L'uomo eterno
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Table of contents :
L’uomo eterno
Indice
Presentazione
Avvertenza preliminare
Introduzione. Piano di questo libro
Parte prima. La creatura chiamata uomo
Capitolo I. L’uomo nella caverna
Capitolo II. I professori e l’uomo preistorico
Capitolo III. Origine antica della civiltà
Capitolo IV. Dio e le religioni comparate
Capitolo V. L’uomo e le mitologie
Capitolo VI. I demoni e i filosofi
Capitolo VII. La guerra degli dei e dei demoni
Capitolo VIII. La fine del mondo
Parte seconda. L’uomo chiamato Cristo
Capitolo I. Dio nella caverna
Capitolo II. Gli enigmi del Vangelo
Capitolo III. La più strana storia del mondo
Capitolo IV. La testimonianza degli eretici
Capitolo V. L’evasione dal paganesimo
Capitolo VI. Le cinque morti della fede
Conclusione. Riassunto di questo libro
Appendice I. Sull'uomo preistorico
Appendice II. Autorità e accuratezza
Nota biobliografica sull’Autore*

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Se mai esiste, cos’è che rende l’essere umano soltanto umano? Questa è la domanda che G.K. Chesterton si pone in questa esplorazione classica della storia umana. Rispondendo al materialismo evolutivo del suo contèmporaneo (e antagonista) H.G. Wells, Chesterton in questo lavoro afferma l’unicità umana e il messaggio unico della fede cristiana. Scrivendo in un periodo in cui il darwinismo sociale era rampante, Chesterton replicò dicendo che l’idea secondo la quale la società ha subito un progresso da uno stato di primitivismo e di barbarie verso la civiltà, è semplicemente e piattamente imprecisa. «Il barbarismo e la civiltà non sono palcoscenici successivi nel progresso del mondo», afferma, con argomenti dedotti dalle storie dell’Egitto e della Babilonia. Ecco il libro che ha convertito C.S. Lewis dall’ateismo al Cristianesimo. Questo libro illustra il viaggio spirituale dell’umanità, o almeno della civiltà occidentale. Un libro per la mente e lo spirito.

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Gilbert Keith Chesterton (Londra, 29 maggio 1874 Beaconsfield, 14 giugno 1936) è stato uno scrittore e giornalista inglese. Scrisse un gran numero di opere di vario genere: romanzi, racconti, poesie, biografie e opere teatrali. Amò molto il paradosso e la polemica. Fra le sue opere ricordiamo L’innocenza di Padre Brown, Il segreto di Padre Brown, L’uomo che fu Giovedì, Le avventure di un uomo vivo, L’Osteria Volante, L’età vittoriana nella letteratura.

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Scansione, ocr e conversione a cura di Natjus Ladri di Biblioteche

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Le bighe - 4 -

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Gilbert Keith Chesterton

L’uomo eterno

TRADUZIONE DI RAFFAELLO FERRUZZI

Rubbettino

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© 1930 - «La Nuova Italia» Editrice Perugia-Venezia © 2008 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www. rubbettino. it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign

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Indice

Presentazione di Luca Volonté L’uomo eterno Avvertenza preliminare Introduzione. Piano di questo libro Parte prima. La creatura chiamata uomo Capitolo I. L’uomo nella caverna Capitolo II. I professori e l’uomo preistorico Capitolo III. Origine antica della civiltà Capitolo IV. Dio e le religioni comparate Capitolo V. L’uomo e le mitologie 8

Capitolo VI. I demoni e i filosofi Capitolo VII. La guerra degli dei e dei demoni Capitolo VIII. La fine del mondo Parte seconda. L’uomo chiamato Cristo Capitolo I. Dio nella caverna Capitolo II. Gli enigmi del Vangelo Capitolo III. La più strana storia del mondo Capitolo IV. La testimonianza degli eretici Capitolo V. L’evasione dal paganesimo Capitolo VI. Le cinque morti della fede Conclusione. Riassunto di questo libro Appendice I. Sull’uomo preistorico Appendice II. Autorità e accuratezza Nota biobliografica sull’Autore di Marco Sermarini

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Presentazione «Io ti cerco Signore, mostrami il tuo volto» (Messale Romano nella Festa di S. Antonio da Padova)

«L’ERESIA NON È VINTA DALLA NOVITÀ, quanto dalla verità», scriveva tertulliano nel De verginibus velandi (iv secolo). Questa è l’unica ragione e significato del motivo per cui, grazie all’editore Fiorindo Rubettino, abbiamo deciso di ripubblicare il capolavoro di Gilbert Keith Chesterton, L’uomo eterno, che mancava dagli scaffali delle librerie italiane dal 1930 (!). Chesterton è un monumento della letteratura e della riflessione cristiana del ’900, al pari di T.S. Eliot, J. R. R. Tolkien, C. S. Lewis e Graham Greene, e si situa sulla onorata scia di quel movimento anglosassone che dal cardinale John Henry Newman in poi ha vivificato le radici cattoliche dell’isola di Sua Maestà. Chi è “l’uomo eterno”? E’ Cristo, il compimento dell’eterno desiderio di pienezza e felicità dell’uomo, dalla caverna alle sonde su Marte. E allora questo libro è da un lato il racconto della storia comparata dell’umanità e della divinità fattasi uomo, dall’altro una illustrazione delle ragioni che hanno condotto il cristianesimo a cambiare la storia dell’Occidente e del mondo intero, surrogando, completando e superando le religioni e i miti del passato. L’Autore non intende ingannare i suoi lettori, si presenta come un cattolico acutissimo e bizzarro (e lo è), un 10

“dilettante” che si serve del materiale degli specialisti di religioni comparate senza la pretesa di insegnare alcunché. Fin dalle prime pagine, Chesterton si scaglia, con un’intelligenza disarmante e con aforismi e paradossi stupefacenti, contro coloro che vorrebbero criticare il Cristianesimo rimanendo sulla soglia, cioè in una posizione esterna ad esso e però non tanto distante dal poter loro consentire uno sguardo d’insieme. Luigi Giussani usava a questo proposito l’esempio del quadro dipinto: o ne sei l’autore, che ne conosce ogni sfumatura, o devi allontanarti un passo da esso per ammirarlo nella sua interezza. Stare sulla soglia, criticare un quadro di Giotto e rimanervi a un millimetro, significa mettersi nelle condizioni di non capire nulla di nulla dell’intera opera1. Così, ci dice Chesterton, accade col fatto cristiano, con i pettegolezzi clericali di quanti sono dubbiosi dei «loro stessi dubbi» e criticano le «prediche perché non possono mai essere interrotte ma non criticano le viltà di alcune redazioni dei giornali». Quanto attuale è questa denuncia, se rapportata alle critiche rivolte a papa Benedetto xvi e alla Chiesa cattolica da parte di molti solisti stonati del vario commentario italiano ed internazionale2! «Non possono essere cristiani e non possono cessare di essere anticristiani», dice il Nostro. Ben peggiori però sono quelli che egli definisce i “tranciagiudizi”, cristiani semi-istruiti che camminano verso l’agnosticismo e vivono “in reazione” al Cristianesimo: «I nostri anticlericali partono da un’atmosfera di negazione e di ostilità da cui non possono sfuggire […] un atteggiamento che può essere umanamente scusabile, e forse anche simpatico, ma non è scientifico». Merito dell’Autore è ricomprendere invece dentro lo stesso sguardo il fatto umano e il fatto divino, la comparsa sulla terra dell’uomo e quella dell’uomo Cristo, sicché il libro viene diviso in due parti, trattando prima 11

della umanità pagana e poi della differenza introdotta da Cristo: dall’uomo vagabondo sottoposto al “fato” al cristiano pellegrino che segue Cristo. Con quale metodo procede il nostro autore? Il “canone ermeneutico” chestertoniano, valido per ogni suo scritto e per la sua stessa esistenza, è tanto inedito quanto alla fine pertinente e vincente: si tratta di assumere lo sguardo del bambino, «il candore e lo stupore del fanciullo», imparziale e obiettivo come chi guarda per la prima volta, e giudica senza imbarazzo così i dogmi come gli avvenimenti. E’ lo sguardo di Adamo sulla Creazione, quello dell’uomo spirituale che tutto giudica e da nessuno viene giudicato. Chesterton si propone di mantenere questo tono di “novità e sorpresa” nel suo saggio, per dimostrare che «la Chiesa stava alla vita religiosa dell’umanità esattamente come l’umanità stava alla natura». Ne “La creatura chiamata uomo”, cioè nella prima parte del volume, egli critica argutamente le dottrine evoluzioniste e in particolare il darwinismo, come quella strana e variopinta teoria che vorrebbe trovare nell’uomo l’animale, sebbene «non c’è mai stata un’epoca in cui l’uomo era un animale, perché non c’è mai stata una mucca con i pantaloni e stivali». L’evoluzionismo vorrebbe spiegare la lentezza della storia umana ma «il miracolo dell’uomo», come ogni miracolo, non dipende dalla velocità con il quale accade. «L’uomo è una rivoluzione piuttosto che una evoluzione». E così prosegue: «È vedere storto, veder nell’uomo l’animale […] È un infamia. È peccare contro la luce: contro quel senso chiaro delle proporzioni che è il principio della realtà»3. L’insufficienza scientifica dell’evoluzionismo sta oltremodo nella impossibilità della prova sperimentale. Ancora, nell’animale non c’è il nesso tra ragione e religione: «Il cane non può fondare una religione […] gli animali non 12

possiedono una sentimento religioso», solo l’uomo è capace di formulare un credo e dipingere sulle pareti di una grotta, il bello è anticipazione del vero. Ci dice ancora Chesterton che «all’inizio della storia della razza umana ci sono due fatti: il peccato originale (perché sin dall’origine i vestiti testimoniano del rispetto e del decoro) e la famiglia, perché l’umanità ha preso quella forma». Persino le escrescenze in materia di famiglia o di libertinaggio dei costumi confermano come la forma originaria abbia preceduto la deformità, il disordine sia rimando all’ordine. Così, ci suggerirebbe oggi il Nostro, negando assiduamente il peccato originale e la famiglia, non si fa che accanirsi contro ciò che in fondo si ritiene fondamentale e giusto, come bambinoni capricciosi e cocciuti, danneggiando le generazioni successive. Gli effetti negativi della negazione del peccato, l’illusione di un’umanità sempre propensa intimamente al bene, valgono ancor più in un clima di lotta contro la famiglia, «la cellula intorno alla quale si forma lo Stato». Questo perché «intorno alla famiglia si formano quelle santità che distinguono gli uomini dalle formiche e dalle api», quelle che oggi chiameremmo le caratteristiche del capitale sociale familiare, le reti di gratuità che costituiscono il bene comune della nazione, seguendo la magistrale lezione del sociologo Pierpaolo Donati. Del resto, se si vuol comprendere il motivo per cui il marxismo e tutti i suoi derivati siano oggi così accaniti contro la famiglia, basta mettere a confronto queste due definizioni e intendimenti. La prima è dello stesso Chesterton: «L’antica trinità fu quella del padre, della madre e del figlio e si chiama l’umana famiglia; la nuova trinità è quella del Figlio, della Madre e del Padre e si chiama Sacra Famiglia. E’ mutata solo in quanto rovesciata; come il mondo che ne fu trasformato non è indifferente da 13

quello di prima, se non in quanto è capovolto». Ora, tenete desto lo sguardo da fanciullo e perdete un minuto con Karl Marx e Friederich Engels, per i quali «all’origine della famiglia c’è la Sacra Famiglia, distrutta quest’ultima non rimarrà niente della prima». “Niente” della famiglia, nemmeno i rapporti di gratuità, responsabilità e solidarietà tra genitori e figli, come dimostra il tragico inveramento di questo programma nella società odierna. Anche per questo, ci avvisa Chesterton, «i selvaggi moderni non possono essere in tutto uguali agli uomini primitivi, per la semplice ragione che non sono primitivi […] il regresso della società nasce dal procedere nella direzione sbagliata e non dal ritorno all’antico»4. Egli ci accompagna nel viaggio indagatore e curioso per le civiltà precristiane, ove la religione rimane la costante essenziale del genere umano, per la sua connaturalità5 e “normalità«i fatti religiosi sono naturali, diverse sono le categorie: Dio, gli dei, i demoni e i filosofi». Insomma, Dio è colui che non si può ignorare anche quando si ignora (pensiamo all’Infinito di Leopardi), ciò che governa tutto e da cui tutto era unito; come diceva Wittgenstein, «il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio»6. D’altra parte, il sentimento pagano è simboleggiato nella torre di Babele, a testimonianza di una distanza incolmabile tra l’uomo e Dio e della confusione permanente tra gli uomini che si costruiscono dei. Così l’umanità tentativamente riduce quella distanza, la mortifica in immagini, sacrificando così Dio negli dei. Il politeismo è il pozzo dove ognuno getta le proprie divinità, distruggendo l’idea di una «paternità che unifica sotto di sé il mondo». Mentre il paganesimo è un bisogno reale di evocare qualche alto e Altro nome - i popoli primitivi, ci dice Chesterton, non hanno mancato della domanda ma della 14

capacità di attendere che ha caratterizzato Giobbe - la Chiesa è stata l’unica a cercare una combinazione tra la ragione e la religione, tra l’esperienza naturale e la ragionevole apertura al Mistero. D’accordo con Chesterton sembra essere il maggiore storico delle religioni del secolo scorso, Mircea Eliade, quando sostiene che «è difficile immaginare […] come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa irriducibilmente reale, la coscienza del mondo reale è dotata di significato ed è legata intimamente alla scoperta del sacro»7. L’uomo ha cioè da sempre trovato naturale adorare qualche cosa; l’idolo potrà essere duro, o stravagante, ma l’atteggiamento dell’adoratore è in gran parte generoso e sincero. Perciò la più grande schiavitù è quella di chi rifiuta di adorare Dio pregiudizialmente, di colui che non potendosi né volendosi inginocchiare è «come in ceppi». Viene alla mente sant’Agostino, che nel libro VII delle sue Confessioni esclamava con gratitudine: «Così mio soccorritore mi avevi liberato da questi ceppi». Ovvero, il desiderio di verità e gioia totali, il desiderio del medesimo Infinito, è la contestuale scoperta di poterlo bramare, col cuore e la ragione, attraverso la preghiera, ed è perciò una liberazione dalla schiavitù che i ceppi rappresentano. D’altra parte i miti, gli idoli, gli dei, conclude il nostro Autore, sono “prefigurazioni” (forme senza sostanza), sono “mitici” (non vivi), fanno “intravedere” quale specie di Dio ci vorrebbe per gli uomini ma non possono che lontanamente pretendere di rappresentarlo e incarnarlo. Accanto a questo, nel politeismo c’è un altro “lato debole”: la superficialità sul peccato originale, per la quale ci si dimentica che un «impulso spontaneo trascina gli uomini verso le potenze oscure e dopo il culto dei demoni viene l’idea di rendersi degni e ben accetti ai demoni stessi». 15

Venne così il tempo della guerra tra gli dei e i demoni, quella guerra che attraversò il Mediterraneo e nella quale, solo grazie alla vittoria di Roma su Cartagine, l’Europa e la civiltà si salvarono. Nella descrizione che Chesterton fa della violenta Cartagine e della decadenza di Roma, troviamo inquietanti analogie con le tentazioni in cui si dibatte l’Europa odierna8. Dobbiamo, ci dice il Nostro, alle speranze dei romani, agli dei che hanno sconfìtto i demoni se «il passaggio dal paganesimo al cristianesimo fu, al tempo stesso, un ponte e una rottura. Con Roma fu il paganesimo migliore che vinse», prima di cedere alla corruzione dei costumi di età imperiale. Così, come accade a noi oggi, la forza diventava debolezza e la bontà diventava cattiveria e, in un epoca anormale, «l’ateismo che è anormalità, diventò possibile, anzi ragionevole». Ma qualcosa accadde, incidenti dapprima insignificanti, provocati da una «minuscola setta orientale di uomini» — straordinario ritratto fatto da Chesterton dei primi cristiani! - che «dicevano cosa bizzarre, Dio era morto e lo avevano visto morire […] ed erano stranamente lieti […] perché proprio la morte permetteva loro di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue […] Colpiva il tono lieto, da pazzi […] credevano a qual che dicevano ed erano strettamente associati […] la differenza si sentiva a contatto […] [sembrava] aver cozzato in una pietra». La reazione della stanca e sfibrata Roma poteva essere solo una: la prima persecuzione religiosa. Da questi avvenimenti inizia la seconda parte del libro, “L’uomo chiamato Cristo”, dove la partenza dalla caverna di Betlemme porta a compimento le premesse enunciate all’inizio del libro (la Chiesa sta alla religione dell’umanità, esattamente come l’umanità sta alla natura). Agli albori della storia umana ci sono la caverna e l’uomo della caverna, sicché la «seconda metà della storia umana fu 16

una nuova caverna». Potremmo dire che il sussulto di Giovanni nel grembo di Elisabetta, alla vista di Maria gravida di Gesù, raffigura lo stesso sussulto dell’intera storia dell’umanità antica davanti al Dio che si fa carne. Ciò che infinite generazioni attendevano e enormi messe di dei prefiguravano, è giunto, e le viscere interne dell’umanità vengono scosse dal lieto avvenimento tanto atteso. Dal Natale, dal Bambino nella caverna, nasce quella potente associazione di idee che ciascuno di noi si porta per tutta la vita, «un bambino e una forza sconosciuta che regge le stelle, l’Onnipotente e l’impotente, la divinità e l’infanzia»; quella associazione di idee che ci fa comprendere istintivamente la sacralità della vita, ci fa scattare l’attenzione ad ogni pianto di infante, ci commuove dinnanzi alle immagini o alle notizie di privazioni e violenze verso le piccole creature dell’umanità. Il Bambino della caverna, in quella notte stellata d’Onnipotenza, è tuttavia associato alla Madre, alla Sua Mamma, che lo culla in grembo: contempliamo con Chesterton il dolce mistero di un «Dio che nasce come un bambino comune e interamente dipendente da sua madre». E’ una descrizione che arriva a punti tali di delicatezza e di contemporanea immedesimazione dell’Autore, da farlo assomigliare ai grandi devoti di Maria di tutti i secoli9. Ma egli va oltre, supera il paradosso della caverna e lo penetra sin nelle viscere. E’ il paradosso di un Dio che si fa umile e reietto e riscatta gli umili e i reietti di ogni tempo, la cui semplicità è rappresentata dai pastori, i primi a percepire che «l’anima della leggenda era una persona»: è, come diceva san Bernardo, Verbum abbreviatum. Allo stesso modo, il compimento delle leggende naturali è anche il culmine della curiosità che muove tutti i sapienti, attuatosi nella venuta dei Magi. L’avvenimento della nascita è l’inveramento della possibilità di incontrare il sommo 17

bene, «essi non cercavano le fiabe ma la verità, e poiché la loro sete di verità era, per se stessa, sete di Dio», hanno avuto in premio la Verità. O meglio, commenta Chesterton, il «completamento dell’incompleto». Nel Natale «c’è tutto il Cristianesimo: il cielo in una “casa”», lo straordinario che si fa contemporaneo, compagnia presente. Ma cosa accadrebbe a coloro che leggessero la storia di Cristo e non avessero mai sentito parlarne prima? E’ a questa domanda che risponde l’Autore ripercorrendo, con sorprendente attualità, gli “enigmi del Vangelo”, in un capitolo ricco di entusiasmanti intuizioni sul carattere e sul comportamento di Gesù. Tra le altre cose, Chesterton rimarca come la Chiesa venne fondata da Cristo su Pietro e sulle chiavi, perché i primi cristiani erano persone con «una chiave […] la chiave che poteva aprire la prigione del mondo intero e far vedere la bianca aurora di salvezza». La Chiesa, universale eppur battagliera, «portò nel mondo la speranza […] era nata dalla sorgente reale delle speranza». Spe salvi, come dimostra e propone oggi l’enciclica di papa Benedetto xvi. Risolvendo la falsa antitesi fra carisma e istituzione, sempre riproposta dalle eresie di ogni tempo, Chesterton ci riporta alla dimensione evangelica dell’incontro col “Diocon-noi”, che è l’anima di ogni apostolato e la cifra di un proselitismo intelligente e rispettoso della coscienza altrui. Infatti il Cristianesimo è stato accettato e si è sviluppato perché «è come la vita […] un fatto di cui siamo testimoni, non perché adoriamo una chiave ma perché abbiamo aperto la porta; è perché abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà passare sopra la terra dei viventi»10. Nel mondo, nel mezzo della storia, ecco sorgere una enorme eccezione: «Questo Mistero visita il Mondo in Persona». Brani finali, questi, nei quali è commovente ritrovare T.S. Eliot e Charles Peguy insieme, uniti come ogni compagnia 18

di cristiani fedeli. E di quel Cristianesimo, fatto di puro spiritualismo, di quel Gesù take-away” e senza Chiesa, insomma del “puro spirito cristiano”, evanescenza distillata dai guru della cultura del nulla di allora e di oggi? «Essi desiderano che [il Cristianesimo] rimanga come uno spirito, nel senso dello spettro […] ma il Cristianesimo non è destinato rimanere come un fantasma […] la fede (da Diocleziano alla rivoluzione francese) è sopravvissuta alla sua stessa debolezza e persino alla sua resa». E l’umanità è, e resterà sempre, divisa tra coloro che stanno portando questo messaggio e coloro che «non l’hanno udito o non possono ancora prestarvi fede». Parole da Padre della Chiesa, osiamo affermare con tutta la (sana) incoscienza del paragone. In conclusione, l’attualità e futilità di questo importante saggio di Chesterton sta tutta in una sola parola: libertà. In una sola movenza, l’azione e la responsabilità dinamica di ogni persona ad aderire, andare incontro a Colui che è Dio e si è fatto veramente carne, è morto fisicamente in croce, è risorto realmente; non per modo di dire, come le eresie antiche o moderne tentano di suggerire. Qui sta l’origine e la fine di ogni rivelazione: Dio non ha nient’altro da dire agli uomini, dal momento che è venuto nella grotta, è vissuto, morto e risuscitato rendendosi incontrabile realmente. Così, ripercorrendo le assurdità dell’evoluzionismo primitivo ma gustando il bello delle pitture delle caverne, l’Autore non solo ci fa scoprire come nella storia reale l’estetica preceda l’etica (uso della ragione che distingue il bene dal male) ma ci invita a passare attraverso le riduzioni di Dio operate degli idoli e dai limiti delle filosofie che si arrestano alla soglia del Mistero, riducendolo ad un enigma. Se il greco sa fermarsi dinanzi al “fato” dell’Iliade, in un esercizio che non corrisponde in pienezza alla sete di infinito dell’uomo, Chesterton invece prosegue verso 19

l’uomo eterno, Cristo, la chiamata alla libertà per ciascuno di noi. Il Cristianesimo è cioè l’apice del fenomeno religioso perché impone all’uomo di essere veramente uomo davanti al fatto della resurrezione e davanti ai fatti concreti dell’esistenza quotidiana, anche quando con il peccato si voltano le spalle a Dio. È infatti a questo punto che ognuno può udire, riferita a se stesso, la medesima domanda che Gesù rivolge a Pietro prima di affidargli le chiavi: «Mi ami tu più di costoro?». A questo interrogativo tremendo ed esigente come solo il vero Amore sa essere, a questo richiamo all’esercizio della libertà che porta al compimento della felicità, Chesterton invita ciascuno di noi a dare una risposta sempre attuale. L’uomo eterno ci sta sempre innanzi: a noi la scelta tra la libertà felice o i tristi e monchi idoli vuoti, tra il cammino del pellegrino o il vagabondaggio dell’errabondo. Da quando quel miracolo che è l’uomo è apparso sulla terra, sempre egli ha cercato e desiderato l’infinito del Mistero, sempre ha preferito il cielo stellato alla volta di un carcere; sarebbe stato semplicemente e gravemente irragionevole, dall’avvenimento cristiano in poi, rinunciare alla compagnia reale di Dio. Equivarrebbe tornare colpevolmente alla caverna primitiva, alla legge della giungla, con tutte le conseguenze del caso. Il “volto” del Signore si è mostrato e continua a essere presente, con questo “fatto” e contro le opinioni di tanti ciarlatani d’oggi: a ognuno di noi spetta fare i conti davanti al tribunale della propria sete infinita di libertà e felicità. LUCA VOLONTÉ 1. Cfr. L. GIUSSANI, Il senso religioso, Jaca Book, Milano 1986. 2. Sul caso specifico della mancata visita di Benedetto XVI alla Università

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“Sapienza” di Roma, cfr. L. volonté, Benedetta Sapienza Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. 3. A questo proposito, può essere di sicura utilità, su un piano filosoficomorale, approfondire il nesso tra realtà, verità e tentazioni falsificatorie nel breve e recente saggio di h.g. frinkfurt, Il piccolo libro della verità, Rizzoli, Milano 2007. 4. Come non ritrovare qui gli accenti della lettera del 17 marzo 1953 di C.S. Lewis a don Calabria, sulla diversità totale tra l’uomo precristiano e l’uomo postcristiano? Cfr. g. Calabria, c.s. lewis, Una gioia insolita. Lettere tra un prete cattolico e un laico anglicano, Jaca Book, Milano 1995. 5. Cfr. anche L. GIUSSANI, Il senso religioso, cit., cap. 14. 6. Cfr. L. Wittgenstein, Trattato Logico-Philosophicus, Einaudi, Torino 1968. 7. Cfr. μ. eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, Firenze 1996. 8. Sessant’anni dopo l’uscita de L’uomo eterno, la medesima esaltazione critica del modello romano si trova nel saggio Il futuro dell’Occidente di un altro cattolico, il grande storico Remi Brague, cfr. r. brague, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romana la salvezza dell’Europa, Bompiani, Milano 2005. 9. Cfr. L. GIUSSANI, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003. 10. Su questo cfr. il sociologo delle religioni R. Stark, Ascesi e affermazione del cristianesimo, Lindau, Torino 2007.

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L’uomo eterno

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Avvertenza preliminare QUESTO LIBRO HA BISOGNO di un’avvertenza preliminare perché il suo scopo non sia frainteso. Il punto di vista che vi si prospetta è piuttosto storico che teologico e non si riferisce se non molto indirettamente ad un’evoluzione religiosa che è stata il principale evento della mia vita, e intorno alla quale sto già scrivendo un altro volume di vera e propria controversia. Certo, non è possibile, per un cattolico, scrivere un libro su qualsivoglia argomento, specie su questo, senza dare a vedere di esser cattolico; ma il presente studio prescinde, si può dire, dalle differenze fra cattolicesimo e protestantesimo. Esso è in gran parte dedicato ad alcune categorie di pagani piuttosto che a qualche categoria di cristiani, e la sua tesi è questa: che coloro che dicono che cristo sta fianco a fianco con miti siffatti, e che la sua religione sta fianco a fianco con siffatte religioni, ripetono semplicemente una formula stantìa contraddetta da un fatto evidente. Per arrivare a questa conclusione non mi è stato necessario andare al di là di nozioni che sono alla portata di tutti; io non pretendo di insegnar niente, e piuttosto, com’è mio costume, debbo dipendere per molte cose da quelli che ne sanno più di me. Più d’una volta sono stato in disaccordo con H.G. Wells sul suo modo di concepire la storia; e ho perciò tanto maggior ragione di congratularmi con lui per il coraggio e l’ immaginazione costruttiva da lui portata nel suo vasto vario e interessante lavoro, e più ancora per aver egli asserito il 23

ragionevole diritto del dilettante a servirsi come meglio può del materiale che gli specialisti gli forniscono.

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Introduzione Piano di questo libro PER TORNARE A CASA SI PUÒ FARE IN DUE MODI: Ο non allontanarsene o fare il giro del mondo per ritrovarsi al punto di partenza. Questo viaggio l’ho già descritto in un mio romanzo. Ma ci sarebbe da scrivere un altro libro; e siccome non lo scriverò mai (e sarebbe il più bello, come tutti quelli che non ho scritto), me ne servirò come di un simbolo della verità che qui mi propongo di rappresentare. Il protagonista del romanzo che avevo concepito, e che non ho scritto, era un ragazzo che stava in una villa, o fattoria, sui fianchi scoscesi di una grande montagna; egli andava alla ricerca del simulacro e della tomba di un gigante, finché, essendosi voltato indietro da lontano a guardare il suo giardino e la sua casa, s’accorse che casa e giardino non erano che i colori e i quarti giganteschi dello scudo appartenente alla gigantesca figura che egli andava cercando. Non l’aveva mai vista perché era troppo grande e troppo vicina. Così, io mi propongo di dimostrare che la posizione che meglio permette di vedere il Cristianesimo, quando uno non ci sia dentro, è quella di esserne fuori. I critici del Cristianesimo generalmente non ne sono fuori; sono piuttosto su un terreno neutro, in tutti i sensi della parola. Sono pieni di dubbi sui loro stessi dubbi. Le loro critiche hanno assunto un tono curioso, come di provocazioni 25

confusionarie e analfabetiche. Fanno del pettegolezzo anticlericale. Criticano i preti per la veste talare; come se noi fossimo più liberi quando tutti i poliziotti, che ci pedinano e ci afferrano per il collo, si vestissero in borghese. Trovano da ridire perché le prediche non possono essere interrotte; e chiamano il pulpito castello della viltà. Ma non chiamano castelli di viltà le redazioni dei giornali. (Eppure, se mai, l’accusa - ingiusta in ogni caso - sarebbe meno ingiusta nel caso dei giornalisti. Almeno il prete si vede davanti all’altare, e può esser preso a pedate quando esce di chiesa; ma il giornalista nasconde anche il suo nome, e nessuno può pigliarlo a pedate). Questi signori scrivono articoli e lettere alla stampa sulle chiese che sono vuote; ma non vanno a vedere se sono vuote davvero e quali sono vuote. Scopriranno che la chiesa non ha impedito la guerra, e la copriranno d’improperi, quasi che essi avessero voluto o saputo impedirla. C’è - è vero - una corrente anticlericale e agnostica che profetizza l’avvento della pace universale; ma è proprio questa corrente che avrebbe dovuto sentirsi sconfitta e confusa dall’avvento della guerra universale. Dire che la guerra ha screditato la Chiesa, com’essi dicono, è lo stesso che dire che l’arca fu screditata dal diluvio. Questo è il loro atteggiamento caratteristico rispetto alla tradizione religiosa: un atteggiamento di reazione. Non sono come il ragazzo che vive nella fattoria paterna e nemmeno come il ragazzo che si volta indietro e vede che cosa rappresenta la fattoria. Essi si trovano in una vallata intermedia, da cui non possono vedere l’altura, né davanti né di dietro, pur essendo nel raggio della controversia cristiana. Non possono essere cristiani, e non possono cessare di essere anticristiani. Vivono nell’ombra della fede e hanno perduto la luce della fede. Per amare la nostra patria spirituale, bisogna esserle vicini; se no, il meglio è starne tanto lontani da non odiarla. 26

Il miglior giudice del Cristianesimo è il cristiano; ma, in mancanza del cristiano, il miglior giudice è il confuciano. Certo, il peggiore è chi è pronto a trinciar giudizi, il cristiano semi-istruito, gradualmente evolventesi in agnostico inquieto, imbarazzato nel conchiudere una discussione che non sa come cominci, e annoiato nel sentir parlare di cose che gli riescono nuove. Costui non giudica il Cristianesimo con la calma con cui giudicherebbe il confucianesimo; non può mettersi a migliaia di migliaia di distanza dalla Chiesa cattolica e giudicarla imparzialmente come una pagoda cinese. Narrano che san Francesco Saverio fallì in parte la sua missione perché i suoi seguaci finirono col rappresentare i dodici apostoli con gli attributi e il costume dei cinesi. Meglio, dico io, rappresentarseli come cinesi che come idoli informi fatti per esser demoliti dagl’iconoclasti; meglio cinesi che bersagli per le teste vuote. Meglio figurarsi la Chiesa come un remoto culto asiatico, le mitre dei vescovi come torreggiami copricapi di misteriosi bonzi, i pastorali come bastoni attorcigliati di serpenti, la croce ricurva come la svastica. Invece i nostri anticlericali partono da un’atmosfera di negazione e di ostilità, a cui non possono sfuggire. Ad essi, poiché la loro reazione è diventata ossessione, vorrei raccomandare sul serio lo sforzo di concepire i dodici apostoli come cinesi; vorrei che girassero intorno alla Chiesa come se fosse una pagoda, piuttosto che rimanere sotto il portico impotenti tanto ad entrarvi dentro e partecipare alle funzioni come ad andarsene e non pensarci più; vorrei che questi critici rendessero giustizia ai santi cristiani come se si trattasse di saggi pagani. Venendo alla questione essenziale, io mi proverò in queste pagine a dimostrare che, quando facciamo lo sforzo di vedere l’insieme del Cristianesimo dal di fuori, troviamo che esso corrisponde a quel Cristianesimo che 27

tradizionalmente conosciamo dal di dentro. Quando il ragazzo del mio romanzo è abbastanza lontano per vedere il gigante, allora egli vede che si tratta realmente di un gigante. In altri termini, quando si arriva ad essere imparziali con la Chiesa, si capisce come e perché la gente parteggi per la Chiesa. Ma questo punto è bene approfondirlo. Non appena io ebbi chiaro nella mia mente, come qualche cosa di tangibile, il carattere unico ed eccezionale della storia divina, quello che mi colpì fu che esattamente lo stesso carattere singolare e tangibile avevo riscontrato nella storia umana, in quanto la storia umana aveva le sue radici nel divino. La Chiesa stava alla vita religiosa dell’umanità esattamente come l’umanità stava alla natura. Si cerca di sofisticare la storia per attenuare la brusca transizione dall’animale all’uomo, e successivamente la brusca transizione dal paganesimo al Cristianesimo. Ora, queste transizioni più si guardano con spirito realistico e più si vede che sono brusche. I critici non vedono il distacco perché non sanno distaccarsi, non sanno guardare le cose in quella luce netta che permetta loro di distinguere il bianco dal nero. Il loro atteggiamento di reazione e di rivolta fa veder loro il bianco come grigio sporco e il nero non così nero come si dipinge. Un tale atteggiamento può essere umanamente scusabile, e fors’anche simpatico, ma non è scientifico. L’iconoclasta può essere indignato, e giustamente indignato, ma non è mai imparziale. Allo stesso modo i nove decimi dei critici autorevoli, degli scienziati evoluzionisti, dei professori di religione comparata non sono, e non possono essere, imparziali. Sarebbe ipocrisia pretenderlo: come si può essere imparziali in una questione per cui tutto il mondo è in guerra per sapere se si tratti di una superstizione distruggitrice o di una speranza divina? Non sarò imparziale nemmeno io, ma certamente più di loro; almeno nel senso che esporrò i fatti obiettivamente con 28

un po’ di immaginazione ma senza unilateralità. Sono imparziale almeno nel senso che mi vergognerei di dire intorno al Dalai Lama del Tibet le sciocchezze che essi dicono intorno al Papa di Roma, o di mettere in cattiva luce Giuliano l’Apostata com’essi mettono la Compagnia di Gesù. Essi non sono imparziali in linea generale; e soprattutto non sono imparziali su questa particolare questione dell’evoluzione: in tutte le occasioni cercano di insinuare la grigia gradualità del crepuscolo perché credono che sia il crepuscolo degli dei. Io sostengo che, sia non sia il crepuscolo degli dei, è certo che non è l’aurora degli uomini. Sostengo che ci sono almeno due cose che, viste alla luce del giorno, sono totalmente e indiscutibilmente uniche e strane: la creatura chiamata Uomo, e l’uomo chiamato Cristo. Perciò ho diviso il libro in due parti: nella prima traccerò uno schizzo della principale avventura dell’umanità pagana; nella seconda riassumerò la reale differenza operatasi col passaggio al Cristianesimo. Per far ciò, è necessario un certo metodo: un metodo che è difficile seguire, e più difficile ancora definire e difendere. Per mantenere il tono dell’imparzialità, è necessario toccare il tasto della novità. Noi vediamo una cosa obiettivamente quando la vediamo per la prima volta. Perciò i fanciulli non trovano difficoltà messi alle prese coi dogmi della Chiesa. Ma la Chiesa è fatta per gli uomini e non soltanto per i fanciulli; per i suoi fini pratici essa deve avere un insieme di tradizioni, di abitudini, di routine. Quando le sue dottrine fondamentali sono sentite, tanto meglio; ma quando, come oggigiorno, sono revocate in dubbio, bisogna sforzarsi di riacquistare il candore e lo stupore dei fanciulli, il realismo e l’obiettività dell’innocenza; e se questo non è possibile, dobbiamo almeno scuotere la nuvolaglia delle abitudini e veder le cose come nuove (anche se nuovo debba significare innaturale). 29

Spieghiamoci con un esempio: un esempio di qualche cosa che sia stato sempre considerato bello e ammirabile. Giorgio Wyndham mi raccontava di quando vide per la prima volta volare un aeroplano: gli parve una cosa meravigliosa, ma non tanto quanto un uomo che va a cavallo. Si vuol dire che non c’è al mondo niente di più bello che un bell’uomo su un bel cavallo. Ora, finché uno sente da sé certe cose, tutto va benissimo. Nessuno può esser meglio in grado di apprezzare la bellezza del cavallo che chi ha la tradizione e la passione del cavallo. Un giovinetto che ricordi suo padre che andava a cavallo, che cavalcava e amava il suo cavallo, troverà normali e soddisfacenti i rapporti degli uomini con i cavalli, e deplorerà che i cavalli non siano tenuti bene perché sa come si tengono. Egli avrà dell’uomo a cavallo una visione sana; e non darà retta ai filosofi moderni che vorranno spiegargli che tocca al cavallo a cavalcare l’uomo. Né seguirà le pessimistiche fantasie di Swift nell’esaltazione dei cavalli. E poiché uomo e cavallo costituiscono per lui un’immagine perfettamente umana e civile, facilmente eleverà tale immagine a simbolo eroico, come la divina visione di san Giorgio. Troverà non innaturale la favola del cavallo alato, e capirà perché l’Ariosto abbia posto un cavaliere cristiano sopra una sella aerea e fatto di lui un cavaliere del cielo. Con la parola “cavalleria” il nome del cavallo è stato associato al momento più alto e più nobile dell’umanità; sicché potremmo dire che il più bel complimento che si possa fare a un uomo è di chiamarlo cavallo. Ma se uno non è capace di un siffatto sentimento, di una siffatta maraviglia di fronte al cavallo, allora è il caso di fare il cammino inverso. Dobbiamo supporre uno per il quale stare su un cavallo sia come stare su una sedia. L’ammirazione di cui parlava Wyndham, la bellezza delle statue equestri, il significato della cavalleria, possono esser 30

diventate per lui niente più che noiose convenzioni. Forse erano una moda, forse non sono più di moda; forse gliene hanno parlato troppo, o gliene hanno parlato a sproposito. Per lui la carica di suo nonno a Balaclava è roba stupida e polverosa come l’album contenente i vecchi ritratti di famiglia. L’album, anziché illuminarlo, gli ha annebbiato la vista con la sua polvere. Ma, arrivato a questo punto - a questo grado di cecità -, non ritroverà la visione del cavallo se non come di una cosa totalmente originale e inconsueta. Sotto ignoti cieli, viene verso di noi da un’oscura foresta, con suono e movimento di danza, la più strana delle creature preistoriche. Un collo più lungo e più grande della testa, e sulla linea superiore del lungo collo una sproporzionata cresta di peli, come una barba fuori posto; il piede - solo fra tanti piedi animaleschi — sodo e tutto d’un pezzo. Mostro veramente unico, e non per fantasia verbale, se mostro significa una cosa realmente unica. Vedendolo come lo vide il primo uomo, possiamo cominciare a capire che cosa deve aver provato il primo uomo che lo cavalcò. In una tale immaginazione potrà parere brutto ma non insignificante; e non potrà certamente parere insignificante il nano con due gambe che vi salta sopra. Per una via più lunga e impervia arriveremo, se possibile, ad una meraviglia ancora più ammirabile di quella del cavallo e del cavaliere, una meraviglia più gloriosa: san Giorgio che cavalca non un cavallo ma un drago. Fra l’incubo dell’uomo della foresta e la constatazione dell’uomo civile che s’affaccia in una stalla, non so dire dove sia più meraviglia o più verità. Dico che la verità si trova in uno di questi due estremi, e si perde nello stadio ambiguo e intermedio: meglio vedere nel cavallo un mostro che un cattivo surrogato dell’automobile. Ora, quel che vale per il mostro noto sotto il nome di cavallo, vale per il mostro noto sotto il nome di uomo. 31

Naturalmente, a mio giudizio, il miglior modo di considerare l’uomo è quello di considerarlo secondo la mia filosofia. Chi vede le cose da un punto di vista cristiano e cattolico, avvertirà che questo punto di vista è il punto di vista giusto e universale, e ne sarà soddisfatto. Ma se uno non riesce più a mettersi dal punto di vista giusto, non gli resta che farsene un’idea fantastica: veder l’uomo come uno strano animale e rendersi conto di quanto sia strano. Allo stesso modo che il vedere nel cavallo un prodigio preistorico ricondurrà, anziché distogliercene, ad un’ammirazione per il dominio dell’uomo, così un esame realmente disinteressato del curioso fenomeno umano, ricondurrà all’antica fede negli arcani e imperscrutabili disegni della Provvidenza. In altre parole, quando vediamo che bizzarro quadrupede sia il cavallo, lodiamo l’uomo che vi monta sopra; quando vediamo che bizzarro bipede sia l’uomo, lodiamo Dio che l’ha creato. Scopo di questa introduzione sarebbe insomma di sostenere questa tesi: che quando cerchiamo nell’uomo l’animale, vediamo che non è un animale; quando ci proviamo a dipingerlo come una sorta di cavallo ritto sulle gambe di dietro, proprio allora ci appare come qualche cosa di miracoloso, come il cavallo alato che trotta sulle nubi del cielo. Tutte le strade conducono a Roma, e tutte riconducono alla nostra filosofia centrale e civile, comprese quelle che passano attraverso al paese delle fate e agli antipodi. Ma è preferibile non aver mai lasciato il paese delle ragionevoli tradizioni, dove gli uomini cavalcano leggeri sui cavalli e sono fieri cacciatori al cospetto del Signore. Se si potesse raccontare la storia soprannaturale di Cristo come la storia di un eroe cinese - chiamandolo Figlio del Cielo invece che Figlio di Dio, e tracciandogli l’aureo nimbo intorno al capo in filo cinese o in lacca cinese anziché 32

nei colori dei nostri vecchi pittori cattolici — unanime sarebbe la testimonianza della spirituale purità di una tal fede. Non si sentirebbe parlare di ingiustizia, di illogicità, di esagerazioni superstiziose. Ammireremmo come una concezione cavalleresca il fatto di un Dio sceso dal cielo a combattere contro i draghi e a salvare i cattivi dall’esser divorati per i loro falli e per le loro follie; ammireremmo la saggezza superiore ed esoterica dei cinesi affermante che ci sono più alte leggi cosmiche di quelle che conosciamo. Non si presta forse ascolto a ogni stregone indiano che ci parla nello stesso stile? Se il Cristianesimo fosse soltanto una nuova moda orientale, nessuno gli rimprovererebbe di essere una vecchia fede orientale. Io non mi propongo di seguire il citato esempio dei seguaci di san Francesco Saverio, e di trasformare gli apostoli in mandarini. Non mi propongo di mettere in opera un giuoco la cui riuscita del resto sarebbe praticamente sicura: quello di raccontare la storia del Vangelo e della Chiesa trasportandola in un ambiente di pagode e di codini, e di divertirmi malignamente a vederla ammirata come storia pagana da quelli stessi che la condannano come storia cristiana. Io mi propongo nient’altro che di mantenere un tono di novità e di sorpresa; e per questa ragione lo stile, anche su un soggetto così serio, potrà qualche volta essere deliberatamente grottesco e fantasioso. Desidero aiutare il lettore a vedere il Cristianesimo dal di fuori, in blocco, sullo sfondo della storia; come desidero che egli veda l’umanità, in blocco, sullo sfondo della natura. E dico che, viste così, la Chiesa e l’umanità appariranno come cose soprannaturali. Esse non si sbiadiranno sul resto come in una pittura impressionistica; ma risalteranno coi colori dell’araldica: vivide come una croce rossa su uno scudo bianco o come un leone nero in campo d’oro. Ma per vedere queste due cose chiaramente, dobbiamo 33

vederle interamente. Dobbiamo vedere come si sviluppano, e dobbiamo vedere come cominciano: la parte più incredibile della storia è che cose che cominciarono in un certo modo si siano sviluppate in un certo modo. Chi voglia indulgere all’immaginazione, può immaginare che siano accadute cose del tutto diverse o si siano sviluppate in entità del tutto diverse. Ognuno che pensa a ciò che poteva accadere, può concepire una specie di eguaglianza evoluzionistica; chi guarda a quel che è accaduto, converrà di trovarsi di fronte a un’eccezione e a un prodigio. Se c’è mai stata un’epoca in cui l’uomo fu soltanto un animale, proviamoci a immaginare l’evoluzione umana trasferita in un altro animale: elefanti che costruiscono edifici in architettura elefantina, con torri e torrette simili a zanne e proboscidi, e città in proporzioni colossali; più divertente ancora sarebbe la vacca che sviluppa il proprio abbigliamento e si mette quattro stivali e due paia di calzoni. Potremmo immaginare una superscimmia più meravigliosa di qualunque superuomo: una bestia quadrumane, che con due mani dipinge e scolpisce, e con le altre due fabbrica utensili e fa da cucina. Ma se consideriamo quel che accadde nella realtà, troveremo che l’uomo ha distanziato qualunque immaginazione e aspettativa con distanze astronomiche e rapidità fulminee. E così, se ci proviamo a veder la Chiesa fra un ammasso di superstizioni mitraiche e manichee in rissa fra loro alla fine dell’Impero, e se ci proviamo a immaginare la Chiesa distrutta in questa lotta e un’altra religione installarsi al suo posto, saremo tanto più sorpresi e imbarazzati a ritrovarla dopo venti secoli, antica e nuova, in corsa attraverso le età come una fòlgore alata di pensiero e di sempiterno entusiasmo, senza nulla che possa rassomigliarle o rivaleggiare con lei.

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Parte prima La creatura chiamata uomo

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Capitolo I L’uomo nella caverna IN CIELI INFINITAMENTE REMOTI fa parte di una strana, lontana, costellazione una piccola stella, che gli astronomi possono scoprire un giorno o l’altro. Per lo meno, non mi pare - dalla faccia e dal comportamento di molti astronomi e scienziati - che l’abbiano ancora scoperta; sebbene, in realtà, essi ci passeggino sopra dalla mattina alla sera. E’ una stella che produce strane piante e strani animali, fra i quali il più strano di tutti è quell’animale che si chiama scienziato. così comincerei la mia storia del mondo, se dovessi uniformarmi alla scientifica consuetudine di cominciare con un cenno sull’universo astronomico. Cercherei, anche, di guardare la terra dal di fuori e non per insistere noiosamente sulla sua posizione rispetto al sole ma per sforzare la mia immaginazione a concepirla dal punto di vista di uno spettatore extraumano. Soltanto, non credo di potermi abbastanza extraumanare per studiare l’umanità. non credo d’altra parte di fermarmi sulle distanze che si suppone riescano a rimpicciolire il mondo; secondo me, è una banalità questa di voler sopraffare lo spirito con le dimensioni. e poiché il primo proposito - quello di rendere la terra interessante considerandola come un pianeta nuovo e misterioso - non è attuabile, nemmeno mi abbasserò all’altro trucco di farla piccola per farla insignificante. Insisterei piuttosto sul fatto che non sappiamo neanche che 36

la terra è un pianeta, nel senso in cui sappiamo che è un posto, e un posto straordinario anzichenò. È questo il tasto sul quale mi piace di battere fin da principio, e non tanto astronomicamente ma familiarmente parlando. Una delle mie prime avventure, o disavventure, giornalistiche riguarda una mia critica a Grant Allen, che aveva scritto un libro sull’evoluzione dell’idea di Dio. Io mi ero azzardato a dire che sarebbe stato più attraente un libro scritto da Dio sull’evoluzione dell’idea di Grant Allen. Ricordo che il direttore del giornale trovò da ridire sulla mia osservazione che, a suo giudizio, era blasfema; il che naturalmente mi divertì non poco. Mi divertiva il fatto che non gli fosse passato per la testa che veramente blasfemo era invece il titolo del libro, il quale, tradotto in buona lingua, significherebbe: «Vi farò vedere io come ha preso piede fra gli uomini questa sciocca idea che c’è un Dio». Nella mia osservazione non c’era nulla di irriverente e di eterodosso: era un’affermazione dell’intervento divino anche nei fatti più apparentemente oscuri e irrilevanti. In quella circostanza imparai molte cose; fra l’altro, che certa specie agnostica di reverenza è qualche volta un fenomeno puramente acustico. Il direttore non aveva capito nulla, perché nel titolo del libro veniva prima la parola lunga e poi quella corta, mentre nella mia critica la parola corta, messa lì al principio, gli aveva prodotto una scossa al sistema nervoso. Ho notato che se si mette una parola come Dio in una stessa frase con un altro monosillabo improvviso e angolare, ciò fa sulla gente l’effetto di una pistolettata, indipendentemente dall’interpretazione della frase, che può esser lasciata alle sterili dispute di sottili teologi1. Ma quando si comincia con una parola lunga come evoluzione, si può esser sicuri che tutto il resto passa liscio: probabilmente il mio direttore non aveva letto tutto il titolo, che era troppo lungo per un uomo d affari. 37

Questo fatterello m’è sempre rimasto in mente come una specie di parabola. La maggior parte delle moderne storie dell’umanità cominciano con la parola evoluzione, e con un’esposizione piuttosto diffusa dell’evoluzione, per la stessa ragione - né più né meno - che valse nel caso che ho detto. C’è qualche cosa di piano, di blando e di graduale attorno alla parola e anche attorno all’idea. In realtà non è, come punto di partenza, né una parola molto pratica né un’idea molto profittevole. Nessuno può immaginare come il niente diventi qualche cosa. E nessuno può avvicinarsi di un pollice alla spiegazione di tale mistero spiegando come qualche cosa si trasmuti in qualche altra cosa. E’ più logico cominciare col dire «da principio Iddio creò il cielo e terra», anche se uno intenda «da principio una potenza incomprensibile diede impulso a un moto incomprensibile». Dio è per sua natura un nome di mistero e nessuno ha mai supposto che gli uomini possano immaginare come il mondo fu creato più di quel che siano capaci di crearne un altro. Ma l’evoluzione facilmente è scambiata per una spiegazione. Essa fatalmente autorizza molti cervelli a credere di capir questo e altro; allo stesso modo che c’è chi vive nell’illusione di aver letto l’origine della specie. Questa idea di qualche cosa di lento e di graduale come l’ascesa di un declivio è illusoria. Illusoria quanto illogica; perché la lentezza non risolve affatto la questione. Che un evento sia intrinsecamente intelligibile e inintelligibile non dipende dalla velocità con cui si produce. Per uno che non crede ai miracoli, tanto vale un miracolo avvenuto a poco a poco quanto uno fatto all’improvviso. La maliarda greca può avere o non aver trasformato i naviganti in porci con un colpo di bacchetta. Ma il vedere un ufficiale di marina di nostra conoscenza assumere ogni giorno di più l’aspetto di un maiale fino a metter fuori quattro zampette e 38

un codino arricciato, non sarebbe mica più persuasivo. Sarebbe anzi più misterioso e pauroso. La strega del Medioevo può avere o non aver cavalcato per l’aria dalla cima d’una torre; ma un vecchio signore che andasse piano piano a diporto per l’aria, esigerebbe pure una spiegazione. Eppure il razionalismo è riuscito a imporre nel campo della storia questa curiosa e confusa idea; che le difficoltà sono evitate e i misteri eliminati per il solo fatto di indugi e di dilazioni nel corso del fenomeni. Ci torneremo sopra con particolari esempi: qui basti aver accennato a questa falsa aria di facilità e di sollievo data dalla pura suggestione della lentezza: quella specie di sollievo che può rassicurare una vecchia dama nervosa portata per la prima volta in automobile. H.G. Wells ha confessato di essere un profeta; e in questa materia è stato profeta a sue spese. E strano che la sua prima novella fantastica sia un’esauriente risposta al suo ultimo libro di storia. La Macchina del Tempo demolì preventivamente tutte le confortanti conclusioni basate sulla relatività del tempo. In quella fantasmagoria sublime l’eroe vede esplodere i razzi verdi degli alberi, e scoppiare l’incendio verdeggiante della vegetazione, e il sole lanciato nello spazio da levante a ponente con la rapidità di una meteora. Tutte cose che per lui è naturale vadano con quella velocità, e per noi è soprannaturale che vadano con questa lentezza. La questione ultima è il perché vadano; e ognuno che si renda conto di questa questione ammetterà che si tratta di una questione religiosa; o ad ogni modo filosofica o metafìsica. Certissimamente non penserà che la questione possa risolversi sostituendo un’evoluzione graduale a un’evoluzione brusca; o in altre parole allungando o accelerando la stessa storia, come si fa con la manovella al cinematografo. Ora, quel che occorre per questi problemi dell’esistenza 39

primitiva è qualche cosa che si avvicini ad uno spirito primitivo. Vorrei che il lettore facesse con me un esperimento di semplicità foggiandosi questa visione delle cose primordiali. E per semplicità non intendo stupidità, ma una specie di lucidità che afferra le cose, cioè la vita, piuttosto che le chiacchiere come la parola evoluzione. Al qual proposito sarebbe meglio realmente girare la manovella della macchina del tempo con un poco più di sveltezza e veder l’erba che cresce e gli alberi che salgono verso il cielo, se questo esperimento potesse servire a costringere, concentrare e rendere palpabile il verificarsi del fenomeno. Quel che noi sappiamo — nel senso che non sappiamo nient’ altro - è che gli alberi e l’erba vengono su, e che molte altre cose straordinarie si verificano: strane creature si sostengono nella vuota aria battendola con certi ventagli di varia forma; altre veleggiano silenziose e precise sotto una massa impotente di acque; altre camminano su quattro gambe e la più strana di tutte cammina su due. Questi sono fatti e non teorie: al confronto di questi fatti l’evoluzione, e l’atomo, e perfino il sistema solare non sono che teorie. Qui siamo in tema di storia e non di filosofia; e nessun filosofo nega il mistero che ancora nascondono le due grandi transizioni: l’origine dell’ universo e l’origine della vita. Molti filosofi vi aggiungono un terzo mistero: l’origine dell’uomo. In altre parole, un terzo ponte fu costruito attraverso un terzo abisso dell’incomprensibile quando comparve nel mondo quel che noi chiamiamo ragione o volontà. L’uomo non è soltanto una evoluzione ma una rivoluzione. Che egli abbia una spina dorsale sul modello di quella degli uccelli e dei pesci, è un fatto ovvio, qualunque ne sia la portata. Ma se noi provassimo a guardarlo come un quadrupede che si regga sulle gambe di dietro, troveremmo il seguito assai più fantastico e sovversivo che se egli si reggesse sulla testa. 40

Un esempio può servire da introduzione alla storia dell’uomo. Esso illustra quel che intendo dire quando affermo che una certa immediatezza infantile è necessaria per scorgere la verità intorno all’infanzia del mondo. Esso illustra quel che intendo dire quando affermo che un miscuglio di scienza popolare e di gergo giornalistico ha confuso i fatti intorno alle cose prime, così che non ci è più possibile distinguere che cosa realmente viene prima. Esso illustra ciò che intendo per necessità di vedere le spiccate differenze che danno una forma alla storia invece di lasciarsi sommergere in queste generalizzazioni della gradualità e della identità. Noi cerchiamo, secondo la frase di Wells, il profilo della storia. Ma possiamo ben dire, secondo la frase di Mantalini, che questa storia evoluzionistica non ha un profilo, o è un profilo approssimativo. Soprattutto poi illustra quel che voglio dire quando dico che più noi consideriamo l’uomo come un animale e più egli riuscirà a non sembrarci tale. Tutti i nostri romanzi e giornali sono oggi pieni di allusioni a un tipo popolare detto l’uomo della caverna. Il quale sembra esserci familiare non soltanto nei riflessi pubblici ma anche come uomo privato. La sua psicologia è presa in seria considerazione nel romanzo psicologico come nella medicina psicologica. A quanto ci dicono, la sua occupazione nella vita era quella di battere la moglie o di trattare, in genere, le donne con quel che, nel mondo cinematografico, si dice, se non erro, «rough stuff». Non ho mai potuto chiarire bene questo punto; e non so in quali diari primitivi o in quali preistorici processi di divorzio possa trovar fondamento. Né, come ho spiegato altrove, sono stato mai capace di vederne la probabilità, anche considerando la cosa a priori. C’è sempre stato detto e ripetuto, senza alcuna spiegazione o autorità, che l’uomo primitivo agitava un bastone e prima di portarsi via la donna 41

glielo dava fra capo e collo. Ma, a voler trarre analogie dal mondo animale, parrebbe una riluttanza e una modestia quasi morbosa, da parte della signora, insistere per avere una legnata prima di farsi condurre a nozze. E io ripeto che non posso comprendere come mai se il maschio era tanto villano la femmina dovesse essere così raffinata. L’uomo della caverna può essere stato un bruto, ma non c’è ragione che dovesse essere più brutale dei bruti. Gli amori delle giraffe e i romanzi rivieraschi degli ippopotami si son sempre svolti senza alcun preliminare fracasso. L’uomo della caverna può non essere stato migliore dell’orso della caverna; ma l’orsacchiotta, famosa nell’innologia, non è stata tirata su con alcuna particolare tendenza allo stato nubile. Insomma, questi particolari sulla vita domestica della caverna mi mettono in grave imbarazzo fra l’ipotesi evoluzionistica e l’ipotesi statica; mi piacerebbe comunque avere qualche prova in favore dell’una o dell’altra; ma disgraziatamente non riesco a trovarla. Il curioso è che, mentre decine di migliaia di lingue più o meno scientifiche o letterarie parlano insieme di questo nostro disgraziato progenitore, appellandolo uomo della caverna, si trascura la circostanza più rilevante, la sola che dia diritto di parlare di lui come dell’uomo della caverna. La gente usa questa denominazione vaga in venti maniere altrettanto vaghe; ma ha sempre dimenticato di esaminare questa denominazione per il valore che letteralmente ha. Tutti s’interessano dei fatti dell’uomo della caverna, ma nessuno sa dire che cosa faceva nella caverna. Ora, se c’è qualche cosa di provato, è proprio a proposito di quel che faceva nella caverna. Poca cosa, come ogni prova riferentesi alla preistoria, ma è cosa che riguarda il vero uomo della caverna e la sua caverna, e non l’uomo della caverna letterario e il suo bastone. Questa prova, col nostro senso realistico, la prenderemo per quel che essa è, e non la 42

sforzeremo oltre il suo valore. Quel che si trovò nella caverna non fu il bastone, l’orribile bastone insanguinato e scheggiato con tante donne a cui aveva rotto la testa. La caverna non era una camera di Barbablù piena di scheletri di donne assassinate; non era piena di teschi femminili schiacciati e messi in fila come tante uova al tegamino. Era qualche cosa che non aveva niente che fare con le moderne frasi e deduzioni filosofiche e con le frange letterarie che c’ingarbugliano tutto il problema. E se vogliamo che questo autentico spiraglio sul mattino del mondo ci appaia quale realmente è, sarà molto meglio concepire anche la storia della sua scoperta come una delle tante leggende del paese dell’aurora. Sarebbe meglio che il racconto di questa scoperta avesse la semplicità di quello che narra la storia degli eroi che trovarono il vello d’oro o i giardini delle Esperidi, se a noi fosse dato di evadere dalla nebbia delle teorie e delle polemiche verso i chiari colori e i nitidi contorni di quell’alba. I vecchi poeti epici sapevano almeno come raccontare una storia, possibilmente grande, non mai contorta, non mai torturata e deformata per adattarla a teorie e a filosofie inventate alquanti secoli più tardi. Sarebbe bello che i moderni esploratori sapessero descrivere le loro scoperte nello stile coraggioso dei primi viaggiatori, e senza nessuna di quelle lunghe parole allusive piene di sottintesi e di suggestioni che non significano nulla. Allora potremmo veramente apprezzare quel che sappiamo intorno all’uomo della caverna, o - quanto meno - intorno alla caverna. Un prete e un ragazzo entrarono tempo fa in una buca scavata nel fianco di un monte e s’introdussero in una specie di sotterraneo, che conduceva a un labirinto di chiusi e segreti corridoi. Arrampicatisi per crepacci quasi impraticabili, strisciarono attraverso oscuri canali che sembravano fatti per le talpe, si calarono dentro profondità 43

paurose come pozzi, parvero seppellirsi vivi sette volte al di là di ogni speranza di resurrezione. Tutto ciò è il luogo comune di qualunque audace esplorazione; ma qui ci vorrebbe chi mettesse tale storia in una luce primitiva in cui non fosse più luogo comune. C’è, per esempio, qualche cosa di stranamente simbolico nella coincidenza che siano stati un prete e un fanciullo - i simboli dell’antichità e della giovinezza - i primi a penetrare in quel mondo sommerso. Ma qui, per me, è più interessante il simbolismo del ragazzo che quello del prete. Chiunque ricordi la sua infanzia, immagina che cosa rappresenti per un ragazzo il poter passare, come Peter Pan, sotto un tetto formato dalle radici degli alberi, e scendere sempre più giù fino a raggiungere le radici delle montagne, come le chiamava William Morris. Supponete ora questo ragazzo, col semplice e sano realismo dell’innocenza, che persegue il suo viaggio fino alla fine, non per farne materia di discussione in qualche polverosa rivista, ma per il solo desiderio di vedere. Quel che egli vede è una caverna così appartata dalla luce del giorno che avrebbe potuto essere la leggendaria caverna di Domdaniele che era sotto il fondo del mare. Questo gabinetto segreto nel cuore della roccia, illuminato finalmente dopo la lunga notte d’innumerevoli età, mostrava sulle sue pareti dei grandi e larghi schizzi tracciati con terre di diverso colore; e seguendone le linee gli esploratori vi riconoscevano, dopo tanta lontananza di evi, il movimento e il gesto della mano di un uomo. Erano disegni o pitture di animali; ed erano disegnati o dipinti non da un uomo, ma da un artista. Quali che ne fossero le arcaiche imperfezioni, pure rivelavano quell’amore dell’ampia linea diritta o rotondeggiante, che ognuno che abbia preso in mano un pennello o una matita è pronto a riconoscere, e su cui nessun artista permetterà mai di essere contraddetto, da nessuno scienziato. Rivelavano lo spirito avventuroso e 44

sperimentale dell’artista, lo spirito che non scansa ma affronta le difficoltà: così, dove il disegnatore ha rappresentato una figura di cervo, che volta la testa annusando verso la coda, un atteggiamento che si può osservare nei cavalli. E ci sono molti moderni pittori di animali, che metterebbero dell’impegno a doverlo riprodurre. In questo e in venti altri particolari appare chiaro che l’artista aveva osservato gli animali con un certo interesse e presumibilmente con un certo piacere. Si direbbe che non sia stato soltanto un artista, ma un naturalista: un naturalista veramente naturale. Inutile notare, se non di passaggio, che non c’era nulla nell’atmosfera di quella caverna che suggerisse l’oscura e pessimistica atmosfera della caverna giornalistica, che soffia e strombazza intorno a noi innumerevoli echi sull’uomo della caverna. Per quanto è possibile intravedere del carattere umano sulle tracce del passato, questo carattere è certamente umano e perfino umanitario. Non è certo il prototipo del carattere inumano, come l’astrazione evocata dalla scienza popolare. Quando romanzieri, pedagogisti e psicologi di tutte le risme parlano dell’uomo della caverna, essi non lo concepiscono mai in relazione a qualche cosa di realmente esistente nella caverna. Quando il romanziere erotico-realistico scrive: «Rosse faville sprizzavano dal cervello di Dagmar Doubledick, lo spirito dell’uomo della caverna si risvegliava in lui», i lettori proverebbero una seria delusione se Dagmar venisse fuori a tracciare delle grandi vacche dipinte sulle pareti del salotto. Quando lo psicoanalista scrive all’ammalato: «Sono gl’istinti sommersi dell’uomo della caverna che vi fanno cedere ad un impulso di violenza», egli non allude all’impulso di dipingere all’acquarello, o di fare un accurato studio del come le bestie muovon la testa mentre stanno al pascolo. Eppure noi sappiamo, sulla base di un fatto, che l’uomo della caverna 45

faceva appunto queste cose miti e innocenti; manca invece la minima prova che egli abbia fatto delle cose violente e feroci. In altre parole l’uomo della caverna, quale ci viene presentato, non è che un mito, o — meglio - un pasticcio; che il mito ha almeno un substrato immaginativo di verità. Il corrente modo di parlare non è che una confusione e un malinteso, senza alcun appoggio scientifico, e unicamente volto a fornire pretesti a una modernissima moda di anarchia. Se il signore vuol picchiare le donne, è padronissimo di comportarsi come un mascalzone senza incomodare l’uomo della caverna, di cui non sappiamo quasi niente, eccetto quel che possiamo ricavare da poche graziose e innocue pitture tracciate sopra una parete. Ma non è questo l’importante, né questa è la particolare morale che si può trarre da quei disegni o pitture. Quella morale è qualche cosa di più largo e di più semplice, così larga e semplice che quando si enuncia rischia di parere infantile. E tale è infatti nel senso più elevato; ed ecco perché l’ho inseguita, per così dire, in questa narrazione attraverso gli occhi di un fanciullo. E’ quanto di più evidente abbia trovato di fronte a sé il fanciullo nella caverna; ed è forse troppo evidente per esser visto. Se il fanciullo era della parrocchia, si può presumere che era stato allevato in una certa atmosfera di senso comune, di quel senso comune che spesso ci soccorre sotto forma di tradizione. In tal caso egli avrebbe riconosciuto l’opera dell’uomo primitivo come opera d’un uomo, interessante ma non incredibile come primitiva. Avrebbe visto quel che c’era da vedere; e non avrebbe tentato di vedere quel che non c’era, per infatuazione evoluzionistica o per una ipotesi di moda. Se egli ne avesse sentito parlare avrebbe ammesso naturalmente che l’ipotesi poteva esser vera, e non incompatibile con fatti che erano veri. L’artista poteva benissimo aver manifestato un altro tratto del suo carattere 46

accanto a quello di cui era rimasta traccia nell’opera d’arte. L’uomo primitivo poteva benissimo aver preso gusto a picchiar le donne come a dipingere animali; quel che possiamo dire è che le sue pitture ci ricordano quest’ultima tendenza e non la prima. Può darsi che l’uomo della caverna quando smetteva di saltare addosso a sua madre o a sua moglie, secondo i casi, amasse ascoltare il gorgoglio dei ruscelli, e guardare i daini che scendevano ad abbeverarsi. Tutte cose non impossibili, ma irrilevanti. Il senso comune del ragazzo si limita a dedurre dai fatti quel che i fatti gli insegnano; e le pitture della caverna sono press’a poco tutti i fatti di cui dispone. Per rimanere nei limiti di quel che è dimostrato, il ragazzo può arrivare a sostenere che un uomo ha disegnato degli animali con un sasso e con della terra rossa, allo stesso modo che i ragazzi come lui si provano a disegnare degli animali col carbone e col gesso colorato. L’uomo ha disegnato un cervo, come lui ha disegnato un cavallo: perché era divertente. L’uomo ha disegnato un cervo con la testa voltata come lui ha disegnato un porcellino con gli occhi chiusi: perché era difficile. L’uomo e il ragazzo, esseri umani, sarebbero uniti dalla fraternità umana; e la fraternità umana è più grande quando varca gli abissi delle età che quando varca il solco delle classi. Comunque egli non vedrebbe alcuna dimostrazione del crudo evoluzionismo dell’uomo primitivo; perché non c’è alcuna dimostrazione possibile. Se qualcuno gli dicesse che quelle pitture le ha fatte san Francesco per puro e santo amore verso gli animali, non troverebbe, nella caverna, nulla da obiettare. C’era una signora, la quale insinuava, semi-sorridendo, che quella caverna era un ricovero per bambini e che quelle figure sulle pareti erano fatte per divertirli, come ora gli asili infantili hanno le pareti adorne di diagrammi di giraffe e di elefanti. Lo scherzo può suggerire altre ipotesi 47

che siamo pronti ad accettare. Le pitture non provano nemmeno che l’uomo della caverna vivesse nelle caverne, come la scoperta di una cantina a Balham (dopo che quel suburbio è stato distrutto dalla collera divina o umana) non prova che le classi medie dell’epoca vittoriana vivessero sottoterra. La caverna può avere avuto un particolare scopo come la cantina: potrebbe essere stata una cappella per le preghiere, o un rifugio in tempo di guerra, o una sala per le adunanze di una società segreta, o tante altre cose. Vero è che la sua decorazione artistica ha più della gaiezza di una nursery che della furia o dell’orrore di una visione anarchica. Ho pensato a un bambino abitante nella caverna; ed è facile pensarlo, oggi o mille secoli fa, nell’atteggiamento vivace di chi accarezzi gli animali dipinti sulle pareti. In quel gesto è adombrato, come vedremo più tardi, il presagio di un’altra caverna e di un altro bambino. Ma supponiamo che il ragazzo abbia frequentato non la parrocchia ma la scuola, e che sia stato a scuola da uno di quei professori, che riducono il rapporto fra uomini e bestie ad una pura alterazione evoluzionistica. Supponiamo che il ragazzo, con tutta semplicità e sincerità, consideri se stesso come un Mowgli dedito alle scorrerie in piena libertà naturale e non differenziabile se non per una recente e relativa evoluzione. Quale sarebbe per lui l’insegnamento di questo strano album di disegni sulla pietra? Egli ne concluderebbe: di avere scavato molto profondamente e di aver trovato un posto dove c’era una renna dipinta da un uomo. Ma quanto dovrebbe scavare ancora prima di trovare un uomo dipinto da una renna! Può parere un truismo ed è una tremenda verità. Potrebbe discendere in profondità incalcolabili, in continenti sommersi, misteriosi come le stelle lontane, potrebbe trovarsi al centro del mondo, in un luogo così remoto dagli uomini come l’altra faccia della luna, potrebbe trovare in 48

freddi abissi o in colossali terrazze di pietra, tracciati nei lievi geroglifici del fossile, gli avanzi delle perdute dinastie della vita biologica, simili a rovine di successive creazioni e di separati universi piuttosto che a stadi diversi di una medesima storia. Vedrebbe frammenti di mostri ciecamente sviluppati in forme estranee alla nostra immaginazione abituata ai pesci e ai volatili; contatti, aggrovigliamenti e brancolamenti di vite con le più stravaganti appendici di corna di lingue e di tentacoli, lussureggianti foreste delle più fantastiche caricature con ogni foggia di rostri, di pinne, di dita. Ma in nessun luogo troverebbe un dito che avesse tracciato sulla sabbia una linea meno che insignificante, in nessun luogo un becco che avesse graffiato qualche cosa di embrionalmente simile ad una forma. E ciò - verosimilmente - è altrettanto impensabile nelle innumerevoli evoluzioni cosmiche di evi dimenticati quanto nelle bestie e negli uccelli che abbiamo oggi davanti agli occhi. Il ragazzo evoluzionista non si aspetterebbe di imbattersi in una pittura preistorica di questo genere, precisamente come non si aspetta di vedere il gatto mettersi a disegnare una vendicativa caricatura del cane sul muro di casa sua. Il senso comune dei ragazzi non permetterebbe al ragazzo più evoluzionista di aspettarsi una cosa di questo genere; eppure nelle tracce lasciate dai rozzi antenati recentemente evolutisi egli avrebbe visto un tale miracolo. Deve certamente colpirlo il fatto che uomini così lontani da lui gli siano così vicini, e animali così vicini gli siano così lontani. Nella sua ingenuità deve trovare strano che nessuna traccia, per quanto primitiva, di attitudine artistica si trovi fra gli animali. Questa è la lezione che può apprendersi nella caverna dalle pitture colorate; ma è troppo semplice per essere appresa. E’ la semplicissima verità che fra l’uomo e i bruti c’è differenza non di grado ma di specie. Dire che l’uomo più primitivo disegnava figure di scimmia è dire 49

una cosa ovvia; dire che la più intelligente delle scimmie disegna figure di uomini è dire una spiritosaggine. Una separazione e una sproporzione è accertata: netta e inconfondibile. L’arte, è la firma infalsificabile dell’essere umano. Da queste semplici verità dovrebbe prendere le mosse una storia degli inizi. L’evoluzionista resta a bocca aperta nella caverna dipinta davanti a cose che sono troppo grandi per esser viste e troppo facili per esser capite. Egli si prova a trarre dai particolari di quelle pitture ogni sorta di altre deduzioni indirette e incerte, perché non vuol vedere il loro significato elementare; deduzioni sottili e teoriche sull’assenza di religione e sulla presenza di superstizioni; sul governo di tribù, sulla caccia, sui sacrifici umani e su chi sa quante altre cose. Tratteremo più a fondo nel prossimo capitolo la dibattuta questione di queste origini preistoriche delle idee umane e specialmente dell’idea religiosa. Qui prendo il caso della caverna come una specie di simbolo delle più semplici verità da cui la storia dovrebbe cominciare. In fin dei conti, il fatto fondamentale, fra tutti gli altri, rimane questo: che l’uomo della renna può disegnare, e la renna no. Se quest’uomo fosse un prodotto ordinario dell’evoluzione biologica, come tutti gli altri animali, sarebbe ancora più straordinario il fatto che egli non fosse eguale agli altri animali. Mi sembra che come creatura naturale sarebbe anche più soprannaturale che come creatura soprannaturale. Ma io ho cominciato da una caverna, come la caverna delle speculazioni platoniche, perché essa rappresenta l’errore caratteristico delle introduzioni e prefazioni puramente evoluzionistiche. E’ inutile cominciare col dire che tutto procede lentamente ed è oggetto di sviluppo e di graduazione. Di fronte a un fatto come il ritrovamento delle pitture, si vede che non c’è traccia di tal processo 50

evolutivo. Non è che le scimmie abbiano cominciato delle pitture e gli uomini le abbiano finite; il Pitecantropo non disegnò una renna neanche alla peggio, l’Homo sapiens la disegnò e bene. Gli animali più intelligenti non hanno mai progredito nell’arte del ritratto; il cane non ha dipinto nel suo miglior periodo come non ha scarabocchiato nei tempi primordiali quando pareva uno sciacallo; il cavallo selvaggio non era un impressionista, come il cavallo da corsa non è un postimpressionista. Tutto quel che sappiamo di questo istinto di riprodurre gli oggetti adombrandoli o rappresentandoli è che esso non esiste in natura altro che nell’uomo; e che noi non possiamo parlarne se non parliamo dell’uomo come di qualche cosa di separato dalla natura. In altri termini, una vera storia non può cominciare che con l’uomo in quanto uomo, una cosa che sta completamente a sé. Come sia arrivato a questo punto, e come vi sia arrivato tutto il resto, è roba da teologi, da filosofi, da scienziati, e non da storici. Ma una prova eminente di questo isolamento è il mistero dell’impulso artistico. Questa creatura era realmente diversa da tutte le altre: perché era non solo creatura, ma creatore. Il che non può esser detto se non dell’uomo. Ma è una verità così vera che, anche in mancanza d’ogni credenza religiosa, dev’essere assunta come principio morale o metafisico. Vedremo nel capitolo seguente come questo principio possa applicarsi a tutte le ipotesi storiche e all’etica evoluzionistica ora di moda. Ma il punto di partenza più chiaro e più idoneo è questo esempio popolare di quel che l’uomo della caverna faceva nella sua caverna. Ciò significa comunque che una cosa nuova apparve nella notte cavernosa della natura: uno spirito che è come uno specchio. E’ come uno specchio perché è veramente uno strumento di riflessione. E’ come uno specchio perché solo in esso tutte le altre forme si possono vedere come ombre luminose in una visione. Soprattutto, è come uno 51

specchio perché è la sola cosa di quella specie. Le altre cose possono somigliarle o somigliarsi l’una con l’altra in vari modi; le altre cose possono superarla o superarsi a vicenda in vari modi; come nella mobilia di una stanza una tavola può esser rotonda come uno specchio, o un armadio può esser più grande di uno specchio. Ma lo specchio è la sola cosa che può contenerle tutte. L’uomo è il microcosmo; è la misura di tutte le cose; è l’immagine di Dio. Sono queste le sole vere lezioni, che si possono trarre dalla caverna; ma è tempo, ormai, di uscirne fuori. Prima, però, sarà bene riassumere una volta per tutte che cosa s’intende dire quando si dice che l’uomo è l’eccezione e, al tempo stesso, lo specchio e la misura di tutte le cose. Per veder l’uomo quale esso è, è necessario una volta di più attenersi strettamente a quella semplicità che può dissipare intorno a sé le nebbie accumulate dei sofismi. La più semplice verità sull’uomo, è che egli è un essere veramente strano: strano, quasi, nel senso che è straniero a questa terra. In breve, egli ha più l’aspetto esterno d’uno che venga con altre abitudini da un altro mondo che di uno cresciuto su questo. Ha vantaggi e svantaggi sproporzionati. Non può dormire nella sua pelle; non può affidarsi ai pro pri istinti. È, insieme, un creatore miracoloso che muove mani e dita, e una specie di mutilato. È avvolto in bende artificiali che si chiamano vestiti; si appoggia a sostegni artificiali che si chiamano mobili. Il suo spirito ha le stesse malcerte libertà e le stesse bizzarre limitazioni. Solo, fra tutti gli animali, è scosso dalla benefica follia del riso; quasi egli avesse afferrato qualche segreto di una più vera forma dell’universo e lo volesse celare all’universo stesso. Solo fra gli animali sente il bisogno di staccare i suoi pensieri dalle profonde realtà del suo essere corporeo; di nasconderli talora come in presenza di più alte possibilità che gli creano il mistero del pudore. Sia che esaltiamo queste cose come naturali 52

all’uomo, sia che le disprezziamo come artificiali e contro natura, esse rimangono nondimeno uniche. E’ quel che l’istinto popolare riconosce sotto il nome di religione, finché non lo disturbino i pedanti, specialmente i pedanti della Vita semplice. I più sofistici di tutti i sofisti sono i gimnosofìsti. Non è naturale considerar l’uomo come cosa naturale. È contrario al senso comune considerar l’uomo come parte del paesaggio. È vedere storto veder nell’uomo un animale. E un’infamia. È peccare contro la luce: contro quel senso chiaro delle proporzioni che è il principio d’ogni realtà. Questo si raggiunge col concedere qualche cosa, col preparare una condizione, con lo scegliere artificialmente una certa luce od ombra, col mettere in evidenza le cose inferiori e più basse che può accadere gli somiglino. Quella cosa solida che sta nella luce del sole, quella cosa a cui possiamo girare intorno, e vederla da tutti i lati è essenzialmente diversa. È anche straordinaria; e più lati ne vediamo più appare straordinaria. Non è una cosa che segue o deriva naturalmente da qualche altra cosa. Se immaginiamo un’intelligenza extra-umana o impersonale che abbia percepito ab initio il carattere generale del mondo non-umano tanto da vedere le cose evolversi nel modo come sono andate evolvendosi, niente in tutto quel mondo naturale sarebbe bastato a far prevedere un così innaturale miracolo. Ad una tale intelligenza l’umanità non sarebbe apparsa certamente come una mandria, fra cento, che avesse trovato un più ricco pascolo, o una rondine, fra mille, che fosse andata a passare l’estate sotto uno strano cielo. Non sarebbe stato un fenomeno su altra scala, in altra dimensione. Potremmo dire che sarebbe stato di un altro mondo. Sarebbe stato come vedere una vacca fra cento saltare a un tratto nella luna, o un maiale mettere improvvisamente le ali e volar via. Non sarebbe stato come 53

vedere un gregge che trova un prato per pascolare ma come vederne uno che si costruisce la stalla, non come una rondine che va a passar l’estate ma come una rondine che si fa il villino per l’estate. Il fatto stesso che gli uccelli si costruiscano il nido è un richiamo che non fa che mettere in più stridente rilievo la enorme differenza. Il fatto che l’uccello arrivi a fare il nido e non sappia andare più in là, prova che egli non ha una mente come l’uomo; lo prova ancora più che se non costruisse niente. Se non costruisse niente, potrebbe forse essere un filosofo quietista o buddista indifferente a tutto e tutto assorto nella sua mente. Ma quando costruisce come costruisce, ed è soddisfatto, e declama, gorgheggiando, la sua soddisfazione, allora veramente sentiamo che fra noi e lui c’è un invisibile velo, come una lastra di vetro, come una finestra chiusa alla quale l’uccello picchierà invano. Ora supponiamo che il nostro disinteressato osservatore veda un uccello mettersi a costruire come costruiscono gli uomini; che in un batter d’occhio abbia tirato su sette stili di architettura per il suo nido. Supponiamo che l’uccello abbia accuratamente scelto fuscelli forcuti e foglie a punta per esprimere la pungente pietà del gotico, e sia poi ricorso a fogliame largo e a melma nerastra quando cercava di richiamare le pesanti colonne di Bel e di Astarte: fare del suo nido uno dei giardini pensili di Babilonia. Supponiamo che l’uccello facesse statuine d’argilla rappresentanti uccelli famosi nelle lettere o nella politica e li collocasse sul frontone del nido. Supponiamo che un uccello fra mille cominciasse a fare una delle mille cose che l’uomo ha fatto fino dall’alba del mondo; e possiamo esser sicuri che l’osservatore non considererebbe un uccello di questo genere come una semplice varietà nella evoluzione normale degli uccelli, ma lo considererebbe come un pauroso uccello prodigio, forse come un uccello di malaugurio, certo come un augurio. Un 54

uccello simile darebbe presagi, non di eventi da accadere ma di eventi già accaduti: della comparsa di uno spirito di nuove dimensioni e profondità, di uno spirito come quello dell’uomo. E se non Dio, nessun’altra mente sarebbe stata capace di prevedere un tale evento. Ora, in linea di fatto, non c’è l’ombra d’una prova che questa cosa abbia subito un’evoluzione. Non c’è il più piccolo indizio che questa transizione si sia prodotta lentamente, o almeno naturalmente. In senso strettamente scientifico non sappiamo niente di come sia nata, di come sia cresciuta, di che cosa sia. Dei ruderi e delle ossa possono debolmente suggerire l’idea d’uno sviluppo del corpo umano. Ma niente fornisce la più lontana idea di un consimile sviluppo dello spirito. Non era, e fu: non sappiamo in quale istante o in quale serie infinita di anni. Qualche cosa accadde, e ha tutta l’apparenza di una transazione fuori del tempo. Non ha quindi niente a che fare con la storia nel significato comune. Lo storico deve dare queste cose per concesse; non è suo compito spiegarle. Ma se non può spiegarle come storico, non le spiegherà come biologo. Nell’un caso e nell’altro non è una disgrazia per lui doverle accettare senza spiegazioni: queste cose sono una realtà, e la storia e la biologia lavorano appunto sulla realtà. Egli ha tutte le giustificazioni se studia con calma il porcellino alato e la vacca che saltò nella luna, quando queste cose si siano verificate. Egli può accettare l’uomo come un capriccio, dal momento che lo accetta come un fatto. Egli può dormire fra due guanciali in un mondo folle e sconnesso o in un mondo che produce cose folli e sconnesse: la realtà è una cosa su cui tutti possiamo riposare tranquilli anche se essa sembra in contraddizione con tutto il rimanente. Questa cosa c’è; e questo ci basta. Ma se vogliamo sapere come verosimilmente è venuta; se desideriamo sapere come realisticamente si accorda con le 55

altre cose; se insistiamo per vedere com’è pervenuta a noi nella sua evoluzione dal suo ambiente originario, allora dobbiamo guardare altrove. Dobbiamo risvegliare strane memorie e tornare ai semplici sogni per scoprire qualche elemento che tolga all’uomo l’apparenza del mostro. Dovremo indagare ben altre cause prima di poter applicare all’uomo il principio di causalità, e invocare altra autorità per poterlo trasformare in qualche cosa di ragionevole, o anche soltanto di probabile. Su questa via troveremo tutto quel che è, al tempo stesso, terribile e familiare e dimenticato, con volti sovrumani, e una moltitudine di armi sfolgoranti. Possiamo accettar l’uomo come un fatto, se ci acquietiamo ad un fatto inesplicato. Possiamo accettarlo come un animale, se possiamo vivere con un animale favoloso. Ma se abbiamo bisogno d’una consequenzialità e di una necessità, ci vorrà un preludio e un crescendo di imponenti miracoli perché — annunciato tra formidabili tuoni in tutti i sette cieli dell’ordine soprannaturale — l’uomo possa essere una cosa ordinaria. 1. Nel testo è una esemplificazione con le parole god e dog che non può rendersi in italiano.

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Capitolo II I professori e l’uomo preistorico NON SONO STATE MESSE ABBASTANZA IN LUCE le insufficienze della scienza in fatto di preistoria. La scienza, le cui moderne meraviglie non possiamo non ammirare, procede trionfalmente per successive acquisizioni di dati. In tutte le invenzioni pratiche, nella più parte delle scoperte naturali, può sempre rafforzare la prova con l’esperimento. Ma c’è poco da sperimentare quando si tratta di fare gli uomini, o anche soltanto di stare a vedere che cosa facevano i primi uomini. Un inventore può procedere a gradi nella costruzione di un aeroplano anche se si prova a metterlo insieme nel suo retrobottega con delle bacchette e delle striscie di latta. Ma non può vedere l’anello mancante evolversi nel retrobottega. Se ha fatto un errore di calcolo, l’aeroplano lo correggerà precipitando a terra. Ma se ha fatto un errore di calcolo sulla dimora arboreale dei suoi antenati, non può vedere l’antenato arboreale cascar giù dall’albero. Non può tenere l’uomo della caverna nel suo retrobottega come un gatto, e stare a guardare se davvero pratica il cannibalismo o si procura una compagna mediante il ratto nuziale. Non può tenere una tribù di uomini primitivi come un branco di cani, e osservare fino a che punto subiscono le leggi dell’istinto associativo. Se vede un uccello comportarsi in un certo modo, può prendere altri uccelli e vedere se fanno lo stesso; ma se trova un teschio, o 57

un pezzo di teschio, negli scavi d’un monte, non può allargarne la visione a tutta una vallata di secchi scheletri. Avendo che fare con un passato quasi interamente sparito, può solo procedere in base all’evidenza, non all’esperienza. E di evidenza qui non ce n’è abbastanza da essere evidente. Così, mentre le scienze progrediscono per lo più secondo una curva costantemente corretta da nuovi elementi, questa scienza corre secondo una linea ascendente non suscettibile di correzione. Ma l’abitudine di trarre delle conclusioni, come si esercita più fruttuosamente in altri campi, è così radicata nella mentalità scientifica che non può rinunziare a venir fuori anche qui. E pretende di ragionare su un frammento osseo come se si trattasse di un aeroplano costruito dopo un’infinità di prove fatte con pezzi di metallo successivamente buttati via. Il guaio del professore di preistoria è che non può adoperare il suo frammento e poi buttarlo via. Il trionfante e meraviglioso aeroplano è il risultato di cento errori; lo studioso delle origini una volta commesso un errore vi resta imprigionato. Si parla giustamente di pazienza della scienza; ma in questo caso sarebbe più esatto parlare di impazienza. Per le difficoltà sopra descritte, il teorico marcia più che in fretta. Abbiamo un serie di ipotesi così affrettate da potersi qualificare come fantasie, e che non possono essere ulteriormente corrette dai fatti. Il più empirico degli antropologi subisce le limitazioni di un qualunque archeologo. Può attaccarsi a un frammento del passato, ma non è in grado di accrescerlo nel futuro. Può armarsi del suo frammento di fatto, press’a poco come l’uomo primitivo si armava del suo frammento di selce. E infatti vi è attaccato allo stesso modo e per la stessa ragione. E’ il suo arnese del mestiere, e il suo solo arnese. E’ la sua arma e la sola arma. Ed egli la maneggia spesso con un fanatismo eccessivo, che non ha nulla che vedere con quello dello scienziato che può 58

raccogliere i fatti dall’esperienza e aggiungervene di nuovi con l’esperimento. Talora il professore col suo osso diventa quasi pericoloso come un cane col suo osso. E almeno il cane non vi costruisce sopra una teoria per provare che l’umanità si evolve verso forme canine, o che ne deriva! Per esempio, io ho rilevato la difficoltà di tenere presso di sé una scimmia e di assistere alla sua trasformazione in uomo. La prova sperimentale di tale evoluzione essendo impossibile, il professore non si contenta di dire (come noi diremmo) che comunque una tale evoluzione è probabile. Egli esibisce il suo piccolo osso, o collezione di ossi, e ne deduce le cose più strabilianti. Trovò a Giava una porzione di cranio, che dai contorni sembrava più piccolo di un cranio umano. Poco discosto trovò un intero femore, e sparsi allo stesso modo alcuni denti che non erano umani. Dato che facessero parte di uno stesso organismo - cosa tutt’altro che sicura - concepire questo organismo sarebbe stato egualmente tutt’altro che sicuro. Ma la scienza popolare seppe ricavarne una figura completa, e anche complessa, rifinita fino agli ultimi particolari dei capelli e dell’abito; la quale ebbe anche un nome come se fosse un qualsiasi personaggio storico. Si parlò del Pitecantropo come si parla di Pitt o di Fox o di Napoleone. Le storie popolari pubblicavano i suoi ritratti come quelli di Carlo I o di Giorgio IV. Un disegno fu stampato, come preso dal vero, con tutte le ombreggiature, e coi capelli che si sarebbe detto fossero stati contati. Una persona non al corrente, vedendo una faccia così ben delineata e occhi così vivi, non avrebbe mai immaginato che quello fosse il ritratto di una tibia, o di un pugno di denti, o di un frammento di cranio. Similmente si parlava di lui come di un individuo di cui le tendenze e il carattere ci fossero familiari. Ho letto in una rivista un articolo su Giava e sui moderni abitanti di quell’isola i quali avrebbero finito per sviarsi dietro la 59

personale influenza di quel povero Pitecantropo. Che i moderni abitanti di Giava si siano sviati posso agevolmente crederlo; ma non credo che abbiano avuto bisogno di alcun incoraggiamento dalla scoperta di alcune ossa di autenticità, sommamente dubbia. Comunque, queste ossa sono troppo poche, troppo frammentarie e troppo incerte per riempire il vasto intervallo che di fronte alla ragione e di fronte alla realtà separa l’uomo dai suoi bestiali antenati, ammesso che siano tali. Nell’ipotesi di questa evoluzionistica concatenazione (che io non mi curo per ora di contestare), il fatto notevole e sconcertante è l’essenza assoluta di avanzi che attestino di quella concatenazione a quel dato punto. Darwin sinceramente ammetteva ciò; e questo è il motivo per cui egli escogitò il termine di anello mancante. Ma il dogmatismo dei darwinisti è troppo più forte dell’agnosticismo di Darwin; sicché sì è finito per volgere questa espressione puramente negativa in un termine positivo. Parlano delle abitudini e dell’habitat dell’anello mancante, come uno parlerebbe di essere in rapporti amichevoli con un hiatus o con una omissione, o di fare una passeggiata con una soluzione di continuità, o di pranzare con un posto vacante. In questo abbozzo dell’uomo in relazione a certi problemi storici o religiosi, io non sciuperò più spazio in queste considerazioni sulla natura dell’uomo prima che diventasse uomo. Il suo corpo può essere il risultato di un’evoluzione dai bruti; ma nulla sappiamo di un tale passaggio che getti la più piccola luce sulla sua anima quale ci si mostra nella storia. Disgraziatamente gli stessi scrittori seguitano a ragionare nello stesso stile quando vengono a discutere delle prime vere prove intorno ai primi veri uomini. A stretto rigore non sappiamo niente dell’uomo preistorico per la semplice ragione che era preistorico. La storia dell’uomo preistorico è una evidente contraddizione 60

in termini. E’ una specie di sragionamento che solo dei razionalisti possono permettersi. Se un parroco parlasse del diluvio come di una cosa antidiluviana, forse desterebbe un po’ d’ilarità intorno alle sue facoltà logiche; se un vescovo dicesse che Adamo era preadamitico, potremmo giudicarlo un po’ strambo. Ma non supporremmo davvero di dover rilevare certe pàpere in uno storico scettico che parli della preistoria come d’una parte della storia. La verità è che i termini storico e preistorico sono usati senza che si abbia in mente una definizione o un preciso punto di riferimento. Quando parlano di storia preistorica intendono che c’eran tracce di esistenza umana prima della storia umana, e, in questo senso almeno, sappiamo che l’umanità è anteriore alla storia. La civiltà umana è più antica dei resoconti umani. È questo il modo più saggio di stabilire i nostri rapporti con quelle età remote. L’umanità ci ha lasciato esempi di altre sue abilità più antiche dell’arte della scrittura, o almeno della scrittura che siamo in grado di leggere. Ma è certo che quelle abilità primitive erano arti, ed è ad ogni modo probabile che le primitive civiltà fossero civiltà. L’uomo ci lasciò la pittura della renna, ma non lasciò una narrazione del modo in cui andava a caccia della renna; perciò quel che si dice di lui è ipotesi e non storia. Ma l’arte che egli praticava era autentica arte; il suo disegno era intelligente e non c’è ragione di dubitare, solo perché non l’abbiamo, che la sua descrizione della caccia sarebbe stata meno intelligibile. Insomma, periodo preistorico non deve significare periodo primitivo, nel senso di periodo barbarico o animalesco. Non significa il tempo anteriore alla civiltà o anteriore alle arti e ai mestieri. Significa semplicemente il tempo anteriore ad una narrazione connessa e decifrabile. E’ la differenza che si ha in pratica fra le cose ricordate e quelle dimenticate; è perfettamente possibile che ci siano state 61

mille forme dimenticate di civiltà, così come mille forme dimenticate di barbarie. E in ogni caso tutto fa ritenere che molti di quei dimenticati o semidimenticati stadi sociali fossero più civili, o meno barbarici, di quel che volgarmente si immagina. Ma intorno a queste storie non scritte, di un periodo in cui l’umanità era certamente umana, noi non possiamo far congetture se non con la più accurata e diffidente cautela. Disgraziatamente, diffidenze e cautele sono le ultime cose ad essere incoraggiate dall’evoluzionismo facilone della cultura in voga. Perché questa cultura è piena di curiosità; e la sola cosa che non può tollerare è l’agonia dell’agnosticismo. Nell’era darwiniana fu trovata la parola e divenne impossibile la cosa. Occorre dire chiaro e tondo che tutta questa ignoranza è semplicemente coperta dall’impudenza. Si fanno delle affermazioni con tale sicurezza e faccia tosta che è difficile che qualcuno abbia il coraggio morale di fermarcisi sopra, e scoprire che sono senza fondamento. Poco tempo fa una monografia scientifica sulla condizione di una tribù preistorica cominciava tranquillamente con le parole «Andavano nudi». Nessun lettore su cento probabilmente si sarà domandato quando mai siamo venuti a sapere se portasse o non portasse vestiti quella gente di cui tutto è andato perduto eccetto poche schegge d’ossa e di pietre. Forse speravano che si potesse trovare un cappello di pietra come s’è trovata qualche ascia di pietra! Evidentemente prevedevano di scoprire un giorno o l’altro qualche paio di calzoni della stessa sostanza delle rocce e che avessero fatto la stessa riuscita! Ma a persone di temperamento meno precipitoso sarà subito balenato che si possono indossare degli abiti semplicissimi, e anche degli abiti ben guarniti, senza lasciarne tracce più di quel che ne abbia lasciate quella tribù. Le trecce d’erba e di giunco possono aver raggiunto 62

un alto grado di elaborazione senza per questo diventare eterne. Una civiltà può specializzarsi in roba di poca durata, come i tessuti e i ricami, e non in qualche cosa di più stabile, come l’architettura e la scultura. Si sono avuti molti esempi di tali società specializzate. I nostri posteri, trovando gli avanzi di qualche macchinario, potrebbero concluderne con altrettanta facilità che noi avevamo dimestichezza soltanto col ferro, e annunciare la scoperta che il proprietario e il direttore della fabbrica passeggiavano nudi, o tutt’ al più col cappello e coi calzoni d’acciaio. Non si discute qui se questi uomini primitivi si siano messi dei vestiti o abbiano tessuto delle erbe; si vuol dire soltanto che non è sufficientemente provato se l’abbiano fatto o no. Ma vale forse la pena di guardare un momento indietro a qualcuna di quelle poche cose che noi sappiamo e che essi facevano. Se noi consideriamo queste cose non le troveremo certamente incompatibili con l’idea del vestirsi e dell’adornarsi. Non sappiamo se si adornavano, ma sappiamo che adornavano altre cose. Non sappiamo se avevano ricami, e se li avessero avuti non potremmo aspettarci di trovarne gli avanzi. Ma sappiamo che avevano delle pitture e le pitture sono rimaste. E rimane con loro, come già ho notato, la prova di qualche cosa di assoluto e di unico; che appartiene all’uomo e soltanto all’uomo; che costituisce una differenza di specie e non una differenza di grado. Non è che una scimmia dipinga rozzamente e un uomo abilmente; non è che un scimmia inizi le arti rappresentative e un uomo le porti a perfezione. Una scimmia non fa niente; non comincia a far niente; non ci dà il principio del principio di niente. C’è una linea netta di separazione prima che la più scialba linea possa essere tracciata. Un altro illustre scrittore, commentando le pitture della caverna attribuite all’uomo neolitico dell’età della renna, 63

diceva che nessuna di queste pitture sembrava avere uno scopo religioso, e aveva l’aria di dedurne che l’uomo neolitico non aveva alcuna religione. E’ difficile immaginare un argomento più debole di questo che pretende di ricostruire i moti più intimi della mente preistorica in base a qualche figura scarabocchiata sulla roccia, non si sa perché, né secondo quali usi e costumi, da qualcuno che probabilmente ha trovato più comodo disegnare una renna anziché disegnare la religione! Può averla disegnata anche perché era il suo simbolo religioso; o può averla disegnata perché non era il suo simbolo religioso. Può aver disegnato un’altra qualunque cosa tranne il suo simbolo religioso. Può aver disegnato il suo simbolo religioso in qualche altro posto; o può averlo deliberatamente distrutto dopo averlo disegnato. Può aver fatto o non fatto cinquecentomila cose; ma è in ogni caso un meraviglioso salto logico quello di concludere che non aveva simboli religiosi, o, anche, che non aveva religione perché non aveva simboli religiosi. Il caso di cui ci occupiamo illustra chiaramente tutta la incertezza di tali ipotesi. Poco dopo, infatti, si sono scoperte nelle caverne non solo pitture ma sculture di animali; e pare che alcune di queste fossero danneggiate da segni o buchi che si suppongono fatti da colpi di freccia; e si suppone che queste immagini segnate o bucate attestino di qualche rito magico di uccisione di bestie in effigie, mentre le immagini non segnate si spiegano con altri riti invocanti la fertilità del gregge. C’è qualche cosa di comico in questa scientifica abitudine di contentarsi in tutti i modi. Se l’immagine è segnata prova una superstizione, se non è segnata ne prova un’altra. C’è anche qui un salto smisurato fra premesse e conclusioni; non è venuto in mente a questi sapientoni che un gruppo di cacciatori, rimasti prigionieri d’inverno in una caverna, possono essersi messi a tirare al bersaglio, una specie di primitivo gioco da sala. E in ogni caso, se si parla 64

di superstizione, che è avvenuto della loro tesi che in tutto ciò la religione non c’entrasse per niente? La verità è che in tutto questo lavorìo di ipotesi non c’è nulla che c’entri. Non è nemmeno un giuoco di sala come quello di tirar frecce a una renna intagliata; è piuttosto come tirar frecce al vento. Questi sapientoni pare che dimentichino che anche nel mondo attuale gli uomini fanno dei segni sulle rocce. Quando una carovana di turisti è portata in giro per la Grotta meravigliosa o per la Caverna delle stalattiti magiche è stato osservato che spunta fuori una quantità di geroglifici sul loro passaggio; iniziali e iscrizioni, alle quali i dotti si rifiutano di attribuire una data remota. Ma tempo verrà che anche queste iscrizioni saranno veramente di data remota; e se i professori del futuro avranno qualche rassomiglianza con quelli del presente, saranno capaci di dedurre chi sa quante vivaci e interessantissime deduzioni da queste iscrizioni sulla roccia del ventesimo secolo. Se la razza è sempre quella che noi conosciamo, e se i nipoti non avranno dirazzato, saranno capaci di fare su noi le più affascinanti scoperte basandosi sulla sigla lasciata nella Grotta magica da Carlino e Carlotta in forma di due iniziali intrecciate. Essi ne dedurranno: 1. (essendo le lettere rozzamente incise, con un temperino spuntato) che il ventesimo secolo non possedeva arnesi perfezionati per l’incisione e che non conosceva l’arte della scultura; 2. (essendo le lettere, lettere maiuscole a stampatello) che la nostra civiltà non era arrivata alla distinzione fra maiuscole e minuscole e che non conosceva il corsivo; 3. (trattandosi di consonanti raggruppate in maniera impronunciabile) che la nostra lingua era probabilmente affine al gallese o più probabilmente al tipo proto-semitico che ignorava le vocali; 4. (non mostrando le iniziali di aver alcun significato religioso) che la nostra civiltà non doveva avere religione. Quest’ultima illazione si avvicina forse alla verità; una civiltà 65

che avesse una religione avrebbe anche l’uso della ragione. Si afferma anche, generalmente, che la religione progredisce per gradi e per evoluzione e che progredisce non secondo un principio di causalità ma per combinazioni che potrebbero anche chiamarsi coincidenze. Le principali di queste coincidenze sarebbero: 1. la paura del capotribù (che Wells si ostina, con deplorevole familiarità, a chiamare il Vecchio); 2. il fenomeno dei sogni; e 3. le associazioni sacrificali per la mietitura e la resurrezione simboleggiata nel grano che cresce. Di passaggio, noterò che mi sembra psicologicamente dubbio il voler riportare un fatto spirituale così vivo e singolare a tre cause morte e disparate, se fossero soltanto tali. Supponiamo che Wells in uno dei suoi affascinanti romanzi ci parlasse di una nuova e ignota passione che stia sorgendo in mezzo agli uomini e che gli nomini sognino come il primo amore e per la quale siano pronti a morire come per la bandiera e per la patria. Credo che rimarremmo alquanto imbarazzati se poi aggiungesse che questo singolare sentimento è una combinazione dell’abitudine di fumar Woodbines, dell’aumento della tassa sul reddito, e della mania di un automobilista di superare le velocità proibite dai regolamenti stradali. Ci sarebbe impossibile immaginarci una tale combinazione, perché non potremmo immaginare una connessione fra quelle tre cose o un comune sentimento che le includesse tutte e tre. Così nessuno potrebbe immaginare una connessione fra il grano, i sogni e un vecchio capo armato di lancia, a meno che nel comune sentimento queste tre idee non fossero già unite. Ma se un tale sentimento ci fosse, non sarebbe che il sentimento religioso, e quelle idee non potrebbero essere gli elementi iniziali di un sentimento religioso già esistente. Il più ovvio senso comune dovrebbe avvertire che questa specie di sentimento mistico esisteva già, e che alla luce di esso i 66

sogni, i re, e i campi di grano potevano apparir mistici allora, come possono oggi. Siamo sinceri: non è che un volgarissimo trucco questo di creare un’apparenza lontana e disumanizzata alle cose, unicamente con l’aver l’aria di non capirle mentre si capiscono benissimo. Sarebbe come dire che gli uomini preistorici avevano la brutta e strana abitudine di spalancar la bocca a intervalli e rimpinzarla di misteriose sostanze, quasi non sapessimo che cosa vuol dir mangiare. O come dire che i terribili trogloditi dell’età della pietra alzavano alternativamente le gambe con movimento rotatorio, quasi non avessimo sentito parlare di camminare. Se con ciò si volesse risvegliare il nostro senso mistico e richiamarsi alla meraviglia del camminare e del mangiare, la fantasticheria potrebbe essere giustificata. Ma poiché si vuole invece uccidere il senso mistico e renderci ottusi alla meraviglia della religione, non è che ciarpame irrazionale. Vuol trovare per forza qualche cosa di incomprensibile nei sentimenti che tutti comprendiamo. Chi non trova misteriosi i sogni e non sente che essi giacciono sulle oscure rive dell’essere? Chi non sente la morte e la resurrezione delle cose terrene come qualche cosa di vicino al segreto dell’universo? Chi non capisce che ci deve esser sempre il sapore di qualche cosa di sacro nell’autorità e nella solidarietà che è l’anima della tribù? Se ci fosse un antropologo che giudicasse queste cose remote e irrealizzabili, non ci sarebbe altro da dire a questo scientifico signore se non che il suo cervello è più ristretto e meno illuminato di quello dell’uomo primitivo. A me sembra ovvio che soltanto un attivo sentimento spirituale avrebbe potuto rivestire di santità queste cose separate e diverse. Dire che la religione deriva dal timore di un capo o dal sacrificare alle messi, significa mettere un carrozzino finemente lavorato davanti a un cavallo primitivo. È come dire che l’impulso a dipingere venne dalla contemplazione 67

delle pitture della caverna. In altre parole è come voler spiegare la pittura col lavoro dei pittori, o dar ragione dell’arte dicendo che è nata dall’arte. Più ancora, è lo stesso che dire che quella certa cosa chiamata poesia è il risultato di determinate abitudini: come quella di comporre un’ode per celebrare l’avvento della primavera, o quella di un giovane che s’alzava, a una data ora per sentire il canto dell’allodola e poi scriveva le sue impressioni su un pezzo di carta. E’ verissimo che i giovani diventano poeti specialmente in primavera; è verissimo che quando, un tempo, c’erano i poeti, nessun mortale riusciva ad evitare che cantassero l’allodola. Ma i poemi non esistevano prima dei poeti. La poesia non nacque dalle forme poetiche. Non si può dire che la prima apparizione di una cosa sia spiegata adeguatamente dal fatto che esisteva di già. Allo stesso modo non possiamo dire che la religione nacque dalle forme religiose, perche ciò equivale a dire che nacque quando già esisteva. Occorreva piuttosto una particolare forma mentale per trovare qualche cosa di mistico nei sogni o nella morte, come per trovare qualche cosa di poetico nell’allodola o nella primavera. Questa forma mentale è quel che chiamiamo lo spirito umano, quale è sempre esistito da che mondo è mondo; infatti, i mistici ancora meditano sulla morte e sui sogni, e i poeti cantano ancora le allodole e la primavera. Manca invece il più piccolo accenno di simili sentimenti o associazioni di idee dove manca lo spirito umano come noi lo conosciamo. La vacca che pascola in un prato non dà segno di provare alcun impeto lirico o di trarre alcun insegnamento poetico pur essendo in condizioni privilegiate per udire il canto delle allodole; come pure si può esser sicuri che le pecore che sono in vita non pensano menomamente a utilizzare le pecore morte come base di un culto religioso dei defunti. E’ vero che in primavera gli sgambetti di un quadrupede 68

giovinetto possono facilmente trasformarsi in pensieri d’amore, ma è un po’ difficile che tutta una serie di primavere riesca a volgere gli sgambetti del quadrupede in tentativi di letteratura. E’ vero anche che il cane ha dei sogni, mentre molti altri animali pare non abbiano neanche questo, ma è un fatto che noi stiamo aspettando da un gran pezzo che il cane sviluppi da questi sogni un elevato sistema di cerimonie liturgiche. Stiamo aspettando da tanto tempo che abbiamo smesso di aspettare: e come non speriamo più di vedere un cane fondare sui suoi sogni un’istituzione ecclesiastica, nemmeno speriamo più di vederlo intento a studiare i suoi sogni al lume della teoria della psicoanalisi. Insomma, per una ragione o per l’altra, tutte queste esperienze naturali, o sentimenti naturali, non passano mai la linea di separazione oltre la quale diventerebbero espressione creativa (come l’arte e la religione), se non nell’uomo. Essi non la passano, non l’hanno passata, con ogni probabilità non la passeranno mai. Non che sia logicamente contradittorio che noi vediamo i vitelli digiunare il venerdì o cadere sui ginocchi - come nell’antica leggenda - la notte di Natale. Non che sia impossibile in stretto senso che i vitelli, dalla contemplazione della morte, s’innalzino fino ad un salmo sublime di lamentazione sulla vecchia vacca defunta. Non è impossibile che essi esprimano le loro speranze di perfezione celestiale in una simbolica danza in onore della vacca trasmigrata nella luna. Può essere che il cane abbia accumulato tanti sogni da potervi costruire sopra un tempio a Cerbero, come ad una specie di trinità canina; può darsi che i suoi sogni abbiano cominciato a mutarsi in visioni suscettibili di espressione verbale, in una rivelazione della costellazione del cane come rifugio spirituale per i cani randagi. Tutte queste cose sono logicamente possibili nel senso che è logicamente difficile provare quella negativa 69

universale che chiamasi impossibilità. Ma tutto il nostro istintivo concetto del probabile - quel che si dice senso comune — deve ormai averci avvertito che, secondo ogni apparenza, gli animali non vanno evolvendosi su quella strada, e che, a dir poco, non è facile che ci diano qualche prova personale del loro passaggio dall’esperienza animale all’esperimento umano. La primavera, la morte e i sogni, considerati come pure esperienze, appartengono a loro come a noi. Ma la conclusione è che queste esperienze, considerate come esperienze, non producono niente di analogo al sentimento religioso in nessun altro spirito, se non in uno spirito come il nostro. Torniamo così al fatto dell’esistenza di uno spirito già attivo e solitario: unico capace di formulare un credo e di tracciare un disegno nella caverna. Gli elementi materiali della religione sono rimasti là per secoli e secoli come qualsivoglia altro elemento materiale, ma le possibilità religiose erano già nello spirito. L’uomo poteva già vedere gli enigmi, gli spiragli e le speranze che ancora vede. Poteva non soltanto sognare ma sognare sui sogni; non soltanto vedere i morti ma l’ombra della morte; e già era posseduto da quella misteriosa mistificazione che gli rende sempre la morte incredibile. È fuor di dubbio che tutto quel che intravediamo sull’uomo riguarda inconfondibilmente l’uomo come uomo. Non possiamo affermar nulla intorno al supposto animale che dovrebb’essere l’anello di congiunzione fra l’uomo e i bruti; e ciò perché questo non è un animale ma una supposizione. Non possiamo esser certi che il Pitecantropo abbia compiuto atti religiosi perché non possiamo esser certi che sia esistito. Esso non è che un’invenzione fatta per riempire l’enorme iato fra le prime creature che erano certamente uomini e le altre creature che erano certamente scimmie o altri animali. Pochi frammenti di dubbia origine e autenticità sono messi insieme ad ogni 70

costo per fingere un organismo intermedio richiesto da una certa filosofia; ma nessuno può credere che essi siano bastevoli a dare una base filosofica a quella filosofìa. Un frammento di cranio trovato a Giava non può dirci nulla né sulla religione né sull’assenza di religione. Se c’è stato un uomo-scimmia può aver ostentato una religione ritualistica come un uomo, o una religione stupida come una scimmia. Può essere stato un mitologo o può essere stato un mito. Sarebbe interessante ricercare se queste facoltà mistiche apparvero nella transizione dalla scimmia all’uomo, ammesso e non concesso che ci sia stato questo tipo di transizione su cui fare le ricerche. In altri termini, l’anello mancante potrebbe o non potrebbe esser mistico ma prima di tutto non dovrebbe esser mancante. In confronto alle prove che abbiamo dei reali esseri umani, nessuna prova abbiamo che esso sia stato un essere umano, o un essere semiumano, o un essere tout court. Anche i più spinti evoluzionisti non tentano di dedurre alcuna teoria rivoluzionaria sull’origine della religione da questo tipo. Anche nei loro tentativi di provare che la religione sorse gradatamente da origini rozze o irrazionali, essi partono sempre dai primi uomini che furono uomini. Quindi la loro prova si limita a provare che soltanto uomini che erano già uomini erano già mistici. Erano uomini che si servivano di elementi rozzi e irrazionali ma già se ne servivano come solo possono servirsene degli uomini e dei mistici. Torniamo ancora una volta alla semplice verità: in una certa epoca (remotissima e imprecisabile dalla scienza) una transizione ci fu — una transizione su cui né pietre né ossa possono, per loro natura, portare alcuna luce — e l’uomo ebbe un’anima vivente. In questa materia dell’origine delle religioni, la verità è che quelli che si provano a spiegarla la falsificano. Subcosciemente sentono che, diluita in un processo 71

graduale e invisibile, la cosa appare meno straordinaria. Ma nel fatto questa è una prospettiva che falsifica totalmente la realtà dell’esperienza. Essi prendono due cose completamente differenti - i vaghi indizi di un’origine evolutiva e la solida evidenza di un’umanità già formata - e cercano di aggiustare il loro punto di vista in modo da vederli su una stessa linea. Ma è un’illusione ottica: gli uomini non stanno con la scimmia o con l’anello-mancante nel rapporto in cui stanno con gli uomini. Ci possono essere stati organismi intermedi, le cui tracce evanescenti si posson trovare qua e là nel profondo intervallo. Di questi esseri, se sono esistiti, può esser vero che erano cose dissimili dagli uomini o uomini dissimili da noi. Ma degli uomini preistorici, come i cosiddetti uomini della renna o della caverna, ciò non è vero affatto. Gli uomini preistorici di questa specie erano cose esattamente simili agli uomini e abbondantemente simili a noi. Soltanto, poco si conosce intorno ad essi perché non avevano l’abitudine di lasciare resoconti o cronache; ma quel poco che sappiamo di loro basta a mostrarceli come creature umane comuni, come gli uomini di un feudo medioevale o di una città greca. Guardando dal nostro punto di vista umano in tutte le più lontane manifestazioni dell’umanità, noi vi riconosciamo l’impronta umana. Se dovessimo riconoscervi un animale, dovremmo vedervi qualche cosa di anormale. Se volessimo guardare dall’altra parte del telescopio, come ho fatto più d’una volta in queste pagine, se volessimo proiettare la figura umana in un mondo extraumano, dovremmo dire che c’è un animale evidentemente impazzito. Ma vedendo la cosa dal lato giusto, o piuttosto dal di dentro, sappiamo che l’apparente anormalità è sanità; e noi sappiamo che questi primi uomini erano sani. Dappertutto, nei selvaggi, negli stranieri, nei personaggi della storia, riconosciamo i segni di una certa umana 72

frammassoneria. Per esempio, tutto quel che si può arguire dalle primitive leggende, tutto quel che sappiamo della vita barbarica, non fa che corroborare una certa idea morale e mistica, di cui è simbolo comune il vestito. Gli abiti sono, nel senso letterale, dei paramenti sacri, e gli uomini li indossano perché sono sacerdoti. Vero è che anche come animale l’uomo è differente dagli altri animali: la nudità non è in lui naturale; non è la sua vita ma piuttosto la sua morte, anche nel senso volgare che egli morirebbe di freddo. Ma anche dove non ce n’è bisogno per stare più caldi, ci si veste per dignità, per decenza, per ornamento. Si direbbe che gli abiti siano stati apprestati come elemento decorativo prima che come oggetto d’uso. Si direbbe che quasi sempre si sia avvertita una connessione fra gli abiti e il decoro personale. Le convenzioni sociali possono variare infinitamente a seconda dei tempi e dei luoghi; e ci sono parecchi che, non sapendo come superare questa riflessione, vi trovano un argomento sufficiente per lasciar cadere addirittura tutte le convenzioni. Essi non si stancano di ripetere, con ingenua meraviglia, che l’abbigliamento è diverso nell’Isola dei Cannibali e nella città di Camden. Essi non sanno fare un passo più in là e preferiscono abbandonare addirittura l’idea di pudore. Allo stesso modo potrebbero dire che, poiché ci sono stati cappelli delle più svariate fogge, e anche di foggia piuttosto eccentrica, perciò i cappelli non contano o non esistono. Forse aggiungerebbero che non esistono nemmeno i colpi di sole o la calvizie. Gli uomini hanno sentito dappertutto che certe forme erano necessarie per difendere e proteggere certe intimità dal dileggio o dai grossolani malintesi; e che l’osservanza di queste forme contribuiva, comunque, al mutuo rispetto e decoro. Il fatto che queste forme abbiano generalmente una connessione più o meno remota coi rapporti sessuali chiarisce l’importanza dei due fatti che 73

debbono stare all’origine della storia della razza. Il primo di questi è il fatto che il peccato originale è realmente originale. Non solo teologicamente ma anche in senso storico è una cosa che ha le sue radici nelle origini. Fra le tante altre cose che gli uomini hanno creduto, ce n’è una particolarmente importante per l’umanità, questo senso del peccato, che vieta che uno sia naturale e privo di vesti, così come vieta di essere naturali e senza leggi. Ma soprattutto bisogna considerare un altro latto, che è il padre e la madre di tutte le leggi, fondato com’è esso stesso, sul padre e sulla madre: un fatto che viene prima di tutti i troni e di tutti gli imperi. Questo fatto è la famiglia. Qui ancora dobbiamo rispettare l’enormità delle proporzioni di un fatto normale sgombrato di tutte le sovrastrutture e gradazioni e dubbi più o meno ragionevoli, come nuvole che offuschino una montagna. Può essere che quel che chiamiamo famiglia abbia trovato, lottando, la sua via, attraverso stadi d’anarchia e di aberrazione; certo è che li ha superati sopravvivendo, e non è improbabile che li abbia preceduti. Come vediamo nel caso del comunismo e del nomadismo, possono essersi prodotte delle escrescenze deformi o informi sul fianco di società che già avevano preso una forma, ma niente prova che la forma non abbia preceduto la deformità. Quello che ha importanza vitale è ad ogni modo la forma, e il fatto che l’umanità abbia preso quella forma. Per esempio, delle involuzioni nelle regole sessuali, a cui abbiamo accennato, nessuna è più curiosa di quel costume selvaggio che è noto sotto il nome di couva.de. Per cui la legge è messa sottosopra e il padre è trattato come se fosse la madre. Indubbiamente esso implica il mistico senso della sessualità; ma molti sostengono pure che è un atto simbolico mediante il quale l’uomo accetta la responsabilità della paternità. In tal caso questa grottesca buffoneria è un atto veramente solenne: è l’atto di istituzione di ciò che 74

chiamiamo famiglia e società umana. Taluno attaccandosi a questi oscuri inizi ha detto che l’umanità dev’essere stata anticamente sotto un matriarcato; ma allora, io dico, invece di umanità si sarebbe chiamata femmineità. Altri hanno congetturato che il cosiddetto matriarcato non deve essere stato che uno stato d’anarchia morale, in cui non c’era altro di stabile che la madre, mentre i padri erano fuggitivi e irresponsabili. Poi sarebbe venuto il momento in cui l’uomo si sarebbe deciso a proteggere e a guidare ciò che aveva creato. Così sarebbe divenuto il capo della famiglia, non come un omaccione con un grosso bastone, pronto a picchiare le donne, ma come una persona rispettabile che cercava di diventare una persona responsabile. Ora, tutto questo può essere perfettamente vero, e può essere stato questo il primo formarsi della famiglia, come può esser vero che l’uomo allora per la prima volta si sia comportato da uomo e per la prima volta sia diventato pienamente uomo. Ma può anche esser vero che il matriarcato o anarchia morale, o comunque dir si voglia, non sia stato altro che una delle cento dissoluzioni sociali o regressi barbarici che possono essersi verificati a intervalli nei tempi preistorici come certamente si sono verificati nel periodo storico. Un simbolo come la couvade, se poi era un simbolo, può aver commemorato la fine di un’eresia piuttosto che celebrato il primo sorgere di una religione. Non possiamo arrivare a nessuna conclusione sicura in queste cose; ne vediamo soltanto il risultato complessivo nell’edificio dell’umanità; ma possiamo dire con quale stile il grosso e il meglio della costruzione è stato costruito. Possiamo dire che l’unità familiare è la cellula intorno alla quale si è formato lo stato. Intorno alla famiglia si costituiscono quelle santità che distinguono gli uomini dalle formiche e dalle api. Il pudore è la tenda di quell’accampamento, la libertà è il vallo di quella città; la 75

proprietà è il patrimonio della famiglia; l’onore la sua bandiera. Nelle proporzioni pratiche della storia noi torniamo alla posizione fondamentale del padre, della madre e del bambino. E’ stato detto che se la storia non può partire da presupposti religiosi, deve partire nondimeno da presupposti morali o metafisici; altrimenti non avrà senso. Ecco un’ottima dimostrazione di questo dilemma. Se non siamo di quelli che possono invocare la trinità divina, potremo almeno invocare la trinità umana, e vedere questo triangolo ripetuto, come caratteristico, sempre e dappertutto nel mondo. Il più alto evento della storia, quello a cui tutta la storia guarda e conduce, è qualche cosa che è, ad un tempo, il rovesciamento e il rinnovamento di questo triangolo. O, meglio, è un triangolo sovrapposto e intersecato all’altro così da formare un sacro pentacolo, più potente di quello dei maghi, per atterrire i demoni. L’antica trinità fu quella del padre della madre e del figlio e si chiama l’umana famiglia; la nuova trinità è quella del Figlio, della Madre e del Padre, e si chiama Sacra Famiglia. È mutata solo in quanto è rovesciata; come il mondo che ne lu trasformato non è differente da quello di prima se non in quanto è capovolto.

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Capitolo III Origine antica della civiltà L’UOMO MODERNO CHE INDAGA le antiche origini è come uno che aspetti l’alba in una landa straniera, e si aspetti di vederla sorgere dietro nude pianure e picchi solitari. E l’alba sorge, invece, dietro un oscuro ammasso di grandi città costruite chissà quando e perdute nella notte dei primordi; città colossali come le case dei giganti, piene di animali scolpiti, più alti dei palmizi, con ritratti d’uomini dipinti dodici volte più grandi del vero; con tombe simili a montagne solidamente piantate su quattro lati e terminanti in una punta rivolta al cielo; con enormi tori alati e barbuti accovacciati sulle soglie dei templi con l’occhio fisso; eternamente immobili come se una loro zampata fosse capace di scuotere il mondo. l’alba della storia rivela una umanità già civilizzata; forse una civiltà già vecchia. E rivela, con altre cose interessanti, l’idiozia di tante generalizzazioni sul periodo anteriore e ignoto in cui la civiltà era realmente giovane. Le due prime società umane, di cui si abbiano memorie attendibili e particolareggiate, sono Babilonia e l’Egitto. Avviene così che i due casi di più vasta e splendida perfezione del genio antico testimoniano contro i due più comuni e rigidi assunti della cultura moderna. Se vogliamo sbarazzarci di non poche sciocchezze sul nomadismo, sull’uomo della caverna, sul vecchio della foresta, basta che teniamo presenti i due fatti concreti e magnifici che si 77

chiamano Egitto e Babilonia. La più parte di coloro che parlano dell’umanità primitiva pensano ai selvaggi moderni, e per dimostrarne la progressiva evoluzione fanno vedere come una zona notevole di umanità non abbia mai avuto progressi, o evoluzioni, o cambiamenti in alcuna guisa. Quanto a me, non ammetto la loro teoria dell’evoluzione, come non ammetto il dogma dell’immutabilità delle cose. Io non posso credere che l’uomo civilizzato abbia avuto un progresso così rapido e recente, ma nemmeno posso capire perché l’uomo non civilizzato dovrebbe essere così misticamente immortale e immutabile. Una maggior semplicità di pensiero o di discorso mi par necessaria in questa ricerca. I selvaggi moderni non possono essere in tutto eguali agli uomini primitivi per la semplice ragione che non sono primitivi. Non sono antichi perché sono moderni. La loro razza, come la nostra, ha trascorso migliaia d’anni sopra la terra; e anch’essi hanno avuto le loro esperienze sulle quali hanno agito e delle quali hanno profittato, come gli altri. Hanno avuto anch’essi un ambiente, e dei cambiamenti d’ambiente, a cui si sono probabilmente adattati nel modo più convenientemente e decorosamente evoluzionistico. Che le esperienze siano state fiacche o l’ambiente poco interessante, non toglie nulla alla verità di quanto ho detto; anche il puro decorso del tempo, nella forma morale della monotonia, non è senza effetti. Ma molte persone istruite e intelligenti ritengono probabile che l’esperienza dei selvaggi sia stata un regresso di civiltà. Coloro che criticano questa idea non sembrano, d’altra parte, avere un concetto chiaro di quel che possa essere un regresso di civiltà. Il cielo li aiuti: è probabile che debbano presto saperne qualche cosa. Essi si contentano di scoprire che gli uomini della caverna e quelli dell’isola dei cannibali hanno qualche cosa in comune, come certi particolari strumenti di lavoro. Ma si capisce a 78

prima vista che tutti i popoli ridotti per qualche ragione ad una vita più rudimentale hanno delle cose in comune. Se noi perdiamo tutte le nostre armi da fuoco, dovremo servirci dell’arco e delle frecce; ma con ciò non rassomiglieremo affatto agli uomini primitivi che avevano l’arco e le frecce. Dicono che i russi nella grande ritirata erano rimasti così a corto di armi che dovettero combattere con dei pali tagliati dai boschi. Ma un professore del futuro sbaglierebbe a credere che i russi del 1916 non siano stati che una misera tribù di Sciti venuti fuori per la prima volta dalle foreste. E’ come dire che un uomo quando ridiventa bambino deve esattamente copiare l’infanzia. Un bambino è calvo come un vecchio; ma sarebbe un errore inferirne — come potrebbe fare uno che ignorasse l’infanzia - che anche i bambini devono avere una lunga barba bianca. Bambini e vecchi camminano con difficoltà; ma chi si aspettasse di vedere un vecchio signore coricato a pancia all’aria mettersi allegramente a sgambettare piglierebbe una cantonata. È assurdo perciò arguire che i primi pionieri dell’umanità devono essere stati identici agli ultimi e più stagnanti detriti di essa. Ci sono quasi certamente delle cose, probabilmente molte cose, in cui i due tipi devono essere stati assai differenti o nettamente contrari. Un esempio del modo in cui questa distinzione agisce, e un esempio essenziale per il nostro argomento, è quello della natura e dell’origine del governo. Ho già accennato a H.G. Wells e al suo Vecchio, col quale egli sembra essere in termini oltremodo cordiali. Se esaminiamo freddamente questo ritratto del preistorico capo-tribù al lume delle prove preistoriche, possiamo soltanto dire che il suo brillante e versatile autore ha dimenticato per un momento che stava scrivendo una storia e ha creduto di scrivere uno dei suoi romanzi immaginosi e fantastici. Per lo meno, io non riesco a immaginare come egli abbia potuto sapere che quel 79

preistorico capo si chiamasse il Vecchio e che l’etichetta di corte voleva si scrivesse con lettera maiuscola. Egli dice ancora dello stesso personaggio: «A nessuno era permesso toccare la sua lancia, o sedere sul suo trono». Stento a credere che si sia trovata in qualche scavo una landa con un cartello «I visitatori sono pregati di non toccare», o un trono in piena regola con la scritta «Riservato al Vecchio». Piuttosto, è da presumere che lo scrittore, che non può essersi cavato dalla testa tutte queste cose, abbia preso per oro colato il parallelo tutt’altro che sicuro tra uomo preistorico e uomo rimbarbarito. Può essere che in qualche tribù di selvaggi il capo fosse chiamato il Vecchio e che a nessuno fosse permesso toccare la sua lancia o assidersi sul suo seggio. Può essere che in questi casi egli fosse circondato di superstizioni e di paure tradizionali, e può anche darsi che fosse dispotico e tirannico. Ma non c’è la minima prova che il governo primitivo sia stato dispotico e tirannico. Può essere stato; giacché può essere stato in quel modo, o in nessun modo, o può non essere stato addirittura. Ma il dispotismo in certe oscure e decadute tribù del xx secolo non prova che i primi uomini fossero governati dispoticamente. Non lo prova, né lo fa pensare, né ci fornisce il più piccolo indizio al riguardo. Se c’è un fatto dimostrabile in base alla storia che conosciamo è che il dispotismo può essere uno sviluppo, spesso un tardo sviluppo, più spesso la fine, di società che avevano avuto un regime largamente democratico. Il dispotismo potrebbe quasi esser definito stanchezza della democrazia: una società cade in istato di torpore, i cittadini non sono più capaci di quell’assidua vigilanza che è stata giustamente considerata come il prezzo della libertà, e preferiscono armare una sola sentinella che pensi a vegliare la città mentre essi dormono. E’ anche vero che qualche volta c’è bisogno della sentinella unica per qualche immediata e 80

radicale riforma; ma è anche vero che spesso la sentinella approfitta dell’occasione per mettersi a fare il tiranno, sul tipo di certi sultani orientali. Quel che non riesco a capire è il perché il sultano avrebbe dovuto fare la sua comparsa nella storia prima di tanti altri personaggi. Invece la figura del tiranno armato è evidentemente in relazione con la superiorità della sua armatura; e un’armatura di quella specie non può venire che in conseguenza di una civiltà più complessa. Un uomo può ammazzarne venti con una mitragliatrice; sarebbe assai meno probabile che riuscisse a fare altrettanto con un sasso. Quanto alla solita leggenda dell’uomo forte che s’impone con la forza e con la paura, non è che una storiella da bambini come quella del gigante dalle cento braccia. Venti uomini saprebbero sempre tenere a posto il più forte uomo in qualunque società antica o moderna. Essi potrebbero bensì ammirare, in un senso poetico e romantico, chi risultasse più forte; ma questa è una cosa diversa e ha un valore puramente mistico e morale, come l’ammirazione per il più puro o per il più saggio. Ma lo spirito che sopporta le crudeltà e i capricci di un tiranno è lo spirito d una società vecchissima, civilizzatissima e diventata probabilmente insensibile; non lo spirito d una società primitiva. Il Vecchio — come il nome stesso indica — è il capo di una società vecchia. E più facile che la società primitiva fosse una democrazia pura. Finora le comunità agricole più semplici sono state anche di gran lunga le democrazie più pure. La democrazia sgretola una civiltà complessa. Volendo si potrebbe dire che è nemica della civiltà. Ma non bisogna dimenticare che parecchi di noi preferiscono la democrazia alla civiltà, nel senso che la preferiscono alla complessità. I contadini che lavorano il loro pezzo di terra in una rudimentale eguaglianza, e si adunano per votare sotto un albero del villaggio, rappresentano pur sempre la più autentica forma 81

di governo autonomo. Può essere che un’idea così semplice l’abbiano avuta, nel loro stato primitivo, uomini anche più semplici. L’idea di un dispotismo ripugna anche a non voler considerare gli uomini come uomini. Anche dal punto di vista più materialmente evoluzionistico non c’è ragione che gli uomini non abbiano avuto quel minimo di solidarietà che hanno i topi e le cornacchie. Avranno indubbiamente avuto un capo come tutti gli animali gregari, ma avere un capo non porta come conseguenza l’irrazionale servilismo che si attribuisce ai superstiziosi sudditi del Vecchio. Ci sarà stato indubbiamente qualcuno che avrà fatto la parte - per dirla col Tennyson - del corvo dai molti inverni che guida a casa la rombante cornacchierìa. Ma io penso che se il venerabile uccello avesse cominciato a darsi l’aria di un sultano dell’antica Asia, il rombo della cornacchierìa sarebbe diventato tale che il corvo dai molti inverni avrebbe rischiato di non arrivare alla primavera. Anche fra gli animali sembra che qualche altra cosa sia rispettata più della violenza brutale, non foss’altro la familiarità, che negli uomini si chiama tradizione, e l’esperienza, che negli uomini si chiama saggezza. Non so se i corvi realmente vadano dietro al più vecchio; ma se è così, essi non vanno dietro al più forte. So, nel caso degli uomini, che se un rito di onore per l’anzianità induce i selvaggi a rendere omaggio al Vecchio, essi non hanno però la nostra servile e sentimentale debolezza d’inchinarsi davanti al forte. Il governo primitivo — come l’arte primitiva, la religione e tutto il resto - non è conosciuto che in modo imperfetto, ma, per tirare a indovinare, tanto si può supporre che fosse un governo popolare come quello di certi villaggi balcanici o pirenaici quanto si può supporre che fosse capriccioso e segreto come un Divano1 turco. La democrazia montanara e il palazzo orientale sono entrambi moderni nel senso che ci sono tutte due, e tutt’e due rappresentano uno stadio 82

storico; ma dei due il palazzo è quello che ha più l’aspetto di un cumulo di successive corruzioni mentre il villaggio ha l’aspetto ancora di qualche cosa di primitivo e di naturale. Ma su questo punto io non intendo andare al di là dell’espressione di un semplice dubbio: un dubbio che investe tutti i luoghi comuni ora in voga. È interessante, per esempio, il fatto che, quando può far comodo a sostegno d una razza, d’una nazione, d’una filosofia, anche i moderni non si peritano di ricercare tracce d’istituzioni liberali fra gli stati barbarici o arretrati. Così i socialisti insegnano che i loro ideali di proprietà comunistica esistevano nei tempi più remoti; così gli ebrei sono orgogliosi dei loro giubilei o ridistribuzioni che si facevano sotto la loro antica legge; così i pangermanisti vantano parlamenti e giurie e altri vari istituti popolari che rimontano alle vecchie tribù nordiche; così i celtofili e coloro che lamentano i torti fatti all’Irlanda invocano la più equa giustizia del sistema dei clan, al quale i capi irlandesi prestarono fedeltà prima di Strongbow2. Le ragioni variano col variare dei casi; ma come c’è qualche ragione valida per tutti penso che si possa dedurne una conclusione generale: che, cioè, istituzioni più o meno popolari dovettero essere comuni nelle società semplici e primitive. Ognuna di queste diverse scuole moderne tende a dimostrare una sua particolare tesi; ma prese tutte insieme esse dimostrano una più antica e generale verità: che, cioè, in quelle comunità preistoriche c’è qualche cosa di più che la semplice ferocia e paura. Ognuno di questi diversi teorici ha una sua arma da affilare, ma è pronto a servirsi di un’ascia di pietra, e si regola in modo da far credere che l’ascia di pietra può essere stata repubblicana come la ghigliottina. La verità è che il sipario si alza a commedia incominciata. In un certo senso è vero il paradosso che c’era una storia prima della storia. Ma non è il paradosso irrazionale della 83

storia preistorica. Qui si tratta di una storia che non conosciamo. Probabilmente era una storia come quella che conosciamo, con la sola differenza che non la conosciamo. Così è proprio il rovescio di quella pretenziosa storia preistorica che afferma di voler seguire tutto un coerente sviluppo dall’ameba all’antropoide e dall’antropoide all’agnostico. Invece di saper tutto su creature diverse da noi, probabilmente si tratta di questo: che non sappiamo nulla su creature simili a noi. In altre parole, i nostri più antichi ricordi risalgono a un tempo in cui l’umanità era già umana e civilizzata. Le più antiche testimonianze che ne abbiamo non solo menzionano ma danno per sicure istituzioni come i re, i preti, i principi, e le assemblee del popolo; descrivono comunità già embrionalmente riconoscibili come comunità nel senso nostro. Alcune erano dispotiche, ma non si può dire che siano state sempre tali. Alcune possono essere state in un periodo di decadenza e quasi tutte ci sono descritte come molto antiche. Non sappiamo niente di quel che sia accaduto realmente nel mondo prima di questi ricordi; ma quel poco che ne sappiamo basta perché non ci sia da rimanere stupiti apprendendo che in quel mondo accadevano cose simili a quelle che accadono oggi. Non ci sarebbe niente di contraddittorio o di assurdo se si scoprisse che quelle vecchie età erano piene di repubbliche abbattute da monarchie e poi risorgenti a repubbliche, imperi espansionisti e coloniali che poi perdevano le colonie, regni che ora si univano in stati immensi ora si frazionavano di nuovo in piccole nazionalità, classi che si lasciavano trarre in ischiavitù e che poi marciavano alla riconquista della libertà, insomma tutta quella serie di eventi che può essere un progresso e che è certamente un romanzo. Ma i primi capitoli del romanzo sono stati strappati dal volume, e non potremo leggerli mai più. 84

Lo stesso dicasi della più particolare idea di evoluzione e stabilità sociale. Secondo testimonianze attendibili, barbarie e civiltà non sono stadi successivi del progresso umano. Sono condizioni che esistevano una accanto all’altra, come tuttora esistono una accanto all’altra. C’erano civiltà allora, come ci sono ora; ci sono selvaggi ora come c’erano allora. Dicono che tutti gli uomini siano passati attraverso la fase del nomadismo; ma è certo che ci sono stati alcuni che non ne sono mai usciti e sembra non improbabile che alcuni non vi siano mai entrati. E’ probabile che fin dai tempi primitivi lo zappatore attaccato alla terra e il pastore errante siano esistiti come tipi distinti di uomini; e il metterli in ordine cronologico non è che un indice di questa mania degli stadi progressivi che ha largamente falsificato la storia. Dicono che c’è stato uno stadio comunista, in cui la proprietà privata era del tutto sconosciuta, una umanità che viveva nella negazione della proprietà; ma le prove di questa negazione sono anch’esse negative. Ridistribuzioni di proprietà, giubilei e leggi agrarie sono fatti occorsi a vari intervalli e in varie forme; ma che l’umanità sia inevitabilmente passata attraverso uno stadio comunistico sembra altrettanto dubbio quanto la proposizione parallela che l’umanità ci debba inevitabilmente ritornare. È interessante vedere come i più audaci programmi per il futuro invochino l’autorità del passato, e come anche i rivoluzionari vogliano avere la soddisfazione di essere reazionari. Un altro caso analogo, assai divertente, è quello del cosiddetto femminismo. Nonostante tutte le chiacchiere pseudo-scientifiche sul matrimonio per ratto e sull’uomo della caverna bastonatore di femmine, si è visto che non appena il femminismo è diventato un articolo di moda ha messo in circolazione la teoria del matriarcato come primo stadio della civiltà umana. Evidentemente erano le donne della caverna a portare il bastone! Tutte queste idee, gira e 85

rigira, sono poco più che delle congetture; ed è curioso che esse seguano la fortuna delle mode e dei capricci moderni. Esse non sono storia, nel senso che siano provate; quando si viene alla prova, ripeto, la verità è che barbarie e civiltà sono sempre state fianco a fianco, che la civiltà si è diffusa a volte assorbendo la barbarie, e a volte è decaduta in una relativa barbarie, e quasi sempre ha mostrato di possedere in una forma definita idee e istituti che i barbari possiedono in una forma più rudimentale: così il governo e l’autorità civile, le arti e specialmente quelle decorative, i misteri e i tabù di varia specie specialmente riferentisi ai fatti sessuali, e un qualche tipo di quel che è l’oggetto principale delle nostre ricerche: quel che noi chiamiamo religione. Ora Egitto e Babilonia, questi due miracoli primevi, possono in questa materia esser presi per modelli. Si potrebbero definire modelli in azione per dimostrare che le teorie moderne non agiscono. Le due grandi verità che ci sono note su questi due grandi tipi di civiltà contraddicono in pieno ai due errori correnti che abbiamo ora esaminato. La storia dell’Egitto pare inventata perché se ne tragga la morale che l’uomo non comincia per forza dal dispotismo perché è barbaro, ma che spesso anzi va verso il dispotismo perché è civilizzato; va verso il dispotismo perché ha fatto tutte le esperienze, o (che è la stessa cosa) perché è esausto. E la storia di Babilonia pare inventata perché se ne tragga la morale che l’uomo non è necessario sia stato nomade e comunista per diventare sedentario o proprietario; e che tali tipi di civiltà spesso non sono successivi ma contemporanei. Anche a proposito di queste civiltà con le quali comincia la storia vera e propria, la storia scritta, viene naturalmente la tentazione di essere o troppo ingegnosi o troppo sicuri. Leggere le terrecotte babilonesi è cosa ben differente dal congetturare sugli utensili paleolitici; gli animali dei geroglifici egiziani ci sono noti nel loro 86

significato mentre nulla sappiamo degli animali della caverna neolitica. Ma anche qui gli ammirevoli archeologi che hanno decifrato linea per linea migliaia di geroglifici possono essere tentati di leggere tra le righe; anche una vera competenza in materia babilonese può dimenticare quanto siano frammentarie le basi della sua scienza; può dimenticare che mezzo mattone è sempre mezzo mattone, anche se è meglio mezzo mattone che nessun cuneiforme (e Babilonia non gli ha fornito che mezzo mattone). Ad ogni modo, alcune verità, storiche e non preistoriche, dogmatiche e non evoluzionistiche, fatti e non fantasie, emergono dall’Egitto e da Babilonia; e fra queste sono le due che abbiamo enunciato. L’Egitto è un nastro verde posto tra il fiume e la rossa desolazione del deserto. È opinione antica e proverbiale che esso sia stato creato dalla misteriosa bontà e dalla quasi sinistra benevolenza del Nilo. I primi egiziani di cui abbiamo sentito parlare vivevano in una fila di villaggi rivieraschi in piccole e separate comunità fra loro cooperanti lungo la banchina del Nilo. Dove il fiume si diramava nel Delta c’era tradizionalmente il principio di un diverso popolo o paese; ma non c’è bisogno di complicare il dato principale. Questi più o meno indipendenti e interdipendenti gruppi erano già considerevolmente civilizzati. Essi avevano una specie di araldica, cioè un’arte decorativa adoperata a scopi simbolici e politici: ognuno navigava il Nilo sotto le proprie insegne, rappresentanti qualche animale o uccello. L’araldica implica due idee importantissime per l’umanità, la cui combinazione dà luogo a quella nobile cosa che è la cooperazione, su cui riposa ogni consociazione, ogni popolo libero. L’araldica significa indipendenza: un emblema scelto dalla fantasia per affermare la propria individualità. L’araldica significa interdipendenza: un accordo fra i vari gruppi per il 87

riconoscimento dei vari emblemi, una scienza dell’immaginativa. Noi abbiamo qui perciò questo compromesso di cooperazione fra libere famiglie o gruppi che è il più normale costume di vita per l’umanità, e che è particolarmente evidente dovunque gli uomini possiedono la loro terra e vivono su di essa. Al solo sentir rammentare immagini di bestie o di animali lo studioso di mitologia non potrà fare a meno di mormorare come in sogno la parola «totem». Ma io mi trovo a disagio proprio per questa sua abitudine di parlare come in sogno. In questo affrettato abbozzo io ho tentato appunto di prendere le cose dal di dentro e non dal di fuori, di considerarle possibilmente in termini di pensiero e non in termini di lessico. Non significa nulla parlare di totem quando non si abbia un’idea di quel che possano provare quelli che ne hanno uno. Ammesso che essi abbiano avuto un totem e noi no, avevano più paura degli animali o avevano più confidenza? Uno che ha per totem un lupo, ha sentimenti da lupo-mannaro, o da uomo che scappi davanti a un lupo-mannaro? È come Romolo e Remo con la lupa, o come san Francesco con frate Lupo? O come un Mowgli in mezzo ai lupi? Il totem è qualche cosa come il leone britannico, o come il bulldog di John Bull3? Il culto del totem somiglia al sentimento dei negri per il Mumbo-Jumbo4 o a quello dei bambini per Jumbo5? Io non ho mai letto nulla nella letteratura folkloristica, per quanto dotta, che m’illuminasse su questa questione che è, per me, la più importante di tutte. Mi limiterò a ripetere che fra le primitive comunità egiziane c’era un’intesa intorno agli emblemi appartenenti ai singoli Stati, e che l’insieme di questi rapporti è preistorico nel senso che esiste già agli inizi della storia. E non appena la storia si estende, la questione di questi rapporti è la questione più vitale di quelle comunita rivierasche. Con la necessità di comuni relazioni sorge la necessità di un comune governo, e sulla 88

crescente grandezza si spande l’ombra del re. Accanto al re, forse più antico del re, l’altro potere coattivo è il sacerdozio; il quale presumibilmente ha che vedere più del re con quei segni e simboli rituali, per mezzo dei quali gli uomini comunicano fra loro. E in Egitto ebbe probabilmente origine la prima e tipica invenzione, a cui si deve la storia, e la differenza fra storia e preistoria: i segni archetipi della scrittura, l’arte dello scrivere. Le descrizioni che si hanno di questi imperi primordiali non hanno che in minima parte quel carattere popolare che potrebbero avere. Sono velate da un’ombra cupa, che supera di molto la tristezza naturale e, quindi, sana dei pagani. Ciò fa parte di quel segreto pessimismo, che ama fare dell’uomo primitivo una creatura repellente con un corpo immondo e un’anima piena di paura; e deriva dal fatto che gli uomini subiscono l’influenza della loro religione, specie quando la religione è l’ irreligione. Per essi tutto quel che è primitivo ed elementare dev’essere cattivo. E la conseguenza curiosa è che mentre siamo inondati dei più strampalati tentativi di romanzo primitivo, ci manca poi il vero lato romanzesco dell’essere primitivo. Ci hanno dipinto scene in cui gli uomini dell’età della pietra sono uomini di pietra che si muovono come statue, in cui gli Assiri e gli Egiziani stanno rigidi e dipinti come nella loro arte più arcaica. Ma nessuno di questi inventori di scene immaginarie ha mai provato a immaginare qualche cosa di simile a quel che potevano essere, colte nella loro freschezza, le cose che noi vediamo tutti i giorni. Non hanno visto un uomo scoprire il fuoco come un bambino scopre i fuochi artificiali. Non hanno visto un uomo divertirsi con quel meraviglioso ritrovato che è la ruota, come un bambino che si diverta a metter su una stazione radiotelegrafica. Non hanno nemmeno uno spirito giovanile nelle loro descrizioni della giovinezza del mondo. Ne deriva che in tutte le loro 89

primitive e preistoriche fantasie mancano del tutto gli scherzi. Manca perfino qualunque scherzo relativo ad invenzioni pratiche. E ciò è evidente nel caso particolare dei geroglifici, giacché sembra che questa altissima arte umana dello scrivere abbia avuto principio da uno scherzo. A qualcuno dispiacerà che la letteratura sia cominciata da un giuoco di parole. Il re, o i sacerdoti, o altri autorevoli personaggi, volendo inviare un messaggio all’estremità di quell’incomodo territorio, lungo e stretto, ebbero l’idea di mandarlo per mezzo di una scrittura figurata, come quella dei pellirosse. Come molti di coloro che si dilettano in questo genere di passatempo, non sempre trovavano le parole che facevano al caso. Poteva capitare che una parola che significava tassa si pronunciasse come porco; ed essi bravamente disegnavano un porco e affidavano l’atroce freddura all’intelligenza di chi riceveva il messaggio. Allo stesso modo un geroglifista moderno per scrivere la parola «canotto» sarebbe capace di disegnare un cane seguito dal numero 86. Il sistema che era buono per i faraoni è buono anche per lui; ma come dev’essere stato divertente scrivere o leggere quei messaggi, quando la cosa era completamente nuova! Se c’è della gente che deve scrivere romanzi sull’antico Egitto (e non ci sono lacrime né preghiere né minacce che valgano a levarle questa abitudine), scrivano almeno delle scene come questa, le quali ci ricorderanno, se non altro, che gli antichi egiziani erano uomini come noi. Descrivano la scena del grande monarca, seduto fra i suoi sacerdoti, che fanno le più matte risate o lo tempestano di suggerimenti man mano che le regali freddure diventano sempre più strambe e indifendibili. Un’altra scena egualmente interessante potrebbe essere quella della spiegazione di questo cifrario: congetture, «chiavi», scoperte che dànno il brivido delle novelle poliziesche. Ecco come bisognerebbe scrivere la storia e il romanzo primitivo. 90

Qualunque fosse la vita religiosa e morale dei tempi remoti (ed era probabilmente più umana di quanto si è soliti supporre), l’interesse scientifico dev’essere stato intenso. Le parole devono essere state più sorprendenti del telegrafo senza fili, e gli esperimenti più comuni altrettante scariche elettriche. Si aspetta ancora qualcuno che scriva una storia viva della vita primitiva. La nostra non è che una parentesi collegata alla questione generale dello sviluppo politico per mezzo d’una istituzione che ha una parte di prim’ordine in queste prime affascinanti meraviglie della scienza. E’ pacifico che questa scienza si debba in gran parte ai preti. Wells e altri scrittori moderni, non certo sospetti di debolezza verso la gerarchia ecclesiastica, sono tuttavia d’accordo nel riconoscere che il sacerdozio pagano ha fatto molto per le arti e per le scienze, fra gli «illuminati» più ignoranti si usa dire che i preti sono sempre stati nemici del progresso; e una volta in un contraddittorio il mio avversario mi disse che io combattevo le riforme moderne così come gli antichi sacerdoti avranno molto probabilmente ostacolato l’invenzione della ruota. Io gli obiettai che era molto più probabile che fosse stato un antico sacerdote a inventare la ruota. Ed è più che probabile che gli antichi sacerdoti siano entrati per qualche cosa nella scoperta della scrittura. La stessa parola geroglifico è affine alla parola gerarchia. La religione era allora un politeismo più o meno complicato, di un tipo che descriveremo meglio in seguito; ebbe prima un periodo di cooperazione col re; in un secondo periodo fu temporaneamente distrutta dal re, che per combinazione si trovò ad essere un principe con una sua speciale forma di teismo; e in un terzo periodo fu essa che abolì praticamente il re e governò in sua vece. Il mondo dovrebbe ringraziare la religione per tante cose che tutti considerano comuni e necessarie; e gl’inventori di queste cose dovrebbero trovar posto fra gli eroi dell’umanità. Se 91

noi fossimo acquietati in un vero paganesimo, e non agitati in una irrazionale reazione contro il Cristianesimo, dovremmo paganamente rendere onore a questi anonimi benefattori dell’umanità. Dovremmo velare le statue di colui che primo scoperse il fuoco, o primo costruì una barca, o domò un cavallo. Se noi onorassimo questi uomini di ghirlande e di sacrifici, sarebbe più scusato che deturpare le nostre città con brutti monumenti a insipidi politicanti e filantropi. Ma uno dei segni della forza del Cristianesimo è che, dopo il suo avvento, non c’è più un pagano che riesca ad essere realmente umano. Il punto essenziale qui è che, regio o pontificale, il governo egiziano trovò sempre più necessario stabilire delle comunicazioni; e, con le comunicazioni, andò sempre di pari passo un certo elemento di coercizione. Potrebbe sostenersi che lo stato diventò più dispotico man mano che diventò più civile; qualcuno potrebbe supporre che sia diventato più dispotico per diventare più civile. E questo, in ogni età, un argomento in favore dell’autocrazia; ed è interessante vederlo illustrato nelle età più antiche. Ma non è vero in alcun modo che sia stato più dispotico nelle età più antiche e sia diventato liberale più tardi: la storia dimostra esattamente il contrario. Non è vero che sia cominciato il governo della tribù quando declinò il terrore del Vecchio col suo trono e la sua lancia; è probabile, almeno in Egitto, che il Vecchio sia stato un Giovane armato per affrontare condizioni nuove. La sua lancia si allungò e il suo trono si innalzò via via che la civiltà egiziana diventava più complessa e più completa. In questo senso la storia dell’Egitto è la storia del mondo; e smentisce l’affermazione volgare che il terrorismo sia stato possibile solo al principio e non alla fine. Noi non sappiamo quale fosse l’assetto primitivo di quell’amalgama più o meno feudale di proprietari, contadini e schiavi nei piccoli stati 92

fiancheggianti il Nilo; può essere stata una comunità rurale di un tipo anche più popolare: quel che sappiamo è che quei piccoli stati perdettero la loro libertà proprio con l’esperienza e col progresso. L’assoluta sovranità è qualche cosa di non puramente antico ma piuttosto di relativamente moderno: dopo aver percorso, tutta, quella che si chiama la via del progresso, gli uomini tornano al re. L’Egitto presenta, nella sua storia primordiale, il primordiale problema della libertà e della civiltà. E’ un fatto che gli uomini perdono in varietà quel che acquistano in complessità. Noi non abbiamo risolto il problema meglio di come l’ abbiano risolto loro; ma sarebbe un diminuire la stessa umana grandezza del problema il dire che la tirannia non ha altro motivo che il terrore. E come l’esempio egiziano confuta l’errore corrente sui rapporti fra dispotismo e civiltà, così l’esempio babilonese confuta l’errore sui rapporti fra civiltà e barbarie. Anche di Babilonia sentiamo parlare per la prima volta quando è già civilizzata; per la semplice ragione che non possiamo sentir parlare di una cosa finché non ha progredito abbastanza per parlare. Babilonia ci parla in caratteri cuneiformi, quello strano e rigido simbolismo triangolare che contrasta col pittoresco alfabeto dell’Egitto. Per quanto l’arte egiziana sia relativamente rigida c’è sempre qualche cosa di sostanzialmente differente dallo spirito babilonese che era troppo rigido per avere un’arte. C’è forse qualche cosa della ristretta ma vivida curva del fiume che quando parliamo del serpente del vecchio Nilo, ci la quasi pensare al Nilo come a un serpente. Quella di Babilonia fu una civiltà di diagrammi più che di pitture. W. B. Yeats, che ha un’immaginazione storica da eguagliare la sua immaginazione mitologica (e l una sarebbe infatti impossibile senza l’altra), scriveva giustamente che gli uomini osservavano le stelle «dalla loro pedantesca Babilonia». I caratteri cuneiformi erano incisi sui 93

mattoni di cui era fatta tutta la loro architettura; e i mattoni erano di mota cotta in fornace e il materiale aveva forse in sé qualche cosa che vietava al senso plastico di svilupparsi in sculture o rilievi. Era una civiltà statica, ma scientifica, molto progredita nella meccanica e per certi versi altamente moderna. Si dice che coltivassero come noi il tipo signorina e riconoscessero ufficialmente una categoria di lavoratrici indipendenti. C’è forse in questo potente fortilizio di fango secco qualche cosa che suggerisce l’idea dell’attività utilitaria di un grande alveare, grande ma umano, in cui vediamo molti degli stessi problemi sociali dell’antico Egitto e della moderna Inghilterra; e con tutti i suoi difetti appare come uno dei primi capolavori dell’uomo. Sorgeva nel triangolo formato dai fiumi leggendari del Tigri e dell’Eufrate, e la vasta agricoltura di quell’impero, da cui dipendeva la vita delle sue città, era favorita da un perfezionato sistema di canali. Aveva anche per tradizione una vita intellettuale assai elevata, più filosofica che artistica, e alla sua prima fondazione presiedettero quei grandi personaggi che rappresentano la sapienza astrologica dell’antichità: i maestri di Abramo, i Caldei. Contro questa solida società, come contro una muraglia di mattoni, insorsero di epoca in epoca gli anonimi eserciti dei nomadi. I quali venivano fuori dai deserti dove avevano sempre vissuto la loro vita e dove vivono anche oggi. Inutile fermarsi sulla natura di quella vita: è semplice e facile seguire un gregge o una mandria che pascolano, e vivere del latte e della carne che essi possono fornire. Indubbiamente queste abitudini di vita davano quasi tutto quello che la vita può dare all’uomo, tranne un focolare. Molti di quei pastori possono fin dai più remoti tempi essersi interessati delle verità e degli enigmi che sono nel libro di Giobbe; e fra essi Abramo e i suoi figli che hanno dato al mondo moderno l’enigma infinito del loro quasi 94

monomaniaco monoteismo. Erano un popolo selvaggio, incapace di comprendere la complessità d’un’organizzazione sociale, e agitato da uno spirito che lo faceva continuamente muovere in guerra contro una civiltà ad esso estranea. La storia di Babilonia è la storia della sua difesa contro le orde del deserto che venivano ogni secolo, ogni due secoli, e generalmente tornavano donde erano venute. Alcuni dicono che furono gli avanzi di un’invasione di nomadi a costruire a Ninive il superbo regno degli Assiri che scolpirono sui loro templi grandi mostri, tori barbuti con ali di cherubino, e che mandarono per il mondo i loro capitani e conquistatori che vi lasciarono le loro impronte colossali. L’Assiria fu un interludio imperiale. Tutta la sua storia è la storia della guerra fra i popoli erranti e un regno rimasto immobile. Probabilmente nei tempi preistorici, e certo nei tempi storici, quelle onde vaganti si gettavano verso l’occidente e devastavano tutto quanto potevano trovare. L’ultima volta che vennero, trovarono Babilonia finita; ma ciò fu in tempi abbastanza prossimi e il loro capo si chiamava Maometto. Vale la pena di fermarsi su questa storia perché essa contraddice direttamente, com’è stato osservato, all’impressione corrente che il nomadismo sia una cosa preistorica e l’assetto sociale una cosa recente. Niente dimostra che i babilonesi siano mai stati nomadi; né c’è il più piccolo indizio che le tribù del deserto si siano stabilite su un territorio. Questa idea di uno stadio di nomadismo seguito da uno stadio di stabilità sociale è già stata abbandonata dagli studiosi più seri, alle cui ricerche tanto dobbiamo. Ma io non prendo di mira in questo libro gli studiosi seri; io mi occupo di quella vasta e vaga opinione pubblica che s’è lasciata prematuramente sorprendere da certe imperfette investigazioni, e che ha messo in giro una falsa idea della storia dell’umanità: l’idea di una evoluzione dalla scimmia all’uomo e dal barbaro all’uomo civile, l’idea 95

che, in ogni epoca, dobbiamo sempre guardare alla barbarie come al passato e alla civiltà come all’avvenire. Disgraziatamente questa idea è, nel duplice senso, interamente campata in aria. E’ un’atmosfera e non una tesi. Gli uomini che vivono in quest’atmosfera troveranno più facilmente una risposta nella fantasia che nelle teorie; e sarà bene, se a qualcuno venisse in mente di sostenere una cosa simile, invitarlo a chiudere gli occhi un momento e a ripensare alle grandi muraglie babilonesi, vaste e popolate come un popoloso precipizio. Un fatto ci si para davanti come un’ombra. Uno sguardo a questi due antichissimi imperi mostra che le prime relazioni domestiche furono complicate da qualche cosa che era meno umano sebbene potesse considerarsi come egualmente domestico: l’oscuro gigante della schiavitù che fu evocato come un genius a lavorare in quelle gigantesche costruzioni di mattone e di pietra. Qui ancora non dobbiamo troppo facilmente accettare il luogo comune che la reazione andava di pari passo con la barbarie: in materia, per esempio, di manomissioni, la più antica schiavitù sembra essere stata più liberale che quella di tempi più vicini a noi; e chi sa che non sia stata più liberale della schiavitù futura. Assicurare il sostentamento all’umanità costringendo una parte di essa a lavorare, fu dopo tutto un espediente umano, a cui non è improbabile che si ricorra di nuovo. Ma questa antica schiavitù ha ad ogni modo un significato. Essa è la riprova di uno dei fatti fondamentali di tutta l’antichità precristiana, un fatto che si verifica costantemente, e cioè che l’individuo non conta nulla di fronte allo Stato. Ciò è vero della più democratica polis dell’Ellade come del dispotismo babilonese. Che un’intera classe d’individui fosse insignificante e quasi invisibile era nello spirito dei tempi; e dev’essere stato normale perché era richiesto da quel che oggi si direbbe «organizzazione sociale». Qualcuno ha detto 96

«l’uomo è niente e l’opera è tutto», credendo di lanciare una frase brillante alla Carlyle; ma esso non è che il sinistro motto dello Stato servile pagano. In questo senso c’è del vero nella tradizionale visione di grandi colonne e di piramidi perennemente innalzate sotto l’immutabile cielo, da uomini anonimi e innumerevoli, che faticavano come formiche e morivano come mosche, sommersi via via dal lavoro delle loro mani. Ma ci sono due altre ragioni per cominciare dai due punti fissi dell’Egitto e di Babilonia. Essi sono ormai fermati nella tradizione come i tipi dell’antichità; e la storia senza tradizione è storia morta. Babilonia è ancora sulla bocca delle nutrici e dei ragazzi; l’Egitto (col suo popolo enorme di principesse aspettanti la reincarnazione) è ancora il soggetto di un’infinità di romanzi. Ora, una tradizione è generalmente una verità; tanto più quanto più è popolare, e sia pure volgare. Non può essere senza significato tale intromissione di elementi egiziani e babilonesi nei discorsi delle balie e nella letteratura narrativa; anche i giornali, di solito così arretrati, sono già arrivati al regno di Tutankamen. Questa prima ragione — piena del senso comune che è nelle leggende popolari - è il fatto che noi siamo più al corrente di queste cose tradizionali che di cose contemporanee; ed è sempre stato così. Tutti i viaggiatori da Erodoto a lord Carnarvon hanno seguito la stessa strada. Le odierne speculazioni scientifiche pubblicano e diffondono carte del mondo primitivo, con le correnti delle migrazioni e delle fusioni di razze segnate a linee punteggiate in quegli spazi che gli antiscientifici cartografi del Medioevo si contentavano di qualificare «terra incognita», quando non riempivano il vuoto allettante disegnandovi un drago come per indicare la probabile accoglienza riservata agli esploratori. Nella migliore delle ipotesi le speculazioni odierne non sono niente più che 97

congetture; nell’ipotesi peggiore le linee punteggiate possono essere più fantastiche dei draghi. E’ facile qui cadere in un inganno, anche per le persone intelligenti, e specialmente se abbiano dell’immaginazione: l’inganno è quello di credere che, perché un’idea è più grande nel senso materiale, sia anche più grande nel senso di più importante, certa, fondamentale. Sarebbe come dire a uno che viva solo in una capanna di canne nel centro del Tibet, che egli vive nell’Impero cinese (e l’Impero cinese è certamente splendido, vasto e imponente); oppure che vive nell’Impero britannico, cosa che gli farebbe qualche effetto. Finirebbe per avere più certezza intorno all’Impero cinese, che egli non può vedere, che intorno alla capanna che ha davanti agli occhi. Un’illusione magica della sua mente farebbe sì che il suo ragionamento non potrebbe prescindere dall’Impero, benché la sua esperienza gli suggerisse la capanna; e arriverebbe a tal punto di esaltazione da voler dimostrare che una capanna di canne non può esistere nei domini del Drago cinese; che è impossibile che una civiltà come quella di cui gode contenga una catapecchia come quella in cui abita. La sua pazzia deriverebbe dal supporre che perché la Cina è una grande ipotesi, che abbraccia tutto, debba essere perciò qualche cosa più d’un’ipotesi. Ora, i nostri moderni ragionano precisamente nella stessa guisa; ed estendono il loro ragionamento a cose molto meno reali e certe dell’Impero cinese. Sembrano dimenticare, per esempio, che uno non è neanche certo dell’esistenza del sistema solare come è certo dell’esistenza delle Dune del Sud7. Il sistema solare non è che una deduzione, una deduzione indubbiamente giusta; ma poiché è una deduzione enorme e di lunga portata si finisce col dimenticare che è una deduzione e col trattarla come un postulato. Si potrebbe scoprire un bel giorno che tutto il calcolo è sbagliato; e il sole, le stelle e i lampioni 98

delle vie continuerebbero a far luce lo stesso. Ma ormai abbiamo dimenticato che è un calcolo, e saremmo quasi pronti a contraddire il sole se non rientrasse nel sistema solare. Se questo è un errore che si verifica nel caso di fatti che possono ritenersi accertati, com’è il caso del sistema solare e dell’Impero cinese, a maggior ragione si verificherà e sarà più disastroso quando si tratti di teorie o di altre materie non suscettibili di alcun accertamento. Così la storia, e specialmente la storia preistorica, ha l’orribile abitudine di cominciare con delle generalizzazioni sulla questione delle razze. Non starò a descrivere il disordine e la stupidità che questa inversione ha prodotto nei politici moderni. Poiché si suppone vagamente che la razza abbia dato luogo alla nazione, si parla della nazione come di qualche cosa di più vago della razza. Poiché si è inventata una ragione per spiegare un risultato, si tende a negare il risultato per giustificare la ragione. Prima si considerano i celti come un assioma, e gl’irlandesi come un’illazione; e poi ci si meraviglia che un battagliero, rumoroso irlandese si dispiaccia di esser trattato come un’illazione. Non si riesce a capire che gl’irlandesi sono irlandesi, siano o non siano celti, ci siano o non ci siano stati i celti. E quel che porta fuori di strada è ancora una volta la dimensione della teoria: la sensazione che il dato immaginario superi il dato di fatto. C’è, o si presuppone vi sia, una vastissima razza celtica che comprende gl’irlandesi; basta questo perché gl’irlandesi debbano ribadire la loro esistenza dalla razza celtica. La stessa confusione ha eliminato inglesi e tedeschi sommergendoli in una stessa razza teutone, e secondo alcuni da questa comunanza di razza avrebbe dovuto derivare l’impossibilità di una guerra. Io cito questi esempi volgari e abusati en passant, come gli esempi più comuni dell’errore di cui parlo; l’importanza del quale è che può avere applicazione anche nelle cose più 99

antiche. Più il problema della razza è remoto e dimenticato, più è categorica questa sicurezza dello scienziato vittoriano. Gli uomini di questa tradizione scientifica hanno trasformato in primi principi quelle che erano soltanto le ultime illazioni. Essi sono più sicuri di essere ariani che di essere anglosassoni; e sono più sicuri di essere anglosassoni che di essere inglesi; non si sono mai accorti di essere europei, ma non hanno mai dubitato della loro qualità di indoeuropei. Queste teorie vittoriane hanno cambiato molto la loro forma e i loro obiettivi; ma questa mania di consolidare un’ipotesi in una teoria, e una teoria in un assioma, non è ancora passata di moda. La gente non può facilmente sbarazzarsi di quel confusionismo per cui si pretende che i fondamenti della storia siano sicuri, che i primi passi siano garantiti, che le grandi generalizzazioni siano ovvie. Per quanto la contraddizione possa sembrare paradossale, tale pretesa cozza con la verità: le grandi cose sono segrete e invisibili; sono le piccole ad essere enormi ed evidenti. Tutte le razze del globo sono state oggetto di queste speculazioni, di cui non è possibile tracciare uno schema. Ma se prendiamo la sola razza europea, vediamo che la sua storia, o meglio la sua preistoria, ha subito molte retrospettive rivoluzioni da quando io son nato. Prima si chiamava la razza caucasica; e io ho letto da ragazzo un descrizione del suo urto con la razza mongolica: era scritta da Bret Harte e si apriva con la domanda: «O il caucasico messo fuori giuoco?». Così, infatti, dovette essere, tanto che in breve diventò l’indoeuropeo, talvolta (mi duole il dirlo) presentato presuntuosamente come indogermanico. Pare che l’indù e il tedesco adoperino la stessa parola per «padre» e «madre»; e ci sono altre analogie tra il sanscrito e varie lingue occidentali; questo è bastato perché sparissero a un tratto tutte le evidentissime differenze fra indù e 100

tedeschi. Generalmente questo composito personaggio era presentato come ariano, e la sua particolarità era di esser disceso verso l’occidente dagli altipiani dell’India dove erano ancora rimaste le vestigia del suo linguaggio. Leggendo, da ragazzo, queste cose, io pensavo che dopo tutto non era necessario che gli ariani fossero discesi verso l’occidente lasciando dietro di sé tracce del loro linguaggio; potevano anche essere saliti verso l’oriente portando il loro linguaggio con sé. Se rileggessi ora le stesse cose, mi contenterei di confessare la mia ignoranza in proposito. Ma in realtà sarebbe difficile rileggerle oggi, perché oggi non si scrivono più. Sembra che anche gli ariani siano messi fuori giuoco. Per lo meno, hanno cambiato non solo il nome, ma anche l’indirizzo; il punto di partenza e l’itinerario. Una nuova teoria sostiene che la nostra razza non venne nella sede attuale dall’oriente ma dal mezzogiorno: gli europei non sarebbero venuti dall’Asia, ma dall’Africa. Taluno poi ha fatto la strana supposizione che gli europei siano venuti dall’Europa: o, meglio, che non l’abbiano mai lasciata. C’è poi qualche prova di una più o meno preistorica pressione dal nord come quella che sembra aver portato i greci a ereditare la cultura cretese e quella che portò spesso i galli, attraverso le Alpi, sulle pianure d’Italia. Ma io ho preso quest’esempio dell’etnologia europea per far vedere che i nostri scienziati hanno girato la bussola da tutte le parti, e per concludere che io, che non sono uno scienziato, non posso pretendere di decidere su due piedi dove questi professori non vanno d’accordo. Io mi servo sempre del mio senso comune, e qualche volta penso che il loro dev’essersi un po’ arrugginito per mancanza di uso. Il primo atto di senso comune è quello di distinguere una nuvola da una montagna. E io affermerò che nessuno sa nulla di queste cose, nel senso in cui tutti sappiamo che esistono le piramidi d’Egitto. 101

La verità, ripetiamolo, è che quel che noi vediamo, come distinto da quel che possiamo ragionevolmente indovinare, in questa più antica fase della storia, è l’oscurità che copre i popoli, con rarissime luci che brillano qua e là a caso sul sentiero dell’umanità; due di queste luci brillano su due di queste alte città primeve: sulle alte terrazze di Babilonia, e sulle grandi piramidi del Nilo. Ci sono altre luci antiche, o che possono ritenersi antiche, nelle zone più remote di quel vasto deserto di tenebre. Nel lontano oriente c’è l’antichissima civiltà della Cina; e avanzi di civiltà sono nel Messico, e nell’America del Sud, e in altri luoghi; civiltà talora così avanzate da esser giunte alle forme più raffinate di culto demoniaco. Ma la differenza fra queste e le altre civiltà che abbiam visto risiede nell’elemento della tradizione: la tradizione di queste civiltà perdute è ormai rotta, e sebbene ancora viva la civiltà cinese è dubbio se noi ne sappiamo qualche cosa. Uno che voglia misurare l’ambiente cinese deve seguire la tradizione delle misurazioni cinesi; e avrà la sensazione di entrare in un altro mondo sotto altre leggi di tempo e di spazio. Il tempo è visto col telescopio come un oggetto esterno, e i secoli assumono il lento e torpido andamento delle epoche geologiche: l’uomo bianco che cerchi di vedere con gli occhi dell’uomo giallo si sente girare la testa e guarda se non stia per spuntargli il codino. Non può prendere in un senso scientifico quella strana prospettiva che mena alla pagoda primitiva del primo dei figli del cielo; è realmente agli antipodi, in un mondo che è la vera alternativa del Cristianesimo, e in cui si usa camminare con la testa all’ingiù. Ho parlato del cartografo medioevale e dei suoi draghi; ma quale viaggiatore medievale, per quanto in dimestichezza coi mostri, si aspetterebbe di trovare un paese dove il drago è un essere benevolo e amico? Parlerò altrove del lato più serio della tradizione cinese; qui parlo solo della 102

tradizione e della sua antichità; e ne parlo per mettere in rilievo il fatto che a questa antichità cinese non c’è un ponte della tradizione che ci unisca, mentre siamo invece uniti a Babilonia e all’Egitto. Erodoto è per noi assai più umano del cinese in cappello a cocomero che siede di faccia a noi in un caffè di Londra. Noi possiamo provare i sentimenti che provarono Davide e Isaia mentre non è certo che possiamo mai provare sentimenti come quelli che prova Li-HungCiang. Gli stessi peccati in cui caddero Elena e Betsabea sono passati a significare proverbialmente l’umana debolezza, e l’intima passione, e il perdono; le virtù del cinese hanno in sé qualche cosa di terrificante. Le ragioni di queste differenze sono da ricercarsi nella distinzione o nella conservazione di un’ereditaria continuità storica: come dall’antico Egitto all’Europa moderna. Ma quando ci chiediamo quale fu il mondo di cui portiamo l’eredità, e perché quei determinati popoli e luoghi sembrano appartenere ad esso, solo allora possiamo comprendere il fatto centrale della storia della civiltà. Questo centro fu il Mediterraneo, che non fu tanto un lago quanto un mondo: un mondo con qualche cosa del carattere del lago, nel senso che diventò ogni giorno più un centro di unificazione in cui si incontrarono le correnti delle più strane e diverse civiltà. Il Nilo e il Tevere fluiscono egualmente verso il Mediterraneo, come l’Egiziano e l’Etrusco contribuirono alla civiltà mediterranea. I raggi del grande mare si sparsero largamente sopra la terra; e l’unità fu sentita così dagli arabi, soli in mezzo al deserto, come dai galli al di là dei monti del settentrione. Il sorgere graduale di una comune cultura che percorse tutte le coste di questo mare interno è il fatto più importante dell’antichità. Come vedremo, fu al tempo stesso un bene e un male. Nell’orbis terrarum di questo cerchio terrestre ci furono gli estremi della pietà e della malvagità, ci furono 103

contrasti di razza e, più ancora, contrasti di religione. Esso fu la scena di una interminabile lotta fra l’Asia e l’Europa, dalla battaglia navale dei persiani a Salamina, a quella dei turchi a Lepanto; fu la scena, come vedremo meglio più tardi, di una suprema lotta spirituale fra due tipi di paganesimo, l’uno di fronte all’altro nelle città latine e fenicie; nel foro romano e nel mercato punico. Fu il mondo del bene e del male, il mondo di tutto ciò che vale di più; con tutto il rispetto per gli aztechi e per i mongoli dell’Estremo Oriente, essi non hanno avuto mai l’importanza che ebbe, e che ha, la tradizione mediterranea. Fra questa e l’Estremo Oriente ci furono contatti di varia specie, attraverso i culti e le conquiste, in proporzione di quanto il loro mondo fosse intelligibile per noi. I persiani vennero cavalcando a metter fine alla storia di Babilonia; e una leggenda greca ci narra come questi barbari impararono a tirare con d’arco e a dire la verità. Alessandro il Grande marciò dalla Grecia, coi suoi macedoni, verso il sole levante, e tornò con strani uccelli del colore delle nubi mattutine e con strani fiori e gioielli tolti ai giardini e ai tesori d’ignoti re. L’Islam penetrò in quel mondo orientale, e ce lo rese parzialmente comprensibile, precisamente perché anch’esso era nato in quel cerchio di territori che orlava l’antico mare dei nostri avi. Nel Medioevo I Impero mongolico accrebbe la sua maestà senza perdere il suo mistero: i tartari conquistarono la Cina e i cinesi appena se ne accorsero. Tutte queste cose sono per se stesse interessanti; ma è impossibile spostare il centro di gravità dal mare europeo al continente asiatico. Tutto sommato, se non ci fosse nient’altro nel mondo all’infuori di ciò che è stato detto, fatto, scritto e costruito sulle rive del Mediterraneo, ci sarebbe ancora, in ciò che ha di vitale e di prezioso, tutto il mondo nel quale viviamo. Quando la civiltà del mezzogiorno si estese a occidente e a settentrione, produsse 104

cose meravigliose, di cui indubbiamente noialtri inglesi siamo la più meravigliosa; e quando da qui si estese alle colonie e ai nuovi continenti, fu ancora - in quanto civiltà la stessa civiltà. È che intorno al piccolo mare, simile a un lago, a parte le loro estensioni e i loro echi, c’erano già tutte le cose: la repubblica e la Chiesa, la Bibbia e l’epopea eroica, l’Islam, Israele e i ricordi dei perduti imperi, Aristotele e la misura dell’universo. Per questo - perché la prima luce su quel mondo fu veramente luce, fu la luce solare in cui tuttora ci muoviamo, e non soltanto la vaga apparizione di strane stelle - ho voluto cominciare col segnalare il posto dove quella luce prima brillò: sulle turrite città dell’Oriente mediterraneo. Ma sebbene Babilonia e l’Egitto abbiano un diritto di priorità, per il fatto stesso di rientrare nella nostra tradizione più prossima - enigmi fascinatori per noi, come furono per i nostri padri - non dobbiamo credere che siano state quelle le sole civiltà del mare meridionale; né che tutta la civiltà sia stata soltanto sumera o semitica, o copta, o tanto meno asiatica o africana. Le più serie e recenti ricerche mettono sempre più in luce l’antica civiltà europea, e specialmente quella che si può ancora approssimativamente chiamare la civiltà greca, intesa nel senso che ci furono greci prima dei greci, come in tante delle loro mitologie ci furono dei prima degli dei. L’isola di Creta fu il centro di questa civiltà ora chiamata minoica, dal Minosse che visse nell’antica leggenda e il cui labirinto è stato effettivamente scoperto dai moderni archeologi. Questa progredita società europea coi suoi porti e coi suoi canali e coi suoi macchinari domestici sembra aver ceduto davanti ad una invasione dei suoi vicini nordici, che fecero o ebbero in eredità quella Grecia che noi storicamente conosciamo. Ma questo periodo iniziale non trascorse prima di aver dato al mondo (ali doni che il mondo invano da allora si è sforzato di ripagare, non fosse 105

che col plagiarli. Lungo la costa ionica di fronte a Creta e alle isole c era una città probabilmente di quelle che chiameremmo oggi un castello o un borgo fortificato. Si chiamò Ilio, e poi I foia, nome che non sparirà giammai dalla terra. Un poeta che dovette essere un mendicante, o un cantastorie, che forse non sapeva leggere né scrivere, e che la tradizione descrive come cieco, compose un poema sulla guerra mossa dai greci a quella città per riprendersi la più bella donna del mondo. Che la più bella donna del mondo si trovasse in quella piccola città può essere una leggenda; che il più bel poema del mondo sia stato scritto da qualcuno che non conosceva niente di più grande di quelle piccole città è un fatto storico. Si dice che il poema fu composto sul finire di quel periodo; che la primitiva civiltà lo produsse nella sua decadenza, nel qual caso mi piacerebbe sapere che cosa produsse nel suo fiorire. E’ vero comunque che questo, che è il nostro primo poema, potrebbe essere anche l’ultimo. Potrebbe essere l’ultima, come fu la prima parola detta dall’uomo sul suo mortale destino, considerato soltanto come visione mortale. Se il mondo ridiventa pagano e perisce, l’ultimo uomo rimasto solo non avrà che a declamare l’Iliade e morire. Ma in questa grande umana rivelazione dell’antichità c’è un altro elemento di grande importanza storica, che non ha avuto, secondo me, nella storia il posto che gli compete. Il poeta ha evidentemente concepito così il suo poema che le sue simpatie - e certamente anche quelle di chi legge - vanno più al vinto che al vincitore. E questo sentimento s’ingrandisce nella tradizione man mano che si allontana nel tempo. Achille ha una posizione quasi di semidio nell’epoca pagana; ma egli più tardi scompare. Ettore diventa più grande col trascorrere delle età: il suo nome è quello di un cavaliere della Tavola rotonda, e la sua spada è quella che la leggenda mette in pugno a Rolando che giace 106

nell’ultima ruina e nella gloria della propria disfatta con vicina la spada del vinto Ettore. Il nome di Ettore anticipa tutte le sconfitte per cui dovrà passare la nostra razza e la nostra religione; è il presagio del trionfo che sopravvive a cento disfatte. Il racconto della fine di Troia non avrà mai fine: esso è innalzato per sempre negli echi della vita, immortali come la nostra disperazione e come la nostra speranza. Troia vivente era una piccola cosa che poteva rimanere ignorata per i secoli. Troia caduta è stata sollevata in un ardore di fiamma e sospesa nell’istante del suo annichilimento immortale. La fiamma l’ha distrutta e quella fiamma non si estinguerà mai. E con la città sarà immortale l’eroe: disegnato in linee arcaiche in quel crepuscolo primevo, egli è la prima figura di cavaliere. C’è una profetica coincidenza in questo nome: la parola cavaliere, che sembra confondere in una sola visione l’uomo e il cavallo, è quasi profetizzata nel tuono dell’esametro omerico e nella irrompente parola con cui l’Iliade si chiude8. È quella stessa unità per cui non possiamo trovare altro nome che il sacro centauro della cavalleria. Ma ci sono altre ragioni per sollevare nella fiamma la sacra città. La santità del villaggio cinto di mura, per cui morivano gli eroi, si propagò come un incendio intorno alle Coste e alle isole del Mediterraneo settentrionale. Dalla piccolezza della città venne la grandezza dei cittadini. L’Ellade con le sue mille statue non produsse nulla di più statuario di quella statua vivente: l’ideale dell’uomo che si impone a se stesso. L’Ellade dalle mille statue non fu che leggenda e letteratura; tutto il labirinto delle sue piccole nazioni armate risuonò del pianto di Troia. Una più tarda leggenda - riflessa ma non accidentale narrò poi che i fuggitivi da Troia fondarono un regno sul lido italiano. È spiritualmente vero che la virtù civile ha tale 107

radice. Là rifulse come lo scudo di Ettore il mistero dell’onore, che non è nato da Babilonia né dall’orgoglio egizio, e sfidò l’Asia e l’Africa, finché venne l’alba di un nuovo giorno, annunziata dall’accorrere delle aquile e dall’apparire di un nome: il nome che risuonò come la folgore quando il mondo si svegliò, a Roma. 1. Nell’antico Impero ottomano, veniva così chiamato il Consiglio dei Ministri. 2. Riccardo di Clare, noto come Strongbow (arco forte) era un lord normanno che diede un contributo importante alla conquista inglese dell’Irlanda. 3. John Bull è la personificazione nazionale del Regno di Gran Bretagna, creata nel 1712 e resa popolare dalla stampa e dagli illustratori del tempo, fino ai giorni nostri. È raffigurato ironicamente come un uomo tozzo e ben piantato, l’idealtipo del tranquillo gentiluomo di campagna inglese, spesso accompagnato da un bulldog. Qui Chesterton lo cita in contrasto con la solennità del’emblema ufficiale britannico, ovvero il leone. 4. Espressione coniata al tempo dell’espansione coloniale britannica per descrivere i rituali religiosi dei nativi africani, misteriosi e incomprensibili agli occhi dei colonizzatori. 5 Jumbo l’elefante era la grande attrazione dello zoo di Londra nella seconda metà dell’Ottocento. 6 Nel testo: «represent at once by unscrupulously drawing a hat followed by a series of upright numerals» cioè: at once (ad un tempo) geroglifizzato in hat (cappello) ones (serie di I). 7. South Downs è una regione dell’Inghilterra meridionale compresa tra le contee dell’Hampshire e del Sussex. 8. Ώς οϊγ άμφίεπον τάφον ‘Έκτορος ίπποδάμοιο. (Trad. «Cosi onorarono la sepoltura di Ettore domatore di cavalli»).

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Capitolo IV Dio e le religioni comparate UN PROFESSORE CHE MI ACCOMPAGNAVA una volta sulle rovine romane di un’antica città britannica mi disse una cosa che mi fece l’effetto di una satira contro tanti altri professori. Forse egli scherzava, sebbene mantenesse un’ironica gravità, e può darsi che non abbia capito che lo scherzo andava a colpire gran parte di quella scienza che si chiama delle religioni comparate, lo gli indicavo una scultura rappresentante il sole col solito alone raggiato, ma che sul disco invece di avere una faccia di adolescente come quella di Apollo aveva una faccia barbuta come quella di Nettuno o di Giove. «Già - mi disse il professore con una certa delicata esattezza - dicono che questo rappresenti il locale dio Sul. Le migliori autorità identificano Sul con Minerva; ma la faccia starebbe a dimostrare che l’identificazione non è perfetta». Ecco quel che si direbbe un efficace eufemismo. Il mondo moderno è più buffo di qualunque satira. Belloc ha fatto dire ad un suo burlesco personaggio che le moderne ricerche avevano dimostrato che un busto di Arianna era invece un Sileno. Ma ciò è niente in confronto di una Minerva che ci si presenta come la donna barbuta del Padiglione di Barnum. L’uno e l’altro caso rassomigliano a molte delle identificazioni che le «migliori autorità» fanno in materia di religione comparata; e quando le credenze 109

cattoliche sono ravvicinate ai miti più svariati, io non rido, né impreco, né perdo la calma: mi limito dignitosamente ad osservare che la identificazione non è perfetta. Al tempo della mia giovinezza, generalmente si dava il nome di religione dell’umanità al comtismo, la teoria di certi razionalisti che adoravano un’umanità personificata come Essere supremo. Fin d’allora io notavo che era alquanto strano disprezzare e ripudiare la dottrina della Trinità come una contraddizione mistica e maniaca per chiederci poi di adorare la divinità di cento milioni di persone in un solo Dio, senza confondere le persone né dividere la sostanza. Ma c’è un’altra entità più o meno definibile e assai più facile a immaginare di questo mostruoso idolo dell’umanità dalle innumerevoli teste. E questa ha molto più diritto di esser chiamata, in un senso razionale, religione dell’umanità. L’uomo non è l’idolo ma è quasi sempre l’idolatra; e queste molteplici idolatrie dell’umanità hanno in sé qualche cosa di più umano e simpatico che le moderne astrazioni metafisiche. Se un dio asiatico ha tre teste e sette braccia, c’è almeno in esso un’idea d’incarnazione materiale che simboleggia un potere ignoto e l’avvicina a noi. Ma se i nostri amici Brown, Jones e Robinson, andando a spasso la domenica, si trasformassero e amalgamassero in un idolo asiatico davanti ai nostri occhi, ci sembrerebbero di colpo inverosimilmente lontani da noi. Se le braccia di Brown e le gambe di Robinson sporgessero dallo stesso organismo composito, avrebbero l’aria di sporgersi tristemente in un gesto di addio. Se le teste di questi tre signori sorridessero sullo stesso collo non sapremmo più con qual nome chiamare il nostro nuovo e fantastico amico. Nell’idolo orientale dalle molte mani e dalle molte teste c’è un certo senso di mistero che diventa almeno parzialmente intelligibile; come di forze informi della natura che assumono una forma materiale per quanto oscura. Ma 110

questo può essere vero di un multiforme dio, non di un multiforme uomo. Gli esseri umani diventano meno umani quando stanno più vitini: si potrebbe dire tanto meno umani quanto meno isolati. Gli esseri umani diventano meno intelligibili man mano che perdono la possibilità di isolarsi. Possiamo dire con rigorosa verità che più si avvicinano più restano lontani. Un libro di preghiere etiche di questa specie di religione umanitaria era stato accuratamente scelto ed espurgato col criterio di eliminarne ogni accenno alla divinità. La conseguenza fu che uno degli inni venne fuori emendato in questo modo «Più vicino a te, umanità, più vicino a te»; che pareva fatto apposta per suggerire la sensazione disgustosa di un affollamento nella ferrovia sotterranea. E’ strano e meraviglioso come siano lontane le anime degli uomini quando i loro corpi sono tanto vicini. Questa unità umana, di cui parlo, non dev’essere confusa con la moderna monotonia industriale che è piuttosto una congestione che una comunione. È una cosa a cui ogni aggruppamento umano lasciato a se stesso, ogni individuo lasciato a se stesso, tendono sempre e dappertutto, per un istinto che è essenzialmente umano. Come tutto ciò che è sanamente umano, può variare all’infinito, ma sempre entro i limiti di un fenomeno di carattere generale: appartiene a quella antica zona di libertà che precede e circonda la servile città industriale. L’industrialismo si vanta dei suoi prodotti di tipo unico: gli uomini della Giamaica o del Giappone possono rompere lo stesso sigillo e bere lo stesso pessimo whisky; l’uomo del Polo Nord e quello del Polo Sud possono riconoscere la stessa ottimistica etichetta sulla stessa scatola di non garantito salmone. Ma il vino, questo dono degli dei, può variare da valle a valle e da vite a vite, può essere mille specie di vini senza mai ricordare il sapore del whisky; e il formaggio può cambiare da regione a regione senza far dimenticare la differenza che c’è fra il 111

gesso e il formaggio. Quando parlo di questa cosa, perciò, parlo di una cosa che indubbiamente include molte e grandi differenze; nondimeno io sostengo ch’è una cosa unica, e sostengo che il nostro moderno disagio proviene in gran parte dal non esserci resi conto che è una cosa unica. La mia tesi è che, prima di qualunque discorso sulla religione comparata e sui fondatori di religioni, è essenziale riconoscere questa cosa come un tutto, come una cosa naturale e normale a quella grande comunità che si chiama genere umano. Questa cosa è il paganesimo; e io mi propongo di dimostrare in queste pagine che il paganesimo è il solo vero rivale della Chiesa di Cristo. Nella religione comparata, quando andiamo a vederla da vicino, troviamo che le cose da comparare possono a malapena compararsi. Noi siamo abituati a vedere un prospetto o catalogo delle grandi religioni del mondo in colonne parallele (o che ci paiono tali). Siamo abituati a vedere in fila i nomi dei grandi fondatori di religioni: Cristo, Maometto, Budda, Confucio. Ma questo non è che un trucco: una delle tante illusioni ottiche per cui un oggetto può essere messo in una certa luce secondo il verso per cui si mette. Le religioni e i loro fondatori, o almeno quelle e quelli che raccogliamo insieme sotto quei nomi, non mostrano alcun carattere comune. L’illusione deriva un poco dal fatto che nell’elenco l’Islam viene subito dopo il Cristianesimo, come storicamente l’Islam venne dopo il Cristianesimo e lo imitò largamente. Ma le altre religioni, o cosiddette religioni, orientali non solo non somigliano alla chiesa ma non si somigliano fra loro. Quando poi arriviamo al confucianesimo, in fondo all’elenco, ci troviamo in un mondo totalmente diverso. Paragonare la religione di Cristo con quella di Confucio è come paragonare un teista con un cavaliere, o domandare se un uomo crede nell’immortalità dell’anima oppure nell’americano al 100 112

per 100. Il confucianesimo può essere un tipo di civiltà, non una religione. La Chiesa è troppo unica per poter provare di essere unica; perché la prova più facile e popolare è quella data dal confronto, e qui non c’è confronto possibile. Non è facile perciò esporre l’errore per cui si è riusciti a sommergere in una falsa classificazione una cosa unica, mentre essa è veramente una cosa unica. Il fatto varia col variare dell’errore. Ma io prenderò l’esempio più vicino e più analogo ad un fenomeno sociale così singolare per mostrare come si possa sommergerlo e livellarlo. Credo che saremo d’accordo nel trovare qualche cosa d’insolito e di unico nella condizione degli ebrei. Non c’è niente che sia nello stesso senso una nazione internazionale, un’antica civiltà sparpagliata in diversi paesi ma tuttora distinta e indistruttibile. Ora, sarebbe come proporsi di fare un elenco delle nazioni nomadi per attenuare il fatto particolarissimo della solitudine degli ebrei. Sarebbe facile farlo con lo stesso procedimento di cominciare con una plausibile approssimazione per finire con cose completamente diverse, tanto per far numero. Nell’elenco delle nazioni nomadi, agli ebrei si potrebbero far seguire gli zingari che, se non sono una nazione, sono almeno dei nomadi. Dopo di che il nuovo professore di nomadismo comparato passerebbe con la più grande disinvoltura a qualche cosa di diverso, magari di assolutamente diverso. Egli non si lascerebbe sfuggire l’avventuroso vagabondaggio degli inglesi che hanno sparso le loro colonie su tanti mari; e Zz chiamerebbe nomadi. E’ vero che moltissimi inglesi vivono in Inghilterra in istato di strana irrequietudine; ma è anche vero che non tutti hanno lasciato la patria per il bene della patria. Il ricordo del vagante Impero inglese ci richiamerebbe alla mente - e dovremmo aggiungere - uno strano impero esiliato: gli irlandesi. E’ curioso il fatto, che dovrebb’esser notato nella 113

letteratura imperiale, che la stessa movimentata ubiquità, che dimostra l’iniziativa e il trionfo inglese, viceversa, negl’irlandesi, è prova di insuccesso e di mancanza di serietà. Quindi il professore di nomadismo si guarderebbe intorno cogitabondo; si ricorderebbe che s’è fatto un gran parlare, poco tempo fa, di camerieri, barbieri e commessi tedeschi, tutti tedeschi naturalizzati in Inghilterra, negli Stati Uniti e nelle repubbliche sudamericane; e metterebbe i tedeschi al quinto posto fra le razze nomadi (le parole Wanderlust e Folk- Wandering 1 verrebbero qui molto a proposito). Non ci sono stati degli storici che hanno spiegato le Crociate col fatto che i tedeschi si trovarono a vagabondare (come direbbe la polizia) nei paraggi della Palestina? Infine il nostro professore, ormai al termine delle sue fatiche, farebbe il salto della disperazione. Si rammenterebbe che gli eserciti francesi hanno occupato quasi tutte le capitali d’Europa, hanno traversato infiniti paesi conquistati sotto Carlo Magno e sotto Napoleone; e questo sarebbe Wanderlust, e costituirebbe la caratteristica della razza nomade. Così avrebbe le sue sei nazioni nomadi, compatte e complete, e concluderebbe che gli ebrei non sono più una misteriosa mistica eccezione. Ma le persone sensate capirebbero che questa non è più un’estensione del fenomeno del nomadismo, ma un’estensione del significato della parola nomadismo, fino a che questa parola non significhi più nulla. È verissimo che il soldato francese ha fatto qualcuna delle più belle marce della storia; ma è altrettanto vero che se c’è al mondo una realtà stabile, e che ha messo le radici, questa è il contadino francese; o, in altre parole, se è nomade il francese non c’è nessuno al mondo che non sia nomade. Questo è il trucco a cui si è ricorso nel caso della religione comparata e dei fondatori di religioni messi dignitosamente in fila. Si è classificato Gesù, come nell’altro caso gli ebrei, 114

inventando prima una categoria a posta, e riempiendo il resto con riempitivi e con imitazioni d’infimo ordine. Non dico che queste altre cose non siano spesso grandi cose nel loro genere e carattere; il confucianesimo e il Buddismo sono grandissime cose, ma non sono chiese; allo stesso modo che il francese e l’inglese sono grandi popoli ma è sciocco chiamarli nomadi. Ci sono dei punti di rassomiglianza fra il Cristianesimo e la sua imitazione islamica, come ci sono dei punti di rassomiglianza fra ebrei e zingari; ma, dopo, i due elenchi son fatti di quel che capita sotto mano, di tutte quelle cose che possono esser ficcate in un catalogo senza che appartengano ad una medesima categoria. In questo abbozzo di storia religiosa, con tutto il rispetto per uomini che ne sanno più di me, io desidero tagliar corto e ripudiare questo metodo moderno di classificazione che — ne sono sicuro - falsifica i fatti della storia. Proporrò una classificazione di religione o religioni in cui potranno rientrare tutti i fatti, e, quel che più conta, tutte le ipotesi. Invece di dividere le religioni geograficamente e, per così dire, verticalmente: cristiani, musulmani, bramini, buddisti e così via, io le dividerei psicologicamente e, quasi direi, orizzontalmente: per strati e influenze spirituali che talora coesistono nello stesso paese, e anche nello stesso uomo. Mettendo per un momento da parte la Chiesa, inclinerei a dividere il complesso dei fatti religiosi naturali sotto i seguenti titoli: Dio, gli dei, i demoni, i filosofi. Credo che una classificazione di questo genere ci aiuterà a raccapezzarci nelle esperienze spirituali dell’uomo più che il convenzionale meccanismo delle religioni comparate; e che molti illustri personaggi andranno a stare al loro giusto posto con questo sistema invece di essere messi per forza, con l’altro sistema, in un posto che non è il loro. E poiché dovrò servirmi più di una volta di questi titoli o termini, 115

sarà bene definire, a questo punto, che cosa essi per me significhino. Comincerò in questo capitolo dal primo, che è il più semplice e sublime. Considerando gli elementi dell’umanità pagana, dobbiamo cominciare col tentare di descrivere l’indescrivibile. Molti superano questa difficoltà negando o ignorando ciò che non possono descrivere; ma l’essenziale è che si tratta precisamente di qualche cosa che non si può eliminare anche quando la s’ignori. Gli evoluzionisti sono ossessionati dalla monomania che ogni grande cosa sia venuta su da un germe o da qualche cosa di più piccolo della cosa stessa. Pare che dimentichino che il germe viene dall’albero o da qualche cosa di più grande di se stesso. Questo è un buon motivo per ritenere che la religione non venne originariamente da qualche particolare ormai dimenticato perché troppo piccolo. Più probabilmente venne da un’idea che fu abbandonata perché troppo grande per essere praticata. C’è da supporre che molta gente abbia cominciato con la semplice ma formidabile idea di un Dio che governa tutto e abbia finito col cadere in qualche cosa come la demonolatria, una specie di intima disgregazione. Le prove che abbiamo delle credenze dei selvaggi di cui gli studiosi del folklore fanno tanto caso si prestano spesso a suffragare questa tesi. Alcuni dei selvaggi più primitivi, primitivi in tutti i sensi in cui gli antropologi usano questa parola, per esempio gli aborigeni australiani, è provato che professano un puro monoteismo di un alto tono morale. Un missionario predicava a una selvaggia tribù di politeisti che gli avevano narrato tutte le loro favole politeistiche e parlava loro dell’esistenza di un solo Dio, pieno di bontà, purissimo spirito e che giudica il cuore degli uomini. Una improvvisa agitazione invase quel barbari come se qualcuno avesse rivelato un loro segreto e cominciarono ad esclamare fra loro: «Atahocan! Parola di Atahocan». E’ probabile che un 116

senso di reverenza e forse di pudore trattenesse questi politeisti dal pronunciare il nome di Atahocan; il quale non è forse il più adatto per una diretta e solenne allocuzione religiosa. Ma ci sono molte altre forze sociali che tentano di coprire e di confondere queste idee semplici. Il vecchio Dio imponeva forse una vecchia morale che dovette sembrare tediosa nei momenti di maggiore espansività; forse il commercio coi demoni fu più di moda fra la gente di condizione elevata, come avviene oggi con lo spiritismo. Comunque si potrebbero citare molti altri esempi consimili. Tutti questi esempi attestano la inconfondibile psicologia di chi tiene per sicura una cosa e parla di un’altra. C’è una novella presa parola per parola da un pellerossa della California che comincia con questo tratto gustosamente cordiale, leggendario e letterario: «Il sole è il padre e signore dei cieli; egli è il grande capo, la luna è sua moglie e le stelle sono loro figlie»; e seguita narrando un’ingegnosa e complicata storia in mezzo alla quale si apre una parentesi per dire che il sole e la luna devono fare non so che cosa perché «così è ordinato dal Grande Spirito che vive al di sopra di tutti». Questo è precisamente l’atteggiamento del paganesimo verso Dio. Dio è qualche cosa che si presume, che si dimentica, e che si ricorda per combinazione (abitudine forse non peculiare ai pagani). Talora la più alta divinità si ricorda solo nei gradi morali più alti ed è una sorta di mistero. E’ stato giustamente detto che il selvaggio è loquace intorno alla sua mitologia e taciturno intorno alla sua religione. Nei selvaggi australiani una tale inversione è così completa che gli antichi avrebbero potuto crederla veramente degna degli antipodi. Il selvaggio che, per farvi compagnia, non esita un momento a raccontarvi una frottola come la novella del sole e della luna che erano le due parti d’un bambino tagliato in due, o che vi propina una chiacchierata sulla vacca celeste che si munge per fare la 117

pioggia, ecco che poi si ritira nelle caverne segrete, vietate alle donne e ai bianchi — templi di terribile iniziazione — dove, fra il tuonare dei bronzi e lo scorrere del sangue sacrificale, il prete mormora i segreti ultimi, noti solo agli iniziati: che l’onestà è la miglior politica, che un po’ di cortesia non fa male a nessuno, che tutti gli uomini sono fratelli, e che c’è un solo Dio, il padre onnipotente, fattore di tutte le cose visibili e invisibili. In altri termini, abbiamo nella storia della religione questa stranezza: che il selvaggio sembra ostentare la parte più repulsiva e assurda delle sue credenze e nascondere invece gelosamente la parte più sensata e attendibile. Ciò si spiega col fatto che la prima non è considerata come parte delle sue vere credenze, o almeno come parte omogenea. I miti non sono che delle storie lontane come il cielo, le trombe marine o la pioggia tropicale. I misteri sono le storie vere e sono tenute segrete perché possano essere prese sul serio. E’ troppo facile dimenticare che nel teismo c’è un lato sensazionale. Un romanzo in cui i diversi personaggi finissero con l’essere tutti lo stesso personaggio farebbe certamente impressione. Lo stesso è dell’idea che il sole, l’albero, il fiume non siano che le varie facce di un solo dio. Ahimè, per noi è fin troppo facile concepire Atahocan. Ma se Atahocan può essere degradato a luogo comune, o preservato come qualche cosa di sensazionale e perciò tenuto segreto, è chiaro nell’un caso e nell’altro che si deve trattare di un luogo comune molto antico o di una tradizione molto antica. Niente sta a provare che sia un prodotto perfezionato della mitologia, e tutto prova che esso ha preceduto la mitologia. Esso è adorato dalle più semplici tribù dove non c’è traccia di spiriti o di sacrifìci funebri o di alcun’altra delle tante complicazioni in cui Herbert Spencer e Grant Allen cercarono l’origine della più semplice di tutte le idee. Tutto è possibile fuor che l’evoluzione 118

dell’idea di Dio. Quest’idea può essere stata celata, evitata, fors’anche dimenticata o contestata; ma non ha mai subito evoluzioni. Non ce n’è nessuna prova. Anche il politeismo sembra non di rado una combinazione di monoteismi. Un dio avrà una posizione inferiore nell’Olimpo soltanto dopo aver dominato il cielo, la terra e le stelle nella angusta valle dov’era vissuto. Come molte piccole nazioni dissolventisi in un vasto impero, abbandona l’inportanza universale che ha in un dato luogo per sottomettersi a un limite nell’universo. Il nome stesso di Pan lascia credere che egli sia stato il dio della selva dopo essere stato il dio del mondo. Il nome di Iupiter è, si può dire, la traduzione pagana delle parole «Padre nostro che sei nei cieli». E come del sommo Padre simbolizzato dal cielo, così è della Gran Madre, che ancora chiamiamo la Madre Terra. Demetra (Cerere) e Cibele sembrano quasi incapaci di prendere su di sé tutto il peso della divinità così che gli uomini non abbiano bisogno di altri dei. Sembra presumibile che molti uomini non abbiano avuto altri dei che uno di questi, adorato come autore di tutte le cose. Sopra una delle più immense e popolose estensioni di territorio, qual è la Cina, pare che la più elementare idea di un Sommo Padre non sia mai stata complicata con culti o credenze rivali, anche se questo culto abbia in un certo senso cessato di esistere in quanto tale. I competenti sembrano ritenere che, sebbene il confucianesimo sia anche agnosticismo, pure non contraddice direttamente all’antico teismo, precisamente perché è diventato esso stesso una specie di vago teismo; in cui Dio è chiamato Cielo, come nel caso di certe persone educate che sarebbero tentate di bestemmiare in un salotto. Ma il Cielo è ancora al di sopra, se pur tanto lontano. E noi ne abbiamo l’impressione come di una verità che si è allontanata senza cessare di essere vera. Questo modo di esprimersi basterebbe da solo a ricondurci 119

alla stessa idea anche nella mitologia pagana dell’occidente. Qualche cosa di questo ritrarsi di un più alto potere si ritrova in tutti quei misteriosi e immaginosi miti che si riferiscono alla separazione fra cielo e terra. Sotto cento forme, questi miti ci dicono che terra e cielo una volta si amavano, o stavano insieme, quando un fatto improvviso e grandioso — spesso la disobbedienza di un figlio - li divise; e il mondo fu edificato sull’abisso, su una separazione e una rottura. Una delle versioni più grossolane si ha nel mito greco di Urano e di Saturno; una delle più graziose è quella di un popolo selvaggio: una piccola pianta di pepe crebbe sempre più alta fino a sollevare tutto il cielo come un coperchio, bella visione barbarica dell’aurora per qualche nostro pittore che ami i crepuscoli violenti. Dei miti, e delle spiegazioni elevate che i moderni ne dànno, parleremo altrove: quanto a me, credo che la più gran parte della mitologia sia su un altro piano, più superficiale. Ma in questa idea primordiale dello scindersi di un mondo in due c’è tuttavia qualche cosa dei principi ultimi. Sul significato di essa imparerà più l’uomo che si sdraia in un campo a guardare il cielo che non chi scartabelli tutte le biblioteche del più pregevole e sapiente folklore. Imparerà che cosa vuol dire che il cielo dovette essere più vicino a noi e che non è una cosa estranea e insondabile, ma semplicemente una cosa staccatasi da noi e che ci dice addio. S’insinuerà forse nella sua mente il curioso convincimento che, dopo tutto, i miti non possono essere stati inventati da un pazzo o da un campagnuolo idiota che credesse di poter tagliare le nubi a fette come una torta. Chi inventò i miti doveva avere un’intelligenza superiore a quella che si suole attribuire ai trogloditi. E possibile che Th. Hood non parlasse come un troglodita, quando scriveva che, con l’andar del tempo, le cime degli alberi non gli dicevano altro se non che egli era più lontano dal cielo di quando era bambino. Certo la 120

leggenda di Urano, il signore del Cielo, detronizzato da Saturno, lo spirito del Tempo, esprimerebbe qualche cosa per l’autore di quella poesia: se non altro, questo bando dato alla prima paternità. Nella stessa idea che ci fossero degli dei prima degli dei è adombrata l’idea di Dio. In tutte le allusioni ad un più antico ordine c’è una presunzione di qualche cosa di più semplice: presunzione rafforzata dal processo di propagazione che possiamo vedere nel periodo storico. Dei, semidei, ed eroi crescono come funghi sotto i nostri occhi e fanno supporre che la famiglia abbia avuto un capostipite: la mitologia diventa sempre più complicata e la stessa complicazione fa supporre che da principio sia stata più semplice. Anche dal punto di vista che si suol dire scientifico non mancano ottime ragioni per far ritenere che l’uomo abbia cominciato col monoteismo prima di passare alla degenerazione politeistica. Ma io do più importanza alla deduzione che all’induzione e, come ho già detto, le deduzioni in questo campo sono difficili a formularsi. Noi dobbiamo parlare di qualche cosa la cui importanza è nel fatto che non se ne parla: non dobbiamo tradurre da uno strano linguaggio o discorso, ma da uno strano silenzio. Io sospetto che tutto il politeismo e il paganesimo implichino un immenso presupposto, di cui non abbiamo forse se non qualche accenno, qua e là, nelle credenze dei selvaggi e nei primordi della Grecia. Non si tratta precisamente della presenza di Dio, come noi l’intendiamo; ma piuttosto in un certo senso dell’assenza di Dio. Ma assenza non significa inesistenza; quando uno brinda agli amici assenti non significa che non abbia amici. È un vuoto, non una negazione: è qualche cosa di positivo come un seggio vacante. Sarebbe esagerato affermare che i pagani videro un trono vuoto al di sopra dell’Olimpo. Sarebbe più vicino alla verità prendere la gigantesca immagine del 121

Vecchio Testamento, in cui il profeta vede Dio con la faccia voltata dall’altra parte: come se una presenza incommensurabile avesse voltato le spalle al mondo. Ma l’idea ci sfuggirà ancora se ci figuriamo che nel mondo pagano esistesse qualche cosa di così vivo e consapevole come il monoteismo di Mosè e del suo popolo. Intendo dire che i pagani non si sentivano minimamente sopraffatti dall’imponenza di quell’idea, semplicemente perché imponente. Anzi era per essi così inconsapevole che la portavano addosso con leggerezza, come noi portiamo il peso del cielo. Fissi su qualche particolare - una nuvola, un uccello - noi possiamo non accorgerci della formidabile volta celeste; possiamo quasi trascurare il cielo; e proprio perché esso grava su di noi con una forza che dovrebbe annichilirci non lo sentiamo pesare affatto. Una cosa come io intendo può essere soltanto un’impressione, e un’impressione sottile; ma a me la religione e la letteratura pagana fanno, in questo senso, un’impressione grandissima. Ripeto: nel nostro significato sacramentale c’è, indubbiamente, l’assenza della presenza di Dio; ma in un significato realistico c’è la presenza dell’assenza di Dio. Noi sentiamo ciò nell’ineffabile tristezza della poesia pagana, perché io dubito che in tutto il meraviglioso umanesimo dell’antichità ci sia stato mai un uomo felice come san Francesco. Sentiamo ciò nella leggenda dell’età dell’oro e nel vago presupposto che gli dei stessi si riferissero in ultima analisi a qualche altra cosa, a un dio sconosciuto, sia pure ridotto alla figura del Fato. Soprattutto sentiamo ciò nei sublimi momenti in cui la letteratura pagana sembra ritrovare un’antica innocenza e parla con più sicura voce, sì che nessuna parola riesce adeguata se non il breve nome monoteistico: Dio. Non possiamo leggere altro che Dio nella frase di Socrate che prende congedo dai suoi giudici: «Io vado alla morte e voi restate nella vita; Dio solo sa chi di noi 122

segue migliore strada». Non possiamo usare altra parola per rendere Marco Aurelio nei suoi momenti migliori: «Essi diranno: la cara città dei Cecropi, e non puoi tu dire: la cara città di Dio?». Né ad altra parola si può ricorrere per quel verso potente in cui Virgilio si rivolge a coloro che soffrono, con accento di vero cristiano davanti a Cristo, per quell’intraducibile: «O passi graviora, dabit deus his quoque fìnem». C’è, insomma, nel mondo pagano l’idea di qualche cosa di superiore agli dei; e, perché superiore, perciò più lontano. Ma nemmeno Virgilio poteva chiarire l’enigma e il paradosso di quell’altra divinità, più alta e più vicina. Per i pagani quel che era veramente divino era troppo distante, così distante che preferivano allontanarlo sempre più dalla loro mente. Quel che era veramente divino, sempre meno doveva aver che fare con la mitologia (della quale ci occuperemo più avanti). C’era anche qui una specie di tacito riconoscimento della purezza di questa divinità, si pensi a cosa era in gran parte il mondo mitologico. Come gli ebrei non vollero abbassarla con le immagini, i greci non vollero abbassarla nemmeno con l’immaginazione. Era relativamente — un atto di rispetto, quando si pensi che gli dei sempre più erano sulla bocca di tutti per le loro ridicolaggini e immoralità. Era un atto di pietà dimenticare Dio. C’è in tutta l’aria di quel tempo come il senso dell’accettazione semi-cosciente di un livello spirituale più basso. E difficile trovar le parole adatte; ma ce n’è una che viene spontanea. Questi uomini avevano la coscienza della Caduta, se pur non avevano coscienza di altro; e questo è vero di tutta l’umanità pagana. Chi cadde può sempre ricordare la caduta, anche se ha dimenticato l’altezza. Dietro ad ogni sentimento pagano sta questo vuoto, questo strappo nella memoria, come una pena tantalica, qualche cosa come il momentaneo balenare d’una cosa scordata. E il più 123

ignorante sa, dall’aspetto stesso della terra, di avere scordato il cielo. Ma c’erano anche per loro dei momenti, simili alle reminiscenze d’infanzia, in cui si sorprendevano a parlare un più semplice linguaggio: erano i momenti in cui il romano, come Virgilio nel verso citato, si faceva largo con la spada della poesia fuor del viluppo mitologico; la turba variopinta degli dei e delle dee spariva allora dalla vista, e nel cielo il Signore del mondo rimaneva solo. Quest’ultimo esempio è importante anche per ciò che viene dopo. La bianca luce di un mattino perduto indugia ancora sulla fronte di Giove, di Pan o dell’antico Apollo; e può darsi, come già è stato detto, che ognuno di questi fosse un dio unico, come Jehova o Allah. Essi perdettero questa solitaria universalità attraverso un processo che merita di esser rilevato: un processo di amalgamazione del genere di quello che si è poi chiamato sincretismo. Tutto il mondo pagano si diede a costruire un pantheon. Vi ammise dei sopra dei, dei greci e dei barbari, dei d’Europa e dei d’Asia e d’Africa. Più erano più stavano allegri, sebbene alcuni di quelli asiatici e africani fossero tutt’altro che allegri. Li ammisero alla pari coi loro sullo stesso trono; qualche volta li identificarono coi loro. Forse consideravano ciò come un arricchimento della loro vita religiosa; ma non era che la perdita definitiva di tutto quel che noi chiamiamo religione. Significava che l’antica luce di semplicità, sorgente unica come il sole, si disperdeva in una contraddittoria confusione di luci e di colori. Dio è sacrificato agli dei: nel senso letterale della frase, ce n’erano stati troppi. Il politeismo era una specie di pozzo; in cui i pagani avevano consentito a tuffare le loro religioni pagane. E questo un punto molto importante in molte controversie antiche e moderne. Dire che il dio dello straniero può essere il nostro dio, è considerato come una prova d’illuminato 124

liberalismo; e infatti i pagani si reputavano molto liberali e illuminati quando consentivano ad aggiungere agli dei della città o del focolare un fantastico e selvatico Dioniso disceso dalle montagne o in rustico e deforme Pan venuto carponi giù per i boschi. Ma questa pretesa maggior larghezza d’idee fu proprio quella che distrusse l’idea più larga di tutte: l’idea d’una paternità che unifica sotto di sé tutto il mondo. Ed è vero anche il rovescio. Gli uomini più antiquati dell’antichità, che si tenevano abbracciati ad una statua sola e a un solo nome, passavano per superstiziosi selvaggi oscurantisti e arretrati. Eppure furono questi superstiziosi selvaggi che salvarono qualche cosa che si avvicina allo spirito cosmico qual è concepito dalla filosofia e dalla scienza. Questo paradosso per cui il cieco reazionario fu una specie di profeta progressista non fu senza conseguenze. Da un punto di vista storico e prescindendo da ogni altra discussione, getta una luce nuova e potente, che risplende fin dagl’inizi, su un piccolo e solitario popolo. In questo paradosso, come in un enigma religioso la cui spiegazione fu sigillata per secoli, risiede la missione e il significato d’Israele. In questo senso, umanamente parlando, gli ebrei sono quelli che hanno dato Dio al mondo; e si deve a loro questa grazia proprio per ciò che in essi è biasimato e biasimevole. Abbiamo già notato il carattere nomade degli ebrei tra gli altri popoli pastorali ai margini dell’Impero babilonese e qualche cosa di quella loro strana errante corsa fiammeggiò attraverso l’oscuro territorio dell’estrema antichità quando essi passarono dalla sede d’Abramo e dei principi pastori all’Egitto, e ritornarono sui colli della Palestina, e li mantennero contro i filistei e caddero nella schiavitù di Babilonia e poi di nuovo si rifugiarono nella loro città montana con la politica sionistica dei persiani conquistatori; e così continuò quel meraviglioso romanzo 125

senza riposo di cui non abbiamo visto ancora la fine. Ma in tutti i loro vagabondaggi, e specialmente nei più recenti, essi portavano con sé il destino del mondo in quel tabernacolo di legno che custodì forse un simbolo senza lineamenti, certo un invisibile Dio. Possiamo dire che il lineamento essenziale era di non avere lineamenti. Per quanto possiamo preferire quella libertà creativa che è stata affermata dalla civiltà cristiana, e per cui sono state eclissate le arti dell’antichità, non dobbiamo svalutare l’importanza determinante che ebbe a quei tempi la proibizione ebraica delle immagini. E’ questo un tipico esempio di quelle limitazioni, che in realtà preservano e perpetuano la libertà di movimento, come un muro costruito intorno a uno spazio vuoto. Il Dio che non ebbe statue rimase puro spirito. Né una sua statua avrebbe avuto allora la grazia e la dignità disarmante delle statue greche, né, dopo, delle statue cristiane. Egli viveva in una terra di mostri. Avremo occasione di vedere meglio quali fossero questi mostri: Moloch e Dagone e Tanite, la terribile dea. Se il Dio d’Israele avesse avuto un simulacro, sarebbe stato un simulacro fallico. Per il solo fatto di avere un corpo, avrebbe acquisito tutti i peggiori elementi della mitologia: la poligamia del politeismo, la visione di un harem celeste. Questo punto, della esclusione dell’arte, è il primo esempio di quelle limitazioni, che sono spesso ex adverso criticate solo perché i critici stessi sono limitati. Ma un altro, anche più forte, argomento si può trovare in un’altra delle critiche fatte dagli stessi critici. Si è detto spesso, con una smorfia, che il Dio d’Israele non era che un Dio delle battaglie, un «barbarico Signore degli eserciti», in competizione con altri dei come loro invidioso nemico. E bene per il mondo che sia stato il Dio degli eserciti; è bene per noi che per tutti gli altri dei sia stato un rivale e un nemico. Normalmente, sarebbe stato troppo facile per loro compiere il disastroso 126

errore di concepirlo come un amico; sarebbe stato troppo facile per loro vederlo allargare le braccia in segno di riconciliazione e di amore, vederlo abbracciare Baal e baciare la faccia dipinta di Astarte, e far gazzarra con gli dei; sarebbe stato l’ultimo dio che vendeva la sua corona di stelle per la Soma del pantheon indiano, per il nettare dell’Olimpo, o per il mistico cibo del Walhalla. Sarebbe stato assai facile per i suoi devoti seguire la corsa illuminata del sincretismo e la mescolanza con tutte le tradizioni pagane. E’ ovvio che i suoi seguaci si sarebbero sviati giù per questa facile china; e ci volle l’energia quasi demoniaca di alcuni ispirati demagoghi che testimoniarono il Dio uno, con parole che soffiano ancora come venti di violenza e di ruina. Più noi comprenderemo a fondo le circostanze in cui germogliò la finale affermazione della fede, più sentiremo una reale e, quasi direi, realistica reverenza per la grandezza dei profeti d’Israele. Così, mentre tutto il mondo si disfaceva in quell’ammasso di confusa mitologia, il Dio d’Israele, che chiamano nazionale e ristretto, precisamente perché nazionale e ristretto, salvava la religione dell’umanità. Era tanto nazionale da essere universale; era ristretto come l’universo. In una parola, ci fu un dio pagano detto Giove-Ammone; ma non ci fu mai un Jehova-Ammone, non ci fu mai un Jehova-Giove. Se ci fosse stato ce ne sarebbe stato un altro: Jehova-Moloch. Molto prima che i liberalissimi e illuminati amalgamatori fossero arrivati a Giove, l’immagine del Dio degli eserciti sarebbe stata spogliata di ogni attributo di creatore e signore monoteistico e sarebbe diventata un idolo peggiore di qualunque feticcio selvaggio: un idolo civilizzato come gli dei di Tiro e di Cartagine. Quel che significasse quella città vedremo meglio nel capitolo seguente: basti dire che la potenza dei demoni quasi distrusse l’Europa e perfino la sanità pagana del mondo. Ma il destino del mondo 127

sarebbe stato anche più fatalmente stravolto se il monoteismo avesse fallito nella tradizione mosaica. Confesso di avere qualche simpatia con quella sanità pagana che ebbe le sue fantasiose favole mitologiche; e spero di dimostrarlo nel seguito di questo libro; ma spero anche di dimostrare che a lungo andare tutto ciò era destinato a sicuro fallimento, e che il mondo sarebbe stato perduto se non fosse stato capace di tornare alla grande semplicità primitiva di una sola autorità su tutte le cose. Se ancora ci resta qualche cosa di quella originaria semplicità, se poeti e filosofi possono in un certo senso pronunciare una preghiera universale, se viviamo sotto un cielo largo e sereno che paternamente si stenda su tutti i popoli della terra, se filosofia e filantropia sono luoghi comuni per tutti gli uomini ragionevoli che abbiano una religione, tutto ciò lo dobbiamo soprattutto (umanamente parlando) a un popolo nomade, irrequieto e segreto, che conferì agli uomini la suprema e serena benedizione di un Dio geloso. Unico possesso non utile né accessibile al mondo pagano, perché era il possesso di un popolo anch’esso geloso. Gli ebrei furono sempre impopolari, un po’ per la loro ristrettezza mentale nota al mondo romano, un po’ forse per l’abitudine già contratta di acquistare le cose mediante gli scambi invece di fabbricarsele con le proprie mani. In parte anche perché il politeismo era diventato una specie di giungla, in cui il solitario monoteismo avrebbe potuto perdersi, ed è strano osservare come vi si sia perduto totalmente. A parte altre più dibattute questioni, ci sono cose nella tradizione d’Israele che appartengono oggi a tutta l’umanità, come avrebbero potuto appartenerle allora. Essi ebbero una delle pietre angolari del mondo: il libro di Giobbe. Il quale vittoriosamente si erge di contro all’Iliade e alle tragedie greche: più ancora di quelle, esso fu il punto d’incontro e di rottura della poesia e della filosofia nel 128

mattino del mondo. E’ un solenne e sollevante spettacolo vedere questi due eterni folli, l’ottimista e il pessimista, distrutti fin dall’alba dell’eternità. E la filosofìa effettivamente completa l’ironia tragica dei pagani, proprio perché è più monoteistica e quindi più mistica. Il libro di Giobbe risponde al mistero col mistero; Giobbe è confortato per mezzo di enigmi, ma è confortato. È — come profezia - il prototipo della cosa detta con autorità. Quando colui che dubita non può che dire «Io non capisco», è verissimo che colui che sa può soltanto rispondergli «Tu non capisci». E dietro questo rimprovero sorge sempre nel cuore un’improvvisa speranza: la sensazione di qualche cosa che meriterebbe d’esser capita. Eppure questo potente poema del monoteismo passò inosservato per tutta l’antichità, che fu viceversa tutta piena di poesia politeistica. Un segno del modo in cui gli ebrei stettero appartati e mantennero la loro tradizione senza turbarla e senza dividerla con nessuno è questo di aver tenuto il libro di Giobbe immune dal contatto intellettuale con l’antichità. È come se gli egiziani avessero modestamente celato la grande piramide. Ma ci sono altre ragioni che spiegano questo malinteso, questa via senza uscita, caratteristica degli ultimi tempi del paganesimo. Dopo tutto, la tradizione d’Israele comprendeva soltanto una metà della verità, e diciamo pure, secondo il paradosso popolare, la metà più grande. Mi proverò in quest’altro capitolo a delineare sommariamente questo amore dei luoghi e dei personaggi che pervade anche la mitologia. Qui occorre soltanto dire che anche nella mitologia c’è una verità che non può esser lasciata da parte anche se più leggera e meno essenziale. Il dolore di Giobbe deve congiungersi al dolore di Ettore: se il primo era il dolore dell’universo, l’altro era il dolore della città. Ettore potrebbe stare dritto verso il cielo come il monumento della santità troiana. Quando Dio parla framezzo alla tempesta, 129

può parlare nel deserto; ma il monoteismo del nomade non bastava più per quella varia civiltà di campi e di trincee, di città, di templi e di castelli; e la volta di queste cose doveva pur giungere e i due mondi dovevano fondersi in una più definita e domestica religione. Qua e là in tutto il paganesimo si potè trovare qualche filosofo i cui pensieri coincidessero col più puro teismo, ma egli non ebbe mai, o non suppose di avere, il potere di cambiare i costumi di tutto il popolo. Non è facile, neanche in tali filosofie, trovare una giusta definizione di questo complicato rapporto fra politeismo e teismo. Forse per avvicinarsi meglio a comprendere questo fatto, e per dargli un nome, conviene allontanarsi da questa civiltà e cercare in qualche cosa che è più remoto da Roma dello stesso isolamento d’Israele: cercare in una tradizione indù, in cui c’è un detto secondo il quale gli dei come gli uomini non sono che sogni di Brahma e periranno al risveglio di Brahma. C’è in questa immagine qualche cosa dell’anima asiatica, che è meno sana dell’anima del Cristianesimo. Noi chiameremmo disperazione quel che essi chiamano pace. Questa nota di nichilismo la esamineremo più tardi in un più completo confronto fra Asia ed Europa. Limitiamoci qui a dire che c’è più delusione in questa idea di un divino risveglio che non ci sia per noi nel passaggio dalla mitologia alla religione. Ma il simbolo è sottile ed esatto almeno sotto un certo aspetto: esso fa capire la sproporzione e il distacco che c’è fra l’idea stessa di religione e quella di mitologia, un abisso fra due categorie. Questa impossibilità di comparazione fra Dio e gli dei è il collasso della religione comparata. È un’impossibilità di comparazione come quella che c’è fra un uomo e gli uomini che passeggiano nei suoi sogni. Sotto il titolo seguente tenterò di descrivere il crepuscolo di quel sogno in cui gli dei passeggiano come uomini. Ma se qualcuno credesse che il contrasto fra 130

monoteismo e politeismo si riduca al fatto che c’è gente che ha un dio solo e gente che ne ha di più, costui per avvicinarsi alla verità dovrebbe sprofondarsi nella stravaganza elefantesca della cosmologia braminica, dovrebbe presentire il tremolìo che toccherà il velo delle realtà, e i demiurghi dalle cento braccia, e gli animali aureolati e troneggianti, e la rete intricata delle stelle e i sovrani della notte, quando i terribili occhi di Brahma si apriranno come un’aurora sulla morte di tutte le cose. 1. Wanderlust - mania o gusto dell’avventura; Folk-Wandering — popolo errante.

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Capitolo V L’uomo e le mitologie IL MONDO DEGLI DEI potrebbe anche chiamarsi il mondo dei sogni o delle favole. Paragonarlo ai sogni non vuol dire negare che i sogni possano avverarsi. Paragonarlo alle novelle di viaggio non toglie che ci siano novelle vere o veridiche. In questo caso si tratta di quella specie di novelle che il viaggiatore narra a se stesso. Tutta questa materia mitologica appartiene alla parte poetica dell’uomo. Pare stranamente dimenticato oggidì che il mito è un’opera d’immaginazione, e quindi un’opera d’arte. Solo un poeta può concepirla; e solo un poeta può criticarla. Nel mondo sono più i poeti che i non-poeti, com’è provato dall’origine di tali leggende. Ma - io non ho mai saputo per quale ragione - è sempre la minoranza apoetica che si permette di studiare criticamente questa poesia popolare. Noi non ci sogniamo di sottoporre un sonetto al giudizio di un matematico, o una canzone a un contabile; eppure accettiamo con indulgenza l’idea egualmente fantastica di lasciar trattare il folklore come una scienza. Cose di questo genere non possono essere analizzate e valutate se non dal lato artistico. Un professore che senta dire da un selvaggio che una volta non c’era altro che un gran serpente con le penne, non potrà esser giudice competente in materia se non provi un brivido e non sia mezzo tentato di prestar fede a questa fola. Così uno scienziato, a cui si assicuri sulla 132

fede delle migliori autorità pellirosse, che un eroe primitivo, mise il sole, la luna e le stelle in una scatola, non capirà niente se non sarà disposto a batter le mani e a saltare come un bambino a questa graziosa fantasia. Non è affatto una sciocchezza: i bambini primitivi e i bambini selvaggi ridono e saltano come gli altri bambini; e noi dobbiamo rifarci una certa semplicità per poter nuovamente dipingere la fanciullezza del mondo. Quando Hiawata sentiva dire dalla sua nutrice che un guerriero aveva gettato la sua avola nella luna, egli rideva come un bambino inglese a cui la governante racconti che una vacca saltò nella luna. Il bambino vede lo scherzo come la maggior parte degli uomini, e, certo, meglio di certi scienziati. Ma l’ultimo termine di paragone del fantastico è l’appropriatezza dell’inappropriato; e deve apparire puramente arbitrario in quanto è puramente artistico. Se uno studioso mi dice che se il bambino Hiawata rideva era soltanto in omaggio all’usanza di sacrificare i vecchi alle necessità economiche della famiglia, io dico che non può essere. Se un professore mi dice che la vacca salta nella luna solo perché prima si sacrificavano i vitelli a Diana, rispondo che non può essere. Ciò avveniva semplicemente perché era naturale per una vacca fare un salto fino alla luna. Le mitologia è un’arte perduta, una delle poche arti che siano realmente andate perdute; ma è un’arte. E i corni della vacca sono un raggio di quasi armoniosa concordia. E il gettare la propria nonna nel cielo non sarà un atto di buona creanza, ma è perfettamente di buon gusto. Gli scienziati, al contrario degli artisti, raramente capiscono una cosa: che un ramo del bello è il brutto. Raramente si permettono la legittima libertà del grottesco. Essi ripudieranno un mito barbarico semplicemente come una cosa brutta e volgare e come prova di degradazione — perché non ha la bellezza di Mercurio, il messaggero disceso 133

or ora sul colle baciato dal cielo; ma esso ha la bellezza della Finta Tartaruga o del Cappellaio Matto. La prova massima che un uomo è prosaico è nella sua pretesa che la poesia sia poetica. Talora l’umorismo è nel soggetto stesso come lo stile della favola. Gli aborigeni australiani, considerati come i più rozzi selvaggi, raccontano la storia di un ranocchio gigante che s’era ingoiato il mare e tutte le acque del mondo, e che non le avrebbe rigettate se non quando si fosse riusciti a farlo ridere. Tutti gli animali con tutte le loro smorfie più buffe sfilarono davanti a lui; e, come la regina Vittoria, egli non si divertiva. Sbottò finalmente davanti a un’anguilla che delicatamente si bilanciava sulla punta della coda con disperata dignità. Che bel pezzo di letteratura fantastica si potrebbe ricavare da questo racconto! Quanta filosofia nella visione di quel mondo tutto prosciugato prima che venisse quel benefico diluvio d’ilarità. Quanta fantasia in quel mostro vulcanico che eruttava acqua. Quanta comicità al pensiero dei suoi occhi sgranati al passaggio del pinguino o del pellicano. Comunque, il ranocchio rise; ma lo studioso di folklore non perde mai la sua gravità. C’è di più: anche dove sono inferiori come arte, le favole non possono essere convenientemente giudicate dalla scienza; tanto meno possono essere giudicate come scienza. Alcuni miti sono strani e ingenui come disegni di bambini; ma il bambino s’è provato nondimeno a disegnare. Sarebbe un errore considerare quel disegno come fosse un diagramma, o pretendesse di essere un diagramma. Lo studioso non può arrivare a conclusioni scientifiche sui selvaggi perché il selvaggio non arriva ad alcuna conclusione scientifica sul mondo. Egli fa qualche cosa di diverso: quel che si potrebbe chiamare il chiacchiericcio degli dei; una cosa di cui si può dire, se vogliamo, che è creduta prima che ci sia il tempo di esaminarla, e forse 134

sarebbe più esatto dire che è accettata prima di esser creduta. Confesso di avere dei dubbi su tutta quanta la teoria della diffusione dei miti o (com’è generalmente) di un mito unico. E’ vero che le condizioni d’ambiente e la natura umana danno luogo a molte leggende simili; ma ognuna di esse può essere originale. Non c’è bisogno che una leggenda sia presa a prestito da altri; ma può benissimo avvenire che sia stata attinta da uno stesso motivo. Sarebbe facile trasportare tale argomentazione dal campo delle leggende a quello della letteratura; si cadrebbe nella volgare monomania del plagio. M’impegnerei a tracciare una storia del «ramo d’oro» nel romanzo moderno e negli antichi miti locali. Come m’impegnerei a trovare qualche cosa di simile a un mazzo di fiori in infinite figurazioni dal fatale mazzolino di Becky Sharpe al ramoscello di rose della principessa di Ruritania. Ma se anche tutti questi fiori spuntano dalla stessa zolla, non è lo stesso fiore appassito che passa di mano in mano. Sono fiori sempre freschi. La vera origine di tutti i miti è stata scoperta troppo spesso. Ci sono troppe «chiavi» per la mitologia come ci sono troppi criptogrammi in Shakespeare. Ogni cosa è fallico; ogni cosa è totemistico; ogni cosa è connesso alla semina e alle raccolte dei campi; ogni cosa è fantasmi e offerte sepolcrali; ogni cosa è ramo d’oro del sacrifizio; ogni cosa è sole e luna; ogni cosa è qualunque cosa. Uno studioso di folklore che va un po’ più in là della semplice monomania, un uomo di più larghe letture e di cultura critica, come Andrew Lang, ha praticamente confessato che questa confusione di cose gli faceva girare la testa. La confusione viene dal fatto che si vuol guardare in queste leggende dal di fuori come se fossero oggetti scientifici; basta invece guardarle dal di dentro e chiedersi come se ne possa cominciare il racconto. Un racconto può cominciare 135

da qualunque cosa e finire in qualunque luogo. Può cominciare da un uccello senza che l’uccello sia un totem; può cominciare dal sole senza essere un mito solare. Si dice che ci sono soltanto dieci specie d’intrecci, e dovranno per forza ricorrere gli elementi ad essi comuni. Mettete diecimila bambini a parlare tutti insieme e a raccontare che cosa hanno fatto nel bosco, e non sarà diffìcile trovare nei loro racconti qualche cosa che faccia pensare al culto del sole o al culto degli animali. Alcuni racconti possono essere graziosi, altri sciocchi, o anche brutti, ma non possono esser considerati che come racconti; per dirla in gergo moderno: non possono essere valutati che dal punto di vista estetico. E’ strano che l’estetica, puro sentimento, a cui si permette ora di usurpare campi che non le spettano — di distruggere la ragione col pragmatismo e la morale con l’anarchia — strano, dico, che non le si permetta di dare un giudizio estetico su quella che è evidentemente una pura questione estetica. È lecito essere fantastici in tutto, fuorché in materia di novelle fantastiche. Ora, il fatto è che la gente più semplice è quella che ha idee più sottili. Tutti dovrebbero saperlo, perché tutti sono stati bambini. Il bambino, ignorante com’è, sa più cose che non dica e sente esattamente non solo le atmosfere ma le sfumature. Qui si tratta proprio di sfumature. Nessuno può capire ciò, se non abbia avuto quella che si chiama la febbre dell’artista per trovare un senso e creare una storia a tutte le cose belle che egli vede; la sua fame di segreti, la sua ira per ogni torre e per ogni albero che gli sfugga senza raccontare la sua storia. Egli sente che nulla è perfetto se non è personale; altrimenti la cieca inconsapevole bellezza dell’universo starebbe nel suo giardino come una statua senza capo. Ogni poeta di second’ordine lotta con le torri e con gli alberi finché non gli parlino come titani o come driadi. Si è detto che la mitologia pagana fosse una 136

personificazione delle forze naturali. La frase in un certo senso è esatta, ma non è esauriente, perché implica che le forze siano astrazioni e che la personificazione sia artificiale. Non è vero che i miti siano allegorie; né che le forze naturali siano in questo caso astrazioni; non c’è un dio della gravitazione; ci può essere un genio della cascata d’acqua, ma non un genio del cascare né tanto meno un genio dell’acqua. La personificazione non è qualche cosa di impersonale, è anzi la personalità che perfeziona l’acqua dandole un significato. Il vecchio Ceppo non è un’allegoria della neve e dell’agrifoglio; non è un ammasso di neve a cui si sia artificialmente dato forma umana - un uomo di neve è qualche cosa che dà un nuovo significato a tutto quel mondo bianco e sempre verde, cosicché la neve stessa sembra essere non più fredda ma calda. Il paragone è perciò puramente immaginativo; ma immaginativo non vuol dire immaginario; e nemmeno è quel che i moderni chiamano subiettivo quando vogliono significare falso. Ogni vero artista sente, consciamente o inconsciamente, che egli attinge verità trascendentali, che le sue immagini sono ombre di cose viste attraverso un velo. In altre parole il mistico per natura sa che di là c’è qualche cosa: qualche cosa dietro le nuvole o dentro gli alberi; ma egli crede che perseguire la bellezza sia la via per trovarla, crede che l’immaginazione sia una specie d’incanto che riesca a evocarla. Noi non comprendiamo questo processo in noi stessi, meno ancora nei nostri più remoti progenitori. E il pericolo è che certe cose paiano comprese per il solo fatto di essere classificate. Un’opera folkloristica realmente bella come Il Ramo d’oro lascerà troppi lettori con la convinzione, per esempio, che questo o quel racconto d’un cuore di gigante o di mago in una cassetta o in una grotta non significa altro che una stupida e statica superstizione detta 137

«anima esterna». Noi non sappiamo che cosa significhino queste cose, semplicemente perché non sappiamo che cosa significhiamo noi quando siamo mossi da esse. Supponiamo che in una novella uno dica «Cogli questo fiore e una principessa morirà in un castello di là dal mare»; noi non sappiamo perché qualche cosa si agiti nel subcosciente o perché un fatto impossibile sembri anche inevitabile. Supponiamo di leggere «E nel momento in cui il re spegneva la candela, i suoi vascelli facevano naufragio presso le coste delle Ebridi»; noi non sappiamo perché la nostra immaginazione abbia accettata quell’immagine prima che la nostra ragione potesse rigettarla; o perché tali coincidenze sembrassero realmente trovare una rispondenza nella nostra anima. Profondità inesplorate della nostra natura, un oscuro senso della dipendenza delle grandi cose dalle piccole, una vaga impressione che tutto ciò che è più vicino a noi tenda più lontano d’ogni nostro potere, un sentimento sacramentale della magia latente nelle sostanze materiali, e molte altre emozioni indefinibili, ecco che cosa c’è in un’idea come quella dell’anima esterna. Il potere dei miti, nei selvaggi è come il potere delle metafore nei poeti. L’anima di tali metafore è spesso superlativamente un’anima esterna. I migliori critici hanno rilevato che nei nostri più grandi poeti la similitudine è spesso una pittura che sembra del tutto separata dal testo. Non ha niente a che vedere con quest’ultimo, proprio come non ha a che vedere il castello col fiore o le coste delle Ebridi con la candela. Shelley paragona l’allodola a una giovane donna su una torretta, a una rosa incastonata nel suo folto cespuglio, a una serie di cose che sono estranee all’allodola quanto non si può immaginare. Credo che il più potente pezzo di pura magia nella letteratura inglese sia quel citatissimo passo dell’ Usignolo di Keats, in cui si parla delle «grandi finestre aperte sulle perigliose schiume». Nessuno osserva che 138

l’immagine sembra derivare da non si sa dove; che sembra del tutto arbitraria dopo gli accenni egualmente arbitrari alla storia di Rut; e che non ha assolutamente nessuna analogia con l’argomento del canto. Se c’è un luogo in cui nessuno si aspetta ragionevolmente di incontrare un usignolo, è proprio sul davanzale d’una finestra in riva al mare. Ma ciò è vero soltanto nel senso in cui nessuno si aspetterebbe di trovare un cuore di gigante in una cassetta in fondo al mare. Sarebbe pericoloso classificare le metafore dei poeti. Quando Shelley dice che le nuvole sorgeranno «come un bimbo dal seno materno o come uno spettro dalla tomba», sarebbe possibilissimo riconoscere nel primo caso un primitivo e volgare mito della nascita e nel secondo una sopravvivenza del culto dei fantasmi, divenuto poi culto dei defunti. Ma questo sarebbe un sistema sbagliato per studiare la nuvola, ed è probabile che il nostro professore rimarrebbe nella condizione di Polonio, fin troppo pronto a trovarla somigliante «a una dònnola o a una balena». Due fatti derivano da questa psicologia del fantastico; due fatti che sarà bene tenere a mente attraverso il loro sviluppo successivo nelle mitologie e nelle religioni: primo, che queste impressioni immaginative sono spesso strettamente locali. Lungi dall’essere astrazioni mutate in allegorie, sono spesso immagini quasi concentrate in idoli. Il poeta sente il mistero di una particolare foresta; non la teoria del rimboschimento o l’amministrazione forestale. Egli adora la vetta d’una determinata montagna, non l’idea astratta delle grandi altezze. Cosi troviamo che non è divinizzata puramente l’acqua, ma spesso un dato fiume, che può essere anche il mare, perché il mare è isolato come un fiume: è il fiume che corre attorno a tutto il globo. Indubbiamente, in ultima analisi molte divinità sono allargate agli elementi; ma esse sono qualche cosa di più che onnipresenti; Apollo non abita solamente dove splende il 139

sole: la sua casa è nella roccia di Delfi. Diana è tanto grande da essere in tre luoghi, in cielo, in terra e in inferno; ma più grande ancora è la Diana di Efeso. Questo sentimento ha la sua forma più bassa nei feticci o nei talismani, come quelli che i milionari mettono sulle automobili; ma può anche consolidarsi in qualche cosa come una seria ed elevata religione, in cui sia connessa con seri ed elevati doveri: negli dei della città o negli dei del focolare. La seconda conseguenza è che in questi culti pagani ci sono sempre tutte le gradazioni della sincerità, come dell’insincerità. In che senso un ateniese veramente credeva di dover sacrificare a Pallade Atena? Fino a qual punto uno studioso è realmente sicuro della risposta? Perché il Dottor Johnson1 pensava di dover toccare tutti i lampioni della strada e di dover raccogliere tutte le bucce d’arancia? Perché un bambino pensa di dover camminare sul marciapiede, pestando una pietra si e una no? Due cose sono almeno chiare: in primo luogo, che in tempi di maggior semplicità e ingenuità queste forme potevano più facilmente essere accettate, senza per questo essere prese più sul serio; le fantasticherie potevano essere portate alla luce del sole con più libertà di espressione artistica, sebbene forse ancora con una lieve andatura sonnambolica. Impaludate il Dottor Johnson in un vecchio mantello, mettetegli sulla testa (col suo gentile permesso) una ghirlanda di fiori, ed egli si muoverà solenne sotto gli antichi cieli, toccando una serie di sacri pilastri adorni delle teste scolpite di strani dei terminali posti al confine della terra e della vita degli uomini. Mettete a disposizione di un bambino i marmi e i mosaici di qualche tempio classico, perché giochi sul pavimento a quadrati bianchi e neri; e subito egli troverà l’appagamento dei suoi sogni nel farne campo di un balletto grave e grazioso. Eppure i pilastri e i marmi non sono né più né 140

meno reali di quel che siano i lampioni o le pietre del marciapiede; non sono più seri in quanto siano presi sul serio. Essi hanno quella specie di sincerità che sempre ebbero: la sincerità dell’arte come simbolo che esprime la stessa realtà spirituale sotto la superfìcie della vita. Essi sono nello stesso senso, sinceri come arte, insinceri come moralità. La raccolta di bucce d’arancia di un eccentrico potrà far pensare alle arance di un festival o al mito mediterraneo degli aurei pomi delle Esperidi. Ma questa differenza non è sullo stesso piano della differenza che c’è fra il dare un’arancia a un povero cieco e il mettergliela dove passa perché sdruccioli e si stronchi le gambe. Fra queste due cose la differenza non è più di importanza, ma di essenza. Il bambino non pensa che non sia lecito camminare in un certo modo sul pavimento nel senso in cui pensa che non è lecito camminare sulla coda del cane. Ed è certo che — qualunque sia stato il divertimento, il sentimento, o la fantasia da cui il Dottor Johnson fu prima indotto a toccare i sostegni dei lampioni -egli non li avrà mai toccati con lo stesso sentimento con cui tendeva le braccia al terribile legno, onde venne la morte di Dio e la salvezza dell’uomo. Questo non vuol dire che non ci sia nessuna realtà, o nessun senso religioso, anche in queste consuetudini. Non per nulla la Chiesa cattolica si è presa con innegabile successo l’incarico di dare al popolo le sue leggende locali e le sue gaie cerimonie. Tutto quello che di questa specie di paganesimo era innocuo e conforme alla natura, non c’era ragione che non restasse sotto la protezione dei santi patroni com’era, una volta, sotto quella degli dei pagani. In ogni caso c’è tutta una gradazione di serietà nelle superstizioni più naturali. C’è la differenza che va dal credere che in un bosco ci siano le fate (il che spesso significa soltanto che quel bosco sarebbe adatto per le fate) e il tremare dalla paura finché non siamo a un miglio dalla 141

casa dove dicono che ci siano gli spiriti. Dietro tutte queste cose c’è il fatto che la bellezza e il terrore esistono realmente e appartengono a un reale mondo spirituale: avvicinarsi sia pure col dubbio o con la fantasia commuove le profondità dell’anima. Tutti comprendiamo ciò, e anche i pagani lo compresero. La differenza è questa: che il paganesimo non colpiva realmente l’anima se non con questi dubbi e fantasie; con la conseguenza che oggi nel paganesimo possiamo trovare ben poco al di là di queste fantasie e dubbi. Tutti i migliori critici sono d’accordo che i grandi poeti della Grecia pagana, per esempio, avevano verso i loro dei un atteggiamento che per gli uomini dell’era cristiana è strano ed enigmatico. Sembra esserci un confessato contrasto fra il dio e l’uomo, ma ognuno sembra incerto su quale tra i due sia l’eroe e quale il traditore. Questa incertezza appare non solo in uno scettico come Euripide, nelle Baccanti, ma anche in un moderato come Sofocle, nell’Antigone, e anche in un perfetto conservatore e reazionario come Aristofane, nelle Rane. Sembrerebbe talora che i greci mettessero al di sopra di tutto la venerazione; senonché non avevano nessuno da venerare. Ma il nucleo dell’enigma è questo: che tutta questa incertezza e vacuità sorgeva dal fatto che per loro tutto consisteva in fantasie e fantasticherie; e non ci sono regole architettoniche per costruire castelli nelle nubi. Questo possente e profondo albero della mitologia ramifica tutt’intorno al mondo, e i suoi rami più lontani portano sotto lontani cieli, come variopinti uccelli, i ricchi idoli asiatici e i neri feticci dell’Africa, e i re fatati e le principesse delle foreste incantate, e, seppelliti fra vigne e oliveti, i lari dei romani, e, trasportata sulle nuvole dell’Olimpo, l’eterea supremazia degli dei dell’Ellade. Questi sono i miti, e chi non ha simpatia per i miti, non ha simpatia per gli uomini. Ma più uno ha simpatia per i miti, 142

più si renderà conto che essi non sono e non sono mai stati una religione nel senso in cui è una religione il Cristianesimo o, mettiamo pure, l’Islam. Essi corrispondono ad alcuni dei bisogni a cui corrisponde la religione; specialmente al bisogno di fare certe cose in certi giorni, al duplice bisogno della festività e della formalità. Forniscono all’uomo un calendario, non gli forniscono un credo. Non c’è stato un uomo che si sia alzato e abbia detto «Credo in Giove e in Giunone e Nettuno, ecc.», così come si dice «Credo in Dio Padre onnipotente», con quel che segue nel Credo degli Apostoli. Molti credevano in alcuni dei e non in altri, o più in alcuni e meno in altri, o soltanto in un senso vagamente poetico. Non c’è stato mai un momento in cui questi dei siano stati riuniti insieme in un ordine ortodosso, che gli uomini abbiano combattuto o si siano lasciati torturare per mantenere intatto. Meno ancora c’è stato mai nessuno che abbia detto «Credo in Odino, in Thor e in Frida», perché fuori dell’Olimpo lo stesso ordine olimpico diventa nebuloso e caotico. A me sembra chiaro che Thor non era un dio ma un eroe. Nessuna religione potrebbe dipingere un dio arrampicantesi come un pigmeo in una grande caverna che si riduceva poi ad essere il guanto di un gigante. Questa è la gloriosa ignoranza che si chiama avventura. Thor può essere stato un grande avventuriero, ma chiamarlo dio è come paragonare Jehova a Jack e il fagiolo magico. Odino dev’essere stato un capo barbaro, forse di età oscure dopo il Cristianesimo. Il politeismo si sfrangia in racconti di fate e in ricordi barbarici; non è come il monoteismo conservato da seri monoteisti. Ancora: il paganesimo corrisponde al bisogno di invocare qualche alto nome o qualche notevole reminiscenza in momenti che sono per se stessi nobili e alti, come la nascita di un bambino o la salvezza di una città. Ma il nome, per molti di quelli che lo invocavano, era nient’altro che un nome. Finalmente il paganesimo 143

soddisfaceva, almeno in parte, a un altro bisogno molto profondo dell’umanità: all’idea di rinunciare a qualche cosa quasi per dare la loro parte a poteri sconosciuti, col versare del vino sulla terra, o col gettare un anello in mare, in una parola, col sacrifizio. È la saggia e degna idea di non abusare del nostro vantaggio, di mettere qualche cosa sull’altro piatto della bilancia per compensare il nostro malcerto orgoglio, di pagar le decime alla natura per il nostro possesso. La profonda verità di questo pericolo di superbia, di questo pericolo di essere troppo grandi per le nostre scarpe, si ritrova in tutte le grandi tragedie greche ed è quello che le fa grandi. Ma esso sta fianco a fianco con un quasi segreto agnosticismo sulla natura del dio che occorra propiziarsi. Dove il gesto della rinunzia è più magnifico, come fra i grandi greci, c’è assai più l’idea che faccia bene all’uomo sacrificare il vitello che non quella che faccia bene al dio ricevere il sacrifizio. Si dice che nelle sue forme più grossolane il sacrifizio suggerisse grottescamente l’immagine di un dio che mangia davvero quel che gli è offerto. È una delle falsificazioni prodotte dall’errore contro il quale ho messo in guardia fin da principio in questa mia nota mitologica. È fraintendere la psicologia di chi fantastica. Un bambino che dice d’aver visto un folletto in una grotta farà una cosa molto semplice e naturale: gli lascerà un pezzo della sua focaccia. Un poeta farebbe forse una cosa più pomposa ed elegante: gli porterebbe della frutta e dei fiori. Ma la serietà con cui si compiono entrambi questi atti può essere la stessa o può avere un’infinità di gradazioni. La fantasia non è un credo né quando è rozza né quando è elevata. Il pagano non è miscredente come un ateo, ma nemmeno credente come un cristiano. Sente la presenza di forze, che egli inventa o indovina. San Paolo scrive che i greci avevano un altare dedicato al dio ignoto. Ma in realtà tutti gli dei erano dei ignoti. E una nuova era si schiuse 144

quando san Paolo rivelò loro quello che avevano nell’ignoranza adorato. L’essenza di tutto il paganesimo può essere riassunta in questo modo: il paganesimo è un tentativo di raggiungere la realtà divina mediante la sola immaginazione, la quale nel suo campo non deve essere limitata dalla ragione. Attraverso tutta la storia vediamo che in queste civiltà pagane, anche le più razionali, la ragione è sempre qualche cosa di distinto dalla religione. Soltanto come riflessione a posteriori, quando tali civiltà decadono o stanno sulla difensiva, troviamo pochi neoplatonici o bramini che tentano di razionalizzare i miti, e di razionalizzarli soltanto con l’attribuire loro un senso allegorico. Veramente i fiumi della mitologia e della filosofia scorrono paralleli e non mescolano le loro acque finché non s’incontrano nel mare del Cristianesimo. Ci sono degli anticlericali ingenui che ancora parlano della Chiesa come di un’istituzione che ha prodotto una specie di scisma fra religione e ragione. La verità è che la Chiesa fu effettivamente la prima a cercare una combinazione fra religione e ragione. Non c’era mai stata prima alcuna possibilità di mettere insieme i preti e i filosofi. La mitologia cercava Dio per mezzo dell’immaginazione; o la verità per mezzo della bellezza, intesa quest’ultima come comprendente anche il grottesco. Ma l’immaginazione ha le sue leggi, e quindi i suoi trionfi, che né logici né scienziati sono in grado di capire. La mitologia restava fedele all’istinto immaginativo, tra mille stravaganze, come la rozza pantomima cosmica del porco che mangia la luna, o del mondo tagliato d’addosso a una vacca; tra le vertiginose circonvoluzioni e deformazioni artistiche dell’arte asiatica; con la stecchita regolarità dei ritratti egiziani o assiri, e con lo specchio frantumato di un’arte pazzesca, che sembra deformare il mondo e spostare i cieli; restava fedele a qualche cosa intorno a cui non c’è 145

discussione: qualche cosa che permette a un artista di una qualche scuola di fermarsi a un tratto davanti a questa particolare deformazione, e dire: «Il mio sogno s’è avverato». Perciò tutti sentiamo che i miti primitivi e pagani sono infinitamente suggestivi purché si abbia la saggezza di non chiedere che cosa suggeriscano. Perciò sentiamo che cosa significhi Prometeo che ruba il fuoco dal cielo, purché qualche saccente di pessimista o di progressista non s’incomodi a spiegarcelo: perciò sappiamo il significato di Jack e il fagiolo magico purché nessuno ce lo venga a dichiarare. E’ vero che è l’ignorante che accetta i miti; ma nel senso in cui è vero che è l’ignorante che gusta la poesia. L’immaginazione ha le sue leggi e i suoi trionfi, e una potenza ineffabile riveste le sue immagini, sia che sorgano dalla mente o dal fango, sia che ci si presentino nel marmo delle montagne elleniche o nel bambù delle isole dell’Oceano Antartico. Ma c’è in tale trionfo un senso di disagio che invano mi sono sforzato di analizzare e che potrebbe forse essere registrato qui, a guisa di conclusione. Il punto cruciale e critico è questo: che l’uomo ha sempre trovato naturale adorare qualche cosa, anche le cose innaturali. La posizione dell’idolo può essere dura e strana; ma il gesto dell’adoratore è sempre generoso e bello. Egli si sente più libero quando è legato; si sente più alto quando s’inchina. Tutto ciò che gli vieta il gesto dell’adorazione lo avvilisce e lo mutila per sempre. L’anticlericalismo è una schiavitù e un’inibizione. Se non può pregare è come imbarazzato; se non può inginocchiarsi è come in ceppi. Perciò, attraverso tutto il paganesimo, proviamo un curioso duplice sentimento, di fiducia e di sfiducia. Quando l’uomo fa il gesto dell’adorazione e del sacrificio, quando versa le libazioni o quando alza la spada, egli sa di fare una cosa degna e virile; sa di fare una di quelle cose per le quali gli uomini sono stati creati. Il suo esperimento immaginativo è 146

dunque giustificato. Ma precisamente perché è cominciato con l’ immaginazione c’è in esso qualche cosa di beffardo, che, nei momenti di maggiore entità intellettuale, diventa l’ironia quasi intollerabile della tragedia greca. Sembra esserci una sproporzione fra il sacerdote e l’altare, o fra l’altare e il dio. Il sacerdote sembra più solenne e quasi più sacro del dio. Tutto il tempio è lateralmente solido e rispondente a certe parti della nostra natura; il centro no: esso sembra stranamente mutevole e malfermo come fuoco fatuo. Tutto è stato costruito intorno a quella prima idea, e la prima idea è ancora fantasia e quasi assenza di serietà. In quello strano punto d’incrocio, l’uomo sembra più statuario della statua; egli può atteggiarsi nel nobile e naturale atteggiamento della statua rappresentante «Il fanciullo che prega». Ma, qualunque sia il nome scritto sul piedistallo Zeus o Ammone o Apollo - quello che l’uomo adora è un altro dio: Pròteo. Si può dire che il Fanciullo che prega esprime un bisogno piuttosto che soddisfarlo. Le sue mani sono levate in un gesto normale e necessario, ma c’è una morale nel fatto che quelle mani sono vuote. Sulla natura di questo bisogno c’è poco da dire, ma si può dire ormai che dopo tutto questo giusto istinto - che la preghiera e il sacrifizio sono una libertà e un’espansione - risale a quella vasta e quasi dimenticata concezione di una paternità universale, che abbiam visto dappertutto attenuarsi e scolorirsi nell’aurora del mondo. Ciò è vero; ma non è tutta la verità. Rimane l’indistruttibile istinto, nel poeta quale ci è dato dal paganesimo, che egli non ha interamente torto quando vuole localizzare il suo dio. Tale istinto è qualche cosa di profondamente radicato nell’anima, qualche cosa che è poesia se non è pietà. Il più grande dei poeti, volendo definire il poeta, non disse che il poeta ci dà l’universo o l’assoluto, o l’infinito; ma, nel suo più ampio linguaggio, una 147

dimora e un nome. Nessun poeta è unicamente panteista; quelli che passano per più panteisti, come Shelley, partono da immagini locali e particolari, come i pagani. Shelley cantò l’allodola perché era l’allodola. Nessuno potrebbe farne, per uso del Sudafrica, una traduzione imperiale o internazionale, in cui l’allodola fosse mutata in struzzo. Così l’immaginazione mitologica gira in tondo, svolazzando per trovare un posto o per tornarvi. In una parola, la mitologia è ricerca: essa concilia un desiderio e un dubbio sempre ricorrente, mescolando la più affamata sincerità della ricerca con la più oscura, profonda e misteriosa negligenza della scoperta. Ecco dove poteva condurre la solitaria immaginazione, e noi dobbiamo volgerci più tardi alla solitaria ragione. Mai per la lunga strada immaginazione e ragione si sono trovate a camminare insieme. Qui tutte queste cose differiscono dalla religione, e da ogni sorta di realtà in cui le varie dimensioni s’incontrino come in un solido. Essi differiscono dalla realtà non per quel che paiono ma per quel che sono. Un quadro può sembrare un paesaggio; può sembrare in ogni particolare esattamente un paesaggio. C’è un solo punto in cui ne differisce: ed è che non è un paesaggio. E’ la stessa differenza che c’è fra un ritratto della regina Elisabetta e la regina Elisabetta. Soltanto, in questo mondo mitico e mistico, il ritratto esisteva prima della persona; e il ritratto era perciò più vago e incerto. Ma chi si è nutrito nell’atmosfera di questi miti saprà che cosa intendo dire quando affermo che in un certo senso essi non pretendevano di essere realtà. I sogni dei pagani presupponevano una realtà; ed essi sarebbero stati i primi ad ammettere, in lor favella, che alcuni venivano dal cancello di avorio e altri dal cancello di corno. I sogni raggiunsero talora un’intensità tragica o sentimentale che fa svegliare il dormiente con l’impressione di sentirsi 148

spezzare il cuore. Essi tendono ad aggirarsi su certi temi passionali d’incontri e di partenze, di una vita che s’attacca alla morte o di una morte che è il principio della vita. Demetra vaga sul mondo desolato in cerca della figlia che le hanno portato via; Iside stende invano le sue braccia sopra la terra per raccogliere le sparse membra di Osiride, e qua i monti risuonavano di lamenti per Attis e là i boschi per Adone. E con questi lutti si mescola la profonda e mistica sensazione che la morte può essere liberazione e pace, che quella morte versa su noi nuovi fiumi di sangue divino, che il sommo bene può trovarsi nel riunire il corpo lacerato di un dio. Queste possono essere prefigurazioni; ma non bisogna dimenticare che le prefigurazioni sono ombre. Questa metafora dell’ombra apre uno spiraglio sulla verità che è qui essenziale. Un’ombra è una forma, una forma senza sostanza. Queste cose sono somiglianti a cose reali; ma il dire che sono somiglianti è come dire che sono differenti. Dire che qualche cosa somiglia a un cane è come dire che non è un cane: nello stesso senso un essere mitico non è un essere vivo. Nessuno ha mai creduto che Iside fosse un essere umano, o Demetra un personaggio storico, o Adone il fondatore di una chiesa. Non c’è mai stata l’idea che qualcuno di loro avesse cambiato la faccia del mondo; ma piuttosto che la vicenda della loro morte e della loro vita rappresentasse la triste e splendida immutabilità dell’universo. Nessuno di essi costituì una rivoluzione, se non quella astronomica del sole e della luna. Il loro significato viene meno se non si comprende che essi rappresentano ombre, le ombre che noi siamo e che perseguiamo. Sotto certi aspetti essi fanno intravedere quale specie di dio ci vorrebbe per gli uomini, ma non pretendono essi di darlo. E chi dicesse il contrario mostrerebbe di non avere il senso della poesia. Quelli che parlano di cristi pagani hanno meno 149

dimestichezza col paganesimo che col Cristianesimo. Quelli che chiamano questi culti «religioni», e vogliono «comparare» con essi la certezza - che è una sfida - della Chiesa, mostrano di apprezzare meno di noi la grandezza umana di quel che fu fatto dal paganesimo, o il perché la letteratura classica risuona ancora nell’aria come un canto. La stessa umana tenerezza per l’affamato non prova che la fame è lo stesso che il cibo. Chi dice che la speranza sopprime il bisogno della felicità non ha nessuna intima comprensione della giovinezza. E in contrasto con la realtà sostenere che queste immagini della mente, ammirabili in astratto, siano sullo stesso piano di un uomo e di una legge che furono adorati perché erano concreti. Noi possiamo dire che il ragazzo che giuoca agli assassini è lo stesso che l’uomo al suo primo giorno di trincea; o che le prime fantasticherie di un ragazzo su «colei che non è impossibile» sono la stessa cosa del sacramento del matrimonio. Sono cose fondamentalmente diverse proprio perché sono superficialmente simili; possiamo quasi dire che non sono la stessa cosa anche quando sono la stessa cosa. Sono diverse perché una è reale e l’altra no. Con questo non intendo che una la credo vera e l’altra no; intendo che la verità dell’una è assolutamente, essenzialmente diversa dalla verità dell’altra. Ho tentato di suggerire vagamente quale possa essere quest’altra verità, ma è difficile impresa perché si tratta di qualche cosa di sottile e quasi indescrivibile. È così sottile che gli studiosi che pretendono di porla come rivale alla nostra religione falliscono totalmente allo scopo e al proposito del loro studio. Anche quelli di noi che non sono professori sanno meglio dei professori che cosa c’era nel cupo grido che erompeva sul morto Adone e perché la Gran Madre ebbe una figlia maritata alla morte. Siamo penetrati più a fondo di loro nei misteri eleusini, siamo arrivati a un più alto grado, dove la saggezza d’Orfeo si custodisce dietro 150

mille porte. Conosciamo il significato di tutti i miti, gli ultimi segreti rivelati al perfetto iniziato. E non è voce di sacerdote o di profeta che ci dica: «Queste cose sono»; è la voce del sognatore e dell’idealista che esclama: «Perché queste cose non possono essere?». 1 Samuel Johnson (1709-1784) è stato critico, poeta, narratore e lessicografo, uno dei più acuti geni del suo tempo. Il titolo di “Dottore” con cui è conosciuto è onorifico e gli fu concesso dalle Università di Dublino e di Oxford, dopo che non potè terminare gli studi a causa del dissesto finanziario paterno.

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Capitolo VI I demoni e i filosofi MI SONO FERMATO UN POCO su questo lato immaginoso del paganesimo, che ha popolato il mondo di templi ed è il progenitore delle festività popolari. Ma la storia centrale della civiltà, come io la concepisco, comprende altri due stadi prima dello stadio finale del cristianesimo. Il primo è quello della lotta fra questo paganesimo e qualche cosa di più basso; il secondo è il processo per cui il paganesimo diventa esso stesso più basso. In questo vago e vario politeismo c’è un lato debole, un peccato originale. gli dei pagani quali ci vengono dipinti giuocano a dadi con gli uomini, ma sono dadi truccati. Specialmente in ciò che riguarda il fatto sessuale gli uomini nascono squilibrati; possiamo quasi dire che nascono pazzi. Essi non raggiungono la sanità se non quando raggiungono la santità. Questa sproporzione fa cadere le alate fantasie e riempie la fine del paganesimo dell’immondizia e dello strame di una schiera di dei in fregola. Il primo punto da considerare è che questo paganesimo ha avuto un urto iniziale con un altro paganesimo, e che è stato il risultato di questa lotta essenzialmente spirituale quello che ha determinato l’indirizzo della storia del mondo. Per comprendere ciò occorre passare in rassegna quest’altra specie di paganesimo; il quale può essere esaminato molto più rapidamente. E’ una di quelle cose di cui meno si parla 152

meglio è. Se abbiamo parlato di sogni a proposito della mitologia del primo tipo, questo secondo tipo possiamo chiamarlo incubo. La superstizione si incontra in tutti i tempi, e specialmente in tempi di razionalismo. Mi ricordo di aver difeso una volta la tradizione religiosa contro una tavolata di illustri agnostici; prima che la conversazione finisse ognuno aveva tirato fuori di tasca, o mostrato alla catena dell’orologio, qualche feticcio o talismano, da cui ammetteva di non essersi mai separato. Io, fra i presenti, ero il solo a non avere un corno. La superstizione si incontra in epoche di razionalismo, perché riposa su qualche cosa che, se non è identico al razionalismo, non è estraneo allo scetticismo; è, almeno, strettamente connesso all’agnosticismo. Riposa su un sentimento veramente umano e intelligibile, come le invocazioni del numeri locale nel paganesimo popolare. Ma è un sentimento agnostico, che si basa su due principi: 1. che noi non conosciamo le leggi dell’universo; 2. che queste possono ad ogni modo essere differentissime da tutto quel che si chiama ragione. È un modo di capire la reale verità che le cose più grandi sono spesso legate alle piccole. Quando, dalla tradizione o altrimenti, ci si sussurra l’ipotesi che una cosa piccola e particolare è la chiave dei misteri, c’è nella natura umana qualche cosa di profondo e di non totalmente insensato che ci avverte che anche questo «può essere». Un tale sentimento si può rintracciare in tutte e due le forme di paganesimo che qui esaminiamo. Ma passando alla seconda forma, lo troviamo in essa trasformato e riempito di un altro e più terribile significato. Parlando della mitologia, nel suo aspetto più superficiale, non ho approfondito un lato di essa che si presta a discussioni: fino a qual punto, cioè, l’invocazione degli spiriti del mare o degli elementi può effettivamente evocare gli spiriti dal profondo, o (per dirla col buffone 153

shakespeariano) se effettivamente gli spiriti vengono quando sono chiamati. Credo di poter ritenere che questo problema, praticamente, non ha un valore preminente nel campo della mitologia poetica. Ma credo anche ovvio, in base alle prove, che apparizioni di questo genere ce ne sono state, sia pure soltanto apparenti. Entrando nel campo della superstizione, in un senso più sottile, c’è un’ombra di differenza: un’ombra alquanto più profonda e oscura. La superstizione popolare, come la mitologia popolare, non prende generalmente le cose troppo sul serio: non è un dogma per nessuno che Dio scaglierà un fulmine a chi passi sotto una scala; pure la gente spesso - per divertimento - si sottopone al non faticoso esercizio di evitare di passarci. Fino a qui non c’è nulla più di quanto ho cercato di adombrare: una specie di largo agnosticismo sulla possibilità di così strani fenomeni. Ma c’è un’altra specie di superstizione che decisamente vuole dei risultati pratici, una superstizione che potrebbe dirsi realistica. In questo caso, la questione se gli spiriti rispondono o appaiono diventa assai più seria. Per me, come ho detto, è certo che qualche volta ciò si è verificato; ma c’è, su questo punto, una distinzione che è stata, nel mondo, il principio di molti mali. Sia che la Caduta abbia portato gli uomini a vicinanze meno desiderabili nel mondo spirituale o che, soltanto, il temperamento avido e violento degli uomini trovi più facile immaginare il male, secondo me la magia nera o stregoneria è stata molto più pratica e molto meno poetica della magia bianca o mitologia. Il giardino della strega è meglio curato del bosco della ninfa. Il campo del male è più fruttuoso di quello del bene. Un impulso spontaneo, forse un impulso di disperazione, trascina gli uomini verso le potenze più oscure, quando si tratta di problemi pratici. C’è una specie di segreta e perversa convinzione che le potenze più oscure agiscono davvero; che con esse non si scherza. La 154

frase popolare corrisponde in questo caso alla verità. Gli dei della mitologia scherzano; c’è sempre un’aria di corbellatura intorno a loro, allo stesso modo che noi parliamo per ischerzo di Jabberwocky 1 o del paese dove vivono i Jumblies2. Invece, chi consulta il demonio è come tanti che consultano un poliziotto, un detective·. sentono che è una cosa sudicia ma che bisogna farla. Uno non va nel bosco per incontrarsi con una ninfa; ci va piuttosto con la speranza d’incontrare una ninfa. È un’avventura più che un appuntamento. Ma il diavolo è puntuale e mantiene le sue promesse, anche se l’uomo, dopo, come Macbeth, si augurerebbe che ne facesse a meno. Da quanto ci vien tramandato intorno alla vita di molte razze primitive e selvagge, possiamo dedurre che il culto dei demoni viene cronologicamente dopo il culto delle divinità, anche dopo il culto di una sola e suprema divinità. Si potrebbe sospettare che in tutti questi casi le divinità supreme sembrino troppo lontane perché si possa ricorrere ad esse per faccende di poco momento, e gli uomini invocano gli spiriti proprio perché sembrano loro in un senso letterale spiriti familiari. Senonché, insieme con l’idea di ricorrere a demoni che danno più retta, sorge una nuova idea più degna dei demoni, anzi si potrebbe addirittura chiamarla l’idea di rendersi degni dei demoni: di rendersi ben accetti alla loro fastidiosa ed esigente compagnia. Superstizioni di carattere più leggero giuocano sul presupposto che una qualche sciocchezza — come il gesto di gettare il sale - possa muovere qualche nascosta molla che mette in opera il misterioso meccanismo dell’universo. In questo «Apriti, Sesamo» c’è dopo tutto qualche cosa di buono. Ma con l’appello agli spiriti inferni sorge l’idea orribile che il gesto non dev’essere soltanto piccolo ma basso; dev’essere un gesto scimmiesco brutto e abietto. Presto o tardi l’uomo finisce col fare le cose più disgustose 155

che possa escogitare: ha come la sensazione che una malvagità estrema estorcerà un po’ d’attenzione, una risposta da parte delle potenze malefiche di sotterra. Tale è il significato del cannibalismo; il quale non è generalmente un’abitudine primitiva, e nemmeno bestiale. E’ artificiale, e anche artistica: una specie dell’arte per l’arte. Non è vero che gli uomini praticano il cannibalismo perché non ne vedono l’orrore, ma anzi proprio perché ne vedono l’orrore. Vogliono, letteralmente, tuffarsi nell’orrore. Ecco perché spesso si trova che razze incolte come gl’indigeni australiani non sono cannibali, mentre sono cannibali all’occasione razze assai più raffinate e intelligenti come i Maori della Nuova Zelanda. Essi sono tanto raffinati e intelligenti da indulgere talora a un semiconscio diabolismo. Ma se noi potessimo capire la loro mentalità, o anche soltanto il loro linguaggio, probabilmente troveremmo che essi non agiscono come ignoranti, cioè come cannibali ingenui. Se agiscono così non è perché non sappiano che è peccato; ma precisamente perché sanno che lo è. Agiscono come un decadente parigino alla messa nera. Ma la messa nera va a nascondersi sotto terra per sottrarsi alla presenza della Messa vera. I demoni sono sempre andati a nascondersi dall’avvento di Cristo sulla terra. Il cannibalismo dei barbari raffinati va a nascondersi lontano dagli occhi della civiltà bianca. Prima del Cristianesimo, e specialmente fuori d’Europa, non sempre è stato così. Nel mondo antico spesso i demoni vagarono liberamente, simili a draghi. Poterono essere positivamente e pubblicamente posti sul trono come dei. Le loro enormi immagini sono adorate in pubblici templi, al centro di popolose città. E su tutto il mondo si possono trovar le tracce di questa solida e sorprendente realtà, che i moderni, prendendo un curioso abbaglio, ritengono primitiva e primordiale quando, di fatto, le più elevate civiltà del mondo furono quelle che 156

esaltarono le corna di Satana non solo verso le stelle, ma in faccia al Sole. Prendete per esempio gli aztechi e gli indiani degli antichi Imperi del Messico e del Perù. Essi avevano almeno raggiunto il grado di sviluppo dell’Egitto e della Cina, ed erano soltanto un po’ inferiori per attività alla civiltà centrale a cui noi apparteniamo. Ma quelli che criticano questa civiltà centrale (che è anche la loro) hanno l’abitudine di non limitarsi a condannare i suoi delitti (il che può essere legittimo); vogliono pure idealizzare le sue vittime. Essi sostengono che prima dell’avvento dell’Europa tutto il mondo era un Eden. Swinburne nel suo inspirato coro delle nazioni, nei Songs before the Sunrise, usa, a proposito della Spagna (e delle sue conquiste nel Sudamerica), un’espressione che mi ha sempre stranamente colpito. Egli parla dei «suoi peccati e dei suoi figli sparsi in terre senza peccato», e dice che essi «fecero maledetto il nome dell’uomo e tre volte maledetto il nome di Dio». Può esser giusto dire che gli spagnoli erano peccatori; ma perché dire che i sudamericani erano senza peccato? Perché supporre quel continente esclusivamente popolato d’arcangeli e di santi perfetti come in paradiso? Sarebbe un azzardo dire qualche cosa di simile del nostro prossimo più rispettabile; ma quando pensiamo a quel che si sa intorno alla società di cui parla Swinburne, il rilievo diventa più comico. Si sa che i sacerdoti senza peccato di quel paese senza peccato adoravano dei senza peccato, che accettavano come nettare e ambrosia dei loro paradiso solare nient’altro che incessanti sacrifici umani, accompagnati da orrendi tormenti. Possiamo anche notare nella mitologia di questa civiltà americana quell’elemento di inversione e di violenza contro natura di cui Dante scrisse; e che dappertutto cammina a ritroso attraverso questa innaturale religione dei demoni. E come nell’etica così nell’estetica. I sudamericani 157

costruiscono i loro idoli più brutti che sia possibile; la statua ellenica è quanto ci possa essere di bello. Essi cercano il segreto della potenza, sforzandosi di andare indietro contro la loro natura e contro la natura delle cose. C’è come una penosa aspirazione a intagliare nell’oro, nel granito, o nel legno rosso della foresta, una faccia di fronte alla quale il cielo stesso andrebbe in frantumi come uno specchio rotto. È chiaro ad ogni modo che la dipinta e dorata civiltà dell’America tropicale sistematicamente tollerava i sacrifici umani. Non è chiaro invece che gli esquimesi abbiano mai fatto lo stesso: non erano abbastanza civili; erano troppo prigionieri del bianco inverno e dell’infinita oscurità. La penuria reprimeva il loro nobile furore e gelava le geniali effusioni dell’anima. Sotto più splendida e libera luce il nobile furore si sfrena largamente. In paesi più ricchi e più coltivati le geniali effusioni scorrono sugli altari per placare la sete degli dei dalle grandi maschere che sgranano gli occhi e digrignano i denti, evocati fra tormenti e terrori con lunghi nomi cacofonici simili a scoppi di risa infernali. Un clima più caldo e una cultura più scientifica ci volevano per produrre questi fiori: per innalzare verso il sole le ampie foglie e i calici fiammeggianti che davano oro, cremisi e porpora a quel giardino che Swinburne paragona a quello delle Esperidi. Almeno in questi, non c’era alcun dubbio sul drago. Non solleverò a questo proposito la questione della Spagna e del Messico; mi limito ad osservare che tale questione rassomiglia esattamente ad un’altra di cui parleremo in seguito e che riguarda Roma e Cartagine. In entrambi i casi c’è stato sempre da parte degli inglesi il cattivo vezzo di parteggiare contro l’Europa e di rappresentare le civiltà rivali, secondo la frase di Swinburne, come senza peccato; ma i loro peccati gridano, o meglio urlano, vendetta al cospetto di Dio. Anche quella di 158

Cartagine era una civiltà superiore, una civiltà, per così dire, più civilizzata; e anche Cartagine fondò la sua civiltà su una religione di terrore, che spargeva intorno a sé il fumo dei sacrifizi umani. Ora, che si ripudino la nostra razza e la nostra religione perché venute meno alle loro norme e ai loro ideali, niente da ridire; ma è assurdo pretendere di metterle al di sotto di altre razze e religioni che professano norme e ideali opposti. E’ vero che il cristiano può esser peggiore del pagano, e lo spagnolo peggiore del pellerossa, e il romano potenzialmente peggiore del cartaginese; ma è vero in un senso solo, e non in un senso positivo. Il cristiano è peggiore soltanto perché avrebbe il dovere di esser migliore. Questa immaginazione invertita produce effetti dei quali è meglio non parlare. Alcuni di essi sono tali che possono esser nominati senza esser riconosciuti: rappresentano quel male estremo che può sembrare innocente all’innocenza. Sono troppo fuori dell’umanità perché possano dirsi fuori della decenza. Ma senza dilungarci troppo in questi angoli bui, non è irrilevante notare che certi antagonismi antiumani sembrano ricorrere in tutte queste tradizioni di magia nera. Per esempio, si ha la sensazione che in tutte queste tradizioni corra come un mistico odio per l’idea d’infanzia. Si capirà meglio la furia popolare contro le streghe se si pensa che i sortilegi più comunemente attribuiti ad esse sono quelli che tendono a impedire le nascite. I profeti ebrei protestavano incessantemente contro il penetrare nella loro razza di un’idolatria che implicava la distruzione di bambini, ed è probabile che questa abominevole apostasia dal Dio d’Israele si sia manifestata fin d’allora sotto forma del cosiddetto omicidio rituale, non, ben inteso, per opera di rappresentanti del giudaismo, ma di diabolisti individuali e irresponsabili che per caso erano ebrei. L’idea che le forze del male minaccino soprattutto l’infanzia spiega l’enorme 159

popolarità che ebbe nel Medioevo il tema del fanciullo martire. Chaucer non fece che dare un’altra versione della leggenda nazionale inglese, quando concepì la peggiore di tutte le streghe come una straniera misteriosa che, dietro il suo alto graticcio, stava in ascolto per udire, come il mormorio di un ruscello giù per la china sassosa, il canto del piccolo sant’Ugo. Queste idee, per la parte che può interessarci, si accentrano specialmente intorno ai confini occidentali del Mediterraneo, dove i nomadi s’erano trasformati gradualmente in commercianti e avevano cominciato a trafficare in tutto il mondo. Dal punto di vista del commercio, dei viaggi e dell’estensione coloniale, era già qualche cosa come un impero mondiale. I suoi colori di porpora, emblema di ricchezza e di lusso, tingevano le merci che erano vendute lontano, sugli ultimi picchi della Cornovaglia; e tingevano le navi che entravano silenziose nei mari tropicali al centro dei misteri africani. Si potrebbe dire senza esagerazione che avevano dipinto di porpora l’intero globo. Il successo era ormai universale quando i principi di Tiro si commovevano appena nell’apprendere che una delle loro principesse aveva condisceso a sposarsi col capo d’una tribù detta di Giuda; e i mercanti degli avamposti africani si degnavano appena di increspare le loro barbute e semitiche labbra ad un leggero sorriso sentendo ricordare un villaggio chiamato Roma. E infatti se c’erano due cose che sembravano distanti una dall’altra, non solo nello spazio ma nello spirito, queste erano il monoteismo della tribù palestinese e le virtù civili della piccola repubblica italiana. Non c’era che una cosa fra loro, e questa cosa che li separava li ha uniti. Diversi e incompatibili erano gli ideali che potevano essere amati dai consoli di Roma e dai profeti d’Israele; ma gli uni e gli altri si trovavano d’accordo in ciò che essi odiavano. In entrambi i casi è facile lasciar credere 160

che quest’odio fosse qualche cosa di puramente odioso. È facile rappresentare come bestiali e inumane le figure di Elia raggiante per la strage del Carmelo o Catone tuonante contro l’indulgenza verso Cartagine. Questi uomini avevano le loro limitazioni e passioni locali; ma chi pretenda di criticarli su queste basi, mostra di avere scarsa immaginazione e di essere fuori della realtà. Egli dimentica qualche cosa, qualche cosa d’immenso che c’è in mezzo, e che affronta l’oriente e l’occidente e solleva a oriente e a occidente l’indignazione dei nemici. Questo qualche cosa è il tema principale del presente capitolo. La civiltà che ebbe per centro Tiro e Sidone fu soprattutto una civiltà pratica. Essa lasciò pochissimo nel campo dell’arte e niente in quello della poesia. Si vantava di essere «efficiente» e seguiva nella sua filosofia e religione quella strana e talora segreta tendenza che noi abbiamo già notato in coloro che cercano l’effetto immediato. C’è sempre in tali mentalità l’idea di trovare una scorciatoia per raggiungere il segreto di tutti i successi; qualche cosa che colpirebbe il mondo con questa specie di sfacciata sicurezza. Credevano, come oggi si dice, che tutto si possa avere purché si paghi; e nel trattare col loro dio Moloch non trascuravano di aver sempre i conti in regola. Era un patto interessante, sul quale dovremo tornare più di una volta in seguito; qui basta notare che esso implicava anche quella certa teoria che ho enunciato nei riguardi dell’infanzia. Ciò tirò loro addosso in un impeto simultaneo il servo di Dio della Palestina e il guardiano degli dei domestici di Roma. E costituì una sfida alle due forze, per natura tanto divise da ogni sorta di distanza e di disunione, e la cui unione doveva salvare il mondo. La quarta e ultima categoria di elementi spirituali, in cui va diviso il mondo pagano, l’ho definita dei filosofi. Confesso che con questo termine intendo anche molte altre cose che di solito vengono classificate in altro 161

modo: quelle che io chiamo filosofie sono spesso chiamate religioni. Credo che la mia definizione apparirà più realistica e non meno rispettosa. Ma noi dobbiamo prima prendere la filosofia nella sua forma più chiara e semplice, e tracciarne i precisi contorni. E questi contorni li potremo trovare nel mondo dei contorni chiari e semplici, cioè nella civiltà del Mediterraneo, di cui abbiamo esaminato negli ultimi due capitoli le mitologie e le idolatrie. Quel particolare aspetto del paganesimo che è il politeismo non fu mai per il pagano quello che è il Cattolicesimo per il cattolico; non rappresentò mai una dottrina universale tale da soddisfare tutti i lati della vita; una completa e complessa verità che avesse qualche cosa da dire su ogni cosa. Appagava un solo lato dell’anima umana, sia pure quello che chiamiamo religioso, e che io credo più giusto chiamare immaginativo. Ma questo lato lo appagava; sul suo declinare lo appagò ad esuberanza. Tutto il mondo era un fìtto tessuto di riti e di leggende, attraverso il quale correva, come abbiam visto, fra gli altri innocui colori, un filo nero: il filo nero di quell’osceno paganesimo che fu, in realtà, diabolismo. Ma si sa bene che ciò non vuol dire che i pagani non pensassero ad altro che ai loro dei. Precisamente perché la mitologia corrispondeva soltanto a certe aspirazioni, essi soddisfacevano per altra via a qualche cosa di totalmente differente. Erano aspirazioni così differenti da essere incoerenti. Erano così estranee che non s’incontravano mai. Mentre la folla si riversava nelle pubbliche feste per Adone o nei giochi in onore di Apollo, questo e quell individuo preferiva rimanere a casa e costruire una piccola teoria intorno alla natura delle cose. Qualche volta il suo trastullo prendeva la forma di un pensiero intorno alla natura di Dio, o anche intorno alla natura degli dei. Ma raramente si proponeva di inalberare la sua natura degli dei di contro agli dei della natura. 162

E’ necessario insistere sull’astrazione di questi primi studiosi di astrazioni. Essi non erano tanto in antagonismo col resto dell’umanità quanto spiritualmente lontani e assenti. Il loro passatempo poteva essere l’universo, ma era un passatempo di carattere privato, come potrebb’essere l’occuparsi di numismatica o il fare una partita a dama. Anche quando la loro sapienza diventò di dominio pubblico, e quasi un’istituzione politica, non fu mai nello stesso piano delle istituzioni popolari o religiose. Aristotele, col suo colossale senso comune, fu forse il più grande dei filosofi; certo il più pratico di tutti i filosofi. Ma Aristotele non avrebbe messo l’Assoluto accanto all’Apollo di Delfi, come una religione rivale, allo stesso modo che Archimede non avrebbe pensato di fare della Leva una specie di idolo o feticcio da collocare al posto del Palladio della città. Né si può immaginare Euclide intento a costruire un altare al triangolo isoscele, o ad offrire sacrifizi al quadrato costruito sopra l’ipotenusa. La metafisica da una parte, la matematica dall’altra, erano oggetto di meditazione: per amore di verità, o per curiosità, o per divertimento. Ma questa sorta di divertimento non ha mai avuto interferenze con altri divertimenti: con quello, per esempio, di danzare, o di cantare per celebrare qualche sconcia avventura di Zeus trasformatosi in un toro o in un cigno. Forse la prova migliore di una certa superficialità e insincerità della credenza popolare nel politeismo è questa: che ci potevano essere dei filosofi e degli scettici senza che nessuno se ne adontasse. Questi pensatori potevano rivoltare i fondamenti dell’universo senza alterare i contorni di quella nuvola colorata che pendeva sovra esso nell’aria. In realtà questi pensatori rivoltavano i fondamenti del mondo, anche quando un curioso compromesso sembrava impedire loro di toccare i fondamenti della città. I due grandi filosofi dell’antichità ci appaiono come difensori 163

di sane e sante idee; le loro massime valgono ancora come risposte definitive ai problemi dello scetticismo. Aristotele distrusse tutti gli anarchici e gli adoratori della natura, stabilendo il principio fondamentale che l’uomo è un animale politico. Platone anticipò il realismo cattolico, qual è combattuto dal nominalismo eretico, insistendo sul fatto egualmente fondamentale che le idee sono realtà; che le idee esistono come esistono gli uomini. Platone anzi arrivò talora a immaginare che le idee esistono come non esistono gli uomini, o che gli uomini non contano più nulla quando sono in conflitto con le idee. Egli ebbe qualche tratto di quel sentimento socialistico, che chiamiamo Fabiano, nel suo ideale di conformare i cittadini alla città come un’ipotetica testa ad un ipotetico cappello; e per quanto grande e glorioso egli rimanga, è stato tuttavia il padre di tutti gli utopisti. Aristotele ha interpretato più pienamente la sacramentale sanità che consiste nell’armonizzare il corpo e lo spirito: egli prese in considerazione così la natura degli uomini come la natura della morale, e non trascurò gli occhi per guardare soltanto la luce. Ma, sebbene questi grandi uomini siano stati costruttivi e conservatori, essi appartengono a un mondo in cui il pensiero era libero fino ad esser fantastico. Dei molti grandi intelletti che li seguirono, alcuni esaltarono un’astratta visione della virtù, altri più razionalisticamente la umana necessità di conseguire un benessere. I primi furono gli stoici, e il loro nome passò in proverbio come quello di uno dei più alti ideali morali dell’umanità: quello di fortificare lo spirito fino a renderlo resistente alla calamità e al dolore. Ma una gran parte di filosofi degenerò e diede luogo alla scuola dei sofisti; i quali furono una specie di scettici professionali che andavano attorno proponendo questioni imbarazzanti, e si facevano bellamente pagare per dar noia alle persone serie. Si deve forse a un’accidentale 164

rassomiglianza con questi ciarlatani l’impopolarità del grande Socrate. Ma sbaglierebbe chi vedesse nella sua morte una smentita alla tregua permanente fra gli dei e i filosofi: Socrate non morì come un monoteista che denunciasse il politeismo, come un profeta che denunciasse gl’idoli. E’ chiaro, per chiunque sappia leggere fra le righe, che c’influì, a torto o a ragione, una questione personale di carattere morale e probabilmente politico. Il compromesso rimase: sia che i Greci non prendessero sul serio la loro mitologia o che non prendessero sul serio la loro filosofia. Non ci fu mai un conflitto per cui l’una distruggesse l’altra, né ci fu mai un accordo in cui l’una si conciliasse con l’altra. Certamente, esse non agirono mai insieme; tutt’al più il filosofo fu un rivale del sacerdote. Ma entrambi parvero piuttosto accettare una netta separazione di funzioni e continuarono a far parte dello stesso sistema sociale. Un’altra importante tradizione deriva da Pitagora, che è significativo perché sta più vicino a quel misticismo orientale che deve a sua volta esser preso in esame. Egli professava una specie di misticismo matematico: essere il numero la definitiva realtà. Ma pare abbia anche professato la dottrina della metempsicosi come i bramini, e che abbia lasciato ai suoi seguaci certe tradizionali manie come quella di mangiare secondo il regime vegetariano e di bere acqua, consuetudine comune fra i saggi orientali, specialmente fra quelli che facevano mostra di sé nei salotti alla moda durante gli ultimi tempi dell’Impero romano. Ma, a proposito, noi possiamo avvicinarci per questo sentiero ad un’altra importante verità. Un grande filosofo diceva che sarebbe bene che i filosofi fossero re o che i re fossero filosofi. Diceva una cosa troppo bella per esser vera; ma che, in fatto, non di rado è stata vera. C’è nella storia, e forse è stato troppo poco notato, il tipo del filosofo regale. A parte la sovranità effettiva, capitò 165

a qualche sapiente la possibilità di essere, se non un fondatore di religioni, qualche cosa come un fondatore di ordinamenti politici. Un grande esempio, il più grande esempio del genere, ci trasporterà col pensiero migliaia di miglia al di là dei confini dell’Asia, in quel meraviglioso e per mille guise sapientissimo mondo delle idee e delle istituzioni, al quale abbiamo il torto di non dare importanza, quando si parla della Cina. Gli uomini hanno servito molti strani dei; e si sono affidati lealmente a molti ideali e a molti idoli. La Cina è una società che ha preferito credere nell’intelletto. Ha preso sul serio l’intelletto, e può darsi che sia la sola. Fin dalle età più remote, essa si mise di fronte al dilemma del re e del filosofo nominando effettivamente un filosofo come consigliere del re. Essa fece d’un individuo privato una istituzione pubblica, con nessun’altra mansione che quella di essere intellettuale. Naturalmente molte altre cose, in Cina, erano e sono sulla stessa falsariga: le categorie e i privilegi sono stabiliti per pubblico concorso; non c’è niente che possa dirsi un’aristocrazia; è una democrazia dominata da un’intelligenza. Ma quel che è notevole è che c’erano dei filosofi come consiglieri del re; e che uno di questi filosofi dev’essere stato un grande filosofo e un grande statista. Confucio non fu un fondatore di religioni e nemmeno un maestro di religione; forse non era nemmeno un uomo religioso. Non era un ateo; era forse quel che diremmo un agnostico. Ma quel che interessa è che, a proposito di Confucio, è inutile parlare di religione. E come tirare in ballo la teologia per far la storia di come Rowland Hill stabilì il servizio postale o come Baden-Powell organizzò i boy-scouts. Confucio non venne a portare all’umanità un messaggio celeste, ma semplicemente a organizzare la Cina; e deve averla organizzata molto bene. Egli si è molto preoccupato della morale, ma ha avuto 166

l’abilità di legarla strettamente a norme di buona creanza. La peculiarità del suo schema, per cui la Cina è agli antipodi e fa pendant con l’altro grande sistema che è quello cristiano, consiste in ciò: che tende a perpetuare con tutte le sue forme una regola di vita esterna dalla cui osservanza e continuità è fatta dipendere la pace interna. Chi sa quanto le abitudini influiscano sulla salute, del corpo come dell’anima, comprenderà l’importanza di questo sistema. Ma comprenderà anche che il culto degli antenati e la venerazione per il Sacro Imperatore rappresentano delle abitudini e non delle credenze. Non sarebbe giusto per il grande Confucio dire che egli sia stato un fondatore di religione; ma non sarebbe nemmeno giusto dire che non sia stato. Sarebbe ingiusto, come sarebbe fuori di luogo dire che Geremia Bentham non è stato un martire cristiano. Ma ci sono altri casi ancora più interessanti, in cui i filosofi furono veramente re, e non solo amici di re. La coincidenza non è accidentale; è connessa con la questione, elusiva anzichenò, della funzione del filosofo; lascia intravedere il motivo per cui filosofia e mitologia siano raramente venute ad un’aperta rottura. Non è soltanto perché non fosse abbastanza seria la mitologia; è anche perché era troppo superbo il filosofo. Il quale sprezzava i miti, ma sprezzava anche la folla; e pensava che quelli s’attagliassero a questa. Il filosofo pagano fu raramente un uomo del popolo, almeno nello spirito: fu raramente un democratico; spesso, anzi, fu un mordente critico della democrazia. C’era intorno a lui un’aria di raffinatezza e di agio aristocratico; e gli uomini che si trovavano in una posizione elevata erano i più adatti a far la parte di filosofi. Era facile e naturale per un principe, o altro personaggio eminente, fare l’Amleto, o il Tèseo del Sogno d’una notte di mezza estate. Fin dalle più antiche età ci troviamo in presenza di questi aristocratici intellettuali. Ne 167

troviamo uno nei primi tempi di cui si abbia memoria: assiso sul trono dell’antico Egitto. L’esempio di Akhenaten, detto il faraone eretico, è importante perché è il solo esempio, almeno prima dell’era cristiana, d’un principe filosofo messosi a combattere la mitologia popolare in nome d una sua privata filosofia. Generalmente questi prìncipi filosofi presero l’atteggiamento di Marco Aurelio, che è per molti lati il modello di questa specie di monarchi e di saggi. Marco Aurelio è stato biasimato perché tollerò l’anfiteatro pagano e il martirio dei cristiani. Ma ciò è caratteristico: in realtà, per tali uomini la religione popolare era sullo stesso livello dei giuochi del circo. Il professore Phillimore disse di lui «era un uomo grande e buono, e sapeva di esserlo». La definizione non manca di profondità. La filosofia del faraone eretico era più sincera e forse più umile. Si dice di qualcuno che è troppo orgoglioso per battersi; c’è un corollario a quest’idea, ed è che l’umile ha da fare qualche cosa di più che combattere. Il principe egiziano era semplice abbastanza per prendere sul serio la sua filosofia; egli solo, fra tali prìncipi intellettuali, volle fare un colpo di stato buttando giù con imperiai gesto gli alti dei dell’Egitto e innalzando sopra gli uomini, specchio fiammante della verità monoteistica, il disco del sole. Egli aveva anche altre interessanti idee che s’incontrano spesso in idealisti di quella specie: come noi parliamo di Piccoliinglesi, egli era un Piccolo-egiziano3. Nel campo dell’arte era realista perché era idealista; e il realismo è il più possibile di tutti gli ideali. Tuttavia cade su di lui qualche cosa dell’ombra di Marco Aurelio, fiancheggiata da quella del professor Phillimore. Questo nobilissimo principe non riuscì mai ad evitare una certa pedanteria. La pedanteria è un odore così penetrante che attacca, come un aroma semisvanito, anche le mummie egiziane. Il faraone eretico, come molti altri eretici, 168

probabilmente non si era mai domandato se, dopo tutto, non c’era qualche cosa nelle credenze e nei miti della gente meno istruita di lui. C’era qualche cosa; c’era una reale aspirazione umana in tutti quegli elementi di religione locale, in quella processione di divinità, simili a enormi mostri portati in trionfo, in quella vigilanza ininterrotta a certi luoghi santi, in tutto quel meraviglioso labirinto di mitologia. La Natura può non chiamarsi Iside; Iside può non andare alla ricerca di Osiride. Ma è innegabile che la Natura cerchi realmente qualche cosa: cerca sempre il soprannaturale. Questa aspirazione poteva esser soddisfatta di qualche cosa di più definito; ma un dignitoso monarca col suo disco del sole non la soddisfaceva. L’esperimento regale fallì in mezzo ad una rumorosa reazione di superstizioni popolari, in cui i preti furono portati sulle spalle dal popolo e ascesero al trono dei re. L’altro grande esempio che prenderò di questi principi sapienti è Gotamo, il grande signore Budda. So che egli generalmente non si mette tra i filosofi puri, ma io mi convinco sempre più, per l’idea che ho potuto formarmene, che questa è la vera interpretazione della sua immensa importanza. Egli è di gran lunga il più grande e il migliore di questi intellettuali nati nella porpora. La sua reazione è forse la più grande e la più sincera di tutte le azioni risultanti da questa combinazione del pensiero col trono, perché la sua reazione è una rinuncia. Marco Aurelio si contentava di dire con raffinata ironia che la vita poteva essere vissuta bene anche in un palazzo reale. Il monarca egiziano più ardente concludeva che poteva esser vissuta anche meglio dopo una rivoluzione di palazzo. Il grande Budda è il solo fra costoro che dimostra come si possa fare a meno del palazzo. Il primo ricorse alla tolleranza; l’altro alla rivoluzione. Ma c’è qualche cosa di più assoluto ed è l’abdicazione. L’abdicazione è forse la sola 169

azione realmente assoluta consentita ad un sovrano assoluto. Il principe indiano cresciuto nel lusso e nella pompa dell’oriente deliberatamente ne evase e visse la vita di un mendico. Gesto magnifico, ma non è la guerra; non è necessariamente la crociata nel senso cristiano. Non risolve la questione se la vita di un mendico sia quella di un santo o quella di un filosofo; se effettivamente il grande uomo si ritiri nella botte di Diogene o nella caverna di san Girolamo. Ora, i più diligenti studiosi di Budda, e quelli che indubbiamente ne hanno scritto con maggior chiarezza e comprensione, mi hanno convinto che Budda fu semplicemente un filosofo, il quale fondò una fortunata scuola di filosofia e fu trasformato in mia sorta di divus, o essere sacro, unicamente per effetto della misteriosa e antiscientifica atmosfera propria di tutte le consimili tradizioni asiatiche. E a questo punto è necessario dire una parola su quella invisibile frontiera vivente che dobbiamo attraversare per passare dal Mediterraneo all’ Oriente misterioso. Non c’è nulla come le frasi fatte da cui si finisca per ricavare tanto poco di verità, specialmente quando sono vere. Tutti siamo soliti di dire, a proposito dell’Asia, certe cose che sono verissime ma che non ci servono a niente, perche non comprendiamo la verità che contengono: come, per esempio, che l’Asia è vecchia, che guarda il passato, che non è progressista in un senso che non ha niente che vedere con l’idea piuttosto provinciale di un interminabile soqquadro per il progresso politico. Il Cristianesimo crede — come lo crede la cristianità - che l’uomo possa giungere in qualche luogo, in questa vita o nell’altra, e per varie vie secondo le varie dottrine. I desideri del mondo possono essere comunque soddisfatti, come sono soddisfatti i desideri, o in una nuova vita o in un antico amore o in qualche forma positiva di possesso e di appagamento. Del 170

resto sappiamo che c’è un ritmo e non una semplice progressione nelle cose, che c’è una serie di elevazioni e di cadute; soltanto, per noi questo ritmo è pienamente libero e sfugge a qualunque calcolo. Per l’Asia il ritmo s’è irrigidito in ritorni fissi: non è più il mondo messo sottosopra; è piuttosto come una ruota. A tutti questi intelligentissimi e civilissimi popoli è accaduto di esser stati attratti in una specie di rotazione cosmica intorno al vuoto perno del niente. In questo senso, il lato peggiore dell’esistenza è che essa può continuare indefinitamente. Questo è quel che dovrebbe intendersi quando diciamo che l’Asia è vecchia o antiprogressista o che guarda indietro. E per questo le sue spade ricurve ci appaiono come raggi staccati da quella ingannevole ruota; per questo i suoi ornamenti serpentini e ritornanti su se stessi ci ricordano il serpente che non muore mai. In tutto ciò la vernice del progresso politico non c entra. Gli asiatici potrebbero avere in testa dei cappelli a punta, ma se lo spirito asiatico rimanesse nei loro cuori essi aspetterebbero che i cappelli sparissero e ritornassero tondi (come la luna); non correrebbero dietro al cappello per esser condotti in cielo, o a casa. Quando nacque il genio di Budda, questa specie di sentimento cosmico era già comune a quasi tutto l’Oriente. Egli trovò la jungla d una stravagante e quasi asfissiante mitologia. Nondimeno è più facile aver simpatia con questa abbondanza folkloristica che col pessimismo che può averla inaridita; e si può sempre ricordare che, dopo tutto, gran parte della spontanea immaginazione orientale non era in realtà che idolatria: nel senso stretto e letterale di adorazione di un idolo. Ciò forse non è vero dell’antico sistema braminico, almeno come lo vedono i bramini; ma questa frase basterà comunque a ricordarci una cosa di maggior momento: il sistema delle caste nell’antica India, il quale può aver avuto qualcuno dei vantaggi pratici delle 171

corporazioni medioevali in Europa, ma contrasta sia con ogni forma di democrazia cristiana sia con ogni estremo tipo di cristiana aristocrazia, per il fatto che esso concepisce la superiorità sociale come superiorità spirituale, non solo staccandosi fondamentalmente dalla fratellanza del Cristianesimo, ma piantandosi come una formidabile e fortificata montagna di orgoglio in mezzo alle eguaglianze dell’Islam e della Cina. Questa formazione fissa attraverso migliaia e migliaia d’anni è un’altra illustrazione di quello spirito di ripetizione che ha marcato il tempo ab immemorabili. Possiamo anche presumere la prevalenza di un’altra idea che si suole associare al Buddismo secondo l’interpretazione teosofica. Veramente i buddisti più rigidi la ripudiano e ripudiano ancor più sprezzantemente la teosofia. Ma o che questa idea sia nel Buddismo o nella culla del Buddismo o nella tradizione o in un travestimento del Buddismo, è un’idea perfettamente confacente a questo principio dell’eterno ritorno. Parlo dell’idea della reincarnazione. La reincarnazione non è un’idea mistica, né un’idea trascendentale, e nemmeno, in un certo senso, un’idea religiosa. Il misticismo concepisce qualche cosa che trascenda l’esperienza; la religione apre degli spiragli su un bene migliore o su un male peggiore di quello che l’esperienza può dare. La reincarnazione si contenta di estendere le esperienze nel senso di ripeterle. Per un uomo non è tanto trascendentale ricordarsi di quel che faceva in Babilonia prima di nascere quanto ricordarsi di quel che faceva a Brixton prima di ricevere un colpo sulla testa. Le sue successive esistenze non è necessario siano qualche cosa di superiore alla esistenza umana e assoggettata alle limitazioni che pesano sulla esistenza umana. Non ha niente a che fare con la visione di Dio o con gli scongiuri contro il demonio. In altri termini la reincarnazione come tale non 172

sfugge necessariamente alla ruota del destino; anzi è in certo modo la ruota stessa del destino. E sia che Budda l’abbia fondata, o l’abbia trovata, o che, trovatala, l’abbia rinnegata, è certamente qualche cosa che ha il carattere generale di quell’atmosfera asiatica in cui Budda rappresentò la sua parte. E la parte che egli rappresentò fu quella di un filosofo intellettuale con una particolare teoria sul retto atteggiamento intellettuale verso di essa. Capisco che i buddisti non possano ammettere che il Buddismo venga considerato unicamente come una filosofia, se per filosofia intendiamo un puro giuoco intellettuale come quello dei sofisti greci, che gettavano in aria i mondi e li ripigliavano a volo come palle. Forse sarebbe più esatto dire che quella di Budda era una disciplina metafisica, che potremmo anche chiamare disciplina psicologica. Essa indica all’uomo un modo di sfuggire a tutto questo rinnovarsi del dolore; e ciò semplicemente liberandosi dalla illusione e dalla delusione del desiderio. E non che si debba cercare quel che vogliamo col restringere parzialmente la nostra impazienza, o col procurarselo per altra via, o con l’attenderlo in un mondo migliore; noi dobbiamo semplicemente smettere di volerlo. Dal momento che uno abbia capito che di reale non c’è nulla, che ogni cosa, compresa la sua anima, è in perpetua dissoluzione, ogni disinganno sarà scontato in precedenza, sorprese non saranno più possibili, e l’esistenza (se si può parlare di esistenza) sarà ridotta a un’estasi d’indifferenza. Tutto questo i buddisti lo chiamano beatitudine, e noi non ci fermeremo a discutere su questo punto; certo, per noi questa beatitudine è sinonimo di disperazione. Io non vedo, per esempio, perché questa teoria del disinganno non dovrebbe applicarsi tanto ai desideri di bontà quanto ai desideri egoistici: sembra che il Signore della Compassione debba aver pietà del suo popolo in quanto vive e non in 173

quanto muore. Un buddista intelligente scrisse: «La spiegazione del Buddismo popolare cinese e giapponese è che esso non è Buddismo». Il Buddismo ha indubbiamente cessato di essere una pura filosofia, ma solo per diventare una pura mitologia. Una cosa è sicura: esso non è mai diventato niente che potesse lontanamente rassomigliare a quel che si dice una Chiesa. Parrà uno scherzo dire che tutta la storia religiosa non è che una serie di zeri e di croci, intendendo per zero non il niente ma un simbolo negativo in confronto dell’altra forma o simbolo. Sebbene il simbolo non sia che una coincidenza, questa volta è una coincidenza che coincide. La mentalità asiatica può essere rappresentata da un rotondo O, almeno come circolo se non come cifra. Il gran simbolo asiatico del serpente che si morde la coda è la perfetta immagine di una certa idea di unità e di continuità, che appartiene alla filosofia e alle religioni orientali. È una curva che in un senso include ogni cosa e in un altro non arriva a niente: significa — e se ne gloria — che ogni ragionamento è una tautologia. E sebbene la figura non sia che un simbolo, noi possiamo vedere quanto sia esatto, nel suo significato simbolico, il simbolo parallelo della ruota di Budda generalmente chiamato svastica. La croce è una figura ad angoli retti coraggiosamente volti in opposte direzioni; la svastica è la stessa figura ma nell’atto di ripiegare su se stessa. Una croce ripiegata non è più una croce, ma una ruota. Prima di abbattere questi simboli e di trattarli come arbitrari, ricordiamoci da quale profondo istinto d’immaginazione siano stati prodotti e scelti in oriente e in occidente. La croce è ormai qualche cosa di più che un ricordo storico, essa riassume, quasi in un diagramma matematico, la verità sul punto essenziale, l’idea di un conflitto che si estende nell’eternità. Si può dire, anche se è un bisticcio, che la croce è il punto cruciale di 174

tutti i problemi. In altre parole, la croce, come fatto e come simbolo, esprime la necessità di uscire dal cerchio che è tutto e niente; essa spezza l’argomento tautologico per cui tutto comincia e finisce nello spirito. Poiché siamo ancora in tema di simboli, può aver valore di parabola quella leggenda che narra di san Francesco che benedisse gli uccelli, i quali partirono nella direzione dei quattro venti del cielo, e disegnarono col loro volo una vasta croce. Paragonata con questo libero volo di uccelli, la svastica è come un gatto che insegua la propria coda. Per prendere un’allegoria più popolare, possiamo dire che quando san Giorgio immerge la sua lancia nella gola del mostro, egli rompe nel serpente la solitaria autodivorazione, e gli dà a mordere qualche cosa di diverso dalla sua coda. Ma mentre molti simboli e similitudini potrebbero essere usati per rappresentare la verità, la verità è astratta e assoluta, sebbene non così facile a rappresentarsi se non per mezzo di simboli. Il Cristianesimo fa appello a una solida e distinta verità, a qualche cosa, insieme, di esterno e di eterno. Esso dichiara che la realtà c’è realmente; ossia che la realtà è realmente realtà. Il Cristianesimo va, in questo, d’accordo col senso comune; ma tutta la storia religiosa dimostra che il senso comune è destinato a perire ove non sia il Cristianesimo a preservarlo. Altrimenti il senso comune non potrebbe esistere, né durare, perché tutto ciò che è puro pensiero è destinato a sviarsi: tenderebbe a diventare troppo semplice per essere sensato. I filosofi, più che di sottilizzare, hanno la mania di semplificare; sono sempre trascinati a semplificazioni insensate, come un uomo in bilico sopra un abisso si sente affascinato dalla morte, dal niente, dal vuoto. Ci volle un’altra categoria di filosofi che fossero capaci di stare in bilico sul pinnacolo dei Tempio e di conservare il loro equilibrio senza buttarsi di sotto. Una delle 175

semplificazioni che pretendono di spiegare tutto è che tutto è sogno e illusione e che non c’è niente all’infuori dell’io; un’altra è quella che tutto ritorna; un’altra, che si dice buddista ed è certamente orientale, è l’idea che quel che pesa su di noi è il fatto della creazione, nel senso di differenziazione personale, e che non avremo bene finché non ci ricongiungeremo nel Tutto unico; secondo questa teoria la creazione è la caduta. Teoria importante storicamente perché essa prese stanza nell’oscuro centro dell’Asia onde venne fuori periodicamente in varie forme sui frastagliati confini europei. Qui noi possiamo collocare la misteriosa figura di Manete o Manicheo, il mistico dell’inversione, il pessimista, padre di tante sette ed eresie e qui va collocata, in un più alto gradino, la figura di Zoroastro, volgarmente identificato in un’altra di quelle spiegazioni semplicistiche a cui abbiamo accennato: l’eguaglianza del bene e del male, equivalenti e combattenti in ogni atomo. Anche Zoroastro appartiene a quella scuola di sapienti che possono esser detti mistici. Dallo stesso misterioso giardino persiano si leva poi, sulle sue ali pesanti, Mitra, il dio sconosciuto e viene a turbare l’ultimo crepuscolo di Roma. Quel cerchio o disco solare, innalzato nell’aurora del mondo dal remoto Egiziano, è stato specchio e modello per tutti i filosofi. Essi ne hanno fatto i più diversi usi, e qualche volta ci hanno perduto il senno, specialmente quando - come nei saggi dell’Oriente - quel disco è diventato una ruota e si è messo a girare vertiginosamente nelle loro teste. Ma la caratteristica di tutti costoro è che tutti credono che l’esistenza possa essere rappresentata in un diagramma anziché in un quadro; e le rozze rappresentazioni dei primi infantili inventori di miti sono una specie di netta e veemente protesta contro un tale punto di vista. Essi non possono credere che la religione non sia 176

uno schema ma una pittura; meno ancora possono credere che sia una pittura di cose esistenti fuori del nostro spirito. A volte il filosofo dipinge il disco tutto nero e si proclama pessimista; a volte tutto bianco e si proclama ottimista; a volte mezzo bianco e mezzo nero e si proclama dualista, come quei mistici persiani a cui volentieri renderei giustizia, se avessi spazio sufficiente. Nessuno di loro capisce una cosa disegnata in proporzioni reali e disposte secondo le regole della vita, in proporzioni che un matematico direbbe sproporzionate. Come l’artista della caverna primitiva rivelò insospettate intenzioni in quel che dapprima potè sembrare semplicemente uno strano sgorbio insignificante: pareva che egli tracciasse un diagramma storto, e cominciava invece, per la prima volta nei secoli, a tracciare le linee di una forma, e di un Volto. 1. È il titolo di un poemetto nonsense scritto da Lewis Carroll e pubblicato nel 1871 in Attraverso lo specchio. 2. Protagonisti dell’omonimo limerick nonsense di Edward Lear. 3 Little-Englander è detto chi professa un patriottismo esclusivista.

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Capitolo VII La guerra degli dei e dei demoni LA TEORIA DEL MATERIALISMO STORICO, per cui la politica e l’etica non sarebbero che espressioni dell’economia, è semplicemente falsa. Essa confonde le condizioni indispensabili della vita con le normali preoccupazioni della vita, che sono tutt’altra cosa. E’ come dire che giacché uno cammina su due gambe, non dovrebbe camminare altro che per andare a comprarsi le scarpe e le calze. Verissimo che l’uomo non può vivere senza l’aiuto del cibo e del bere, che lo sostengono al pari delle gambe; ma desumerne che soltanto il mangiare e il bere hanno determinato tutti gli eventi della storia umana è lo stesso che dire che la meta di tutte le marce militari e di tutti i pellegrinaggi religiosi dev’essere stata la gamba d’oro di miss Kilmansegg1 o la gamba ideale e perfetta di sir Willoughby Patterne2. Eppure tutta la storia è costituita di eventi di questo genere e senza di essi non si avrebbe storia. Le vacche possono obbedire a puri motivi economici, o almeno non si vedono fare altro che pascolare e cercare pascoli più abbondanti; ma appunto per ciò non leggeremo mai una storia delle vacche in dodici volumi. Capre e pecore possono fare della pura economia, almeno nella loro azione esterna; ma di fatto non si è mai vista una pecora protagonista d’epiche guerre o d’imperi degni d’essere tramandati ai posteri; e nemmeno il più attivo quadrupede ha mai ispirato 178

un libro per bambini intitolato Auree gesta delle capre valorose, o qualche cosa di simile. Invece, gli eventi della storia sono ben lungi dall’essere economici; possiamo anzi dire che la storia inizi precisamente dove finiscono i motivi che possono determinare l’azione d’una pecora o d’una vacca. Sarebbe difficile sostenere che i crociati abbandonarono gli agi delle loro case per i rischi di una terra ignota né più né meno come la vacca abbandona il bosco per un terreno più confortevole. Sarebbe difficile sostenere che gli esploratori del Polo vanno verso il Nord per lo stesso motivo materialistico per cui le rondini vanno verso il Sud. E se si lasciano fuori della storia umana le guerre religiose e le avventure pericolose, essa finirà non solo di essere umana, ma di essere storia. Il profilo della storia è tutto fatto di queste curve e di questi angoli decisamente tracciati dalla volontà dell’uomo. Una storia economica non sarebbe storia. Ma c’è un fatto evidente che dimostra anche più profondamente la falsità del materialismo storico ed è che gli uomini non hanno bisogno di vivere per il cibo dal momento che non possono vivere senza cibo. Quello che più occupa la mente dell’uomo non è il meccanismo necessario alla sua esistenza, ma piuttosto l’esistenza stessa, il mondo che egli vede ogni mattina quando si sveglia e la sua posizione rispetto ad esso. Qualche cosa gli preme più del vitto, ed è la vita. Per una volta che ricorda esattamente il lavoro che lo fa guadagnare e il guadagno che lo fa campare, egli penserà non meno di dieci volte che la giornata è magnifica, o che il mondo è bizzarro, o che la vita è degna di esser vissuta, o che la vita nel matrimonio non è tutta cosparsa di rose, e si compiacerà o si dispererà coi suoi bambini, o rimpiangerà la sua giovinezza, o in qualche altro modo riesaminerà la sua misteriosa parte di uomo. Se questo avviene alla maggioranza degli schiavi salariati di 179

questo nostro moderno e morboso industrialismo, la cui schifosa inumanità spinge in prima linea i fatti economici, avverrà in proporzioni senza confronto maggiori ove si tratti di quella moltitudine di contadini, di cacciatori e di pescatori, dai quali è realmente formata la massa del genere umano. Anche questi aridi pedanti, che fanno dipendere la morale dall’economia, devono ammettere che l’economia dipende dall’esistenza. Le nostre quotidiane incertezze e fantasticherie riguardano l’esistenza: non il come possiamo vivere, ma il perché si vive. E la prova è semplicissima; semplice come il suicidio. Rovesciate l’universo nella vostra mente, e l’economia politica sarà, insieme, capovolta. Supponete che uno voglia morire; e senz’altro il professore d’economia politica diventerà un seccatore con le sue elaborate spiegazioni sul come si faccia a vivere. Tutte le deviazioni, tutte le brusche decisioni che costituiscono il nostro passato nella storia hanno questo carattere di diversione dal corso della pura economia. Come l’economista è dispensato dal calcolare lo stipendio del suicida, così è dispensato dal provvedere alla pensione per l’ invalidità o per la vecchiaia del martire; e come non è necessario che pensi all’avvenire del martire, così non importa che pensi alla famiglia del monaco. Tutto il suo programma dovrà essere modificato in gradazioni inferiori di fronte al soldato che muore per il suo paese, di fronte al campagnuolo che ama la propria terra, di fronte a chi più o meno abbia una religione che gli permetta o gli proibisca questa o quella cosa. Tutti costoro non ricorrono a un calcolo economico sul costo della vita, ma semplicemente ad un’elementare e fondamentale concezione della vita; essi si fermano a quel che l’uomo vede e sente, quando si affaccia a quelle strane finestre che si chiamano occhi e guarda a quella strana visione che si chiama mondo. Sarebbe stupido introdurre nel nostro linguaggio altre 180

parole lunghe; eppure mi sia permesso di dire che una ne manca: manca la «storia psicologica». Intendo con ciò la considerazione di quel che le cose significano nella mente dell’uomo, e specie dell’uomo comune, indipendentemente dal come esse sono definite o dedotte dalle fonti ufficiali e dalle formulazioni politiche. Ho già accennato a questa idea nel caso del totem e di altri miti popolari. Non basta che ci dicano che un gatto domestico era chiamato totem, specialmente quando si sa che nessuno lo chiamava totem. Vorremmo sapere quali sentimenti destava. Era come il gatto di Whittington3 o come il gatto della strega? Si chiamava Pasht4 o Gatto con gli Stivali? Questo è quel che ci occorre sapere quando studiamo la natura dei rapporti politici e sociali. Ci occorre sapere qual era il vero sentimento che teneva uniti, in uno stesso vincolo sociale, tanti uomini perfettamente normali ed egoisti come siamo noi. Cosa provavano i soldati vedendo sfolgorante nel cielo — strano totem - l’Aquila d’oro delle Legioni? Cosa provavano i vassalli alla vista di quegli altri totem, ch’erano i leoni e i leopardi sullo scudo del loro signore? Finché si trascura questo lato soggettivo della storia, che può dirsi semplicemente l’interno della storia, ci sarà sempre in questa scienza un certo limite che non potrà essere trasceso se non dall’arte. In quanto lo storico non possa trascenderlo, il romanzo sarà più vero dei fatti. In un romanzo - anche in un romanzo storico - ci sarà sempre più verità. Questa nuova specie di storia non è mai tanto necessaria quanto nella psicologia della guerra. La storia che conosciamo è irrigidita e cristallizzata nei documenti ufficiali, pubblici o privati, che non ci dicono niente sulla cosa in sé. Nella peggiore ipotesi abbiamo soltanto le dichiarazioni ufficiali, che non possono essere spontanee precisamente perché sono ufficiali; nella migliore ipotesi abbiamo la 181

diplomazia segreta, che non può essere popolare precisamente perché è segreta. Eppure sull’uno o sull’altro di questi elementi si basa il giudizio storico circa le vere ragioni che determinarono la lotta. I governi combattono per le colonie o per i diritti commerciali? Combattono per i porti o per le tariffe elevate? Per una miniera d’oro o per la pesca delle perle? Ma basta rispondere che i governi non combattono nemmeno per sogno. Sono i combattenti che combattono; e perché combattono? Qual è la psicologia che sostiene il terribile e meraviglioso fenomeno della guerra? (Chi conosca minimamente i soldati non può prestar fede alla sciocca idea dei cosiddetti benpensanti, che - cioè milioni di uomini possano essere assoggettati con la forza. Se tutti disertassero, sarebbe impossibile punire i disertori; e il più piccolo episodio di diserzione potrebbe compromettere una campagna in una mezza giornata). Quale idea questi uomini si faranno realmente della politica? E se accettano la politica dagli uomini politici, quale idea avranno degli uomini politici? Se i vassalli guerreggiavano ciecamente per il loro sovrano, che cosa vedevano, questi uomini accecati, nel loro sovrano? Tutti hanno sentito parlare di realpolitik. In realtà, è la politica più pazzamente irreale. Essa va sempre ostinatamente e stupidamente ripetendo che gli uomini si battono per fini materiali, senza riflettere un momento che i fini materiali non sono più materiali per gli uomini che si battono. Nessuno è mai morto per scopi di politica pratica, come nessuno è mai morto per denaro. Nerone non avrebbe potuto assoldare cento cristiani che si facessero divorare dai leoni per uno scellino all’ora: nessuno si fa martirizzare a scopo di lucro. Ma la cosiddetta realpotitik, o politica realistica, è veramente stupida oltre ogni credere. E’ assurdo pensare che un soldato dica: «Le mie gambe stanno per piegarsi, ma io andrò avanti finché mi reggano; così, il 182

mio governo otterrà un porto nel golfo di Finlandia e anch’io potrò poi goderne i vantaggi». E’ assurdo credere che un impiegato trasformato in fante dica: «Se respiro i gas asfissianti, va a finire che ci lascio la pelle; ma mi consolo pensando che se mi deciderò un giorno o l’altro a fare il pescatore di perle nei mari del Sud, questa carriera mi sarà aperta». La storia materialistica è la più inverosimile di tutte le storie e di tutti i romanzi. Comunque una guerra abbia avuto inizio, ciò che la manda avanti è qualche cosa che sta nel profondo dell’anima, qualche cosa di affine al sentimento religioso. E il modo di concepire la vita e la morte. Un uomo vicino a morire si trova direttamente, faccia a faccia, con l’Assoluto; è stupido immaginarsi che gli stiano a cuore complicazioni remote e relative, che in ogni caso sarebbero troncate dalla morte. Se lo sostiene un sentimento di fedeltà, non può essere che una fedeltà semplice come la morte. Sono generalmente due sentimenti, che sono poi i due lati di uno solo. Il primo è l’amore di qualche cosa, vagamente conosciuta come la patria, che ci si dice minacciata; il secondo è il disgusto e la sfida di qualche strana cosa che la minaccia. Il primo è di ordine filosofico più che non sembri; ma non è il caso qui di fare una simile discussione. Uno non vuol vedere distrutta o cambiata la propria patria, perché egli non può nemmeno ricordare tutto il bene che vi è connesso; come a nessuno piacerebbe veder bruciata la propria casa, perché non potrebbe nemmeno enumerare tutte le cose che perderebbe con essa. Perciò pare che si batta per un’astrazione nebulosa, mentre si batte veramente per una casa. Né il lato negativo è meno nobile e meno forte. Gli uomini si battono più accanitamente quando sentono che il nemico è, al tempo stesso, il nemico ereditario e l’eterno straniero, che la sua atmosfera è estranea e antagonistica, come accadde al francese di fronte al prussiano, o come accadde ai cristiani 183

di Oriente di fronte al turco. Se diciamo che è una lotta di religione, certuni si perderanno in fastidiose querele sulle sètte e sui dogmi. Passiamo oltre, e diciamo che è una lotta fra la morte e la luce del sole, un dissidio che si allarga come un’oscura ombra fra i nostri occhi e la luce. A questo dissidio gli nomini possono pensare anche in punto di morte, perché è un dissidio sul significato della vita. Gli uomini sono mossi in queste questioni da qualche cosa di più alto e di più sacro che la politica: dall’odio. Quando pendevano nei giorni più neri le sorti della Grande Guerra, e gli uomini soffrivano nel corpo o nell’anima per coloro che amavano, essi erano ben lungi dall’interessarsi degli obiettivi diplomatici, per trarne motivo alla loro resistenza. Se posso rispondere di me e di quelli che conoscevo meglio, la visione che ci rendeva impossibile la resa era la visione dell’imperatore tedesco caracollante per le vie di Parigi. Convengo che questo non è un sentimento che rassomigli a quel che i miei amici idealisti chiamerebbero Amore. Io mi contento di chiamarlo odio — l’odio dell’inferno e delle sue opere - e riconosco che come essi non credono nell’inferno così non hanno bisogno di credere nell’odio. Ma davanti a questo pregiudizio dominante, è stata digraziatamente necessaria questa lunga introduzione, per assicurare la comprensione di quel che debba intendersi per guerra di religione. Si ha una guerra di religione quando si scontrano due mondi, cioè due ideali universali, o in linguaggio più moderno due atmosfere morali. Il sospiro dell’uno è il veleno dell’altro; invano si proporrebbe di dare alla peste un posto al sole. Questo dobbiamo capire, se questa digressione non dev’essere inutile, e vedremo allora ciò che realmente accadde nel Mediterraneo: quando, attraverso il sorgere della Repubblica tiberina, venne, sdegnosa e superba, grave di tutti i misteri asiatici, portandosi dietro tutte le tribù e tutti i 184

vassalli dell’Impero, la potenza di Cartagine cavalcante sul mare. L’antica religione dell’Italia era, in sostanza, quel miscuglio che abbiam visto parlando della mitologia; con questo, però, che mentre i greci avevano un’inclinazione naturale per la mitologia, i latini sembravano avere una vera inclinazione per la religione. La Grecia e Roma moltiplicavano i loro dei, ma si direbbe che qualche volta li moltiplicassero per opposte ragioni. Il politeismo ellenico ramifica e fiorisce in alto come un albero dai rami sporgenti; il politeismo latino ramifica sottoterra, allunga le radici. Forse sarebbe più esatto dire che i rami del primo s’innalzavano agilmente recando fiori, mentre il secondo s’abbatteva giù pesante di frutti. Voglio dire che i latini moltiplicavano gli dei per tenerseli più vicini; gli dei ellenici si levavano e irraggiavano intorno, nel cielo mattutino. Quel che colpisce nei culti dell’antica Italia è il loro carattere strettamente locale e domestico. Si ha l’impressione di divinità sciamanti intorno alla casa come mosche, di divinità aggruppantisi e aggrappantisi come pipistrelli intorno ai colonnati o nidificanti come gli uccelli sotto le grondaie. Abbiamo gli dei del tetto e gli dei dell’atrio, gli dei delle porte e perfino un dio delle fogne. Qualcuno ha detto che tutta la mitologia era una specie di novella; ma era una novella da raccontarsi sul canto del fuoco, una novella della nonna; era una novella da interno domestico, di quelle dove le tavole o le seggiole parlano come folletti. I vecchi dei del contadino romano sembrano essere stati delle grosse, goffe immagini di legno, più grossolane di quelle informi teste che Quilp5 modellava con l’attizzatoio. Questa religione più che nazionale era una religione casalinga. C’erano poi altri elementi meno umani nel viluppo della mitologia italiana. C’erano divinità greche sovrappostesi alle romane; c’erano sotto, qua e là, delle cose 185

anche più brutte, esperimento della forma più crudele di paganesimo, come il rito di Ariccia, dove il re-sacerdote era ucciso dal successore. Cose che potenzialmente si trovano sempre nel paganesimo; non certo peculiari del paganesimo latino, la peculiarità del quale può essere, all’ingrosso, spiegata con questa formula: se la mitologia personifica le forze naturali, questa mitologia personificava le forze naturali ma trasformate dalla mano dell’uomo. C’era un dio del frumento, e non dell’erba, del gregge e non della selvaggina; insomma il culto era, nel senso letterale, cultura; nel senso in cui parliamo di agricoltura. C’è ancora un paradosso che è per molti l’enigma imbarazzante del mondo latino. Con la religione che pervadeva, come una pianta rampicante, tutta la vita domestica, andava di pari passo uno spirito perfettamente opposto, o che sembra tale alla maggior parte: lo spirito di rivolta. Imperialisti e reazionari spesso invocano Roma come vero modello dell’ordine e dell’obbedienza; ma Roma è esattamente il rovescio. La vera storia dell’antica Roma somiglia molto più alla storia della moderna Parigi. Si potrebbe dire in linguaggio moderno che Roma è una città nata dalle barricate. La porta di Giano non stava mai chiusa perché c’era eternamente una guerra esterna; ma è quasi altrettanto vero che c’era un’eterna rivoluzione interna. Dai primi tumulti plebei alle ultime guerre servili, lo Stato che imponeva la pace al mondo non stette mai veramente in pace. I dominatori erano per conto loro dei ribelli. C’è una diretta relazione fra questa religione nella vita privata e questo spirito rivoluzionario nella vita pubblica. Leggende che per esser venute a noia non sono meno eroiche ci rammentano che la Repubblica fu fondata su un tirannicidio commesso per vendicare l’insulto a una sposa, che i tribuni del popolo furono ristabiliti dopo un altro omicidio che vendicò l’offesa fatta a una fanciulla. La 186

verità è che soltanto uomini che credevano alla santità della famiglia potevano avere una norma, dei principi, in base ai quali criticare lo Stato. Essi soltanto potevano appellarsi a qualche cosa di più sacro degli dei della città: gli dei del focolare. Ecco perché la gente rimane ingannata dal vedere che le stesse nazioni che sono rigide nei rapporti familiari, sono viceversa irrequiete nella politica, come i francesi e gl’irlandesi. Vale la pena di indugiarsi un momento su questo punto, che è un esempio preciso di quel che s’intenda per interno della storia (così come si dice interno della casa). Lo storico politico può aver ragione quando dice che questo o quell’atto di politici romani fu cinico o crudele; ma lo spirito che sollevò Roma in alto fu lo spirito di tutti i romani; e non c’è da ridere sull’ideale di Cincinnato che passava dal senato all’aratro. Uomini di tal sorta avevano rafforzato d’ogni parte il loro villaggio, avevano esteso le loro vittorie sugl’italiani e anche sui greci, quando essi si trovarono di fronte ad una guerra destinata a cambiare la faccia del mondo. È quella che io ho chiamato la guerra degli dei e dei demoni. Sull’opposta sponda del mare interno s’era costituita una città che portava il nome di Città Nuova. Era in realtà più antica, più potente, più prospera della città latina, ma c’era ancora intorno ad essa quell’atmosfera che si addiceva a un tal nome. Si chiamava nuova per la sua origine coloniale, come Nuova York o Nuova Zelanda. Era il posto avanzato, lo sbocco dell’espansione di quelle grandi città commerciali ch’erano Tiro e Sidone. C’era intorno ad essa un’aria di paese nuovo e coloniale: aveva un aspetto confidenziale e commerciale. Si compiaceva in affermazioni che suonavano con una certa sicurezza metallica: ripeteva, per esempio, che nessuno poteva lavarsi le mani nel mare senza il permesso di Città Nuova. Essa dipendeva quasi interamente dalla forza del suo naviglio, come i due grandi 187

porti mercantili da cui il suo popolo proveniva. Portava da Tiro e da Sidone un prodigioso talento per il commercio e una notevole esperienza della navigazione. E portava tante altre cose. In un precedente capitolo abbiamo intravisto qualche lato della psicologia ch’è il substrato d’un certo tipo di religione: la bramosìa di risultati pratici e immediati risveglia sempre la tendenza ad evocare gli spiriti del terrore e della violenza, a muovere l’Acheronte, non potendosi piegare gli dei; risveglia sempre la confusa idea che queste potenze più oscure agiscono realmente, e non scherzano. Nell’intima psicologia della gente punica questa strana specie di praticità pessimistica aveva assunto grandi proporzioni. Nella Nuova Città, che i romani chiamavano Cartagine, come nelle più vecchie città fenicie da cui essa derivava, il dio che agiva per davvero si chiamava Moloch, una divinità quasi identica a un’altra nota sotto il nome di Baal, il Signore. I romani non seppero da principio come chiamarlo o che cosa farne; essi dovettero ricorrere a uno dei miti più grossolani delle origini greche e romane, e paragonarlo a Saturno, che divorava i suoi figli. Ma gli adoratori di Moloch non erano così primitivi e grossolani. Appartenevano ad una civiltà matura e perfetta, abbondante di lussi e di raffinatezze: erano probabilmente assai più civili dei romani. E Moloch non era un mito; o almeno il suo pasto non era un mito. Questo popolo ultracivile si adunava effettivamente insieme per invocare sull’Impero la benedizione celeste gettando centinaia di bambini nella bocca d’una fornace. Per avere un’idea approssimativa di questo fatto, si pensi a un gruppo di mercanti di Manchester, in cappello a cilindro e con le fedine a braciuola, che vadano in chiesa ogni domenica alle 11 per veder mettere arrosto un bambino. Le prime fasi di una lotta commerciale o politica possono 188

essere seguite nei minimi particolari precisamente perché la lotta è soltanto commerciale o politica. Le guerre puniche parve che non dovessero aver mai fine, e al tempo stesso non è facile dire quando cominciarono. Greci e siciliani erano già stati vagamente in conflitto, sulle rive europee, con la città africana. Cartagine aveva battuto la Grecia e conquistato la Sicilia. Cartagine si era solidamente stabilita in Ispagna; e tra Spagna e Sicilia la città latina era compresa e sarebbe stata schiacciata (se i romani fossero stati tali da essere facilmente schiacciati). Eppure il punto saliente ed essenziale di questa storia consiste nel fatto che Roma fu schiacciata. Senza l’intervento di certi elementi, morali e anche materiali, la storia sarebbe finita dove Cartagine pensava che finisse. Si biasima Roma per non aver fatto la pace; ma era nel profondo istinto popolare l’impossibilità della pace con una tal razza di nemici. Si biasima Roma per il suo Delenda Carthago; ma si dimentica spesso che, secondo tutte le apparenze, fu Roma ad esser distrutta. L’aura sacra che sempre pende intorno a Roma troppo spesso si dimentica — le viene in parte dal fatto che essa è risorta improvvisamente dalle sue ceneri. Cartagine, come la maggior parte degli stati mercantili, era uno stato aristocratico. La pressione del ricco sul povero era impersonale ma irresistibile. Aristocrazie di tal fatto non permettono un governo personale, il quale sarebbe forse capace di tener conto del talento personale. Ma il genio s’impone, anche in mezzo alla classe che tiene il potere. Così avvenne, quasi perché riuscisse più terribile al mondo la suprema prova, che da una delle grandi famiglie di Cartagine uscisse un uomo, che nei suoi dorati palazzi aveva trovato tutta l’energia e l’originalità di un Napoleone. Nella crisi più acuta della guerra, Roma apprese che l’Italia, come per un miracolo di strategia, era invasa dal nord. Annibale, la Grazia di Baal (come suonava il suo nome nella lingua 189

cartaginese), si traeva dietro, attraverso le stellate solitudini alpine, una pesante catena d’armi e d’armati, e puntava sulla città di cui i suoi orribili dei gli avevano comandato la distruzione. Annibale era sulla strada di Roma, e i romani precipitandosi alla guerra avevano l’impressione di dover combattere con un mago. Due grandi eserciti, uno a destra e uno a sinistra, erano sprofondati nelle paludi del Trebbia; e altri erano stati inghiottiti nel gorgo spaventevole di Canne; e altri ancora non apparivano sulla scena che per dissolversi al cospetto del mago. Una dopo l’altra le città alleate abbandonavano col tradimento - segno infallibile di tutti i disastri — la cadente fortuna di Roma; e l’invincibile nemico marciava sull’Urbe con la inesorabilità di un rullo compressore. Levandosi a ondate dietro il grande condottiero, l’esercito cosmopolita di Cartagine sfilava come una parata trionfale di tutto il mondo: gli elefanti che facevano tremare la terra come montagne semoventi, e i galli giganteschi con le loro barbariche panoplie, e i bruni spagnoli dalle cinture d’oro, e i neri numidi sui loro sbrigliati cavalli, roteanti come sparvieri, e tutta la folla miscellanea dei disertori e dei mercenari; e, innanzi a tutti, Annibale, la Grazia di Baal. Gli àuguri romani, e gli scribi, che raccontano dei prodigi inumani visti in quell’ora — un bambino nato con la testa d’elefante, stelle che piovevano come la grandine coglievano il senso filosofico degli avvenimenti assai meglio dello storico moderno che riduce tutto ad un successo strategico che mette fine ad una rivalità di commercio. Si avvertì allora d’improvviso qualche cosa come una nebbia, un fetore, qualche cosa di diverso e di estraneo che entrasse nell’atmosfera. Non era solo la disfatta militare, non era la semplice rivalità mercantile, che riempiva l’immaginazione dei romani di tali oscuri presagi, che 190

snaturavano la natura stessa. Era Moloch, che si affacciava dietro i monti latini, scrutando la pianura con la sua faccia spaventevole; era Baal, che calpestava i vigneti sotto i suoi piedi di macigno; era la voce di Tanite l’invisibile, sussurrante, dietro i penduli veli, parole d’un’amore ch’era più orrendo dell’odio. L’incendio dei campi, la rovina delle vigne d’Italia non erano soltanto realtà; erano allegorie. Era la distruzione di tutte le cose domestiche e feconde, la fine di tutto ciò ch’è umano davanti ad una inumanità che non aveva più niente che fare con quel fatto e sentimento ancora umano che è la crudeltà. Gli dei del focolare si ritiravano nell’ombra sotto i loro tetti bassi; e al di sopra di loro, sui venti, senza più riparo, infuriavano i demoni soffianti nella trombetta della Tramontana. La porta delle Alpi era infranta; l’Inferno, non nel senso volgare ma nel senso vero e solenne, si era scatenato. La guerra degli dei e dei demoni pareva finita; e gli dei erano morti; le aquile perdute, le legioni spezzate; niente rimaneva a Roma fuorché l’onore e il freddo coraggio della disperazione. C’era ancora nel mondo una cosa che minacciava Cartagine, e questa cosa era Cartagine. C’era ancora la presenza d’uno spirito che noi ben conosciamo, di un elemento che lavora nell’interno di tutti gli Stati commerciali arrivati al successo. C’era ancora il solido buon senso e la scaltrezza degli uomini che maneggiano i grossi affari; c’era la saggezza dei finanzieri; c’era il governo dei tecnici; le larghe e sane vedute della gente pratica; e in tutte queste cose erano riposte le speranze dei romani. Come la guerra volgeva apparentemente verso la sua tragica fine, gradualmente cresceva una strana e timida possibilità che si potesse non sperare invano. Gli affaristi cartaginesi, con le solite idee in materia di vita e di decadenza delle razze, videro chiaro che Roma non era soltanto moribonda ma morta. La guerra era finita; la città italiana non poteva 191

evidentemente sperare di resistere ancora; è inconcepibile che uno resista quando non c’è più speranza. Basandosi su queste premesse, restava da esaminare un’altra serie di sacri principi pratici. Le guerre si fanno coi quattrini, e perciò costano quattrini; forse, in fondo al cuore, vagamente sentivano che nella guerra c’è un lato poco bello e soprattutto poco comodo, ed è che costa quattrini. Era venuto il tempo di fare pace; più ancora il tempo di fare economia. I messaggi di Annibale che chiedeva rinforzi erano un ridicolo anacronismo; c’era da pensare a cose più importanti. Poteva esser vero che questo o quel console avesse fatto un’ultima irruzione sul Metauro, che avesse ucciso il fratello di Annibale e, con furia latina, ne avesse gettato la testa nel campo cartaginese; queste pazzie dimostravano che le condizioni di Roma erano al colmo della disperazione. Ma i latini, per quanto eccitabili, non potevano essere così pazzi da attaccarsi per sempre a una causa perduta. Così ragionavano i migliori esperti della finanza; e buttavano da parte le lettere sempre più strane e allarmistiche. Così ragionava e agiva il grande Impero cartaginese. Il gretto pregiudizio (che è la maledizione di tutti gli Stati commerciali) che l’imbecillità sappia fare i suoi affari e che il genio non sia buono a nulla, fu quello che indusse i cartaginesi ad affamare e abbandonare il grande stratega, che invano era stato loro mandato dagli dei. Come si può pensare che quel che è sordido deve sempre rovesciare quel ch’è magnanimo; che c’è qualche oscura connessione fra cervello e brutalità, o che non importa che uno sia stupido purché sia, anche, moralmente basso? Come si può credere che la cavalleria non è che sentimentalismo, e che tutti i sentimenti rappresentano una debolezza? Anche queste idee non possono avere che un’ispirazione religiosa: la loro origine deve ricercarsi in una particolare visione della 192

natura, e del mondo in cui viviamo. Per coloro la cui fede ha come estremo orizzonte la paura, l’anima del mondo non può essere che il male. Essi credono la morte più forte della vita, e perciò le cose - l’oro, il ferro, le macchine, le rocce, i fiumi, le forze naturali - più potenti delle cose vive. Parranno fantasticherie, ma quanti di coloro che incontriamo nelle sale da tè o nelle feste di beneficenza non sono che segreti adoratori di Baal o di Moloch! La mentalità commerciale ha, anch’essa, il suo ideale cosmico, ed è l’ideale di Cartagine. Essa porta con sé il bestiale errore che fu la rovina di Cartagine. La potenza cartaginese precipitò, perché c’era nel suo materialismo una folle indifferenza per il pensiero. Si comincia col negare l’anima e si finisce col negare l’intelligenza. Quando si è troppo pratici per esser morali, si arriva a negare ciò che ogni pratico soldato chiama il morale dell’esercito; ci si figura che, al posto degli uomini, combatteranno i denari. Così fu nel caso dei grandi mercanti punici. La loro religione era la religione della disperazione, anche quando le loro fortune realizzavano tutte le speranze. Essi non potevano capire come i romani avessero delle speranze, anche quando le loro fortune erano disperate. La loro religione era la religione della violenza e della paura; e non potevano capire come gli uomini potessero disprezzare la paura anche quando si sottomettevano alla violenza. Nel cuore della loro stessa filosofia c’era un intimo senso di stanchezza; essi erano soprattutto stanchi di lottare; come potevano capire che ci fosse chi voleva ancora la guerra quando essi se ne erano stancati? In una parola, come potevano capire il cuore dell’uomo, essi che si erano prostrati davanti alle cose senza cuore: all’oro, alla forza brutale, agli dei che avevano cuori di tigri? Essi si svegliarono un giorno alla notizia che dai carboni spenti, che essi avevano sdegnato di disperdere col piede, di nuovo il fuoco fiammeggiava; che Asdrubale era disfatto, 193

che Annibale era sopraffatto; che Scipione aveva portato la guerra in Ispagna; che l’aveva portata in Africa. Davanti alle porte della città d’oro, Annibale combatté la sua ultima battaglia e la perse; e la caduta di Cartagine fu totale come quella di Satana. Della Città Nuova non rimase che il nome; non una pietra sulla sabbia. Un’altra guerra scoppiò prima della sua distruzione definitiva; ma la distruzione fu definitiva. Soltanto, a distanza di secoli, scavando tra le sue profonde fondamenta, fu trovato un mucchio di centinaia di piccoli scheletri: le sante reliquie di quella religione. Cartagine cadde perché era rimasta fedele alla sua filosofia, e aveva seguito fino alle sue conseguenze logiche il suo ideale dell’universo. Moloch aveva divorato i suoi figli. Gli dei s’erano risollevati; e i demoni erano vinti. Ma erano stati vinti dai vinti, e quasi dai morti. Nessuno capirà il romanzo di Roma, e il motivo per cui essa pervenne poi ad un primato che parve fatale e naturale, se non serba nella memoria quell’agonia di orrore e di umiliazione attraverso la quale Roma continuò a testimoniare quella sanità che è l’anima dell’Europa. Essa si drizzò sola in mezzo ad un impero perché già era stata sola in mezzo alla rovina e alla devastazione; dopo di che tutti gli uomini compresero nel loro cuore che essa era stata a rappresentare l’umanità anche quando gli uomini l’avevano respinta. Cadde allora su di lei l’ombra di un fulgore ancora invisibile e il peso dei futuri destini. Non spetta a noi congetturare come o quando la misericordia di Dio avrebbe potuto altrimenti salvare il mondo, ma è certo che la lotta da cui uscì vincitore il Cristianesimo si sarebbe svolta diversamente se l’Impero di Cartagine fosse stato in luogo dell’Impero di Roma. Dobbiamo alla resistenza romana se, nelle età seguenti, la grazia divina potè discendere su un mondo umano e non su un mondo inumano. L’Europa si sviluppò tra i suoi vizi e la sua impotenza, come diremo altrove; ma 194

per quanto sia caduta in basso non è mai caduta a un livello così basso come quello a cui era sfuggita. La grossa bambola di legno che i bambini credono si nutra di qualche boccone del desinare, non può essere paragonata con l’enorme idolo pronto a divorare i bambini. Questa è la misura di quanto il mondo ha deviato in confronto a quanto avrebbe potuto deviare. Se i romani furono spietati, furono spietati con un vero nemico, e non semplicemente con un rivale. Essi ricordavano non le vie e le regole del commercio, ma le facce degli uomini sogghignanti; e odiarono l’odiosa anima di Cartagine. Dobbiamo a loro se non abbiamo avuto bisogno di tagliare e di abbattere i boschetti di Venere precisamente come gli uomini dovettero abbattere le selve di Baal. Dobbiamo alla loro severità se i nostri pensieri verso l’umanità passata non hanno bisogno di essere interamente severi. Se il passaggio dal paganesimo al Cristianesimo fu al tempo stesso un ponte e una rottura, lo dobbiamo a coloro che mantennero il paganesimo nei limiti dell’umanità. Se, dopo tanti secoli, siamo in un certo senso in pace col paganesimo, e possiamo avere un più gentile ricordo dei nostri padri, è bene che teniamo presenti le cose che furono e quelle che avrebbero potuto essere. Per questa sola ragione ci può riuscire più lieve il peso dell’antichità pagana; o possiamo evitare di fremere davanti ai simulacri di una ninfa o di un Cupido. Sorriso e tristezza ci legano a un passato che possiamo rimembrare senza disonore; e ci è lecito guardare non senza tenerezza il crepuscolo cadente sulla campagna sabina e sentire gli dei familiari che si rallegrano quando Sirmione riaccoglie Catullo nella vecchia casa. Deleta est Carthago. 1. Miss Kilmansegg and her Precious Leg. A Golden legend è un romanzo di Thomas Hood (1799-1845).

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2. Si riferisce al protagonista del romanzo satirico L’egoista di George Meredith (1828-1909). 3. Dick Whittington e il suo gatto portafortuna sono protagonisti di uno dei più famosi racconti popolari inglesi. 4. In Egitto, la dea Pasht era raffigurata con la testa di gatto. 5. Il nano usuraio Daniel Quilp è l’incarnazione del male ne La bottega dell’antiquario di Charles Dickens.

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Capitolo VIII La fine del mondo ME NE STAVO IN UN GIORNO D’ESTATE in un prato sotto l’ombra della chiesa d’un villaggio del Kent, con un curioso compagno col quale avevo fatto una passeggiata per il bosco. egli faceva parte di un gruppo di eccentrici, che avevo incontrato nei miei vagabondaggi e che professavano una nuova religione detta del pensiero superiore. In questa religione ero abbastanza iniziato, tanto da rendermi conto della sua generale atmosfera di altezza e di superiorità, e speravo sempre di scoprire, in una fase ulteriore e più esoterica, gl’inizi del pensiero. Il mio compagno era il più divertente di tutti perché, comunque egli si trovasse rispetto al pensiero, era almeno molto superiore agli altri in quanto a esperienza, avendo viaggiato al di là dei tropici, mentre essi rimanevano a meditare nei suburbi, la sola accusa che gli si faceva era quella di esagerare qualche volta nei suoi racconti di viaggio. Nonostante tutto, io lo preferivo ai suoi correligionari, e volentieri andavo con lui per il bosco; dove la sua faccia bruciata dal sole e i ciuffi selvaggi delle sopracciglia e la barbetta aguzza mi facevano pensare al dio Pan. Talora ci sedevamo pigramente sul prato a guardare le vette degli alberi e il campanile della piccola chiesa: frattanto il caldo pomeriggio s’addolciva nella prima sera, e il canto fievole d’un uccello si levava nel cielo e un soffio di brezza accarezzava senza agitarli gli antichi verzieri del 197

giardino d’inghilterra. Il mio compagno una volta mi chiese: «sapete perché il campanile della chiesa sta in quella posizione?» Io manifestai un rispettabile agnosticismo, ed egli rispose con l’aria più disinvolta del mondo: «Oh, ma è la stessa cosa degli obelischi: sopravvivenze dell’antico culto fallico». E come mi sbirciava al di sopra della sua barba caprina, lo guardai di traverso e mi parve di vedere non più Pan ma un diavolo in carne e ossa. Non c’è parola che possa esprimere l’insana, perversa incongruenza ch’era implicita in una simile idea, data l’ora e il luogo. Per un attimo provai quello che debbono provare gli uomini quando bruciano le streghe; poi sembrò aprirsi entro di me, come un’aurora, un senso egualmente enorme di assurdità. «Eh, già - dissi dopo un momento di riflessione — se non fosse stato per il culto fallico, avrebbero fatto i campanili voltati in giù e ritti sulla punta». Sarei rimasto in quel campo a ridere per un’ora. L’amico non si offese; egli non aveva l’epidermide troppo sensibile per le sue scoperte scientifiche. Io l’avevo conosciuto per combinazione e non l’ho rivisto più; credo che sia morto; ma quantunque non abbia attinenza all’argomento, vale la pena di ricordare il nome di questo proselito del Pensiero superiore, di questo interprete delle primitive origini religiose. Si chiamava Luigi de Rougemont. La fantastica immagine di quella chiesetta del Kent, poggiata sulla punta del campanile, come in qualche vecchia novella popolare in cui tutto è capovolto, mi torna sempre in mente quando sento parlare di origini pagane; e chiamo in aiuto l’ilarità dei giganti. Tutti gli investigatori scientifici, i grandi critici, le autorità riconosciute in materia di religione antica e moderna mi trovano disposto a sentimenti non dissimili da quelli che suscitò in me quel povero Luigi de Rougemont. Ma il ricordo di quella fenomenale assurdità resta a rappresentare la misura e il controllo necessari per non andare fuori strada quando si parla non diciamo di 198

chiese cristiane ma degli stessi templi pagani. Molta gente parla delle origini pagane allo stesso modo che il nostro eminente viaggiatore parlava delle origini cristiane. Ecco perché molti moderni pagani sono stati molto duri col paganesimo; e perché molti moderni umanitari sono stati molto duri con la vera religione dell’umanità; essi la rappresentano come radicata, sempre e fin da principio, in questi ripugnanti misteri, e come segnata del carattere di qualche cosa di vergognoso e di anarchico. Ora, io mi rifiuto di accettare tali credenze: io non mi sognerei mai di attribuire al culto di Apollo quel che il signor de Rougemont pensava del culto di Cristo. Non posso ammettere che esistesse in una città greca una tale atmosfera come quel mattoide era capace di trovare in un villaggio del Kent. Al contrario, anche in quest’ultimo capitolo sulla definitiva decadenza del paganesimo, tengo ad insistere una volta di più sul fatto che la peggiore specie di paganesimo era già stata battuta da un paganesimo migliore. Fu il paganesimo migliore quello che conquistò l’oro di Cartagine; e si cinse dei lauri di Roma. Tutto considerato, quel paganesimo che governò il mondo dalla grande muraglia dei Grampiani ai giardini dell’Eufrate, fa quanto di meglio potesse darsi. E fu il paganesimo migliore quello che vinse, quello che governò, e quello che cominciò a decadere. Se non si afferrano queste piccole verità, tutta la storia si vede di sbieco. Il pessimismo non è proprio degli esseri stanchi del male, ma di quelli stanchi del bene. La disperazione non è propria degli oppressi dalle sofferenze, ma anche degli oppressi dalla gioia. Quando, per un motivo o per l’altro, quel che c’è di buono in una società non funziona più, allora quella società comincia a declinare: quando i cibi non nutrono, quando i rimedi non curano, quando le benedizioni non hanno virtù. Si potrebbe quasi dire che in una società che non ha nulla di tutto questo 199

manca un termine di riferimento per constatare la sua decadenza. Così si spiega come certe statiche oligarchie commerciali - esempio: Cartagine - abbiano nella storia l’aria di star ferme e fisse come mummie, così disseccate, fasciate e imbalsamate che nessuno ne capisce l’età. Comunque, Cartagine era morta, e il peggiore assalto mosso dai demoni contro il genere umano era stato respinto. Ma che importava che il peggio fosse morto se il meglio stava a sua volta per morire? Cominciamo col dire che le relazioni di Roma con Cartagine si ripeterono in parte e si estesero nei suoi rapporti con altre nazioni più normali e più affini a lei che non fosse Cartagine. Io non sono qui tenuto a ribattere il punto di vista meramente politico secondo il quale gli statisti romani agirono con pochi scrupoli verso Corinto e verso le città greche; ma non posso fare a meno di denunciare la falsità di chi nel disgusto romano per i vizi greci non sa vedere che un pretesto e un’ipocrisia. Non pretendo di dipingere quei pagani come paladini della cavalleria, con un sentimento nazionale non mai conosciuto prima delle età cristiane, ma li dipingo come uomini dai sentimenti umani normali, sentimenti che non erano una finzione. La verità è che una delle debolezze insite nel culto della natura e nella pura mitologia aveva già prodotto, nei greci, una perversione, dovuta a uno dei peggiori sofismi: il sofisma della semplicità. Come divennero antinaturali adorando la natura, così divennero antiumani adorando l’uomo. Se la Grecia conquistò il suo conquistatore, essa potè anche condurlo fuori di strada; ma si trattava di cose che il conquistatore tendeva a conquistare, già in se stesso, originariamente. Non si può negare, tuttavia, che anche in Sodoma e Gomorra c’era meno inumanità che in Siro e Tidone. Quando pensiamo alla avversione demoniaca contro l’infanzia, non possiamo paragonare la decadenza 200

ellenica con la demonolatria punica. Ma non è vero che una sincera repellenza verso entrambe dovesse essere necessariamente farisiaca. E’ ingiusto dal punto di vista della natura, come da quello del senso comune. A un adolescente che abbia avuto la fortuna di crescere sano e ingenuo nei suoi sogni d’amore, provatevi a svelare il culto di Ganimede; egli non solo ne rimarrà colpito, ma disgustato. E questa sua prima impressione (com’è sempre delle prime impressioni, e lo abbiamo ripetuto spesso) è quella giusta. E’ la nostra cinica indifferenza che è un’illusione: la più grande di tutte le illusioni: l’illusione della familiarità. È giusto concepire le più o meno rustiche virtù del primitivo popolo romano come reazione contro la fama stessa di siffatti costumi, completamente spontanea e sincera. E’ giusto pensare che essi abbiano reagito, sia pure in minor grado, esattamente come reagirono contro la crudeltà di Cartagine; e appunto perché la reazione era minore, essi non distrussero Corinto così radicalmente come avevano distrutto Cartagine. Ma se il loro atteggiamento e la loro azione furono distruttivi, non è detto che la loro indignazione dovesse essere un’ipocrisia mascherante un puro egoismo. E se qualcuno vorrà ancora sostenere che, nell’un caso come nell’altro, non operarono che la ragion di stato e le cospirazioni commerciali, gli risponderemo che c’è qualche cosa che egli non capisce; qualche cosa che forse non capirà mai; qualche cosa che, finché non l’abbia capito, gli impedirà sempre di capire il mondo latino. Questo qualche cosa è la democrazia: parola che probabilmente avrà udito e adoperato molte volte ma di cui evidentemente non conosce il significato. Tutta la storia rivoluzionaria di Roma fu una marcia ininterrotta verso la democrazia: Stato e statisti non agiscono se non appoggiandosi alla democrazia, una democrazia che non ha niente a che fare con la diplomazia. E’ la presenza della democrazia romana che mette in rilievo l’esistenza in Roma 201

di una oligarchia. Per esempio, ci sono degli storici che hanno tentato di spiegare il valore della vittoria di Roma riferendosi alla detestata e detestabile pratica dell’usura da parte di alcuni patrizi: come se Curio avesse sconfitto gli uomini della falange macedone mediante un prestito, o come se il console Nerone avesse negoziato la vittoria del Metauro al cinque per cento. Ma noi ci rendiamo conto dell’usura dei patrizi al lume delle perpetue rivolte plebee. La regola dei capi mercanti punici era l’anima stessa dell’usura; senonché non c’era a Cartagine un popolo che avesse il coraggio di denunziarli. Carica, come ogni cosa mortale, di tutti i peccati e debolezze mortali, Roma aveva avuto un progresso normale, e più specialmente popolare; e tale carattere, normale e popolare, lo ha, soprattutto, l’odio per la perversione. In Grecia, la perversione era diventata una convenzione: era tanto diventata una convenzione, specie una convenzione letteraria, che fu qualche volta convenzionalmente copiata dai letterati romani. Ma questa non fu che una di quelle complicazioni che accompagnano sempre le convenzioni; e non deve offuscare la sensazione della differenza di tono che si nota, in blocco, fra le due società. E’ vero che Virgilio volle una volta riprendere un tema teocritèo; ma nessuno ne ricaverà l’impressione che Virgilio prediligesse particolarmente quel tema. I temi cari a Virgilio furono temi normali, soprattutto moralmente normali: la religione, il patriottismo, l’onore della patria. E noi possiamo ben fermarci sul nome di questo poeta, quando arriviamo all’autunno del paganesimo latino, su questo nome che fu in un senso supremo la vera voce dell’autunno, della sua maturità, della sua melanconia; dei suoi frutti più pieni, delle sue prospettive di declino. Basta leggere pochi versi di Virgilio, e non si può più dubitare di come egli abbia compreso che cosa significhi per l’umanità la salute morale. 202

Non è possibile dubitare di quali sarebbero stati i suoi sentimenti nella guerra fra i demoni e gli dei domestici. Ma due punti particolari sono particolarmente importanti per la nostra tesi in Virgilio e nell’opera sua. Il primo è questo: che tutta la sua grande epopea patriottica è fondata peculiarmente sulla caduta di Troia; cioè, su un confessato orgoglio di Troia, sebbene caduta. Nel rintracciare le origini troiane della razza e dello Stato che egli amava, Virgilio iniziò quel «ciclo» troiano che riempie tutta la storia medioevale e moderna. Ne abbiam già visto un primo accenno nel pathos di Omero intorno alla figura di Ettore. Ma Virgilio seppe, dal campo dell’arte, portare Troia nella leggenda: la leggenda della dignità quasi divina che appartiene ai vinti. E’ questa una delle tradizioni che prepararono il mondo alla venuta del Cristianesimo e della cavalleria cristiana. Fu questa tradizione che sostenne la civiltà nelle incessanti sconfitte delle Età oscure e delle guerre barbariche; da essa è nata la cavalleria. La quale non è che l’atteggiamento morale dell’uomo con le spalle al muro, il muro di Troia. Per tutto il Medioevo, e fino all’età nostra, questa versione delle virtù fondamentali nel conflitto omerico ci è data in mille guise cooperanti con tutto quel che c’è di più affine nel sentimento cristiano. Da noi come altrove, si pretende, al pari di Virgilio, la discendenza del proprio paese dagli eroi troiani. Tutti sentono che non può esserci segno più superbo di nobiltà che quello di discendere da Ettore. Nessuno ha mai desiderato di discendere da Achille. Il fatto stesso che il nome troiano sia diventato un nome cristiano, che si è sparso fino agli estremi confini della cristianità - all’Irlanda e alle terre gaeliche — mentre il nome greco è rimasto relativamente raro e pedantesco, è un omaggio reso alla stessa verità. Il nome di Ettore, per un curioso scherzo linguistico, si è trasformato anche in verbo: si dice hectoring e questo verbo fa pensare 203

alle miriadi di soldati che hanno avuto per modello l’infelice eroe troiano. In realtà, nel mondo antico, nessuno più di Ettore fu lontano dalle vanterie; eppure anche il gradasso che si dà arie di conquistatore non ha saputo qualificarsi se non dal nome di un vinto. Tutti gli elementi che hanno concorso a far di Virgilio quasi un precursore cristiano trovano il loro fondamento vitale nella popolarità da lui data alla leggenda troiana. Si direbbe che due grandi oggetti o gingilli dello stesso legno, il divino e l’umano, siano stati nelle mani della Provvidenza; e che la sola cosa comparabile alla lignea croce del Calvario sia il ligneo cavallo di Troia. Così, in qualche bizzarra allegoria, di forma profana e d’intenzioni devote, si può vedere il Santo Bambino a cavallo di un cavalluccio di legno combattere con una spada di legno il drago infernale. L’altro elemento che, in Virgilio, è essenziale per la nostra tesi, è lo speciale carattere dei suoi rapporti con la mitologia, o, per meglio dire, col folklore, con le credenze e con le fantasie del popolino. Ognuno sa che la sua poesia, in quanto ha di più perfetto, preferisce alla pomposità dell’Olimpo i numi della vita naturale e agreste. Ognuno sa dove Virgilio cercasse la causa delle cose. Egli la cercava non tanto nelle allegorie cosmiche di Urano e di Crono, quanto in Pan, e nelle ninfe sorelle e nell’irsuto vecchio della foresta. Egli è forse più lui in certi passi delle Egloghe, in cui egli ha perpetuato la grande leggenda dell’Arcadia e dei pastori. Qui ancora è facile prendere abbagli con una gretta critica su ciò che separa la nostra Arcadia dall’Arcadia primitiva. Nulla è più artificioso dell’accusa di artificiosità fatta alla vecchia poesia pastorale. Se guardiamo soltanto alle forme esteriori di quel che i nostri padri scrivevano, noi saremo interamente negati a comprenderli. Le pastorelle di porcellana hanno incontrato tanto favore che nessuno va più in là del fatto che le pastorelle siano di porcellana; 204

nessuno si domanda, per esempio, perché siano pastorelle. E, allo stesso modo, tutti si contentano di vedere l’Allegro Contadino come personaggio d’opera, ma nessuno si domanda come il contadino sia entrato nell’opera e come si comporti sulla ribalta. Insomma, quel che interesserebbe sapere è precisamente perché ci sia la pastorella di porcellana e non il droghiere di porcellana; perché le mensole del caminetto non siano adorne di eleganti statuette di negozianti cittadini, o di padroni delle ferriere in ferro battuto, o di grandi speculatori fusi in oro. Perché l’opera ci esibisce l’allegro contadino, e non l’allegro politicante? Perché non c’è un balletto di banchieri piroettanti sulle punte dei piedi? Perché il vecchio istinto umoristico e umano ci ha sempre avvertiti che, convenzione per convenzione, la convenzione del complesso urbanesimo è sempre meno sana e meno felice del convenzionale costume campagnolo. In questo consiste il valore eterno delle Egloghe. Un poeta moderno ha scritto le Egloghe di Fleet Street, in cui i poeti prendono il luogo dei pastori; ma nessuno avrebbe potuto scrivere le Egloghe di Wall Street, in cui i milionari prendessero il posto dei poeti. E il motivo è che gli uomini anelano realmente, sia pure ad intervalli, la semplicità campagnuola, e non anelano mai il tumulto cittadino. Il mistero dell’allegro contadino è presto spiegato; e la spiegazione è che il contadino è spesso allegro. Chi non crede questo, vuol dire che non conosce i contadini, e non sa quali siano per loro le occasioni di allegria. Chi non crede alle feste e ai canti dei pastori, vuol dire che ne ignora il calendario. Il pastore reale è naturalmente molto diverso dal pastore ideale, ma non va dimenticato che alla radice di questa immaginazione ideale ci dev’essere una realtà. Ci vuole sempre una verità per costruire una tradizione, e ci vuole una tradizione per costruire una convenzione. La poesia 205

pastorale, specialmente in un periodo di decadenza sociale, è spesso una convenzione: fu un periodo di decadenza quello in cui i pastori e le pastorelle di Watteau gironzolavano per i parchi di Versailles; e in un periodo di decadenza i pastori continuarono a suonare e a danzare nelle più insipide imitazioni virgiliane. Ma non c’è ragione di lasciare il morente paganesimo senza, almeno, aver compreso i suoi modi di vita; e non c’è ragione di dimenticare che «pagano» e «paesano» sono etimologicamente la stessa parola. Possiamo dire che quest’arte non è che artifìcio, ma non è amore all’artificio. Al contrario, è nella sua natura soltanto la decadenza del culto della natura o l’amore del naturale. I pastori stavano morendo perché stavano morendo i loro dei. Il paganesimo viveva di poesia, quella poesia che conosciamo sotto il nome di mitologia. Dappertutto, e specialmente in Italia, mitologia e poesia avevano le loro radici nella vita rustica; e da quella rustica religione derivava per gran parte la felicità della campagna. Via via che la società cresceva d’età e d’esperienza, cominciava a manifestarsi in tutta la mitologia la debolezza che abbiamo notato in un altro capitolo: questa religione non era una religione, e non era una religione perché non era una realtà. Era l’esuberanza del giovane mondo pieno d’immaginazioni e d’idee come un giovane uomo esuberante di ardori bacchici e amorosi; non era tanto immorale quanto irresponsabile; non aveva il presentimento delle supreme prove del tempo. Era infinitamente credula perché era infinitamente immaginosa. Era piuttosto un sentimento che apparteneva al lato artistico dell’uomo, ma anche considerato come tale stava diventando oltremodo pesante e imbrogliato. Le genealogie che spuntavano dal seme di Giove somigliavano a una giungla più che a una foresta; le pretese degli dei e semidei avevano bisogno piuttosto 206

d’essere sistemate da un giurista o da un professionista di araldica che da un poeta; e questa crescente anarchia, inutile a dirsi, non si limitava al campo artistico. Aveva fatto la sua apparizione, sempre più flagrante ed evidente, quel fiore del male che è implicito nel culto della natura, per quanto possa parere naturale. Ripeto che io non credo che il culto della natura cominci necessariamente con questa particolare passione; io non appartengo alla scuola di De Rougemont e del folklore scientifico. Non credo che la mitologia cominci dall’erotismo; credo che vi finisca. Certo è che la poesia divenne più immorale, e l’immoralità più indifendibile. Vizi greci e orientali, tracce dei vecchi orrori dei demoni semitici cominciarono a riempire le fantasie della morente Roma, come sciami di mosche sopra un mucchio di putridume. La psicologia di tutto ciò apparirà del resto abbastanza umana a chiunque cerchi di vedere l’interno della storia. Viene il momento, nel pomeriggio, in cui il bambino si stanca di «far le viste»; gli è venuto a noia far il ladro o il pellerossa; e allora comincia a tormentare il gatto. Viene il tempo, nella routine di un’ordinata civiltà, in cui gli uomini sono stanchi di giuocare con la mitologia, di darsi ad intendere che un albero è una fanciulla o che la luna amoreggia con un garzone. L’effetto di questa stanchezza è sempre lo stesso in tutte le forme di cocainomanìa, o di alcolismo: c’è sempre la tendenza ad aumentare la dose. Gli uomini cercano sempre più strani peccati, come stimolanti alla loro sensualità spossata; e per la stessa ragione cercavano le follie delle religioni orientali. Cercavano di eccitare i propri nervi, fosse pure col coltello dei sacerdoti di Baal; nel loro sonnambulismo tentavano di svegliarsi con gl’incubi. Perciò, in questo stadio del paganesimo, i canti e le danze contadinesche si sentivano sempre più flebili nella foresta. La civiltà campagnola spariva, o era già sparita, da tutta la 207

campagna. L’Impero andava sempre più organizzandosi in quel sistema di schiavitù che generalmente accompagna l’orgoglio dell’organizzazione, un sistema di schiavitù simile ai moderni schemi di organizzazione industriale. Quello che sarebbe stato contadiname diventò proletariato cittadino legato al pane e ai giuochi del circo; qualche cosa come una folla moderna che vuole lavoro e cinematografo. Sotto questo aspetto, come sotto tanti altri, l’attuale ritorno al paganesimo non è stato il ritorno alla giovinezza ma alla decrepitezza pagana. In entrambi i casi, le ragioni erano di carattere spirituale: lo spirito del paganesimo era sparito con i suoi spiriti familiari. L’anima se nera andata con gli dei del focolare, che avevano seguito gli dei dei giardini, dei campi, dei boschi. Il vecchio della foresta era troppo vecchio; era vicino a morire. In un certo senso è vero che Pan mori perché era nato Cristo; ma in un altro senso è altrettanto vero che gli uomini seppero che Cristo era nato perché Pan era già morto. Con lo sparire dal mondo della mitologia si fece un vuoto, per cui l’umanità sarebbe rimasta asfissiata se non vi fosse subentrata la teologia. Ma la mitologia non poteva, comunque, durare come la teologia; la teologia è una concezione del pensiero, si voglia o no accettarla; la mitologia non era pensiero e nessuno poteva dire se faccettasse o no. Era una specie di fantasmagoria, che, una volta svanita, non poteva essere risuscitata. Gli uomini non solo cessarono di credere negli dei, ma capirono di non avervi mai creduto; ne avevano cantato le lodi, avevano danzato intorno ai loro altari; avevano suonato il flauto; e con tutto ciò avevano fatto la parte degli sciocchi. Così il crepuscolo discese sull’Arcadia, e le ultime note della zampogna risuonano tristemente tra i boschetti di faggi. Nei grandi poemi virgiliani c’è già della tristezza; ma gli amori e gli dei della casa ancora indugiano in amabili versi come quello che Belloc ha preso come termine di 208

paragone dell’intelligenza: incipe, parve puer, risu cognoscere matrem. Ma allora come oggi l’umana famiglia cominciò a decadere sotto l’organizzazione servile del gregge cittadino. Le masse urbane divennero «illuminate», vale a dire perdettero l’energia mentale creatrice di miti. Intorno al cerchio del Mediterraneo, la gente delle città pianse la perdita degli dei e si consolò con i gladiatori; e qualche cosa di simile accadeva frattanto a quell’aristocrazia intellettuale dell’antichità, che - dopo Socrate e Pitagora - andava attorno parlando con gran prosopopea. Questi intellettuali furono i primi a far capire al mondo che i loro ragionamenti erano tautologici, e che essi dicevano sempre le stesse cose. La filosofia cominciò a diventare uno scherzo; e uno scherzo piuttosto seccante. L’innaturale semplificazione di tutte le cose in un sistema purchessia, che già abbiamo rilevato come il difetto di tutti i filosofi, rivela ad un tempo la sua finalità e la sua futilità. Quando tutto è ridotto ad una parola — virtù, felicità, destino, bene, male - tutto è qualunque cosa, e non c’è più nulla da dire; essi avevano detto tutto. Così i saggi degenerarono in sofisti, cioè in retori mercenari, e in inventori di enigmi. Uno dei sintomi di ciò è che i saggi cominciano a trasformarsi non solo in sofisti, ma in maghi: un pizzico di occultismo orientale è molto apprezzato nelle migliori famiglie. Il filosofo che è già un conferenziere da salotto può ben essere anche un prestigiatore. Molti moderni hanno insistito sulla piccolezza del mondo mediterraneo, e sui più larghi orizzonti che ci si aprirebbero innanzi con la scoperta di altri continenti. Ma questa è un’illusione: una delle molte illusioni del materialismo. I limiti raggiunti dal paganesimo in Europa sono i limiti massimi che potevano umanamente esser raggiunti; nella migliore ipotesi, il paganesimo non è andato oltre, in nessun luogo. Gli stoici romani non hanno nulla da 209

apprendere dai cinesi in fatto di stoicismo; i pitagorici non hanno bisogno di apprendere dagli indù né la metempsicosi, né la vita semplice, né la bellezza del regime vegetariano. Di quel che potevano importare dall’Oriente, hanno importato fin troppo. I sincretisti sono convinti, come i teosofi, che tutte le religioni siano eguali. E fin dove avrebbero potuto estendere il campo filosofico con una maggiore estensione geografica? È difficile affermare che avrebbero potuto purificare la loro religione nel contatto con gli aztechi o pendendo dalle labbra degli incas. Tutto il resto del mondo era fango e barbarie. Dobbiamo (ed è essenziale) riconoscere che l’Impero romano rappresentò la più alta e vasta perfezione a cui sia arrivato il genere umano. Un formidabile segreto sembra essere stato scritto, quasi in oscuri geroglifici, su quelle possenti costruzioni di marmo e di pietra, su quei colossali anfiteatri e acquedotti. L’uomo non poteva far di più. Non era il messaggio fiammeggiante sulla parete babilonese, che un re dovesse morire o il suo regno passare allo straniero; non era la buona notizia di un’invasione o di una conquista. Nulla rimaneva che potesse vincere Roma; ma nemmeno rimaneva nulla che potesse renderla migliore. Era il colmo della forza che diventava debolezza; era la bontà che diventava cattiva. Non bisogna stancarsi di ripetere che parecchie civiltà si eran date convegno sul Mediterraneo, che avevano formato una civiltà universale, di un’universalità ormai sterile e stantìa. I popoli avevano messo insieme le loro risorse; e non era abbastanza. Gl’imperi avevano dato la loro compartecipazione; ed era ancora la bancarotta. Un filosofo, che fosse stato veramente filosofo, non poteva pensare se non questo: che, in quel mare centrale, l’ondata dell’umanità aveva toccato il suo grado più alto, aveva quasi toccate le stelle. Ma l’ondata ormai si abbassava. Le forze umane non potevano arrivare 210

più su. Quella mitologia e quella filosofia, in cui abbiamo decomposto e analizzato il paganesimo, erano state tutt’e due letteralmente asciugate fino alla feccia. Se col moltiplicarsi delle pratiche di magia, il terzo gruppo — quello che abbiamo chiamato dei demoni - era sempre, e sempre più, attivo, esso non cessava tuttavia di essere intimamente distruttivo. Resta soltanto il quarto elemento, o piuttosto il primo: quello che è stato lasciato in disparte perché era il primo; quell’impressione fondamentale e soverchiante, se pure impalpabile, che l’universo abbia un’origine e uno scopo; e che, in quanto ha uno scopo, debba avere un creatore. E forse difficile determinare che cosa sia diventata quell’immensa verità sullo sfondo della mente umana, a quell’epoca. Alcuni stoici indubbiamente videro con sempre maggior chiarezza, a mano a mazzo che le nuvole della mitologia si schiarivano e si diradavano; e ci furono fra essi dei grandi uomini che lavorarono fino all’ultimo per porre i fondamenti di una concezione morale unitaria e universale. Gli ebrei, dal canto loro, custodirono la loro certezza segreta dietro gli alti ripari d’un geloso esclusivismo; ed è veramente caratteristico di quella situazione sociale il fatto che personaggi altolocati, e gentildonne del gran mondo, abbiano abbracciato il giudaismo. Ma molti altri penso che si siano gettati allora in una nuova negazione. L’ateismo diventò possibile in quell’epoca anormale, perché l’ateismo è un’anormalità. Non è solo la negazione di un dogma. È il rovesciamento d’un’inconscio postulato dell’anima: l’idea che il mondo visibile abbia un senso e una direzione. Lucrezio, il primo evoluzionista, che tentò di sostituire l’evoluzione a Dio, aveva già fatto palpitare, davanti agli occhi degli uomini, la sua danza di atomi scintillanti, per cui il cosmo era concepito come creato dal caos. Ma non fu la sua robusta 211

poesia né la sua amara filosofia, secondo me, a far sì che gli uomini potessero accogliere una tale visione. Era come un senso d’impotenza e di disperazione, con cui gli uomini rivolsero vanamente i loro pugni contro le stelle, quando videro che tutti gli sforzi dell’umanità lentamente e inesorabilmente sprofondavano in un pantano. Essi erano indotti a credere che la creazione stessa non fosse stata una creazione ma una perpetua caduta, quando videro che la più seria e degna fra le creazioni umane stava cadendo sotto il proprio peso; finirono col credere che tutte le stelle fossero stelle cadenti e che gli stessi pilastri dei loro portici solenni si abbassassero sotto un graduale diluvio. Uomini che vivevano in quello stato d’animo dovevano trovare ragionevole l’ateismo. La mitologia poteva svanire e la filosofia poteva irrigidirsi, ma, se dietro di esse c’era una realtà, questa realtà avrebbe dovuto al momento opportuno restare in piedi. Non c’era un Dio; se Dio ci fosse stato era quello il momento in cui egli avrebbe dovuto rivelarsi e salvare il mondo. La vita della civiltà continuò con cupa assiduità e con monotona allegria. Era la fine del mondo, e il peggio era che poteva non finir mai. Tutti i molteplici miti e le religioni dell’Impero erano venuti ad un conveniente compromesso: che, cioè, ognuno adorasse liberamente chi più gli piaceva, e soltanto bruciasse, a titolo di ringraziamento, un grano d’incenso al tollerante imperatore ufficialmente chiamato Divo. Naturalmente la cosa non presentava difficoltà; o piuttosto ci volle molto tempo prima che il mondo si rendesse conto che in qualche luogo qualche difficoltà c’era stata. C’era una sètta orientale, o società segreta, o qualche cosa di simile, i cui membri sembra avessero fatto una scenata; nessuno poteva immaginare perché. L’incidente si ripeté due o tre volte, e cominciò a sollevare un’irritazione sproporzionata all’importanza della cosa. Non 212

che avesse importanza quel che dicevano cotesti provinciali, sebbene dicessero cose assai bizzarre. Sembra che dicessero che Dio era morto e che lo avevano visto morire; ma poteva essere semplicemente una delle tante manìe prodotte dalla disperazione del tempo; senonché non pareva che fossero particolarmente in preda alla disperazione. Anzi erano stranamente lieti, e ne spiegavano la ragione dicendo che la morte di Dio permetteva loro di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue. Secondo altre notizie, Dio non era proprio morto; attraverso le immaginazioni esaltate sfilava una specie di fantastica processione dei funerali di Dio, davanti ai quali il sole si oscurava, e che finivano col morto Onnipotente che erompeva dal sepolcro e risorgeva come il sole. Nessuno prestava particolare attenzione alla strana storia; di religioni bizzarre se n’erano viste tante da riempire un manicomio. Quello che colpiva era il tono di quei pazzi, e il tipo della loro associazione. Era un’accolta di barbari, di schiavi, di povera gente senza importanza; ma avevano una disciplina militare; si muovevano insieme, e avevano idee assolute intorno a quel che appartenesse al loro piccolo sistema; le loro parole, sebbene dolci, avevano la risonanza del ferro. L’analisi di un tale mistero - nel mondo romano, pur abituato a tante religioni e morali - non dava àdito se non alla curiosa congettura che credessero a quel che dicevano. Tutti i tentativi per far loro intendere la ragione, nella faccenda del simulacro dell’imperatore, erano stati inutili; era come parlare ai sordi. Si sarebbe detto che un nuovo metallo meteoritico fosse caduto sulla terra; la differenza di sostanza si sentiva al contatto; e quelli che toccavano le fondamenta di questa nuova religione erano convinti di aver cozzato in una pietra. Con rapidità strana, come nei sogni, le proporzioni delle cose sembravano trasformarsi alla loro presenza. Prima che il mondo in generale sapesse che cosa era avvenuto, questo 213

pugno di uomini si era fatto notare, in maniera tangibile. Presto furono troppo importanti per essere ignorati. La gente taceva intorno a loro e girava al largo. Un nuovo spettacolo si presenta: viene tolta persino la camicia a questi uomini e a queste donne; ed essi stanno nel centro di un grande spazio, come lebbrosi. La scena cambia di nuovo; e sul vasto spazio, in cui essi stanno, pendono d’ogni parte nuvoli di testimoni, interminabili file di volti che guardano intensamente in giù verso di loro. Strane cose accadono: nuove torture sono inventate per quei pazzi che hanno portato la buona novella. Quella cupa e annoiata società sembra quasi aver trovato nuove energie per condurre la sua prima persecuzione religiosa. Nessuno sa ancora chiaramente perché quel mondo così indifferente abbia perduto l’equilibrio di fronte a costoro che stavano lì in mezzo, immobili, mentre l’arena e l’universo sembravano girare tutt’intorno. E allora si vide splendere su loro in quell’ora oscura una luce, che non s’è mai oscurata; un bianco fuoco lambiva quel gruppo come una sovrumana fosforescenza, segnandogli il cammino attraverso i crepuscoli della storia e confondendo ogni sforzo che tentasse di ostacolarlo con le nebbie mitologiche e filosofiche. E’ la luce di cui il mondo volendo colpirlo e isolarlo lo ha coronato; la luce con cui i suoi nemici lo hanno fatto più illustre e i suoi critici più inesplicabile; è l’aureola dell’olio attorno alla Chiesa di Dio. 1. Equivalente all’italiano “fare il Rodomonte”.

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Parte seconda L’uomo chiamato Cristo

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Capitolo I Dio nella caverna PER TRACCIARE UN PROFILO della storia umana abbiamo cominciato da una caverna: la caverna che dalla scienza popolare è associata all’uomo della caverna, e in cui si sono realmente scoperti arcaici disegni di animali. La seconda metà della storia umana, che fu come una nuova creazione del mondo, comincia pure da una caverna. C’è anche un’ombra di questa fantasia nel fatto che anche qui degli animali erano presenti: era una caverna usata come stalla dai pastori che vivevano sulle alture sovrastanti betlemme, i quali tuttora portano le loro mandrie a pernottare in quelle grotte. Là una coppia di senzatetto s’era introdotta sotto terra in mezzo al bestiame, poiché le porte del popoloso caravanserraglio erano state loro chiuse in faccia; e proprio là sotto i piedi dei viandanti, in una cantina sotto il livello della superficie terrestre, venne alla luce Gesù Cristo. C’è davvero in questa seconda creazione qualche cosa di simbolico: le radici della roccia primitiva e le corna dell’armento preistorico. Anche dio fu un uomo della caverna; e aveva anche tracciato strane forme di creature, colorate curiosamente, sulle pareti del mondo; ma alle sue figure aveva infuso la vita. Tutta una letteratura leggendaria, che cresce sempre e non finirà mai, aveva ripetuto e cantato le trasformazioni di quel semplice paradosso: che le mani che avevano fatto 216

il sole e le stelle erano troppo piccole per arrivare alle grosse teste degli animali. Su questo paradosso - possiam quasi dire su questo scherzo - è basata tutta la letteratura cristiana. Per lo meno lo scherzo sta in ciò: che il critico scientifico non lo capisce. Egli laboriosamente si affatica a spiegare difficoltà che noi abbiamo sempre ammesso e - a mo’ di sfida e di canzonatura - esagerato; e timidamente sentenzia essere «improbabile» qualche cosa che noi abbiamo quasi pazzamente esaltato come incredibile; qualche cosa che sarebbe troppo bella per esser vera, ma che è vera. Quando quel contrasto fra la creazione cosmica e la piccola infanzia di Betlemme è stato ripetuto, reiterato, sottolineato, proclamato, vantato, cantato, gridato, tuonato, per non dire urlato, in centomila inni, carole, rime, rituali, dipinti, poemi e sermoni popolari, si può concludere che non abbiamo bisogno di un critico di prim’ordine per scoprire in tutto ciò qualche cosa di leggermente bizzarro; tanto meno di un critico che sembra dover perdere molto tempo per accorgersi di uno scherzo, del suo stesso scherzo. Ma intorno a questo contrasto e coincidenza di idee, una cosa può dirsi qui, perché è concatenata alla tesi di tutto il libro. Il critico moderno della razza a cui alludo prende generalmente molto a cuore l’importanza dell’educazione nella vita e l’importanza della psicologia nell’educazione. Costui non si stancherà di ripeterci che le prime impressioni fissano il carattere per la legge di causalità; e diventerà di cattivo umore se il senso visivo di un fanciullo è avvelenato dai colori sbagliati di un fantoccio o il suo sistema nervoso scosso prematuramente da un rumore cacofonico. Ma dirà che siamo di mente piccina se affermiamo che questo è esattamente il motivo per cui c’è differenza tra Tesser tirato su come cristiano ovvero come ebreo o musulmano o ateo. La differenza è che ogni fanciullo 217

cattolico ha appreso dalle immagini — e anche ogni fanciullo protestante dalle Scritture - questa incredibile coincidenza di idee contrastanti, come una delle prime impressioni della sua mente. Non è solamente una differenza teologica. È una differenza psicologica che può andare al di là di ogni teologia. È — come i signori scienziati ripetono a proposito e a sproposito — una differenza insanabile. Ogni ateo o agnostico, che nella sua infanzia abbia conosciuto veramente il Natale, avrà poi sempre nella sua mente, voglia o non voglia, un’associazione di due idee che moltissima gente deve considerare come remote l’una all’altra: l’idea di un bambino e l’idea di una forza sconosciuta che regge le stelle. Il suo istinto e la sua immaginazione possono ancora connetterle insieme, quando la sua ragione non vede più la necessità della connessione; per lui avrà sempre un vago sapore religioso la semplice pittura di una madre con un bambino; avrà qualche accenno di pietà e di tenerezza la sola menzione del terribile nome di Dio. Ma le due idee non coincidono naturalmente o necessariamente. Non sarebbero necessariamente connesse per un greco antico o per un cinese, fossero pure Aristotele o Confucio. Non è naturale mettere in relazione Dio con un infante più di quel che sia naturale rapportare la gravitazione ad un piccolo gatto. L’associazione di idee è stata creata nelle nostre menti dal Natale perché noi siamo cristiani; perché siamo cristiani psicologi, anche se non siamo teologi. In altre parole, questa associazione d’idee ha superlativamente — secondo la frase assai discussa — modificato la natura umana. C’è differenza fra l’uomo che l’avverte e quello che la ignora; può non essere una differenza di dignità morale, poiché il musulmano e l’ebreo possono essere più degni secondo i loro lumi; ma è il luogo d’incrocio di due luci particolari, la congiunzione di due stelle nel nostro particolare oroscopo. 218

Onnipotenza e impotenza, divinità e infanzia, formano in definitiva una sorta di epigramma che un milione di ripetizioni non farà diventare banale. Non è sragionato chiamarlo unico. Betlemme è superlativamente il luogo in cui gli estremi si toccano. Qui comincia, inutile a dirsi, un’altra potente influenza per l’umanizzazione del Cristianesimo. Se il mondo avesse bisogno di quel che si direbbe un lato non controverso del Cristianesimo, probabilmente sceglierebbe il Natale. Eppure esso è naturalmente collegato a quanto si suppone esser un aspetto controverso (quali che siano state le mie opinioni non ho mai potuto immaginarne il perché): cioè, il rispetto dovuto alla Beata Vergine. Quando ero bambino, una generazione più puritana non voleva su una chiesa parrocchiale una statua rappresentante la Vergine col Bambino. Dopo molte discussioni, si venne a patti e fu tolto il Bambino; il che potrebbe sembrare anche più inquinato di idolatria per Maria, a meno che non si voglia giudicare la Madre meno pericolosa una volta privata della propria arma. Ma la stessa difficoltà pratica ha valore di parabola. Voi non potete levare la statua della madre e lasciare il neonato. Non potete sospendere il neonato a mezz’aria; insomma, non potete fare una statua a un neonato. Egualmente non potete sospendere nel vuoto l’idea del neonato, o pensare a lui senza pensare alla madre. Non potete visitare il figlio senza visitare la madre; non potete, nella comune vita umana, avvicinare il bambino se non attraverso la madre. Se dobbiamo pensare a Cristo sotto codesto aspetto, l’altra idea — quella della Madre — ne consegue naturalmente, come nella storia. Dobbiamo o lasciare Cristo fuori del Natale, o il Natale fuori di Cristo, o dobbiamo ammettere - almeno come lo accettiamo in un vecchio quadro - che quelle sante teste son troppo vicine perché le aureole non debbano confondersi insieme e 219

sovrapporsi. Può dirsi, con un’immagine violenta, che da quel crepaccio, nei grandi colli grigi, si riproduceva dal di dentro l’intero universo. Intendo dire che tutti gli sguardi di stupore e di reverenza, vólti fuori verso quanto c’è di più grande, furono rivolti allora verso quanto ci può essere di più piccolo. La stessa immagine farà venire in mente tutta quella meravigliosa moltitudine di occhi convergenti, in cui consiste tanto della colorata immaginazione cattolica, una specie di coda di pavone. Ma in un certo senso è vero che Dio, che è stato solo una circonferenza, fu visto come un centro; e un centro è l’infinitamente piccolo. Vero che la spirale spirituale converge verso l’interno, anziché verso l’esterno, e in tal senso è centripeta e non centrifuga. La fede diventa, in varie guise, una religione delle cose piccole. Ma le sue tradizioni in arte e in letteratura e la favolistica popolare hanno abbastanza testimoniato, come s’è detto, di questo particolare paradosso dell’Essere divino nella culla. Forse non hanno con egual chiarezza esaltato il significato dell’Essere divino nella caverna. È curioso che la tradizione non abbia esaltato la caverna. È un fatto ovvio che la scena di Betlemme sia stata rappresentata in ogni possibile tempo e paese, in pittura e in architettura; ed è un fatto felice e ammirevole che gli uomini l’abbiano concepita diversamente, secondo i loro diversi gusti e tradizioni individuali. Ma mentre tutti sono stati d’accordo sulla stalla, non molti hanno capito che la stalla era una caverna. Alcuni critici son stati persino così sciocchi da supporre che c’era contraddizione tra stalla e caverna. Vuol dire che ne sanno poco delle stalle e delle caverne di Palestina. Siccome vedono differenze dove non ci sono, è inutile aggiungere che non vedono le differenze dove ci sono. Quando un noto critico dice, per esempio, che Cristo, essendo nato in una caverna rocciosa, è come Mitra balzato 220

vivo da una roccia, ciò farà l’effetto di una parodia delle religioni comparate. C’è qualche cosa di simile in un’altra storia, anche se è una storia nel senso di favola. Ma l’idea di un essere mitico nascente come Pallade, matura e senza madre, dal cervello di Giove, è certamente l’esatto opposto dell’idea di un Dio che nasce come un bambino comune e interamente dipendente da sua madre. Qualunque sia l’ideale che preferiamo, dovremo ammettere che sono ideali contrari. È stupido unirli, perché in entrambi c’entra una sostanza chiamata pietra, come sarebbe stupido identificare il castigo del Diluvio col Battesimo nel Giordano, perché in entrambi c’entra una sostanza chiamata acqua. Che lo considerasse un mito o un mistero della fede, si credette che Cristo fosse nato in un antro, principalmente perché ciò segnava il suo carattere di reietto e di senza casa. Nondimeno è vero, come ho detto, che la caverna non è stata comunemente o esplicitamente adoperata come simbolo, allo stesso modo che sono state adoperate le altre realtà che circondarono il Natale di Cristo. E la ragione di ciò si riferisce pure alla natura stessa di questo nuovo mondo. Fu in un certo senso una difficoltà di nuove dimensioni. Cristo non soltanto era nato allo stesso livello dell’umanità, ma anche più basso. Il primo atto del dramma divino non solo non fu recitato su nessun palco posto al di sopra degli spettatori, ma in un oscuro palco col sipario calato, sottratto alla vista di chicchessia; ed ecco l’idea difficile ad esprimersi nei modi consueti dell’espressione artistica. È l’idea d’una simultaneità di eventi su differenti piani di vita. Qualche cosa di simile si è cercato di esprimere nell’arte decorativa medievale più arcaica. Ma più gli artisti impararono il realismo e la prospettiva, meno riuscirono a dipingere ad un tempo gli angeli nei cieli e i pastori sui colli, e la gloria nella tenebra sottostante ai colli. Forse sarebbe stato miglior espediente 221

quello caratteristico di qualche confraternita medievale, quando si trasportava per le strade un teatro col palcoscenico a tre ordini: il cielo, la terra e il sottoterra. Ma nel Mistero di Betlemme era il cielo che stava sotto la terra. In questo solo c’è un tratto di spirito rivoluzionario, come di un mondo capovolto. Sarebbe vano tentare di dir cosa adeguata, o nuova, sul cambiamento operato da tale concezione di una deità nata come un essere reietto e fuori legge, sopra tutta la concezione della legge e dei doveri verso i poveri e i reietti. E’ profondamente vero affermare che da quel momento non potevano esserci più schiavi. Potevano esserci, e c’erano, uomini che della schiavitù portavano il titolo legale, finché la Chiesa non fu forte abbastanza per liberarli; ma non poteva esserci più la pagana tranquillità appagantesi del mero vantaggio, per lo Stato, di rimanere uno Stato servile. Gli individui acquistavano un’importanza che nessuno strumento poteva acquistare. Un uomo non poteva essere il mezzo per un fine, almeno per il fine di un altro uomo. Tutto questo elemento popolare e fraterno è stato giustamente associato dalla tradizione all’episodio dei Pastori; i montanari si trovarono faccia a faccia con i principi del cielo. Ma c’è un altro aspetto dell’elemento popolare, rappresentato dai pastori, che non è stato forse pienamente sviluppato; e che può avere qui una più diretta risonanza. Uomini del popolo, come i pastori, uomini della tradizione popolare, sono sempre stati i creatori delle mitologie. Erano essi che avevano sentito più direttamente, senza il freno e senza il freddo delle filosofie e della corruzione civile, il bisogno che noi già abbiamo considerato: immagini che fossero avventure dell’immaginazione, una mitologia che fosse una specie di ricerca, i seducenti e tantalici spiragli di qualche cosa di semiumano nella natura, il muto significato delle stagioni e 222

dei luoghi. Essi avevano capito meglio di tutti che l’anima di un paesaggio è una leggenda, e l’anima di una leggenda è una persona. Ma il razionalismo aveva già cominciato a guastare questi irrazionali e immaginosi tesori del contadino; come la schiavitù sistematica aveva escluso il contadino dalla casa e dalla patria. Sopra queste fantasie contadinesche scendeva dappertutto il crepuscolo e l’ombra della delusione, nell’ora in cui questi pochi uomini, i pastori di Betlemme, scoprirono ciò che cercavano. L’Arcadia si stava dileguando dalle foreste. Pan era morto e i pastori erano dispersi come le pecore. E benché nessuno lo sapesse, era vicina l’ora che doveva segnare la fine e l’adempimento di tutte le cose; e benché nessuno lo udisse, c’era un grido lontano, in una lingua ignota, sopra la ondeggiante solitudine delle montagne. I pastori avevano trovato il loro Pastore. E la cosa che trovarono era della stessa specie delle cose che avevano cercato. Il popolino aveva sbagliato in tanti casi, ma non aveva sbagliato nel credere che le cose sacre possono avere un ricettacolo e che la divinità non disdegna necessariamente i limiti del tempo e dello spazio. Il barbari che concepirono la grossolana fantasia del sole rubato e nascosto entro una scatola, e il mito di un Dio che si era salvato, e del nemico ingannato con una pietra, erano più vicini al segreto della caverna e ne sapevan di più della crisi del mondo di coloro i quali, nelle città attorno al Mediterraneo, si erano contentati di fredde astrazioni e di generalizzazioni cosmopolitiche; di coloro che tessevano sempre più sottili trame di pensiero dal trascendentalismo di Platone o dall’orientalismo di Pitagora. Il luogo che i pastori trovarono non era un’accademia, o una repubblica astratta; non era un luogo di miti allegorizzati o disseccati o spiegati; era un luogo di sogni avverati. Da allora, nessuna mitologia è stata più inventata nel mondo. La mitologia è 223

una ricerca. Sappiamo tutti che l’esibizione popolare di questa storia, in tante rappresentazioni e danze sacre, ha dato ai pastori il costume, la lingua, il panorama delle campagne inglesi ed europee. Sappiamo che uno dei pastori parlerà il dialetto del Somerset e un altro dirà di condurre la sua mandria da Conway verso il Clyde. La maggior parte di noi sa, ormai, quanta verità è in tale errore, quanta saggezza, quanta arte, e quanto sia intensamente cristiano e cattolico tale anacronismo. Ma taluni che l’hanno visto in certe rustiche scene medioevali non l’hanno forse visto in un’altra sorta di poesia, che è talora di moda chiamare artificiosa piuttosto che artistica. Temo che molti critici moderni vedranno solo uno sbiadito classicismo nel fatto che uomini come Crashaw e Herrick immaginassero i pastori di Betlemme in veste di pastori virgiliani. Eppure essi avevano profondamente ragione, e volgendo la scena di Betlemme in una egloga latina costruivano uno degli anelli più importanti della storia umana. Virgilio, come abbiam visto, difende tutto quel sano paganesimo che rovesciò l’insano paganesimo del sacrificio umano; ma il fatto stesso che anche le virtù di Virgilio e il sano paganesimo erano in decadenza irrimediabile costituisce tutto il problema di cui la rivelazione ai pastori è la soluzione. Se il mondo avesse mai avuto la fortuna di stancarsi di essere demoniaco, poteva essere salvato dalla sanità. Ma se era stanco persino d’esser sano, che poteva avvenire se non ciò che avvenne? Né è sbagliato concepire i pastori arcadi delle egloghe come partecipi dell’allegrezza cristiana. Si è preteso che una delle egloghe fosse una profezia del grande evento. Ma è certo che almeno nel tono e nella espressione incidentale del grande poeta sentiamo la potente simpatia coi nuovi tempi; e nelle loro stesse frasi umane, le voci dei pastori virgiliani sembrano più di una volta toccare qualche cosa di più alto 224

che la dolcezza d’Italia… Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem… Crashaw e Herrick potrebbero aver trovato in quello strano luogo ciò che c’era di meglio dell’ultima tradizione latina, e aver visto qualche cosa di meglio d’un idolo di legno levarsi per sempre a sostegno della famiglia umana: un Dio della famiglia. Sarebbe poi veramente giustificata la soddisfazione loro e degli altri mitologi per il fatto che l’evento non aveva semplicemente realizzato il misticismo ma anche il materialismo della mitologia. La mitologia aveva molti peccati, ma non aveva avuto torto nell’essere carnale come la Incarnazione; con qualche cosa dell’antica voce che aveva suonato attraverso il roveto, poteva gridare ancora: «Noi abbiamo visto, egli ci ha visto, un Dio visibile». Così gli antichi pastori avranno danzato vincendo in allegrezza i filosofi, e i loro piedi saranno stati belli a vedersi sulle montagne. Ma anche i filosofi avevano udito. È ancora una strana e vecchia storia quella del modo in cui essi pervennero dalle terre orientali, coronati di maestà regale e vestiti del mistero dei Magi. Quella verità, che è la tradizione, li ha saggiamente ricordati, quasi come quantità sconosciute, misteriosi come i loro misteriosi e melodiosi nomi: Melchiorre, Gaspare, Baldassarre. Ma venne con loro tutto quel mondo sapiente che aveva osservato le stelle in Caldea e il sole in Persia; e noi non abbiamo torto se vediamo in loro quella curiosità che smuove tutti i sapienti. Starebbero a rappresentare lo stesso ideale umano, se i loro nomi fossero realmente quelli di Confucio o di Pitagora o di Platone. Essi non cercavano fiabe ma verità, e poiché la loro sete di verità era per se stessa sete di Dio, anch’essi hanno avuto il loro premio. Ma per capire il valore di quel premio, dobbiamo capire che, per la filosofìa come per la mitologia, quel premio era il completamento dell’incompleto. 225

Quegli uomini sapienti sarebbero certamente venuti, come costoro vennero, per trovarsi rafforzati in molte convinzioni che erano vere nella loro propria tradizione e giuste nel loro proprio modo di ragionare. Confucio avrebbe trovato un nuovo fondamento alla famiglia nel perfetto opposto della Sacra Famiglia; Budda avrebbe considerato una nuova rinuncia, di stelle più che di gioielli, di divinità più che di realtà. Questi savi avrebbero avuto ancora il diritto — anzi una nuova ragione — di dire che c’era della verità nel loro antico insegnamento. Ma - inoltre questi sapienti avrebbero appreso qualche cosa. Sarebbero arrivati a completare le loro concezioni con qualche cosa che non avevano concepito; sarebbero arrivati ad equilibrare il loro imperfetto universo con qualche cosa che una volta potevano aver contraddetto. Budda sarebbe venuto dal suo paradiso impersonale a venerare una persona, Confucio dai suoi templi dedicati agli avi sarebbe venuto a venerare un bambino. Dobbiamo afferrare prima di tutto questo carattere del nuovo mondo: che era più grande del vecchio. In questo senso, il Cristianesimo è più grande della creazione, come la creazione era intesa prima di Cristo. Includeva cose che non c’erano state, e includeva le cose che c’erano state. Il punto è bene illustrato da questo esempio della pietà cinese, ma sarebbe egualmente vero di altre virtù o credenze pagane. Nessuno può dubitare che un rispetto ragionevole per i genitori sia parte di un vangelo in cui Dio stesso fu suddito, nell’infanzia, di genitori terreni. Ma l’altro senso in cui i genitori furono sudditi di lui, introduce un’idea che non è di Confucio. L’infante Cristo non è come l’infante Confucio; il nostro misticismo lo concepisce in una infanzia immortale. Non so che cosa Confucio avrebbe fatto del bambino, foss’egli venuto a vivere tra le sue braccia come tra le braccia di san Francesco. Ma questa è la verità in 226

relazione a tutte le altre religioni e filosofie; è la sfida della Chiesa. La Chiesa contiene ciò che il mondo non contiene. La vita stessa non provvede, come provvede la Chiesa, per tutti i lati della vita. Che ogni altro sistema è angusto e insufficiente comparato a questo e che questa non è una vanteria retorica: ecco un fatto vero e un vero dilemma. Dove è il Santo bambino fra gli stoici e gli adoratori degli avi? Dove è la Madonna dei musulmani, una donna non fatta per nessun uomo e posta al di sopra degli angeli? Dovè il san Michele dei monaci di Budda, cavaliere e maestro dei trombetti, che difende in ogni soldato l’onore della spada? Che poteva farsene san Tommaso di Aquino della mitologia del braminismo, egli che superò tutta la scienza e la razionalità, e perfino il razionalismo del Cristianesimo? Eppure se noi compariamo l’Aquinate con Aristotele, all’altro estremo della ragione, avremo la stessa sensazione di qualche cosa che si aggiunge. L’Aquinate potrà intendere le più logiche parti di Aristotele; è dubbio se Aristotele avrebbe capito le più mistiche parti dell’Aquinate. Anche dove non possiamo chiamare più grande il cristiano, siamo forzati a chiamarlo più vasto. Ma è così per qualsivoglia filosofia o eresia o movimento moderno. Come avrebbe potuto Francesco il Trovatore giungere dove giunse, fra i calvinisti o fra gli utilitaristi della Scuola di Manchester? Eppure uomini come Bossuet e Pascal hanno potuto essere austeri e logici come qualsiasi calvinista o utilitario. Come avrebbe santa Giovanna d’Arco, con la spada levata sull’ondeggiare degli eserciti, fatto tanta strada in mezzo ai quaccheri o ai Doukhabors o alla setta dei pacifisti tolstoiani? Eppure tanti santi cattolici hanno passato la loro vita predicando la pace e impedendo le guerre. Lo stesso dicasi di tutti i moderni tentativi di sincretismo. Essi non sono capaci di fare qualche cosa di più largo del credo senza lasciarne fuori qualche cosa. Non 227

voglio dire qualche cosa di divino, ma qualche cosa di umano; la bandiera o la taverna o i racconti guerreschi dei fanciulli o la siepe al margine del campo. I teosofi fabbricano un pantheon, ma è un pantheon per soli panteisti. Essi parlano di un Parlamento di Religioni come di una riunione di tutti i popoli, ma è soltanto una riunione di tutti i presuntuosi. Eppure un tal pantheon era stato eretto esattamente, duemila anni prima, sulle spiagge del Mediterraneo; e i cristiani furono invitati ad alzarvi l’immagine di Gesù a lato alle immagini di Giove, di Mitra, di Osiride, di Attide o di Ammone. Fu il rifiuto dei cristiani che determinò la svolta della storia. Se i cristiani avessero accettato, essi, e con essi tutto il mondo, sarebbero certamente, con grottesca ma esatta metafora, andati a finire nel calderone. Sarebbero stati tutti quanti a bollire nel brodo caldo di quel calderone della corruzione cosmopolitica, in cui tutti gli altri miti e misteri stavano liquefacendosi. Fu un salvataggio tremendo e spaventevole. Nessuno capisce la natura della Chiesa o la nota saliente del credo che discende a noi dall’antichità, se non capisce che il mondo intero fu una volta prossimo a morire nel calderone della larghezza mentale e della fratellanza religiosa. Questo è il punto importante: che i Magi, che rappresentano il misticismo e la filosofia, possono essere concepiti come alla ricerca di qualche cosa di nuovo e come trovantisi di fronte a qualche cosa di inaspettato. Quella sensazione di crisi, che ancora risuona in ogni leggenda di Natale e in ogni festa di Natale, accentua l’idea di una ricerca e di una scoperta. Scoperta che è, in tal caso, una vera scoperta scientifica. Per le altre figure mistiche del dramma miracoloso, per l’angelo e per la madre, per i pastori e per i soldati di Erode, ci possono essere aspetti più semplici e più soprannaturali, più elementari e più commoventi. Ma i sapienti devono cercare la Sapienza, e per 228

essi deve esserci una luce anche intellettuale. E la luce è questa: che il credo cattolico è cattolico, e che null’altro è cattolico. La filosofia della Chiesa è universale. La filosofia dei filosofi non era universale. Se Platone, Pitagora e Aristotele fossero stati per un istante nella luce che irraggiò dalla piccola caverna, essi avrebbero saputo che la loro luce non era universale. E’ tutt’altro che certo, veramente, che essi non lo sapessero di già. La filosofia, come la mitologia, aveva l’aria di essere alla ricerca di qualche cosa. E’ la percezione di questa verità, che dà la sua tradizionale e misteriosa maestà alle figure dei Tre Re: la scoperta — contenuta in sì piccolo spazio — che la religione è più libera della filosofìa e che questa religione è la più libera delle religioni. I Magi stavano rimirando lo strano pentacolo col triangolo umano rovesciato; e non erano mai venuti alla conclusione dei loro calcoli su di esso. Questo è, infatti, il paradosso del gruppo della caverna: che, mentre ci suscita emozioni di una fanciullesca semplicità, i nostri pensieri possono abbracciare una complessità senza fine. E noi non possiamo mai arrivare a capo delle nostre idee intorno al fanciullo che fu padre e alla madre che fu fanciulla. Potremo contentarci di dire che la mitologia venne coi pastori e la filosofia con i filosofi, e che rimaneva soltanto ad essi di combinarsi nel riconoscimento della religione. Ma ci fu un terzo elemento che non deve essere ignorato, e che la religione rifiuta sempre di ignorare, in ogni risveglio o riconciliazione. Fu presente, in quelle prime scene del dramma, quel Nemico che aveva corrotto la mitologia con la depravazione e freddato le teorie nell’ateismo; e rispose alla diretta sfida con quel metodo più immediato che abbiamo visto nel culto consapevole dei demoni. Nel descrivere quelle pratiche diaboliche, quel divorante odio dell’innocenza manifestatosi nelle opere della stregoneria e nel più inumano dei sacrifizi umani, non ho voluto 229

indugiarmi sulla sua indiretta e secreta penetrazione nel più sano paganesimo; sul tuffarsi dell’immaginazione mitologica nel pantano sessuale; sul gonfiarsi dell’orgoglio imperiale in vera e propria insania. Ma tale influenza, indiretta e diretta, si fa sentire nel dramma di Betlemme. Un governatore, sotto la sovranità romana, probabilmente equipaggiato e circondato degli ornamenti e degli ordini romani, sebbene di sangue orientale, sembra aver sentito in quel momento agitarsi nel suo spirito strane cose. Tutti sappiamo la storia di Erode, che, allarmato alla notizia di un misterioso rivale, ripetendo il gesto selvaggio dei capricciosi despoti asiatici, ordinò un massacro dei figli del popolo della nuova generazione. Ognuno conosce questa storia; ma non tutti hanno forse notato il suo posto nella strana storia delle religioni degli uomini. Non tutti hanno visto il significato del contrasto di quello stesso mondo, conquistato e superficialmente civilizzato, con le colonne corinzie e coi pavimenti romani. Soltanto, non appena il proposito cominciò oscuramente a mostrarsi e a risplendere negli occhi dell’Idumeo1, un occhio acuto avrebbe forse visto qualche cosa come un grande spettro grigio, al di sopra delle sue spalle, riempire la volta notturna, e grandeggiar per l’ultima volta nella storia: lo spettro enorme e pauroso del Moloch cartaginese, aspettante il suo ultimo tributo da un principe della razza di Sem. Anche i demoni vollero festeggiare a loro modo quella prima festa di Natale. Se noi non ci rendiamo conto della presenza del Nemico, non solo ci sfuggirà il senso del Cristianesimo, ma anche quello del Natale. Il Natale, per noi, nel Cristianesimo è diventato una cosa, in un certo senso, semplicissima. Ma, come tutte le verità della tradizione cristiana, esso è, in un altro senso, una cosa assai complessa. La sua unica nota è che esso tocca simultaneamente molte note: umiltà, gaiezza, gratitudine, paura mistica, e anche attesa 230

drammatica. È non soltanto un’occassione per pacifisti come per i gaudenti; è non solo una conferenza pacifista indù o una festa invernale scandinava. C’è in esso anche una sfida; qualche cosa che fa suonare bruscamente le campane a mezzanotte come i cannoni di una battaglia appena vinta. Tutta questa indescrivibile atmosfera natalizia pende in aria come una fragranza non ancora svanita della esultante esplosione di duemila anni fa in quell’ora unica sui colli della Giudea. Ma il sapore è nettamente riconoscibile; è qualche cosa di troppo sottile o di troppo solitario per esser reso da quel che intendiamo con la parola «pace». La gioia della caverna era simile all’allegria di una fortezza o di una tana di briganti; intesa nel suo vero significato, non sarebbe impertinente dire che era l’allegria di una trincea. Non solo è vero che quella stanza sotterranea era un rifugio contro i nemici, e che i nemici già stavano scorrazzando sulla sua volta di pietra. Non solo è vero che gli zoccoli dei cavalli di Erode possono esser passati rintronando sulla testa abbandonata del Cristo. Ma in quella immagine c’è anche l’idea di un posto avanzato, di una feritoia nella roccia, di un’apertura sul territorio nemico. C’è in questa divinità sotterranea come un’idea di minare il mondo; di scrollare dal basso regge e palazzi; quasi che il gran re avesse sentito quello scuotimento sotto i suoi piedi e avesse tremato nel suo palazzo tremante. Questo è forse il più grande del misteri della caverna. E’ evidente che, sebbene agli uomini sia stato detto di cercare l’inferno sotto la terra, in questo caso era il cielo che stava sotto la terra. In questa strana storia c’è come l’erompere del cielo. Questo è il paradosso della situazione: d’ora innanzi le idee più alte non potranno agire che dal basso. Il regno non può ricostituirsi se non mercè una sorta di ribellione. Infatti, la Chiesa dai suoi inizi, e forse specialmente nei suoi inizi, non fu tanto un principato quanto una rivoluzione contro il 231

principe del mondo. Questa sensazione che il mondo era stato conquistato dal grande usurpatore, ed era in suo possesso, fu assai deplorata e derisa da quegli ottimisti che identificano la luce con la facilità. Ma da essa derivò quel fremito di sfida e quel seducente pericolo che fece sì che la buona novella sembrasse davvero buona e novella. Era la rivolta - e una così oscura rivolta — contro una enorme e inconscia usurpazione. L’Olimpo ancora occupava il cielo come una nube immota foggiata in forme imponenti e molteplici; la filosofia era assisa ancora in alti luoghi, e perfino sui troni dei re, quando Cristo nacque in una caverna e il Cristianesimo nelle catacombe. In entrambi i casi è notevole lo stesso paradosso rivoluzionario, il senso di qualche cosa disprezzata e insieme temuta. La caverna, per un verso, non è che una buca, o un angolo, in cui i reietti sono buttati come spazzatura; per un altro verso è un nascondiglio di qualche cosa di prezioso che i tiranni cercano come un tesoro. Per un verso, essi sono lì perché il locandiere non si è nemmeno curato di loro; per un altro sono lì perché il re non può disinteressarsene. Abbiamo già notato che lo stesso paradosso appare nel trattamento fatto alla Chiesa primitiva. Era importante quando era ancora insignificante e quando, certo, era ancora impotente. Importante unicamente perché era intollerabile; e in questo senso è vero che era intollerabile perché era intollerante. Si risentiva, perché aveva lanciato una sua tranquilla e quasi segreta dichiarazione di guerra. Era sorta dalle viscere della terra per abbattere il paganesimo in cielo e in terra. Non tentò di distruggere tutta quella creazione di oro e marmo, ma guardò il mondo prescindendo da essa. Osò guardare diritto, come se l’oro e il marmo fossero vetro. Coloro che accusarono il Cristianesimo di aver dato fuoco a Roma con delle torcie erano assassini; ma erano più vicini alla vera natura del Cristianesimo che non certi 232

moderni i quali ci dicono che i cristiani erano una specie di società etica; che si facevano languidamente martirizzare per annunciare agli uomini che c’erano dei doveri verso il prossimo; e che la loro ostilità era blanda perché erano umili e mansueti. Erode ebbe quindi il suo posto nel dramma miracoloso di Betlemme, perché egli costituisce la minaccia alla Chiesa militante e la fa vedere sin da principio come sotto la persecuzione e nella necessità di combattere per la sua vita. Per coloro che la considerano una discordanza, è una discordanza che suona con le campane di Natale. Per coloro che credono che l’idea di una crociata sia un’idea che sciupi l’idea della Croce, non c’è da dire se non che per essi l’idea della Croce è già sciupata: è sciupata letteralmente fin dalla culla. Non è qui il caso di discutere in astratto sull’etica del combattere; lo scopo qui è semplicemente riassumere l’insieme delle idee che formano l’idea cattolica e cristiana, e notare che esse sono tutte già cristallizzate nella prima leggenda di Natale. Esse sono tre cose distinte e comunemente contrastanti, che, tuttavia, rappresentano una cosa sola; ma questa è l’unica cosa che può fare di esse una cosa sola. La prima è l’umana aspirazione ad un cielo che sia letterale e locale come una casa. È l’idea perseguita da tutti i poeti e dai costruttori di miti pagani: che un luogo particolare deve essere il tempio del Dio o la dimora dei beati; che la terra incantata dev’essere una terra; o che il ritorno dello spirito deve essere la resurrezione del corpo. Qui non parlerò della incapacità del razionalismo a soddisfare tali esigenze. Dico solo che se i razionalisti non possono soddisfarle, i pagani non potranno essere soddisfatti. Questo è presente nella storia di Betlemme e di Gerusalemme come è presente nella storia di Deio e di Delfi; mentre non è presente in tutto l’universo di Lucrezio o di Herbert Spencer. Il secondo elemento è una 233

filosofìa più larga delle altre filosofie, più larga di quella di Lucrezio e infinitamente più larga di quella di Herbert Spencer. Essa guarda il mondo da cento finestre dove l’antico stoico e il moderno agnostico lo guardano da una sola. Vede la vita con mille occhi appartenenti a migliaia di persone diverse, mentre l’altro è solo il punto di vista individuale di uno stoico o di un agnostico. Ha qualche cosa da dire e da dare ad ogni sorta di uomini, comprende i segreti della psicologia, è consapevole delle profondità del male, è capace di distinguere tra reali e irreali meraviglie e miracolose eccezioni, tien conto dei casi diffìcili; e tutto ciò con una molteplicità e una sottigliezza e un’immaginativa, secondo la varietà della vita, che è molto al di sopra delle nude e ventose generalità di quasi tutta la filosofia morale antica e moderna. In una parola, in essa c’è più roba; essa trova nell’esistenza più materia di meditazione; trae più risorse dalla vita. Molte considerazioni di questo tipo sulla varietà della nostra vita sono apparse dai tempi di san Tommaso d’Aquino. Ma lo stesso san Tommaso d’Aquino non avrebbe avuto sufficiente respiro nel mondo di Confucio o di Comte. E il terzo punto è questo: che, nel mentre c’è abbastanza carattere locale per i poeti, e c’è più larghezza che in ogni altra filosofìa, il Cristianesimo è anche una sfida e un combattimento. Mentre è deliberatamente esteso fino ad abbracciare ogni aspetto della verità, è ancora rigidamente schierato contro ogni sorta di errore. Convince ogni sorta di uomini a combattere per lui, porta nel combattimento ogni sorta di armi, allarga la sua conoscenza delle cose pro e contro le quali si combatte con tutte le arti della curiosità e della simpatia; ma non dimentica mai che sta combattendo. Proclama la pace in terra, ma giammai dimentica perché ci fu guerra in cielo. Questa è la trinità dei tre veraci simboli rappresentati dai tre tipi della vecchia leggenda di Natale: i pastori, i re, e 234

l’altro re che guerreggiava contro i bambini. E’ semplicemente falso dire che le altre religioni e filosofie sono per tale aspetto sue rivali. È falso dire che alcuna di esse riunisce in sé questi caratteri; è falso che alcuna di esse pretenda di riunirli. Il Buddismo può professare d’essere egualmente mistico, ma non ha mai preteso di essere egualmente militare. L’Islam può professare di essere egualmente militare, ma non professa di essere egualmente metafìsico e sottile. Il confucianesimo può professare di soddisfare l’aspirazione dei filosofi all’ordine e alla ragione; ma non ha mai professato di attuare l’aspirazione dei mistici al miracolo e al sacramento e, insieme, la conservazione di cose concrete. Ci sono molte prove di questa presenza di uno spirito a un tempo universale e unico. Una sola rileviamone, che è come il simbolo del soggetto di questo capitolo: che nessuna altra storia, o leggenda pagana o aneddoto filosofico o evento storico, produce di fatto in noi quella peculiare acuta impressione che ci produce la parola Betlemme. Non c’è nascita di altro dio, o infanzia di sapiente, che sembri a noi il Natale, o alcunché di simile al Natale. È sempre troppo frigida o poco seria, o troppo formale e classica, o troppo semplice e selvaggia, o troppo occulta e complicata. Nessuno di noi, qualunque sia la sua opinione, considererebbe tali eventi come feste di famiglia. Potrebbe ammirarli perché poetici o filosofici, o per altri innumerevoli motivi estranei, non perché li sentisse per se stessi. La verità è che c’è un carattere strettamente individuale e particolare nella presa che questa storia ha sulla natura umana; carattere che non è dato dalla sua sostanza psicologica, come una mera leggenda o come la vita di un grande uomo. Essa non solleva la nostra mente alla grandezza nel senso ordinario; non la solleva a quelle estensioni ed esagerazioni di umanità di cui son fatti gli dei e gli eroi, anche nella specie più normale di culto eroico. Non 235

si può neanche dire che ci trasporti verso meraviglie immaginabili ai confini della terra. È piuttosto qualche cosa che ci sorprende dal di dentro, dalla parte nascosta e personale del nostro essere, come quel che può coglierci all’improvviso nel pathos delle cose da nulla o nella cieca pietà per i poveri. È piuttosto come se uno avesse trovato nel cuore della propria casa una stanza di cui non aveva mai sospettato l’esistenza, e visto una luce emanare dall’interno. È come se avesse trovato qualche cosa in fondo al suo cuore che lo inducesse al bene: una cosa non fatta di quelle che il mondo chiama forze, ma fatta piuttosto di quell’alata leggerezza, la cui forza passa e ci sfiora. Quella che non è in noi se non una breve tenerezza qui diventa eterna; quel che non significa se non un momento di dolce abbandono diventa un ristoro e un riposo; il discorso interrotto e la parola smarrita qui diventano positivi e afferrabili, mentre gli strani re dileguano in lontane contrade, e le montagne non risuonano più del passo dei pastori; e soltanto la notte e la caverna giacciono fonde nel profondo, su qualche cosa di più umano della umanità. 1. Erode, detto il Grande, era idumeo per parte di padre, l’amministratore della Giudea Erode Antipatro.

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Capitolo II Gli enigmi del Vangelo PER COMPRENDERE IL SENSO di questo capitolo, è neccessario riferirsi al carattere del libro. L’argomento che vuol essere la spina dorsale di questo libro è del genere che si dice reductio ad absurdum. Esso mira a dimostrare che i risultati di chi parte da una tesi razionalista sono più irrazionali dei nostri: ma per provare questo dobbiamo prendere come punto di partenza tale tesi. Così, nella prima parte, spesso ho trattato dell’uomo come se fosse un animale, per mostrare che l’effetto era più impossibile che se ne avessi parlato come di un angelo. Nello stesso senso in cui era necessario considerare l’uomo puramente come un animale, è necessario considerare Cristo puramente come uomo. Io devo sospendere le mie stesse convinzioni, che sono molto più positive, e accettare questa limitazione, non fosse altro per eliminarla. Devo cercar d’immaginare che cosa accadrebbe a chi davvero leggesse la storia di Cristo come la storia di un uomo, e di un uomo di cui non avesse mai udito parlare prima. E voglio subito rilevare che una lettura realmente imparziale condurrebbe, se non immediatamente alla fede, almeno ad uno stato di perplessità che non ammetterebbe altra soluzione che la fede. In questo capitolo, per questa ragione, non porterò nulla dello spirito del mio credo: escluderò perfino lo stile che riterrei adatto per parlare in prima persona. Parlerò 237

come un pagano immaginario, onestamente sbalordito per la prima volta davanti al Vangelo. Ora, non è punto facile giudicare il Nuovo Testamento come un Testamento nuovo. Non è facile pensare la buona novella come qualche cosa di nuovo. Il sentir sempre parlare di una cosa ci riempie di prevenzioni e di associazioni d’idee, tanto in bene che in male; e nessun uomo della nostra civiltà, comunque la pensi intorno alla nostra religione, può realmente leggere il Vangelo come una cosa totalmente ignorata. Certo, è in ogni caso perfettamente antistorico parlare del Nuovo Testamento come di un libro ben rilegato, piovutoci dal cielo, e non di una selezione fatta dalle autorità della Chiesa nel blocco della primitiva letteratura cristiana. Ma, a parte ciò, c’è una difficoltà psicologica a concepire come nuovo il Nuovo Testamento. C’è una difficoltà psicologica a considerare quelle conosciutissime parole semplicemente per quello che sono, senza andare al di là di quanto intrinsecamente dicono. E questa difficoltà deve essere davvero grandissima, perché dà luogo a risultati molto curiosi. Avviene, infatti, che la più parte dei critici moderni, e della critica corrente, anche di quella popolare, arrivano a dimostrare esattamente il rovescio della verità; tanto il rovescio della verità che uno potrebbe quasi sospettare che questi critici non abbiano mai letto il Nuovo Testamento. Abbiamo sentito dire cento volte, poiché non si stancano di ripetercelo, che il Gesù del Nuovo Testamento ha in realtà un più pietoso e umano amore della umanità, ma che la Chiesa ha nascosto questo suo carattere umano in dogmi repellenti e circondato di ecclesiastici terrori finché ne è venuto fuori un carattere inumano. Questo è, oso ripetere, quasi il rovescio della verità. La verità è che la immagine di Cristo nelle chiese è quasi interamente mite e caritatevole; mentre l’immagine di Cristo nei Vangeli è 238

questo, ma è mille altre cose ancora. Il Cristo del Vangelo esprime realmente, in parole di una bellezza che spezza il cuore, la sua pietà per i nostri cuori spezzati. Ma queste parole sono lungi dall’essere le sole parole che Egli pronuncia. Eppure son quasi le uniche parole che la Chiesa, nel rappresentarcelo, Gli attribuisce. Questa rappresentazione popolare è ispirata da un perfetto e sano istinto popolare. La massa dei poveri è avvilita, e la massa del popolo è povera, e per la massa dell’umanità l’importante è riportare la convinzione dell’incredibile compassione di Dio. Nessuno, che tenga gli occhi aperti, può mettere in dubbio che una tale idea di compassione sia quella che, nella sua rappresentazione fatta per il popolo, la Chiesa tende a dare. L’immaginazione popolare spinge fino all’eccesso il sentimento del «Buon Gesù, mite e dolce». E’ la prima cosa che l’ultimo arrivato sente e critica in una Pietà o in un altare del Sacro Cuore. Ripeto, l’arte può essere insufficiente, ma l’istinto non credo che sia sbagliato. In ogni caso, c’è qualche cosa di pauroso, qualche cosa che agghiaccia il sangue nelle vene, nell’idea di una statua di Cristo irato. C’è qualcosa d’insopportabile anche all’immaginazione, nell’idea di voltare l’angelo di una strada o arrivare nella piazza del mercato e imbattersi nella pietrificante pietrificazione di quella figura rivolta ad una generazione di vipere, o di quella faccia fìssa sulla faccia di un ipocrita. La Chiesa può essere quindi ragionevolmente giustificata se volge verso gli uomini il più misericordioso dei volti; ma è certo che quello è il volto più misericordioso. E l’importante è qui che quel volto è più specialmente ed esclusivamente misericordioso di qualunque impressione che uno potrebbe formarsene leggendo per la prima volta il Nuovo Testamento. Uno che prendesse semplicemente le parole per quel che valgono, si formerebbe tutt’altra impressione, un’impressione piena di mistero e forse 239

d’incoerenza; ma certo non soltanto un’impressione di dolcezza. Sarebbe un’impressione interessante in sommo grado; anche per il fatto che lascerebbe molte cose da indovinare o da spiegare: gesti improvvisi evidentemente pieni di significato, ma che noi non comprendiamo cosa significhino; silenzi enigmatici; risposte ironiche. Gli scoppi della collera, come uragani sopra la nostra atmosfera, non sembra esplodano esattamente dove noi ce li aspetteremmo; ma seguire un qualche più alto bollettino meteorologico. Il Pietro che l’insegnamento popolare della Chiesa presenta è precisamente il Pietro al quale Cristo diceva perdonando: «Pasci i miei agnelli»; non è il Pietro a cui Cristo si volge, come fosse il diavolo in persona, gridando nell’oscura collera: «Allontanati da me, Satana». Cristo piangeva di pietà e di amore sopra Gerusalemme che doveva trucidarlo. Noi non sappiamo quale strana atmosfera o introspezione spirituale lo condusse a sprofondare Betsaida nell’abisso, più giù di Sodoma. Prescindo per il momento da ogni questione di deduzioni o spiegazioni dottrinali, più o meno ortodosse; semplicemente m’immagino quale effetto avrebbe sulla mente d’un uomo il fare realmente come dicono di fare questi critici: leggere, cioè, il Nuovo Testamento senza alcun riferimento all’ortodossia né alla dottrina. Chi ciò facesse troverebbe molte cose che collimano assai meno con la corrente non ortodossa che con quella ortodossa; troverebbe, per esempio, che se ci sono delle descrizioni, che meritano di essere chiamate realistiche, sono precisamente le descrizioni del soprannaturale. Se c’è un aspetto, nel Nuovo Testamento, in cui si può dire che Gesù appare soprattutto una persona pratica, è quando si presenta in veste di esorcista. Qui nulla di mite è dolce, nulla, neanche, di mistico (come s’intende ordinariamente) nel tono della voce che grida: «Taci ed esci fuori da lui». È più simile al tono di 240

uno sbrigativo domatore di leoni, o di un medico energico che abbia da combattere con un maniaco omicida. Ma questa è solamente una considerazione laterale per amore di chiarezza; io non intendo sollevare delle controversie, ma prendere semplicemente il caso di un immaginario abitante della luna, al quale il Nuovo Testamento riuscisse nuovo. Ora, la prima cosa da notare è che se prendiamo questa storia unicamente come umana, è per molti versi una assai strana storia. E non mi riferisco qui al suo culminare tremendo e tragico, o ad alcun elemento che ne presupponga il trionfo; non mi riferisco a quello che comunemente chiamasi l’elemento miracoloso, poiché su tale punto le filosofie variano, e la filosofia moderna è decisamente ondeggiante. Veramente l’inglese istruito di oggigiorno si può dire che sia passato da una vecchia moda per cui non credeva ai miracoli, se non erano antichi, ad una nuova moda per cui non crede ai miracoli, se non sono moderni. Prima usava dire che i miracoli finivano coi primi cristiani; ora è inclinato a sospettare che comincino coi primi scientisti cristiani. Ma io mi riferisco qui più specialmente alle parti non miracolose, e anche non avvertite e secondarie, del racconto evangelico. Ci son molte cose che nessuno può avere inventato perché nessuno avrebbe avuto interesse a servirsene: cose che se fossero state notate, sarebbero rimaste dei rebus. Per esempio, c’è quel lungo tratto di silenzio nella vita di Cristo che dura sino ai trenta anni. Di tutti i silenzi è il più immenso e impressionante. Ma non è una di quelle cose che a qualcuno può venire in mente di inventare per provare qualche cosa; e nessuno, ch’io sappia, ha mai cercato di trarne qualche illazione particolare. E’ impressionante, ma impressionante solo come fatto; non ha nulla di particolarmente popolare o accessibile come avventura. L’ordinaria tendenza all’eroico e al mitico si sforzerebbe, se mai, di dire il contrario. 241

Probabilmente direbbe (come credo faccia qualcuno dei vangeli ripudiati come apocrifi dalla Chiesa) che Gesù mostrò una divina precocità e cominciò la sua missione ad una età miracolosamente giovane. C’è in verità qualche cosa di strano nel pensiero che Colui il quale, fra gli uomini, aveva bisogno di meno preparazione, sembra averne avuta più di tutti. Non voglio indagare se fosse una manifestazione di umiltà divina, o una qualche verità di cui intravvediamo l’ombra nella prolungata tutela domestica delle più alte creature della terra; semplicemente ne faccio menzione come di un esempio di quella specie di cose che in ogni caso si prestano alla speculazione, anche a prescindere dalle speculazioni religiose vere e proprie. Ora, tutta la storia di Cristo è piena di cose siffatte. Non è ad ogni modo, come viene seccamente presentata per le stampe, una storia di cui sia facile penetrare al fondo. È tutto fuorché ciò che questa gente gabella per il semplice Vangelo. Relativamente parlando, è il Vangelo che è mistico e la Chiesa che è razionalista. Io naturalmente porrei la questione in un altro modo: direi che il Vangelo è l’enigma e la Chiesa la spiegazione. Ma qualunque sia la spiegazione, il Vangelo, così come è, è press’a poco un libro di enigmi. Primo, uno che legga i detti del Vangelo, non vi troverà luoghi comuni. Chi abbia letto, anche nello spirito più rispettoso, i filosofi antichi e i moralisti moderni, può valutare la straordinaria importanza dell’affermare che nel Vangelo non si trovano luoghi comuni. E’ più di quanto possa dirsi persino di Platone. Assai più di quanto possa dirsi di Epitteto, o di Seneca, o di Marco Aurelio, o di Apollonio di Tyana. Ed è immensamente più di quanto possa dirsi della maggior parte dei moralisti agnostici e dei predicatori delle società etiche con i loro canti rituali e con la loro religione di fraternità. La moralità dei moralisti antichi e moderni, è stata, per lo più, nient’altro che un 242

immenso torrente di piatte banalità. Tale non sarebbe certo l’impressione del lettore immaginario e indipendente che studiasse il Nuovo Testamento. Egli non troverebbe niente di simile a quei luoghi comuni, niente di così monotono come quel torrente inesauribile. Troverebbe strane pretese, come quella che il sole e la luna ci siano fratelli, e molte sorprendenti considerazioni e consigli; molti rimproveri roboanti; molte storie stranamente belle. Vedrebbe gigantesche metafore circa l’impossibilità di infilare un ago con un cammello o la possibilità di rovesciare una montagna in mare. Vedrebbe tante audaci semplificazioni delle difficoltà della vita: il consiglio di splendere su tutti indifferentemente come fa il sole, o di non impensierirsi del futuro come fanno gli uccelli. Troverebbe, d’altra parte, alcuni passi di quasi impenetrabile oscurità, per quanto possa interessare, come la morale della parabola dell’ingiusto fattore. Alcune di queste cose lo colpirebbero come favole, altre come verità; ma nessuna come frase fatta. Per esempio, egli non troverebbe la solita frase in favore della pace. Troverebbe diversi paradossi in favore della pace. Troverebbe degli ideali di non-resistenza, che, presi alla lettera, parrebbero fin troppo pacifisti a qualunque pacifista. C’è un luogo in cui - a prender le parole alla lettera - gli si direbbe di trattare un ladro non con resistenza passiva, sibbene con incoraggiamento positivo ed entusiastico; coprendo di regali l’uomo che ha rubato. Ma non si troverebbe nessuna delle parole piene di retorica contro la guerra, che han riempito innumerevoli libri, odi e orazioni; non una parola sulla malvagità della guerra, le rovine della guerra, il bilancio spaventoso della carneficina in guerra, e tutto il resto della frenesia consueta; anzi, addirittura, non una parola sulla guerra. Nulla getta qualche luce sull’atteggiamento di Cristo nei riguardi della guerra organizzata, salvo che sembra sia stato piuttosto propenso 243

per i soldati romani. Davvero è un’altra ragione di perplessità, sempre da un punto di vista esteriore e umano, il fatto che egli sembra si trovasse meglio con i romani che con i giudei. Tutta la questione qui è in un certo tono, che si può apprezzare soltanto leggendo un certo testo; e di ciò potrebbero darsi infiniti esempi. L’affermazione che gli umili erediteranno la terra è assai lontana dall’essere un’affermazione d’umiltà. Intendo dire che non è umile nel senso di mite, moderata e inoffensiva. Per giustificarla, converrebbe approfondire la storia e anticipare eventi che allora non si sognavano nemmeno, e di cui ancora molti non si rendono conto; tale ad esempio il modo in cui i monaci mistici rivendicavano le terre che i re pratici avevano perduto. Se era verità, era tale perché era profezia. Non era certo una verità nel senso lapalissiano. Benedire gli umili sarebbe sembrata un’affermazione violenta, come un voler fare violenza alla ragione e alla probabilità. E questo ci conduce ad un altro punto importante della nostra indagine. Come profezia si avverò realmente; soltanto si avverò molte tempo dopo. I monasteri furono le aziende più pratiche e i più prosperi esperimenti di ricostruzione dopo il diluvio barbarico; gli umili ereditarono davvero la terra. Ma allora nessuno avrebbe potuto prevedere un fatto simile, se non uno che avesse saputo. Qualche cosa di simile potrebbe dirsi dell’episodio di Marta e di Maria; che è stato interpretato retro e introspettivamente dai mistici della vita cristiana contemplativa. Ma non era facile interpretarlo, qualunque cosa abbiano potuto credere moli moralisti, antichi e moderni. Quali torrenti di comoda eloquenza sarebbero corsi per dimostrare qualche lieve superiorità in Marta; quali splendidi sermoni sulla gioia del servire e il vangelo del lavoro e il mondo-lasciato-migliore-di-comel’abbiamo-trovato, e in generale tutte le diecimila 244

sciocchezze che possono esser dette in favore di chi si prende la fatica di fare, da parte di gente che non fa fatica a dirle. Se in Maria il mistico fanciullo Gesù serbava il seme di qualche cosa di più sottile, chi poteva allora comprenderlo? Nessuno poteva ancora aver visto Chiara e Caterina e Teresa risplendere sopra il piccolo tetto di Betania. Così, altrove, la magnifica minaccia di portare nel mondo una spada per separare e dividere. Nessuno poteva allora indovinare né come avrebbe potuto compiersi, né come avrebbe potuto giustificarsi. Tanto che ci sono ancora dei liberi pensatori così ingenui che cadono nella trappola, e rimangono scossi da una frase così deliberatamente audace. Essi in realtà deplorano che il paradosso non sia un luogo comune. Ma la questione è qui che se noi potessimo leggere le cronache del Vangelo come leggiamo le cronache dei giornali, ne rimarremmo stupiti e forse terrificati assai più che dai successivi eventi del Cristianesimo storico. Per esempio: Cristo, dopo una chiara allusione agli eunuchi delle corti orientali, disse che ci sarebbero degli eunuchi anche nel regno dei cieli. Se ciò non significa il volontario entusiasmo della verginità, parrebbe non potesse significare se non qualche cosa di più innaturale o stravagante. E’ la religione storica, che umanizza per noi questa idea con l’esperienza di san Francesco e delle Suore della Carità. L’affermazione pura e semplice poteva benissimo suggerire un’atmosfera disumanizzata: il sinistro e inumano silenzio dell’harem e del divano asiatico. Questo non è che un esempio tra i tanti; ma la conclusione è che il Cristo del Vangelo può effettivamente sembrare più strano e terribile del Cristo della Chiesa. Mi soffermo sull’oscuro o abbagliante o provocante o misterioso lato delle parole evangeliche, non perché esse non abbiano un significato popolare ed evidente, ma perché questa è la confutazione di una critica comune su 245

un punto essenziale. Il libero pensatore ripete che il Gesù di Nazaret era un uomo del suo tempo, che anzi precedeva il suo tempo; e che noi non possiamo accettare la sua etica come definitiva per l’umanità. Il libero pensatore séguita a criticare tale etica con ragioni abbastanza plausibili, dicendo che gli uomini non possono porgere l’altra guancia, o che devono pensare al domani, o che la negazione di sé è troppo ascetica e la monogamia troppo severa. Ma gli zelanti del giudaismo e i legionari di Roma non erano, più di noi, disposti a porgere l’altra guancia. I commercianti ebrei e gli esattori romani pensavano al domani, come noi, e forse più. Non possiamo pretendere di abbandonare la morale del passato per un’altra più adatta al presente. La verità è che non è la morale di un’altra epoca, ma piuttosto di un altro mondo. In breve, possiamo dire che tali ideali sono impossibili per se stessi. Quel che, a rigor di termini, non possiamo dire è che siano impossibili per noi. Sono piuttosto notevolmente impregnati di un misticismo che, se fosse una specie di pazzia, non avrebbe potuto colpire che degli altri pazzi. Prendete, ad esempio, il caso del matrimonio e dei rapporti fra i sessi. Parrebbe verosimile che un maestro della Galilea avesse insegnato cose naturali ad un ambiente galileo; ma non è così. Razionalmente, sarebbe da attendersi che un uomo del tempo di Tiberio avesse espresso opinioni conformi al tempo di Tiberio, ma Egli non lo fece. Quelle che espresse erano ben differenti, erano qualche cosa di molto più difficile, ma non più difficile oggi di quanto fosse allora. Quando, per esempio, Maometto fece il suo compromesso poligamico, noi possiamo ragionevolmente dire che si riferiva a una società dove la poligamia era un costume. Quando permise a un uomo di avere quattro mogli, egli fece qualche cosa di realmente adatto alle circostanze e che non sarebbe stato adatto in altre 246

circostanze. Nessuno pretenderà che le quattro mogli fossero come i quattro venti, qualche cosa di partecipante all’ordine di natura; nessuno neppure dirà che il numero quattro era scritto per sempre nella volta del cielo. Ma nessuno neppure dirà che il numero quattro è un ideale inconcepibile, o che è al di là del potere della mente umana contare fino a quattro; o contare il numero delle proprie mogli e vedere se sono quattro. E’ un compromesso pratico che reca impresso il carattere di una data società. Se Maometto fosse nato ad Acton nel diciannovesimo secolo, chissà se avrebbe subito popolato il suburbio di harem con quattro mogli a testa. Poiché nacque in Arabia nel sesto secolo, egli seguì nei suoi statuti matrimoniali i costumi dell’Arabia del sesto secolo. Ma Cristo, a proposito del matrimonio, non si riferisce alle condizioni e agli usi della Palestina del primo secolo. Non subisce alcuna influenza, non suggerisce niente, salvo il concetto sacramentale del matrimonio, sviluppatosi più tardi per mezzo della Chiesa cattolica. Era cosa tanto diffìcile allora quanto è oggi. Era più sorprendente allora che non sia oggi. Ebrei e romani e greci non credevano (e nemmeno capivano abbastanza per non credere) che l’uomo e la donna potessero misticamente diventare una sola sostanza sacramentale. Noi possiamo ritenerlo un ideale incredibile o impossibile, ma non lo possiamo ritenere più incredibile o impossibile di come l’avrebbero creduto loro. In altre parole, tutto può essere vero, ma non che la controversia si sia modificata col tempo. Tutto può essere vero ma è assolutamente falso che le idee di Gesù di Nazaret fossero conformi al suo tempo, e non al nostro. Quanto fossero conformi al suo tempo, si può forse capirlo dal modo in cui la storia finì. La stessa verità potrebbe essere dimostrata per altra via: cioè che, anche considerando il racconto del Vangelo come puramente umano e storico, sarebbe tuttavia 247

straordinario osservare quanto poco ci sia nelle parole di Cristo che lo riallacci al suo tempo. E non parlo dei particolari, che anche un uomo di un dato tempo riconosce come precari; intendo le cose fondamentali che anche l’uomo più sapiente spesso presume essere eterne. Ad esempio, Aristotele è stato forse il più savio e intelligente uomo che sia mai vissuto. Egli costruì su basi che sono state poi generalmente trovate razionali e solide attraverso ogni mutamento sociale e storico. Ma visse in un mondo in cui si pensava tanto naturale l’aver schiavi come l’aver bambini. E perciò egli non seppe sottrarsi ad un riconoscimento della differenza fra schiavi e uomini liberi. Cristo, come Aristotele, visse in un mondo che riteneva la schiavitù fuori di discussione. E non denunciò particolarmente la schiavitù. Ma promosse un movimento che poteva esistere in un mondo senza schiavitù. Egli non adoperò mai una frase che facesse dipendere la sua filosofìa dal permanere dell’ordine sociale in cui viveva. Parlò come uno che sapesse che tutto era effimero, comprese le cose che Aristotele pensava eterne. L’Impero romano era allora arrivato a identificarsi con l’orbis terrarum, un sinonimo per dire il mondo. Ma egli non fece mai dipendere la sua morale dall’esistenza dell’Impero romano, e nemmeno dall’esistenza del mondo: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». La verità è che quando i critici parlano di limitazioni locali del Galileo, questi non sono che casi di limitazione locale del critico. Senza dubbio egli credette in cose a cui una particolare setta di materialisti moderni non crede. Ma non erano cose peculiari al suo tempo. Sarebbe più vicino al vero dire che la negazione di esse è peculiare al nostro tempo. Sarebbe ancora più vicino al vero dire semplicemente che una certa solenne importanza sociale della minoranza miscredente è peculiare al nostro tempo. 248

Egli credette, per esempio, negli spiriti maligni o nella guarigione psichica di malattie corporali; ma non perché fosse un Galileo nato sotto Augusto. È assurdo dire che uno crede certe cose perché nato in Galilea sotto Augusto, quando le stesse cose le avrebbe credute un egiziano sotto Tutan-Khamen o un indiano sotto Gengis Khan. Ma di questa questione generale della filosofia del diabolismo e dei miracoli io tratto a lungo altrove. Basti dire che tocca ai materialisti provare l’impossibilità dei miracoli contro la testimonianza di tutta l’umanità, e non contro i pregiudizi dei provinciali della Palestina del Nord sotto i primi imperatori romani. Tocca a loro provare la presenza nei Vangeli di certi particolari pregiudizi di quei certi provinciali. E, umanamente parlando, è sorprendente vedere come essi non riescano a mettere insieme neanche un principio di prova. Lo stesso dicasi del sacramento del matrimonio. Noi potremmo non credere nei sacramenti, come possiamo non credere negli spiriti, ma è chiarissimo che Cristo credeva in questo sacramento a modo suo e non secondo alcuna corrente o moda contemporanea. Egli certamente non trasse i suoi argomenti contro il divorzio dalla legge mosaica, né dalla legge romana o dalle abitudini del popolo di Palestina. Il matrimonio dovrebbe esser parso ai suoi critici di allora esattamente come pare ai suoi critici di oggi: un dogma arbitrario e trascendentale, che non ha origini se non in quanto viene da lui. Io non mi preoccupo qui di difendere il dogma; dico che è altrettanto facile difenderlo oggi quanto era facile difenderlo allora. E’ un ideale totalmente fuori dal tempo; difficile in ogni tempo, impossibile in nessun tempo. In altre parole: se qualcuno dicesse che è quanto potrebbe aspettarsi da un uomo che cammini in quel dato posto a quel dato tempo, potremmo rispondere che è più simile alla misteriosa espressione di un 249

essere al di fuori dell’umanità, che cammini vivo tra gli uomini. Insisto quindi nel dire che chi leggesse il Nuovo Testamento con mente libera e fresca, non ne avrebbe l’impressione di quel che oggi spesso s’intende per un Cristo umano. Il Cristo semplicemente umano è una figura di comodo, un tipo selezionato artificialmente, come l’uomo degli evoluzionisti. D’altronde, troppi di questi cristi umani son stati tratti fuori da uno stesso Vangelo, come si sono trovate troppe chiavi per la mitologia nelle stesse leggende. Tre o quattro scuole separate di razionalismo hanno lavorato sullo stesso terreno e ne hanno ricavato tre o quattro spiegazioni egualmente razionali della sua vita. La prima spiegazione razionale è che egli non è mai esistito. E questa a sua volta diede luogo ad altre tre o quattro spiegazioni diverse: che fosse un mito del sole o del grano, o qualche altra specie di mito (che è anche una monomania). Poi all’idea che fosse un essere divino che non esiste subentrò l’idea che fosse un essere umano che esisteva. Una volta - ricordo - era di moda dire che fu semplicemente un maestro di etica alla maniera degli Esseni, i quali, a quanto sembra, non ebbero nulla d’importante da dire che Hillel o cento altri giudei non avessero già detto; come, per esempio, che è gentile esser gentili, e che è un contributo alla purezza essere puri. Ci fu anche chi disse che egli era un invasato di illusione messianica. Altri dissero che era veramente il fondatore di una scuola originale che non si occupava se non di socialismo, o (secondo altri) di pacifismo. Poi, con aria più austeramente scientifica, vennero fuori a dire che Gesù non aveva importanza altro che per le sue profezie sulla fine del mondo. Era importante come un millenarista (tipo dottor Cumming1) e aveva sparso il terrore nelle provincie annunciando la data precisa del giudizio finale. Fra altre varianti sullo stesso tema, c’era la teoria che egli 250

fosse un medico spirituale e niente più; opinione, questa, accettata dalla Scienza Cristiana, che infatti predica un Cristianesimo senza crocifissione, per poter spiegare la guarigione della madre della moglie di Pietro o della figlia del centurione. Un’altra teoria si concentra interamente sull’affare del demonismo e di quel che essa chiamerebbe superstizione contemporanea sui demoniaci, come se Cristo, come un giovane diacono che prende i suoi primi ordini, fosse arrivato sino all’esorcismo e basta. Ora, ognuna di questo spiegazioni in se stessa sembra a me singolarmente inadeguata; ma, prese insieme, esse mi fanno intravedere qualche barlume dello stesso mistero che non riescono ad afferrare. Ci deve essere stato sicuramente qualche cosa non soltanto di misterioso ma di poliedrico nella figura di Cristo, se tanti più piccoli cristi vi possono essere intagliati. Se allo scientista cristiano è bastato farne un medico spirituale e al socialista cristiano un riformatore sociale, tanto che nemmeno si aspettano che possa essere qualche cos’altro, vuol dire che realmente copriva più terreno di quanto essi immaginassero. E si potrebbe senz’altro dedurne che dev’esserci più di quanto non si figurino in questi altri misteriosi attributi del cacciare i demoni o del profetizzare il Giudizio. Soprattutto, il nostro spregiudicato lettore del Nuovo Testamento non inciamperebbe in qualche cosa capace di farlo sobbalzare più di quanto faccia sobbalzare noi? Qui mi sono assunto più volte il compito quasi impossibile di capovolgere il tempo e il metodo storico; e di guardare con la fantasia direttamente nei fatti invece di risalire indietro attraverso le memorie. Così ho immaginato qual razza di mostro l’uomo sarebbe sembrato da principio, in mezzo alla natura circostante. Sarebbe anche più sorprendente immaginare l’effetto prodotto del sentir parlare per la prima volta della natura divina di Cristo. Che proveremmo al 251

primo bisbiglio di quel genere sul conto di qualcuno? Certo, noi non sapremmo biasimare chi trovasse quei primi sussurri semplicemente empi e insani. Al contrario, inciampare in quella pietra dello scandalo è il primo passo. L’intera e ferma incredulità è un assai più leale tributo alla verità che non una metafisica modernista che la mettesse fuori a piccole dosi. Meglio stracciarsi le vesti con un gran grido contro la bestemmia, come Caifa nel giudizio, o prender quell’uomo per un maniaco posseduto dai demoni, come il parentado e la folla, piuttosto che stupidamente restare a discutere su vaghe ombre di panteismo in presenza di una pretesa così catastrofica. Ci sarebbe più saggezza nella sorpresa di una persona semplice, ma piena di quella sensibilità che è propria dei semplici, la quale si aspettasse di veder l’erba seccarsi e gli uccelli cadere morti per l’aria, sentendo il garzone di un legnaiuolo girovago dire con la massima calma e quasi con indifferenza: «Da prima che Abramo fosse, Io Sono». 1. Il ministro anglicano John Cumming (1807-1881) trasse le sue profezie sulla imminente fine del mondo dall’analisi, non sempre corretta, delle Sacre Scritture.

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Capitolo III La più strana storia del mondo NELL’ULTIMO CAPITOLO ho deliberatamente portato all’eccesso quello che sembra essere oggi un lato trascurato della storia del nuovo testamento, ma nessuno vorrà supporre, spero, che io abbia inteso oscurare con ciò quell’altro lato che si può giustamente chiamare umano. Che Cristo fosse e sia il più misericordioso dei giudici e il più simpatico degli amici, è un fatto molto più interessante nella nostra vita privata che in qualsiasi speculazione storica. Ma lo scopo di questo libro è rilevare come qualche cosa di unico sia stato affogato in generalizzazioni dozzinali; e a questo scopo è opportuno insistere sul fatto che quel che c’era di più universale era anche più originale. Per esempio, noi possiamo prendere un soggetto che vada perfettamente d’accordo col modo di sentire moderno (lasciando da parte le vocazioni ascetiche a cui recentemente ci riferivamo). L’esaltazione dell’infanzia è qualche cosa che ora si capisce pienamente, ma che allora non era affatto compresa in questo senso. Se ci occorresse un esempio della originalità del vangelo, avremmo potuto difficilmente trovarne uno più calzante e sorprendente. Quasi duemila anni più tardi, ci càpita di trovarci in un mondo che realmente sente il mistico incanto del bambino, quale noi lo esprimiamo in canzoni e racconti sulla fanciullezza, in Peter Pan o nel Giardino poetico del fanciullo. E possiamo ripetere le parole di Cristo 253

con Swinburne, il rabbioso anticristiano: Niun segno mai fu dato a occhi fedeli o infedeli che mostrasse oltre le nubi squarciate un così chiaro paradiso. Fossero i credi settanta volte sette e avesse il sangue macchiato ogni credo, se tale è il regno dei cieli dev’essere il cielo davvero.

Ma quel paradiso non fu chiaro, finche il Cristianesimo gradualmente non lo scoprì. Il mondo pagano, come tale, non avrebbe mai preso sul serio l’idea che il bambino è una cosa più alta e più sacra dell’uomo. Sarebbe parso come dire che un girino è più alto o più sacro di un ranocchio. Ad una mentalità puramente razionalista, suonerebbe come dire che un bocciuolo deve essere più bello di un fiore, o un pomo acerbo migliore di uno maturo. In altre parole, questo sentimento moderno è un sentimento interamente mistico. Mistico come il culto della verginità; e infatti non è che il culto della verginità. Ma l’antichità pagana percepiva meglio l’idea della santità della vergine che della santità del bambino. Per varie ragioni siamo giunti oggi a venerare i bambini: forse un poco perché sentiamo di invidiare i fanciulli che fanno ancora quello che una volta facevano gli uomini, come amare i giuochi semplici e gustare le novelle delle fate. Al di sopra e al di là di questo, c’è ad ogni modo molta vera e sottile psicologia nella nostra valutazione dell’infanzia, ma se noi vogliamo considerarla come una scoperta moderna, dobbiamo ammettere una volta di più che il Gesù Nazareno storico l’aveva già fatta con duemila anni di anticipo. E non c’era nulla nel mondo che lo circondava, che potesse aiutarlo in questa scoperta. Qui Cristo fu davvero umano; ma più umano di quanto possa essere un essere umano. Peter Pan non appartiene al 254

mondo di Pan, ma al mondo di Pietro. Anche dal punto di vista del puro stile letterario - se noi ci sentiamo abbastanza distaccati da poterlo considerare in tale luce - c’è un particolare curioso di cui nessun critico sembra aver tenuto il debito conto; intendo una singolare abilità di costruire torre su torre mediante l’uso dell’a fortiori; di fare una pagoda a gradini come i sette cieli. Io già ho notato quella quasi invertita visione immaginativa che dipinse l’impossibile supplizio della Città del Piano. Non c’è forse nulla di più perfetto, in tutti i linguaggi e le letterature, dell’uso di questi tre gradi nella parabola dei gigli della valle; in cui dapprima Egli sembra prendere un piccolo fiore in mano e notare la sua semplicità e anche la sua impotenza; poi improvvisamente lo espande con colori fiammeggianti in tutti i palazzi e padiglioni pieni di un gran nome nelle leggende e nella gloria nazionale; poi, con una terza giravolta, lo riduce a niente con un gesto, come gettandolo via lontano: «… e se Iddio così veste l’erba che oggi è, e domani è gettata nel forno, tanto più…». È come fabbricar una nuova Torre di Babele con la magia bianca in un momento e col movimento di una mano; una torre eretta improvvisamente verso il cielo, in cima alla quale si scorga da lungi, più alta di quanto si potesse immaginare, la figura dell’uomo; una torre innalzantesi per tre infinità sopra ogni cosa, su una scala stellata di logica lucida e di immaginazione viva. Anche soltanto come pezzo di letteratura, è il capolavoro di tutti i capolavori che si trovano nelle biblioteche; eppure sembra una cosa detta quasi senza badarvi nell’atto di cogliere un fiore. Ma, sempre in un senso meramente letterario, questo uso del comparativo in più gradi ha in sé qualche cosa di più alto che non (come vorrebbero i moderni) un semplice insegnamento di etica pastorale o comunale. Nulla c’è che riveli una mente sottile e veramente superiore, più di questa facoltà di comparare 255

una cosa più bassa con una più alta e quella più alta con una più alta ancora; di pensare su tre piani ad una volta. Nulla c’è che richieda una più rara specie di sapienza quanto il vedere, diciamo così, che il cittadino è più alto dello schiavo e che l’anima è infinitamente più alta del cittadino o della città. Non è a ogni modo una facoltà che appartenga di solito a cotesti semplificatori del Vangelo, a coloro che insistono su ciò che essi chiamano semplicemente morale e che altri chiamano morale sentimentale. E nemmeno la posseggono coloro che si contentano di dire a ognuno di starsene in pace; che anzi un esempio tipico di tale facoltà si ha nell’apparente incoerenza fra i detti di Cristo sulla pace e sulla spada. È precisamente la facoltà che dicevamo la sola capace di percepire che se una buona pace è migliore di una buona guerra, una buona guerra è migliore di una cattiva pace. Questi paragoni di lunga portata non sono in nessun luogo così frequenti come nel Vangelo, e a me suggeriscono le idee più vaste. Una cosa solitaria e solida, con in più le dimensioni della profondità e dell’altezza, potrebbe così torreggiare sulle piatte creature che vivono soltanto su un piano. Questo potere consistente in qualche cosa di sottile e di superiore, qualche cosa di aperto su immensi orizzonti e capace di doppi significati, non si nota qui solamente come un contraccolpo alle comuni esagerazioni sull’amabilità e sul mite idealismo. Deve esser notato anche in connessione con quella tremenda verità accennata alla fine del capitolo passato. La quale è comunemente l’estremo sintomo della pura megalomania, specie di quella precipitosa e vaneggiarne megalomania che può essere sottesa in una pretesa simile. Questo potere, che si potrebbe chiamare distinzione intellettuale, non è, certo, una prova di divinità. Ma è una prova dell’inevitabile disgusto per ogni volgare e vanagloriosa pretesa di divinità. Ma un uomo di 256

quella sorta, pur se fosse soltanto un uomo, sarebbe l’ultimo a cadere in una simile ubriacatura per un’idea priva di fondamento alcuno, che fa della religione in casi simili un clamoroso e deludente autoinganno. Né l’obiezione si evita col negare che Cristo abbia fatto tali vanterie. Nessun uomo, o profeta, o filosofo dell’istessa natura intellettuale, sarebbe verosimile ne avesse fatte. Anche se la Chiesa avesse frainteso il suo pensiero, sarebbe pur vero che nessun’altra tradizione storica, eccetto la Chiesa, è mai caduta nello stesso malinteso. I maomettani non fraintesero Maometto supponendolo Allah. Gli ebrei non fraintesero Mosè identificandolo con Jehova. Se solo il vanto di Cristo ebbe credito, fu perché quello solo effettivamente ci fu. Anche se il Cristianesimo fu un vasto errore universale, è sempre un errore unico come l’Incarnazione. Il proposito di queste pagine è quello di fissare la falsità di certi vaghi e volgari assunti; e ne abbiamo qui uno dei più falsi. C’è nell’aria l’idea che tutte le religioni siano eguali perché tutti i fondatori di religioni sono rivali; e tutti combattono per la stessa corona stellata. Ciò è falso. Il pretendere quella corona, o qualche cosa di simile a quella corona, è invece tanto raro da essere unico. Maometto non l’ebbe, come non l’ebbero Michea o Malachia. Confucio non l’ebbe più di Platone o di Marco Aurelio. Budda non disse mai di essere Brama. Zoroastro non proclamò di essere Ormuz oppure Arimane. La verità è proprio quella, nella generalità dei casi, che ci aspetteremmo secondo il senso comune e secondo la filosofia cristiana. E’ proprio l’opposto. Nella normalità, quanto più grande un uomo è, tanto meno egli si dà importanza. All’infuori di quest’unico caso che noi stiamo considerando, la sola specie di uomo che di solito ha quelle pretese è un piccolissimo uomo: un monomaniaco segreto ed egocentrico. Nessuno potrebbe immaginare Aristotele che proclami di essere il padre degli 257

dei e degli uomini, disceso dal cielo; tutt’al più possiamo immaginarci qualche insano imperatore romano come Caligola, che lo proclami per lui o più probabilmente per se stesso. Nessuno potrebbe immaginare Shakespeare che parlasse di sé cone di un essere divino; tutt’al più possiamo immaginare qualche mattacchione d’americano che scopra a tal proposito un criptogramma nelle opere di Shakespeare (o, meglio, nelle proprie). È possibile trovare qua e là degli esseri umani che fanno questo vanto supremamente superumano. E’ possibile trovarne nelle case di salute per gli alienati, nelle celle delle prigioni, forse nelle camicie di forza. Ma ciò che è più importante del loro materialistico destino nella nostra materialistica società, sotto leggi molto crudeli e imperfette sulla pazzia, il tipo che noi conosciamo intinto di queste ambizioni, o tendente ad esse, è un tipo malato e anormale; angusto, eppure gonfio e morbido sino alla mostruosità. E’ una disgraziata metafora che dipinge il matto come fesso; mentre in un certo senso non è fesso abbastanza. E’ contratto, rattrappito piuttosto che fesso; e non ci sono abbastanza fessure nella sua testa per ventilarla. Questa impossibilità di resistere alla luce del sole fa qualche volta coprire e nascondere tale illusione di divinità. Il che si può constatare non tra i profeti, e i saggi, e i fondatori di religioni, ma solamente in una bassa sfera di alienati. Ma qui è esattamente dove l’argomento diviene interessante; perché prova troppo. Nessuno vorrà supporre che Gesù di Nazaret fosse quel tipo di uomo. Nessun critico moderno col cervello a posto può pensare che il predicatore del Sermone della Montagna fosse un povero imbecille che passava il tempo a disegnare il cielo sulle pareti d’una cella. Nessun ateo o bestemmiatore può credere che l’autore della parabola del figliuol prodigo fosse un pazzo con una sola idea fissa, come un ciclope con un occhio solo. Al di sopra di ogni possibile critica storica egli deve esser posto più alto 258

nella scala degli esseri umani. Eppure, secondo la logica, noi dovremmo collocarlo lì, oppure nel posto più alto di tutti. In fatto, coloro i quali possono realmente considerarlo (come qui ipoteticamente facciamo) con spirito freddo e distaccato, hanno un problema umano dei più curiosi e interessanti. È così intimamente interessante, come problema umano, che io vorrei davvero, disinteressatamente, che qualcuno sapesse ricavare da quell’intricato problema umano un intelligibile ritratto umano. Se Cristo fu semplicemente un carattere umano, fu un carattere umano altamente complesso e contraddittorio. Egli combinò esattamente le due cose che stanno alle due estremità dei contrasti umani. Fu precisamente ciò che l’uomo con delle illusioni non è mai: fu saggio, fu un buon giudice. Ciò che diceva era sempre inaspettato, ma era sempre inaspettatamente magnanimo e spesso inaspettatamente moderato. Prendete, ad esempio, la parabola del grano e del loglio. Essa ha la qualità che unisce sanità e sottigliezza. Non ha il semplicismo di un pazzo. Non ha neppure la semplicità di un fanatico. Potrebbe esser pronunciata da un filosofo centenario, alla fine di un secolo di utopie. Nulla potrebbe meno avvicinarsi a cotesta facoltà di vedere intorno e al di là di tutte le cose evidenti, che la condizione di un egomaniaco con un solo punto sensibile nel cervello. Io non vedo come questi due caratteri avrebbero potuto essere persuasivamente combinati, eccetto nella guisa sorprendente in cui il credo li combina. Perché, finché non arriviamo alla piena accettazione del fatto come tale, per quanto meraviglioso, tutte le semplici approssimazioni non fanno che allontanarcene sempre più. La divinità è grande abbastanza per essere divina: è grande abbastanza per chiamarsi divina. Ma l’umanità più diventa grande, più diventa incapace di credersi divina. Dio è Dio, come dicono i musulmani; ma un 259

grand’uomo sa di non essere Dio, e più grande è, meglio lo sa. Ecco il paradosso: qualsiasi cosa si approssimi a quel punto, da quel punto recede. Socrate, l’uomo più saggio, sa di non saper niente. Un pazzo può passare di essere l’onniscienza, un idiota può parlare come se fosse onnisciente. Ma Cristo è in un altro senso onnisciente, non solo lo sa, ma sa di saperlo. Anche dal lato della pura simpatia umana, comunque, il Gesù del Nuovo Testamento mi sembra avere per molti versi la nota di qualche cosa di sovrumano, cioè di qualche cosa di umano e di più che umano. Ma c’è un’altra qualità rivelantesi in tutti i suoi insegnamenti che mi sembra trascurata per lo più dalla letteratura moderna su di essi: e cioè la persistente idea ch’egli non sia venuto in realtà ad insegnare nulla. Se c’è un episodio che personalmente mi colpisce come grandemente e gloriosamente umano, è l’episodio del vino per la festa nuziale. Il quale è realmente umano nel senso in cui un’intera folla di mascalzoni, dall’apparenza di esseri umani, non potrebbe esser detta umana. È umano come Herrick1, è democratico come Dickens. Ma anche in quel racconto c’è qualche altra cosa che ha come il marchio delle cose non pienamente spiegate: una cosa, in certo qual modo, assai rilevante. Intendo dire la prima esitazione, non sul terreno riguardante la natura del miracolo, ma su quello della proprietà di operare miracoli, almeno in quel momento della sua vita: «Il mio tempo non è ancora venuto». Che cosa intendeva dire? Certo doveva avere, almeno nella mente, un piano o un proposito generale, col quale certe cose non si accordavano. E se scartiamo quel solitario piano strategico, non soltanto scartiamo il succo del racconto, ma il racconto stesso. Spesso sentiamo parlare di Gesù di Nazaret come di un maestro girovago; e c’è una verità vitale in questa opinione, se essa vuole mettere in luce un certo 260

atteggiamento contro il lusso e contro le convenzioni, che il ceto dei ben pensanti considera precisamente come quello di un vagabondo. Del resto, questa opinione risulta dai suoi stessi detti come quello sulla tana delle volpi e sui nidi degli uccelli e, come accade con molti dei suoi detti, non se ne afferra tutta la potenza, se non si apprezza quel gran paradosso per cui egli parlava della sua umanità come di una qualità collettivamente e rappresentativamente umana: chiamando se stesso semplicemente il Figlio dell’Uomo; cioè, di fatto, chiamandosi semplicemente Uomo. E’ bene che l’Uomo Nuovo o il secondo Adamo debba ripetere con voce così risuonante e con gesto così sconcertante il gran fatto che venne primo nella storia originale: che l’uomo differisce dati bruti in ogni cosa, anche nella deficienza; che egli è meno normale e anche meno naturale: uno straniero sopra la terra. È bene che si parli così dei suoi pellegrinaggi e del fatto che egli divideva la vita randagia con i mendichi più disperati e derelitti. È bene ricordare che egli sarebbe stato certamente invitato dalla polizia a circolare, e quasi certamente arrestato dalla polizia per non aver mezzi confessabili di sussistenza. Perché la nostra legge ha in questa materia un tratto di sarcasmo e di fantasia, che né a Erode né a Nerone venne mai in mente: quello di punire effettivamente i senza casa perché non dormono nel loro letto. Ma in un altro senso la parola «randagia» applicata alla sua vita rappresenta un piccolo malinteso. In linea di fatto, moltissimi saggi pagani e non pochi sofisti pagani possono dirsi maestri randagi. In alcuni di loro, i loro viaggi senza meta non erano senza collegamento con i loro discorsi senza meta. Apollonio di Tyana, che figura in qualche culto di moda come una specie di filosofo ideale, è rappresentato come pellegrinante tra il Gange e l’Etiopia, e più o meno concionante tutto il tempo. Esisteva allora una 261

scuola di filosofi chiamati peripatetici; e anche della maggior parte dei grandi filosofi si ha la vaga impressione che avessero poco da fare, tranne camminare e parlare. Le grandi conversazioni che c’illuminano sulle grandi menti di Socrate, o di Budda, o di Confucio, sembrano spesso essere parti di un picnic che non finisce mai; e - quel che è peggio non avere principio né fine. A Socrate veramente capitò di vedersi interrotta la conversazione dall’incidente della sua condanna a morte. Ma tutta l’importanza e il merito particolare della posizione di Socrate sta proprio in questo: che la morte fu soltanto un’interruzione e un incidente. Ci sfugge la vera importanza morale del grande filosofo, se ci sfugge questo punto: che egli guarda il carnefice con sorpresa innocente, e quasi con noia innocente, come meravigliandosi di trovare qualcuno tanto irragionevole da troncare una piccola conversazione sulla delucidazione della verità. Egli guarda alla verità e non alla morte. La morte non è che una pietra sul cammino, nella quale egli può inciampare. Il suo compito nella vita è di peregrinare per le strade del mondo e parlare senza posa intorno alla verità. Budda, d’altro canto, fermò l’attenzione con un gesto: il gesto della rinuncia e perciò del rifiuto. Ma con questa negazione drammatica passò in un mondo di negazione che non era più drammatico, e che egli per primo voleva che non fosse drammatico. Qui ancora ci sfuggirà la particolare importanza morale del grande mistico se non vediamo la distinzione: che, cioè, egli l’aveva fatta finita col dramma che è pieno di desiderio e di lotta e generalmente di sconfitta e di disappunto. Egli passa nella pace e vive per insegnare agli altri come passarvi. Da allora la sua vita è quella del filosofo ideale, certamente un filosofo più veramente ideale di Apollonio di Tyana, ma ancora filosofo nel senso che non è affar suo occuparsi d’altro che di spiegare ogni cosa; nel suo caso, possiam quasi dire, di far dolcemente e gentilmente 262

saltare in aria ogni cosa. Poiché i messaggi sono fondamentalmente differenti. Cristo disse: «Cercate prima il regno, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Budda disse: «Cercate prima il regno, e poi non avrete bisogno di tutte queste cose». Ora, comparata a quella di cotesti pellegrini, la vita di Gesù trascorse rapida e diritta come un fulmine. Fu soprattutto drammatica, consistette soprattutto nel fare qualche cosa che doveva essere fatto; e che non sarebbe stato fatto, se Gesù avesse camminato pel mondo senza far nulla, eccetto che predicare la verità. E anche la direzione esterna di essa non dev’essere rappresentata come un vagabondaggio nel senso che non avesse meta. Qui fu l’adempimento dei miti piuttosto che delle filosofie: un viaggio con uno scopo e un oggetto, come Giasone alla ricerca del Vello d’Oro, o Ercole dei pomi d’oro dello Esperidi. L’oro ch’egli cercava era la morte. La principale cosa che egli andava a fare, era morire. Egli andava a fare altre cose egualmente definite ed obiettive, possiamo quasi dire egualmente esterne e materiali. Ma dal principio alla fine il fatto più definito è che egli va a morire. Non ci possono essere due cose tanto differenti quanto la morte di Socrate e la morte di Cristo. Come siamo indotti a pensare che la morte di Socrate fu, almeno dal punto di vista dei suoi amici, un atto stupido e una deviazione della giustizia che interferisce e si urta col fiotto di una umana e lucida (io direi lucente) filosofia; così siamo indotti a sentire che la morte fu la sposa di Cristo, allo stesso modo che la Povertà fu la sposa di san Francesco. Siamo indotti a sentire che la sua vita fu in quel senso una specie di amoreggiamento con la morte, un romanzo della corsa all’ultimo sacrificio. Dal momento in cui l’astro s’innalza come un razzo festivo al momento in cui il sole si estingue come una torcia funebre, tutta la storia di Cristo si muove su rapide ali con la 263

rettilineità di un dramma, che finisce in un fatto al di là d’ogni parola. Perciò la storia di Cristo è la storia di un viaggio, quasi di una marcia militare; certo, come la spedizione di un eroe che va verso il compimento del suo destino. E’ una storia che comincia nel paradiso di Galilea, una terra pastorale e pacifica che richiama l’Eden, e gradatamente ascende per i colli, su, verso le montagne che sono più presso alle nubi temporalesche e alle stelle, come la montagna del Purgatorio. Egli si può incontrare come smarrito in strani luoghi, o si può fermarlo per via, per disputare con lui; ma la sua faccia è volta verso la città del Monte. Tale è il significato del gran fatto culminante, quando egli salì la cima e si fermò all’incrocio della strada e improvvisamente urlò forte piangendo sopra Gerusalemme. Lieve eco di quel lamento è in ogni poesia patriottica, e, qualora manchi, il patriottismo piomba nella volgarità. Tale è il significato del vivace e strano episodio alle porte del Tempio, quando le tavole furono rovesciate come cianfrusaglie giù per gli scalini, e i ricchi mercanti cacciati fuori a colpi non metaforici; l’episodio deve essere come un rebus per i pacifisti, come altri paradossi sulla non resistenza devono esser rebus per i militaristi. Ho paragonato quello di Cristo al viaggio di Giasone, ma non dobbiamo dimenticare che in un senso più profondo sarebbe piuttosto da paragonarsi al viaggio di Ulisse. Fu non solo il romanzo di un viaggio ma il romanzo di un ritorno: e della fine di una usurpazione. Nessun fanciullo intelligente, che legga la storia, giudica la sconfìtta dei corteggiatori itacensi altro che come un «lieto fine». Ma ci sono senza dubbio altri che considerano la cacciata dei mercatanti ebrei e dei cambiatori di moneta con quella raffinata ripugnanza che non manca di commuoverli in presenza della violenza, e specialmente della violenza contro le persone perbene. L’essenziale è, 264

comunque, che tutti questi episodi hanno il carattere di una crisi che matura. In altre parole, non sono episodi incidentali. Quando Apollonio, il filosofo ideale, è condotto davanti al tribunale di Domiziano e sparisce per virtù di magia, il miracolo è del tutto incidentale. Potrebbe essere avvenuto in qualsiasi momento della vita vagabonda del Tyaneo; e, per me, credo che ne sia dubbia la data quanto la sostanza. Il filosofo ideale scomparve semplicemente, e riprese la sua esistenza ideale in qualche altro luogo per un periodo indefinito. È caratteristico il contrasto che Apollonio si supponeva avrebbe vissuto sino ad un’età quasi miracolosa. Gesù di Nazaret fu meno prudente nei suoi miracoli. Quando Gesù fu condotto innanzi al tribunale di Pilato, non si eclissò. Era la crisi ed era la meta: era l’ora e la potenza delle tenebre. Era l’atto supremamente soprannaturale di tutta la sua vita miracolosa, che egli fosse presente. Ogni tentativo di amplificare questa storia la diminuisce. Ci si sono cimentati molti uomini di vero genio ed eloquenza come altri troppi sentimentali e volgari rètori. La storia è stata ripetuta con caldo pathos da scettici eleganti e con fluido entusiasmo da rumorosi venditori di fumo. Qui non la ripeteremo. La potenza schiacciante delle semplici parole del Vangelo è come la potenza di una macina da mulino; e coloro che possono leggerla con sufficiente semplicità sentiranno come le rocce rotolate sovra di loro. La critica non sono che parole sulle parole: ma a che servono le parole su parole come queste? A che servono le parole scultoree in un oscuro giardino improvvisamente pieno di torce luminose e di volti infuriati? «Perché venite con spade e con bastoni come contro un ladro? Sono stato tutto il giorno assiso nel vostro tempio insegnando, e voi non mi avete preso». C’è qualche cosa da aggiungere alla forza massiccia e raccolta di quella ironia, 265

simile a una grande onda che si levi verso il cielo e rifiuti di cadere? «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, piangete su di voi stesse e sui vostri figliuoli». Come il Gran Sacerdote si chiese quale altro bisogno ci fosse di testimonianze, noi possiamo ben domandarci quale altro bisogno ci sia di parole. Pietro nel panico lo ripudiò «e immediatamente il gallo cantò, e Gesù guardò Pietro, e Pietro uscì e pianse amaramente». C’è chi ha da offrire qualche postilla? Proprio quando stanno per assassinarlo, egli prega per tutta la razza omicida degli uomini, dicendo: «Essi non sanno quello che fanno»; c’è altro da dire in proposito, se non che noi sappiamo poco anche quello che diciamo? C’è bisogno di ripetere e di segnalare la storia di come la tragedia si svolse per la Via Dolorosa? Come lo trascinarono assieme a due ladroni in uno dei consueti luoghi di esecuzione, e come in tutto quell’orrore e in quella terrificante desolazione una sola voce di omaggio si levò, una voce che proveniva dall’ultimissimo luogo donde si poteva aspettarsela, il patibolo di un criminale; ed egli rispose a quell’ignoto marrano: «Questa notte tu sarai con me in paradiso»? C’è da aggiungere altro che un punto fermo? O c’è qualcuno pronto a rispondere adeguatamente a quel gesto di addio a tutto il genere umano, col quale egli creò per sua Madre un nuovo Figlio? Tutte le forze umane che sono state vagamente tratteggiate in questa storia sono in quella scena simbolicamente raccolte. Come i re e i filosofi e l’elemento popolare sono stati simbolicamente presenti alla sua nascita, così sono più praticamente coinvolti nella sua morte; e con ciò noi ci troviamo di fronte al fatto essenziale di cui dobbiamo renderci conto. Tutti i gruppi che erano ai piedi della Croce rappresentano in un modo o in un altro la grande verità storica del tempo: il mondo non poteva salvarsi. L’uomo non poteva fare di più. Roma e 266

Gerusalemme e Atene e tutto il resto andavano giù come un mare che si rovescia in una lenta cataratta. Esternamente il mondo antico era al colmo della forza; è sempre quello il momento in cui la debolezza interna comincia a manifestarsi. Ma per capire quella debolezza dobbiamo ripetere quel che s’è detto più di una volta: che non era la debolezza di una causa originariamente debole. Era la forza del mondo che era divenuta debolezza e la saggezza del mondo che era divenuta follia. In questa storia del Venerdì Santo le migliori cose del mondo sono colte nel loro punto peggiore. Il mondo ci è mostrato nel punto peggiore. C’erano, per esempio, i preti di un vero monoteismo e i soldati di una civiltà internazionale. La Roma leggendaria, fondata su Troia caduta e trionfante sulla caduta di Cartagine, era rimasta in piedi per un eroismo che fu nel mondo pagano quel che più si avvicinò alla cavalleria. Roma aveva difeso gli dei Lari e la dignità umana contro gli orchi africani e contro le mostruosità ermafrodite della Grecia. Ma alla luce abbagliante di questo episodio, noi vediamo la grande Roma, la repubblica imperiale, abbattersi sotto il suo fato lucreziano. Lo scetticismo aveva divorato persino la fiduciosa sanità dei conquistatori del mondo. Colui che troneggiava per rendere la giustizia sapeva solo domandarsi «che cosa è la verità?». Così, in quel dramma che decise interamente del destino dell’antichità, una delle figure centrali è rimasta fissata in una posizione che sembra il rovescio del suo «ruolo». Roma fu quasi sinonimo di responsabilità. Il suo rappresentante è rimasto come una specie di simulacro dell’irresponsabile. L’uomo non poteva fare di più. Anche il pratico era divenuto impratico. Seduto fra i pilastri del suo seggio, il giudice romano si era lavato le mani del mondo. C’erano anche i sacerdoti di quella pura e originale verità 267

che stava dietro e al di sopra di tutte le mitologie, come il cielo dietro le nuvole. Era la più importante verità del mondo: ma nemmeno quella poteva salvare il mondo. Forse c’è qualcosa di ultrapotente nel puro teismo personale; è come vedere il sole e la luna e il cielo uniti insieme a formare un’unica faccia. Forse la verità è troppo tremenda quando non è interrotta da qualche intermediario, divino o umano; forse è semplicemente troppo pura e lontana. Comunque esso non poteva salvare il mondo, e nemmeno convertire il mondo. C’erano filosofi che sostenevano quel teismo nella più alta e nobile forma, ed essi non solo non poterono convertire il mondo, ma neanche ci si provarono. Combattere la intricata mitologia popolare con l’opinione di un singolo sarebbe altrettanto difficile quanto aprirsi una via nella foresta con un coltellino da tasca. I sacerdoti ebraici l’avevano custodito gelosamente in buono e in cattivo senso. L’avevano custodito come un gigantesco segreto. Come qualche eroe selvaggio poteva racchiudere il sole in una scatola, essi conservavano l’Eterno nel tabernacolo. Erano orgogliosi di potere essi soli mirare il sole accecante di un’unica deità, e non sapevano d’esser divenuti ciechi anche loro. Da quel giorno, i loro rappresentanti sono stati come ciechi nella piena luce del sole, a dar colpi a destra e a sinistra con le loro verghe, e a maledire la tenebra. Ma c’è stato questo nel loro monumentale monoteismo: che per lo meno esso è rimasto come un monumento, l’ultima cosa del genere, immobile nel mondo più irrequieto a cui non poteva bastare. Poiché è certo che per qualche ragione non poteva bastare. Da quel giorno non bastò più dire che Dio è nel cielo e che tutto va bene nel mondo; onde la voce che Dio aveva lasciato il cielo per rimettere a posto il mondo. E come si corrompevano e dissolvevano istituzioni che erano buone, o almeno una volta erano state buone, lo 268

stesso può dirsi dell’elemento che era forse il migliore, o che Cristo stesso certamente giudicava il migliore. I poveri, ai quali egli predicava la buona novella, la gentarella che lo ascoltava con piacere, il popolaccio che si era fatto tanti eroi popolari e semidei nel vecchio mondo pagano, anch’essi mostravano tutte le debolezze che stavano mandando il mondo alla rovina. Soffrivano dei mali che spesso si notano nella folla di città, e specialmente della capitale, quando una società declina. Se la popolazione rurale vive sulla tradizione, la popolazione urbana vive sulle chiacchiere. Come i suoi miti sono irrazionali, così le sue simpatie e antipatie sono spesso modificate da asserzioni senza base che sono arbitrarie senza essere autorevoli. Qualche brigante, o simile, fu artificiosamente cangiato in una figura pittoresca e popolare, e passò per una specie di candidato contro Cristo. In tutto questo noi riconosciamo la popolazione urbana di nostra conoscenza con i suoi spauracchi e colpi di scena giornalistici. Ma c’era per di più, nella popolazione di allora, un male peculiare al mondo antico; un male che abbiamo già notato come la negligenza dell’individuo, anche dell’individuo che vota la condanna e più ancora dell’individuo condannato. Era l’anima della società pagana. Il grido di quest’anima si udì in quell’ora: «E’ bene che un uomo muoia per il popolo». Eppure nell’antichità anche cotesto spirito di devozione alla città e allo Stato era stato per se stesso e al suo tempo una cosa nobile. Ebbe i suoi poeti e i suoi martiri: uomini degni di essere onorati per sempre. La sua debolezza era di non vedere l’anima separata dell’uomo, l’altare di ogni misticismo; ma per questa sua debolezza fallì come tutte le altre cose fallirono. La folla andava dietro ai sadducei e ai farisei, ai filosofi e ai moralisti. Andava dietro ai magistrati imperiali, ai sacerdoti, agli scribi e ai soldati: lo spirito umano unico e universale doveva soffrire una condanna 269

universale; doveva esserci un unico, profondo e unanime coro di approvazione e di armonia quando l’Uomo fu reietto dagli uomini. C’erano solitudini al di là dell’inaccessibile. C’erano segreti nella più profonda e invisibile parte di quel dramma, che non trovano alcuna traduzione in parole, alcuna spiegazione nell’appartarsi di un uomo dagli uomini. Né è facile, in parole meno semplici e rigide di quelle della nuda narrazione, intravedere l’orrore di esaltazione che si levò sopra il colle. Infiniti tentativi non ne sono venuti a capo. E se c’è un suono che possa produrre un silenzio, ci vorrebbe quello per rappresentarci il silenzio della fine e dei momenti estremi: quando un grido ruppe la tenebra in parole paurosamente distinte e paurosamente inintelligibili, che l’uomo non capirà mai in tutta l’eternità che esse hanno conquistato per lui; e per un istante di annichilimento un abisso impensabile si era aperto anche nell’unità dell’assoluto; e Dio era stato abbandonato da Dio. Essi deposero il corpo giù dalla croce, e uno dei pochi ricchi tra i primi cristiani ottenne il permesso di seppellirlo in una tomba di pietra nel suo giardino: i romani misero una guardia militare che prevenisse qualche gazzarra o il tentativo di impadronirsi del corpo. Anche questi ovvi procedimenti contenevano un simbolo: era bene che la tomba fosse sigillata con tutto il segreto delle antiche sepolture orientali e guardata dall’autorità dei Cesari. Perché in quella seconda caverna tutta la grande e gloriosa umanità, che noi chiamiamo antichità, era raccolta e racchiusa, e in quel luogo fu sepolta. Era la fine di quella grandissima cosa che si chiama storia umana: della storia che fu semplicemente umana. Le mitologie e le filosofie furono colà seppellite, insieme con gli dei e gli eroi e i sapienti. Secondo la grande parola romana, essi avevano vissuto. Ma come potevano vivere, così potevano morire; ed erano 270

morti. Al terzo dì, gli amici di Cristo vennero sul far del giorno a quel luogo e trovarono la tomba vuota e la pietra sepolcrale rotolata da un lato. Si resero conto in varia guisa del nuovo miracolo, ma non capirono che un mondo era morto in quella notte. Quel che essi vedevano era il primo giorno di una nuova creazione, con un nuovo cielo e una nuova terra: e in sembianza di giardiniere Dio camminava nuovamente nel giardino, nel fresco non di una sera, ma di un’alba. 1. Robert Herrick (1591-1674) è stato un poeta inglese esponente della scuola dei Poeti cavalieri.

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Capitolo IV La testimonianza degli eretici CRISTO FONDÒ LA CHIESA con due grandi metafore nelle parole finali agli apostoli che ricevettero l’autorità di fondarla. La prima fu la frase su pietro sul quale la chiesa sarebbe stata edificata come su di una pietra; la seconda fu il simbolo delle chiavi. Circa il significato della prima, non c’è naturalmente alcun dubbio; ma essa non riguarda direttamente l’argomento, qui, salvo in due altri aspetti secondari. È infatti uno dei tanti esempi di quelle frasi evangeliche che avrebbero potuto pienamente espandersi e spiegarsi più tardi, anche molto più tardi. Ed è un altro esempio di quelle frasi che sono l’opposto dell’evidenza, anche nella lettera, in quanto poneva la similitudine di un uomo ad una roccia, mentre quest’uomo aveva piuttosto l’apparenza di una fragile canna. Ma l’altra immagine delle chiavi ha un’esattezza che non è stata forse esattamente notata. Le chiavi hanno avuto una parte cospicua nell’arte e nell’araldica del Cristianesimo: ma non tutti hanno notato la peculiare precisione dell’allegoria. Arrivati a questo punto della nostra storia, bisognerà dire qualche cosa del primo apparire e delle attività della Chiesa nell’Impero romano: e per un breve accenno in proposito nulla potrebbe meglio servire di quell’antica metafora. Il cristiano primitivo era né più né meno che una persona con una chiave, o che diceva di avere una chiave. Tutto il 272

movimento cristiano consistette nel proclamare di possedere tale chiave. Non era solamente un vago movimento in avanti, che avrebbe potuto esser meglio rappresentato dal battere un tamburo. Non era qualche cosa che spazzava via tutto davanti a sé, come un moderno movimento sociale. Come vedremo fra poco, si rifiutava piuttosto di far questo. Esso asseriva in modo assoluto che c’era una chiave e che possedeva tale chiave e che nessun’altra chiave era eguale a quella; era in un certo senso, diciamo pure, ristretto. Soltanto avveniva che quella era la chiave che poteva aprire la prigione del mondo intero, e far vedere la bianca aurora della salvezza. Il credo era come una chiave per tre aspetti che potrebbero convenientemente riunirsi sotto questo simbolo. Primo, una chiave è anzitutto una cosa che ha una forma; ed è una cosa che dipende interamente dal conservare la sua forma. Il credo cristiano è soprattutto la filosofia della forma ed è nemico delle cose informi. Ecco dove differisce da tutte le altre infinite filosofie — manicheismo, Buddismo - che formano una specie di lago notturno nell’oscuro cuore dell’Asia: l’ideale della non creazione. Qui è dove esso differisce anche dalla analoga incertezza del mero evoluzionismo: la idea di una costante trasformazione delle creature. Uno a cui si dicesse che il suo speciale lucchetto si fonderà con un milione di altri consimili in una buddistica unità, l’avrebbe a noia. Ma uno a cui si dicesse che la sua chiave gradatamente crescerà e germoglierà nella sua tasca e ramificherà in nuovi ingegni o complicazioni, non sarebbe meno insoddisfatto. Secondo, la forma della chiave è per se stessa una forma piuttosto fantastica. Un selvaggio il quale non sapesse ch’è una chiave, avrebbe le maggiori difficoltà a indovinare che cosa potesse essere. Ed è fantastica perché è arbitraria. Una chiave non è materia di astrazioni: nel senso che una chiave 273

non è materia di ragionamento. Essa o è adatta alla serratura, oppure non è. E’ inutile per gli uomini disputarvi attorno, considerata la cosa in se stessa; o ricostruirla sui puri principi della geometria o dell’arte decorativa. È una sciocchezza per un uomo dire che preferirebbe una chiave più semplice; sarebbe assai più sensato se facesse del suo meglio con un grimaldello. In terzo luogo, poiché la chiave è necessariamente una cosa fatta secondo un disegno, questa aveva un disegno piuttosto elaborato. Quando la gente si lamenta che la religione si è troppo presto immischiata di teologia e roba simile, dimentica che il mondo non solo era entrato in un cul-de-sac, ma era penetrato addirittura in un labirinto di vie senza uscita. Il problema era un problema complicato; il quale, nel senso ordinario, non involveva unicamente delle cose semplici come il peccato. Era anche pieno di segreti, di inganni inesplorati e inesplorabili, di inconscie follie, di pericoli in tutte le direzioni. Se la fede si fosse posta davanti al mondo solo con delle banalità intorno alla pace e alla semplicità, sarebbe stata il rifugio di alcuni moralisti; non avrebbe avuto il più debole effetto sul lussurioso e labirintiaco manicomio. Quel che fece, noi cercheremo all’ingrosso di descrivere: basti dire qui che nella chiave c’erano senza dubbio molte cose che parevano complicate: c’era soltanto una cosa che era semplice. Apriva la porta. Ci sono certe affermazioni riconosciute e accettate in questa materia, che per brevità e convenienza possono addirittura chiamarsi bugie. E facile sentir dire che il Cristianesimo sorse in un’epoca di barbarie. Allo stesso modo potrebbero dire che la Scienza Cristiana è sorta in un’epoca di barbarie. Potrebbero pensare che il Cristianesimo fu un sintomo di decadenza morale, come io penso che la Scienza Cristiana sia un sintomo di decadenza mentale. Potrebbero pensare che il Cristianesimo è una 274

superstizione che distrusse una civiltà, come io penso che la Scienza Cristiana è una superstizione capace (se presa sul serio) di distruggere qualsiasi civiltà. Ma dire che un cristiano del IV o V secolo fosse un barbaro, che viveva in tempi barbarici, è esattamente come dire che Mrs. Eddy1 era una pellerossa. E se dalla mia congenita impazienza nei riguardi di Mrs. Eddy mi lasciassi spingere a chiamarla pellerossa, direi in tal caso una bugia. Ci può piacere o no la civiltà imperiale della Roma del IV secolo, ci può piacere, o no, la civiltà industriale americana del secolo xix; ma che entrambe siano ciò che comunemente s’intende per civiltà, nessuna persona di buon senso potrebbe negarlo, anche volendo. Questo è un fatto ovvio, ma è anche un fatto fondamentale, e noi dobbiamo ritenerlo come il fondamento di ogni successiva ricostruzione del Cristianesimo. Bene o male, era eminentemente il prodotto di un’epoca civile, forse di un’epoca ultra-civile. Questo è un fatto indiscutibile, prescindendo da ogni lode o biasimo: giacché io ho la disgrazia di non capire che paragonare una cosa alla Scienza Cristiana è farne l’elogio. Ma è almeno desiderabile saper qualche cosa del carattere di una società, di cui si voglia condannare o lodare qualche lato: e la Scienza che connette Mrs. Eddy con una scure indiana, o la Mater Dolorosa con i totem, può essere convenientemente eliminata. Il fatto dominante, per quanto riguarda non solo la religione cristiana ma tutta la civiltà pagana, è quello che è stato più di una volta ripetuto in queste pagine. Il Mediterraneo era un lago nel senso letterale di stagno, nel quale differenti culti o culture erano stagnanti. La cultura di quelle città situate l’una di fronte all’altra intorno al cerchio del lago divenne sempre più cosmopolitica. Dal lato legale e militare era l’Impero romano, ma aveva molti altri lati. Si sarebbe anche potuta chiamare superstiziosa nel senso che conteneva un gran numero di svariate superstizioni; ma non 275

poteva in nessun modo e a nessun titolo esser chiamata barbara. Su questo terreno di cultura cosmopolitica sorsero la religione cristiana e la Chiesa cattolica, e tutto nella storia suggerisce che essa apparve come una cosa nuova e strana. Coloro che si sono provati a dimostrare che essa si sviluppò da qualche cosa di più vago e indifferenziato, hanno trovato che in questo caso il loro metodo evoluzionistico era molto difficile ad applicare. E’ facile affermare che gli esseni o gli ebioniti o simili furono il seme; ma il seme è invisibile; e intanto l’albero appare rapidamente cresciuto a maturità; ed è una cosa del tutto diversa. E un albero di Natale in quanto conserva la gentilezza e la bellezza morale della storia di Betlemme; ma era anche ritualistico come il candelabro dai sette rami, e le candele che portava erano probabilmente più di quelle consentite nel primo libro di preghiere di Edoardo VI. Si potrebbe benissimo domandare perché chi accetta la tradizione di Betlemme dovrebbe trovar da ridire sull’oro o sugli ornamenti dorati dal momento che i Magi stessi portarono oro; perché dovrebbe spiacergli l’incenso nella Chiesa, se l’incenso fu portato anche nella stalla. Ma queste sono controversie che non m’interessano qui. Io qui guardo soltanto il fatto storico, sempre più ammesso dagli storici, che fin dagl’inizi della sua storia questa cosa divenne visibile alla civiltà dell’antichità; e che già la Chiesa si rivelò come una Chiesa, con tutto ciò che una Chiesa implica e molto di quel che in una Chiesa può non piacere. Discuteremo un momento quanto questa Chiesa fosse lontana dal rassomigliare ad altri misteri ritualistici o magici o ascetici o idealistici del nostro tempo. Essa aveva una dottrina; aveva una disciplina; aveva dei sacramenti; aveva dei gradi di iniziazione; ammetteva ed espelleva; affermava un dogma con l’autorità e ne ripudiava un altro con l’anatema. Se tutti questi sono i segni dell’Anticristo, il regno dell’Anticristo 276

venne immediatamente dopo Cristo. Coloro che affermano che il Cristianesimo non fu una Chiesa ma un movimento morale di idealisti, sono stati costretti a respingere sempre più indietro il periodo del suo pervertirsi. Un vescovo di Roma scrive accampando i diritti della sua autorità al tempo in cui ancora viveva san Giovanni Evangelista; e questa è descritta come la prima aggressione papale. Un amico degli Apostoli scrive di essi come di uomini che egli conobbe, e dice che gli insegnarono la dottrina del Sacramento; e H.G. Wells può soltanto insinuare sottovoce che la reazione verso i sanguinosi riti barbarici dev’essersi avuta più presto di quanto c’era da aspettarsi. La data del quarto Vangelo, che dapprima si faceva supporre di molto posteriore, è ora invece considerata anteriore di molto; finché i critici sono forzati ad ammettere la nuova e spaventosa possibilità che il quarto Vangelo potrebbe essere veramente un quid simile di quel che dice di essere. L’ultimo più lontano limite della data di estinzione del vero Cristianesimo è stata probabilmente trovata da un professore tedesco, la cui autorità è invocata dal decano Inge. Questo eruditissimo studioso dice che la Pentecoste fu l’occasione per la prima fondazione di una Chiesa ecclesiastica, dogmatica e dispotica, del tutto aliena dai semplici ideali di Gesù di Nazaret. Questo, in senso volgare come in senso scientifico, si chiamerebbe il limite. Di che cosa i professori di questo genere pensano che l’uomo sia fatto? Supponiamo si trattasse di un movimento puramente umano, quello degli antimilitaristi per ragioni di coscienza. C’è chi dice che i primi cristiani fossero pacifisti; io non lo credo, ma son pronto ad accettare il parallelo per comodo di discussione. Tolstoi, o qualche altro gran predicatore di pace fra le masse rurali, è fucilato come un sobillatore contro la coscrizione, e un mese dopo, o press’a poco, i suoi 277

scarsi seguaci si riuniscono in una soffitta per commemorarlo. Essi non avevano alcun motivo per riunirsi tranne che onorare la sua memoria; sono uomini diversi senza nulla che li leghi tra loro, se non che il grande evento della loro vita fu questa tragedia del maestro della pace universale. Essi ripetono le sue parole, discutono i suoi problemi, cercano di imitare il suo carattere. I pacifisti si incontrano alla loro Pentecoste e sono presi da una improvvisa estasi di entusiasmo e da una selvaggia furia d’ispirazione, nel corso della quale procedono a stabilire la coscrizione universale, ad accrescere il naviglio, a disporre che ciascuno vada armato fino ai denti e su tutte le frontiere inalberi pezzi d’artiglieria; le deliberazioni si concludono col canto Boys of the Bulldog Breed e Don’t let them scrap the British Navy. Ecco un bel parallelo con la teoria di questi critici: che la transizione dalle vere idee di Gesù alla falsificazione cattolica potrebbe esser avvenuta nella piccola soffitta, a Pentecoste. Certo il senso comune direbbe che degli entusiasti, che si riuniscono solo attraverso il loro comune entusiasmo per un capo che amavano, non si precipiterebbero a deliberare cose da lui odiate. Eh no, se «il sistema ecclesiastico e dogmatico» è vecchio come la Pentecoste, è anche vecchio come il Natale. Se noi risaliamo indietro fino ai primi cristiani, dovremo seguirne le tracce fino a Cristo stesso. Possiamo quindi cominciare con queste due negazioni. È un’idiozia dire che la fede cristiana comparve in un’epoca semplice, nel senso di un’epoca illetterata e facile a farsi gabbare. È egualmente un’idiozia dire che la fede cristiana sia una cosa semplice, nel senso di cosa vaga, fanciullesca o soltanto istintiva. Forse, il solo punto di coincidenza fra la Chiesa e il mondo pagano, è il fatto che entrambi non solo erano estremamente civili, ma altresì 278

complessi. Entrambi erano superlativamente multilaterali; l’antichità era allora un buco poligono, una specie di buco esagonale che attendesse un tappo egualmente esagonale. In tal senso soltanto la Chiesa era abbastanza multiforme per potere adattarsi al mondo. I sei lati del mondo mediterraneo si fronteggiavano l’un l’altro attraverso il mare e aspettavano qualche cosa che affacciasse su tutte le strade contemporaneamente. Le Chiesa doveva esser romana e greca e giudaica e africana e asiatica. Nelle parole stesse dell’Apostolo dei Gentili essa era davvero tutte le cose per tutti gli uomini. Il Cristianesimo non era allora né rozzo né semplice, ed era il rovescio di un imbarbarimento. Ma se veniamo all’accusa contraria, la troviamo molto più plausibile. È assai più ammissibile che la fede non fosse che la fase finale della decadenza di una civiltà, nel senso di eccesso di civiltà; che questa superstizione fosse un segno che Roma moriva, e moriva per essere troppo civile. Questo è un argomento veramente degno di maggiore considerazione; e noi passeremo a considerarlo. Al principio di questo libro, in una specie di sommario, feci un parallelo tra il sorgere dell’umanità dalla natura e il sorgere del Cristianesimo dalla storia. Rilevai come, nell’un caso e nell’altro, quel che era venuto prima poteva far presupporre quel che sarebbe venuto dopo, ma di fatto non venne quello che si poteva presupporre. Chi obiettivamente avesse visto certe scimmie, ne avrebbe dedotto degli antropoidi; non ne avrebbe dedotto né l’uomo né niente che si avvicinasse mille miglia a quel che gli uomini hanno fatto. Avrebbe potuto vedere il Pitecantropo o l’Anello mancante profilarsi nel futuro, così come noi nebbiosamente e dubbiosamente lo vediamo nel passato. Ma se ne prevedeva la comparsa, avrebbe dovuto prevederne anche la scomparsa, e le poche deboli tracce che 279

ha lasciato, se pure possono dirsi tracce. Prevedere l’Anello mancante non sarebbe stato in ogni caso prevedere l’Uomo, o alcunché di simile all’Uomo. Ora, questo modo di considerare la comparsa dell’Uomo deve esser tenuto presente; perché è un esatto parallelo del giusto modo di considerare la Chiesa; e suggerisce esattamente l’idea della naturale evoluzione di essa dall’Impero in decadenza. La verità è che in un certo senso uno potrebbe benissimo aver predetto che la decadenza imperiale avrebbe prodotto qualche cosa di simile al Cristianesimo. Per meglio dire; qualche cosa di leggermente simile e di gigantescamente diverso. Uno potrebbe benissimo aver detto, ad esempio: «Si è andati dietro al piacere con tale stravaganza che avremo una reazione in senso pessimistico. Forse questa reazione prenderà la forma di ascetismo: gli uomini si mutileranno invece di impiccarsi». E un altro potrebbe assai ragionevolmente aver detto: «Se ci sono venuti a noia i nostri dei greci e latini, andremo ansiosi dietro qualche mistero orientale; sarà la moda dei persiani o degli indù». O un uomo di mondo potrebbe essere stato abbastanza scaltro da pensare: «Personaggi altolocati stanno prendendo sul serio queste pazzie: un bel giorno la corte ne adotterà una che potrà diventare la religione ufficiale». O anche un altro più oscuro profeta potrebbe aver avuto delle ragioni per affermare: «Il mondo va all’indietro: tenebrose e barbare superstizioni ritorneranno, non importa quali. Saranno informi e fuggevoli come i sogni della notte». Ora, nella fattispecie, l’interessante è che tutte coteste profezie realmente si avverarono, ma non si avverarono nella Chiesa. Fu la Chiesa che si salvò da esse, le sbaragliò e si sollevò su di esse in trionfo. L’edonismo produsse quella reazione di ascetismo, che era naturale e probabile: il movimento chiamato manicheo, di cui la Chiesa fu mortale nemica. Com’era naturale che apparisse a quel 280

punto della storia, la reazione pessimistica apparve; ma anche scomparve; il che era egualmente naturale. La mera reazione pessimistica venne con i manichei e se ne andò con i manichei. Ma la Chiesa non venne con loro né se ne andò con loro, ed ebbe, se mai, molto più a che fare con la loro partenza che con la loro venuta. Ancora: com’era probabile che il crescente scetticismo portasse la moda di una religione orientale, esso la portò: Mitra venne da molto più lontano della Palestina, dal cuore della Persia, con i suoi strani misteri di sangue taurino. Certamente tutto lasciava credere che qualcuna di tali pazzie avrebbe preso voga. Ma certamente nulla al mondo faceva credere che non sarebbe mai più passata di moda. Certo, una pazzia orientale era qual che cosa di eminentemente adatto al IV o V secolo, ma ciò non spiega come sia rimasta sino ad xx secolo, e senza perdere nulla della sua forza. Insomma, per quanto cose di questo genere ci si potevano allora aspettare, esse - come il mitraismo - furono allora sperimentate; ma ciò non spiega le nostre esperienze più recenti. E se noi fossimo ancora mitraisti, solo perché le acconciature e altri abbigliamenti persiani erano il dernier cri ai tempi di Domiziano, parrebbe quasi che ormai ci dovessimo trovare arretrati con la moda! Lo stesso dicasi, come vedremo subito, dell’idea di un favoritismo ufficiale. In quanto il favore ufficiale verso una tal moda si manifestò durante la decadenza e la caduta dell’Impero romano, esso fu qualche cosa che esistette, declinò e cadde con l’Impero. Esso non getta alcuna luce su di un fenomeno che risolutamente non volle declinare né cadere; che anzi crebbe vigoroso mentre l’Impero declinava e cadeva; e che anche oggi procede innanzi con intrepida energia, mentre un’altra epoca ha completato il suo ciclo e un’altra civiltà sembra quasi pronta a declinare e a cadere. Ora, il fatto curioso è questo: che le eresie stesse che alla 281

Chiesa primitiva si rimprovera di avere schiacciato, testimoniano della poca giustizia del rimprovero. Se poteva meritare un rimprovero, è precisamente per ciò che le si rimprovera di aver biasimato. Se c’era qualche cosa che fosse meramente una superstizione, la Chiesa era la prima a condannare quella superstizione. Se c’era una reazione verso la barbarie, la Chiesa fu la prima a resistervi appunto perché era una reazione verso la barbarie. Se c’era nel morente Impero qualche cosa che morì e che meritava di morire, fu la Chiesa sola che l’uccise. Ora, si rimprovera alla Chiesa di essere ciò per cui l’eresia fu repressa. Le spiegazioni degli storici evoluzionisti e dei critici più autorevoli realmente spiegano il motivo per cui l’arianesimo, lo gnosticismo e il nestorianismo nacquero e anche perché morirono. Ma non spiegano perché nacque la Chiesa o perché non volle morire. Soprattutto, non spiegano perché la Chiesa avrebbe combattuto gli stessi mali di cui è accusata di essere infetta. Prendiamo alcuni esempi pratici del principio: il principio che se c’era qualche cosa che fosse una superstizione del morente Impero, essa morì con l’Impero; e che questa cosa che morì non poteva essere la stessa cosa che servì a distruggerla. A questo scopo prenderemo in esame due o tre delle più comuni spiegazioni delle origini cristiane quali ci vengono date dai moderni critici del Cristianesimo. Nulla di più comune, per esempio, che trovare un critico moderno che scriva cose di questo genere: «Il Cristianesimo fu soprattutto un movimento ascetico, una corsa al deserto, un rifugio nel chiostro, una rinuncia alla vita e alla felicità; esso non fu che parte di una fosca e inumana reazione contro la natura stessa, un odio pel corpo, un aborrimento dell’universo materiale, una specie di suicidio universale dei sensi e anche dell’individuo. Derivava da un fanatismo orientale come quello dei fachiri, ed era basato su un 282

pessimismo orientale che considerava l’esistenza stessa come un male». In tutto questo la cosa straordinaria è che tutto è verissimo; vero in ogni particolare, con la sola differenza che è attribuito erroneamente a chi non ci ha niente a che vedere. Non è vero della Chiesa; è vero delle eresie condannate dalla Chiesa. È come se uno fosse obbligato a scrivere un’analisi degli errori e del malgoverno dei ministri di Giorgio III, con la piccola inesattezza che tutto il racconto si riferisse a Giorgio Washington; o come se uno facesse un elenco dei delitti dei bolscevichi con la sola variante di attribuirli tutti allo zar. La Chiesa primitiva fu, sì, ascetica, ma in dipendenza di una filosofia totalmente diversa da quella di una guerra alla vita e alla natura; la quale realmente esistette nel mondo, e basterebbe che i critici sapessero dove andare a cercarla. Ecco quello che era accaduto. Quando la fede emerse nel mondo, come primissima cosa le capitò di esser presa in una specie di turbine di sette mistiche e metafisiche, principalmente orientali, come una sola ape dorata colta in uno sciame di vespe. Un comune osservatore poteva non trovarci gran differenza, niente più che un ronzìo generale; e infatti non c’era differenza, in quanto riguardasse i pungiglioni e le punture. La differenza era questa: che solo l’insetto d’oro in tutta quella polvere roteante ebbe la forza di procedere e fare alveari per l’umanità, di dare al mondo il miele e la cera, o, (come fu detto con tanta eleganza in un contesto troppo facilmente obliato) «le due più nobili cose, che sono la dolcezza e la luce». Le vespe morirono tutte in quell’inverno; nessuno sa più nulla di loro, e la maggior parte della gente ignora che siano mai esistite; così che tutta la prima fase della storia della nostra religione è andata perduta. O, per usare un’altra metafora, quando questo o un altro qualsiasi movimento ruppe la diga tra l’oriente e 283

l’occidente, e portò nuove mistiche idee in Europa, esso portò seco, oltre la propria, un fiume di altre dottrine mistiche, la più parte ascetiche e quasi tutte pessimistiche, le quali inondarono e per poco non sommersero il puro elemento cristiano. Esse venivano quasi tutte da quella regione che era una specie di zona grigia tra la filosofia orientale e le mitologie orientali, e che condivise con i più bizzarri filosofi la curiosa manìa di fare modelli fantastici del cosmo in forma di carte geografiche e di alberi genealogici. Quelli che si dice derivino dal misterioso Manete sono chiamati manichei; altri culti affini son più generalmente conosciuti come gnostici; essi sono di una labirintiaca complessità, ma il punto essenziale è sempre il pessimismo: il fatto che quasi tutti, in una o in altra forma, consideravano la creazione del mondo come l’opera di uno spirito maligno. Qualcuno anche era circondato da quell’atmosfera asiatica che è propria del Buddismo: l’idea che la vita è una corruzione della purità dell’essere. Alcuni credevano un ordine puramente spirituale, che era stato tradito dalla goffa e stupida gherminella di creare quei giocattoli che sono il sole, la luna e le stelle. Il fatto è che tutta questa densa oscura marea dal metafìsico mare del centro dell’Asia si riversò attraverso le dighe insieme col credo di Cristo; ma il punto importante della questione è che le due cose non erano la stessa cosa, che galleggiavano senza confondersi come olio sull’acqua. Quel credo rimase come un miracolo: un fiume ancora fluente attraverso il mare. E la prova del miracolo era ancora una volta una prova pratica: che - cioè mentre tutto il mare era salato e amaro del sapore della morte, solo a quest’unica corrente in mezzo a quel mare un uomo potea bere. Ora, tale purezza era preservata per mezzo di definizioni ed esclusioni dogmatiche. Nient’ altro poteva preservarla. Se la Chiesa non avesse respinto i manichei, avrebbe potuto 284

diventare manichea. Se non avesse ripudiato gli gnostici, avrebbe potuto diventare gnostica. Ma il solo fatto che li ripudiò, prova che essa non fu né gnostica né manichea. Prova, almeno, che fu qualche cosa di diverso dallo gnosticismo e dal manicheismo; e che cosa poteva essere a condannarli, se non la buona novella dei messaggeri di Betlemme e lo squillo della Resurrezione? La Chiesa primitiva fu ascetica, ma non pessimistica; e lo dimostrò condannando i pessimisti. Il credo disse che l’uomo era peccatore, ma non disse che la vita era un male; e lo provò condannando chi lo diceva. La condanna dei primi eretici è biasimata come qualche cosa di rigido e di angusto, ma era in verità la prova lampante che la Chiesa intendeva essere fraterna e larga. Provava che i primitivi cattolici erano specialmente desiderosi di dimostrare che essi non ritenevano l’uomo del tutto vile; che non credevano la vita incurabilmente miserabile; che non credevano il matrimonio un delitto o la procreazione una tragedia. Essi erano ascetici perché l’ ascetismo era la sola possibile purgazione dei peccati del mondo; ma in mezzo al tuonare dei loro anatemi essi affermavano sempre che il loro ascetismo non doveva essere antiumano o antinaturale; che desideravano purgare il mondo, e non distruggerlo. E niente, più di quegli anatemi, poteva forse render chiaro ciò tra la confusione che ancora li confonde coi loro nemici mortali. Nulla, fuorché il dogma, poteva resistere al tumulto d’immaginose invenzioni con cui i pessimisti ingaggiavano la loro guerra contro la natura; con i loro Eoni e il loro Demiurgo, il loro strano Logos, e la loro sinistra Sophia. Se la Chiesa non avesse resistito sulla teologia, si sarebbe fusa in una pazza mitologia di mistici, ancora più remota dalla ragione e persino dal razionalismo; e soprattutto, ancora più remota dalla vita e dall’amore della vita. Sarebbe stata una mitologia alla rovescia; una contraddizione a tutto quel che era naturale nel paganesimo; 285

una mitologia in cui Plutone sarebbe stato al disopra di Giove, e l’Ade sospeso al di sopra dell’Olimpo; dove Brama e tutto ciò che ha il respiro della vita sarebbe stato soggetto a Siva, splendente con l’occhio della morte. Che questa Chiesa primitiva fosse piena di un entusiasmo estatico per la rinuncia e per la verginità, rende la distinzione più netta che mai; e dà più rilievo alla linea di separazione tracciata dal dogma. Uno potrebbe camminare a quattro zampe come una bestia perché è un asceta. Potrebbe starsene giorno e notte in cima a un pilastro a farsi adorare perché è un asceta. Ma non potrebbe dire che il mondo è uno sbaglio e lo stato matrimoniale un delitto, senza essere eretico. Che cosa poteva essere a disimpegnarsi così deliberatamente dall’ascetismo orientale con acute definizioni e sprezzanti ripulse, se non qualche cosa che avesse una individualità propria, e del tutto differente? Se i cattolici, nonostante tutto, vengono confusi con gli gnostici, possiamo soltanto dire che non è colpa loro. Piuttosto, ci pare inammissibile che i cattolici siano biasimasti dagli stessi critici come persecutori degli eretici e come simpatizzanti per l’eresia. La Chiesa non era un movimento manicheo, se non altro perché non era affatto un movimento. Per la stessa ragione non era neppure un movimento ascetico. Sarebbe più vicino alla verità chiamarla domatrice dell’ascetismo che sua propugnatrice o favoreggiatrice. Essa aveva la sua teoria ascetica, il suo tipo di ascetismo, ma in quel momento era piuttosto da considerarsi come moderatrice delle altre teorie e degli altri tipi ascetici. Questa è, per esempio, la conclusione che si può trarre dalla storia di sant’Agostino. Finché egli fu un uomo di mondo, un uomo che seguiva la corrente del suo tempo, fu effettivamente manicheo. In realtà era di moda essere manicheo. Ma quando divenne cattolico, la gente da cui si staccò 286

immediatamente e che addirittura polverizzò furono i manichei. Ciò può essere espresso in termini cattolici col dire che smise di essere pessimista per diventare asceta. Ma, se si accetta l’interpretazione pessimistica dell’ascetismo, potrebbe dirsi che smise di essere asceta per diventare santo. La guerra alla vita, la negazione della natura, erano esattamente le cose ch’egli aveva trovato nel mondo pagano e alle quali dovette rinunciare quando entrò nella Chiesa. Il fatto stesso che sant’Agostino rimanga una figura più austera e più malinconica di san Francesco o di santa Teresa, non fa che accentuare il dilemma. Anche di fronte ai cattolici più severi e più feroci, possiamo sempre domandare: «Perché il Cattolicesimo fece guerra ai manichei, se era manicheo?». Prendiamo un’altra spiegazione razionalistica del Cristianesimo. È abbastanza frequente trovare un altro critico che dica: «Il Cristianesimo in realtà non venne su; cioè, non venne dal basso; ma fu imposto dall’alto. L’Impero era realmente un impero, nel senso che era realmente governato dall’imperatore. Avvenne che uno degli imperatori diventò cristiano. Poteva egualmente avvenire che diventasse mitraista, o ebreo, o adoratore del Fuoco; fu tutf altro che raro nel declino dell’Impero che persone appartenenti alle classi elevate e colte adottassero tali eccentrici culti orientali. Una volta adottato, diventò religione ufficiale dell’Impero romano; e diventato la religione ufficiale dell’Impero diventò forte, universale, invincibile come l’Impero stesso. Ed è rimasto nel mondo come una reliquia di quell’impero, o (come molti hanno detto) non è che lo spettro di Cesare che ancora pende su Roma». Anche questa è una opinione molto diffusa nella critica anti-ortodossa, il dire - cioè - che fu lo Stato a imporre l’ortodossia. E anche qui possiamo appellarci agli eretici per ribattere questa opinione. 287

Tutta la storia della grande eresia ariana potrebbe essere stata inventata per distruggere di colpo cotesta idea. E una storia molto interessante, spesso ripetuta a questo proposito; e la forza probante di essa sta in questo: che, se ci fu la religione di Stato, questa si spense precisamente perché era soltanto una religione di Stato; e quella che la distrusse fu la vera religione. Ario propose una interpretazione del Cristianesimo che muoveva, più o meno vagamente, nella direzione di quel che noi chiameremmo unitarianismo; sebbene non fosse la stessa cosa, perché dava a Cristo una posizione curiosamente intermedia fra il divino e l’umano. Il fatto è che sembrò a molti più ragionevole e meno fanatica, e fra questi c’erano molti della classe colta, in una sorta di reazione contro le prime conversioni romantiche. Gli ariani furono una sorta di moderati e una specie di modernisti. E sembrò che, dopo le prime dispute, questa fosse la forma definitiva di religione razionalizzata in cui la civiltà poteva benissimo acquietarsi. Fu accettata dal Divo Cesare e divenne ortodossia ufficiale; i generali e i capi militari tratti dalle nuove barbariche potenze del nord, piene di futuro, la sostennero strenuamente. Ma il seguito è anche più importante. Esattamente come un moderno potrebbe passare attraverso l’unitarianismo per completare l’agnosticismo, così il più grande degli imperatori ariani finì con l’abbandonare l’ultima e minima apparenza di Cristianesimo: abbandonò anche Ario e tornò ad Apollo. Egli era un Cesare dei Cesari; un soldato, un sapiente, un uomo di larghe ambizioni e ideali; un altro re filosofo. Gli parve come se ad un suo segnale il sole risorgesse di nuovo. Gli oracoli ricominciarono a parlare come gli uccelli cominciano a cantare all’alba; il paganesimo di nuovo fu; gli dei ritornarono. Sembrò la fine di quello strano interludio di una superstizione straniera. E ne fu veramente la fine, in quanto era l’interludio di una mera superstizione. Era la fine 288

del capriccio di un imperatore, della moda di una generazione. Se qualche cosa era cominciato con Costantino, vuol dire che qualche cosa finiva con Giuliano. Ma ci fu qualche cosa che non finì. Atanasio era sorto contro il mondo, in quell’ora della storia, sfidando il tumulto democratico dei concili della Chiesa. Possiamo fermarci sul punto di partenza; perché è importantissimo ai fini di questa storia religiosa, e il mondo moderno sembra non badarvi. Possiamo porre la cosa in questi termini: se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: «Dio è Amore». Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: Egli è amore? La sola giustificazione di tale mistero è la mistica concezione che nella Sua stessa natura c’era qualche cosa di analogo all’autoespressione; qualche cosa che genera, e che contempla quel che ha generato. Senza tale idea, è illogico complicare la estrema essenza della divinità con un’idea come l’amore. Se i moderni realmente abbisognano di una semplice religione di amore, devono cercarla nel Credo atanasiano. La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e 289

chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combattè per un Dio di Amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici. Fu lui che combatté per il Santo Bambino contro la grigia deità dei farisei o dei sadducei. Egli combattè per quel vero equilibrio di indipendenza e di intimità, nella stessa Trinità della natura divina, che trae i nostri cuori verso la Trinità della Sacra Famiglia. Il suo dogma, se la frase non è male intesa, identifica Dio con la Sacra Famiglia. Che questo dogma puramente cristiano si sia per la seconda volta effettivamente ribellato contro l’Impero, ed effettivamente per la seconda volta abbia ricostituito la Chiesa contro l’Impero, è una prova di più che c’era qualche cosa di positivo e di personale che agiva nel mondo; altro che una fede ufficiale adottata dall’Impero! Fu questa forza che distrusse radicalmente la fede ufficiale che l’Impero aveva adottato. Andò per la sua strada, e va tuttora. Ci sono molti altri esempi, nei quali si ripete precisamente lo stesso processo che noi abbiamo esaminato nel caso dei manichei e degli ariani. Pochi secoli dopo, per esempio, la Chiesa doveva difendere la stessa Trinità, che è semplicemente il lato logico dell’amore, contro un’altra apparizione della deità isolata e semplificata, nella religione dell’Islam. Eppure ci sono di quelli che non vedono per che cosa si battevano i crociati! E qualcuno ancora parla come se il Cristianesimo non fosse mai stato altro che una forma di quel che essi chiamano Ebraismo nato con la decadenza dell’ellenismo! Costoro devono certamente essere molto imbarazzati per la guerra tra la Mezzaluna e la Croce. Se il Cristianesimo non fosse stato che una semplice dottrina morale per spazzar via il politeismo, non si vede perché la Cristianità non sia stata confusa nell’Islam. La verità è che l’Islam stesso fu una reazione barbarica contro quella 290

complessità umana che è caretteristica del Cristianesimo; quella idea di un equilibrio nella divinità, come nella famiglia, che fa del credo cristiano una sorta di sanità e di quella sanità l’anima della civiltà. Ed ecco perché la Chiesa fin dal principio mantiene la sua posizione e il suo punto di vista, del tutto separato dagli accidenti e dall’anarchia dell’epoca. Ecco perché dà colpi imparziali a destra e a sinistra, al pessimismo dei manichei o all’ottimismo dei pelagiani. Non fu un movimento manicheo perché non fu affatto un movimento. Non fu una moda ufficiale perché non fu una moda. Fu qualche cosa che potè coincidere con movimenti e con mode, potè dominarli e sopravvivere. Potessero alzarsi dalle loro tombe i grandi eresiarchi per confondere questi loro camerati odierni! Nulla c’è nelle affermazioni di questi critici, che non possa distruggersi facendo appello a codeste grandi testimonianze. Il critico moderno dirà, con la solita leggerezza, che il Cristianesimo non fu che una reazione verso l’ascetismo e lo spiritualismo antinaturale, una danza di fachiri furiosi contro la vita e contro l’amore. Ma Manete, il gran mistico, risponderà loro dal suo segreto trono e griderà: «Questi cristiani non hanno diritto ad essere chiamati spirituali; questi cristiani non hanno titolo ad essere chiamati ascetici; essi che si compromisero con la maledizione della vita e con tutta l’immondizia della famiglia. Per colpa loro la terra è ancora imbrattata di frutta e di messi e sporca di popolazione. Il loro non fu un movimento contro la natura; se no, i miei figli l’avrebbero portato in trionfo; questi pazzi rinnovarono il mondo, quando io lo avrei annientato con un gesto». E un altro critico scriverà che la Chiesa non fu che l’ombra dell’Impero, il capriccio di un imperatore; e che rimase in Europa soltanto come il fantasma del potere di Roma. Ma Ario il diacono risponderà uscendo dalla tenebra 291

dell’oblio: «No, davvero; se no, il mondo avrebbe seguito la mia religione più ragionevole. Le mia religione cadde dinanzi a demagoghi e a uomini che sfidarono Cesare: attorno al mio campione era il mantello purpureo e mia fu la gloria delle aquile. Non fu per mancanza di queste cose che io fallii». E ancora, un terzo moderno vorrà insistere che il credo si sparse solo per una specie di panico del fuoco infernale; gli uomini ovunque tentando l’impossibile per sottrarsi a incredibili vendette; un’ossessione e un incubo di immaginari rimorsi; e tale spiegazione soddisferà molti i quali vedono qualche cosa di orribile nella dottrina dell’ortodossia. E allora risuonerà la terribile voce di Tertulliano: «E perché allora io fui gettato fuori, e perché cuori e cervelli teneri decisero contro di me, quando io proclamai la perdizione di tutti i peccatori; e che cos’era questo potere che mi attraversò la strada quando a tutti gli apostati io minacciavo l’inferno? Nessuno percorse, come me, quella dura via, mio è il credo quia impossibile». Ed ecco la quarta insinuazione: che c’era qualcosa di semitico in tutta questa faccenda, che era una nuova invasione dello spirito nomade che agitava un paganesimo più blando e più comodo, con le sue città e i suoi dei familiari; per cui le gelose razze monoteistiche avrebbero potuto dopo tutto imporre il loro geloso Dio. E Maometto, sollevandosi fuor del ciclone, del rosso ciclone del deserto, risponderà: «Chi mai servì più di me la gelosia di Dio o lo lasciò più solo nel Cielo? Chi mai rese più onore a Mosè e ad Abramo o vinse più battaglie contro gli idoli e contro le immagini pagane? E che cosa fu che mi ricacciò indietro con l’energia di una cosa viva, e il cui fanatismo potè respingermi dalla Sicilia e strappare le mie profonde radici dalle rocce di Spagna? Quale fede era la loro che radunò migliaia di ogni classe e paese a gridare che la mia rovina era la volontà di Dio, e che lanciò il grande 292

Goffredo come una catapulta contro le mura di Gerusalemme, e portò il gran Sobieski come un fulmine alle porte di Vienna? Penso che valesse più di quanto credete una religione che lottò in questo modo con la mia». Coloro che vorrebbero dare ad intendere che la fede fu un fanatismo, sono dannati a una eterna perplessità. Secondo loro, il Cristianesimo dovrebbe apparire fanatico per nulla e fanatico contro tutto. Sarebbe ascetico e in guerra con gli asceti; romano e in rivolta contro Roma; monoteista e furiosamente avverso al monoteismo; severo nella sua condanna della severità; un enigma che non potrebbe essere spiegato nemmeno come sragionamento. E qual sorta di sragionevolezza potrebbe esser questa che è sembrata ragionevole a milioni di europei d’ogni ceto attraverso tutti i rivolgimenti di milleseicento anni? La gente non si diverte con un rebus o con un paradosso o un pasticcio nella testa per tanto tempo. Io non so trovare altra spiegazione se non che una cosa simile non è sragionevolezza ma ragionevolezza; che se è fanatica è fanatica con ragione e contro tutto quel che è senza ragione. Questa è l’unica spiegazione che io possa trovare di una cosa fin dall’inizio così lontana e così confidente, che condanna le cose che paiono somigliarle, che respinge l’aiuto di poteri che si sarebbero detti essenziali alla sua esistenza, che condivide dal lato umano tutte le passioni del tempo, eppure sempre, al supremo momento, sa sollevarsi d’un tratto al di sopra di esse, che dice sempre al momento opportuno quel che è necessario sia detto, e giammai ha bisogno di disdire quello che ha detto; io non posso trovare altra spiegazione se non che questa cosa, come Pallade dal cervello di Giove, era davvero venuta fuori dalla mente di Dio, matura e possente e armata per tutti i giudizi e per tutte le guerre. 293

1. Fondatrice della Scienza Cristiana.

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Capitolo V L’evasione dal paganesimo IL MISSIONARIO MODERNO, col suo cappello di foglie di palma e il suo ombrello, è diventato una figura piuttosto comica. Egli è canzonato dagli uomini del mondo per la facilità con cui può essere mangiato dai cannibali e per il gretto bigottismo che gli fa ritenere la civiltà dei cannibali inferiore alla sua. Forse il lato più gustoso dello scherzo è in questo: che gli uomini del mondo non s’accorgono che lo scherzo è contro di loro. E’ alquanto ridicolo domandare a un uomo sul punto di essere bollito in una pentola, e mangiato per la festa, perché non consideri tutte le religioni come egualmente amichevoli e fraterne. Ma c’è una più sottile critica mossa al missionario più vecchio stile; ed è che egli generalizza un po’ troppo parlando di paganesimo, e bada troppo poco alle differenze fra maometto e mumbo-jumbo. Probabilmente c’è del vero in questo rimprovero, specialmente per il passato; ma io ritengo che l’esagerazione sia ora del tutto opposta. I professori hanno la tentazione di trattare le mitologie un po’ troppo come teologie: come cose fortemente pensate e seriamente credute. Gli intellettuali hanno la tentazione di prendere troppo sul serio le belle ombre delle varie scuole legate alle irresponsabili metafisicherie asiatiche. Soprattutto, hanno la tentazione di sfuggire alla vera verità insita nell’idea dell’aquinate contra Gentiles o di Atanasio 295

contra mundum. Se il missionario dice, infatti, che egli è eccezionale come cristiano, e che il resto delle razze e delle religioni può essere classificato collettivamente come paganesimo, ha perfettamente ragione. Se dice ciò con spirito ingiusto, avrà spiritualmente torto. Ma alla fredda luce della filosofia e della storia, ha intellettualmente ragione. Egli può non ragionare rettamente, ma ha ragione. Può anche non aver diritto di aver ragione, ma ha ragione. Il mondo esterno, a cui egli porta il suo credo, è realmente suscettibile di certe generalizzazioni che coprono tutte le sue varietà; non è semplicemente una varietà di credi affini. Forse è una tentazione troppo grossa per l’orgoglio o per l’ipocrisia chiamarlo paganesimo. Sarebbe meglio chiamarlo semplicemente umanità. Ma ci sono larghe caratteristiche di quel che chiamiamo umanità, in quel che chiamiamo paganesimo. Non che siano necessariamente delle caratteristiche riprovevoli; alcune anzi sono degne del rispetto del Cristianesimo; altre sono state assorbite e trasfigurate nella sostanza del Cristianesimo. Ma in ogni caso esistevano prima del Cristianesimo, e ancora esistono fuori del Cristianesimo, così come il mare esisteva prima della barca ed esiste tutt’intorno alla barca; e hanno un sapore forte, universale, e inconfondibile come il mare. Per esempio, tutti i veri studiosi della cultura greca e romana sono d’accordo nell’affermare che nel mondo antico la religione era una cosa e la filosofia un’altra. Gli antichi poco si curavano di razionalizzare e al tempo stesso realizzare una vera credenza negli dei. Ed era diffìcile trovare una simile credenza tra i filosofi. Ma nessuno aveva la voglia o forse il potere di perseguitare gli altri, salvo in casi peculiari e particolari; e né il filosofo nella sua scuola né il sacerdote nel suo tempio sembrano aver mai seriamente considerata la propria concezione come esclusiva e 296

sufficiente. Un sacerdote che sacrificava ad Artemide in Calidone non faceva nulla perché, oltre mare, si sacrificasse a lei anziché ad Iside; un saggio che seguiva la legge vegetariana dei neopitagorici non cercava affatto che questa legge prevalesse universalmente ed escludesse i metodi di Epitteto e di Epicuro. Chiamiamolo, se vogliamo, liberalismo; io non discuto, descrivo un’atmosfera. Tutto ciò, dico, è ammesso da tutti gli studiosi, ma quello che né scienziati né quelli che scienziati non sono hanno mai pienamente capito, forse, è che questa descrizione è la descrizione esatta di tutta la civiltà non cristiana d’oggigiorno; e specialmente delle grandi civiltà orientali. Il paganesimo orientale è realmente tutto di un pezzo come è tutto d’un pezzo l’antico paganesimo, più di quanto i critici moderni siano soliti di ammettere. È un tappeto persiano multicolore, come quello era un pavimento romano fatto di tasselli variegati; ma il vero crepaccio in quel pavimento venne dal terremoto della Crocifissione. L’europeo moderno che cerca la sua religione in Asia, ce la trova. La religione è, là, qualche cosa di diverso; è più ed è meno. È come uno che segnasse sulla carta geografica il mare come terra; che segnasse le onde come montagne, senza comprenderne la natura peculiare. E’ verissimo che l’Asia ha la sua dignità e poesia ed elevata civiltà. Ma non è minimamente vero che l’Asia abbia i suoi definiti domini morali, l’appartenenza ai quali sia concepita in termini di moralità; come quando diciamo che l’Irlanda è cattolica o che la Nuova Inghilterra era puritana. L’atlante non segna le religioni, nel senso nostro di chiese. Lo stato d’animo è assai più sottile, più relativo, più discriminatorio, più vario e mutevole, come i colori del serpente. Il musulmano è il più vicino approccio per un cristiano militante; e ciò precisamente perché è il più vicino approccio per un inviato della civiltà occidentale. Il musulmano nel cuore dell’Asia 297

quasi rappresenta l’anima europea. Egli sta fra l’Asia e l’Europa rispetto allo spazio, come sta fra i culti orientali e il Cristianesimo rispetto al tempo. In tal senso i musulmani in Asia sono semplicemente come i nestoriani in Asia. L’Islam, parlando storicamente, è la più grande delle eresie orientali. Esso deve qualche cosa all’isolata e unica individualità d’Israele, ma più deve a Bisanzio e all’entusiamo teologico del Cristianesimo. Deve qualche cosa anche alle crociate. Ma non deve niente all’Asia; niente all’atmosfera dell’antico e tradizionale mondo asiatico, con la sua immemorabile etichetta e le sue filosofìe stupefacenti e senza fondo. Tutta quella antica e autentica Asia sentì l’entrata dell’Islam come qualche cosa di straniero, di occidentale, di guerriero, che la trafisse come una lancia. Anche dove potessimo tracciare in linee tratteggiate i domini delle religioni asiatiche, noi probabilmente dovremmo leggere qualche cosa di dogmatico e di etico, propio della nostra religione. E’ come se un europeo, ignorante dell’atmosfera americana, credesse che in America ogni «Stato» fosse uno Stato sovrano separato, patriottico come la Francia o la Polonia, o che quando uno yankee parla appassionatamente della sua città volesse intendere che non ha altra patria, come un antico cittadino di Atene o di Roma. Come costui leggerebbe una particolare sorta di patriottismo in America, così dobbiamo leggere una particolare sorta di fedeltà religiosa in Asia. Vi sono fedeltà di altra specie; ma non ciò che gli occidentali intendono per essere credente, per cercare di essere cristiano, per essere un buon protestante e un cattolico praticante. Nel mondo intellettuale ciò corrisponde a qualche cosa di assai più vago e variato da dubbi e speculazioni. Nel mondo morale corrisponde a qualche cosa di più libero e fluttuante. Un professore di persiano in una delle nostre grandi università, partigiano appassionato dell’Oriente, tanto da 298

professare un pratico disprezzo per l’Occidente, diceva ad un mio amico: «Voi non comprenderete mai le religioni orientali, perché concepite sempre la religione come connessa con l’etica. Questa specie di religione non ha nulla a che fare con l’etica». La maggior parte di noi sa qualche cosa di certi maestri della saggezza superiore, di certi pellegrini sul sentiero della potenza, di certi esoterici santi o veggenti orientali, che realmente nulla hanno a che fare con l’etica. Qualche cosa di differente, di remoto e di irresponsabile empie l’atmosfera morale dell’Asia, e tocca anche quella dell’Islam. Egli era preso nell’atmosfera di Hassan, un’atmosfera, purtroppo, orribile. Con tali bagliori come ne abbiamo negli antichi e genuini culti dell’Asia. Più profonda delle profondità della metafisica, più addentro negli abissi delle meditazioni mistiche, sotto tutto quel solenne universo di cose spirituali, vi è una segreta, intangibile e terribile levità. Quel che si fa non ha importanza. O perché non credono al diavolo, o perché credono al destino, o perché l’esperienza qui è tutto, e la vita eterna qualche cosa di totalmente diverso, certo per una qualche ragione essi sono totalmente diversi. Ho letto, non ricordo dove, che c’erano nella Persia medioevale tre grandi amici famosi per la loro unità mentale. Uno divenne il responsabile e rispettato visir del Gran Re; il secondo fu il poeta Omar, pessimista ed epicureo che tracannava vino alla barba di Maometto; il terzo fu il Vecchio della Montagna, che ubriacava la gente con l’hascisc perché trucidasse altra gente con pugnali. Effettivamente non conta nulla ciò che si fa. Il sultano di Hassan avrebbe capito tutti e tre codesti uomini; egli era i tre uomini messi insieme. Ma questo genere di universalisti non può avere ciò che noi chiamiamo un carattere; siamo in pieno caos. Essi non possono scegliere; non possono combattere; non possono pentirsi; 299

non possono sperare. Non possono nemmeno, nello stesso senso, creare qualche cosa, poiché creare significa scegliere. Non curano, secondo la nostra frase religiosa, la loro anima. Perché la nostra dottrina della salvezza realmente significa un lavoro come quello di un uomo che voglia fare una bella statua; una vittoria con le ali. Perciò deve esserci una scelta finale; un uomo non può fare una statua se non sciupa della pietra. C’è realmente questa immoralità dietro le metafisiche dell’Asia. E la ragione è che non c’è stato nulla attraverso quella impensabile serie di età che portasse lo spirito al punto giusto, che gli dicesse che era venuto il tempo di scegliere. Lo spirito ha vissuto troppo nell’eternità. L’anima è stata troppo immortale; nel senso che essa ignora l’idea di peccato mortale. Ha avuto troppa eternità; non ha compreso abbastanza dell’ora della morte e del giorno del giudizio. Non vede il punto cruciale, nel senso letterale che non ha sufficientemente il concetto della croce. Questo intendiamo quando diciamo che l’Asia è decrepita. Ma, a rigore, l’Europa è vecchia quanto l’Asia; in un certo senso, ogni luogo è vecchio quanto un altro. Quel che vogliamo dire è che l’Europa non ha continuato a invecchiare: è rinata. L’Asia è tutta umanità, come avesse costruito il suo destino umano. L’Asia, nel suo vasto territorio, con le sue varie popolazioni, nelle altezze della sua passata civiltà, nelle profondità delle sue oscure speculazioni, è essa stessa un mondo. E’ un cosmo più che un continente. È il mondo come l’uomo l’ha fatto. Perciò l’Asia sta come la sola rappresentante del paganesimo e la sola rivale del Cristianesimo. Ma dovunque sia possibile cogliere altrove raggi di quel destino mortale, essi sempre suggeriscono stadi della stessa storia. Dove l’Asia giunse con gli ultimi tentacoli negli arcipelaghi dei selvaggi del Sud, o dove una tenebra piena di forme senza nome pesa sul cuore dell’Africa, o dove gli ultimi superstiti delle perdute razze si attardano nel 300

freddo vulcano dell’America preistorica, è tutta la stessa storia; talora forse sono gli ultimi capitoli della stessa storia. Uomini impigliati nella foresta della loro mitologia; uomini annegati nel mare della loro metafisica. I politeisti si sono stancati delle più pazzesche finzioni. I monoteisti si sono stancati delle più meravigliose verità. I diabolisti qua e là hanno un tale odio del cielo e della terra, che han cercato di rifugiarsi nell’inferno. È la caduta dell’Uomo; è esattamente quella caduta che fu avvertita dai nostri padri al primo momento del declino di Roma. Anche noi andavamo giù per quell’ampia strada; giù per quella facile china, seguendo la magnifica processione delle alte civiltà del mondo. Se la Chiesa non fosse entrata allora nel mondo, è probabile che l’Europa sarebbe oggi quello che è l’Asia; e anche peggio. Qualche cosa può esser concesso alla differenza di razza e d’ambiente, visibile nel mondo antico come nel moderno. Ma noi parliamo in senso lato d’un Oriente immutabile perché l’Oriente non ha sofferto grandi cambiamenti. Allo stesso modo il paganesimo nell’ultima sua fase mostrò segni notevoli di tendere all’immutabilità. Ciò non significa che non sarebbero sorte nuove scuole o sette filosofiche, come sorsero nuove scuole nell’antichità e sorgono nell’Asia. Non significa che non ci sarebbero stati dei mistici e dei visionari, come ce ne furono nell’antichità e ce ne sono stati nell’Asia. Non significa che non ci sarebbero stati codici sociali, come c’erano nell’antichità e ci sono in Asia. Non significa che non ci sarebbero stati uomini buoni o vite felici, perché Dio ha dato a tutti gli uomini una coscienza e la coscienza può dare a tutti gli uomini la pace. Ma significa che il tono e la proporzione di tutte queste cose, e specialmente la proporzione delle cose buone e cattive, sarebbero stati in un immutato Occidente quel che sono nell’immutabile Oriente. E nessuno che 301

guardi onestamente e con simpatia a questo immutabile Oriente può credere che ci sia niente di rassomigliante, sia pur lontanamente, alla sfida e alla rivoluzione della fede. In breve, se il paganesimo classico fosse rimasto fino ad ora, molte cose potevano egualmente esser sopravvissute con lui, e sarebbero press’a poco come quelle che chiamiamo religioni orientali. Ci sarebbero ancora i pitagorici a insegnare la reincarnazione, come ci sono gli indù che insegnano la reincarnazione. Ci sarebbero gli stoici con la loro religione di ragione e di virtù, come ci sono i confuciani che della ragione e della virtù fanno una religione. Ci sarebbero i neoplatonici a studiare verità trascendentali, il cui significato è misterioso ad altri, e perfino disputato fra loro; come i buddisti ancora studiano un trascendentalismo misterioso ad altri e disputato fra loro. Ci sarebbero intelligenti apolloniani apparentemente adoratori del Dio Sole, che spiegherebbero essere il principio divino, come ci sono intelligenti parsi che apparentemente adorano il sole ma spiegano che adorano la divinità. Ci sarebbero ancora i selvaggi dionisiaci danzanti sulle montagne, come ci sono i selvaggi dervisci che ballano nel deserto. Ci sarebbero ancora folle di popolo alle feste popolari degli dei, nell’Europa pagana come nell’Asia pagana. Ci sarebbero ancora moltitudini di dei, locali o no, da essere adorati. E ci sarebbe ancora più gente ad adorarli che a crederci. Finalmente, ci sarebbe ancora un numero grandissimo di persone che adorerebbe gli dei e crederebbe negli dei; e che crederebbe negli dei e adorerebbe gli dei semplicemente perché sono demoni. Ci sarebbero ancora i levantini che sacrificherebbero segretamente a Moloch, come ci sono ancora i thugs che sacrificano segretamente a Kalì. Ci sarebbe ancora molta magia, e buona parte di essa sarebbe magia nera. Ci sarebbe ancora grande ammirazione per Seneca, e larga imitazione di 302

Nerone, proprio come gli esaltati epigrammi di Confucio possono coesistere con le torture della Cina. E sopra tutta quella intricata foresta di tradizioni selvagge o sfiorite si stenderebbe l’ampio silenzio di uno stato d’animo singolare e senza nome, ma che potrebbe approssimativamente chiamarsi il nulla. Queste cose, buone e cattive, avrebbero indescrivibilmente l’aria di essere troppo vecchie per morire. Nessuna di queste cose che avesse occupata l’Europa in assenza del Cristianesimo, avrebbe la minima somiglianza col Cristianesimo. Se la metempsicosi di Pitagora ci fosse ancora, noi la chiameremmo religione pitagorica così come parliamo di religione buddista. Se ci fossero ancora le nobili massime di Socrate, potremmo parlare di religione socratica come parliamo di religione di Confucio. Se una festa popolare si riconoscesse da un mitologico inno a Adone, noi potremmo parlare di religione di Adone come parliamo della religione di Juggernaut1. Se la letteratura fosse ancora basata sulla mitologia greca, potremmo chiamare quella mitologia religione, come chiamiamo religione la mitologia indù. Potremmo dire che c’erano tante migliaia o milioni di uomini appartenenti a quella religione, nel senso che frequentavano quei templi, o semplicemente vivevano in un paese pieno di quei templi. Ma se noi chiamiamo l’ultima tradizione di Pitagora o la tardiva leggenda di Adone col nome di religione, allora dobbiamo trovare un altro nome per la Chiesa di Cristo. Se qualcuno dice che le massime filosofiche conservatesi attraverso molti secoli, o che i templi mitologici frequentati da molti popoli, sono cose che appartengono alla stessa classe o categoria della Chiesa, basta rispondere semplicemente che non è vero. Nessuno pensa che siano la stessa cosa quando li vede nelle vecchie civiltà della Grecia e di Roma; nessuno penserebbe che potessero essere la stessa 303

cosa, se quelle civiltà fossero durate duemila anni di più ed esistessero all’epoca presente; nessuno può ragionevolmente pensare che siano la stessa cosa nella civiltà pagana - a quella parallela - dell’Oriente d’oggi. Nessuna di queste filosofie o mitologie rassomiglia in alcun modo a una Chiesa; certamente non rassomigliano alla Chiesa militante. E, come ho dimostrato altrove, anche se questa regola non fosse già provata, l’eccezione confermerebbe la regola. La regola è che la storia precristiana o pagana non produce una Chiesa militante, e l’eccezione (o quel che potrebbe dirsi eccezione) è che l’Islam è almeno militante se non è Chiesa. Ciò appunto perché l’Islam è fra le religioni rivali la sola che non è precristiana e perciò in quel senso non è pagana. L’Islam fu un prodotto del Cristianesimo; anche se fu un sottoprodotto, anche se fu un cattivo prodotto. Fu un’eresia o parodia che emulava, e perciò imitava, la Chiesa. Non stupisce quindi che il maomettismo abbia qualche cosa del suo spirito di combattività, come il quaccherismo ha qualche cosa del suo spirito di pace. Dietro il Cristianesimo ci sono state molte emulazioni o estensioni. Avanti ad esso non ce n’è nessuna. La Chiesa militante è unica perché è un esercito in marcia verso la liberazione universale. I legami, da cui il mondo deve essere liberato, possono essere benissimo simboleggiati dalla condizione dell’Asia, come dalla condizione dell’Europa pagana. Non intendo soltanto la loro condizione morale o immorale. Il missionario, in realtà, ha molto più da dire a propria difesa di quel che il razionalista immagini, anche quando dice che gli infedeli sono idolatri e immorali. Un tratto di esperienza realistica intorno alle religioni orientali, anche a quella musulmana, rivelerà sorprendenti insensibilità in fatto di etica, come per esempio, la indifferenza pratica alla linea di distinzione tra passione e perversione. Non è il pregiudizio, ma l’esperienza 304

pratica che dice che l’Asia è piena di demoni non meno che di dei. Ma il male mi pare sia nello spirito. E’ nello spirito ogni qual volta lo spirito abbia lavorato per molto tempo su se stesso. Ciò accade quando tutto il sogno e il pensiero sono arrivati ad un vuoto che è al tempo stesso negazione e necessità. Lo chiamano anarchia, ma è anche schiavitù. È quel che è stato detto la ruota dell’Asia; tutti quegli argomenti ricorrenti sulle cause gli effetti, o quelle cose he cominciano e finiscono nello spirito, rendendo impossibile all’anima di buttarsi avanti, o di andare in qualsiasi posto, o di fare qualsiasi cosa. E non è un fatto necessariamente peculiare agli asiatici; sarebbe stata questa anche la fine degli europei, se qualche cosa non fosse accaduto. Se la Chiesa militante non fosse stata una cosa in marcia, tutti gli uomini sarebbero rimasti a segnare il passo. Se la Chiesa militante non avesse sopportato una disciplina, tutti gli uomini avrebbero sopportato una schiavitù. Quella fede universale eppur battagliera portò nel mondo la speranza. Forse l’unica cosa comune alla mitologia e alla filosofia fu che erano entrambe malinconiche perché non avevano questa speranza, anche se avevano elementi di fede e di carità. Possiamo chiamare il Buddismo una fede, sebbene a noi sembri piuttosto un dubbio. Possiamo chiamare il signore della compassione signore della carità, sebbene a noi sembri una sorta di carità assai pessimistica. Ma coloro che più insistono sull’antichità e la forma di tali culti debbono convenire che attraverso tutti i tempi essi non hanno soddisfatto tutte le esigenze di una pratica e pugnace speranza. Nel Cristianesimo la speranza non è mai stata assente; è stata piuttosto errante, stravagante, eccessivamente fìssa su miraggi fuggevoli. La sua perpetua rivoluzione e ricostruzione è stata almeno una prova che il popolo si trovava nella migliore condizione di spirito. L’Europa veramente rinnovò la sua giovinezza come le 305

aquile; come le aquile di Roma si levarono di nuovo sulle legioni di Napoleone, o come abbiam visto pur ieri volteggiare l’aquila argentea di Polonia. Ma nel caso della Polonia anche la rivoluzione è sempre andata di pari passo con la religione. Napoleone stesso cercò di mettersi d’accordo con la religione. La religione non ha mai potuto essere definitivamente separata anche dalla più ostile delle speranze; semplicemente perché è la sorgente reale della speranza. E la causa di ciò deve ricercarsi nella religione stessa. Quelli che discutono su ciò, raramente la considerano in se stessa. Non c’è spazio né luogo qui per una trattazione esauriente, ma una parola può esser detta per spiegare una conciliazione che sempre ricorre e sembra sempre richiedere una spiegazione. Non finiranno mai i noiosi dibattiti sulla teologia liberaleggiante finché la gente non si persuaderà che nella teologia la sola parte liberale è la parte dogmatica. Il dogma è incredibile, perché è incredibilmente liberale. Ed è irrazionale, solo in quanto ci dà più sicurezza di libertà di quella che sarebbe giustificata dalla ragione. Un esempio ovvio lo abbiamo in quella forma essenziale di libertà che chiamiamo libero arbitrio. E’ assurdo dire che uno mostra il suo liberalismo negando la sua libertà. Ma è sostenibile che per affermare la sua libertà egli debba affermare una dottrina trascendentale. In un certo senso possiamo ragionevolmente dire che in quanto l’uomo ha un’originaria facoltà di scelta, egli ha perciò un potere soprannaturale di creazione, come se potesse far risuscitare i morti o far nascere i non nati. L’uomo dev’essere in questo caso, miracoloso; dev’essere miracoloso per essere uomo; e, più ancora, per essere libero. Ma è assurdo proibirgli d’essere un uomo libero, e proibirglielo in nome di una più libera religione. Tutto ciò è vero in altri cento casi. Chiunque crede in Dio 306

deve credere nell’assoluta supremazia di Dio. Ma, dato che quella supremazia abbia delle gradazioni in senso liberale o illiberale, va da sé che il potere illiberale è la divinità dei razionalisti e il potere liberale è la divinità dei dogmatisti. Quando il monoteismo diventa monismo, di altrettanto si avvicina al dispotismo. E l’ignoto dio dello scienziato, con i suoi impenetrabili proponimenti e la sua legge inevitabile e inalterabile, che ci ricorda l’autocrate prussiano che, di sotto la tenda remota, coi suoi piani rigorosi, mette in movimento l’umanità come una macchina. È, viceversa, il Dio dei miracoli e delle preghiere che ci ricorda un principe liberale e popolare, che riceve le petizioni, ascolta i parlamenti, ed esamina i casi di un intero popolo. Io non voglio ora discutere la razionalità di questa concezione sotto altri rispetti; in linea di fatto non è, come qualcuno suppone, irrazionale; perché non c’è nulla di irrazionale nel più saggio e illuminato re che si regoli a seconda del modo in cui si regolano coloro che vuol salvare. Qui noto soltanto la natura generale di liberalismo, o di una sfera di azione libera e larga. E sotto questo aspetto è certo che il re può esser magnanimo soltanto quando può essere quel che alcuni direbbero capriccioso. Il cattolico, che sente che le sue preghiere possono portare delle differenze se offerte per i vivi e per i morti, sente anche di vivere come un libero cittadino in un regime costituzionale, mentre il monista che vive sotto un’ unica ferrea legge deve sentire di vivere come uno schiavo sotto un sultano. Io credo che l’uso originale della parola suffragio, che noi adopriamo nel gergo politico per voto, sia stato quello teologico nel senso di preghiera. Si dice che i morti in Purgatorio hanno i suffragi dei viventi. E in questo senso, di una specie di diritto di petizione al reggitore, possiamo veramente dire che tutta la Comunione dei santi, come tutta la Chiesa militante, è fondata sul suffragio universale. 307

Ma, soprattutto, ciò è vero nel caso più tremendo: quello della tragedia che ha creato la divina commedia del nostro credo. L’estrema e forte e meravigliosa dottrina della divinità di Cristo non produrrà mai quell’effetto particolare capace di commuovere il sentimento popolare come un suono di tromba, se non con l’idea di un re che serva nei ranghi come un semplice soldato. Umanizzando quella figura, rendiamo quella storia molto meno umana. Togliamo dalla storia il punto che effettivamente punge l’umanità; quel punto che è quasi letteralmente la punta di una lancia. Non si umanizza l’universo col dire che uomini buoni e saggi possono morire per le loro opinioni; non fa più effetto di quel che farebbe in un esercito il sentir proclamare che i buoni soldati possono facilmente essere uccisi. Non è una novità che il re Leonida sia morto, né che sia morta la regina Anna; gli uomini non aspettarono il Cristianesimo per essere uomini, nel senso di essere eroi. Ma se noi vogliamo un’impressione di ciò che è generoso e popolare, e anche pittoresco, la più elementare conoscenza della natura umana ci dirà che non c’è sofferenza dei figli degli uomini, o anche dei servi di Dio, che colpisca come colpisce l’idea di un padrone che soffre al posto dei suoi servi. E questa impressione ce la dà superlativamente il Dio teologico e non il Dio scientifico. Nessun misterioso monarca, nascosto sotto il suo padiglione stellato nelle retrovie della campagna cosmica, può minimamente paragonarsi al Capitano divinamente cavalleresco che riporta ben cinque ferite sul fronte di battaglia. Quel che l’avversario del dogma in realtà vuol dire, non è che il dogma sia cattivo, ma piuttosto che il dogma è troppo bello per essere vero. Il dogma dà all’uomo troppa libertà quando gli permette di cadere. Il dogma dà troppa libertà anche a Dio quando gli permette di morire. Ecco che cosa dovrebbero dire gli scettici intelligenti; e io non nego 308

che qualche cosa da dire ci sia. Essi vogliono dire che l’universo per se stesso è una universale prigione; che l’esistenza stessa è una limitazione e un controllo; e non per niente essi parlano di catena della causalità. Voglion dire, in una parola, che non possono credere a certe cose; e non che non siano cose degne di esser credute. Noi diciamo, non per modo di dire, ma letteralmente, che è la verità che ci ha fatto liberi. Essi dicono che se ci fa tanto liberi non può essere la verità. Per loro, è come credere nelle fate, credere nella libertà che noi godiamo. E’ come credere negli uomini con le ali, ammettere che ci siano uomini con la volontà. È come prestar fede alla favola dello scoiattolo in conversazione con la montagna, credere in un uomo libero di domandare, o in un Dio libero di rispondere. Questa è, del resto, una negazione umana e razionale, per la quale io avrò sempre il massimo rispetto. Mi rifiuto invece di rispettare coloro che prima di tutto tàrpano le ali all’uccello e mettono in gabbia lo scoiattolo, ribadiscono le catene e negano la libertà, chiudono dietro di noi tutte le porte della prigione cosmica con gran clangore di ferro eterno, ci dicono che la nostra emancipazione è un sogno e la nostra prigionia una necessità; e poi tranquillamente girano sui tacchi e ci vengono a raccontare che il loro pensiero è più libero e la loro teologia più liberale. La morale di tutto ciò è vecchia: la religione è rivelazione. O, in altri termini, è una visione, una visione ricevuta con fede, ma una visione di realtà. La fede consiste nella convinzione della sua realtà. Questa è, per esempio, la differenza tra una visione e una fantasticheria. E questa è la differenza tra religione e mitologia. Questa è la differenza tra la fede e tutto quel lavoro di fantasia, umano ma non sempre sano, che noi abbiamo esaminato nel capitolo sulla mitologia. La stessa parola visione, razionalmente adoperata, implica due concetti: primo, che è 309

una cosa che capita di rado, possibilmente una volta sola; secondo, che probabilmente viene una volta per tutte. Una fantasticheria si può avere ogni giorno; e può essere ogni giorno diversa. È una differenza più grande di quella che c’è fra il raccontare storie di spiriti e incontrare uno spirito. Ma se non è una mitologia, nemmeno è una filosofia. Non è una filosofia perché, essendo una visione, non è un modello ma un quadro; non è una di quelle semplificazioni che risolvono ogni cosa in un’astratta spiegazione: che tutto è ricorrente, tutto è relativo, tutto è inevitabile, tutto è illusorio. Non è un meccanismo, ma un racconto; ha le proporzioni che si riscontrano in un quadro o in un racconto; non ha le ripetizioni regolari di un modello o di un meccanismo; ma le rimpiazza con l’essere convincente come un quadro o come un racconto. In altre parole è esattamente, ecco la frase, come la vita. Perché, infatti, è vita. Un esempio di quel che qui si vuole intendere può darsi a proposito del problema del male. E facile farsi un piano di vita, il cui sfondo sia nero, come fanno i pessimisti; e poi, lasciarvi qualche venatura dorata più o meno accidentale, o almeno letteralmente insignificante. Ed è altrettanto facile farsi un altro piano sulla carta bianca, come fanno gli scientisti cristiani, e spiegare che non ci son né macchie né punti neri. Infine, più facile di tutto è forse dire — come fanno i dualisti - che la vita è un gioco di scacchi in cui le due parti sono eguali; e che può dirsi con eguale verità che consista di pezzi bianchi su una tavola nera o di pezzi neri su una tavola bianca. Ma ognuno sente in cuor suo che nessuno di questi tre piani cartacei è come la vita, che in nessuno di questi tre mondi si può vivere. Qualche cosa gli dice che in fin dei conti l’idea di un mondo non è cattiva e neanche neutrale; guardando il cielo, o l’erba, o le verità della matematica, o anche un uovo deposto or ora, ha una vaga impressione come l’ombra di quel detto 310

del gran filosofo cristiano, san Tommaso d’Aquino: «Ogni esistenza, in quanto tale, è buona». D’altronde, qualche cos’altro gli dice che è inumano e vile e anche malsano ridurre il male alle proporzioni di un punto nero o di una macchia. Egli capisce che l’ottimismo è morboso. Se possibile, anche più morboso del pessimismo. Tali sentimenti vaghi ma sani, se lui li seguisse, apparirebbero chiari nell’idea che il male è in qualche guisa un’eccezione, ma un’enorme eccezione; e in fin dei conti che il male è un’invasione e più precisamente una ribellione. Egli non pensa che ogni cosa sia retta o che ogni cosa sia storta, o che ogni cosa sia egualmente retta e storta. Ma pensa che il diritto ha un diritto d’esser diritto, e perciò il diritto di esserci; e che il torto non abbia diritto d’esser torto e perciò non abbia diritto di esserci. E’ il principe del mondo; ma è anche un usurpatore. Così egli apprenderà in maniera vaga ciò che la visione gli prospetterebbe in maniera evidente, insieme con tutta quella strana storia di tradimenti celesti e di grandi diserzioni con cui il male danneggiò e cercò di distruggere un cosmo che non poteva creare. E’ una storia stranissima e le sue proporzioni, linee e colori sono arbitrari e assoluti come una composizione artistica. È una visione che noi simboleggiamo pittoricamente con membra titaniche e tinte appassionate di ali: tutta una visione abissale di stelle cadenti e di panoplie notturne. Ma questa strana storia ha un piccolo vantaggio sui diagrammi. E’ come la vita. Un altro esempio potrebbe trovarsi, non nel problema del male, ma in quello che si suol dire il problema del progresso. Uno dei più acuti agnostici dell’epoca una volta mi chiese se io credevo che l’umanità diventasse migliore, o peggiore, o rimanesse la medesima. Egli era convinto che l’alternativa coprisse tutte le possibilità. Non vedeva ch’essa copriva soltanto dei modelli e non delle pitture; dei processi 311

meccanici e non delle avventure. Gli chiesi a mia volta se pensava che il signor Smith di Golder’s Green sarebbe diventato migliore, o peggiore, o rimasto esattamente lo stesso fra i trenta e i quarant’anni. Allora parve spuntare in lui il sospetto che ciò sarebbe dipeso piuttosto dal signor Smith; e dal modo in cui avrebbe deciso di continuare a vivere. Mai gli era balenato che potesse dipendere da come l’umanità avrebbe scelto di procedere; e che il corso della storia non era una linea retta o una curva ascendente o discendente, ma una traccia come quella di un uomo che traversa una valle, che va dove gli piace e si ferma dove crede, entrando in una chiesa, o cadendo ubriaco in un ruscello. La vita dell’uomo è un racconto; un racconto di avventure; e nel nostro modo di considerare le cose ciò è vero anche della storia di Dio. La fede cattolica è la riconciliazione, perché è la realizzazione della mitologia e della filosofia. E una storia, e in un certo senso è una storia fra tante; solo che è una storia vera. E’ una filosofia, una fra le tante filosofie; solo che è una filosofia che è come la vita. Ma soprattutto è una riconciliazione perché è qualche cosa che si può definire la filosofìa delle storie. Quel naturale istinto narrativo che produsse tutti i racconti di fate è trascurato da tutte le filosofie, eccetto una. La fede è la giustificazione di quell’istinto popolare; è la scoperta di una filosofia per quell’istinto o l’analisi della filosofia che c’è in esso. Esattamente come un uomo in un racconto di avventure deve superare varie prove per aver salva la vita, così l’uomo in cotesta filosofia deve passare varie prove per aver salva la sua anima. In entrambi c’è un’idea di libero arbitrio operante sotto condizioni determinate; in altre parole c’è uno scopo, e tocca all’uomo di mirarvi; perciò noi stiamo a vedere se colpirà il bersaglio. Ora, quest’istinto profondo, democratico e drammatico, è 312

deriso e bandito da ogni altra filosofia, poiché tutte le altre filosofie confessatamente finiscono dove cominciano; mentre una storia esiste e si definisce nel fatto che termina in modo diverso: che comincia in un luogo e finisce in un altro. Da Budda con la sua ruota a Akhen-Aten col suo disco, da Pitagora con le sue astrazioni aritmetiche a Confucio con la sua religione di routine, non ce n’è uno che in qualche guisa non pecchi contro l’anima della storia. Nessuno c’è che realmente afferri questa idea umana del racconto, della prova, dell’avventura: il cimento dell’uomo libero. Ognuno inaridisce l’istinto narrativo, per così dire, e fa qualche cosa per spogliare la vita umana da quel che ha di romanzesco; o per fatalismo (pessimista o ottimista) e per quel destino che è la morte dell’avventura; o per indifferenza e per quel distacco che è la morte del dramma; o per un fondamentale scetticismo che dissolve gli attori in àtomi; o per una materialistica limitazione che impedisce la vista delle conseguenze morali; o per una ripetizione meccanica che rende monotone anche le prove morali; o per una relatività senza base che rende incerte anche le prove pratiche. C’è una storia umana; e c’è una storia divina, che è anche storia umana. Ma non c’è una storia hegeliana o monista o relativista o determinista. Perché ogni storia, sì, anche un romanzaccio o una novelletta da quattro soldi, ha qualche cosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina col giudizio finale. E questa è la ragione per cui i miti e le filosofie furono in guerra finché non venne Cristo. Ecco perché la democrazia ateniese uccise Socrate per mancato rispetto agli dei; e perché ogni sofista randagio si dava arie da Socrate ogni qual volta potesse parlare degli dei in tono superiore; e perciò il faraone eretico fracassò i suoi colossali idoli e templi per una astrazione; e perché i sacerdoti poterono 313

tornare in trionfo e schiacciare sotto i piedi la sua dinastia; ecco perché il Buddismo dovette dividersi dal braminismo e perché in ogni epoca e paese fuori del Cristianesimo c’è sempre stata battaglia tra il filosofo e il sacerdote. È facile dire che il filosofo è generalmente il più razionale; è più facile ancora dimenticare che il sacerdote è sempre il più popolare. Perché il sacerdote racconta la storia al popolo; e il filosofo non capisce la filosofia della storia. La quale fu introdotta nel mondo con la storia di Cristo. Ed ecco perché dovette essere una rivelazione o visione data dall’alto. Chi pensasse ad una teoria delle storie o delle pitture, vedrà facilmente il punto della questione. La vera storia del mondo deve esser raccontata da qualcuno a qualcun altro. Per la natura stessa una storia non può esser lasciata al caso. Una storia ha proporzioni, variazioni, sorprese, disposizioni particolari, che non possono essere ricavate secondo una regola, in astratto come una somma. Non potremmo dedurre se Achille voleva o no seguire il corpo di Ettore da una teoria pitagorica di numeri o di ripetizioni; e non potremmo inferire in qual modo il mondo potrebbe riavere il corpo di Cristo, semplicemente dal sentirci dire che tutte le cose girano sulla nota di Budda. Un uomo può forse ricavare una proposizione di Euclide senza aver sentito parlare di Euclide; ma non potrebbe ricavare la precisa leggenda di Euridice senza aver sentito parlare di Euridice. Ad ogni modo, non sarebbe certo di come la storia finisce e se Orfeo da ultimo fu sconfitto. Meno ancora potrebbe indovinare la fine della nostra storia; o la leggenda del nostro Orfeo che risorge, non sconfìtto, dai morti. Per concludere, la sanità del mondo fu restaurata e all’anima dell’uomo fu offerta la salvezza da qualche cosa che realmente soddisfaceva le due contrastanti tendenze del passato; che non erano state mai soddisfatte appieno, e men che mai soddisfatte insieme. Andò incontro alla 314

propensione mitologica per il romanzo per il fatto di essere una storia, e alla propensione filosofica per la verità per il fatto di essere una storia vera. Ecco perché la figura ideale doveva essere un personaggio storico, come nessuno aveva mai pensato che fosse Adone o Pan. Ed ecco, anche, perché il personaggio storico doveva essere una figura ideale; e anche adempiere molte funzioni che si attribuiscono a quelle altre figure ideali; ecco perché egli fu nello stesso tempo il sacrifìcio e il banchetto, e perché potè essere mostrato sotto gli emblemi della vite crescente e del sole sorgente. Più approfondiamo questa questione, e più dovremo concludere che, se c’è realmente un Dio, la sua creazione non avrebbe potuto raggiungere altro culmine che questo di concedere al mondo un vero romanzo. Altrimenti, i due lati dello spirito umano non avrebbero combaciato; e il cervello dell’uomo sarebbe rimasto fesso e doppio; con un lobo che avrebbe sognato impossibili sogni e l’altro che avrebbe ripetuto invariabili calcoli. I pittori sarebbero rimasti sempre a dipingere il ritratto di nessuno. I sapienti sarebbero sempre rimasti ad addizionare numeri che non portavano a nulla. Era quell’abisso che nulla poteva colmare fuori di un’incarnazione; una divina personificazione dei nostri sogni; e questa sta su quell’iato il cui nome è più che di sacerdote ed è più antico del Cristianesimo: Pontefice Massimo, il grandissimo edificatore del ponte. Ma, anche con questo, torniamo al simbolo più specificamente e tradizionalmente cristiano: il perfetto modello delle chiavi. Questo è un abbozzo di storia e non un riassunto di teologia, e qui non è mio compito difendere quella teologia, ma semplicemente rilevare che essa non potrebbe essere giustificata nella sua determinazione senza essere giustificata nei suoi particolari, come una chiave. Al di là della larga suggestione di questo capitolo, io non tento alcuna apologia sul motivo per cui il credo debba essere 315

accettato. Ma in risposta al problema storico del perché fu accettato, ed è accettato, io do per altri milioni di persone questa risposta: perché corrisponde alla serratura; perché è come la vita. È una delle tante storie; con questo di più, che è una storia vera. E’ una fra le tante filosofie; con questo di più, che è la verità. Noi faccettiamo; e il terreno è solido sotto i nostri piedi, e la strada è aperta davanti a noi. Esso non c’imprigiona in un sogno fatalistico o nella coscienza di una universale illusione. Esso apre a noi non soltanto incredibili cieli, ma una terra (può sembrare) egualmente incredibile, e la fa credibile. Questa è la verità che è duro spiegare perché è un fatto, ma è un fatto di cui noi siamo testimoni. Siamo cristiani e cattolici non perché adoriamo una chiave, ma perché abbiamo varcato una porta; e abbiamo sentito lo squillo di tromba della libertà passare sopra la terra dei viventi. 1. Juggernaut è un termine inglese di origine sanscrita, usato per definire una forza, di qualunque natura, considerata inarrestabile e distruttiva.

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Capitolo VI Le cinque morti della fede NON È PROPOSITO DI QUESTO LIBRO tracciare la successiva storia del Cristianesimo, specialmente la più recente, che comprende controversie di cui spero scrivere più diffusamente altrove. Questo libro è dedicato soltanto a dimostrare che il cristianesimo, apparendo in mezzo all’umanità pagana, ebbe tutte le caratteristiche di una cosa unica e soprannaturale. Fu diverso da ogni altra cosa; e più lo studiamo e più ci pare diverso. Ma c’è un carattere peculiare che lo contrassegnò, da principio e fino ad oggi, con una nota che può ben essere la conclusione di questo libro. Ho detto che l’Asia e il mondo antico avevano l’aria di esser troppa vecchi per morire. Il Cristianesimo ha avuto un destino opposto. Il Cristianesimo ha avuto una serie di rivoluzioni e in ognuna di esse è morto. Il Cristianesimo è morto più volte ed è sempre risorto, perché aveva un Dio che sapeva la strada per uscire dal sepolcro. Ma il primo fatto straordinario che caratterizza questa storia è che l’Europa è stata messa parecchie volte sottosopra; e che alla fine di ognuno di questi capovolgimenti la stessa religione si è sempre ritrovata sulla cima. La fede ha convertito tutte le epoche, non come religione vecchia ma come una religione nuova. Questa verità rimane nascosta a molti da una convenzione troppo poco presa in considerazione. È 317

curioso che si tratti di una di quelle convenzioni che proprio coloro che la ignorano vogliano più scoprire e denunciare. Essi ci dicono sempre che i sacerdoti e le cerimonie non sono la religione, e che l’organizzazione religiosa può essere un vuoto inganno; ma non si rendono conto della verità di quello che dicono. E’ così vero che tre o quattro volte almeno nella storia del Cristianesimo parve che tutta l’anima ne fosse uscita fuori; e ognuno in cuor suo ne attendeva la fine. E il fatto è solo mascherato nel Medioevo come in altri tempi da quella tale religione ufficiale, che quei critici si vantano di vedervi. Il Cristianesimo potè rimanere la religione ufficiale di un principe rinascimentale o la religione ufficiale di un vescovo del secolo decimottavo, allo stesso modo che un’antica mitologia rimase la religione ufficiale di Giulio Cesare o il credo ariano rimase a lungo la religione ufficiale di Giuliano l’Apostata. Ma c’era una differenza tra il caso di Giulio Cesare e quello di Giuliano, perché la Chiesa aveva già iniziato il suo strano corso. Non c’era alcuna ragione perché uomini come Cesare non adorassero in pubblico dei come Giove e ne ridessero in privato. Mentre, quando Giuliano trattava il Cristianesimo da morto, dovette poi convincersi che aveva ripreso a vivere; e dovette anche convincersi che Giove non accennava a dare il più piccolo segno di vita. Questo caso di Giuliano e l’episodio dell’arianesimo non è che il primo di una serie di esempi, che qui possiamo solo indicare all’ingrosso. L’arianesimo, come è stato detto, aveva umanamente tutta l’apparenza di essere la via naturale per cui si poteva presumere che la particolare superstizione di Costantino sarebbe stata liquidata. Tutte le fasi del ciclo si erano svolte: il credo era divenuto una cosa rispettabile; era divenuto una cosa rituale; poi era stato ridotto ad una cosa razionale; e i razionalisti erano pronti a dissipare gli ultimi residui di esso, proprio come fanno oggigiorno. Quando il Cristianesimo si 318

risollevò improvvisamente e li rovesciò fu un fatto inaspettato quasi come la risurrezione di Cristo. Ma ci sono molti altri esempi dello stesso genere sempre intorno a quei tempi. L’accorrere di missionari dall’Irlanda, per esempio, ha tutta l’aria di un’inaspettata incursione di giovani su un mondo vecchio, e anche su una Chiesa che mostrava d’invecchiare. Alcuni ne furono martirizzati sulla costa di Cornovaglia e il più autorevole studioso delle antichità del luogo mi assicurava di non aver creduto un solo momento che fossero stati martirizzati dagli infedeli, ma (com’egli si espresse non senza ironia) «piuttosto da cristiani annacquati». Ora se noi guardiamo sotto la superficie (il che non rientra in questo argomento nelle nostre intenzioni) ho paura che troveremmo moltissime occasioni in cui tutte le apparenze facevano credere il Cristianesimo fosse svuotato internamente dal dubbio e dall’indifferenza, così che si salvava solo il vecchio scafo cristiano allo stesso modo in cui si era salvato per tanto tempo lo scafo pagano. Ma la differenza è che, in tutti questi casi, i figli furono fanatici per la fede, laddove i padri erano stati fiacchi. Ciò è ovvio nel caso del trapasso dal Rinascimento alla Controriforma. E’ ovvio nel caso del trapasso dal secolo decimottavo alle molte reviviscenze cattoliche del nostro tempo. E io credo che si troverebbero molti altri esempi degni di essere studiati singolarmente. La fede non è una sopravvivenza. Non è come se i druidi fossero riusciti a sopravvivere in qualche luogo per duemila anni. Questo è quanto poteva succedere in Asia o nell’antica Europa, in quella indifferenza o tolleranza in cui le mitologie e le filosofie potevano vivere in perpetuo le une a fianco delle altre. La fede non è sopravvissuta; è tornata più volte in questo mondo occidentale dai rapidi cambiamenti e dalle istituzioni perennemente in 319

dissoluzione. L’Europa è sempre stata, nella tradizione di Roma, tra rivoluzioni e ricostruzioni: intenta a edificare una repubblica universale. E sempre ha cominciato col rigettare questa vecchia pietra e sempre ha finito col farne la pietra angolare, col riportarla indietro dal mucchio dei rottami per farne il coronamento del Campidoglio. Delle pietre di Stonehenge alcune stanno ritte, altre sono cadute; e come la pietra è caduta così è rimasta. Non c’è stato un Rinascimento druilico, ogni secolo o due, con giovani druidi coronati di vischio, e danzanti nel sole sul piano di Salisbury. Stonehenge non ha avuto ricostruzioni in ogni stile di architettura, dal rozzo rotondo normanno all’ultimo rococò del barocco. La sacra dimora dei druidi è salva dal vandalismo delle restaurazioni. Ma la Chiesa nell’Occidente non era in un mondo dove le cose fossero troppo vecchie per morire; era in uno dove le cose erano sempre abbastanza giovani per essere ammazzate. La conseguenza fu che, superficialmente ed esternamente, spesso furono ammazzate; anzi, qualche volta, finirono per consunzione. E qui segue un fatto che non è facile descrivere; eppure lo credo verissimo e di notevole importanza. Come uno spettro è l’ombra di un uomo, e perciò l’ombra della vita, così ad intervalli passò attraverso questa vita senza fine una specie di ombra della morte. Ciò si verifica tutte le volte in cui il Cristianesimo sarebbe perito se fosse stato perituro. Tutto quello che c’era di perituro cadeva. Se paralleli animaleschi si addicessero all’occasione, potremmo dire che il serpente rabbrividiva, mutava pelle e andava avanti, o che il gatto entrava in convulsione, quando perdeva una sola delle sue novecentonovantanove vite. È più esatto dire, con similitudine più degna, che batteva un orologio e non accadeva nulla; o che una campana suonava per una esecuzione che era eternamente rimandata. 320

Quale fu il significato di tutta quell’oscura ma grande irrequietudine del dodicesimo secolo, quando, come è stato detto, Giuliano si levò dal suo sonno? Perché apparve allora, così stranamente presto, nel crepuscolo dell’aurora dopo le buie età, quel profondo scetticismo contenuto nella lotta del nominalismo contro il realismo? Giacché il realismo contro il nominalismo fu, in realtà, il realismo contro il razionalismo, o qualche cosa di più deleterio di ciò che chiamiamo razionalismo. La risposta è che come qualcuno poteva aver considerato la Chiesa semplicemente quale una parte dell’Impero romano, così altri potrebbero più tardi aver pensato la Chiesa soltanto come una parte del Medioevo. Le età oscure finirono come era finito l’Impero; e la Chiesa sarebbe finita con loro, se essa fosse stata una delle ombre della notte. Sopraggiungeva un altro di quei funebri spettri, o simulacri di morte. Intendo dire che se il nominalismo avesse trionfato, sarebbe stato come se avesse trionfato l’arianesimo; sarebbe stato il principio della confessione che il Cristianesimo aveva fallito. Giacché il nominalismo è uno scetticismo molto più fondamentale del mero ateismo. Tale era la questione che fu apertamente posta nel momento in cui le Età oscure si allargavano nella luce solare di quel mondo che noi diciamo moderno. Ma quale fu la risposta? La risposta fu l’Aquinate che, insediato al posto di Aristotele, ne acquistava tutto il sapere per il suo Ordine; furono le decine di migliaia di giovani, fino agli ultimi ranghi dei contadini e dei servi, che vivendo di stracci e di croste stavano nei grandi collegi ad ascoltare la filosofia scolastica. Quale fu il significato di tutto quel bisbiglio di paura che corse per l’Occidente sotto l’ombra dell’Islam, e riempie ogni antico romanzo di incongrue figure di cavalieri saraceni scorazzanti nella Norvegia o nelle Ebridi? Perché uomini dell’Estremo Occidente, come il re Giovanni, se 321

ben ricordo, furono accusati di essere segretamente musulmani, come altri uomini sono accusati di essere segretamente atei? Perché ci fu quel vivo allarme tra le maggiori autorità sulla versione razionalistica degli arabi e su Aristotele? Le autorità raramente si allarmano, se non quando è troppo tardi. La risposta è che centinaia di persone probabilmente credettero in cuor loro che l’Islam avrebbe vinto il Cristianesimo; che Averroè fosse più razionale di Anseimo; che la cultura saracena fosse realmente, com’era superficialmente, una cultura superiore. Qui probabilmente troveremmo un’altra volta una intera generazione, la più vecchia, in preda ai dubbi e depressa e stanca. L’avvento dell’Islam sarebbe stato l’avvento dell’unitarianismo mille anni prima del suo tempo. A molti poteva sembrare una cosa molto ragionevole e probabile e facile ad accadere. Se così fu, essi saranno stati sorpresi di quel che accadde. Quello che accadde fu una voce come di tuono da parte di migliaia e migliaia di giovani, che gettarono la loro gioventù in un esultante contrattacco: le crociate. Furono i figli di san Francesco, i giullari di Dio, che arrivarono cantando per tutte le vile della terra; fu il gotico che si levò come una fuga di frecce; fu il risveglio del mondo. Nel considerare la guerra degli albigesi, noi vediamo la breccia nel cuore dell’Europa e lo scivolare di una nuova filosofia che avrebbe finito il Cristianesimo per sempre. In questo caso la nuova filosofìa era anche veramente una nuova filosofia; era il pessimismo. E non erano idee meno moderne per il fatto che erano vecchie quanto l’Asia: erano idee modernissime. Erano gli gnostici che tornavano; ma perché tornavano? Perché era la fine di un’epoca, come la fine dell’Impero; e avrebbe dovuto essere la fine della Chiesa. Era Schopenhauer aleggiante nel futuro, ma era anche Manicheo che risorgeva dai morti; gli uomini potevano avere la morte, e potevano averla più 322

abbondantemente. Ciò è tanto più evidente nel caso del Rinascimento, per la semplice ragione che quel periodo è più prossimo a noi, e si conosce molto meglio. Ma anche in quell’esempio ce n’è più di quanto generalmente si sappia. A prescindere da particolari controversie, che io desidero riserbare ad uno studio separato, il periodo fu assai più caotico di quanto da tali controversie risulti. Quando i protestanti chiamano Latimer un martire del Protestantesimo e i cattolici replicano che Campione fu un martire del Cattolicesimo, si dimentica spesso che molti che perirono in quelle persecuzioni potrebbero solo esser chiamati martiri dell’ateismo, o dell’anarchia, e perfino del diabolismo. Quel mondo era pazzo quasi come il nostro; fra gli uomini che vagavano in esso c’era quello che diceva che Dio non esiste, c’era quello che diceva di esser egli stesso Dio, c’era quello che diceva cose senza capo né coda. Se potessimo avere la conversazione dell’età seguente al Rinascimento, saremmo probabilmente colpiti dalle sue spudorate negazioni. Certe frasi attribuite a Marlowe sono probabilmente tipiche del modo di parlare di allora in molte taverne intellettuali. La transizione dell’Europa dalla pre-Riforma alla post-Riforma avvenne attraverso un vuoto di domande sbadiglianti; eppure, ancora, nella lunga corsa, la risposta fu la stessa. Fu uno di quei momenti in cui, come Cristo camminava sulle acque, cosi il Cristianesimo camminò per aria. Ma tutti questi casi sono di data remota e dovrebbero essere dimostrati nei particolari. Possiamo vedere il fenomeno più chiaramente al momento in cui il paganesimo del Rinascimento finì il Cristianesimo e il Cristianesimo inaspettatamente ricominciò tutto da capo. E possiamo vederlo più chiaramente che mai in un caso che è vicinissimo a noi, e pieno di evidenza manifesta e minuta: il caso della grande decadenza religiosa iniziatasi intorno ai 323

tempi di Voltaire. Questo è il caso nostro; e noi stessi abbiam visto la decadenza di quella decadenza. I duecento anni trascorsi dopo Voltaire non possiamo abbracciarli con uno sguardo come il IV ο V secolo, o come il XII e XIII secolo. Ai nostri giorni questo processo lo abbiamo spesso, si può dire, a portata di mano; sappiamo come una società possa perdere completamente la sua religione senza abolirla come religione ufficiale; sappiamo come gli uomini possano diventare tutti agnostici molto tempo prima di abolire i vescovi. E sappiamo che anche in quest’ultima fine, che realmente ci parve la fine definitiva, l’incredibile cosa avvenne di nuovo: la fede ebbe miglior séguito fra i giovani che tra i vecchi. Ibsen, parlando di una nuova generazione che bussava alla porta, certamente non pensava che si trattasse della porta di chiesa. Almeno cinque volte, quindi, con gli ariani e con gli albigesi, con gli scettici umanisti, dopo Voltaire e dopo Darwin, la fede è andata, secondo tutte le apparenze, ai cani. In ognuno di questi cinque casi fu il cane che morì. Quanto fu completo il collasso e quanto strano il rovescio, possiamo solo vederlo particolareggiatamente nel caso più prossimo ai nostri tempi. Mille cose sono state dette circa il movimento di Oxford e la parallela rinascita cattolica francese; ma pochi ci hanno fatto capire a questo proposito la cosa più semplice: che cioè - fu una sorpresa. Fu un enigma non meno che una sorpresa, perché sembrò alla maggior parte come un fiume che tornasse indietro dal mare e cercasse di risalire la montagna. Chi conosce la letteratura dei secoli decimottavo e decimonono sa che quasi tutti erano arrivati a dare per concesso che la religione era una cosa che si sarebbe allargata di continuo come un fiume, fino a raggiungere un mare infinito. Alcuni si aspettavano di vederla piombare nella cataratta di una catastrofe, molti si aspettavano di 324

vederla distendersi in un estuario di eguaglianza e di moderazione; ma tutti consideravano un eventuale ritorno della religione su se stessa come un prodigio incredibile al pari della stregoneria. In altri termini, la gente ben pensante credeva che la fede, come la libertà, dovesse allargarsi lentamente; e qualcuno d’idee più avanzate pensava che dovesse allargarsi tanto da attenuarsi. Tutto il mondo di Guizot e di Macaula, e il liberalismo commerciale e scientifico, fu forse quello che ebbe la maggiore certezza circa la direzione che il mondo avrebbe preso. La gente era tanto sicura della direzione che soltanto discuteva sulla rapidità della marcia. Molti anticipavano con allarme (e pochi con simpatia) una rivolta giacobina che avrebbe ghigliottinato l’arcivescovo di Canterbury, o una sommossa cartista che avrebbe impiccato i parroci ai lampioni delle strade. Parve perciò una convulsione nella natura quando si vide che l’arcivescovo invece di perdere la testa cercava la mitra; e che invece di diminuire il rispetto dovuto ai parroci si dovette intensificarlo sino a rispettare i preti. Questo fatto rivoluzionò la stessa visione della rivoluzione e rivoltò sottosopra il loro stesso capovolgimento. In breve, il mondo, essendo diviso sulla questione se il corso del fiume sarebbe stato più lento o più veloce, avvertì qualche cosa, una cosa vaga ma vasta, che andava contro il fiume. Tanto nel fatto che nella metafora c’è un non so che di profondamente disturbante; e ciò per una ragione essenziale. Una cosa morta va col fiume; ma soltanto una cosa viva può andare contro. Un cane morto può andare con la corrente saltellando come un levriero; ma solo un cane vivo può nuotare all’indietro. Una barca di carta può cavalcare sul gonfiarne diluvio con tutta l’aerea arroganza di una nave fatata; ma se la nave fatata naviga controcorrente essa è realmente condotta dalle fate. Fra le cose che andarono con la marea dell’apparente grandezza e 325

progresso moderno, ci furono molti demagoghi e sofisti, i cui strani gesti erano senza vita come il movimento degli arti di un cane morto ondeggiante sull’acqua turbinosa; e molte filosofie simili a barchette di carta, di quelle di cui fanno i cappelli i ragazzi. Ma anche le cose che vivono, o che vivificano, andando con la corrente, non dimostrano di esser vive davvero. Quest’altra forza, questa sì, che era indubbiamente e incredibilmente viva: dico la misteriosa e smisurata energia che rimontava il fiume. Parve come il movimento di un grande mostro; ed era un mostro ben vivo benché tanta gente lo credesse un mostro preistorico. Era un innaturale, assurdo e in certo qual modo comico rigonfiamento, come se il gran serpente di mare si sollevasse improvvisamente dallo Stagno Rotondo, a meno che non si consideri il serpente di mare come più propenso a vivere nella Serpentina1. Non bisogna lasciarsi sfuggire questo elemento leggero e fantastico, che fu una delle più chiare testimonianze della inaspettata natura del rovesciamento. In quell’epoca si avvertì realmente che certe qualità degli animali preistorici appartenevano anche ai rituali storici: che mitre e tiare erano come le corna e le creste dei mostri antidiluviani; e che appellarsi alla Chiesa primitiva era come abbigliarsi da uomo primitivo. Il mondo è ancora stupito di quel movimento: ma più di tutto perché il movimento continua ancora. Ho detto qualche cosa altrove dei rimproveri alquanto imprecisi che ancora s’indirizzano contro di esso, e contro le sue molto più importanti conseguenze; basti dire che certi critici più lo eplorano e meno lo spiegano. Mio intendimento qui, se non di spiegarlo, è di suggerire almeno la direttiva per una spiegazione; ma soprattutto è mio intendimento sottolineare un fatto particolare. Ed è che tutto ciò era accaduto prima, e anche più di una volta. Per concludere, se è vero che i secoli recenti hanno visto 326

una attenuazione della dottrina cristiana, non hanno visto né più né meno di quel che videro i secoli più remoti. E anche l’esempio moderno è finito come finirono gli esempi medioevali e premedioevali. È chiaro, e diviene ogni giorno più chiaro, che non si va a finire nella sparizione d’un credo attenuato; ma piuttosto nel ritorno di quelle parti di esso che erano veramente scomparse. Si va a finire come finì il ompromesso ariano, come finirono i tentativi di un compromesso coi nominalisti e anche con gli albigesi. Ma il punto da afferrare nel caso moderno, come del resto in tutti gli altri casi, è che quella che ritorna non è una teologia semplificata; né una teologia purificata secondo nuove vedute; è semplicemente la teologia. E’ quell’entusiasmo per gli studi teologici che caratterizzò le età più dottrinali; è la scienza divina. Un vecchio professore con D.D.2 dopo il suo nome può essere diventate la figura tipica del seccatore; questo perché egli stesso era seccato della sua teologia, non perché fosse appassionato per essa. Era seccato perché presumibilmente s’interessava più del latino di Plauto che del latino di Agostino, più del greco di Senofonte che di quello del Crisostomo; perché s’interessava più di una tradizione morta che di una tradizione decisamente vivente. Insomma, era seccato precisamente perché era egli stesso il tipo di un’epoca in cui la fede cristiana era debole. Non perché gli uomini non volessero attaccarsi, se avessero potuto, alla mirabile e quasi fantastica visione di un Dottore di Divinità. C’è della gente che dice di desiderare che il Cristianesimo rimanga come spirito. Intendo dire, letteralmente, ch’essi desiderano rimanga come uno spirito nel senso di spettro. Ma il Cristianesimo non è destinato a rimanere come un fantasma. Quel che succede a questo processo di morte apparente non è il vagare di un’ombra; è la resurrezione di un corpo. Questa gente è preparatissima a versare lacrime 327

pie e riverenti sul sepolcro del Figlio dell’Uomo; quello a cui non è preparata è vedere il Figlio dell’Uomo che cammina di nuovo sui colli del mattino. Questa gente, e purtroppo la maggioranza, era ormai sinceramente abituata all’idea che la luce delle vecchie candele cristiane sarebbe impallidita al chiarore del giorno. Molti di loro onestamente la presero per una pallida giallognola fiamma di candela lasciata accesa di giorno. Fu tanto più inaspettata, e perciò tanto più evidente, la vista del candelabro dai sette rami che troneggiò d’improvviso verso il cielo come un albero miracoloso fiammeggiante tanto da fare impallidire il sole. Ma altre epoche hanno visto il giorno vincere la luce del candelabro, e poi il candelabro vincere nuovamente il giorno. Tante volte, prima di noi, gli uomini si sono contentati di una dottrina diluita. E altrettante volte è seguita a quella diluizione, come fuor dalla tenebra in una cataratta vermiglia, la forza del rosso vino genuino. Possiamo dire ancora una volta oggi quello che fu detto dai nostri padri: «Anni e secoli addietro i nostri progenitori, i fondatori del nostro popolo, bevvero il sangue di Dio. Anni e secoli sono passati; la forza di quella gigantesca vendemmia altro non fu che una leggenda dell’età dei giganti. Sono già secoli dal tempo fosco della seconda fermentazione, quando il vino del Cattolicesimo si mutò nell’aceto del Calvinismo. Da gran tempo l’amara bevanda fu diluita; sciacquata e lavata dalle acque dell’oblio e dall’onda del mondo. Giammai pensavamo di gustare nuovamente lo spirito e l’amaro sapore di sincerità, meno ancora la più ricca e più dolce forza delle vigne purpuree dei nostri sogni dell’età dell’oro. Giorno per giorno e anno per anno, abbiamo abbassate le nostre speranze e diminuite le nostre convinzioni; ci siamo a poco a poco abituati a vedere quei vasi e quelle vigne straboccanti e inondati con gli ultimi sapori e sentori di quell’acquitriccio che sbiadisce come una macchia di rosso 328

in un mare di grigio. Ci siamo assuefatti alla diluizione, alla dissoluzione, a un annacquamento che non finiva mai. Ma Tu hai conservato il buon vino fino ad oggi». Questo è il fatto finale, e il più straordinario di tutti. La fede non solo è morta spesso, ma spesso è morta di vecchiaia. Non solo è stata uccisa spesso, ma spesso è morta di morte naturale: nel senso che è giunta ad una fine naturale e necessaria. È ovvio che è sopravvissuta alle più selvagge e più universali persecuzioni dallo scoppio della furia di Diocleziano allo scoppio della Rivoluzione francese. Ma ha una tenacia anche più strana e fatale: è sopravvissuta non solo alla guerra, ma alla pace. Non solo è morta spesso, ma spesso ha anche degenerato e spesso è decaduta: è sopravvissuta alla sua debolezza e perfino alla sua resa. Non è necessario ripetere ciò che è così ovvio a proposito della bellezza della fine di Cristo nelle sue nozze di gioventù e di morte. Questo è quasi come se Cristo avesse vissuto sino all’ultimo respiro possibile, fosse divenuto un saggio centenario dai capelli bianchi, fosse morto di vecchiaia naturale, e fosse poi risorto ringiovanito con grandi squilli e lacerazioni di cielo. Fu detto non senza ragione che il Cristianesimo umano, nella sua ricorrente debolezza, troppo spesso si sposò ai poteri del mondo; ma se si sposò, spesso anche rimase vedovo. E fu una strana vedovanza. Un nemico avrà potuto dire che era uno degli aspetti del potere dei Cesari; ma ciò suona strano oggi come dirlo un aspetto dei faraoni. Un nemico potrà dire che era la fede ufficiale del feudalismo; e ciò è tanto convincente quanto dire ch’era condannato a perire coll’antica villa romana. Tutte coteste cose percorsero la loro via fino al termine normale, e parve che nessun’altra via ci fosse per la religione, tranne quella di morire con loro. Invece finì e cominciò di nuovo. «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». La civiltà antica era tutto il mondo; e gli 329

uomini non pensavano alla fine più di quel che sognassero la fine del giorno. Non potevano immaginare un altro ordine, a meno che non ci fosse un altro mondo. La civiltà del mondo è passata, e quelle parole non sono passate. Nella lunga notte del Medioevo il feudalismo era così familiare che nessuno poteva immaginarsi non soggetto a un signore, e la religione era così intimamente connessa al tessuto feudale che nessuno credeva che le due cose potessero scindersi con uno strappo. Lo stesso feudalismo fu ridotto in brandelli, e si dissolse nella riscossa popolana del vero Medioevo; ed ecco, il primo e il più fresco potere di quella nuova libertà fu la vecchia religione. Il feudalismo era passato; e quelle parole non passarono. Tutto l’ordine medioevale, che fu per tanti versi una completa e quasi cosmica casa dell’uomo, si logorò gradualmente a sua volta; si pensò che almeno allora quelle parole sarebbero morte. Ma esse andarono oltre attraverso l’abisso radioso del Rinascimento e in cinquant’anni seppero servirsi di tutta la sua luce e della sua scienza per nuove fondazioni religiose, nuove apologetiche, nuovi santi. Si suppose che sarebbero seccate nell’arida luce dell’Età della Ragione; si suppose sarebbero finalmente scomparse nel terremoto dell’Età della Rivoluzione. La scienza sembrò spiegarle una volta per tutte e sono ancora qui. La storia le dissotterrò nel passato e riapparvero improvvisamente nel futuro. Oggi stanno in piedi ancora una volta sul nostro cammino; e mentre le osserviamo, esse si sviluppano. Se i nostri rapporti e le nostre tradizioni sociali mantengono la loro continuità, se gli uomini realmente imparano ad applicare la ragione ad un cumulo di fatti così schiacciante, è da credere che, presto o tardi, anche i nemici impareranno dalle proprie incessanti e interminabili delusioni a non andar dietro ad un miraggio troppo semplice come la morte del Cristianesimo. Potranno 330

seguitare a combatterlo, ma sarà come se combattessero la natura, come combattere gli orizzonti, come combattere i cieli. «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Essi staranno attenti se vacilla; staranno attenti se erra; non aspetteranno più che finisca. Insensibilmente, forse incosciamente, nelle loro tacite anticipazioni, essi adempiranno i termini di quella profezia che rende attoniti; dimenticheranno di aspettare l’estinzione di quanto così spesso si estinse invano; e apprenderanno istintivamente a scrutare, prima, l’appressarsi delle comete e il congelarsi delle stelle. 1. Il riferimento è a due attrazioni dei Giardini di Kensington a Londra, lo Stagno Rotondo e la Serpentine Gallery. 2. D.D. sta per il latino Divinitatis Doctor, un alto grado accademico in teologia.

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Conclusione Riassunto di questo libro MI SONO PRESO LA LIBERTÀ di servirmi una volta o due dell’eccellente denominazione “profilo di storia”, sebbene questo studio di una speciale verità e di uno speciale errore non possa certo pretendere di esser comunque paragonato alla ricca e multiforme enciclopedia della storia, per cui quel nome fu scelto. Eppure c’è una certa giustificazione nel riferimento; e c’è un senso in cui le due cose coincidono. Perché la storia del mondo, come è narrata da Wells, potrebbe dal nostro punto di vista essere criticata solo come profilo. E mi sembra (strano) che sia sbagliata solo come profilo. E’ ammirabile come ammasso di storia; è splendida come magazzino o tesoro di storia; è una disquisizione affascinante sulla storia; è la più attraente amplificazione della storia; ma è completamente falsa come traccia, come schema di storia. La sola cosa sbagliata mi pare sia proprio il profilo, quella specie di contorno che è fatto veramente di una sola linea e in cui consiste la differenza tra una caricatura del profilo di Winston Churchill o di quello di sir Alfred Mond. in linguaggio piano e familiare direi: le cose che danno nell’occhio, che costituiscono la semplicità di una silhouette. Penso che siano sbagliate le proporzioni: le proporzioni di ciò che è certo comparato con ciò che è incerto, di quel che svolse una grande parte comparato con quel che ricoprì una parte 332

minore, di ciò che è comune e di ciò che è straordinario, di ciò che è realmente al livello medio e di ciò che emerge come un’eccezione. Io non lo dico per fare una piccola critica a un grande scrittore, e non avrei ragione di farlo, perché, nel mio più ristretto compito, sento di aver mancato egualmente e forse più. Ho i miei dubbi se io sia riuscito a presentare al lettore il punto principale, come io lo intendo, circa le proporzioni della storia, e se mi sia giustamente soffermato piuttosto su alcune cose che su altre. Non so se ho chiaramente eseguito il piano che mi ero proposto nel capitolo introduttivo; e per questa ragione aggiungo queste righe come una specie di riassunto in un capitolo conclusivo. Penso che le cose su cui ho insistito sono più essenziali per uno schema della storia che le cose che ho messo in seconda linea o addirittura tralasciato. Non credo che il passato si possa con maggior verità rappresentare come una cosa in cui l’umanità sparisce completamente nella natura, o la civiltà nella barbarie, o la religione nella mitologia, o la nostra religione nelle religioni del mondo. In breve, non credo che il miglior modo per tracciare i lineamenti della storia sia quello di cancellarne le linee. Credo che, fra i due, sarebbe più vicino alla verità chi raccontasse la storia con tutta semplicità, come una novella, come il mito primitivo di un uomo che fece il sole e le stelle o di un dio che entrò nel corpo di una scimmia sacra. Riassumerò quindi tutto il già detto in limiti realistici e ragionevolmente proporzionati: una brevissima storia dell’umanità. Nella terra illuminata dal vicino astro, il cui splendore è la luce del giorno, ci sono molte e varie cose, immote e moventisi. Vi si muove tra l’altro una razza che, nelle sue relazioni con le altre razze, è una razza di dei. Constatazione che non è smentita ma anzi rafforzata dal 333

fatto che questa razza può comportarsi come una razza di demoni. La sua distinzione non è una illusione individuale, come un uccello che si vesta delle sue piume; è una realtà solida e molteplice; dimostrata nelle stesse speculazioni che hanno condotto al suo negarsi. Che gli uomini - gli dei di questo basso mondo - siano incatenati ad esso in varie guise è vero; ma non è che un altro aspetto della stessa verità. Che essi crescano come cresce l’erba e camminino come le bestie, è una necessità secondaria, che non fa che accentuare la distinzione. E’ come dire che un mago deve, dopo tutto, aver l’aspetto di un uomo; o che anche le fate non potrebbero danzare senza i piedi. In questi ultimi tempi è stato di moda concentrare lo sguardo esclusivamente su queste tenui e secondarie rassomiglianze, e dimenticare il fatto principale. Si suole ripetere che l’uomo somiglia alle altre creature. Sì; ma questa stessa somiglianza, egli solo può vederla. Il pesce non trova il modello della spina di pesce nelle folaghe che volano al di sopra di lui; l’elefante e lo struzzo non paragonano i loro scheletri. Anche nel senso in cui l’uomo è tutt’una cosa con l’universo, è una universalità perfettamente solitaria. Il fatto stesso di sentirsi unito a tutte le cose basta per separarlo. Guardando intorno a sé in questa unica luce, così solinga come fiamma che egli solo abbia letteralmente acceso, questo semidio o demone del mondo visibile rende il mondo visibile. Egli vede intorno a sé un mondo di un certo stile o di un certo tipo. Il quale sembra procedere con certe regole o, almeno, ripetizioni. Egli vede un’architettura verde, costruita senza mani visibili, ma costruita sopra un piano o modello esatto, come un disegno già tracciato in aria da un dito invisibile. Non è, come ora si vorrebbe vagamente suggerire, una cosa vaga. Non è un divenire o brancolare di vita cieca. Ognuno tende a un fine, un fine glorioso e radioso: anche per ogni margherita, per ogni dente di leone 334

che noi vediamo nel traversare un campo. Nella forma stessa di queste cose non c’è solo un crescere di verde, c’è la finalità del fiore. È un mondo di corolle. Tale impressione, sia o non sia un’illusione, ha così profondamente influito su questa razza di pensatori e di maestri del mondo materiale, che la vasta maggioranza è stata indotta a formarsi una certa opinione del mondo. Essi hanno concluso, a torto o a ragione, che il mondo corrisponde a un disegno come l’albero; ha un fine e una corona come il fiore. Ma fino a che la razza dei pensatori fu capace di pensare, era ovvio che ammettere cotesta idea di un disegno prestabilito recava seco un altro pensiero più penetrante e più terribile. C’era un altro, qualche essere strano e non visto, che aveva disegnato coteste cose, se davvero erano state disegnate. C’era uno straniero, che era anche un amico, un benefattore misterioso, che ora stato prima di loro e aveva fabbricato i boschi e le colline per la loro venuta, e aveva acceso l’aurora per il loro svegliarsi, come un servo accende il fuoco. Ora, questa idea di una mente che dà un significato all’universo ha ricevuto sempre più conferma, entro le menti degli uomini, da meditazioni ed esperienze ben più sottili e scrutatrici di qualsiasi altro argomento sul disegno esterno del mondo. Ma io voglio tenere la storia nei suoi termini più semplici e più concreti; ed è abbastanza dire qui che i più degli uomini, compresi i più saggi, sono giunti alla conclusione che il mondo ha uno scopo finale e perciò anche una causa prima. Molti altri, però, in qualche modo si separarono dagli uomini più saggi, quando si giunse ad elaborare cotesta idea. Vennero così in essere due modi di valutarla; e da questi due modi di valutazione è data la maggior parte della storia religiosa del mondo. La maggioranza, come la minoranza, avevano questa profonda sensazione: di un secondo significato delle cose; di uno strano signore che conosceva il segreto del mondo. Ma 335

per la maggioranza, per la folla o la massa degli uomini, naturalmente tale sensazione tendeva ad essere oggetto delle chiacchiere comuni. E le chiacchiere contenevano, come sempre, molto di vero e molto di falso. Il mondo cominciò a raccontar delle favole circa l’essere sconosciuto, e i suoi figli, o servi, o messaggeri. Alcune di coteste favole meritano davvero di essere chiamate favole di comari; che vogliono solo essere remote reminiscenze del mattino del mondo, miti intorno alla luna bambina o alle montagne nere. Talune potrebbero meglio esser dette favole di viaggiatori; sono racconti curiosi ma contemporanei portati da zone di confine dell’esperienza: come i racconti di guarigioni miracolose o come quelli che recano i sussurri di quel che avviene nel regno dei morti. Molti sono probabilmente racconti veritieri, una parte è probabilmente buona a dare più o meno ad una persona dotata di senso comune l’impressione che c’è realmente dietro il velario cosmico qualche cosa che ha del miracoloso. Ma tutto questo è andare dietro le apparenze; anche se le apparenze si chiamano apparizioni. E’ questione di apparizioni e sparizioni. Per i più, tali dei sono spettri, cioè raggi. Per molti di noi sono piuttosto chiacchiere intorno ai raggi. Per gli altri, il mondo intero è pieno di voci, molte delle quali sono quasi apertamente romanzesche. La gran maggioranza delle favole intorno agli dei e ai fantasmi e all’invisibile re sono raccontate, se non per amore del racconto, almeno per amore del tema. Sono prove dell’interesse eterno del tema; non provano altro e non vogliono essere altro. Sono mitologia o poesia non rilegata in libri; o, meglio, non legata in alcun modo. Frattanto la minoranza, i saggi e i pensatori, si era appartata e aveva intrapreso un’attività egualmente geniale. Essi stavano tracciando piani del mondo, di quel mondo che tutti credevano avesse un piano. Si sforzavano seriamente di 336

esporre questo piano e di misurarlo. Fissavano la mente alla mente che aveva fatto il misterioso mondo; considerando quale sorta di mente potesse essere, e quale potesse essere il suo ultimo proposito. Per qualcuno quella mente era più impersonale di quanto generalmente paresse all’umanità; qualcuno la semplificò all’eccesso; pochi, ben pochi, ne dubitarono totalmente. Uno o due dei più morbosi fantasticarono che potesse essere il male e il nemico; giusto come c’erano uno o due casi di degradazione nell’altra classe: chi adorava i demoni invece degli dei. Ma la maggior parte di questi teorici erano teisti; e non solo videro un piano morale nella natura, ma generalmente tracciarono un piano morale all’umanità. I più erano buone persone che facevano un buon lavoro, e furono ricordati e onorati in varie guise. Erano scribi; e le loro scritture divennero più o meno Sacre scritture. Dettarono leggi, e la loro tradizione divenne non soltanto legge ma cerimoniale. Potremmo dire che ricevevano onori divini; infatti i re e i grandi capitani in certi paesi spesso ricevettero onori divini. In una parola, ovunque potesse entrare in gioco, l’altro spirito, lo spirito popolare, lo spirito della leggenda e del racconto, li circondò della mistica atmosfera dei miti. La poesia popolare trasformò i saggi in santi. E questo fu tutto. Il popolo rimase tale e quale; gli uomini non dimenticarono mai che erano uomini, divenuti dei solo nel senso che erano divenuti eroi. Il divino Platone, come il Divo Cesare, era un titolo, non un dogma. In Asia, dove l’atmosfera era più mitologica, l’uomo finì per aver più l’aria di un mito, pur rimanendo uomo: fu l’uomo di una certa speciale classe o scuola, che ebbe e meritò grandi onori dall’umanità. Parlo della casta o scuola dei filosofi: uomini che si misero seriamente a tracciare un ordine attraverso l’apparente caos nella visione della vita. Invece di acquietarsi alle chiacchiere dell’immaginazione e alle tradizioni remote e 337

alle esperienze d’eccezione circa la mente e il significato del mondo, essi cercarono di proiettare l’originario proposito di quella mente a priori. Cercarono di mettere sulla carta un possibile disegno del mondo, quasi come se il mondo fosse ancora da farsi. Nel mezzo di tutte queste cose ecco sorgere un’enorme eccezione. Dissimile da ogni altra cosa; definitiva come la tromba del giudizio, sebbene sia l’annunzio della buona novelia, o della novella che sembra troppo buona per esser vera; niente meno che l’annunzio strabiliante che questo misterioso fattore del mondo ha visitato il suo mondo in persona. Realmente e recentemente, in mezzo ai tempi storici, camminò per le vie del mondo quest’essere originale e invisibile, su cui i pensatori fanno teorie e i mitologisti costruiscono miti; l’Uomo Che Fece il Mondo. Che un tale alto personaggio esistesse dietro tutte le cose era sempre stato asserito da tutti i migliori pensatori, come da tutte le più belle leggende. Ma nessuna cosa di questo genere era mai stata immaginata da nessuno. È falso dire che gli altri saggi ed eroi avessero proclamato di essere quel misterioso signore e fattore, di cui il mondo aveva sognato e disputato. Nessuna delle loro sette o scuole aveva mai preteso che lo avessero dichiarato. Al massimo, i profeti religiosi avevano affermato di essere veri servi di quell’Essere. E i visionari avevano detto che gli uomini avrebbero potuto scorgere un lampo della gloria di quell’essere spirituale; o, più spesso, di altri esseri spirituali inferiori. I miti più primitivi erano arrivati ad ammettere che il Creatore fosse presente alla Creazione. Ma che il Creatore fosse presente a scene alquanto posteriori ai conviti di Orazio, e parlasse cogli esattori delle tasse e cogli ufficiali del governo, nella vita giornaliera dell’Impero romano, e che questo fatto abbia continuato ad essere fermamente asserito da tutta la popolazione di una grande civiltà per oltre un millennio, 338

ecco una cosa assolutamente diversa da ogni altra e fuori della natura. E’ la più grande e meravigliosa constatazione che l’uomo abbia fatto da quando pronunziò la prima parola articolata, invece di abbaiare come un cane. Questo carattere unico può essere adoperato come un argomento pro o contro. Sarebbe facile studiarlo come un caso di isolata insanità; ma non ne caveremmo niente, fuorché la polvere e la sciocchezza della religione comparata. L’annunzio corse per il mondo con il vento e la foga di messaggeri che proclamavano quel portento apocalittico; e non è fantastico dire che quei messaggi corrono ancora. Ciò che disorienta il mondo, e i suoi sapienti filosofi e immaginosi poeti pagani, intorno ai sacerdoti e al popolo della Chiesa cattolica, è che essi ancora si comportano come fossero messaggeri. Un messaggero non fantastica su quel che il messaggio possa essere, e non discute su quello che dovrebbe essere; egli lo consegna qual è. Non è una teoria o una fantasia, ma un fatto. E’ irrilevante, per questo nostro abbozzo intenzionalmente rudimentale, entrare in particolari per provare che è un fatto; basta rilevare che questi messaggi lo considerano come umanamente si considera un fatto. Tutto quello che si condanna nella tradizione cattolica, l’autorità, il dogmatismo e il rifiuto di ritrattare o modificare - non sono che i naturali attributi di un uomo che porta un messaggio relativo ad un fatto. Desidero evitare in questo sommario tutte le complesse controversie che potrebbero offuscare una volta di più le semplici linee di questa strana storia; la quale io ho già chiamata, con frase troppo debole, la più strana storia del mondo. Desidero unicamente segnarne le linee principali e specialmente segnare il punto dove la grande linea dev’essere realmente tracciata. La religione del mondo, nelle sue giuste proporzioni, non si 339

divide in belle ombre di misticismo e forme più o meno razionali di mitologia. E’ divisa dalla linea fra gli uomini che stanno portando quel messaggio e gli uomini che non l’hanno ancora udito, o non possono ancora prestarvi fede. Ma quando noi traduciamo i termini di quella strana storia nella terminologia più concreta e complicata del nostro tempo, noi la ritroviamo coperta da nomi e da memorie, la cui stessa familiarità è una falsificazione. Per esempio, quando diciamo che una terra contiene tanti musulmani, noi intendiamo realmente che essa contiene altrettanti monoteisti; e intendiamo, con questo, che contiene tanti uomini; uomini con la vecchia comune credenza che l’invisibile sovrano rimanga invisibile. Essi seguono in ciò le tradizioni di una certa cultura e le leggi più semplici di un certo legislatore; ma lo stesso sarebbe se il loro legislatore si chiamasse Licurgo o Solone. Essi testimoniano di qualche cosa che è una necessaria e nobile verità; ma che non fu mai una verità nuova. Il loro credo non ha un colore nuovo: è la tinta neutra e normale che è il fondo comune della multicolore vita dell’uomo. Maometto non trovò, come i Magi, una nuova stella; egli vide attraverso la sua particolare finestra un raggio dell’antico chiarore stellare. Così, quando diciamo che il paese contiene tanti confuciani o buddisti, vogliamo dire che contiene tanti pagani i cui profeti hanno dato loro un’altra e più imprecisa spiegazione della potenza invisibile: facendola non soltanto invisibile ma impersonale. Quando diciamo che anch’essi hanno templi, e idoli, e sacerdoti, e periodiche festività, intendiamo dire semplicemente che questa sorta di infedeli ha tanto di umano da ammettere l’elemento popolare di pompe, di pitture, di feste e di racconti delle fate. Intendiamo soltanto che hanno più sentimento i pagani che i puritani. Ma quello che gli dei si suppone che siano, che 340

cosa i sacerdoti abbiano incarico di dire, non è un segreto sensazionale come quello che questi volanti messaggeri del Vangelo avevano da annunciare. Nessuno, tranne quei messaggeri, ha alcun vangelo; nessun altro ha la buona novella; per la semplice ragione che nessuno ha novella alcuna. Quei messaggeri acquistano forza mentre corrono. Passano i secoli, ed essi parlano ancora, come se qualche cosa fosse successo or ora. Essi non han perduto la velocità e l’impeto dei messaggeri; non hanno perduto, per così dire, l’occhio vivo dello spettatore. Nella Chiesa cattolica, che è la coorte del messaggio, ci son ancora sconsiderati atti di santità che parlano di qualche cosa di rapido e di recente: un sacrifizio di sé che stupisce il mondo come un suicidio. Ma non è un suicidio; non è pessimistico; è ancora ottimistico come il san Francesco dei fiori e degli uccelli. È più nuovo nello spirito di ogni più nuova scuola di pensiero; ed è quasi certamente alla vigilia di nuovi trionfi. Perché questi uomini servono una madre che sembra diventare più bella con le nuove generazioni che sorgono e la chiamano beata. Vien fatto talvolta di pensare che la Chiesa ringiovanisca mentre il mondo invecchia. Questa è l’ultima prova del miracolo: che qualche cosa tanto soprannaturale sia divenuta così naturale. Voglio dire che una cosa così unica, se la si veda dall’esterno, dovrebbe sembrare universale qualora venga vista dall’interno. Io non ho cercato di ridurre la portata del miracolo, come alcuni fra i nostri più blandi teologi credono opportuno di fare. Invece mi sono deliberatamente fermato su quella incredibile interruzione, quasi un colpo che spezzò la spina dorsale della storia. Ho gran simpatia per i monoteisti, i musulmani, gli ebrei, ai quali ciò sembra una bestemmia, una bestemmia che poteva scuotere il mondo. Ma il mondo non ne fu scosso; fu consolidato. Quel fatto, 341

più lo consideriamo, più sembrerà solido e straordinario. Credo che sia un tratto di vera giustizia per tutti i miscredenti l’insistere sull’audacia dell’atto di fede che è loro domandato. Volentieri e con calore convengo che è, in se stesso, un fatto di tale suggestiva potenza che di fronte ad esso ci sarebbe da aspettarsi di vedere dar di volta anche il cervello del credente, quando esso giunga ad afferrare in tutta la sua portata la propria credenza. Ma il cervello del credente non dà di volta; sono i cervelli dei miscredenti a dar di volta. Noi possiam vedere i loro cervelli girare in ogni senso, verso tutte le stravaganze etiche e psicologiche nel pessimismo e nella negazione della vita, nel pragmatismo e nella negazione della logica; traendo i loro presagi dagl’incubi e i loro cànoni dalle contraddizioni; tremanti di paura alla vista di cose al di là del bene e del male, o bisbiglianti di strani pianeti dove due più due fa cinque. E frattanto questa cosa unica, che parve dapprima così sconcertante nei suoi contorni, rimane solida e ferma nella sostanza. Rimane moderatrice di tutte queste manìe; fa ritrovare la ragione ai pragmatisti, esattamente come fa ritrovare il sorriso ai puritani. Ripeto che io ho deliberatamente esagerato il suo carattere intrinsecamente provocatorio e dogmatico. Il mistero è come una cosa così sorprendente possa esser rimasta provocatoria e dogmatica, pur diventando normale e naturale. Ho ammesso liberamente che, considerando l’episodio in se stesso, un uomo che dica di essere Dio può esser messo insieme con l’uomo il quale dica di essere di vetro. Ma l’uomo che dice di essere di vetro non è un vetraio, il quale faccia finestre a tutto il mondo. Egli non rimane per i secoli a venire, come una figura lucente e cristallina, nella cui luce ogni cosa è chiara come cristallo. Ma questa pazzia è rimasta sana. È rimasta sana quando tutto impazziva. Il manicomio è stato il rifugio a cui, 342

traverso le età, gli uomini tornano come a casa loro. Questo è il mistero che permane: che una cosa così brusca e anormale sia considerata confortevole e ospitale. Non mi curo se lo scettico dice che è una storia troppo alta; non capisco come una torre vacillante potrebbe star dritta così a lungo senza fondamenta. Ancor meno capisco come sia potuta diventare (ed è infatti diventata) la casa dell’uomo. Fosse semplicemente apparsa e scomparsa, potrebbe esser rammentata o spiegata come l’ultimo limite del furore di un’illusione, l’ultimo mito dell’ultimo tentativo con cui la mente umana colpì il cielo e si spezzò. Ma quella mente non si spezzò. Fu la sola che rimase intatta nella dissoluzione del mondo. Se fosse stato un errore, non sarebbe durato un giorno. Se fosse stata una pura estasi, non sarebbe durata un’ora. E’ durata quasi duemila anni: e il mondo che c’è vissuto dentro è stato più lucido, più equilibrato, più ragionevole nelle sue speranze, più sano nei suoi istinti, più lieto e sereno in faccia al fato e alla morte di tutto il mondo che n’è rimasto fuori. Era l’anima del Cristianesimo venuto dall’incredibile Cristo; e la sua anima era il senso comune. Se noi non osammo guardare la Sua faccia, guardiamo i Suoi frutti, e dai Suoi frutti Lo riconosceremo. I frutti son solidi e il raccolto non è una metafora: ma in questo triste mondo ci sono stati fanciulli più felici sugli alberi di melo, o uomini più allegramente cantanti nella vendemmia, che sotto il raggio di questa luce improvvisa e intollerante: un lampeggiare fatto eterno come la luce.

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Appendice I Sull’uomo preistorico IN UN CERTO SENSO SAREBBE MEGLIO che la storia fosse più superficiale. Ciò che si vorrebbe è una memoria delle cose che si vedono così rapidamente da essere dimenticate con eguale rapidità. La morale di questo libro, per così dire, è che i primi pensieri sono i migliori. Così un lampo può rivelare un paesaggio, con la torre Eiffel o il cervino dritti in mezzo ad esso come non si vedrebbero mai alla luce ordinaria del giorno. Finii questo libro con l’immagine di un lampeggiamento infinito; in un senso molto diverso, ahimè, questo piccolo lampo è durato anche troppo. Ma il metodo ha anche certi svantaggi pratici su cui credo bene aggiungere due parole. Può sembrare che semplifichi troppo, e ignori oltre l’ignorabile. Avverto questo specialmente nel passo sui disegni preistorici, che non s’interessa di tutto quel che gli scienziati possono apprendere dalle pitture preistoriche, ma si ferma al solo punto di quel che ognuno potrebbe apprendere dal mero fatto dell’esistenza di pitture preistoriche. Mi rendo conto che il tentativo di esporre questo punto in termini d’ingenuità può farmi passare per più ignorante di quel che sono. Senza alcuna pretesa di indagine scientifica, sarei dolente di aver pensato di saperne più di quanto abbia avuto occasione di dire, in quel passo sugli stadi in cui l’ umanità primitiva è stata divisa. So bene, 344

naturalmente, che la storia è elaboratamente stratificata, e che ci sono molti stadi anteriori ai Cro-Magnon e agli altri popoli ai quali tali pitture si attribuiscono. Studi recenti sui neanderthaliani e su altre razze tendono a ripetere la morale che è qui più importante. L’idea, notata in queste pagine, di qualche cosa di necessariamente lento e relativamente recente nello sviluppo della religione, avrà poco da guadagnare da queste tardive rivelazioni sui precursori del pittore della renna. Gli scienziati sembrano ritenere che, abbia o no la pittura della renna carattere religioso, il popolo che viveva prima era di già religioso. Gli uomini già seppellivano i loro morti con la cura che è il sintomo significativo del mistero e della speranza. Questo ci riporta indietro allo stesso argomento: un argomento che non è reso più accessibile da alcuna misurazione del cranio dell’uomo primitivo. Poco giova comparare la testa dell’uomo con la testa della scimmia, se (com’è certo) non è venuto mai in testa alla scimmia di seppellire un’altra scimmia con delle noci entro la tomba per aiutarla verso una scimmiesca casa celeste. A proposito di crani, tutti conosciamo la storia del ritrovamento di quel cranio Cro-Magnon che è molto più grande e più bello di un cranio moderno. È una storia molto buffa, perché un eminente evoluzionista, destandosi a qualche tarda voce che lo metteva in guardia, protestò che nessuna illazione poteva legittimamente trarsi da un campione solo. Il dovere di un cranio solitario è quello di provare che i nostri progenitori erano inferiori a noi. Quell’unico cranio che presumeva di provare che erano superiori, era evidentemente affetto da gonfiore al capo.

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Appendice II Autorità e accuratezza IN QUESTO LIBRO, che non vuol essere altro che una critica popolare ad errori popolari - errori non di rado volgarissimi - sento di avere qualche volta dato l’impressione di prendere in burletta il lavoro scientifico serio. Ciò era il contrario della mia intenzione. Io non discuto con lo scienziato che spiega l’elefante, ma col sofista che lo spiega senza averlo visto. Nei fatti il sofista recita per la galleria, come nella antica grecia. Egli si rivolge all’ignorante, soprattutto quando si rivolge alle persone dotte. Ma io non ho mai inteso che la mia critica debba comunque offendere i veri dotti. Tutti dobbiamo molto alle ricerche scientifiche, specie a quelle più recenti, degli studiosi in tali materie; e io non ho fatto altro che coglierne qua e là i frutti. Non ho voluto far pesare nei miei argomenti astratti citazioni e riferimenti che fanno parere uno più istruito di quanto sia; ma in certi casi temo che il mio modo piuttosto negligente di procedere per allusioni finisca col condurre fuori di strada ai fini del mio stesso ragionamento. Il passo su Chaucer e il fanciullo martire è espresso male; io intendevo dire soltanto che il poeta inglese probabilmente aveva in mente il santo inglese, della cui leggenda ci dà una specie di versione forestiera. Nella stessa guisa due asserzioni del capitolo sulla mitologia si seguono l’un l’altra in modo che potrebbe sembrare che il secondo aneddoto sul monoteismo si 346

riferisca ai mari del sud. E’ bene chiarire che Atahocan non appartiene ai selvaggi australasiani, ma agli americani. Così nel capitolo sull’antichità della civiltà, che io capisco essere il meno soddisfacente, ho dato forse troppo valore alla mia impressione personale circa il significato dello sviluppo della monarchia egiziana, come se coincidesse con i fatti su cui si fonda, quali risultano da opere come quelle del prof. J.L. Myres. Ma la confusione non fu intenzionale; men che mai c’era l’intenzione di inferire, nel seguito del capitolo, che le speculazioni antropologiche sulle razze abbiano minore importanza di quella che indubbiamente hanno. La mia critica è strettamente relativa; posso dire che le piramidi sono più evidenti dei sentieri del deserto, senza negare che uomini più saggi di me possono benissimo vedere dei sentieri dove per me non c’è che sabbia uniforme.

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Nota biobliografica sull’Autore* UN «PADRE DELLA CHIESA, obbligato dalle necessità dei tempi e del ministerio, a predicare in stile burlesco alle turbe degli scettici e dei gaudenti», un novello «Abram del Cavalca, che calcò un cappello alla scudiera e vestì ricchi panni, per recarsi nel luogo di vizio a convertir la nipote», un «vescovo vestito da clown» (E. Cecchi), un «genio colossale», il «Chesterbelloc» (G.B. Shaw), «così lieto che si sarebbe quasi tentati di credere che abbia davvero trovato Dio» (F. Kafka), «un dono fatto alla cattolicità (e all’umanità intera) direttamente da Dio» (card. G. Biffi), «uno dei migliori che ci siano» (E. Hemingway), «forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton» (J.L. Borges), «Chestertonchild» (p. J. O’Connor), «defensor Fidei» (Papa Pio XI).

Partiamo dai mille modi in cui quest’uomo è stato definito e comprenderemo di trovarci di fronte ad un genio, un uomo eccezionale sotto tutti i punti di vista. Ed eccezionale fu davvero, Gilbert Keith Chesterton, che nella sua Autobiografia afferma: «Piegandomi con cieca credulità, come son solito fare, alla mera autorità e alla tradizione dei miei maggiori, ingoiando superstiziosamente una storia che non mi fu possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale, io sono d’opinione fermissima d’essere nato il 29 maggio 1874, a Campden Hill, Kensington, e d’esser stato battezzato, secondo le formule della Chiesa d’Inghilterra, nella chiesetta di San Giorgio, situata di fronte alla grande torre serbatoio che domina quella posizione elevata», mostrando così tutta la sua personalità amabilmente polemica, umoristica e gioiosa. Ma questa personalità così vivace e questa gioia profonda 348

e pervasiva che ha lasciato un segno così forte sui lettori, dove nascono? La domanda è ovvia di fronte a uomini di tal valore. Tutto lascia pensare che si tratti di un dono, come dice il cardinal Biffi, un dono inaspettato. E’ come un seme caduto in una terra che altro non attendeva. Una felice intuizione di libertà della ragione e di positività della vita si innesta in un contesto familiare affettuoso e ricettivo verso il bello e il buono; cresce prima ai margini e poi nel luogo in cui tutto ciò è di casa, la Chiesa; così nasce un autentico genio del pensiero e della vita, Chesterton. Viene al mondo in una famiglia poco ordinaria: il padre Edward è nel settore immobiliare, socio col fratello Sydney di un’agenzia ancora oggi esistente; sereno e spensierato, trasmetterà ai figli l’amore per l’arte e la letteratura, il gusto del fantastico e una sfrenata passione per i giochi, primo fra tutti il teatro dei burattini. «Inglese in sommo grado», una specie di Mr Pickwick, dirà Gilbert; liberale e unitariano, più avvezzo ale discussioni che al fervore religioso. La mamma è Marie Louise Grosjean, di padre svizzero (predicatore laico calvinista) e di madre scozzese. Sarà quest’ultima che aprirà a Gilbert le porte del «soleggiato paese delle favole», di cui tesserà le lodi la prima volta ne Il bello del brutto e a cui attribuirà fondamentale valenza morale e teoretica in Ortodossia. Avrà un fratello, Cecil, anche lui giornalista, al suo fianco nelle battaglie giornalistiche e culturali; un’infanzia serena, piena di giochi e di affetto; non brillerà particolarmente negli studi e al termine della scuola superiore dovrà fare i conti con solitudine e depressione: disorientato di fronte alla vita e all’avvenire, proverà l’università senza alcun esito, poi una scuola d’arte (sarà anche valente pittore e disegnatore); perderà di vista i suoi cari amici del Junior Debating Club, tutti all’università, e chiuderà il giornale che avevano fondato insieme, «The debater»; praticherà (per poi 349

pentirsene amaramente) lo spiritismo. E’ una miscela devastante per un uomo fondamentalmente buono e innocente quale è e sarà per tutta la vita. Ma alla fine esce miracolosamente (è l’espressione più adeguata) da questo tunnel in apparenza senza uscita (nel quale accarezzò per sua stessa ammissione anche la più insana delle idee), grazie alla lettura del libro biblico di Giobbe. A questo proposito racconterà in una lettera ad un amico qualcosa di piuttosto inusuale, una sorta di esperienza mistica: «Sono certo che ogni cosa è come è perché così deve essere. Adesso la visione sta svanendo nel corso della vita quotidiana, e ne sono felice. È imbarazzante parlare con Dio faccia a faccia, come si parla con un amico». Da li, dalla inaspettata granitica certezza (o meglio, conferma dopo la prova) della intrinseca positività dell’esistenza, partirà per una vita totalmente nuova, con un desiderio prorompente di dire al mondo che la vita è bella, che ci siamo e avremmo potuto non esserci e che si può conservare il dono inestimabile dell’innocenza senza rinunciare a nulla della vita. Sono i motivi fondanti del pensiero di Chesterton, quelli da cui avrà inizio tutta la sua vasta riflessione. Tutti i suoi anni saranno da ciò allietati, e letteralmente votati alla massima diffusione della felice scoperta senza risparmio di energie. Sono intuizioni originarie, che percorreranno tutta intera la sua opera senza tregua, come fiumi carsici che emergono e scompaiono, che sappiamo essere sempre dietro ogni riga, ogni parola. Scopre il dono della scrittura e inizia a collaborare con numerosi giornali; ottiene in poco tempo un imprevisto successo. Sempre più persone si chiedono chi sia quel «gkc» che firma quegli articoli così orginali, ben scritti, pieni di avvincente paradosso e senso comune. I primi articoli finiranno nel volume Il bello del brutto del 1901 (una difesa 350

dell’indifendibile, dalle pastorelle di porcellana ai thriller da quattro soldi…), e dopo alcuni scritti poetici firmerà nel 1904 il suo primo romanzo, Il Napoleone di Netting Hill, storia surreale in cui troviamo il suo amore per le piccole patrie che lo caratterizzerà per tutta la vita, il coraggio di battersi per la propria casa e il proprio altare, principio di ogni ardimento, e gli echi della guerra anglo-boera. Paradossalmente Chesterton acquista notorietà opponendosi all’imperialismo britannico, considerato dagli inglesi più di una fede religiosa, e prendendo le parti dei contadini boeri in un paese in cui ciò è paragonabile ad una bestemmia, e allegramente buscando, assieme al suo amico di una vita Hilaire Belloc, anche più di qualche materialissimo ceffone per questa causa. Da qui in avanti abbiamo un uomo nuovo che delineerà un’immagine assolutamente inedita dello scrittore, brillante e appassionato amante della verità e del buonumore, mai disgiunti. Vero è ciò che disse di lui Emilio Cecchi: è un vescovo vestito da clown, uno costretto a tingersi il naso di verde per attirare i nostri occhi verso la verità. Si fa paladino della vita ordinaria, della famiglia, dell’ordine contro il caos, del senso comune. Svela al mondo con entusiasmo di apostolo e allegria di bambino che c’è più avventura nella vita «normale» che in qualsiasi romanzo d’avventura, nella famiglia dove non c’è nessuna «avventura». Padre Ian Boyd, presidente del Chesterton Institute for Faith and Culture, sottolinea che «l’esuberanza e il modo divertente che caratterizzavano il giovane Chesterton furono elementi decisivi nella creazione della sua immagine pubblica. Era addirittura citato da persone che non avevano mai letto alcuna, delle sue opere. I suoi detti divennero rapidamente proverbiali». La sua fama di arguto polemista diventa in breve enorme. È «la delizia dei fumettisti» (Ian 351

Boyd) per la sua sagoma inconfondibile (lui, che da ragazzo è alto e segaligno, col passare degli anni diventa un gigante di oltre un metro e novanta per centotrenta chilogrammi e anche di più), che alimenta storie e leggende di ogni tipo (una su tutte va detta: Chesterton alzandosi in omnibus faceva posto a tre signore in un sol colpo…). Ma, facezie a parte, Gilbert in realtà interpreta quella Merry England radicata nel miglior Medioevo cristiano della quale gli inglesi malcelatamente sentono forte la nostalgia, dispersa dall’adesione alla riforma protestante. Sempre padre Boyd ci dice che egli «vide la letteratura come una profezia, era diventato il depositario delle speranze e degli ideali dei suoi lettori. Egli esprimeva per loro lo spirito di una delle più esuberanti epoche dal periodo elisabettiano. Egli personificava l’energia e l’ottimismo edoardiano e lo spirito che venne definito più tardi nella sua biografia su S. Tommaso d’Aquino come “colui che si cibava di fatti universali e anche di un forte attaccamento alla vita”». Nel 1905 scrive Eretici, il saggio che svela, nella critica delle idee e degli uomini in voga ai suoi giorni, la sua distanza da «l’idea moderna» secondo cui «la verità cosmica sia di così scarso peso, che nulla di quanto chiunque dica, può avere alcuna importanza». E più avanti: «Intorno a qualsiasi innocente tavolo da tè, capita tutti i giorni di sentire uno che sentenzia: — La vita non è degna di essere vissuta. — E nessuno considera tale constatazione come diversa da quest’altra: — Oggi è tempo buono; — nessuno pensa che essa abbia un qualche effetto serio sull’uomo e sul mondo». Tutta la sua vita sarà una allegra lotta contro questo male di vivere; dirà infatti altrove: «Scovare e combattere il male è il principio di ogni allegria». Solo così si capiranno Chesterton e i suoi coloratissimi personaggi. Scrive con portata torrenziale articoli su qualunque argomento senta di dover discutere (dirà Alberto Castelli 352

che la sua vita fu un’unica interminabile discussione), praticamente su tutto, dovunque il positivo slancio vitale riacquistato miracolosamente lo spinga. Dà battaglia ovunque, come ad esempio nella polemica antieugenetica. La sua produzione giornalistica è sconfinata, uno «spreco d’arte e d’idee» che «dà uno stupore quasi angoscioso» (Emilio Cecchi). Vedranno la sua firma, tra le altre, testate come il «Daily News», «The Speaker» e «The Illustrated London News». Pubblicherà anche solidi saggi di argomento letterario su R.L. Stevenson, Browning, Tennyson, Blake e altri ancora, e più avanti L’età vittoriana in letteratura, considerato da molti opera di grande valore. Nel 1908 Chesterton raggiunge un momento di straordinaria chiarezza sullo scopo della sua vita e della sua opera, e dà alla luce due dei suoi maggiori capolavori, forse le opere in cui è più guizzante ed efficace tutta la lucidità venutagli inaspettatamente in dono: L’Uomo che fu Giovedì e Ortodossia, rielaborazione letteraria e teoretica dei passaggi fondamentali della sua esperienza umana sino a quel momento: la rinascita dal nonsenso e la riscoperta della fede cristiana mediante l’esperienza della ragione aperta alla realtà. Sono state giustamente definite «autobiografie» (Ian Boyd). Il primo è una sorta di giallo metafisico — si dice in maniera indovinata - significativamente sottotitolato «Un incubo», visionario, tra il mistico e il grottesco, altamente poetico e simbolico, la trasposizione fortemente autobiografica della scoperta della bellezza e bontà della vita che è un mistero, e della reale possibilità della felicità per l’uomo. Un libro che trasuda riferimenti a quel biblico Libro di Giobbe cui Chesterton deve la salvezza. Gabriel Syme, il protagonista, in fondo è Gilbert, l’uomo dallo sguardo di poeta, che coglie il punto di fuga, presente in ogni cosa, e porta al Mistero, all’Origine di tutto. Dirà 353

mons. Ronald Knox, amico di Chesterton e come lui brillante scrittore di gialli convertito al cattolicesimo: «Si tratta di un libro straordinario: è come se l’editore gli avesse chiesto di scrivere un romanzo sul tipo del Viaggio del pellegrino con lo stile del Circolo Pickwick». E’ la storia dell’uomo, di ciascuno di noi, che dopo mille abbagli dal forte sapore poliziesco (perché in fondo in una vita comune c’è molta più avventura che in qualunque giallo…), scopre il segreto della vita. Ortodossia, storia del tentativo dell’autore di trovare le risposte al mistero della vita e la scoperta che tutto ciò che cercava era contenuto nel Credo degli Apostoli, è l’intuizione della ragione che cammina stupita e lieta verso la fede, originata dalla sfida di G.S. Street, che aveva letto il suo Eretici e così commentato: «Alla mia filosofia […] convincerò a pensarci quando Chesterton ci avrà fatto conoscere la sua». Chesterton, con un paragone fulminante e umoristico - il racconto di un uomo che parte dall’Inghilterra col suo vascello e sbarca dinanzi al padiglione sul lungomare di Brighton convinto di aver scoperto una nuova terra selvaggia -narra il suo tentativo di inventare una nuova religione (è lui, allora, lo yachtman… fantasioso, che ritroveremo altrove) e la scoperta che essa è già stata «inventata», è il Cristianesimo. «Chesterton — dice sempre padre Ian Boyd - riteneva che al cuore di tutte le realtà più profane ognuno fosse in grado di trovare Dio. Raramente scrisse di argomenti religiosi, ma negli eventi della vita quotidiana o nei pezzi di un gesso o nelle strade cittadine riuscì a trovare il mistero religioso che stava nel cuore di ogni cosa». Chesterton giunge così alla conclusione che il Cristianesimo è per l’uomo «la maggiore fonte di sanità mentale». Ortodossia reca intere pagine di autentica acutissima intelligenza della vita, di cui essere eternamente grati. 354

Da questa consapevolezza nascerà un fantastico romanzo, breve e intensissimo, Le avventure di un uomo vivo, pubblicato nel 1911. Narra la storia di Innocenzo Smith (nome e cognome non casuali, personificazione dell’innocenza e dell’ordinarietà), che si farà viaggiatore intorno al mondo e anche yachtman, e verrà accusato (dagli occhi miopi di alcuni inquilini dell’intristita Casa Beacon) di omicidio, furto, abbandono della famiglia e poligamia, per essere andato a ritrovare la sua famiglia, la sua unica e amata moglie e la sua casa con la cassetta postale rossa e il lampione verde dinanzi, che aveva smarrite nella paralisi del quotidiano. Un uomo, dirà Chesterton, che non accettava di essere morto mentre era ancora vivo. Lui stesso, in altre parole. Questa, come praticamente tutte le sue opere narrative, ha dei netti caratteri autobiografici seppur disciolti nel surreale; pretende di parlare della propria vita che è la vita di qualsiasi uomo, e del mistero che è in essa, perché non muoia. Ma l’Uomo Vivo è in ciascuno di noi (un vero e proprio motivo poetico, per Chesterton) e necessita di aiuto, di qualcuno che ci spinga nel e verso il Mistero, e che del servizio quotidiano al Mistero abbia fatto la sua vita: Padre Brown, sacerdote cattolico romano (come dicono gli inglesi), detective prima dell’anima e poi delle cose. Il primo della lunga felice serie di racconti che vedono protagonista il semi-invisibile pretino inglese uscì nel 1911, e prende spunto da uno degli uomini più significativi della vita di Gilbert e di sua moglie Frances Blogg, padre John O’Connor, prete irlandese stabilitosi in Inghilterra, di straordinaria intelligenza e arguzia, ben descritto in un memorabile capitolo dell’Autobiografia. La prima caratteristica di Padre Brown è di non avere caratteristiche, e la sua importanza è di non apparire importante, tutto in 355

contrasto con la sua attenzione e la sua intelligenza insospettate. Quest’omino risolve misteri e delitti calandosi, grazie alla sua esperienza di prete e confessore, nella mente dell’uomo che commette il delitto, condividendone tutto salvo che l’atto delittuoso finale, come spiega Chesterton stesso ne Il segreto di Padre Brown. Il 1914 è l’anno della grave malattia che quasi lo ucciderà, gettando nello sgomento quell’Inghilterra spesso aspramente criticata ma che lo riamava sinceramente. Nello stesso anno esce un romanzo profetico e visionario, L’Osteria Volante, storia di un’Inghilterra in cui si insedia un governo filoislamico con l’obiettivo di eliminare tutte le mescite di alcolici della nazione, ma che trova in Patrick Dalroy l’eroe che - barilotto di rum, forma di cacio e insegna del pub La Vecchia Nave al seguito - condurrà la ribellione contro l’insensatezza e disumanità di un tale governo, un inno al buonumore cristiano e contro gli impossibili sincretismi. Nel 1922 prende la decisione della sua vita: si converte al cattolicesimo. Non ne sono estranei amici come padre O’Connor, padre Vincent McNabb (vibrante domenicano irlandese fautore come lui del distributismo) e Hilaire Belloc. È l’approdo definitivo, non facile anche dopo una vita passata a dimostrare al mondo la sensatezza della vita cristiana. Dirà Gilbert quel benedetto giorno in casa sua a Beaconsfield: «I saggi hanno cento mappe che disegnano universi fitti come alberi, scuotono la ragione con mille setacci che accantonano la sabbia e lasciano filtrare l’oro; per me tutto ciò vale meno della polvere perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo». La conversione reca anche una maggiore pensosità, e un Chesterton in parte diverso dal brillante giornalista in voga negli anni precedenti; gli alienerà molte simpatie in casa propria (in fondo la diffidenza per il roman catholic è dura a morire ancor oggi). 356

L’anno dopo la conversione Chesterton pubblicherà la biografia di san Francesco d’Assisi, forse il santo le cui virtù di profeta e menestrello, di amante e forte contraddittore della sua epoca, lo appassioneranno di più. Nel 1925 esce L’Uomo Eterno. Inizia col ricorrente motivo del viaggio ed è un excursus storico dell’uomo su questa terra, con cui il Nostro dimostra che il Cristianesimo è il massimo fattore di civiltà di tutti i tempi. Come si parla del Cristianesimo fonte di sanità mentale per l’uomo, ora qui si parla del Cristianesimo fattore di civiltà per il mondo. Se con Ortodossia accetta la sfida di Street, L’Uomo eterno è la risposta ad Outline of History di H. G. Wells e al suo “darwinismo storico”. Viaggerà molto, in particolare in Canada e negli Stati Uniti, quegli Stati Uniti che critica ma che gli riservano accoglienze trionfali, per le sue tourneè che rimarranno proverbiali. Visiterà la Palestina, la Francia, più volte l’Italia, che amava molto come in genere i paesi cattolici quali l’Irlanda e la Polonia (sono «quelli dove ancora si canta, si danza, e ci si mettono vestiti sgargianti e l’arte vive all’aperto», sosteneva Chesterton), pure essi visitati. Nel 1933 dà alla luce la biografìa di san Tommaso d’Aquino, definita da Etienne Gilson la più bella opera sul “Bue muto” e che «niente di meno del genio è ipotizzabile leggendola»… Collabora anche con la bbc a trasmissioni radiofoniche di vastissima popolarità. Ma chi è infine Chesterton? Chesterton ama la gente comune perché Dio «ne ha fatta molta», la sua cara moglie, la tradizione perché «è la democrazia dei morti», la birra e i pub «dove aveva il suo trono» e «gorgogliava umorismo» (R. Church); in lui libertà e dogma sono sinonimi, ride come un bambino ed è saggio come uno vecchio di secoli. Ama i bambini e l’innocenza (sì, l’innocenza!) e di essa fa la quintessenza dell’uomo vero e 357

soprattutto vivo; partecipa alle feste piuttosto annoiato e inganna il tempo lanciando in aria carote riprendendole con la bocca per l’ilarità dei bimbi presenti; uno che va a sposarsi non senza essere passato dalla latteria dove andava con la mamma da piccolo a bere un bicchiere di latte e non senza avere con sé una pistola, perché il matrimonio, signori, è una grande avventura e allora è bene che un uomo vi si rechi armato adeguatamente… C’è chi lo vuole conservatore e chi progressista: spiace dirlo, ma dare simili patenti significa aver letto poco o punto la sua opera. Chesterton ha solo scoperto la vita, il suo segreto da difendere con sacrificio e finanche con il proprio sangue, da diffondere parlando dai tetti e facendosi anche pazzi per esso, da tenere sempre in vita rapportandosi con la sua Fonte, Dio stesso, la cui casa è la Chiesa cattolica. Forse poco politically correct, ieri come oggi. Ma sbaglia? Muore a Beaconsifield (Buckinghamshire) nella sua amata casa attorniato dagli amici il 14 giugno 1936, e lì è sepolto ancor oggi, nel piccolo cimitero cattolico attiguo alla chiesa parrocchiale di Santa Teresina del Bambin Gesù (una santa quasi bambina, guarda caso…), assieme alla cara moglie Frances e alla quasi figlia e segretaria Dorothy Collins. MARCO SERMARINI Presidente della Società Chestertoniana Italiana * Si è preferito indicare le opere di Chesterton con i titoli delle edizioni italiane per agevolare i lettori che vogliano risalire più facilmente alla bibliografia citata nella presente Nota.

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INDICE

L’uomo eterno

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Indice Presentazione Avvertenza preliminare Introduzione. Piano di questo libro Parte prima. La creatura chiamata uomo Capitolo I. L’uomo nella caverna Capitolo II. I professori e l’uomo preistorico Capitolo III. Origine antica della civiltà Capitolo IV. Dio e le religioni comparate Capitolo V. L’uomo e le mitologie Capitolo VI. I demoni e i filosofi Capitolo VII. La guerra degli dei e dei demoni Capitolo VIII. La fine del mondo Parte seconda. L’uomo chiamato Cristo Capitolo I. Dio nella caverna Capitolo II. Gli enigmi del Vangelo Capitolo III. La più strana storia del mondo Capitolo IV. La testimonianza degli eretici Capitolo V. L’evasione dal paganesimo Capitolo VI. Le cinque morti della fede Conclusione. Riassunto di questo libro Appendice I. Sull'uomo preistorico Appendice II. Autorità e accuratezza Nota biobliografica sull’Autore* 359

8 10 23 25 35 36 57 77 109 132 152 178 197 215 216 237 253 272 295 317 332 344 346 348