir vero parresiastico. Ma, che dialoghi o meno con lui, Foucault, come Lacan, sa bene che «il fatto che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si ascolta» 149. Ed è di ciò che si dice in ciò che si ascolta che, nel 1977, egli si mette in ascolto per individuare quello che, sotto l'effetto della rimozione, deve restare inconscio, e discernere i contorni della macchia cieca che provoca l'accecamento. La volontà di sapere, dice durante un'intervista, «non ha funzione dimostrativa»150; il libro si propone «come preludio, per […] vedere come le persone reagiranno, dove cadranno le critiche, su cosa nasceranno le incomprensioni, o a proposito di cosa esploderanno le collere», allo scopo di «rendere gli altri volumi, in un certo senso, permeabili a tutte queste reazioni»151. Esplorazione del dicibile e, ancora di più, dell'udibile: Non ho voluto dire: «Ecco cosa penso», dal momento che non sono ancora sicurissimo di quanto avanzo. Ma ho voluto vedere se si potesse dirlo e fino a che punto fosse possibile […] Per cui mi auguravo di avvertire al volo l'effetto prodotto da questo ipotetico discorso152,

spiega nel luglio 1977, in occasione di una conversazione con alcuni psicoanalisti lacaniani, ex militanti della Gp, e in qualche caso del Gip. Riluttanza, anche in questo caso? Quando, disorientato, Alain Grosrichard gli chiede: «Bisogna scorgere in tutto questo un cambiamento dell'idea che hai intorno all'uso che va fatto dei tuoi libri? [Dico questo perché le domande che ti porremo] non vadano a cadere a lato di quanto hai inteso fare», Foucault risponde: «Nota che forse va benissimo anche 149 J. LACAN, L'étourdit, in «Scilicet», IV (1973), pp. 5-25; riprodotto in ID., Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 449 [trad. it. Lo stordito, in Scilicet: rivista dell'École freudienne de Paris, Feltrinelli, Milano 1977]. 150 FOUCAULT, I rapporti di potere passano all'interno dei corpi cit., p. 103. 151 Ibid. 152 FOUCAULT, Il giuoco di Michel Foucault cit., pp. 265-266.

che cadano a lato: questo proverebbe che il mio proposito è lì, a lato» 153. Tra i suoi interlocutori e lui, il malinteso è completo. Sul potere: «Credi che questa rappresentazione del potere come se si esercitasse dall'alto in basso e in modo repressivo o negativo sia un'illusione? […] Comunque è un'illusione tenacissima, e proprio contro questo tipo di potere ci si è battuti; anzi, si è creduto di poter far cambiare le cose» 154, replica sconsolato Alain Grosrichard. Sulle classi sociali: «Ma allora, quale ruolo svolge la classe sociale?»155, esclama stupita Catherine Millot («Ah, qui siamo al centro del problema, e indubbiamente anche nelle oscurità del mio stesso discorso. Una classe dominante non è un'astrazione, ma non è nemmeno un dato preliminare»156, risponde lui). Sul soggetto: «Forse c'è però una difficoltà quando si tratta non più del campo “teorico”, ma di quello “pratico”. Qui ci sono rapporti di forza, e lotte. La domanda: “Chi lotta? E contro chi?” si pone necessariamente. Non puoi sfuggire alla questione del, anzi dei soggetti», osserva con veemenza Jacques-Alain Miller («Certamente, ed è questo che mi preoccupa, io non so bene come uscirne» 157). E così via. Mal fare, dir vero interviene a questo punto. Il corso riprende ancora una volta il tema della manifestazione e della produzione della verità: nell'ordine della conoscenza, la confessione costituisce prova; nell'ordine dell'evento, essa è una prova. Tuttavia, mostrare che la giurisdizione è l' agon proseguito con altri mezzi non è il solo intento delle lezioni di Lovanio. Sotto la maschera neutra che le persone che fanno professione di verità hanno l'abitudine di portare, il corso permette di scoprire «le forme e le trasformazioni della volontà di sapere che è istinto, passione, accanimento inquisitorio, raffinatezza crudele, cattiveria»158. In secondo luogo, 153 Ibid., pp. 267-268. 154 Ibid., p. 271. 155 Ibid., p. 274. 156 Ibid. 157 Ibid., p. 277. 158 M. FOUCAULT, Nietzsche, la généalogie, l'histoire (S. BACHELARD et al. [a cura di], Michel Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire. Hommage a Jean Hyppolite , Puf, Paris 1971, pp. 145-172); ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 84, p. 155 [trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in ID., Il discorso, la storia, la verità. Interventi (1968-1984) cit., p. 62].

sposta la questione dell'assoggettamento nel campo della penalità, là dove non è colpita da inaudibilità: è a coloro, donne e uomini, che sono assunti come oggetti dalle discipline che studiano il discrimen e il crimen, che viene assegnato il ruolo di mostrare in quale maniera un individuo si costituisca come soggetto; è riguardo a loro che è posta la domanda del «governo per mezzo della verità»159, che è al contempo una questione politica – «in che modo l'individuo [in una società] si trova legato e accetta di legarsi al potere che si esercita su di lui» 160 – e una questione epistemologica – «in che modo i soggetti sono effettivamente legati nelle e dalle forme di veridizione in cui sono implicati»161.

3. Dal governo attraverso la verità al coraggio della verità. Qual è la posta in gioco delle lezioni tenute nel 1980-81? Secondo lo stesso Foucault si tratta di produrre un'analisi teorica che abbia anche una «dimensione politica»162, nel senso in cui si riferisce a «ciò che siamo disposti ad accettare del nostro mondo; ad accettare, rifiutare e cambiare sia in noi stessi sia nella nostra situazione» 163. Per scrivere «una storia di ciò che abbiamo fatto» e proporre una «diagnosi di ciò che siamo» 164, procedere a un'analisi delle forme di veridizione, cioè delle forme sotto le quali un individuo costituisce se stesso ed è costituito dagli altri come soggetto che dice la verità. Costruire, a partire da lì, «una genealogia del soggetto»165. Sviluppare così una filosofia critica che si occupi di determinare non le condizioni alle quali «un soggetto in generale [può] conoscere

159 Cfr. la Conferenza inaugurale, supra […]. 160 Ibid. […]. 161 Ibid. 162 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 37. 163 Ibid., p. 38. 164 Ibid., p. 37. 165 Ibid., p. 36.

un oggetto in generale»166, ma «le condizioni e le indefinite possibilità per trasformare il soggetto, per trasformare noi stessi»167.

Dalla critica all'Aufklärung Tra le conversazioni del 1977 su La volontà di sapere e Mal fare, dir vero, ci sono due testi fondamentali. Nel punto di passaggio dal governo per mezzo della verità al coraggio della verità (nel punto di passaggio dallo studio dell'etica come modo di assoggettamento alla ricerca di un'etica della filosofia critica), il corso continua a elaborare la questione che conferisce il suo titolo – Che cos'è la critica? [Illuminismo e critica] – alla conferenza tenuta il 27 maggio 1978, otto anni esatti dopo la dissoluzione della Gp. Il punto di ancoraggio del lavoro degli anni successivi è una definizione: la critica sarebbe, di fronte alla governamentalizzazione della società degli individui, quell'«arte di non essere governati in questo modo» che si è sviluppata «come contropartita, o piuttosto come partner e al contempo avversario delle arti di governo» 168. Più precisamente, da quando la governamentalizzazione si riferisce all'assoggettamento degli individui «mediante meccanismi di potere che si appellano a una verità», la critica sarebbe «l'arte della disobbedienza volontaria» o della «indocilità ragionata», arte la cui funzione sarebbe il «disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe chiamare la politica della verità» 169. Ora, non c'è disobbedienza volontaria senza distacco da sé; e non ci sarebbe distacco da sé senza lo studio di quegli interfaccia tra il governo e gli individui170 che sono, in una società, il soggetto e gli ethoi.

166 Cfr. Conferenza inaugurale, supra […]. 167 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 37. 168 ID., Illuminismo e critica cit., pp. 37-38. 169 Ibid., p. 40. 170 M. FOUCAULT, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979 , Gallimard/Seuil, Paris 2004, p. 258 [trad. it. Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 207].

Terza precisazione sulle coordinate del problema posto. Come Foucault osserva, la definizione che egli dà della critica non è affatto lontana da quella che Kant dava dell'Aufklärung nel 1784, in un articolo – Was ist Aufklärung? – in cui egli vede «l'abbozzo di quello che potremmo chiamare l'atteggiamento moderno»171. Mentre la critica è, per il filosofo di Königsberg, una domanda posta al sapere («sai bene fin dove sei in grado di sapere?»172), l'Aufklärung è un appello al coraggio: il coraggio di uscire dallo stato di minorità volontaria in cui l'umanità permane, stato caratterizzato dall'incapacità di fare uso della propria ragione senza affidarsi a un altro173 quando un eccesso di autorità174 incontra una mancanza di determinazione. Come la disobbedienza volontaria e l'indocilità ragionata, l'Aufklärung passa attraverso una trasformazione di sé: bisogna – questa è la sua parola d'ordine – «osare sapere». Ma osare sapere che cosa? Per Kant, dice Foucault, sarebbe «facile» mostrare che «questo vero coraggio di sapere […] evocato dall'Aufklärung […] consiste nel riconoscere i limiti della conoscenza»175. Ritornerà su questo più tardi: «La Critica è una sorta di libro di bordo della ragione divenuta maggiorenne nella Aufklärung; e inversamente, l'Aufklärung è l'età della Critica»176. Per lui, invece, la sfida è sapere «ciò che noi siamo nel nostro presente e nella nostra attualità»177. Prima precisazione. La questione di sapere che cosa siamo ha un versante politico e un versante epistemologico. Il XIX e il XX secolo hanno fornito alla critica la possibilità di esercitarsi sulla razionalizzazione dei poteri statali e sul positivismo scientifico. In Germania, da Hegel alla scuola di Francoforte, «osare sapere» ha significato osare far nascere il sospetto «sulla natura 171 ID., What is Enlightment?, in P. RABINOW (a cura di), The Foucault Reader, Galon Books, New York, pp. 32-50; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 399, p. 568 [trad. it. Che cos'è l'Illuminismo?, in ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. III cit., p. 222]. 172 ID., Illuminismo e critica cit., p. 42. 173 Ibid., p. 41. 174 I. KANT, Was ist Aufklärung?, in «Berlinische Monatschrift», IV (1784), pp. 188-191 [trad. it. Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? , in Scritti sul criticismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 5-12]. 175 FOUCAULT, Illuminismo e critica cit., p. 41. 176 ID., Che cos'è l'Illuminismo?, p. 222. 177 Cfr. Intervista di André Bérten a Michel Foucault, supra […].

della razionalizzazione e sulla possibilità che la ragione stessa fosse responsabile di un eccesso di potere»178. In Francia, c'è stato bisogno della fenomenologia e degli studi di Bachelard, di Cavaillès e di Canguilhem sulla storia delle scienze perché, al di là del culto reso ai Lumi, la questione dell'Aufklärung ritornasse sotto due forme simmetriche: «come può accadere che la razionalizzazione conduca al furore del potere?» 179 e «come si forma questa razionalità a partire da tutt'altra cosa?» 180. Alla fenomenologia e alla filosofia delle scienze si aggiunge «il movimento di fondo della nostra storia da un secolo a questa parte». Infatti, dice Foucault, «continuando a ripetere che la nostra organizzazione sociale o economica mancava di razionalità, ci siamo ritrovati dinanzi non se a un eccesso o a un difetto di ragione, certamente di fronte a un eccesso di potere»181. E «a forza d'inneggiare all'opposizione tra le ideologie della violenza e la vera teoria scientifica della società, del proletariato e della storia, ci siamo ritrovati con due forme di potere simili come due fratelli: fascismo e stalinismo»182. Seconda precisazione. La questione dell'Aufklärung è stata posta per lo più in termini di sapere, a partire da quello che la conoscenza è diventata con la costituzione della scienza moderna. In questa prospettiva, «a partire da Kant, per opera sua», essere critico significa domandarsi «quale falsa idea si è fatta la conoscenza di se stessa? A quale uso eccessivo si è trovata esposta e, di conseguenza, a quale forma di dominio ha legato il proprio destino?» 183; ne scaturisce «un'indagine sulla legittimità dei modi storici del conoscere»184. Foucault, da parte sua, vuole entrare nella questione dell'Aufklärung attraverso il problema del potere (va alla ricerca, come dirà nel 1980, di «un altro tipo di filosofia critica. Non una filosofia critica che tenti di determinare le condizioni e i limiti della nostra possibile co178 FOUCAULT, Illuminismo e critica cit., p.44. 179 Ibid., p. 47. 180 Ibid., p. 48. 181 Ibid. 182 Ibid. 183 Ibid., p. 52. 184 Ibid., p. 53.

noscenza dell'oggetto»185). Alle indagini sulla legittimità, egli sostituisce prove di «evenemenzializzazione»186. Esse vertono su insiemi di elementi in cui è possibile individuare connessioni tra sapere (le procedure e gli effetti di conoscenza accettabili in un certo ambito, in un certo momento) e potere (i «meccanismi […] in grado di determinare dei comportamenti o dei discorsi»187). L'analisi deve essere contemporaneamente genealogica, archeologica e strategica: queste tre dimensioni sono necessarie per recuperare le condizioni di accettabilità di una singolarità «che diviene intelligibile decifrando le interazioni e le strategie nelle quali è integrata» 188. Terza precisazione. Secondo punto fondamentale: Du gouvernement des vivants, corso tenuto al Collège de France dal gennaio al marzo 1980. Fin dalla prima lezione, Foucault avanza due ipotesi. Da una parte «è verosimile che non esista alcuna egemonia che possa esercitarsi senza che ci sia una sorta di aleturgia»189. D'altra parte, «quella che chiamiamo la conoscenza, cioè la produzione del vero nella coscienza degli individui per mezzo di procedure logico-sperimentali» non è che «una delle forme possibili dell'aleturgia». Per «egemonia», egli intende «il fatto di trovarsi a capo degli altri, di condurli e di condurre […] la loro condotta»; per «aleturgia» – neologismo forgiato a partire da alethourges, veridico –, «l'insieme dei procedimenti possibili, verbali o non verbali, attraverso i quali si fa emergere ciò che è posto come vero in opposizione al falso, al nascosto, all'indicibile, all'imprevedibile, all'oblio, ecc.». L'intento del corso è quello di elaborare la nozione del «governo per mezzo della verità». Si tratta, dice Foucault, di «spostare un po' le cose rispetto al tema ora sfruttato e troppo spesso ripetuto del sapere-potere», tema che non era a sua volta se non «una maniera di spostare le cose rispetto a un tipo di analisi, nell'ambito della sto-

185 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 38. 186 ID., Illuminismo e critica cit., p. 53. 187 Ibid., p. 54. 188 Ibid., p. 60. 189 FOUCAULT, Du gouvernement des vivants cit., p. 9 (lezione del 9 gennaio 1980).

ria del pensiero, che […] ruotava attorno alla nozione dell'ideologia dominante»190. Cosa che richiede, secondo le parole di Foucault, una breve spiegazione. A partire da La verità e le forme giuridiche, egli ha rifiutato di analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» 191 in termini di ideologia, per diverse ragioni. Da una parte, la nozione è «ancorata, almeno implicitamente […] a una opposizione del vero e del falso, della realtà e dell'illusione, dello scientifico e del non-scientifico, del razionale e dell'irrazionale»192: parlare di sapere mira a porre queste distinzioni fuori campo, spostando l'attenzione verso le pratiche che ne sono costitutive o che sono costitutive degli ambiti in cui esse sono effettive 193. D'altra parte, l'analisi ideologica trascura i meccanismi di assoggettamento: parlare di potere consente di sostituire all'analisi del sistema delle rappresentazioni dominanti quella delle tecniche e delle procedure attraverso le quali un potere è effettivamente esercitato194. Sapere, potere, soggetto: Du gouvernement des vivants opera un terzo spostamento. Foucault rovescia la «questione filosofico-politica»195: egli esamina non ciò che il soggetto «che si sottomette volontariamente alla verità, in un rapporto di conoscenza […] può dire su, o per, o contro il potere che lo assoggetta senza che egli lo voglia», ma ciò che «la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e pratica del potere ha da dire sul soggetto di conoscenza e sul legame con la verità mediante il quale, involontariamente, egli si trova obbligato»196. Entriamo dunque forse nella questione dell'Aufklärung attraverso il potere, come proposto in Illuminismo e critica? Il procedimento si basa non tanto su una tesi quanto su un atteggiamento: non esattamente l' epoche degli scettici197, ma – ironicamente – una sorta di riscontro politico 190 Ibid. 191 Ibid., p. 74 (lezione del 30 gennaio 1980). 192 Ibid., p. 12 (lezione del 9 gennaio 1980). 193 Ibid. 194 Ibid. 195 Ibid., p. 75 (lezione del 30 gennaio 1980). 196 Ibid. 197 Ibid.

del dubbio metodico a partire dal quale Descartes deduce l'esistenza di un soggetto pensante e cosciente di pensare; un dubbio la cui formula sarebbe che nessun potere «va da sé» né «merita di essere accettato da subito»198. Non è, sostiene Foucault, «la critica delle rappresentazioni in termini di verità o di errore, […] di verità o di falsità, […] di ideologia o di scienza, di razionalità o di irrazionalità, che deve servire da indicatore per definire la legittimità del potere o per denunciare la sua illegittimità» 199 (sostenere il contrario significa non rompere ciò che, venticinque anni più tardi, Jean-Claude Milner chiamerà la «politica delle cose»200). È, al contrario, «il movimento per liberarsi dal potere che deve servire come rivelatore per le trasformazioni del soggetto e il rapporto che questi intrattiene con la verità»201. Alla serie «categoria universale – posizione umanista – analisi ideologica»202, Foucault oppone la serie «rifiuto degli universali […] – posizione antiumanista – analisi tecnologica dei meccanismi di potere»203. Senza escludere, dal rifiuto degli universali, il soggetto che la prima serie presuppone. Per analizzare «ciò che si disfa […] del soggetto e dei rapporti di conoscenza dal momento che nessun potere è fondato né secondo diritto né secondo necessità»204, egli introduce oltre alla nozione di aleturgia, quelle di regime di verità e di regime di sapere. Nel linguaggio corrente, dice, il termine «regime» designa l'insieme dei procedimenti e delle istituzioni attraverso cui gli individui si trovano costretti o, per lo meno, impegnati in 198 Ibid. 199 Ibid. In questa prospettiva, la domanda posta da R. Badinter ai giurati nel corso del processo di Patrick Henry – «È possibile condannare a morte qualcuno che non si comanda con cui Foucault chiude Mal fare, dir vero e che citava già in L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo, è effettivamente, come lui dice, «stupefacente», ma stupefacente «perché è significativa dell'antinomia della nostra ragione penale» (cfr. supra […]). 200 Su tale concetto, cfr. J.-C. MILNER, La politique des choses, Navarin, Paris 2005 e ID., La politique des choses. Court traité politique, Verdier, Paris 2011. 201 FOUCAULT, Du gouvernement des vivants cit., p. 76 (lezione del 30 gennaio 1980). 202 Ibid., p. 78. La serie comprende un quarto termine: «programmazione di riforma». 203 Il quarto termine della seconda serie è «rinvio il più in là possibile dei punti di non accettazione», cosa che deve evidentemente essere posta in relazione con il tema critico dell'accettazione dell'inaccettabile e del sistema di accettabilità da cui l'accettazione dipende. 204 Ibid.

un modo relativamente pressante: obbligati a obbedire alle decisioni di un'autorità collettiva nel quadro di un'unità territoriale in cui questa autorità esercita un diritto di sovranità, nel caso di un regime politico; obbligati a sottomettersi a leggi di portata generale in quello di un regime penale205. Per regime di verità, egli intende, per analogia, «l'insieme dei procedimenti e delle istituzioni attraverso cui gli individui sono impegnati e costretti a porre, in certe condizioni e con certi effetti, atti ben definiti di verità»206; atti che sono altrettanti obblighi di verità e che costituiscono «la parte che spetta a un soggetto» 207 in un'aleturgia. La nozione di regime di sapere è definita dall'articolazione di un regime di verità su di un regime politico-giuridico. Essa stabilisce, tra l'epistemologico e il politico, una relazione nella quale il soggetto è nodale – il soggetto «nel duplice senso del termine, soggetto in una manifestazione di verità e soggetto in una relazione di potere»208. A partire da questo, si arriva ad altro. Da una parte, a esplicitare cosa significa fare «l'(an-)archeologia del sapere»: non «studiare in modo globale le relazioni del potere politico e del sapere o delle conoscenze scientifiche», ma esaminare in che modo diversi regimi di verità costringono degli individui a porre atti determinati di verità e legano tra loro «le manifestazioni di verità con le loro procedure e i soggetti che ne sono gli operatori, i testimoni o eventualmente gli oggetti». D'altra parte, a escludere «assolutamente la distinzione tra lo scientifico e l'ideologico»: non che l'uno sfoci nell'altro; ma «ogni regime di verità, che sia scientifico o meno, comporta modalità specifiche di legare, in forma più o meno vincolante, la manifestazione del vero e il soggetto che la opera» 209. Proprio come la conoscenza non è che «una delle forme possibili dell'aleturgia» 210, così la scienza – i diversi giochi di verità che la parola designa – non è che 205 Ibid., p. 92 (lezione del 6 febbraio 1980). 206 Ibid. 207 Ibid., p. 79 (lezione del 30 gennaio 1980). 208 Ibid. 209 Ibid., pp. 97-98 (lezione del 6 febbraio 1980). 210 Ibid., pp. 8-9 (lezione del 9 gennaio 1980).

«uno dei regimi possibili di verità»211. Specificità: «il potere della verità è organizzato in modo che la costrizione vi sia assicurata dal vero stesso»212. Il soggetto del discorso della scienza è «un soggetto che fa della logica»213: un soggetto che, subordinando il giusto al vero e il vero alla conformità al reale alla maniera di quel che si pratica nell'apofantica, attribuisce «alla verità il diritto di dire: tu sei obbligato ad accettarmi perché io sono la verità»214. Regime in cui – è la magia della logica – «il fatto che si tratti di un regime sparisce, o in ogni caso non appare»215. Da lì, l'invisibilità politica delle tecniche di potere articolate a enunciati che hanno una forma scientifica; da lì anche la loro apparente necessità. Se, nelle società occidentali, è attraverso la conoscenza che l'egemonia si esercita e che il potere si fonda, ciò che contribuisce a far accettare l'inaccettabile non è solamente quello che si dice dei soggetti a proposito dei quali la verità è manifestata; è anche il modo in cui i soggetti che sono gli operatori o i testimoni dell'aleturgia sono costituiti. Due strade si aprono allora per la critica: polizia della verità degli enunciati; genealogia del soggetto del discorso della scienza e dell'adattamento giuridico-politico allo scientifico. Del resto, non basta domandarsi da dove viene il fatto che, a partire dal XVII secolo, il rapporto del governo con la verità sia definito in funzione «di un certo reale che è lo Stato o la società» e di una «conoscenza più o meno oggettiva dei fenomeni»216, quale che sia il principio al quale quelle e quelli che lo pensano lo subordinano: razionalità (Botero), evidenza (Quesnay), competenza (Saint-Simon), coscienza generale (Rosa Luxemburg) o terrore (Solženicyn)217. La questione dell'assoggettamento e del governo per mezzo della verità non si riduce a quella degli usi politici e sociali delle conoscenze. Nel nostro regime di sapere, così come in altri, 211 Ibid., p. 97 (lezione del 6 febbraio 1980). 212 Ibid. 213 Ibid. La trattazione riprende, in altra forma, le tesi proposte in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., in particolare pp. 64-67. 214 ID., Du gouvernement des vivants cit., p. 97 (lezione del 6 febbraio 1980). 215 Ibid., p. 96. 216 Ibid. 217 Ibid., pp. 16-17 (lezione del 9 gennaio 1980).

l'esercizio del potere passa attraverso delle autoaleturgie. La verità che vi si manifesta è costitutiva dei soggetti che vi si legano confessando; essa si attualizza all'interno di identità che, potenzialmente, sono altrettante possibilità di presa date al loro governo.

Dalle tecniche di dominio alle tecniche di sé. Qual è, allora, la posta in gioco delle lezioni tenute durante l'anno 1980-81? A un primo sguardo, About the Beginning of the Self e Mal fare, dir vero sembrano aprire un passaggio che va dalle tecniche di dominio alle tecniche di sé. Sulla scia di Habermas, Foucault vi distingue tre tipi di tecniche: tecniche di produzione, tecniche di significazione e tecniche di dominio218. Negli Stati Uniti, egli dice di aver «insistito troppo sulle tecniche di dominio» quando studiava il manicomio e la prigione, e precisa: «Il potere consiste in relazioni complesse, che comportano una serie di tecniche razionali, e l'efficienza di queste tecniche dipende da una sottile integrazione tra tecnologie di coercizione e tecnologie di sé» 219. A Lovanio, spiega di aver voluto analizzare la «governamentalità in senso lato, in tesa come insieme di relazioni di potere e di tecniche che permettono a queste relazioni di potere di esercitarsi», e aggiunge di non ritenere «la governamentalità tale da assumere necessariamente la forma dell'internamento, della sorveglianza e del controllo» 220. Quanto alla disciplina, si tratta certamente di una «tecnica del tutto coerente di cui ritroviamo la forma, a partire alcuni adattamenti, nella prigione, nella scuola, nella fabbrica, ecc...». Peraltro, è evidente che «non si tratta della sola tecnica di governo degli individui»221. Mentre le tecniche di sé «sono – almeno in parte – diverse dalle discipline»222. 218 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 39; cfr. Conferenza inaugurale, supra […]. 219 ID., Soggettività e verità cit., p. 40. 220 Cfr. Intervista di André Berten a Michel Foucault, supra […]. 221 Cfr. Intervista di Jean François e John De Witt a Michel Foucault , supra […]. 222 Ibid.

Il riassunto di Subjectivité et vérité pubblicato nell'«Annuario del Collège de France» precisa la posta in gioco del lavoro in corso. Parallelamente a Mal fare, dir vero, Foucault analizza le tecniche di sé, che egli definisce come «le procedure […] proposte o descritte agli individui per fissare la loro identità, per mantenerla o trasformarla in funzione di un certo numero di fini, e questo grazie a rapporti di padronanza di sé su se stessi o di conoscenza di sé da parte di se stessi»223. Il progetto, egli scrive, si situa al punto d'incontro tra la storia della soggettività e l'analisi delle forme di governamentalità224. In precedenza, egli aveva esaminato i «modi di oggettivazione del soggetto in saperi come quelli che riguardano il linguaggio, il lavoro e la vita» e le «suddivisioni operate nella società in nome della follia, della malattia, della delinquenza, nonché dei loro effetti sulla costituzione di un soggetto ragionevole e normale»225. Di lì in avanti, egli vuole analizzare «l'instaurazione e le trasformazioni nella nostra cultura dei “rapporti con se stessi”, con la loro armatura tecnica e i loro effetti di sapere», così come il «governo di sé da parte di se stessi nella sua articolazione con i rapporti con gli altri (quale si riscontra nella pedagogia, nelle regole di condotta, nella direzione spirituale, nella prescrizione di determinati modelli di vita, ecc.)»226. Come secondo momento, si tratta non solo di passare dalle tecniche di dominio alle tecniche di sé, ma anche di confrontare la loro articolazione nelle diverse autoaleturgie e gli effetti sulla costituzione del soggetto. La scena che apre le conferenze americane oppone non più Charcot a G., ma Leuret a un certo A., costretto a furia di docce ad ammettere la propria follia. Foucault vi vede «un esempio delle relazioni strane e complesse sviluppate nelle nostre società tra individualità, discorso, verità e coercizione»227. Lo interessano «i punti in cui le tecnologie di dominio de223 M. FOUCAULT, Subjectivité et vérité, in «Annuaire du Collège de France», LXXXI (1981): Histoire des systèmes de pensée, année 1980-1981 , pp. 383-389; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 304, p. 213 [trad. it. Soggettività e verità, in ID., I corsi al Collège de France. I Résumés cit., p. 97]. 224 Ibid., p. 98. 225 Ibid. 226 Ibid., p. 99. 227 ID., Soggettività e verità, in Sull'origine dell'ermeneutica di sé cit., p. 33.

gli individui gli uni sugli altri fanno ricorso a processi attraverso cui l'individuo agisce su di sé» o, all'inverso, «i punti in cui le tecniche di sé sono integrate in strutture di dominio e di coercizione» 228. La posta in gioco è filosofica, oltre che politica: egli vuole uscire dalla filosofia del soggetto studiando la storia delle pratiche che hanno generato il concetto moderno di sé (self)229. Penso, – dice, – che per analizzare la genealogia del soggetto nella civiltà occidentale occorra prendere in esame non solo le tecniche di dominio, ma anche le tecniche di sé. Diciamo: bisogna prendere in considerazione l'interazione tra questi due tipi di tecniche230.

Apertura e preoccupazione analoghe a Lovanio: Foucault esamina l'articolazione delle tecniche di dominio e delle tecniche di sé, così come l'integrazione delle tecnologie del soggetto e dei regimi di veridizione 231. La pratica penale si chiarisce, afferma, quando è ricollocata all'interno delle tecnologie di governo232: Sorvegliare e punire avvicinava l'insieme costituito dal sistema penitenziario e dalla pratica penale alle tecniche e alle procedure disciplinari233. Mal fare, dir vero mette a confronto la confessione con altre procedure «che tendono a legare l'individuo all'enunciazione della sua verità», in particolare «nelle pratiche religiose», e situa il suo sviluppo nella «storia più generale [delle] tecniche attraverso cui l'individuo è condotto, o da solo o con l'aiuto o sotto la direzione di un altro, a trasformare se stesso e a modificare il suo rapporto con sé» 234. Interrogato sull'importanza di tale questione rispetto a quella della verità del soggetto, Foucault risponde che essa «non riguarda semplicemente la storia della psichiatria e la storia della sessualità», ma anche «la storia 228 Ibid., p. 40. 229 Ibid., p. 35. 230 Ibid., p. 39. 231 Cfr. Conferenza inaugurale, supra […]. 232 Ibid., […]. 233 Ibid., […]. 234 Ibid.

della verità e la storia della soggettività in Occidente» 235. Prima di aggiungere: «Mi chiedo se non dovrei forse fare una storia della soggettività-verità»236, cosa che realizza nelle lezioni tenute a voce. «Per Heidegger, – spiega in Soggettività e verità, – è stato a causa di una crescente ossessione per la techne come solo messo per arrivare alla comprensione degli oggetti che l'Occidente ha perso contatto con l'Essere»237. Rovesciando la questione, egli si chiede «quali tecniche e pratiche costituisc[a]no la concezione occidentale del soggetto, dandogli la sua caratteristica separazione tra verità e errore, libertà e costrizione» 238. Negli Stati Uniti, studia le pratiche di esame e di direzione di coscienza e i rituali di penitenza. A Lovanio, tira le fila239 e inventa una nuova serie, che lega le procedure analizzate in Leçons sur la volonté de savoir, certe forme di produzione della verità giudiziaria studiate al Collège de France, le pratiche e i rituali descritti in Sull'origine dell'ermeneutica del sé e una ripresa dell'Evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo240. Serie eteroclita241, che scombussola tutte 235 Cfr. Intervista di Jean François e John De Witt a Michel Foucault , supra […]. 236 Ibid. La questione dei «rapporti tra la soggettività e la verità» è già posta in Storia della follia cit., nelle pagine dedicate alla prima delle Meditazioni di Descartes che costituiscono il prologo del secondo capitolo, Il grande internamento, pp. 113 sgg. 237 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 37. 238 Ibid. 239 DELEUZE, Foucault cit., p. 118. 240 FOUCAULT, L'evoluzione della nozione di «individuo pericoloso» nella psichiatria legale del XIX secolo cit., pp. 43-63. 241 Per quanto eteroclita una serie possa a prima vista sembrare, la sua elaborazione, nondimeno, è «metodologicamente concertata» (FOUCAULT, L'archeologia del sapere cit., p. 12). Questa elaborazione risponde a esigenze come l'«individuazione di un nuovo tipo di razionalità e dei suoi molteplici effetti» (lascito di Bachelard) o l'analisi degli «spostamenti e trasformazioni dei concetti» (lascito di Canguilhem) (ibid., p. 7); secondo Foucault, essa spiega la comparsa dei periodi lunghi «nella storia d'oggi» (ibid., p. 12). In Mal fare, dir vero, al centro delle preoccupazioni di Foucault e dei suoi ospiti, troviamo il problema del potere della verità che sembra governare la disposizione in serie. Dall' Iliade alle antiche forme di esame e di direzione di coscienza (e dalle forme antiche alle forme cristiane), è possibile che il filosofo, per trattarlo, si basi, secondo finalità teoriche proprie del suo pensiero, sulle ipotesi di Gernet relative alle trasformazioni della nozione di verità nei giochi binari o ternari del pre-diritto e del diritto greco (cfr. supra, [lezione del 28 aprile 1981, nota 3] o quelle di Marcel Detienne relative alle trasformazioni della nozione di verità che accompagnano il processo di laicizzazione della parola ( I maestri di verità nella Grecia arcaica cit.): ipotesi relativa ai rapporti tra Aletheia (la verità) e Peitho (la potenza efficace della parola), in un pensiero che non è più mitico ma non ancora ra zionale; alle direzioni secondo cui si sviluppa la riflessione sul linguaggio quando la «parola

le «familiarità del pensiero»242 come la tassonomia di Borges che apre Le parole e le cose: il che fa, della storia, l'uso «parodistico e buffonesco»243 che è proprio del genealogista. Come Nietzsche, egli organizza un «gran carnevale del tempo, dove le maschere non cesseranno di ritornare […] [così da] irrealizzarci in tante identità riapparse»244. Rottura con gli storici, che studiano processi sociali e attribuiscono alla società il ruolo di soggetto245. Rottura con i filosofi, che preferiscono «un soggetto senza storia»246.

Dalla confessione alla parrhesia. Funzione di questo «carnevale concertato»247? Come per ogni carnevale, quella di rovesciare il soggetto sovrano. Ma come? Sotto diversi aspetti, Mal fare, dir vero prepara Il coraggio della verità. Foucault esamina diverse aleturgie, «procedur[e] ritual[i] per far apparire […] ciò che è vero»248. Studiando la confessione, individua alcuni tratti strutturali a partire dai quali definirà la parrhesia (ciò che la confessione e questa forma di dir vero hanno in comune, analizzando la relazione tra il locutore e

dialogo» ha il sopravvento rispetto alla «parola efficace» (in quanto la filosofia esplora i problemi della verità e dei rapporti degli enunciati alla realtà, mentre la retorica e la sofistica pensano le condizioni della loro efficacia); alle soluzioni antitetiche e complementari fornite, in un sistema di pensiero che non obbedisce più a una logica dell'ambiguità ma a una logica della contraddizione, al problema del distacco tra la verità e l'efficacia nella parola «laicizzata», da parte di: 1) le sette filosofico-religiose, la cui Aletheia appare come «un primo abbozzo dell'Essere-Uno» (ibid., p. 107, traduzione modificata) e 2) la retorica e la sofistica, che compiono la scelta di Apate, l'inganno, per servire Peitho, la persuasione (per cui il sofista appare «come il teorico che logicizza l'ambiguo e che fa di questa logica lo strumento atto a fascinare l'avversario») (ibid., p. 91; cfr. anche FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit.). 242 ID., Le parole e le cose cit., p. 5. 243 ID., Nietzsche, la genealogia, la storia cit., p. 60. 244 Ibid., pp. 60-61. 245 FOUCAULT, Soggettività e verità cit., p. 35. 246 Ibid. 247 ID., Leçon sur Nietzsche. Comment penser l'histoire de la vérité avec Nietzsche sans s'appuyer sur la vérité cit., p. 204. 248 Cfr. la Lezione del 22 aprile 1981, supra […].

il ricevente249; ciò che le distingue, analizzando la relazione tra il locutore e l'enunciato). Esplora le veridizioni del profeta, del saggio e dell'uomo della techne, forme di dir vero che opporrà alla veridizione parresiastica. Differenzia le versioni del «personaggio presentato con grande costanza come il partner indispensabile, in ogni caso come il supporto pressoché necessario di quest'obbligo di dir vero su se stessi»250 che egli paragonerà al parresiasta. Pone in evidenza gli effetti della struttura di relazioni strette tra il partner e il dir vero, il soggetto che confessa e la verità enunciata – gli effetti delle forme aleturgiche 251 – sul modo in cui gli individui si costituiscono come soggetti morali della loro condotta. E analizza diverse tecniche d'esame e di direzione di coscienza che descriverà, più tardi, come forme pratiche della epimeleia heautou, della cura di sé. Punto comune tra la confessione e la parrhesia: «un certo costo di enunciazione»252 di cui Foucault, a partire dal 1981, sottolinea due modalità, prima di associarvi due forme di coraggio – minimale ed estrema 253 – nel 1984. Prima modalità: la messa in pericolo della relazione che unisce il locutore al ricevente. «Perché la dichiarazione “ti amo” sia una confessione, è necessario che l'altro possa accettare, rifiutare, scoppiare a ridere, dare un ceffone, oppure dire: “Ne parlerò a mio marito”»254, dice scherzando nel 1981. Nel 1984 dice: Perché ci sia parrhesia […], bisogna che il soggetto […] assuma un certo rischio: un rischio che riguarda la relazione con il suo interlocutore […]. Lo si vedrà molto chiaramente, ad esempio, nella parrhesia concepita come guida delle coscienze, dove non può esserci tale guida se non vi è amicizia, dove l'uso della verità rischia […] di 249 Su questo punto, cfr. la Conferenza inaugurale, supra […]: «La confessione intrattiene con il problema della verità un rapporto strano […] E le sue conseguenze sono completamente differenti – sia per il locutore sia per il ricevente – da quelle di un'asserzione come ad esempio: il cielo è blu». 250 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., p. 16. 251 Ibid., p. 15. 252 Cfr. la Conferenza inaugurale, supra […]. 253 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de Fran ce cit., p. 23. 254 Cfr. la Conferenza inaugurale, supra […].

mettere in discussione e di distruggere la relazione di amicizia che ha reso nondimeno possibile questo discorso di verità255.

Seconda modalità: il rischio di perdere la vita 256. In Mal fare, dir vero è l'esempio del martire, incontrato durante lo studio dell' exomologesi, o l'esempio opposto dei lapsi, quei cristiani che hanno avuto paura di esprimere la loro conversione di fronte al pericolo delle persecuzioni. In Il coraggio della verità è quello di Platone, che, malgrado il pericolo, si reca da Dionisio di Siracusa per portargli il suo consiglio257. Differenze. Riguardo alla confessione, Foucault dice nel 1981 che «la confessione non è semplicemente una constatazione a proposito di se stessi. È una sorta di impegno, ma un impegno del tutto particolare: non obbliga a fare una cosa o l'altra, ma implica che colui che parla s'impegni a essere quello che afferma di essere, e precisamente perché lo è» 258. simile allo speech act259, dà origine al soggetto che confessa, il quale assume come propria la verità enunciata e si lega a essa, indipendentemente dal fatto che sia stato o meno libero di confessare e che la sua confessione sia o meno conforme alla realtà. E la parrhesia? È anch'essa un impegno. Ma implica – per parafrasare Foucault – che colui che parla s'impegni a credere e a pensare quello che dice di credere e pensare, precisamente perché lo crede e lo pensa. Come il soggetto che confessa, il parresiasta «firma, in qualche modo, la verità che lui stesso enuncia: si lega a tale verità; a essa perciò si vincola e grazie a essa assume degli obblighi» 260. Ma se vi si lega, non è perché l'ha enunciata, all'occorrenza costretto e forzato. È perché essa «coincide con la sua opinione, con il suo pensiero, con la sua credenza»261, e perché sceglie di darne testimonianza anche se questo par255 Su questo punto, cfr. FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., p. 22-23. 256 Ibid., p. 23. 257 Ibid.; cfr. anche pp. 69-70. 258 Cfr. la Conferenza inaugurale, supra […]. 259 Ibid. […]. 260 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de Fran ce cit., p. 22. 261 Ibid., p. 23.

lar franco mette la sua relazione con chi lo ascolta o la sua vita in pericolo. Insomma, la confessione è un rituale di discorso in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell'enunciato; nella parrhesia, è con il soggetto dell'enunciazione che il locutore tenta di coincidere. Esplorazione delle veridizioni del profeta, del saggio e dell'uomo della techne. Riguardo al profeta, Foucault dirà in Il coraggio della verità che egli non parla a proprio nome, ma che «articola e pronuncia un discorso che non è il suo»262. Sta fra il presente e il futuro; rivela, ma il suo parlare è oscuro. In Mal fare, dir vero c'è la figura di Tiresia, il quale, fino a che non interviene la collera, non mescola profezia e parrhesia. Il saggio parla a proprio nome, ma a condizione di essere «sollecitato dalle domande di qualcuno, oppure da una situazione d'urgenza della città» 263. A differenza del profeta che dice quello che sarà, egli dice quello che è, sotto forma di principio generale. In Mal fare, dir vero compare il personaggio di Seneca sollecitato da Sereno. L'uomo della techne ha il dovere di far sì che gli altri beneficino del suo sapere e delle sue conoscenze. La sua veridizione stringe un legame che può essere «relativo al sapere comune, all'eredità, alla tradizione» o «alla riconoscenza personale o all'amicizia» 264. In Mal fare, dir vero troviamo la figura di Edipo prima che la peste si abbatta su Tebe. A queste tre veridizioni, la parrhesia si opporrà punto per punto. Il parresiasta parla a proprio nome del presente, e il più chiaramente possibile. Si fa un dovere di intervenire, di sua iniziativa, nella «singolarità degli individui, delle situazioni e delle congiunture» 265. Prima della possibilità della riconciliazione, il suo parlar franco apre, come momento «strutturalmente necessario […] la possibilità dell'odio e della lacerazione»266. Diversificazione delle versioni del personaggio del partner della confessione. Sulla scena teatrale costituita dal corso, non è più Charcot che 262 Ibid., p. 26. 263 Ibid., p. 28. 264 Ibid., p. 36. 265 Ibid., p. 30. 266 Ibid., p. 37.

Foucault fa salire, ma Leuret, Menelao, Tiresia, Giocasta, il pastore del Citerone, Seneca, e dietro di loro un lungo corteo di specialisti del discrimen e del crimen, confessori, direttori di coscienza, inquisitori, giudici e psichiatri. Tutti prendono parte a qualche aleturgia; tutti prendono parte a qualche rituale tramite il quale un individuo costituisce se stesso ed è costituito dagli altri come soggetto che tiene un discorso di verità a proposito di se stesso. Ma, come Foucault osserverà in Il coraggio della verità, da una parte il loro statuto è più o meno istituzionalizzato 267, mentre, dall'altra, praticano diversi modi di dir vero. Ne deriva, come effetto, la varietà dei soggetti costituiti nel gioco di verità. Preso nel gioco che Tiresia gli propone, Edipo non è che una pedina del destino, al quale tenta di resistere. Preso in quello che è lui a imporre al pastore, può riconoscere che è stato lui – lui, l'uomo della techne e del tekmerion, capace di andare «da ciò che non si sa a ciò che si sa» 268, utilizzando «i segni, le tracce, le impronte»269 – il soggetto prefissato non di un insaputo, ma di un accecamento: il soggetto di un «creder troppo al sapere» e di un «non voler sapere nulla» che, unendosi, hanno realizzato la profezia, suo malgrado. Come già il profeta, il saggio o l'uomo della techne, nemmeno il parresiasta confessa. Come loro, egli dice il vero. Ma il suo modo di dir vero fa di lui l'interlocutore di una confessione molto particolare e – al di là della confessione – l'interlocutore della cura di sé. In Il coraggio della verità Foucault dirà che si tratta di «quell'altro, così necessario al dir vero su se stessi»270, che aiuta gli uomini «nella loro cecità su loro stessi, su quello che sono non in virtù di una struttura ontologica, ma in conseguenza di errori, distrazioni o dissipazioni morali, disattenzioni, vigliaccherie e arrendevolezze»271. Se le cose stanno così, è perché il suo aiuto prende la forma di un dialogo che si oppone – ancora una volta punto per punto – all'arte della retorica. Il rapporto di convinzione che lega il locu267 Ibid., p. 17. 268 Cfr. la Lezione del 28 aprile 1981, supra […]. 269 Ibid. […]. 270 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., p. 17 (traduzione modificata). 271 Ibid., p. 27.

tore all'enunciato viene da lui stretto (dal retore, invece, sciolto). La relazione tra il locutore e il ricevente viene da lui aperta al rischio (dal retore garantita). Il legame tra il ricevente e l'enunciato viene da lui proposto (dal retore imposto). Corollario della forma: il parresiasta offre al suo interlocutore la possibilità di costituirsi liberamente come soggetto del coraggio della verità. Gli lascia – ed è il segno che riconosce la sua nobiltà – il duro compito di avere il coraggio di accettare la verità, di riconoscerla e di trasformarla in un principio della sua condotta 272. C'è, in Mal fare, dir vero, la grandezza di Antiloco, sfidato da Menelao; c'è anche quella di Edipo, come mostra, in Edipo a Colono, la morte eroica del tiranno accecato, al termine della strada su cui sua figlia lo ha guidato273. Certamente, Mal fare, dir vero prende anche in considerazione le tecniche di esame e di direzione di coscienza. Mettendo a confronto le versioni che ne propongono l'età antica e il cristianesimo, il corso fa vedere in che modo, attraverso quale lavoro, sostenuto da quale discorso, realizzato su quale sostanza etica, effettuato nel quadro di quale relazione, mediante quale procedura di autoaleturgia – si forgino, nella forma di identificazioni a cui si aggiunge il dominio di sé, non tanto U d e Dd, e neppure l'ethos dei dominanti e l'ethos dei dominati, quanto piuttosto (in sintesi): soggetti desiderosi di offrire una presa minore a ciò che domina o governa molti altri o molti tra loro stessi; oppure soggetti desiderosi di piegarsi al desiderio di un altro senza opporre resistenza, e che piegano quanto in loro resiste al sacrificio dell'autonomia all'obbedienza. Il coraggio della verità, invece, è incentrato sulle versioni antiche della cura di sé, correlate alla parrhesia. Insomma, è come se Foucault studiasse, nel 1981, le forme del governo per mezzo della verità allo scopo di far emergere, nel 1984, le condizioni formali di quello che egli chiama il coraggio della verità. Se le cose stanno così, comprendiamo perché, in quel Theatrum philosophicum274 che sono i corsi, il personaggio principale sia il soggetto che con272 Ibid. 273 Ringraziamo Daniel Wyche per aver richiamato la nostra attenzione su questo punto. 274 M. FOUCAULT, Theatrum philosophicum, in «Critique», 1970, n. 282, pp. 885-908; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 80, pp. 75-99 [trad. it. in G. DELEUZE, Differenza e ripeti-

fessa in Mal fare, dir vero e l'interlocutore della confessione – perfino, più specificamente, il parresiasta (il filosofo critico?) – in Il coraggio della verità.

4. Quando dire significa disfare: verso una clinica filosofica del soggetto. Bisognerebbe, al termine di questo discorso, intrecciare i diversi fili che sono stati tesi. Mostrare come l'analisi delle autoaleturgie a cui Foucault procede in Mal fare, dir vero e nei corsi dello stesso periodo aiuti a costruire una genealogia del soggetto presupposto dal discorso della scienza – come spiega durante la prima lezione in L'ermeneutica del soggetto275. Sottolineare ciò che costituisce la forza del vero nel regime scientifico di verità, dove il soggetto scompare, mentre il divario tra le parole e le cose sembra suturato. Indicare, nel punto d'incontro tra la «politica delle cose»276 e la politica delle identità, le coordinate indissociabilmente politiche ed etiche del problema posto, ricordando le questioni che Foucault solleva nel corso di una conversazione a Lovanio: in che modo il fascismo è riuscito a «far presa», anche se i «padri di famiglia tedeschi non erano fascisti nel 1930»277? E cosa accade, nei regimi democratici, per quanto riguarda le relazioni tra l'assoggettamento e il governo 278? Contrapporre, da una parte, l'identità come ethos risultante dal processo di assoggettamento – nel senso quasi corrente della parola ethos: «insieme dei caratteri comuni a un gruppo di individui appartenenti a una stessa zione, il Mulino, Bologna 1971, pp. VII-XXIV]. 275 Cfr. ID., L'ermeneutica del soggetto cit., pp. 3-21. 276 MILNER, La politique des choses cit. 277 FOUCAULT, L'intellettuale e i poteri cit., p. 223. Un indizio, fra gli altri, dell'importanza di questo sfondo dell'opera è che Canguilhem lo citi in Sur l'Histoire de la folie en tant qu'événement, testo pubblicato dopo la morte di Foucault (in «Le Débat», 1986, n. 4, pp. 37-40). Egli vi ricorda che Foucault riconosceva a Freud, «inventore e modello dell'antinormalizzazione», il fatto di aver conferito alla psicoanalisi «l'onore politico […] di essere stata in opposizione teorica e pratica con il fascismo» (La volontà di sapere cit., p. 133). 278 FOUCAULT, L'intellettuale e i poteri cit., p. 223.

società», nella misura in cui, tuttavia, questi caratteri sono, primo, (auto-)attribuiti o assunti; secundo, costitutivi di un rapporto di dominio e, tertio, costituti come elementi di presa del governo –, e, dall'altra parte, l'ethos che agisce come processo di distacco dalle identità attraverso le quali dominanti e dominati sono governati. Ci limiteremo tuttavia, come conclusione, a esplorare il modo in cui Mal fare, dir vero contribuisce a ricercare «le condizioni e le infinite possibilità per trasformare il soggetto, per trasformare noi stessi» 279. In più occasioni, Foucault ha detto. «Non ho mai scritto altro che opere di finzione»280, cosa che Deleuze ha commentato così: «Ma nessuna finzione ha mai prodotto tanta verità e realtà»281. Leggendo parallelamente Mal fare, dir vero e Il coraggio della verità, è possibile cogliere cosa distingua le due filosofie critiche che egli menziona nel 1981 – l'analisi delle «strutture epistemologiche» e delle «forme aleturgiche» 282, dirà nel 1984. Il problema, nella seconda, non è sapere «a quali condizioni un enunciato sarà vero»283, ma che cosa un enunciato fa e se quel che fa può essere disfatto. 279 ID., Soggettività e verità cit., p. 38. 280 Su questo punto, cfr. FOUCAULT, I rapporti di potere passano all'interno dei corpi cit., p. 103: «Quanto all'aspetto della finzione, – dice Foucault, – si tratta per me di un problema molto importante; io mi rendo conto molto bene di non aver mai scritto altro che finzioni. Non voglio dire tuttavia che questo sia estraneo alla verità. Mi sembra che sia possibile far agire la finzione dentro la verità, indurre effetti di verità con un discorso di finzione, e fare in modo che il discorso di verità susciti, fabbrichi qualcosa che ancora non esiste, dunque “finga”. Si “finge” una storia a partire da una realtà politica che la rende vera, si “finge” una politica che non esiste ancora a partire da una verità storica». Nello steso senso, cfr. ID., Il giuoco di Michel Foucault cit., p. 281: «J.-A. MILLER Si accentui a piacere il carattere artificioso della tua procedu ra. I tuoi risultati dipendono dalla scelta dei punti di riferimento, e la scelta dei punti di riferimento dipende dalla circostanza. Tutto questo non è che parvenza, è questo che vuoi dirci? M. FOUCAULT Non è una parvenza, una finzione, ma qualcosa di fabbricato. MILLER Sì, è motivato da quel che vuoi, dalla tua speranza, dal tuo... FOUCAULT Appunto: è qui che compare l'obiettivo polemico o politico»; oppure Conversazione con Michel Foucault (intervista di D. Trombadori a Parigi, verso la fine del 1978), in «Il Contributo», IV (1980), n. 4, pp. 23-84; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 381 (Entretien avec Michel Foucault), p. 44: «... le persone che mi leggono […] mi dicono spesso ridendo: “Ma in fondo tu sai bene che le cose che dici non sono altro che finzioni!” Io replico sempre così: chi ha mai pensato di fare qualcosa di diverso da una finzione?» (in D. TROMBADORI, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 1999, p. 35). 281 DELEUZE, Foucault cit., p. 121. 282 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France cit., p. 15. 283 Cfr. la Conferenza inaugurale, supra […].

Se, per inserirvi le sue analisi, Foucault evoca a Lovanio un « contropositivismo che non è il contrario del positivismo, ma piuttosto il suo contrappunto»284 è perché, al di là della «critica kantiana», egli cerca le condizioni del «coraggio dell'Auflkärung»285. In che modo parlare per lanciare a noi stessi la sfida di osare sapere (verità-prova) ciò che siamo (verità-constatazione) e aprirci così la possibilità di trasformarci (verità-prova)? Per lanciare a noi stessi la sfida – come Menelao di fronte ad Antiloco – di costituirci come soggetti del coraggio della verità? Nell'opera di Foucault, la questione di sapere come parlare non solo per informare, ma anche per trasformare, non è nuova. Nel 1978, poco dopo aver tenuto la conferenza intitolata Che cos'è la critica?, egli afferma durante una conversazione che per lui, e per coloro che l'hanno letta e utilizzata, la Storia della follia ha trasformato il «rapporto (storico, quello teorico, e insieme quello morale, nonché etico) che abbiamo con la follia, con i folli, con l'istituzione psichiatrica e con la stessa verità del discorso psichiatrico»286. Il libro, dice, funziona «come un'esperienza, molto più che come la constatazione di una verità storica» 287. Per questo, aggiunge, «bisogna che in qualche modo quanto esso afferma sia “vero”, in termini di verità accademica, storicamente accertabile»288. Tuttavia, ciò che è essenziale non si trova nella serie delle constatazioni vere o storicamente verificabili: piuttosto, nell'esperienza che il libro permette di fare. E un'esperienza non è né «vera» né «falsa»: è sempre una finzione, un qualcosa che si costruisce, che non esiste e che si trova a esistere solo dopo che è stata fatta, non prima289.

Un commento simile a proposito di Sorvegliare e punire: il libro presenta, «in un certo senso, un'indagine storica». Ma 284 Ibid., p. 12. 285 Su questa opposizione, cfr. FOUCAULT, Illuminismo e critica cit., p. 43. 286 TROMBADORI, Colloqui con Foucault cit., p. 37 (traduzione modificata). 287 Ibid. 288 Ibid. (traduzione modificata). 289 Ibid.

il pubblico l'ha apprezzato, o detestato, non tanto come lavoro storiografico. Tutti sentivano, o avevano l'impressione, che si trattava di loro, del mondo d'oggi, o dei loro rapporti con la contemporaneità, nelle forme in cui quest'ultima viene da tutti accettata e riconosciuta...290.

Allo stesso modo, Mal fare, dir vero e i corsi collaterali mirano a trasformare il nostro rapporto (storico, teorico, etico) con il soggetto: infatti, proprio come Edipo, ignoriamo che parliamo di noi quando, maledicendo un terzo, lo respingiamo al di là delle frontiere del discrimen, nelle terre barbare del crimen. Difficoltà supplementare, ambizione esigente: in che modo parlare per far vacillare delle evidenze e far cadere delle identificazioni? Come procedere, quale successione regolata di atti di linguaggio stabilire? Entro quale «insieme di operazioni» dar corpo al dir vero per permettere «alla veridizione di indurre nell'anima degli effetti di trasformazione»291, per avere ad esempio effetti etopoietici? Come dire, come scrivere perché il soggetto «si modifichi, si trasformi, cambi posizione, divenga cioè, in una certa misura e fino a un certo punto, altro da sé»292, come fa per effetto delle pratiche della cura di sé 293? Lo abbiamo detto: se, nel 1981, Foucault analizza il modo in cui, dicendo(si) e scrivendo(si), dei soggetti si formano, si trasformano e fissano la loro identità, è senza dubbio perché studia il governo per mezzo della verità per far emergere le condizioni del coraggio della verità. L'ipotesi, tuttavia, deve essere completata. È proprio come se egli cercasse una pratica autoaleturgica il cui effetto di ritorno sul soggetto sarebbe un distacco da sé, effetto al contempo etico e politico; una sorta di clinica filosofica, che egli forgerebbe praticandola e ritornando senza fine ai testi filosofici per alimentarvi e confrontarvi la sua pratica critica.

290 Ibid., p. 40. 291 FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France cit., p. 73. 292 ID., L'ermeneutica del soggetto cit., p. 17. 293 Ibid.

«Come fare le cose con le parole?», si domandava Austin. «Come disfare le cose fatte con le parole?», si domanda Foucault. Come Austin, in Mal fare, dir vero Foucault si interessa delle dimensioni illocutoria e perlocutoria del linguaggio: come lui, critica il privilegio attribuito, nella tradizione filosofica e nel discorso della scienza, alle proposizioni categoriche e al gioco di verità che è l'apofantica. Ci sono due differenze, tuttavia, oltre all'accento posto sul disfare. Non solo il corso di Lovanio esamina delle performance verbali – diverse autoaleturgie – ma in più, considerato «dal punto di vista della [sua] “pragmatica”» 294, è concepito a sua volta, al pari delle tragedie295, come una performance e come un'aleturgia: ripiegamento della parola, che evoca la «quarta forma del linguaggio escluso» che Foucault descriveva nel 1964 in La follia, l'assenza d'opera296. Peraltro, le cose fatte e da disfare sono in questo caso le identità dalle 294 Trasponiamo qui il punto di vista adottato da Foucault in ID., Storia della sessualità cit., vol. II: L'uso dei piaceri cit., p. 14. 295 ID., Du gouvernement des vivants cit., p. 24 (lezione del 16 gennaio 1980). Cfr. anche ciò che scrive Vernant in uno studio citato da Foucault, durante la lezione menzionata, a proposito da un lato del messaggio tragico e del dialogo intrecciato tra autore e spettatori nella tragedia, e dall'altro del gioco di ripetizione o di raddoppiamento tra discorso e struttura nell' Edipo re («Se questo è davvero […] il senso della tragedia, si riconoscerà che l' Edipo re non è solamente centrato sul tema dell'enigma ma che, nella sua presentazione, nel suo sviluppo, nel suo epilogo, il dramma è esso stesso costruito a modo d'enigma. L'ambiguità, l'agnizione, la peripezia, omologhe le une alle altre, s'integrano ugualmente nella struttura enigmatica dell'opera» (J.-P. VERNANT, Ambiguïté et renversement. Sur la structure énigmatique d'«Œdipe roi», Moutom, Paris 1970; ried. 2006, pp. 31-32 e 24-25 [trad. it. Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell'Edipo re, in VERNANT e VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nell'antica Grecia cit., pp. 90 e 97; sul primo punto, cfr. anche VERNANT, Mito e società nell'antica Grecia cit., pp. 202-203]. 296 M. FOUCAULT, La folie, l'absence d'œuvre, in «La Table ronde», 1964, n. 196: Situation de la psychiatrie, pp. 11-21; ripreso in ID., Storia della follia cit., Appendici, II: La follia, l'assenza d'opera, pp. 760-770. Sappiamo, a partire dal suo Raymond Roussel (Gallimard, Paris 1963 [trad. it. Raymond Roussel, Cappelli, Bologna 1978]), dell'attenzione accordata da Foucault a questa «quarta forma di linguaggio escluso» che «consiste nel sottomettere una parola, apparentemente conforme al codice riconosciuto, a un altro codice la cui chiave è data da questa stessa parola: dimodoché questa è sdoppiata al proprio interno: dice ciò che dice, ma aggiunge un surplus muto che enuncia silenziosamente ciò che dice e il codice in base al quale lo dice». Si tratta, egli dice, di un linguaggio che non è «cifrato», ma «strutturalmente esoterico»: «... non comunica, nascondendolo, un significato interdetto; si installa sin dal primo istante in una piega essenziale della parola. Piega che scava dall'interno, forse sino all'infinito» (ibid., p. 765). Cfr. anche quello che Foucault, nello stesso testo, dice della letteratura che, a partire da Mal larmé, «si sta lentamente trasformando a sua volta in un linguaggio la cui parola enuncia, nello stesso tempo in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola» (ibid., p. 768). Questa descrizione ci sembra valere anche per i suoi corsi.

quali siamo governati; più precisamente, prendendo le distanze da Kant, è la nostra identificazione col soggetto quale «si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità» 297 in quella forma di aleturgia che è la conoscenza. In che modo parlare per disfare il legame di necessità stretto tra il soggetto e le identità che fa sue, identità alle quali aderisce oggettivamente nella forma del predicato logico, soggettivamente attraverso i suoi investimenti «sia economici che inconsci»298, e potenzialmente attraverso infinite forme di interessamento? Sappiamo che, secondo Althusser, a costituire individui concreti in soggetti (costituzione in cui egli vede la funzione dell'ideologia, e ciò che la definisce) è un'interpellazione nella quale essi si riconoscono. Prendendo le distanze, in questo caso, dalla filosofia marxista, abbandonato il concetto di ideologia, Foucault riformula, con Kant, la questione nei seguenti termini. Ammesso che l'assoggettamento sia un effetto di discorso e che il soggetto costituito varî in funzione delle pratiche discorsive, in che modo parlare affinché la parola aiuti colei o colui a cui è rivolta a uscire dallo stato di minorità che Kant deplorava? Come interpellare un individuo in modo che questo richiamo non possa avere l'effetto di rinchiuderlo – con l'aiuto di desiderio, docilità o viltà – in una identità che funzioni come un commutatore del suo asservimento? Come intrecciare le relazioni tra locutore, ricevente ed enunciati per costituire i riceventi come soggetti dell'Aufklärung, cioè per metterli nella condizione non di rimettersi a un altro, ma di servirsi del proprio intelletto? Se lo stato di minorità risulta dalla correlazione tra un eccesso di autorità e una mancanza di determinazione, in che modo parlare affinché, come riguardo a Charcot, la parola attui e attualizzi questa abdicazione – l'abbandono di ogni volontà di presa, la cui condizione è, paradossalmente, il dominio del soggetto sulle proprie passioni? E che, riguardo a G., abbia la funzione di incoraggiamento e di un aiuto sulla strada che va dalla minorità alla maturità, dall'eteronomia all'autonomia? 297 ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France , cit., p. 14. 298 ID., Gli intellettuali e il potere cit., p. 116.

A questo punto, si potrebbe credere che, per aiutare i propri interlocutori nel loro accecamento su se stessi (accecamento che Foucault dice radicato «in una disattenzione, in un'arrendevolezza, in una vigliaccheria, in una distrazione morale»299, come è per Kant lo stato di minorità), un filosofo debba mantenere un atteggiamento «riservato»300, come Socrate. Questo permetterebbe di evitare che, parlando, egli divenga, del maestro che egli loda o denuncia, un «luogotenente», in senso letterale: qualcuno che ne tiene luogo e ne occupa il posto, puramente e semplicemente (è possibile che sia la forma propria del suo accecamento). Tuttavia, se si legge Il coraggio della verità, sembra che egli debba anche non «accontentarsi di interrogare»301 – presa di distanza, su questo punto, da colui di cui Platone fece l'apologia. Forse perché Foucault vuole «mettere a disposizione del lavoro che noi possiamo fare su noi stessi la parte più grande possibile di ciò che ci è presentato come inaccessibile» 302? Il parresiasta – dice – non lascia a quelle e a quelli a cui si rivolge il «difficile dovere di interpretare»303. Rimane allora da sapere in che modo navigare tra riserbo e interpretazione: come «aderire alla scuola del maestro che manca» 304 e, «al tempo stesso, aderendo alla scuola del maestro che manca (il logos)», essere «colui che guida gli altri lungo il cammino del logos»305? Formalmente, la risposta viene data fin dal 1971: si tratta – con un ritorno a Nietzsche – del «carnevale concertato» 306 del genealogista, serie metodicamente diversificata di storie che sono vere «in termini di verità accademica», e raccontate secondo la modalità della finzione. Serie: insieme di elementi il cui significato è funzione, come ogni giocatore di car299 ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France , cit., p. 27. 300 Ibid., p.39. 301 Ibid. 302 M. FOUCAULT, Est-il donc important de penser? (intervista di D. Eribon), in «Libération», n. 15, 30-31 maggio 1981, p. 21; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. IV, n. 269, p. 182. 303 ID., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France , cit., p. 27. 304 Ibid., p. 153. 305 Ibid. 306 FOUCAULT, Leçon sur Nietzsche. Comment penser l'histoire de la vérité avec Nietzsche sans s'appuyer sur la vérité cit., p. 204.

te sa, non dell'adeguazione tra il rappresentante e il rappresentato, il segno e il suo riferimento oggettivo, la parola e la cosa307, ma degli altri elementi con i quali un elemento è associato e del sistema di differenze che il gioco stabilisce308. Se il filosofo mantiene una riserva, è perché a quelle e a quelli a cui si rivolge non dice ciò che è bene pensare. Se si fa carico dell'interpretazione, è perché, costituendoli come spettatori del carnevale che ha organizzato, dà loro da pensare. Rispetto al sistema di attualità degli altri: ogni storia dà informazioni e attira l'attenzione su punti o relazioni che diventeranno, nella serie, materia di comparazione. Rispetto alla loro propria attualità: per effetto della disposizione in serie, i contenuti proposizionali si sgretolano e i riferimenti oggettivi delle storie raccontate svaniscono, mentre si stabiliscono giochi di questioni e di trasformazioni – spostamenti, similitudini, inversioni...; si forma uno strumento ottico, che sembra dapprima un caleidoscopio, prima di rivelarsi, in mano agli spettatori, un telescopio che permette loro di accorgersi di ciò che non avevano visto della propria attualità309. 307 Cuori, quadri, fiori o picche, i riferimenti oggettivi delle carte da gioco non hanno importanza, se non nella cartomanzia; e una carta di «picche» funziona come una carta nera, anche se colorata di blu. 308 Dunque un re non avrà lo stesso significato, al gioco del poker, a seconda che faccia parte di una scala reale, di un poker, di un full o di un tris. 309 Ricordiamo che, nella risposta all'obiezione mossa da Derrida alle sue affermazioni sulla differenza di statuto e di ruolo tra la follia e il sogno nello sviluppo del dubbio cartesiano, Fou cault isola un punto di resistenza al dubbio, resistenza «di fatto all'effettuazione del dubbio a opera del soggetto che medita attualmente». È per vincere tale resistenza che Descartes, nella prima Meditazione, evoca la follia e il sogno: l'una e l'altro, infatti, «costringono a porre in dubbio il sistema di attualità del soggetto». Innanzitutto, la follia: «I folli, in effetti, si illudono del tutto su ciò che costituisce la loro attualità: si credono vestiti quando sono nudi, re quando sono poveri». Ma l'esempio è troppo forte: qualificare il soggetto come folle significa dequalificarlo, presupporlo incapace di «essere soggetto che conduce ragionevolmente la propria meditazione attraverso il dubbio e sino a una eventuale verità». Il sogno invece costituisce sì «il soggetto come effettivamente dubitante della propria attualità, e come continuatore in modo valido di una meditazione che scarta tutto ciò che non è verità manifesta» (FOUCAULT, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco cit., pp. 790-792). Rispetto a questo testo di Descartes, Mal fare, dir vero si pone in un rapporto duplice. Da un lato Foucault ricostruisce la genealogia del soggetto cartesiano e del gesto di esclusione della follia che lo costituisce come soggetto pensante. Dall'altro, è proprio come se le sue «serie di serie» – i suoi «carnevali concertati» – fossero concepiti come un tipo di esercizio o di prova destinata, come la follia e il sogno nella prima Meditazione, a mettere in dubbio il sistema di attualità del soggetto, esercizio o prova il cui ruolo sarebbe in questo caso di condurre quelle e quelli che lo ascoltano a dubitare effettiva mente di ciò che, a partire da Descartes, costituisce la loro attualità di soggetti, vale a dire a

Sostanzialmente, le storie raccontate nel 1981 a Lovanio mettono in scena personaggi che si assoggettano, nel doppio senso del termine: che si prestano al potere esercitato, da loro o su di loro, dicendo ciò che sono. Esse forniscono a quelle e a quelli che le ascoltano informazioni su forme pregiuridiche e giuridiche di regolazione di conflitti, su pratiche antiche e cristiane di esame e di direzione di coscienza, sulla exomologesi, l'exagoreusis, l'esame e la perizia... Soprattutto, esse li esercitano a scoprire, induttivamente, alcune categorie e alcune serie di domande che li aiuteranno a vedere e a leggere il loro presente. Quanto alle categorie: sostanza etica (causa materiale), modo di assoggettamento (causa formale), tecniche di trasformazione di sé (causa efficiente), telos (causa finale). Quanto alle domande: chi parla, colui che dirige o colui che è diretto, il dominatore o il dominato? Tra loro, la relazione è, per citare Freud, «terminabile o interminabile»? ecc. Mal fare, dir vero è una eterotopia in cui sono giustapposti «in un solo luogo reale diversi spazi, diverse ubicazioni che sono di per sé incompatibili»310. Vi si succedono, come tanti carri in un corteo carnevalesco, scene che – come impone la morte dell'uomo – offrono a ciascuno una «piccola scatola per la sua piccola decomposizione personale»311. Scene che, come uno specchio, sono destinate a produrre su quelle e su quelli che le osservano due effetti: vedersi là dove non sono (in quanto i personaggi sono tante ombre che consentono loro di vedersi, cioè che danno loro la propria visibilità); e di scoprirsi assenti nel posto in cui sono, poiché si vedono laggiù312.

dubitare effettivamente del cogito cartesiano. Affinché possano, a partire da lì, proseguire la loro meditazione sul modo in cui sono legati alla verità senza più «basarsi sulla verità», né dar si la garanzia che Descartes, meditando, si è data. Cfr. anche supra [lezione del 6 maggio 1981, nota 59]. 310 M. FOUCAULT, Des espaces autres (conferenza tenuta al Cercle d'études architecturales il 14 maggio 1967), in «Architecture, Mouvement, Continuité», 1984, n. 5, pp. 46-49; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. II, n. 360, p. 758. 311 Ibid., p. 756. Il testo originale reca: «... è a partire dallo specchio che mi scopro nel psoto in cui sono, poiché mi vedo laggiù». Secondo Foucault, lo specchio è al contempo un'utopia e una eterotopia; il primo effetto citato rinvia alla sua dimensione utopica, il secondo alla sua dimensione eterotopica. 312 Ibid., p. 758.

Comprendiamo meglio, allora, perché Foucault dica nel 1978, in Che cos'è la critica?, che fare dell'Aufklärung – fare del coraggio di sapere – «la questione centrale» significa «fabbricare, come per finzione, la storia che sarebbe attraversata dal tema dei rapporti tra le strutture razionali che articolano il discorso vero e i correlati meccanismi di assoggettamento»313. Allo stesso modo, comprendiamo meglio perché egli definisca l'archeologia, la genealogia e la strategia non come «livelli successivi desumibili l'uno dall'altro», ma come «dimensioni necessariamente simultanee della stessa analisi»314. Per lui, osare sapere vuol dire impegnarsi in una pratica storico-filosofica che, si cura di precisare, non ha nulla a che vedere né con la storia della filosofia, né con la filosofia della storia 315. Noi ci identifichiamo con il soggetto presupposto dal discorso che fa della verità la sua causa, materiale, formale, efficiente e finale 316. Per far cadere questa identificazione, bisogna «fare la [nostra] propria storia» 317: allestire nel Theatrum philosophicum318 una serie di scene, una serie di serie319 che mostri come la verità sia stata trasformata in ethos, e l'ethos in verità. Mal fare, dir vero è una di esse. Sfida. Se Foucault si fa l'interlocutore di una confessione, la confessione è quella che il soggetto che confessa fa (o meno) a se stesso, così da non fornire l'occasione ad alcuna presa. A quelle e a quelli che lo ascoltano, affida il «compito morale»320 di avere coraggio di accettare una verità 313 FOUCAULT, Illuminismo e critica cit., p. 49. 314 Ibid., p. 60. 315 Ibid., p. 49. 316 FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., pp. 32-33. 317 ID., Illuminismo e critica cit., p. 49. 318 ID., Theatrum philosophicum cit., pp. VII-XXIV. Sulla «filosofia-teatro» («non riflessione sul teatro, non teatro caricato di significati. Ma filosofia divenuta scena, personaggi, segni, ripetizioni di un evento unico e che non si riproduce mai»), cfr. anche ID., Ariane s'est pendue, in «Le Nouvel Observateur», 1969, n. 229, pp. 36-37; ripreso in ID., Dits et écrits cit., vol. I, n. 64, pp. 767-771. D. DEFERT, Situation du cours, in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 266, ha attirato l'attenzione sull'importanza, per Foucault, del libro di DELEUZE, Differenza e ripetizione cit., al quale questi due testi si riferiscono. Cfr. anche supra [lezione, 28 aprile 1981, nota 4]. 319 Cfr., su questo punto, FOUCAULT, L'archeologia del sapere cit., pp. 14 e 17, oltre a DEFERT, Situation du cours, in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 269. 320 ID., Il coraggio della verità cit., p. 27.

che egli si limita a enunciare con un «semi-dire» 321 (per usare il concetto proposto da Lacan nel 1970, in Il rovescio della psicoanalisi). È forse la ragione per la quale, dalle Leçons sur la volonté de savoir fino a Il governo di sé e degli altri, passando per Mal fare, dir vero, egli ritorna così spesso all'Edipo re, insistendo sui due aspetti dell'opera di Sofocle. La «ricostituzione della storia per metà mancante»322, da una parte (si tratta, come dice, del «“doppio gioco” del meccanismo simbolico» 323, dove Edipo «è il simbolo»324). La necessità della ripetizione affinché Edipo possa «riconoscersi come colui che ha fatto quel che ha fatto»325 e a questo proposito dire «io» (sono le tre aleturgie che mettono in scena coppie di personaggi che detengono e dicono mezze verità326). Sta a noi ascoltare il richiamo a lasciarci condurre dalla «sola specie di curiosità, comunque, che meriti di essere praticata con una certa osti321 J. LACAN, Le Séminaire, livre XVII, 1969-1970: L'envers de la psychanalyse , Seuil, Paris 1998, p. 118 (lezione dell'11 marzo 1970 [trad. it. Il seminario. Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, 1969-70, Einaudi, Torino 2001, p. 125]. Per lo studio dei rapporti tra Foucault e Lacan, è importante indicare che proprio nel quadro di questo seminario Lacan formalizza il discorso del padrone, dell'isterica, dell'università e dello psicoanalista. Vi afferma che la politica come discorso ha nella nostra attualità la struttura del discorso del padrone (discorso che, dice, ha la particolarità che «la filosofia non parla che di questo», cosa che accade «almeno a partire da Hegel», che chiama il padrone per nome), prima di domandarsi in che modo il soggetto del desiderio che lo causa si leghi al sapere – che è la questione esaminata da Foucault in Leçons sur la volonté de savoir. Più in generale, Lacan esamina i rapporti tra psicoanalisi, politica ed etica, sulla scia del Maggio '68 (la copertina dell'edizione curata da Jacques-Alain Miller è peraltro illustrata da una foto di Daniel Cohn-Bendit). È la politica come discorso a costituire il «rovescio» della psicoanalisi. 322 FOUCAULT, Le savoir d'Œdipe cit., p. 240. 323 Ibid. 324 Su questo punto, prendiamo le distanze da CHEVALLIER, Foucault et le christianisme cit., p. 161, per il quale non c'è «identificazione possibile di Edipo con il lettore» nelle lezioni di Foucault sulla tragedia di Sofocle. Certo, non c'è identificazione possibile nel senso supposto da Freud (cfr. supra [lezione del 28 aprile 1981, nota 2]), senso che Foucault respinge già nel 1971 (Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 185). Ma Foucault sostiene – e in questo ci sembra esserci qualcosa di più che non una provocazione – «che ci sia veramente un complesso di Edipo nella nostra civiltà» (M. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche , in ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste cit., vol. II (1971-77): Poteri, Saperi, Strategie cit., p. 98. Questo «complesso» – che «non si produce a livello individuale, ma collettivo; non a proposito del desiderio e dell'inconscio, ma del potere e del sapere» (ibid.) – è il supporto d'identificazione che egli vuole far vacillare, se non cadere. 325 Ibid., oltre che in FOUCAULT, Leçons sur la volonté de savoir cit., p. 191 (lezione del 17 marzo 1971). 326 Cfr. la Lezione del 28 aprile 1981, supra […].

nazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze» 327. Quella, in altre parole, che ci permette di distaccarci dalle identità attraverso le quali siamo governati, dagli investimenti e dagli interessi per cui vi aderiamo, e dalla paura di dover correre nudi se le lasciamo cadere senza osare, come Diogene, farla nostra328. Perché, infatti, avere paura? C'è, sostiene Foucault – ultimo segno, ultima ironia, ultima amicizia, ultimo invito – del militantismo nella vita cinica, che «trasforma la sovranità benefica del bios philosophikos in resistenza combattiva»329. Se studiare il governo per mezzo della verità significa esaminare gli atti di linguaggio attraverso i quali un individuo si costituisce come soggetto e si lega a un'identità data come la sua verità, opporre il coraggio della verità al potere della verità vuol dire inventare una clinica filosofica del soggetto, una clinica filosofica che gli permetta di staccarsi dalle identità per mezzo delle quali è governato330.

327 FOUCAULT, Storia della sessualità, vol. II: L'uso dei piaceri cit., pp. 13-14. 328 ID., Il coraggio della verità cit., p. 271. 329 Ibid. 330 Precedenti versioni della prima e della terza parte della Situazione del corso sono state presentate nel quadro del corso su Foucault e la criminologia tenuto da Fabienne Brion e Véronique Voruz all'Università cattolica di Lovanio nel 2008-9, 2009-10 e 2010-11, e del seminario «Foucault on Ethics and Politics», condotto da Bernard Harcourt e Fabienne Brion all'Università di Chicago nel 2010-11 (cfr. inoltre F. BRION e B. HARCOURT, Le pouvoir de la vérité. Trois lectures de «Mal faire, dir vrai» de Michel Foucault (conferenze tenute al Collège Belgique, Académie Royale des Sciences, des Lettres et des Beaux-arts de Belgique, 27-28 ottobre 2010, consultabili all'indirizzo http://www.academieroyale.be/que-pag=1026&tab=146&=rec=10279). Una versione precedente della seconda parte e della conclusione è stata presentata da Fabienne Brion nell'ambito del corso su «Foucault e la criminologia» tenuto all'Università cattolica di Lovanio nel 2011-12.