L'orchestra rossa. I servizi segreti sovietici nella guerra al nazifascismo 8868021897, 9788868021894

Mentre la Germania nazista occupava parte dell'Europa, Parigi, Bruxelles, Amsterdam e la stessa Berlino continuavan

432 71 2MB

Italian Pages 643 [823] Year 2017

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

L'orchestra rossa. I servizi segreti sovietici nella guerra al nazifascismo
 8868021897, 9788868021894

Citation preview

L'ORCHESTRA ROSSA

I servizi segreti sovietici nella guerra al nazifascismo

Gilles Perrault

PGRECO, 2017

INTRODUZIONE A L'ORCHESTRA ROSSA

“I veri vincitori della guerra sono il fante russo, con i piedi congelati nella neve di Stalingrado; il marine americano, con il naso nella sabbia arrossata di Omaha Beach; il partigiano jugoslavo o greco, che combatte tra le sue montagne. Nessun servizio segreto ha mai deciso le sorti del conflitto. Né Sorge, né Rado, né Trepper hanno avuto un peso decisivo nella conclusione della guerra. Per quanto potevano e grazie alla devozione dei compagni, essi, partigiani appostati in prima linea, hanno contribuito al successo definitivo delle armi.” Leopold Trepper, Il Grande Gioco1

L'Orchestra Rossa è un classico della letteratura di spionaggio della Seconda Guerra Mondiale. La sua pubblicazione ha contribuito tanto alla ricostruzione storica quanto alla creazione del “mito” dell'intelligence sovietica nell'immaginario occidentale della “Guerra Fredda”. 1 L. Trepper, Il Grande Gioco, Arnoldo Mondadori Editore, 1976.

I suoi protagonisti raggiungono un ideale Pantheon delle spie venute dal freddo unendosi al profilo di Sorge, dei “Cambridge Five” e dei coniugi Rosenberg, per non citare che i più noti. *** Uscito in Francia nel lontano 1967 – a cui la traduzione della presente edizione si rifà – è stato pubblicato in una ventina di lingue ed è divenuto, almeno nell'Esagono, un vero e proprio best seller con diverse centinaia di migliaia di copie vendute, conoscendo varie riedizioni e aggiornamenti, fino all'ultima del 1989, nonché una recente trasposizione filmica ad opera di Jacques Rouffio2. Dalla fine degli anni Sessanta la memorialistica e le ricerche specifiche hanno arricchito la letteratura sulle tre principali Reti di intelligence collegate all'Unione Sovietica di cui si parla nel libro, operanti in Europa nella Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente l'apertura degli archivi sovietici dopo l'89 ha contribuito ad un miglioramento della ricerca, apportando informazioni fondamentali alla ricostruzione storica, di cui il volume recentemente apparso in Francia La véritable Histoire de l'Orchestre Rouge di Guillaume Bourgeois – edito dalle edizioni Nouveau Monde nel 2015 – è uno dei risultati su cui la storiografia sull'argomento deve obbligatoriamente confrontarsi, alla luce proprio delle ricerche sugli archivi russi.

2 Il regista della Germania dell'Est Horst E. Brandt diresse e scrisse in parte la scenografia di KLT to PXT: Die Rote Kapelle, pellicola ispirata alle vicende dell'“Orchestra Rossa” nel 1970.

In ogni caso rimane un dato storico inoppugnabile il fatto che, come afferma Hastings, autore di una voluminosa ricostruzione storica sui servizi segreti nella Seconda Guerra Mondiale: «per tutti i primi ventidue mesi della guerra, mentre i britannici si sforzavano di squarciare la coltre di nebbia che ne oscurava la visuale sul Continente, i russi furono in grado di continuare a spiare praticamente senza ostacoli» grazie alla rete di 117 informatori3. *** Nel libro di Perrault, si narrano le vicende di ciò che la storia ha reso noto con il nome che gli apparati di sicurezza del Reich diedero all'organizzazione dei “pianisti”, che attraverso apparecchiature di trasmissione radiofonica sparse nel Vecchio Continente inviavano messaggi cifrati in URSS. Informazioni preziose per chi subì il 22 giugno del 1941 l'aggressione delle truppe nazi-fasciste con l'“Operazione Barbarossa”, le cui tappe di preparazione – è bene ricordarlo – erano state debitamente segnalate dagli apparati di intelligence sovietica al “Centro”. La pianificazione finale dell'invasione dell'Unione Sovietica ebbe inizio nell'estate del 1940 e la direttiva 21 (Fall, “caso” o “operazione”, Barbarossa), completata il 18 dicembre 1940, recitava: «il grosso dell'Armata [Rossa] posizionata nella Russia occidentale deve essere distrutta in operazioni effettuate con decisione, che comportino una forte penetrazione da parte di avanguar3 M. Hastings, Guerra segreta. Spie, codici e guerriglieri, 1939-1945, Neri Pozza, 2016.

die corazzate, evitando il ripiegamento di formazioni in grado di combattere nelle grandi estensioni del territorio russo. Mediante rapidi inseguimenti si deve poi raggiungere una linea dietro la quale l'aviazione russa non sia più in grado di attaccare i territori della Germania»4. L'Unione Sovietica venne impegnata sul proprio territorio dall'occupazione militare nazi-fascista che da ipotetica BlitzKrieg divenne l'impegno più gravoso per la macchina militare di Hitler, Mussolini e dei loro alleati, risultando essere la vera “tomba” del fascismo al prezzo di una quantità di vittime che si colloca, per parte sovietica – a seconda delle stime – comunque a ben più di 25 milioni di morti. Studi storici recenti hanno messo in discussione la vulgata che attribuiva a Stalin il clamoroso errore di non avere previsto nei tempi giusti – nonostante vi fossero segnali “inequivocabili” – l'attacco tedesco. Facendo il quadro realistico della situazione, per esempio Glantz e House, storici militari nordamericani esperti del conflitto russo-tedesco, affermano che: «vista in questo contesto, la sorpresa strategica sovietica è molto più comprensibile. Tra le miriadi di segnali contrastanti, identificare una minaccia imminente era perlomeno difficile». *** Per l'“Orchestra Rossa”, la dirigenza nazista allestì una squadra di spionaggio nominata “Sonderkommando Rote Kapelle”, per l'appunto “Orchestra Rossa”, con il compito di intercet4 D.M. Glantz – J. House, La Grande Guerra Patriottica dell'Armata Rossa, 19411945, Libreria Editrice Goriziana, 2010.

tarla ed annientarla, o piegarla alle proprie esigenze di intossicazione informativa tipica del lavoro di controspionaggio attraverso il Funkspiel: ovvero messaggi falsi con i quali depistare i sovietici facendoli passare per i dispacci dell'Orchestra. Nonostante resti ancora una questione storica dibattuta, la qualità della rielaborazione delle informazioni che venivano fornite al “Centro” e delle conseguenti decisioni politiche intraprese, la catena informativa a monte svolse un lavoro fondamentale nonostante la supposta “sordità” che alcuni studiosi attribuiscono al Cremlino. Rimane il fatto che il lavoro di “filtraggio” e di “valutazione” dei dati raccolti rimane in ogni caso un compito complesso nonostante la relativa fiducia che si possa nutrire nelle fonti che li hanno reperiti, in particolare se si tiene conto del lavoro del controspionaggio nemico, ma anche degli interessi materiali dei propri alleati. *** Tre erano le principali zone operative della Rete. In Olanda-Belgio-Francia, ben presto occupate dal Terzo Reich, gli uomini e le donne sotto la direzione del GRU (Glavnoe Razvedyvatel'noe Upravlenye), una delle due branche dello spionaggio sovietico, riuscirono ad agire per una quindicina di mesi, prima del loro smantellamento con la cattura di una gran parte dei suoi membri uccisi dopo essere stati sottoposti alla tortura sistematica. A questa sorte, dopo il loro arresto, non andarono incontro “Otto” alias Trepper e “Kent” alias Gurevič, le figure più rilevanti della Rete che trascorsero rispettivamente, dopo la

guerra, 10 e 15 anni nelle carceri sovietiche, la cui esperienza è raccontata nelle rispettive autobiografie5. «L'Orchestra Rossa», riporta Boschesi in Le più grandi battaglie della II Guerra Mondiale, «poté contare, nella primavera del 1942, sul più perfetto sistema di informazioni che si potesse immaginare: Kent dava informazioni da Marsiglia; Vasilij Maksimovic forniva notizie dal quartier generale tedesco installato all'Hotel Majestic; Anna Maksimova aveva primizie per il fatto di far parte della segreteria dell'ambasciatore tedesco a Parigi Otto Abetz; Romeo Springer era in contatto con il console americano di Lione e con l'ex-ministro belga Bathazar. Questi altri abilissimi agenti consentivano a Trepper di informare Mosca sui maggiori lavori eseguiti dalla Wermacht in tutto lo scacchiere occidentale, sui movimenti delle truppe tedesche, sugli affari interni francesi, sulle iniziative americane, sulle condizioni morali e psicologiche dei soldati e degli ufficiali tedeschi, sulla fronda che dall'interno cominciava a mettere in discussione Hitler e il nazismo. Sul piano militare, il frutto più importante fu una massa di informazioni che consentirono ai sovietici di preparare con cura le condizioni ideali per la battaglia di Stalingrado dell'autunno successivo, l'evento che doveva decidere la guerra sul fronte orientale»6.

5 L'autobiografia di Anatolij Gurevič, Un certain Monsieur Kent, non tradotta in italiano, è uscita in Francia nel 1995 per Grasset. Fu rilasciato sulla parola nel 1960, ma gli furono concesse la riabilitazione e una piccola pensione solo nel 1991, dopo aver trascorso la sua vita come operaio di fabbrica. Un riesame post-sovietico dei documenti di guerra del GRU dimostrò che i suoi primi messaggi-radio del 1943 diretti a Mosca contenevano l'indicazione convenuta che stava trasmettendo sotto il controllo del nemico. Morì nel 2009. 6 B.P. Boschesi, Le grandi battaglie della II Guerra Mondiale, Arnoldo Mondadori Editore, 1973.

*** Nella relativamente più sicura Svizzera, resa una sorta di “zona franca” per i servizi segreti delle potenze alleate a causa del suo ruolo di neutralità, ma non aliena alle forti pressioni delle potenze dell'Asse – in cui la Germania nazista aveva intercettato tre differenti stazioni radio, le cosiddette “Tre rosse” (“Die Rote Drei”) – la rete “Lucy” agì a più riprese e per un maggiore periodo di tempo. Il suo operato fu il frutto del lavoro dell'anglo-tedesca Ursula Kuczynski e di Maria Poliakowa che, successivamente rientrata a Mosca, sarà il supervisore del lavoro degli agenti sovietici all'Ovest durante tutto il periodo della “Grande Guerra Patriottica”. Successivamente il comunista ungherese Rado riuscì dal '43 a raccogliere informazioni di grande qualità, divenendo di fatto l'uomo di punta dell'intelligence sovietica nel Vecchio Continente. A Berlino, nel cuore della Germania nazista stessa, insospettabili quadri dirigenti del Reich, insieme a vecchi militanti comunisti, lavoravano costantemente per la sconfitta del regime e non semplicemente per un'uscita di scena di Adolf Hitler. La loro rete sovrapponeva pericolosamente le funzioni di intelligence per l'URSS a quelle propriamente resistenziali, e venne completamente smantellata nell'estate del 1942. Le loro imprese sono rimaste misconosciute nella Germania Federale e non si sono mai imposte, neanche in tempi recenti, ad un'attenzione più ampia della ristretta cerchia di pubblico di “addetti ai lavori”, per cui i nomi di Schulze-Boysen e di Arvid Harnack non dicono molto nonostante le molteplici attività della loro rete.

Janusz Piekalkiewicz, in Spie, soldati, agenti speciali, afferma: «Dalla metà di giugno del 1941, il gruppo Schulze-BoysenHarnack trasmette, con l'aiuto di apparecchi radio, i quali sono stati consegnati dall'ambasciata sovietica, notte per notte le sue informazioni sui particolari strategici e tattici a Mosca. Vengono trasmessi in tutto più di 500 rapporti, inoltre descrizioni di nuovi aerei da battaglia come, per esempio, il Messerschmidt 210, apparecchi di localizzazione, razzi antiaerei e altre armi segrete»7. Bisogna ricordare che nel 1942, nel giro di una notte, i muri di Berlino vennero tappezzati di manifesti nei quali si leggeva: «PARADISO NAZISTA = GUERRA, FAME, MENZOGNA; GESTAPO, ANCORA PER QUANTO?». Il grado di internità di questa rete era tale che, come riporta Max Hastings: «Fino al giugno del 1941 non ebbero bisogno di apparecchi radio, trasmettendo semplicemente le informazioni attraverso l'addetto militare a Berlino dei russi» 8. *** Il libro di Perrault ai tempi colmò una lacuna profonda nella storia del secondo conflitto mondiale, in particolare della resistenza anti-nazista, che fu portata avanti in gran parte da militanti comunisti provenienti dalle fila del movimento operaio, la cui narrazione in Occidente era stata “affidata”, come vedremo, più ai suoi “carnefici” che ai suoi “protagonisti” per le esigenze sopravvenute con la “Guerra Fredda”9. 7 J. Piekalkiewicz, Spie, soldati, agenti speciali, Bietti, 1970. 8 M. Hastings, Guerra segreta, op. cit. 9 Questa rimozione compiuta dalla storiografia occidentale ha fatto sì che la prima sintetica storia sulla resistenza comunista in Germania disponibile in italiano, dall'ascesa del potere di Hitler fino al 1945, sia stata pubblicata nel 2011, trattandosi

Formatisi alla “dura scuola” della lotta di classe, dove i margini tra azione legale e attività clandestina erano spesso labili – e le due sfere erano spesso, per così dire, sovrapposte e intercambiabili per un comunista dell'epoca, votato alla causa e senza alcuna reverenza della “legalità borghese” –, erano stati attivi sia nel proprio paese di origine come nei paesi in cui, per vari motivi, furono costretti ad immigrare. Spesso avevano partecipato a quel fondamentale apprendistato per la resistenza anti-fascista europea che furono le Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola o, per citare le parole dell'agente di lungo corso dei servizi segreti sovietici Pavel Sudoplatov: «una scuola d'infanzia per le nostre operazioni future»10. La formazione a Mosca per i militanti dell'Internazionale Comunista, poi attivi nell'intelligence sovietica, era spesso l'ultima tappa, o un passaggio intermedio, per chi si era fatto già le ossa sul campo fuggendo alle strette maglie della repressione statale, come sembra affermasse Berzin, vecchio militante bolscevico e architetto dei servizi segreti sovietici: «un agente del servizio informazioni sovietico deve possedere tre qualità: testa fredda, cuore caldo, nervi di acciaio». La parabola politico-esistenziale del “Grand Chef” Leopold Trepper a capo dell'Organizzazione è paradigmatica della formazione dei quadri comunisti che operarono in quegli anni: ebreo di umili origini di un villaggio della Polonia, è costretto a immigrare dalla propria terra di origine a causa della repressione politica che gli rende impossibile procurarsi un lavoro dopo un periodo di incarcerazione, emigra in Palestina dove, insieme ad alcuni coedi una traduzione del libro di T. Derbent per la casa editrice Zambon. 10 P. Sudoplatov – A. Sudoplatov, Incarichi speciali. Le memorie di una spia del KGB, Rizzoli, 1994.

tanei che condivideranno con lui la militanza anche all'interno dell'“Orchestra”, si scontra contemporaneamente con la potenza coloniale britannica, la borghesia ebraico-sionista che sfruttava la mano d'opera dell'emigrazione ebraica così come i “dannati della terra” arabi e i notabili locali di inclinazione reazionaria, pronti a sfruttare l'odio anti-ebraico promosso contro la mano d'opera immigrata dall'Europa per minare alla base l'unità tra gli sfruttati e consolidare il loro potere. Contribuì a creare un'organizzazione arabo-ebraica, l'“Unità”, che propugnava appunto l'unione degli sfruttati “rompendo” con una prassi organizzativa che escludeva gli arabi dal sindacato. Dopo un periodo di prigionia terminato in seguito ad uno sciopero della fame ad oltranza – anche grazie al discreto clamore che ebbe nella madre patria inglese – rientrò dalla Palestina storica per continuare la propria militanza tra le fila del proletariato multinazionale in Francia nel '29, per cui il Partito Comunista d'Oltralpe aveva creato specifiche organizzazioni su base etnico-linguistica. L'immigrazione ebraica dell'Est era parte integrante e fondamentale del movimento operaio francese, tenendo conto tra l'altro che proprio Italia e Polonia erano i maggiori bacini da cui l'Esagono, dopo l'ecatombe della Prima Guerra Mondiale, aveva attinto per il suo sviluppo industriale e che Parigi, dove si trasferì Trepper dopo aver soggiornato per un breve periodo a Marsiglia, era uno dei pivot della rinascita economica francese. La militanza in queste organizzazioni, in cui confluivano le porzioni meno garantite della classe operaia e maggiormente esposte alla repressione del razzismo istituzionale dello Stato francese che li rendeva permanentemente in pericolo di espulsione, saranno l'apprendistato per molti “stranieri” che combatterono poi in

Francia tra le file dei Franc-Tireurs Partisans (FTP-MOI), di cui l'esempio universalmente più conosciuto è il cosiddetto “Groupe Manouchian”, dal nome del suo capo che guidò la lotta armata a Parigi contro l'occupante nazista tenendolo in scacco con una serie impressionante di azioni di guerriglia urbana. Missak Manouchian era un dirigente comunista di origini armene scampato al genocidio del suo popolo per mano del nascente Stato turco moderno, formatosi politicamente tra le file del movimento operaio e comunista a Parigi che diresse una composita formazione della resistenza parigina, composta tra l'altro da ebrei dell'Est, antifascisti italiani, repubblicani iberici. Per tornare a Trepper, venne poi formato come “agente” a Mosca, dove giunse nel '32, e dopo una missione in Francia, dove operava in clandestinità per scoprire le responsabilità reali di un'azione repressiva che, associando al Partito Comunista tout court gli apparati di intelligence sovietici, aveva portato all'arresto di numerosi militanti e ad un affaire nazionale teso a screditare agli occhi dell'opinione pubblica l'operato del Partito, visto come “quinta colonna” dello spionaggio politico-industriale sovietico in Francia. Visto il successo della missione compiuta nell'affaire Fantomas, gli verrà affidato nel '38 il compito di mettere su, prima della deflagrazione della Seconda Guerra Mondiale, la Rete di raccolta di informazioni e della loro trasmissione in URSS sulla macchina da guerra del Terzo Reich, mansione che svolgerà a Bruxelles e poi a Parigi attraverso la copertura di un'azienda che riuscirà addirittura ad entrare nel cospicuo giro di affari legato all'occupante nazista, rendendola di fatto autonoma dal punto di

vista finanziario e interna ai circoli di potere dell'occupante, così come del personale diplomatico dei paesi dell'Asse. E, se esistono punti di vista discordanti su cosa avvenne realmente dopo la sua cattura e sulla veridicità del “Grande Gioco” che Trepper intraprese con gli apparati nazisti che pensavano

di

avvalersi

della

sua

collaborazione,

il

lavoro

dell'“Orchestra”, per quanto lo si voglia spogliare dell'allure di leggenda, rimane comunque fondamentale: dopo la caduta dei suoi membri, ad eccezione di “Lucy”, non vennero più fornite informazioni di quella qualità al Centro, nonostante la letteratura russa sull'argomento rivendichi una continuità anche nella stessa Germania. *** Nella Germania occidentale della Seconda Guerra Mondiale in particolare, come in tutta l'Europa occidentale della Guerra Fredda, la resistenza al nazi-fascismo (Italia, Francia e Germania) è stata messa in discussione già con la fine dell'alleanza anti-nazista tra le potenze che avevano contribuito alla sua sconfitta. Questo processo era il risultato della “criminalizzazione” delle organizzazioni comuniste, ed in generale di un attacco alle organizzazioni sindacali, e non solo, guidate dai dirigenti comunisti che, nell'immediato dopoguerra, avevano condotto una controffensiva di classe, in cui gli elementi trainanti erano spesso coloro che avevano partecipato alla lotta antifascista dalla prima ora pagandone il prezzo più elevato. Un giornalista di simpatie tutt'altro che comuniste aveva giustamente definito il Partito Co-

munista Francese il «partito dei fucilati», considerato l'alto numero dei martiri comunisti che avevano combattuto contro l'occupazione nazista e il regime collaborazionista del maresciallo Pétain: morts pour la France! Nella Germania Federale della Guerra Fredda, che assumeva nei piani di Washington un ruolo geopolitico del tutto differente da quello che era stato ipotizzato precedentemente dagli USA per il suo futuro post-bellico (un paese agricolo, spogliato del suo apparato produttivo, a forte vocazione pastorale), venne assicurata l'impunità ai responsabili della feroce repressione ai danni dei resistenti anti-nazisti, carnefici che si difesero ai processi (quando ci furono) dichiarando di avere svolto una sorta di azione preventiva schiacciando coloro che, dopo la guerra, sarebbero potuti divenire pericolosi agenti agli ordini di Mosca! Un'efficace escamotage giuridico che ricalcava in fondo il concetto giuridico della “colpa d'autore” del diritto tedesco. Bisogna ricordare che in Germania Federale il Partito Comunista venne ben presto messo fuorilegge e che all'Ovest chi internato in precedenza per la sua appartenenza politica, sopravvivendo ai campi di concentramento nazisti, spesso conoscerà il carcere per lo stesso motivo nella Repubblica Federale Tedesca, o comunque una forte marginalizzazione nella vita pubblica. Mentre nella Repubblica Democratica Tedesca l'antifascismo e il suo sradicamento dalla società tedesca erano la base dell'azione intrapresa dal nuovo Stato, in cui alla cui guida vi erano personalità politiche che avevano guidato la lotta contro il regime hitleriano, «la seconda vita del nazismo», per prendere a prestito il nome

del famoso volume di Alfred Wahl, ebbe nella Germania occidentale un prospero avvenire11. Il mancato processo di “de-nazificazione” nella Repubblica Federale Tedesca e la rinuncia di fatto ad un accertamento delle responsabilità nella catena di comando del Terzo Reich e delle strutture che operarono per affermare, consolidare e in ultimo a “tenere in piedi” il regime, produsse una sorta di “auto-assoluzione” collettiva. In un secondo momento, questo atteggiamento muterà completamente nelle giovani generazioni, meno inclini a rimuovere il proprio passato, portando all'introiezione di un “senso di colpa” inscalfibile per chi prese coscienza degli orrori che aveva prodotto il nazismo, suggerendo l'equazione – che non regge alla minima disamina storica – tra “regime nazista” e “popolo tedesco”, o scoprendo la storia della resistenza al nazismo. Con la “riunificazione” dello Stato tedesco (“annessione”, secondo i suoi critici), si promuoverà una memoria “pubblica” dettata dalle rinnovate esigenze di questo importante attore geopolitico che annichilirà lo sforzo di memoria fatto nella RDT, modificando anche strutturalmente quei luoghi-chiave per la decifrazione del fenomeno nazista e della sua opposizione che sono l'universo concentrazionario del Terzo Reich e il contributo dato dall'Armata Rossa alla liberazione del suolo tedesco12. In questo contesto, il documentario audio-visivo The Red Orchestra di Stefan Roloff e alcuni lavori di ricostruzione storica 11 A. Wahl, La seconda vita del nazismo nella Germania del dopoguerra, Lindau, 2007. 12 Su questi due aspetti rimando a M. Zorn, Uccisi due volte. Nella Germania unificata è in atto la “soluzione finale” della resistenza antifascista, Zambon, 2009 e S. Corso – D.-J. Lagana, We will forget soon. Denied memories of the Red Army in East Germany, ZED Fotografie e.V., 2015. Mentre sul processo di “unificazione/annessione” tedesco, è imprescindibile la lettura di V. Giacché, Anschluss, l'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa, Imprimatur, 2013.

sono una contro-tendenza nel voler conoscere veramente la storia del Terzo Reich e dei suoi oppositori, cioè di un passato che non passa. Giacomo Marchetti, 28/2/2017.

Ai miei genitori Georges e Germaine Peyroles che suonavano in un'altra orchestra.

LA RETE

I. DAI GABBIANI DI CRANZ A QUELLI DI UTAH BEACH

Il radiotelegrafista Walter Schmidt respinse la sedia e si alzò in piedi stiracchiandosi. Era stanco e di malumore. Già l'alba cominciava a schiarire il cielo, ma in Prussia Orientale le notti di giugno sono brevi. Walter Schmidt consultò l'orologio: le tre e mezza. Gli avrebbero dato il cambio solo alle sei; nel frattempo, il suo unico compito sarebbe consistito nel captare l'emittente norvegese. Roba da poco. Un apparecchio rintanato tra le montagne e manovrato da un gruppetto di partigiani. Ogni notte, alle tre e quarantotto, entrava in contatto con Londra e trasmetteva un messaggio composto da una decina di gruppi cifrati. Schmidt sapeva che specialisti tedeschi erano stati spediti in Norvegia per localizzare l'emittente clandestina. Non era un compito facile: le montagne facevano da schermo e complicavano la localizzazione. S'era cercato di aggirare la difficoltà imbarcando gli apparecchi di rilevamento su un piccolo aereo da ricognizione, ma non appena il Fieseler Storch compariva sopra i fiordi, l'emittente taceva e i cacciatori rientravano alla base con le pive nel sacco, una volta esaurito il carburante.

Comunque, si sarebbe finito col pescarla: ci si riusciva sempre. Ma a che pro? Schmidt non trovava motivo di prendersela calda per il clandestino norvegese. Emetteva su Londra e Londra era condannata. Dei messaggi che Schmidt registrava e che i servizi tedeschi si sforzavano di decifrare, si sarebbero tra poco trovati gli originali in un ufficio londinese. Certo, il Führer aveva rimandato l'invasione dell'Inghilterra, ma era come indietreggiare per prendere meglio la rincorsa. Intanto, si sarebbe fatto a pezzi l'orso sovietico. Quattro giorni prima, il 22 giugno 1941, le divisioni corazzate della Wehrmacht avevano passato il fiume Bug e schiacciato sotto i loro cingoli le guardie di frontiera dell'Armata Rossa. A partire da quella data, il Quartier Generale si mostrava avaro di particolari in merito alle operazioni. Era buon segno. Nel maggio del 1940, all'inizio dell'offensiva, era stata osservata la stessa discrezione: a che pro fornire preziose informazioni ai generali francesi in rotta? Adesso era la volta dei generali russi di non sapere più dove si situava esattamente il fronte. Non glielo si sarebbe detto. Tra qualche giorno, quando ormai sarebbe stato affare fatto, la radio tedesca avrebbe diffuso un bollettino speciale, preceduto, al solito, dal fragore glorioso delle trombe, e avrebbe annunciato la distruzione dell'Armata Rossa. Ma Walter Schmidt non sarebbe sfilato in parata dinanzi al Cremlino, sarebbe rimasto a Cranz a registrare i ridicoli messaggi di un'emittente fantasma. Il radiotelegrafista s'accostò alla finestra e appoggiò la fronte al vetro freddo. La stazione d'ascolto di Cranz era installata a qualche centinaio di metri dal Baltico. Walter Schmidt guardò malinconicamente le dune che dominavano la spiaggia. Quel mattino i gabbiani le avevano disertate; erano ripiegati verso

l'interno. Ciò prometteva tempesta per quel giorno, ma Schmidt non lo sapeva. Veniva dalle montagne della Baviera, lui, e la tristezza della landa prussiana gli penetrava il cuore e aumentava il suo malumore. Tornò al tavolo, s'infilò gli auricolari, sintonizzò il ricevitore sulla frequenza d'onda di 15465 chilocicli, che era quella dell'emittente norvegese, e attese placidamente il segnale che sarebbe scattato nell'etere alle tre e quarantotto esatte. *** Il brano che precede è in gran parte frutto di pura e semplice fantasia. L'autore non conosce l'identità del radiotelegrafista tedesco che, nella notte dal 25 al 26 giugno 1941, aveva l'incarico di captare il messaggio dell'emittente norvegese. Nulla sa del suo stato d'animo. Ha tutto il diritto di supporre che il vetro della finestra del suo ufficio fosse freddo, ma ignora se al radiotelegrafista in questione venne voglia di appoggiare la fronte al suddetto vetro. Del pari ignote all'autore sono le migrazioni dei gabbiani prussiani, anche su scala locale, ed è in modo del tutto gratuito che prevede la tempesta che scoppierà su Cranz nella giornata del 26 giugno 1941. Se dunque l'autore ha deciso di fare del radiotelegrafista di Cranz un bavarese tormentato dal rammarico di non partecipare alla corsa verso est, avrebbe del pari potuto immaginarselo nei panni di un robusto ragazzone ben lieto di non ingoiare la polvere delle strade russe, o anche di un nazista fanatico che aspetta l'emissione dei maledetti norvegesi stringendo le mascelle. In realtà, se l'autore si attenesse unicamente alle informazioni sicu-

re di cui è in possesso, dovrebbe limitarsi a scrivere quanto segue: La stazione d'ascolto di Cranz aveva il compito di intercettare le emissioni clandestine. Nella notte dal 25 al 26 giugno 1941, un radiotelegrafista di turno sintonizzò alla solita ora il suo ricevitore sulla frequenza d'onda di una trasmittente norvegese. Ora, anziché udire il segnale dei Norvegesi registrò un indicativo sconosciuto: KLK da PTX...KLK da PTX... KLK da PTX. All'appello fece seguito un messaggio composto da parecchi gruppi cifrati. Il radiotelegrafista stilò un rapporto relativo alla scoperta della nuova emittente clandestina e segnalò la frequenza impiegata. Ebbe così inizio l'affare destinato a divenire l'incubo del Reichsführer Himmler e dell'ammiraglio Canaris, capi dei due servizi segreti tedeschi – un affare che doveva condurre Hitler a dichiarare, il 17 maggio 1942: «I bolscevichi sono superiori a noi in un solo campo: lo spionaggio». Eppure il Führer a quella data non conosceva neppure la centesima parte del prestigioso bilancio dell'Orchestra Rossa. *** Il protagonista di questa storia, Leopold Trepper, è un ebreo polacco nato a Neumarkt, nei pressi di Zakopane, il 23 febbraio 1904. Suo padre, rappresentante di commercio, si sfiniva per mantenere una prole di ben dieci figli. Morì consumato dalla fatica quando il giovane Leopold non aveva ancora compiuto dodici anni. Siccome il ragazzo dava prova di straordinaria intelligenza, i suoi decisero di sacrificare tutto in funzione della sua elevazione sociale. A quel tempo la Polonia era, in conformità alle tradi-

zioni ataviche, antisemita; giaceva sotto il tallone di ferro di una dittatura militare; era salassata dalla guerra e dai rivolgimenti economici. Tali infelici condizioni compromettevano la sfida dei Trepper. Era un po' come se i passeggeri della zattera della Méduse avessero fatto dono delle loro magre provviste a uno di loro perché avesse la forza di arrampicarsi in cima all'albero. Leopold compì gli studi a Limberg, poi s'iscrisse all'università di Cracovia dove seguì i corsi di storia e letteratura. Aveva allora diciott'anni e poteva credere che la propria ascesa fosse felicemente avviata. Una mediocre borsa di studio e i sacrifici della sua famiglia gli permettevano, bene o male, di sopravvivere. I professori erano soddisfatti di lui. Un anno più tardi, una nuova crisi travolse la Polonia, e lo studente di Cracovia iniziava una lunga lotta contro la Fame. E fu la Fame che vinse. Trepper abbandonò gli studi e divenne muratore, poi stagnino. La crisi travolse anche gli artigiani e, scivolando giù per l'albero della zattera, il ragazzo si ritrovò a terra, addirittura nel sottosuolo: nelle miniere di Kattowicz. Due anni dopo, ne risalì per andare a lavorare in qualità di manovale in una fonderia di Dombrova. Continuava ad avere fame. A Dombrova tutti avevano fame. Oppressi dalla miseria, gli operai scatenarono una sommossa che i lanceri polacchi non ebbero difficoltà a reprimere. Uno degli organizzatori della rivolta si chiamava Trepper. Fu arrestato e gettato in carcere. Aveva allora ventidue anni ed era sempre affamato. Una fotografia della cellula comunista clandestina alla quale apparteneva Trepper è sfuggita alla perquisizione della polizia polacca, poi a quelle della Gestapo. Una decina di ragazzi giovanissimi, il cranio rasato, l'espressione chiusa. Si somigliano tutti:

sono animati da una passione comune, e la tensione conferisce ai loro tratti una durezza uniforme. Sono insieme spietati e disperati. Se il gruppo di ragazzi rapati indossasse tute da pilota, anziché quelle giacchette striminzite, potrebbe trattarsi di una squadriglia di Kamizake giapponesi. Nella fotografia, Trepper è facilmente individuabile: anche quando gli anni e le angosce avranno disfatto il suo viso, allora duro come il granito, sarà riconoscibile dagli occhi grigio chiaro. Occhi capaci di esprimere di volta in volta una determinazione implacabile e una imprevista tenerezza. Trepper passò otto mesi nelle prigioni del dittatore Pilsudski, dove le torture inflitte ai membri del partito comunista clandestino superavano in orrore quelle cui sarebbe ricorsa la Gestapo, la più banale consistendo nel supplizio dell'acqua, presa in prestito dal Medioevo; poi Trepper fu liberato, senza che neppure si dessero la pena di giudicarlo. Partì alla volta di Varsavia. Da Dombrova portava con sé le prime quattro lettere del nome della città: durante i dieci anni successivi, il suo pseudonimo sarà Domb. Poi, diventerà “il Gran Capo”; così, infatti, lo chiamavano i suoi uomini e i poliziotti della Gestapo. A Varsavia non c'era un lavoro disponibile per un ragazzo che aveva partecipato alla rivolta di Dombrova. Trepper sollecitò un visto di emigrazione per la Francia, ma gli fu rifiutato, dal momento che le autorità francesi non ci tenevano per niente ad accogliere un agitatore operaio. Eppure Trepper sapeva di non poter più vivere in Polonia: gli avrebbero permesso unicamente di morire di inedia. La sua ultima carta era rappresentata dall'organizzazione “Hechalutz”. Trepper bussò alla sua porta; gli fu aperto e alla

fine riuscì a uscire dai confini della Polonia. “Hechalutz” era un organismo sionista finanziato da ricchi israeliti americani, che si sforzava di favorire l'emigrazione ebraica in Terra Promessa. La Palestina era ancora in mano agli inglesi, i quali riuscivano con notevole successo a vietare l'ingresso nel paese alle misere masse destinate a finire, qualche anno più tardi, nei forni crematorii di Auschwitz – sorte che d'altronde gli inglesi non potevano prevedere a quel tempo. Il compito del Hechalutz consisteva nel selezionare il contingente di privilegiati cui i funzionari britannici socchiudevano ogni anno le porte della Terra Promessa. Con una preoccupazione tutta americana del reddito, i finanziatori del Hechalutz intendevano lottare contro il comunismo, in pari tempo favorendo il sionismo. Si dava perciò la preferenza ai candidati che parevano costituire facili prede per gli agenti reclutatori del Partito. Con le sue ambizioni deluse, il suo passato sfortunato e il suo avvenire incerto, Leopold Trepper rispondeva in pieno a tali requisiti. Ricevette qualche sussidio e fu messo su un treno che, via Vienna e Trieste, lo portò a Brindisi, dove s'imbarcò per la Palestina. Aveva ventiquattro anni e non sapeva che sulla nave viaggiava anche la Fame. La ritrovò, fedele compagna, sul molo di Haifa. Fu spedito a spaccare sassi lungo le strade, poi divenne bracciante agricolo in un kibbutz. L'impiego meno duro che trovò in Palestina fu quello di apprendista in un'impresa di costruzioni elettriche. Decisamente, sembrava che i sacrifici compiuti dalla tribù Trepper fossero stati vani e che Leopold non sarebbe mai arrivato in cima all'albero. Stando a certe informazioni, però, nel 1929 sarebbe diventato membro del Comitato centrale del partito comunista pa-

lestinese – e in tal caso i finanziatori del Hechalutz avrebbero sprecato i loro dollari... Fu comunque opera sua il gruppo “Unità”: di ispirazione comunista, il gruppo si sforzava di attuare un'unità di azione tra Arabi ed Ebrei contro l'occupante inglese. Trepper e i suoi furono scoperti dalla polizia nel 1930 e gettati in carcere. Informato che si progettava di deportarli a Cipro, Trepper organizzò uno sciopero della fame. Lo sciopero dapprima non fu preso sul serio, ma gli scioperanti perseverarono. La stampa britannica s'interessò al caso e vi furono interpellanze ai Comuni. Il rappresentante della Corona in Palestina decise di liberare gli imbarazzanti prigionieri. Siccome erano troppo deboli per camminare, furono caricati su barelle e deposti davanti alla porta della prigione. Qualche settimana più tardi, Trepper entrava clandestinamente in Francia. Fece lo sguattero in un ristorante di Marsiglia, poi raggiunse Parigi, dove s'improvvisò imbianchino. Questo impiego sarebbe stato l'ultimo della lunga serie di mestieri eterogenei esercitati da Leopold Trepper. Ormai aveva scoperto la sua vera vocazione: aveva inizio l'apprendistato di colui che sarebbe diventato “il Gran Capo”. A quel tempo in Francia era in funzione una rete di spionaggio sovietica che univa una grande efficacia a una semplicità davvero prodigiosa. La rete si basava sul sistema dei rabcors, espressione sovietica per indicare i “corrispondenti operai”. L'idea era stata ispirata da Lenin in persona. La rivoluzione aveva costretto all'esilio la maggior parte dei giornalisti russi, che appartenevano alla borghesia, e in mancanza di professionisti in grado di sostituirli, si fece appello ai dilettanti. Nei villaggi, nelle fabbriche, lavoratori s'improvvisarono corrispondenti e inondaro-

no i giornali sovietici di articoli che trattavano di problemi locali e denunciavano i traditori e i sabotatori. La polizia ne trasse notevole vantaggio; il sistema fu esteso all'estero e questa volta beneficiari dell'operazione furono i servizi segreti sovietici. Nel 1929 la Francia contava tremila rabcors, alcuni dei quali lavoravano presso gli arsenali nazionali o presso fabbriche adibite alla produzione di materiale strategico. Gli articoli che mandavano alla stampa comunista si proponevano di denunciare le sfavorevoli condizioni di lavoro loro offerte, ma in vista di ciò era giocoforza parlare, poco o tanto, del lavoro in sé. Gli articoli più rivelatori non venivano pubblicati; erano trasmessi all'ambasciata sovietica a Parigi che li avviava a Mosca. Se qualche rabcor sembrava in possesso di informazioni particolarmente interessanti, gli si spediva un agente per farlo parlare a suo agio. Questa redditizia organizzazione funzionò senza incidenti di sorta per tre anni. Nel febbraio del 1932, la polizia francese ricevette una denuncia. Ad onta del colpo di fortuna, ci vollero più di sei mesi al commissario incaricato dell'inchiesta – il quale portava lo straordinario nome di Faux-Pas-Bidet – per smantellare la rete. Nei suoi rapporti, il commissario non lesina gli elogi alle spie che si sforzava di arrestare. Il loro capo, soprattutto, si segnalava per una eccezionale abilità nell'arte di “seminare” i pedinatori e sfuggire alle trappole; pareva che avesse un elenco completo di tutte le case parigine munite di una doppia uscita. Esasperati e ammirati, i poliziotti gli diedero il nomignolo di “Fantômas». Quando finalmente fu catturato, si scoprì che era un ebreo polacco giunto in Francia dalla Palestina. Aveva ventotto anni e si chiamava Izaia Bir. Il suo braccio destro aveva ventisette

anni; al pari di Bir, era un ebreo polacco e aveva compiuto la deviazione palestinese. Il suo nome era Alter Ström. La loro tecnica professionale stupì i poliziotti francesi. Anziché un Fantômas, avevano arrestato un signor Chiunque. Bir, il capo della rete, era alloggiato in un albergo di infimo ordine e non riceveva né posta né visite. I principali rapporti col suo gruppo erano garantiti da una giovane donna che agli occhi di tutti passava per la sua amante. Si trattava di una tecnica apparentemente banale, ma efficace. Il sistema dei compartimenti stagni si rivelò così severo che la maggior parte degli agenti della rete sfuggì alla cattura. Tra questi, Leopold Trepper, di cui Alter Ström era amico d'infanzia. Trepper aveva ricevuto una lezione magistrale da Fantômas. Gli uomini della Gestapo che qualche anno più tardi gli diedero la caccia, avrebbero potuto scoprire interessanti informazioni nella documentazione raccolta da Charles Faux-Pas-Bidet, ma sembra che non l'abbiano consultata. Conoscevano bene Leopold Trepper, ma ignoravano Leiba Domb. Trepper aveva ventott'anni quando sfuggì alla retata della polizia balzando su un treno. Non appena arrivato a Berlino, si mise in contatto con l'ambasciata sovietica. Dopo alcuni giorni di attesa, ricevette l'ordine di recarsi a Mosca con un certo treno; giunto a destinazione, doveva lasciar esaurire il flusso dei viaggiatori e restare in attesa nel suo scompartimento: qualcuno sarebbe venuto a prenderlo. Cosa che avvenne. Trepper non sapeva nulla del futuro riservatogli, ma certo sperava che lo incaricassero presto di una nuova missione. Dovette attendere quattro anni. Malgrado il suo tormentato passato, ricco di esperienze di ogni tipo, malgrado l'attività all'ombra di Fantômas, per Mosca restava un promettente apprendista.

Otto anni dopo aver lasciato l'università di Cracovia, Trepper tornò a scuola. *** Così si concluse la prima parte dell'esistenza del Gran Capo. L'abbiamo percorsa in punta di piedi, passando dalla Polonia alla Palestina e da Parigi a Mosca, così come si passa un guado saltando da una pietra all'altra. Ma è più facile riassumere fedelmente vent'anni della vita di un uomo che render conto, nella sua pienezza e nella sua verità, di un semplice quarto d'ora di tale vita. Diciamo, ad esempio, l'istante memorabile in cui Trepper incontra Georgie de Winter. La scena si svolge a Bruxelles nel 1939. Georgie è figlia di uno spilungone americano dinoccolato, bellissimo uomo, una specie di incrocio tra Gary Cooper e Cary Grant. Fa lo scenografo a Hollywood presso gli studi della Paramount e di tanto in tanto non disdegna di cimentarsi nella professione di attore. Tornata con la madre in Belgio, Georgie conduce la vita della ragazza di buona famiglia e studia danza classica. Ha vent'anni ed è bellissima. Le fotografie attestano il suo splendore, la grazia del portamento, la luminosità degli occhi, la perfezione delle forme. Vent'anni dopo, allorché i sopravvissuti raccontano la loro storia, l'evocazione di Georgie è come un'oasi di bellezza e freschezza intercalata in un viaggio atroce. Quanto a Trepper, ha trentacinque anni. Non è esattamente bello: una testa interessante, ben disegnata, capelli biondi ondulati e il famoso sguardo, ma la statura è mediocre e già incombe la pinguedine. Le sue attrattive risiedono altrove: possiede un fa-

scino fatto di violenza e dolcezza insieme. «Un grande capo!», afferma Bill Hoorickx, pittore. «Aveva la forza e la vitalità di un toro». «Lo si sentiva sempre sotto pressione», aggiunge l'operaio tipografo Mignon. Ma la signora Queyrie, impiegata: «Era un brav'uomo! Il migliore degli uomini!». E Claude Spaak, scrittore: «Dava prova di un'infinità umanità». C'è in Trepper una forza interiore che placa e rassicura. In sua presenza, tutto diventa facile. Avrebbe potuto essere un ottimo confessore. *** Georgie entra in una pasticceria. Al momento di pagare lascia cadere i guanti. Trepper si precipita e glieli porge. Commossa dalla sua premura, interessata dalla sua conversazione la ragazza accetta di rivederlo. Qualche mese più tardi, quando Bruxelles è occupata dalla Wehrmacht, Georgie passeggia in compagnia di un'amica. Sull'altro marciapiede, un ufficiale tedesco lascia cadere i guanti. Un uomo accorre, li raccoglie e li tende con un sorriso: Trepper. Georgie pensa che dev'essere una specie di mania. Non lo avvicina, perché Trepper le ha proibito di farlo quando lo vede in compagnia o quando lei stessa non è sola. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto... Dunque, i due si incontrano. Ovviamente, Georgie vede in Trepper solo il personaggio che pretende di essere e cui somiglia: un uomo d'affari. E come potrebbe indovinare che quell'uomo già un po' corpulento è stato in passato l'insorto di Dombrova, lo spaccapietre di Palestina, il complice furtivo di Fantômas? Non può sapere che arriva da Mosca, né sospettare di ciò che ha fatto laggiù.

A proposito, che ha fatto? Dal 1932 al 1934 ha seguito i corsi alle università di Kaunas e di Prodrowski. Nel 1935 tiene la rubrica culturale in un giornale destinato agli ebrei russi: La verità. Ma in pari tempo è allievo dell'Accademia dell'Armata Rossa, dove il generale Orlov insegna spionaggio. Nel 1937, il suo amico Ström, del gruppo Fantômas, torna dalla Francia, dopo aver espiato la pena carceraria. Rimette in causa la versione accettata degli avvenimenti che hanno portato alla distruzione della rete. Per tutti, il responsabile era un certo Riquier, un redattore de L'Humanité. Ma Ström afferma che non è convinto del suo tradimento e suggerisce di spedire Trepper a Parigi con l'incarico di mettere in chiaro la faccenda. Cinque anni dopo la fuga, Trepper rientra in Francia con un passaporto falso a nome di Sommer. Facendosi passare per un parente di Ström, s'incontra per prima cosa con i due principali avvocati del processo: Ferruci e André Philip, il ben noto dirigente socialista. Poi approfondisce l'indagine e nel giro di qualche mese giunge alla convinzione che Riquier è innocente. È importante, perché viene così a cadere l'accusa mossa al partito comunista di essersi scaldato una serpe in seno. Ma Trepper fa di meglio: scopre il vero traditore. Si tratta di un ebreo olandese, già capo di una rete sovietica negli Stati Uniti. Arrestato dal FBI, passato dall'altra parte, l'individuo continuava a informare i servizi americani anche dopo che Mosca l'aveva trasferito in Francia. La denuncia ricevuta dalla Sûreté francese partiva dal FBI. Trepper va a far rapporto a Mosca, servendosi questa volta di un passaporto lussemburghese a nome di Majeris. Annuncia ai suoi capi che a Parigi si lavora a raccogliere i documenti necessari a stabilire la verità in modo decisivo. Cinque mesi più

tardi, torna in Francia a ritirare un grosso fascicolo: le fotocopie delle lettere scambiate tra il traditore olandese e l'addetto militare americano a Parigi. L'uomo d'affari che Georgie crede di incontrare nella pasticceria di Bruxelles si trova in Belgio per organizzarvi una rete di cui questa volta sarà il capo, “il Gran Capo”. *** S'incontrano e si piacciono. Potrebbe essere un bell'inizio, anche se la fine dev'essere spaventosa. Ma Georgie, nonostante la sua grazia, è incinta di cinque mesi ad opera di un amante che s'è dileguato. Ma Trepper, nonostante la sua bontà, sta per tradire Luba, compagna dei tempi difficili. Ha incontrato Luba in Palestina, dove militava in seno al gruppo “Unità”. Ha la stessa età; è ebrea e polacca come lui; la loro gioventù ha gli stessi colori neri della miseria e della lotta clandestina in Polonia. Al tempo in cui Trepper crede ancora di poter riuscire a issarsi in cima all'albero, Luba è operaia in una fabbrica di cioccolata e studia di notte per diventare maestra elementare. Militante comunista, appartiene a una cellula diretta da un ragazzo giovanissimo, Botvin. In quel periodo, un agente provocatore polacco combina grossi guai tra le file del partito comunista clandestino. Vengono organizzati contro di lui due attentati; falliscono. La cellula ebraica di Botvin decide allora di regolare i conti con lui, e lo fa. Luba deve fuggire in Palestina, dove lavora a fianco di Trepper. Arrestata nel corso di una manifestazione comunista non autorizzata, condannata a una pena detentiva, si sottrae all'espulsione solo grazie a un matrimonio bianco con un cittadino israelia-

no. Infine, volendo raggiungere Trepper in Francia, si serve del passaporto di un arabo siriano di cui diventa la sposa fittizia. Si ammetterà che una coppia temprata al fuoco di tali prove sfugge alle regole della commedia borghese e ai suoi adulteri da burla. Trepper, del resto, non tarderà a presentare Georgie a Luba. È segreto in tutto, a quanto pare, tranne nei suoi amori. Per il momento, si limita a raccogliere un paio di guanti in una pasticceria, mentre Luba e i suoi due bambini l'aspettano nel sontuoso appartamento di Bruxelles. Il primo figlio è nato a Parigi nel 1931, ma i genitori, entrati illegalmente in Francia, non hanno potuto dichiararlo all'anagrafe; il secondo è nato a Mosca nel 1936. Non ci sono testimoni né documenti che ne attestino il nome. Il bambino che avrà una parte in questa storia non è né di Luba né di Trepper: è quello che Georgie porta ancora in grembo. *** A questo punto, l'autore desidererebbe che il lettore sapesse che potrebbe trarre un capitolo oltremodo convincente dal primo incontro di Georgie e del Gran Capo. Il colpo di fulmine tra la danzatrice e la spia è, insomma, una scena che varrebbe la pena di ricostruire. L'autore potrebbe dunque descrivere l'abito elegantissimo che Georgie indossava quel giorno, raccontare come Trepper si presentò e riferire le prime frasi scambiate dai due. Ma l'abbigliamento della ragazza sarebbe, beninteso, del tutto immaginario, al pari del dialogo tra i due futuri amanti, poiché l'autore sfortunatamente non assisteva all'incontro destinato ad avere importanti conseguenze.

Indagare su una storia del passato è un po' come mettersi alla ricerca di un diplodoco. Si trova un osso qui e uno là; se si è fortunati, e perseveranti, si riesce a ricostruire qualcosa che somiglia a uno scheletro. Purtroppo, il pubblico prova solo un entusiasmo limitato per gli scheletri. Così, si è tentati di abbellire la faccenda, incollando sulle ossa una bella pelle e piazzando lo scheletro al centro di una scenografia con cui si spera, con un po' di fortuna, di riuscire a dare l'idea della fauna della preistoria. Nella peggiore delle ipotesi, non è un diplodoco, rettile preistorico, che si presenta al pubblico, ma un volgare serpente marino. Dall'esemplare da museo si è passati all'attrazione da baraccone. La spia costituisce con tutta probabilità la specie peggiore di diplodoco. Un generale lascia tracce vistose del suo passaggio: si sa com'era la sua uniforme e qual era il suo impiego; si conoscono le battaglie che ha combattuto; si ha a disposizione il testo dei suoi ordini del giorno, di suoi bollettini e, spesso, delle sue memorie. Trattandosi, per esempio, di Napoleone, non c'è alcun bisogno di inventare che una certa mattina si è svegliato con un dolore al fegato; basta scrivere veridicamente che in tal giorno s'è trovato ad affrontare il problema consistente nel far passare il Danubio al suo esercito. Una spia, invece, è incolore, inodore e insapore. È necessariamente esperto della sua arte (se non lo fosse, non si scriverebbe neppure di lui): perciò è l'Uomo Invisibile. Non si sa praticamente nulla dei suoi orari, dei suoi progetti, delle sue preoccupazioni. Persino le sue azioni sono prive di smalto: fissa appuntamenti a un angolo di strada, tiene rapidi conciliaboli, poi si rimette in cammino verso un altro incrocio. A volte la polizia rie-

sce ad arrestarlo, ma egli scivola con estrema facilità tra le dita del biografo. Questi si vede perciò costretto a impiastricciare il suo diplodoco per renderlo piacevole alla vista. Ci introduce arditamente nei suoi pensieri. Gli presta pittoresche manie. Ricostruisce a casaccio il modo in cui impiega il suo tempo. Se la spia viene convocata dal suo capo, nel sancta sanctorum del servizio segreto in questione, il biografo è lì, nascosto sotto il tavolo, che registra il dialogo. O perlomeno ce lo fa credere. Di modo che, di tutte le narrazioni storiche, quelle che trattano di faccende di spionaggio, sono insieme le più particolareggiate e le più vivaci, ciò che costituisce un piacevole paradosso se si pensa che tali faccende sono per definizione quelle che si prestano meno facilmente all'indagine. Così, la maggior parte delle opere consacrate a Richard Sorge ci fornisce audacemente un resoconto particolareggiato delle sue azioni e persino dei suoi pensieri; ci svela le parole che pronunciò nel preciso istante in cui possedeva quella certa amante, il gesto che fece per sottolineare una certa frase – sono insomma basate sulla tecnica di cui si è servito l'autore per dipingere il personaggio fittizio di Walter Schmidt, radiotelegrafista a Cranz. Il paragone con Sorge non è fortuito. In quello stesso 1939 in cui Trepper organizza in Belgio la sua rete, quella di Sorge è già in funzione a Tokyo. Il Gran Capo ci metterà poco a recuperare il ritardo. Stando a tutti gli specialisti dello spionaggio consultati dall'autore, Trepper era pari a Sorge quanto all'importanza delle informazioni raccolte, e gli era superiore di molto nel campo della tecnica organizzativa. Quanto alla sorte personale delle due grandi spie, non fu la stessa. La sorte di Sorge è di un'esattezza

assoluta: spiò, fu catturato e impiccato. Per il Gran Capo, è un altro paio di maniche... Se l'autore ha deciso di raccontare questa storia senza sfruttare la tecnica romanzesca, non è tanto per disprezzo di una tecnica del genere, quanto per una sorta di intima debolezza. Non ci si interessa impunemente agli esseri umani, ed ecco che sono ormai tre anni che è ossessionato da quelli dell'Orchestra Rossa. Con tutto il rispetto dovuto, è un po' nella situazione di chi, messosi in caccia del diplodoco, scoprisse che le ossa raccolte non appartengono a un rettile qualunque, ma sono sacre reliquie. Naturalmente, neppure a parlarne, di impiastricciarle. Non che l'autore nutra una particolare devozione per le reti di spionaggio sovietiche, ma ha perlomeno acquisito un certo rispetto per il coraggio degli uomini e delle donne dell'Orchestra Rossa, e una certa simpatia per la sorte crudele che toccò alla maggior parte di loro. Quando l'agente Käthe Voelkner si sentì condannare alla decapitazione dal tribunale militare tedesco, salutò col pugno chiuso e disse sorridendo: «Sono felice di aver potuto fare qualche piccola cosa per il comunismo». All'autore spiacerebbe dover infilare questa frase autentica, bella e dura come il diamante, in una paccottiglia da bazar. Queste parole sono le uniche di cui sia certo che sono state pronunciate da Käthe Voelkner. Sicché, non gliene metterà altre in bocca. Del pari, non ricamerà sull'incontro di Georgie e del Gran Capo. Tutto quel che sa, è che si amarono, che Georgie accettò Luba, che Trepper accettò il bambino che doveva nascere. Quando il piccolo venne alla luce, il 29 settembre 1939, Trepper si recò alla clinica con un enorme cesto di orchidee. Si chinò sulla culla, contemplò il bambino e disse: «L'amerò come se fosse mio».

Significava parlare da generoso. Ma il secondo conflitto mondiale era nato con un mese di anticipo sul piccolo Patrick, e ci si potrebbe chiedere se il fatto di essere adottato in tempo di guerra da una spia, anche se non ufficialmente, dev'essere considerato una benedizione. *** Questo libro è dunque una specie di scommessa. Può darsi che la scommessa sia già persa in partenza, perché se i racconti di spionaggio fanno a tal punto ricorso alla tecnica romanzesca, magari tale procedimento è indispensabile per ravvivare la narrazione. Walter Schmidt, quale l'ha descritto l'autore, è un personaggio fittizio. Se quella creatura immaginaria agli occhi del lettore è parsa più vera di quanto sarà il Gran Capo, avrò perso la scommessa. L'autore scrive queste righe a qualche chilometro dalla spiaggia di Utah, nel Cotentin, dove il 6 giugno 1944 sbarcò la IV divisione americana. Con ammirevole devozione, la municipalità ha costruito un museo nel quale sono raccolte le vestigia della battaglia combattuta quel giorno: certo, il museo più completo e commovente della costa. Poi sono state installate in una sala certe ingegnose scatole giunte dall'America e che somigliano a tanti televisori. Dentro, dei soldatini di piombo avanzano su un nastro scorrevole. Ci sono anche carri armati e navi. E si vedono persino degli aerei in picchiata. Il pubblico sfila rapidamente davanti alle reliquie storiche, ma non è mai sazio di contemplare i soldatini di piombo; occorre sospingerlo verso l'uscita. Accade talvolta che mettano piede nel museo dei superstiti della IV divisione; al

pari degli altri, ammirano molto i soldatini. È un po' come la storia del diplodoco e del serpente marino. Che malinconia. Ma l'autore scorge dalla sua finestra un brulichio di macchie bianche sul verde delle praterie: sono i gabbiani, ripiegati verso l'entroterra. E se ignora tutto delle abitudini dei gabbiani prussiani, l'autore sa per esperienza che le praterie normanne picchiettate di bianco annunciano a colpo sicuro brutto tempo.

II. DRÔLE DE GUERRE

Michaël Dzumaga, canadese, nato il 2 agosto 1914 a Winnipeg, s'era arruolato nelle Brigate Internazionali create contro Franco. Sbarcò in Spagna con in tasca il passaporto n. 43671, rilasciato nel 1937. Il passaporto gli fu confiscato immediatamente. Ignoriamo la sorte toccata a Dzumaga, che forse è morto e forse vivo, ma se fece ritorno nelle praterie del Canada, fu comunque senza passaporto. Questo, infatti, debitamente falsificato a nome di Mikler, era in possesso del Gran Capo. Il caso di Dzumaga è banale: quasi tutti i volontari anglo-sassoni delle Brigate Internazionali si videro privati dei documenti a maggior beneficio dei servizi segreti sovietici. Il Gran Capo, alias Adam Mikler, arriva dunque a Bruxelles nell'autunno del 1938. Entra subito in contatto con un uomo d'affari ebreo, Léon Grossvogel, che ha conosciuto in Palestina. Grossvogel è il rampollo di una famiglia borghese residente a Strasburgo da parecchie generazioni. Dopo un breve e romantico soggiorno in Palestina, è tornato ai suoi affari, e a Bruxelles dirige una ditta commerciale con molteplici succursali, “Il re della gomma”, specializzata in impermeabili di ogni tipo. Comunista ardente, aderisce senza riserve ai progetti esposti da Trepper. Que-

sti dispone di diecimila dollari. Saranno investiti in un affare di esportazione che servirà da “copertura” alla rete. Nasce così la ditta “The Foreign Excellent Trench-Coat” – sempre impermeabili, perciò. In qualità di direttore, viene assunto un belga sulla sessantina, tondo e gioviale, baffi bianchi e pelle rosea, amante della buona tavola e dei buoni vini: Jules Jaspar. Un colpo da maestro. I Jaspar costituiscono una delle massime dinastie borghesi del Belgio. Il fratello di Jules è stato presidente del Consiglio; una via di Bruxelles porta il suo nome. Jules, dal canto suo, ha esercitato a lungo le funzioni di console del Belgio in Indocina, poi in Scandinavia1. Con una tale personalità alla testa, la ditta è insospettabile. Il bravo Jules Jaspar, beninteso, ignora tutto dei misteri protetti dai suoi impermeabili. Il 1939 serve a montare la rete e a provare i suoi ingranaggi. Quando scoppia la seconda guerra mondiale, il Gran Capo è in grado di eseguire gli ordini impartitigli dalla Russia. Singolare coincidenza: la prima missione affidata da Mosca all'agente sovietico Trepper è molto simile a quella affidata da Berlino all'agente tedesco Leverkuehn... *** Fu nel marzo del 1940 che Paul Leverkuehn, dell'Abwehr, si vide incaricato di un compito pittoresco: lo spedivano a esplorare una regione sconosciuta. Nel XX secolo, generalmente gli ordini di missione sono più prosaici, anche se si tratta di una missione segreta. Se si aggiunge che la zona in questione era attraversata dall'antica Via della Seta, seguita da Marco Polo, si ammetterà 1 Suo nipote fu ambasciatore del Belgio a Parigi fino al 1966.

che Leverkuehn, per quanto poco dotato di spirito romanzesco, dovette considerarsi fortunato. Gli ultimo colpi della campagna di Polonia erano stati sparati sei mesi prima, e ormai in Europa si combatteva soltanto attorno al lago Ladoga, dov'erano alle prese le truppe russe e finlandesi. L'esercito francese e quello tedesco, seduti tranquillamente, si contemplavano da una sponda all'altra del Reno; la chiamavano la “drôle de guerre”. I colleghi di Leverkuehn tenevano aggiornato l'ordine di battaglia nemico e si sforzavano di ottenere i piani di fuoco dei fortini della linea Maginot. I loro avversari del Deuxième Bureau tenevano aggiornato l'ordine di battaglia tedesco e si sforzavano di ottenere i piani di fuoco dei fortini della linea Sigfrido. Apparentemente, non c'era ragione perché la drôle de guerre cessasse di essere noiosa in un futuro prevedibile. Leverkuehn fece le valigie e partì per Tabriz, in Persia, dove ufficialmente avrebbe assunto le funzioni di console di Germania. L'unica carta utile che portava con sé era una carta mondiale, scala un milionesimo, sulla quale la zona che doveva esplorare era rappresentata dalla macchia bianca delle “terre sconosciute”. *** Nel marzo del 1940 il patto di non aggressione russo-tedesco è in pieno vigore. Hitler e Stalin hanno unito le loro forze per abbattere la Polonia; attualmente, combinano affari tra loro. A centinaia di migliaia di tonnellate, i cereali russi sono consegnati alla Germania e suppliscono alle importazioni normali, impedite dal blocco marittimo inglese. Ma, più importante ancora del gra-

no russo, dei fosfati russi, del cotone russo: il petrolio russo. È il nerbo della guerra lampo, il cruccio permanente dei capi della Wehrmacht. Purché Stalin non recida l'arteria di alimentazione che partendo dal Caucaso giunge fino ai carri tedeschi, Hitler gli accorda sacrifici tanto più inauditi in quanto ha già deciso la guerra contro la Russia. In cambio delle forniture, Stalin ottiene artiglieria, caccia, bombardieri e innumerevoli macchine utensili. Il 30 dello stesso mese di marzo il Führer dichiara che le consegne di materiale bellico all'esercito russo avranno la priorità persino sulle ordinazioni dell'esercito tedesco; consegna a Stalin l'incrociatore pesante Lützow, si accinge a vendergli i piani della corazzata Bismarck, che sarà la più grossa nave da guerra del mondo. In cambio del petrolio russo, Hitler fornisce armi, ben sapendo che tra poco saranno rivolte contro di lui. Vi sono pochi esempi, nella storia, di un intrigo del genere. Il petrolio russo si trova a Baku. Il generale Weygand è in Siria con, almeno così si ritiene, centocinquantamila soldati francesi. Mille chilometri in linea d'aria separano la Siria da Baku. Problema: se Weygand decide di compiere una ardita incursione su Baku per distruggervi i pozzi, troverà tra le montagne Kara Dagh la strada carrozzabile che gli permetterà di raggiungere l'obiettivo? *** La zona che Leverkuehn deve esplorare, non gli è del tutto sconosciuta. Nel 1915 ha preso parte alla spedizione ScheuberRichter che operò ai confini della Persia, della Siria e del Caucaso; ne è anzi l'unico superstite, per questo la scelta per questa se-

conda ricognizione è caduta su di lui. Ma da quel viaggio è trascorso un quarto di secolo, e Leverkuehn ignora tutto dei grandi lavori eseguiti dallo Scià di Persia, Reza Pahlevi. Accompagnato da un autista e da un interprete, Leverkuehn affronta il deserto. Ben presto scopre che la pista che attraversa la catena dei Kara Dagh può essere utilizzata da truppe alpine in assetto leggero. Proseguendo verso sud, lungo la Via della Seta, esplora le rive del lago di Ourmid e giunge a Sakkis, dove la vista di un magnifico ponte in cemento armato gli strazia il cuore. Durante una sosta l'autista e l'interprete s'allontanano per una passeggiata e scoprono uno spettacolo che fa loro un'impressione ancor più profonda: penzolanti da una forca, i cadaveri di due curdi, banditi di strada; rifiutano di spingersi oltre. Leverkuehn ha un bello spiegar loro che il Grande Stato Maggiore tedesco ha gli occhi puntati su di loro: i suoi accoliti dichiarano forfait. Si torna a Tabriz, dove Leverkuehn viene a sapere che una macchina era stata assalita a pochi chilometri dal punto in cui avevano sostato: un morto e due feriti. Gli aggressori, arrestati, dichiarano che erano stati incaricati di uccidere il console tedesco. Leverkuehn benedice la codardia dei suoi compagni e redige il suo rapporto a Berlino. Non c'è dubbio che vi suscitò notevole impressione. L'uomo dell'Abwehr conclude col dire che, se Weygand lancia qualche divisione su Baku, non incontrerà alcun ostacolo serio, né materiale né umano, all'attuazione dell'impresa. Al problema che Leverkuehn ha delucidato sul posto, il Gran Capo si sforza di rispondere a qualche migliaio di chilometri di distanza. Anche Stalin infatti, come Hitler, teme per il suo petrolio – per il loro petrolio. Weygand è il generale che, nel 1920, ha

spezzato sotto le mura di Varsavia lo slancio dell'Armata Rossa rinascente. I suoi sentimenti anticomunisti sono notori: se può colpire a Baku, lo farà senz'altro. Trepper è in grado di tranquillizzare il Cremlino. Certo, Daladier, presidente del Consiglio, ha chiesto allo Stato Maggiore di studiare la possibilità di un colpo di mano sul petrolio russo. Ma l'incursione terrestre che Leverkuehn giudica perfettamente attuabile, non è neppure presa in considerazione da Gamelin, comandante in capo dell'esercito. Questi preferisce chiedere agli inglesi di organizzare un'azione marittima combinata e lanciare una flotta franco-inglese nel cuore del mar Nero. Ciò implica che la Turchia dovrà aprire i Dardanelli e accettare di mettere in gioco la propria neutralità. I militari chiedono ai diplomatici di convincerla a qualche passo. Quando la Wehrmacht entrerà a Parigi, troverà negli archivi francesi la pratica dei negoziati andati a monte. Forse il Gran Capo aveva rassicurato Mosca, ma Leverkuehn non turbò per molto Berlino. Tre settimane dopo l'arrivo del suo rapporto, le truppe tedesche invadevano la Danimarca e la Norvegia. Quest'improvvisa accelerazione della guerra rendeva improbabile un colpo di mano su Baku. Essa costituì per Stalin una notevole sorpresa: da mesi si aspettava lo sbarco di un corpo di spedizione in Scandinavia, ma era convinto che sarebbe stato franco-britannico. Suo obiettivo? Aprirsi la strada fino alla Finlandia e impegnar battaglia contro l'Armata Rossa! E Stalin darà ben presto prova della propria cecità. È posseduto da una tale nevrosi di odio e paura nei confronti della lontana Inghilterra, che non vedrà la Germania drizzarsi minacciosa alle soglie della Russia. Nel caso specifico è convinto di aver ra-

gione: i rapporti dei suoi servizi segreti hanno rafforzato la sua convinzione. *** Ricordiamo una cosa: in quell'inverno del 1940 il cuore dell'Inghilterra e della Francia è tutto per la Finlandia. Se è difficile entusiasmarsi per i soldati che giocano a carte nei sotterranei della linea Maginot, ci si commuove alle gesta degli sciatori finlandesi. Avviluppati nella bianca palandrana che li rende invisibili sulla neve, silenziosi e terribili, bloccano l'Armata Rossa nelle foreste del Nord. Di fronte al valoroso David, la Russia fa la figura di un ripugnante Golia. Stalin recita sulla scena mondiale la parte che tra poco cederà al suo ingegnoso sostituto, Mussolini: quella del valletto d'arme che col pugnale porta il colpo di grazia. Ha finito la Polonia, folgorata da Hitler, come l'italiano ben presto colpirà alle spalle una Francia già vinta. Due mesi più tardi, attacca la Finlandia. Avrebbe dovuto divorarla in un sol boccone; tra la commozione generale, quel boccone gli resta in gola. È dubbio se, in quel momento, l'opinione pubblica alleata nutrisse per la Russia altrettanto odio che per la Germania. Ma nelle sfere politico-militari, tradizionalmente anticomuniste, la passione giunge al parossismo. Trascurando il nemico dichiarato, il tedesco rimpiattato a portata di fucile, i generali alleati vogliono “dare addosso al Russo”. Il generale Weygand scrive a Gamelin nel febbraio del 1940: «Ritengo di capitale importanza spezzare le reni all'URSS in Finlandia e altrove». Divenuto presidente del Consiglio, Paul Reynaud esprime alla presenza del gabinetto

di guerra la propria volontà di intervenire contro la Russia «sia nel nord dell'Europa, sia nel mar Nero, a sud del Caucaso»; Gamelin osserva: «Quasi tutti i membri del Gabinetto hanno l'aria di accettare a cuor leggero questa guerra». Gli Alleati approntano un corpo di spedizione di 57.000 uomini dotati di equipaggiamento speciale. Il maresciallo finlandese Mannerheim conferma nelle sue memorie che ricevette dal generale Ironside, capo di Stato Maggiore britannico, l'assicurazione che un primo contingente di 15.000 uomini sarebbe stato messo a disposizione a partire dalla fine di marzo. Il 2 di questo stesso mese, la Norvegia e la Svezia si rifiutano di accordare alle truppe alleate l'indispensabile diritto di transito. L'8, Daladier informa Mannerheim che se la Finlandia chiede ufficialmente un aiuto agli Alleati, il corpo di spedizione si farà strada con la forza in Scandinavia. Vecchio e saggio, Mannerheim rifiuta. Durante la campagna di Polonia ha visto 110 divisioni alleate restare a pié fermo mentre Hitler, occupato all'est, aveva lasciato solo uno schermo di 23 divisioni tra il Reno e Berlino. Vede, dall'inizio di quell'inverno 1940, le file di fanti di Verdun che si fanno fotografare nella famosa posizione del “tiratore seduto”. Il maresciallo finlandese non crede all'umore bellicoso degli Alleati; dubita del loro ardore di battersi sulle rive del lago Lagoda mentre danno prova di perfetta passività sulle sponde del Reno. Alla metà di marzo, Mannerheim consiglia al suo governo di negoziare un armistizio con i russi; la storia ha perso l'occasione di servirci un piatto ben pepato. Pensate: se gli Alleati avessero impegnato battaglia con i russi sia all'estremo sud (Baku), sia all'estremo nord (Finlandia), un anno dopo si sarebbero ritrovati, volenti o nolenti, associati

con Hitler contro Stalin sul fronte orientale, mentre si battevano contro il Führer su quello occidentale. Dato un imbroglio del genere, tutto diventava possibile, anche il peggio. *** I progetti alleati in merito a Baku e alla Finlandia ci appaiono oggi addirittura ridicoli; tra poco interesseranno ormai soltanto ai dilettanti che si appassionano agli aborti della storia. Ma allora le informazioni ricevute in proposito erano senz'altro considerate cruciali dal Cremlino. Da anni Stalin lanciava ai quattro venti il suo sinistro monito: «La seconda guerra mondiale è già cominciata». Ma la sua visione politica era viziata da una sorta di strabismo: anche se Berlino, Roma o Tokyo lo preoccupavano, era sempre su Londra che puntava un occhio vigile. Non sappiamo nulla dei rapporti del Gran Capo. A giudicare dal suo lavoro successivo, che invece conosciamo bene, dovevano essere precisi, documentati, esaurienti. Se un giorno usciranno dagli archivi del Cremlino, forse potremo comprendere meglio perché mai le macchinazioni dell'onorevole Chamberlain siano parse per molto tempo a Stalin più temibili dei piani del Führer. Piani di cui del resto a Mosca non si sa assolutamente nulla. La Gestapo ha spazzato via il partito comunista tedesco e smantellato le reti sovietiche. Firmato il patto con Hitler, Stalin intende stare al gioco: vieta la creazione di un nuovo sistema di spionaggio. I capi dei servizi russi sanno che rischiano la testa disobbedendo a quest'ordine, per cui disobbediscono, ma con prudenza. Si limitano a porre le basi per un'azione futura. Sulle carte,

la Germania potrebbe pressoché essere rappresentata dalla stessa macchia bianca delle “terre sconosciute” che contraddistingueva quella del Paul Leverkuehn. L'Inghilterra, invece, è debitamente “accerchiata” dalla rete del Gran Capo. Questi si è insediato a Bruxelles per ragioni giuridiche e geografiche. La legislazione belga è particolarmente mite in materia di spionaggio; lo punisce unicamente se è diretto contro il Belgio. Ora, la missione di Trepper consiste nell'investire le Isole Britanniche dalla piattaforma belga. Constatiamo, qui, una volta di più la pignoleria caratteristica dei servizi russi. L'Abwehr, quando vorrà penetrare i segreti inglesi, si limiterà a paracadutare nei pressi di Londra qualche malcapitato agente subito catturato e impiccato. I russi cominciano invece con lo stringere l'avversario nelle maglie di una vasta rete. Per tutto il 1939, Trepper tesse una ragnatela che fa capo a sette grandi porti legati ai traffici con l'Inghilterra: Oslo, Stoccolma, Copenaghen, Amburgo, Wilhelmshaven, Ostenda, Boulogne. Crea nella maggior parte di essi succursali della ditta “The Foreign Excellent Trench-Coat”, e vi insedia i suoi agenti. Le conoscenze di Jules Jaspar agevolano particolarmente le operazioni in Scandinavia, dove un tempo ha esercitato le funzioni di console. *** Così, la Germania è “vuota”, ed è contro l'Inghilterra che opera la rete del Gran Capo. Lo spionaggio sovietico in Occidente è come quelle fortezze marittime ritenute inespugnabili – Singapore e altre – che ben presto saranno invece prese da poche truppe venute dall'interno: i loro cannoni potevano sparare soltanto ver-

so il mare. Il Führer ha già deciso di lanciare tre milioni di uomini contro la Russia, ma tutte le batterie del Gran Capo, da Boulogne a Oslo, sono puntate su Londra. Comincia male, insomma. *** Il 10 maggio 1940, la Wehrmacht attacca a occidente. Per i giovani nazisti la passeggiata militare attraverso la Francia non fu una sorpresa: il Führer l'aveva promesso. Per Franz Fortner, reduce da Verdun e da altri luoghi scoraggianti, aveva invece del miracoloso. Il tenente dei mezzi corazzati Franz Fortner copre in un'ora il tragitto un tempo conquistato in sei mesi – e d'altronde abbandonato sei mesi dopo. Anziché sguazzare in fetide trincee, fila sull'asfalto, torretta aperta, e abbronza al sole le vecchie cicatrici. Le guerre si succedono senza somigliarsi, e questa rappresenta un grosso progresso sulla precedente... Fortner prende parte allo sfondamento del fronte francese, poi alla corsa verso il mare. Davanti a Dunkerque è promosso capitano e gli è affidato il comando di una compagnia. I suoi carri avanzano lungo strade intasate di prigionieri, superano colonne di profughi di cui bisogna scaraventare nel fosso le carrette malandate. Frammezzo a quel triste traffico, un'automobile civile senza materassi sul tetto e senza gabbietta per gli uccelli nel cofano socchiuso: i suoi occupanti, dunque, non sono profughi. Del resto, non fugge la battaglia: anzi, l'accompagna, infilandosi tra le colonne di carri armati, aggregandosi agli stati maggiori, risalendo verso le prime linee con un convoglio di carburante, sfuggendo di volta in volta alle mitragliere degli Stukas e al cannone

alleato. Ammesso che l'abbia vista, Fortner la nota? È un combattente, lui, e non è direttamente interessato dai problemi della sicurezza. Non ancora. Del resto, quando i poliziotti tedeschi intimano l'alt alla macchina per controllare i documenti degli occupanti, rettificano subito la posizione e fanno cenno di passare. L'uomo al volante, Durov, è console di Bulgaria a Bruxelles; si tratta di una personalità diplomatica tanto più degna di rispetto in quanto il suo paese flirta con la Germania. Accanto a lui, Grossvogel; sul sedile posteriore, il Gran Capo. L'automobile resta in panne tra Knokke-le-Zoute e Bruxelles, mentre risale una colonna di SS. Il colonnello delle SS, gentilissimo, fa mettere una macchina a disposizione del console di Bulgaria e ordina a un giovane tenente di trasferirvi i bagagli dei tre viaggiatori. Ci si immagina il tranquillo sguardo di approvazione di Trepper mentre osserva il tenente delle SS installare con tutte le precauzioni del caso la valigia contenente la radio trasmittente... Pare che Durov non facesse parte della rete. Era semplicemente amico di Grossvogel, o più esattamente: questi era in rapporti di affari con un bulgaro a nome Petrov, per il cui tramite ha conosciuto Durov. Qualche giorno dopo l'invasione del Belgio, Grossvogel confida a Durov le sue preoccupazioni commerciali. La succursale di Ostenda del “Re della gomma” è stata distrutta da una bomba tedesca; vorrebbe sapere quale è la sorte toccata agli altri magazzini. Durov propone di fare il giro delle succursali. Ufficialmente, il console si metterà in viaggio per andare a informarsi della sorte dei cittadini bulgari residenti nella zona in cui si svolgono i combattimenti. Strano personaggio, che si espone ai rischi della battaglia con un falso pretesto.

Il giro ha inizio il 19 maggio, nel momento culminante della campagna del Belgio. Il Gran Capo, che ha bruciato il suo passaporto canadese, assiste da ispettore privilegiato ai frutti dello sfondamento di Sedan, poi alla battaglia di Abbeville. Viaggia alla volta di Dunkerque assieme ai mezzi corazzati di Fortner e vede cadere la città. In tasca, ha un taccuino pieno di annotazioni. S'interessa in modo particolare allo smistamento dei rinforzi della Wehrmacht, al ruolo degli Stukas, alla tattica impiegata dai Panzer per schiacciare le difese anticarro nemiche. Quando i tre compagni avranno concluso il loro giro, il Gran Capo invierà a Mosca un rapporto di ottanta pagine sulla nuova strategia ideata e posta in atto da Hitler: la guerra-lampo. Il rapporto, al pari dei precedenti, giungerà a destinazione per il tramite dei diplomatici sovietici. Le valigie diplomatiche evitano ancora a Trepper la necessità di inviare i suoi messaggi nell'etere, ma ormai egli intuisce che tra poco i contatti con Mosca dovranno essere assicurati via radio, ed è proprio per questo che è andato, in piena battaglia, a recuperare l'emittente nascosta in una villa di Knokke. Nello stesso momento in cui Molotov si congratula con Hitler per lo «splendido successo della Wehrmacht», il Gran Capo già si prepara alla prossima guerra russo-tedesca; di sua spontanea iniziativa fa ruotare le batterie di centottanta gradi. Non saranno più puntate sull'Inghilterra, bensì sulla Germania. Dopo la firma dell'armistizio con la Francia, l'esercito tedesco cambia pelle e scarta gli ufficiali più anziani dalle unità di prima linea. Franz Fortner, quarantasette anni, è strappato ai suoi carri armati. Lo assegnano all'Abwehr, che lo spedisce in Belgio per esercitarvi il controspionaggio. L'avversario indicato è, beninte-

so, l'Intelligence Service; il compito di Fortner consiste nel proteggere i segreti dell'“Operazione Seelowe”, nome dato al progettato sbarco della Wehrmacht in Inghilterra. Ma durante l'estate del 1940 Fortner riceve uno strano telegramma: Berlino gli annuncia l'arrivo a Bruxelles di una missione sovietica forte di una trentina di persone. Certo, la Russia ufficialmente è una nazione amica, ma in definitiva... Debitamente avvertito, Fortner cova i suoi ospiti con occhio vigile. Non nota alcuna attività sospetta e, ripartita la commissione, può inviare a Berlino un rapporto rassicurante. Qualche settimana più tardi, arriva in Belgio un nuovo gruppo di visitatori. Selezionati con somma cura, muniti di lasciapassare rilasciati col contagocce, questi non ispirano alcuna inquietudine all'Abwehr. Si tratta di diplomatici e di ufficiali superiori appartenenti a paesi germanofili ma neutrali: Ungheria, Bulgaria, Spagna, Romania, eccetera. Si vuole sedurli, dimostrar loro l'invincibilità della Wehrmacht e convincerli ad arruolarsi nel campo del vincitore. Il gregge strabiliato è portato in gita sui campi di battaglia recenti. Ufficiali di stato maggiore, carte alla mano, con tanto di fotografie a sostegno, analizzano la loro vittoria da tecnici esperti. E perché tutto sia chiaro, ogni invitato riceve persino una documentazione complementare. Discreto e senza dar nell'occhio, come si conviene a un invitato dell'ultima ora, il Gran Capo non si allontana di un solo passo dal console bulgaro. I casi della guerra avevano fatto correre fianco a fianco l'automobile di Durov e il carro armato di Fortner lungo le strade che portano a Dunkerque? È possibile, ma non certo. Ecco forse il

primo incontro, durante quel giro di propaganda, tra il Gran Capo e il suo futuro cacciatore. È lecito giudicarlo simbolico.

III. SUDAMERICANI A BRUXELLES

Settembre 1965. Guillaume Hoorickx, detto “Bill”, pittore belga, mi riceve nel suo studio in Avenue Émile Zola, a Parigi. Di statura media, magrissimo, occhi neri e vivaci, sembra un cinquantenne che porti bene i suoi anni. Ne ha sessantasei, e ha conosciuto le celle della Gestapo, poi il campo di concentramento di Mathausen. Detesta parlare del passato. Alle pareti dello studio sono appese le sue opere più recenti: tele astratte, bellissime. Una di esse reca questa frase, tracciata in sovrimpessione: «Se io non sono io, chi mai lo sarà?». La disfatta del 1940 mi aveva portato a Tarbes, dove mi sono impiegato all'arsenale. Quando sono arrivati i tedeschi, abbiamo sabotato tutto. Io ero inesperto, certo, ma i francesi mi hanno insegnato come bisognava fare e abbiamo fatto un gran bel lavoro. Credo proprio che sia uno dei miei più bei ricordi. Poi, sono tornato a Bruxelles e sono andato a trovare mia moglie. Deve sapere che vivevamo separati, ma siamo rimasti buoni amici fino all'ultimo; andavo a trovarla spesso. Era stato proprio in occasione di una visita che avevo conosciuto in casa sua, già prima della guerra, un

uruguayano a nome Carlos Alamo. Era un gran bel ragazzo, simpatico, e ho subito capito che valeva molto di più di quella sua aria da ballerino di tango. Avevamo pranzato assieme due o tre volte. Al mio ritorno a Tarbes, sono dunque andato a chiedere notizie di mia moglie. Viveva con Alamo. Mi hanno raccontato che durante l'esodo si erano rifugiati a Ostenda. Là Alamo gestiva un negozio. Credo che si trattasse di una faccenda di impermeabili. Ciò non ha niente a che vedere con la sua storia, ma glielo racconto lo stesso: quando sono tornato dalla deportazione, nel 1945, ho trovato mia moglie affetta da una forma di cancro gravissima. Mi ha detto: «Sto per morire, ma sapevo che saresti tornato e ho voluto aspettarti. Beviamo insieme una bottiglia di champagne». Abbiamo bevuto la bottiglia; mia moglie è morta due giorni dopo. «Dicevamo che ho rivisto Carlos Alamo. Ed è stato suppergiù nello stesso periodo che ho fatto la conoscenza di un certo Rauch, un cecoslovacco. Non mi ricordo più dove l'ho incontrato. In un bar, forse... o magari al SaintJames Club. Rauch era sulla cinquantina. Alto e distinto, aveva il portamento di un gentleman della City. Era l'agente per la Cecoslovacchia di una ditta belga che si occupava di esplosivi. Abbiamo cominciato a uscire assieme, Rauch, Alamo ed io. Ben presto Rauch si è messo a sondarmi sulle mie idee politiche. Persuaso della mia fede antinazista, mi ha rivelato che lavorava per l'Intelligence Service e mi ha chiesto di aiutarlo. Ho accettato, naturalmente. Rauch mi ha spiegato che le sue informazioni passavano a Londra per il tramite di Alamo, il quale disponeva di una radio trasmittente. Ho assistito a parecchie emissioni. Avevano luogo in una villa situata all'angolo dell'Avenue de

Longchamp, oggi Avenue Winston Churchill, e di una strada di cui ho dimenticato il nome. C'erano un radiotelegrafista a nome Antonio e un paio di donne di cui non conservo un ricordo preciso. Si dà il caso che io parli perfettamente l'inglese. Ora, l'inglese che si parlava alla villa era tutt'altro che corretto. Il particolare mi ha dato da pensare e mi sono confidato con Rauch. Mi ha risposto: «No, non sono inglesi, sono americani. Meglio così, dal momento che l'America è neutrale, per cui è molto più sicuro per noi lavorare con americani». È vero che Alamo affermava di essere di origine americana e che sua madre viveva tuttora a New York, ma tutto ciò mi sembrava difficile da credere. Un giorno, si è congedato da me annunciandomi che andava al consolato dell'Uruguay. L'ho seguito. Alamo si è effettivamente diretto verso il consolato, ma al momento di entrarvi, ha traversato la strada e s'è allontanato. Mi son detto che non doveva essere americano, apparentemente non uruguayano, e che la faccenda diventava sempre più misteriosa. Soprattutto non capivo perché Rauch mi raccontasse tante frottole. Naturalmente trasmettevo loro tutte le informazioni di cui potevo essere a conoscenza. Non era gran che, per lo più, ma facevo del mio meglio. A quel tempo – si era nell'autunno del 1940 – andavo spesso a trovare mio cognato, che era importatore di frutta secca ad Anversa. Gli avevano requisito l'azienda e tutte le giacenze. Due o tre volte alla settimana, doveva consegnare un camion di frutta secca all'aeroporto di Anversa, che ovviamente era occupato dalla Luftwaffe. Un giorno, gli ho chiesto di affidare a me il camion. Una volta consegnato il carico, sono andato allo spaccio e ho

attaccato discorso con alcuni tedeschi. Ho domandato loro: «Che cosa avete intenzione di farne, di tutta questa frutta secca?». E loro mi hanno risposto: «È per l'Inghilterra». «Per l'Inghilterra?». «Sì, prepariamo l'invasione. Quando avrà inizio, i nostri piloti saranno in volo di continuo e non avranno il tempo di consumare i pasti qui, per cui li riforniremo di frutta secca». Ho riferito la comunicazione a Rauch. Un'altra volta, sempre ad Anversa, ho visto apparire nel cielo un aereo inglese solitario. Mi ricordo che era una magnifica giornata. L'aereo è calato in picchiata sulla fabbrica della General Motors e ha sganciato un grappolo di bombe prima di sparire. Una delle bombe è caduta sulle officine della carrozzeria; i depositi di vernice hanno preso fuoco; nel giro di qualche minuto, tutta la fabbrica era consumata da un gigantesco incendio. Lo stesso giorno ho assistito a una manifestazione sulla piazza principale di Anversa: un corteo di donne che sfilava dietro una bandiera nera. Ho domandato che cosa significava quella bandiera; mi hanno risposto che era da sempre il simbolo della carestia e che le donne protestavano contro l'invio in Germania delle riserve di patate. Sono tornato a Bruxelles nel pomeriggio e ho raccontato i due episodi a Rauch e Alamo. Stavano preparando un'emissione, sicché hanno potuto inserirvi le mie informazioni. Poi abbiamo cenato e chiacchierato. Verso mezzanotte, abbiamo ascoltato le emissioni in lingua straniera di Radio Mosca, come accadeva spesso. Quella sera, gli annunciatori erano due, un uomo e una donna, che si alternavano al microfono. Non mi ricordo più se è stata la donna a raccontare la storia dell'aereo inglese e l'uomo quella della manifestazione, o viceversa; comunque, è stata una bella sorpresa! Ho guardato Alamo e

Rauch. Sembravano imbarazzati. Poi Alamo si è alzato e ha spento la radio dicendomi in tono oltremodo minaccioso: «Se parli, sei fritto!». L'indomani sono andato a trovare Rauch e ho preteso spiegazioni. Mi ha detto: «Senti, io faccio veramente parte dell'Intelligence Service e sorveglio i russi. Sta' bene attento: rischiamo la pelle, tu ed io! Quella gente è ancor più pericolosa dei tedeschi!». Naturalmente, ciò accadeva prima dell'aggressione tedesca contro la Russia; il patto russo-tedesco era sempre in vigore. La notizia che Carlos Alamo era russo mi ha tremendamente infastidito. Qualche giorno prima, mi aveva detto che non conosceva nessuno e mi aveva pregato di presentarlo a una donna. Avevo organizzato una cena con due giovani russe: la principessa Sherbatov e una sua amica, che oggi è diventata mia moglie. Avevo notato il sobbalzo di Alamo all'udire il nome della principessa, ma non ci avevo fatto caso. Poi, si è messo a farle la corte, ma in modo eccessivamente goffo, quasi grossolano. Inoltre, a tavola si comportava malissimo, e le due donne l'hanno preso molto in giro – in russo, ovviamente. Anna, mia moglie, mi ha riferito che ne avevano dette di tutti i colori sul suo conto. Quando ho saputo che il povero Alamo era russo e che aveva capito ogni cosa, mi è spiaciuto moltissimo per lui...

Dicembre 1965. Arrivato a Bruxelles alle undici di sera, decisi di tentare la sorte, malgrado l'ora tarda: tanto valeva sapere subito se avevo fatto il viaggio inutilmente. Fu Margarete Barcza in persona che rispose al telefono; accettò di ricevermi. Quando le domandai in quale momento le faceva più comodo, mi rispose:

«Perché non adesso? Vado sempre a letto tardissimo, o prestissimo, come preferisce». La stetti ad ascoltare, quella notte, fino alle quattro del mattino. Nel 1940 aveva ventotto anni. Alta e bionda, piuttosto formosa, spesso abbigliata in maniera stravagante, non passava inosservata, neppure agli occhi della Gestapo. I suoi begli occhi hanno resistito al tempo e alle gravi malattie che l'hanno colpita. Parla in tono allegro, con l'accento di Bruxelles. Il mio primo marito, Ernest Barcza, aveva diciassette anni più di me. Vivevamo in Cecoslovacchia, di dove è originaria la mia famiglia e dove è nato nel 1932 mio figlio René – io avevo vent'anni esatti. La nostra, era una vita facile, piacevolissima; la mia famiglia aveva fatto fortuna con l'esportazione del luppolo. Conducevo, insomma, l'esistenza di una moglie di milionario, dopo aver fatto la vita di una figlia di milionari, e non vedevo alcun motivo perché la situazione cambiasse. Ma dopo gli accordi di Monaco e l'annessione dei Sudeti da parte della Germania, abbiamo dovuto trasferirci a Praga. Un anno più tardi, lasciavamo Praga appena prima dell'arrivo delle truppe di Hitler e ci rifugiavamo in Belgio. Mi sono dimenticata di dirle che eravamo ebrei. A Bruxelles, ci siamo installati al numero 106 dell'Avenue de Béco. Io occupavo un appartamento al sesto piano con mio marito, mentre i miei genitori stavano al quinto. Naturalmente, non era più come prima e il nostro grande divertimento consisteva nel giocare a bridge col nostro vicino di pianerottolo, un funzionario belga gentilissimo. Il 15 marzo 1940, mio marito s'è coricato come al solito dopo la partita a carte ed è morto durante la notte;

un'embolia l'ha ucciso in poche ore. Un mese e mezzo più tardi, il Belgio è stato invaso. Ci sono stati degli allarmi aerei e abbiamo dovuto scendere in cantina. Nel rifugio ho fatto la conoscenza dell'inquilino del quarto piano, uno studente uruguayano che si chiamava Vincent Sierra. Non che fosse proprio bello: più piccolo di me, biondo, con grosse labbra carnose; ma era molto servizievole, premurosissimo – e aveva un fascino folle! Perdipiù, elegantissimo; aveva anche molto denaro e sapeva come spenderlo, il che è raro. Per farla breve, tra noi fu il classico colpo di fulmine, al punto che mi sono rifiutata di scappare in Francia coi miei genitori. Ci siamo trasferiti in un magnifico appartamento in Avenue Slegers. C'erano ventisette locali, di cui sette camere da letto. Abbiamo trasformato un locale in palestra e tutte le mattine, dopo la ginnastica, un massaggiatore veniva a prodigarci le sue cure a domicilio. Avevamo anche una casa in campagna. Erano tornati i bei tempi. Uscivamo quasi tutte le sere e andavamo a ballare. Vincent era un ballerino meraviglioso; in coppia, abbiamo vinto molte gare di ballo. Ma ricordo soprattutto la veglia di San Silvestro del 1940; abbiamo passato la notte al casinò di Namur ed è stato meraviglioso, davvero. Nel marzo del 1941, Vincent ha deciso di abbandonare gli studi e di mettersi in affari. Ha impiantato una società di import-export, la Simexco. La cosa più difficile fu trovare il numero di azionisti richiesto dalla legge. Abbiamo sollecitato in tal senso alcuni amici belgi. Mi ricordo di essere andata a trovare il nostro ex-vicino di casa dell'Avenue Émile de Beco, il signor Seghers. Gli ho chiesto di completare la nostra società, così come si chiede a qualcuno di fare il quarto a bridge: ha accettato.

Tra parentesi, quella faccenda di import-export ha cavato dai pasticci il signor Rauch. Era un vecchio amico di famiglia; l'avevamo conosciuto in Cecoslovacchia e ritrovato a Bruxelles. La guerra gli impediva di svolgere il suo abituale lavoro – ho dimenticato di che si trattava. Per farla breve, era nei guai. L'avevo presentato a Vincent, che gli aveva affidato certe traduzioni. Vincent l'ha assunto nella società come direttore commerciale, o qualcosa del genere. Vincent riusciva molto bene negli affari. Ci si dedicava anima e corpo. La sera, era stanco e mi diceva: «È così bello tornare a casa da te... non si parla di cose serie... si sta tranquilli... tu non fai domande...». Il fatto è che non mi parlava mai del suo lavoro. Una volta, però, ha lasciato a casa un pacchetto che qualcuno doveva venire a prendere. Suona il campanello, vado ad aprire e mi trovo davanti un bellissimo ragazzo. Aveva l'aria sorpresa; è indietreggiato, balbettando: «Non c'è il signor Sierra?». Poi se l'è svignata. Era buffo vedere un così bel ragazzo comportarsi così timidamente... In seguito ho saputo che si trattava di Carlos Alamo, un altro uruguayano. In definitiva, un'unica ombra oscurava la nostra luna di miele: eravamo tutti e due gelosi come tigri. Al principio del 1941, Vincent è andato per affari alla Fiera di Lipsia, e poi a Praga. Per me, fu una cosa atroce. Ammazzavo il tempo comprando brillanti e pellicce, ma ho perso parecchi chili in pochi giorni. Vincent mi aveva detto che era fidanzato e mi aveva anche mostrato una fotografia della ragazza. Che però era in Uruguay, per cui non mi preoccupava troppo. Mi davano più da pensare quelle che poteva incontrare a Bruxelles o altrove. Vincent andava anche a Parigi, una volta alla settimana, sempre per affari, e restava assente due o tre giorni. Una volta, gli ho

trovato in una tasca della giacca la fotografia con dedica di una ballerina di locale notturno, Nila Cara 1. Era troppo! Ho preteso che si fermasse a Parigi solo un giorno. Naturalmente, la cosa lo costringeva a viaggiare due notti di fila, ma peggio per lui! Aveva anche l'abitudine di fissare gli appuntamenti in un locale notturno di Bruxelles, il “Moulin-Rouge”. Lo chiamavo al telefono per essere sicura che fosse proprio là. Questo lo faceva andare su tutte le furie!

Un personaggio che ricorre nei racconti tanto di Bill Hoorickx quanto di Margarete Barcza: Rauch. Ammiriamo l'abilità di quest'uomo che, certo aiutato dalla fortuna, entra in contatto con due agenti dell'Orchestra Rossa. Salutiamo in lui l'Intelligence Service che, decisamente, riesce a intrufolarsi dappertutto. E salutiamolo in fretta, perché Rauch non tarderà a dileguarsi, sospinto delicatamente ma con fermezza dal tocco del Gran Capo. *** Robert Christen, cittadino svizzero proprietario di ristorante a Bruxelles, sulla sessantina, piccolo, tarchiato, truculento: Io, signore, ho sempre lavorato di notte! Cantante comico, per trent'anni! Prima della guerra ero l'animatore del “Broadway”, sempre qui, a Bruxelles. Ogni sabato sera vedevamo arrivare un cliente fedele, uno studente uruguayano. Si interessava molto ai numeri presentanti nel locale e abbiamo finito col fare conoscenza. Gli parlavo 1 Annuncio trovato in un numero di Paris-Soir del tempo: «Domani venerdì, alle 19, Cocktail dell'Amicizia. Nila Cara s'incontrerà con i suoi ammiratori al bar del Beaulieu, Faubourg Saint-Honoré, 168, Balzac 49-64».

della Svizzera; lui mi mostrava delle fotografie: la sua fidanzata, la sua casa di Montevideo, la sua macchina, roba del genere... Il “Broadway” ha chiuso i battenti dopo l'arrivo dei tedeschi, perché il padrone era ebreo. Io ho lavorato al “Moulin-Rouge”. Ah! Non dimenticherò mai il balletto di “French-Cancan” del “Moulin-Rouge”: era interamente composto di ragazze ebree. Prima, facevano dei numeri, ma i loro compagni di lavoro, che non erano ebrei, le avevano abbandonate, e le ragazze s'erano messe assieme. Al “Moulin-Rouge” ho rivisto il mio Sierra. Veniva spesso con la sua amica, una bella ragazzona bionda che sapeva il fatto suo. Un giorno, Sierra mi ha chiesto di diventare azionista di un'impresa di import-export che stava impiantando. Gli ho risposto che non ero competente, ma lui ha talmente insistito che ho finito con l'accettare. In seguito, sono stato persino nominato amministratore delegato. Inutile dire che praticamente non ho mai messo piede negli uffici: ero diventato il proprietario del “Florida”, dove del resto Sierra veniva spesso in compagnia di amici, e avevo altro da fare...

A Bruxelles, il “Broadway”, il “Florida”, il “Moulin-Rouge”, le cenette eleganti in compagnia di belle dame russe, il casinò di Namur e quello di Spa, le gare di tango, le pellicce e i gioielli. A Parigi, le “Folie-Bergère”, il “Casino de Paris”, i chansonniers e ancora i locali notturni. Vi si incontrano spesso il Gran Capo e Georges de Winter, che ormai sono diventati parigini. Si permettono persino di non rispettare il coprifuoco, perché tornano a casa in velo-taxi, e i velo-taxi beneficiano di una certa tolleranza da parte dell'occupante tedesco. Dapprima abitano in Rue Fontaine, poi in Rue de Prony; hanno anche una villetta al Vési-

net. Trepper pretende appartamenti lussuosi e ben riscaldati; gli piacciono le cose belle, i libri ben rilegati, i quadri; non transige sulla qualità della biancheria, dei vestiti; adora i profumi, che offre a profusione a Georgie; ha una vera passione per Édith Piaf e fa collezione dei suoi dischi; frequenta soltanto i ristoranti in grado di offrirgli cibo di prim'ordine. Quell'inverno del 1940-41 pone ai Parigini dei problemi che la fastosa coppia superbamente ignora: la coppia si scalda al mercato nero, si veste al mercato nero, mangia al mercato nero. Le delizie di Capua? No, la rete della Bella addormentata nel bosco, in attesa del colpo di bacchetta magica.

IV. “L'ATTACCO TEDESCO Ê PREVISTO PER STANOTTE”.

Trepper è arrivato a Parigi nell'agosto del 1940, accompagnato da Georgie. Luba e i suoi bambini sono al sicuro in Russia, rimpatriati via Marsiglia per interessamento dell'ambasciata sovietica a Vichy. Così il Gran Capo ha la mente sgombra in vista del grande scontro a venire. Gli appare evidente che il nemico sarà la Germania e i suoi soldati che sommergono l'Europa come una malvagia marea. Ora, se Bruxelles era adatta al lavoro contro l'Inghilterra, Parigi sarà una piattaforma migliore contro la Germania. Trepper vi stabilisce il suo quartier generale e si consacra alla creazione di un'organizzazione corrispondente alle sue nuove funzioni: Mosca l'ha testé nominato “Direttore-Residente”, vale a dire responsabile dello spionaggio sovietico per tutta l'Europa occidentale. Ha con sé i suoi due migliori luogotenenti. Léon Grossvogel, innanzitutto, spogliato dei suoi beni dalle leggi antisemitiche dell'occupante. Metterà al servizio di Trepper il suo senso degli affari, le sue capacità organizzative. Nel giro di qualche settimana, assicura il finanziamento della rete e affitta da un capo all'altro di Parigi una decina di appartamenti che serviranno da

punti di ritrovo o da rifugi; recluta agenti promossi al rango di “cassette delle lettere” per assicurare contatti interni rapidi pur rispettando un drastico sistema di compartimenti stagni. Tutta l'infrastruttura materiale è opera sua. Grossvogel è la garanzia cui farà seguito l'amministrazione. Oltre a ciò, una “facciata” sociale impressionante: chi sospetterebbe di quel signore così serio, tanto “ricco borghese”, appassionato di musica classica e sempre vestito sobriamente? Non ha alcuna propensione per il dubbio romanticismo dei travestimenti misteriosi. Esercita lo spionaggio con la stessa tranquilla meticolosità con cui si occupava della vendita degli impermeabili: la merce è cambiata, ecco tutto... Ha le qualità di un buon capo di Stato Maggiore: gli si indica l'obiettivo, lui fornisce i mezzi. Che dire di Hillel Katz? Ecco, se Trepper gli ordinasse di recarsi alla sede della Gestapo a costituirsi, Katz obbedirebbe senza far domande. Esagerato? Aspettate... Katz è giovane, piccolo, fragile, con un paio di occhiali che gli mangiano mezza faccia. A giudizio generale, somiglia a un francese medio. È invece un ebreo polacco, come Trepper; si sono conosciuti in Palestina e hanno partecipato al famoso sciopero della fame, poi sono venuti in Francia, dove Katz ha fatto il muratore. Diventerà il braccio destro del Gran Capo. Sempre allegro, sempre ottimista, il piccolo Katz. Una devozione senza cedimenti, una totale abnegazione. È insomma modellato nella pasta con cui son fatti i buoni martiri, i sacrificati, quelli che si fanno sempre prendere e muoiono con la gioia in cuore. Sapete già che il piccolo Katz finirà sotto la scure del boia nazista. Léon Grossvogel e Hillel Katz: la “Vecchia Guardia” ebraica del Gran Capo.

*** La rete belga sonnecchia. S'intrattengono con Mosca contatti radio di normale amministrazione la cui materia è fornita da comparse quali Hoorickx. Ma le vere “fonti” non sono state ancora impiegate e l'apparato nel suo complesso “dorme”, come si dice nel gergo dei servizi di informazione. A capo della rete, due russi al di sotto dei trent'anni. Trepper nutre, come tutti, un certo affetto per Mikhaël Makarov, alias Carlos Alamo. Per prima cosa, è un eroe. Tenente dell'Aeronautica russa, ma facente parte del personale a terra, è stato mandato in Spagna a prestar servizio nelle file dei Repubblicani. Un giorno, i Franchisti riescono a sfondare e minacciano di prendere il fronte repubblicano alle spalle. La fanteria repubblicana chiede un bombardamento urgente. Non è disponibile alcun pilota. Makarov salta su un apparecchio e decolla. Non ha neppure il brevetto e del pilotaggio conosce unicamente i rudimenti che si apprendono necessariamente vivendo in mezzo agli aerei. Trova i Franchisti, bombarda e mitraglia, torna e atterra senza danni. Viene portato in trionfo. Questo è lo stile Makarov. La prima volta che lo incontra in Belgio, nella primavera del 1939, Trepper lo invita a bere in un caffè. Makarov ordina un cognac. Il cameriere porta i grossi ballons nei quali versa la dose normale. Ma Makarov gli fa segno di continuare a versare. Strabiliato, il cameriere obbedisce e gli riempe il bicchiere fino all'orlo. Makarov lo osserva soddisfatto e non capisce perché Trepper continui a rifilargli calci negli stinchi. Alla fine, seccato, esclama:

«Be'? Ho i soldi per pagare, no?». Anche questo è lo stile Makarov. Si compra un'automobile. Il Gran Capo reputa nefasto che una spia possegga una macchina; comporta la possibilità di contatti con la polizia, soprattutto in caso di incidenti. Makarov conosce un unico modo di guidare: con l'acceleratore schiacciato a tavoletta. Un giorno che Trepper è con lui, perde il controllo del volante e l'automobile si schianta contro un albero. Trepper si libera a fatica dei rottami e contempla il disastro in silenzio. Furioso, Makarov gli grida: «Ma come fai a restare così calmo? Non è normale!». Trepper risponde calmo: «E che vuoi che dica, imbecille?». Un altro esempio dello stile Makarov. Gli affidano la gestione della succursale di Ostenda del “Re della gomma”. Non capisce niente di affari, si confonde con la contabilità, non va mai in negozio, si lamenta che si annoia mortalmente: sempre lo stile Makarov. Nel mese di giugno del 1940, in piena disfatta belga, Trepper gli ordina di andare a prendere la radio trasmittente nascosta a Knokke-le-Zoute e di portarla a Bruxelles. Ma Makarov non ha tempo: è a Ostenda e fila il perfetto amore con la signora Hooricks. Trepper deve andare lui a Knokke... Naturalmente, è costretto a fare rapporto a Mosca. Alla fine dell'estate un telegramma del capo dei servizi sovietici ordina a Makarov, convinto di notoria incapacità, di rientrare all'ovile. Makarov implora Trepper: «La mia carriera è finita! Sai che cosa significa per un ufficiale, cadere in disgrazia...». Parla di suicidio. Principe generoso, Trepper gli salva la faccia e ottiene che gli sia offerta un'ultima possibilità. Ha molta simpatia per Mikhaël Makarov: è un eroe.

*** Nessuno invece – strano – ha simpatia per il capitano Gurevič, che svolge alla perfezione i suoi compiti. È arrivato a Bruxelles il 17 luglio 1939, proveniente da Montevideo. Il passaporto, recante il n. 4649, gli è stato rilasciato a New York il 17 aprile 1936: è intestato a Vincent Sierra, nato il 3 novembre 1911 e residente a Montevideo, in Calle Colon, 9. Al pari di Makarov, Gurevič ha prestato servizio in Spagna nelle Brigate Internazionali con il grado di capitano. E, al pari di Makarov, ha conosciuto in quell'occasione la sua ora di gloria. Non nei cieli, ma sott'acqua, mentre andava in sommergibile dalla Russia alla Spagna. Il sommergibile, motore in panne, è rimasto parecchie ore sul fondo del mare. L'equipaggio era ormai dato per disperso, poi un meccanico è riuscito a riparare il guasto. Gurevič è rimasto impavido durante quelle ore drammatiche, perlomeno così afferma. Non era destinato a servire le file dell'organizzazione del Gran Capo. La sua missione consisteva nel raggiungere Copenaghen e crearvi una rete. Il soggiorno a Bruxelles doveva essere breve, qualche mese al massimo, durante il quale avrebbe imparato il diritto commerciale e perfezionato la conoscenza delle lingue straniere. Ma dopo la dichiarazione di guerra, ha ricevuto l'ordine di restare sul posto, a disposizione del Gran Capo. Questi è contento del lavoro di Gurevič. Contrariamente a Makarov-Alamo, Gurevič-Sierra riesce a meraviglia a integrarsi nella società di Bruxelles. Ha un tenore di vita molto elevato, of-

fre fastosi ricevimenti, moltiplica le sue conoscenze; è lavoratore e astuto. Non ci sono dubbi: Sierra è una recluta di prim'ordine. Ma non piace a nessuno – tranne a Margarete, naturalmente, che si consuma d'amore per lui. Lo trovano superbo, presuntuoso, spaccone. Coro unanime dei superstiti dell'Orchestra Rossa: «Kent? Ah! Che antipatico...». Sì, Gurevič-Sierra sarà chiamato anche “il Piccolo Capo”, dopo aver preso la successione del Gran Capo alla testa della rete belga, ma per tutti, anche a Mosca, è “Kent”. Questo pseudonimo se lo è scelto lui. È una lunga storia. Verso il 1929 venne pubblicato in Russia un romanzo intitolato Diario di una spia. L'autore, N.G. Smirnov, vi narrava le avventure di un agente britannico, Edward Kent, che si distingueva per la sua astuzia, il suo sangue freddo, la sua incredibile audacia. Gurevič lesse il romanzo all'età di diciotto anni e ne fu conquistato. Ecco! Adesso immaginate di dirigere un servizio di informazione. Un bel giorno vi entra in ufficio un candidato biondino che vi spiattella chiaro e tondo di volersi scegliere per pseudonimo James Bond. Lo ringraziate con un sorriso, non è così? Gli consigliate di darsi alla letteratura avventurosa? L'uomo che reclutò Kent non ebbe di queste reticenze. L'animo slavo, probabilmente... A Bruxelles si ignora l'origine dello pseudonimo “Kent”. Se Gurevič non riesce simpatico, lo è senza ragione precisa. Prendiamo Luba Trepper, ad esempio, che fino al momento della partenza per Mosca assicurò i contatti tra Kent e il Gran Capo: adora Makarov, simpatico fannullone, e non può sopportare il laborioso Kent. Si inquieta della sua passione per il lusso, delle sue spese fastose; sostiene che un uomo il quale ama a tal punto la vita comoda si rifiuterà di rischiare la pelle. In verità, non ne sa

nulla; Trepper la ascolta, ma non prende le cose sul tragico. Un giorno, è andato a fare visita a Kent nel suo sontuoso appartamento dell'Avenue Slegers. Con gesto da gran signore, Kent lo ha condotto al guardaroba e con un ampio gesto della mano gli ha indicato una cinquantina di completi appesi nell'armadio. Trepper ha mormorato, scuotendo il capo: «Bravo! Se fossi in te, li fotograferei... Almeno ti resterebbe un ricordo... e poi non è neanche sicuro che sarai tu a guardare la fotografia...». Kent non ha apprezza l'idea. *** Alamo e Kent: la “Giovane Guardia” russa del Gran Capo. Trepper non ha in loro la stessa fiducia che nutre per i suoi vecchi compagni ebrei, formatisi perlopiù alla scuola della miseria, abili come camaleonti a confondersi con l'ambiente circostanze, rotti alla lotta clandestina. Un Trepper, un Katz, possono tranquillamente sguazzare nel lusso senza mai correre il rischio di affogare. Alamo, Kent, è un altro paio di maniche. Si saprà soltanto nel momento della prova di che stoffa sono fatti. *** E il momento della prova si avvicina. Lo si sa a Washington e a Londra; lo si sa nelle capitali neutrali, dove i giornali annunciano con titoli su cinque colonne che la Wehrmacht è ammassata lungo la riva polacca del Bug, pronta a scagliarsi verso est; lo si sa a Ginevra, da dove il “Direttore-Residente” sovietico, Alexander Rado, trasmette ai suoi capi ripetuti segnali di allarme;

lo si sa a Tokyo, da dove Sorge annuncia con parecchie settimane di anticipo la data fissata per l'attacco tedesco: il 22 giugno 1941... Lo si sa a Parigi. Il Gran Capo, già prima di maggio, avverte il Cremlino dei concentramenti offensivi di Hitler. È in contatto con un ingegnere del Genio tedesco, Ludwig Kaïnz, che dopo la campagna di Polonia aveva lavorato alle fortificazioni tedesche sul Bug. Nell'aprile del 1941, vi viene richiamato per un breve periodo. Constata immediatamente che tutto è cambiato e che ci si prepara all'attacco. Al suo ritorno in Francia, scommette con Trepper una cassetta di bottiglie di champagne che la guerra scoppierà prima della fine di maggio. Scommessa persa. Ma Kaïnz annuncia che la faccenda è soltanto rimandata di un mese: Hitler è stato ritardato dalla necessità di intervenire nei Balcani per salvare dalla disfatta le truppe di Mussolini inchiodate in Albania e in Grecia. Kaïnz punta il suo champagne a “lascia o raddoppia” per il mese di giugno. Kaïnz non è l'unica “fonte” del Gran Capo. Trepper mantiene rapporti stretti anche con un bravo colonnello austriaco, incaricato dei servizi di approvvigionamento della Wehrmacht in Francia. Nella primavera del 1941, questi confida a Trepper il suo sollievo;: il numero delle razioni da assicurare è in via di rapida diminuzione; la Francia si svuota delle truppe di occupazione. Dove vanno? Trepper lo sa da centinaia di rapporti che riceve dai tramiti francesi: verso est, verso la Polonia. Finalmente, in giugno, dopo una serie di bevute nei locali notturni parigini, ottiene da un gruppo di ufficiali superiori delle SS l'ultima conferma: festeggiano la partenza per la Polonia e lo invitano a brindare con loro alla prossima sconfitta della Russia.

Trepper avverte Mosca a due riprese. I suoi rapporti vengono trasmessi dall'addetto militare sovietico a Vichy, generale Susloparov. In via di principio, Trepper non dovrebbe avere alcun contatto con lui; ma si preoccupa della prospettiva dell'avvicinarsi dell'ora fatidica senza che sia attrezzato alla battaglia: ha bisogno di radio trasmittenti. Sfidando la consegna, tempesta l'addetto. Susloparov, bravo bestione militare, lo rassicura e gli dichiara che non hanno il fuoco alle calcagna... La sera del 21 giugno, Trepper arriva a Vichy e si precipita da Susloparov: «Ho un messaggio di importanza capitale da trasmettere con assoluta urgenza!». L'altro si informa dei motivi di una tale agitazione. Trepper gli rivela che la Wehrmacht attaccherà la Russia quella stessa notte. Il generale scoppia in una risata: «Ma tu sei pazzo, vecchio mio! È inimmaginabile! Del tutto impossibile! Mi rifiuto di trasmettere un telegramma che ti coprirebbe di ridicolo!». Trepper tanto insiste, che l'altro finisce per cedere. Il telegramma viene trasmesso immediatamente. Il Gran Capo, spossato, va a dormire in una camera di albergo. L'indomani mattina è svegliato dalle grida dell'albergatore: «Signore! Ci siamo! Sono in guerra con la Russia». Due giorni dopo, l'aiutante di Susloparov rientra da Mosca a Vichy dopo un complicato periplo. Trepper gli domanda se il suo avvertimento è stato preso in considerazione. Il russo risponde: «Ho visto il Direttore [dei servizi segreti dell'Armata Rossa] la sera stessa in cui ha ricevuto il tuo telegramma. Mi ha detto che lo hanno immediatamente mostrato al capo [Stalin]. Il Capo è rimasto sorpreso. Ha detto: “Di solito Trepper ci manda del materiale di valore, che fa onore al suo senso politico. Come ha fatto a

non accorgersi immediatamente che si trattava soltanto di una grossolana provocazione inglese?”»1. Provocazione inglese? Queste parole sono ormai familiari al Direttore dei servizi russi. In aprile ha trasmesso a Stalin il rapporto di un agente ceco annunciante, da un lato, che le fabbriche di armi Skoda avevano ricevuto l'ordine di non eseguire più le ordinazioni russe e, dall'altro, che i Tedeschi andavano ammassando truppe alla frontiera sovietica. Stalin scrisse con l'inchiostro rosso in margine al rapporto: «Questa informazione è una provocazione inglese. Trovate l'autore della provocazione e punitelo». Sotto le false spoglie di corrispondente dell'agenzia Tass, il maggiore Akhmedov, capo della Quarta Sezione dei servizi segreti russi, fu spedito in Germania per scoprire il colpevole; l'attacco della Wehrmacht non gliene lasciò il tempo2. Mosca avrebbe dunque negato fino al primo colpo di cannone l'imminenza di una guerra che le era annunciata da Ginevra, Tokyo e Parigi, senza parlare di Londra e Washington. Nevrosi antibritannica di Stalin? Certo, e per di più rafforzata da ciò che egli ha saputo delle vanterie alleate a proposito di Baku e della Finlandia. Ma anche, indubbiamente, errore di calcolo politico. Stalin aveva annunciato da molto tempo che avrebbe lasciato battersi tra loro nazioni capitaliste e paesi fascisti; l'Armata Ros1 In effetti, Stalin non ha detto «Trepper», ma «Otto»: sotto questo pseudonimo, infatti, il Gran Capo era registrato a Mosca. Per Georgie, egli era «Eddy»; per Katz, «René»; per Spaak, «Henri». Era inoltre conosciuto anche con i seguenti pseudonimi: «Generale», «Georges», «Zio», «Bauer», «Gilbert», «Herbert», «Sommer», eccetera. Con l'evidente scopo di semplificare le cose, l'autore si è permesso di rinunciare alla maggior parte di tali pseudonimi. Se non lo avesse fatto, i lettori avrebbero avuto altrettanta difficoltà della Gestapo a raccapezzarcisi. Non era il caso di infliggere loro una prova del genere. 2 L'episodio è stato narrato dallo stesso maggiore Akhmedov, dopo che ebbe disertato i servizi sovietici e fu passato all'Occidente (cfr. la sua deposizione dell'ottobre del 1953 dinanzi ad una commissione del Senato degli Stati Uniti).

sa si sarebbe mossa per raccogliere le messi europee soltanto dopo che si fossero logorati a vicenda. Nella primavera del 1941 Stalin riteneva che il grano non fosse ancora maturo, che l'Inghilterra e la Germania non si erano ancora dissanguate, che Hitler, in ogni caso, non avrebbe corso il rischio di attaccare a est prima di aver vinto a ovest. Si è sbagliato. E si conosce il prezzo che il suo paese dovette pagare: una «Pearl Harbor aerea», secondo l'incisiva espressione di Paul Carrel, con migliaia di aerei distrutti al suolo; poi le divisioni russe sospinte, accerchiate, liquidate – la strada per Mosca aperta... Anche a Tokyo e altrove si pagò: con i nervi. Che c'è di più debilitante, per una spia, della scoperta che ha rischiato la vita per nulla e che le sue grida di allarme sono state captate, ma non ascoltate? Klausen, radiotelegrafista di Richard Sorge: «Richard era furibondo, è stata l'unica volta che siamo andati fuori dai gangheri tutti e due. Richard si è alzato in piedi di scatto. Ha attraversato la stanza a lunghi passi stringendosi la testa fra le mani. Diceva: “Adesso ne ho abbastanza! Perché non mi credono? Come possono, quei disgraziati, ignorare il nostro messaggio?”» 3. A quel messaggio, Mosca aveva risposto: «Dubitiamo della veridicità della vostra informazione». Ma in Trepper l'euforia sommerge tutto, persino il rancore per non essere stato creduto. Chi lo ha avvicinato durante quella storica settimana, testimonia del suo entusiasmo; era raggiante di felicità, letteralmente pazzo di gioia. Indubbiamente, non manca di senso politico, per usare l'espressione dell'esperto Josif Stalin. Ha ammesso che il patto russo-tedesco era forse necessa3 N. Chatel e A. Guérin, Camarade Sorge, Julliard, 1965, p. 87.

rio per assicurare un certo respiro all'Armata Rossa. Ma quanti tormenti e quante lotte per far tacere il sentimento nel profondo del cuore e ascoltare soltanto la voce della ragione! Si deve tenere presente che Trepper e la sua Vecchia Guardia non sono esattamente dei professionisti di servizi di informazione; non somigliano in nulla a quei supermen della letteratura spionistica che, bardati di gadgets, eseguono qualsiasi missione per qualsiasi cliente; differiscono perfino dai professionisti del giorno d'oggi, comunisti o meno, nei quali la passione della specialità ho sostituito la fede ormai svanita. Se si dicesse loro che sono spie, rifiuterebbero l'etichetta: si considerano dei rivoluzionari. Un uomo della loro generazione, Otto Braun, definirà come segue i suoi compagni e se stesso: «Non eravamo dei burocrati della cospirazione, ma dei romantici della rivoluzione». Per Trepper, la linea che va dalla rivolta di Dombrova alle attività di informazione, passando per il lavoro politico in Palestina, è retta. Si tratta di affrontare una stessa battaglia su fronti diversi. Nel 1966 si può contestare la giustezza di un tale sentimento, ma è impossibile negarne l'esistenza nel Gran Capo e nei suoi nel 1940. A quel tempo, Trepper afferma spesso e volentieri che il grand'uomo della sua generazione, e quello che la incarna meglio di tutti, si chiama André Malraux. La data del 22 giugno 1941 segna per la rete l'inizio di una battaglia inespiabile in cui ciascuno rischia di trovare la morte e, con la tortura, il disgusto di sé. Tali pericoli, tuttavia, contano poco di fronte all'immenso sollievo provato nell'uscire dall'ambiguità. Malgrado la “linea” ufficiale, malgrado il patto russo-tedesco, quelli di Bruxelles e di Parigi sapevano da anni che il nemico per eccellenza era il nazismo. E da diciotto mesi, dall'occupazio-

ne del Belgio e della Francia, lo leggevano sui manifesti gialli annuncianti le condanne a morte, lo avvertivano dal remoto odore di carnaio che saliva dalla terra polacca dove avevano, nella maggior parte dei casi, lasciato le famiglie, provavano in cuor loro ciò che la mente già aveva compreso. Per questi uomini, il 22 giugno 1941 è giorno di festa. *** E poi, Trepper è ebreo. L'autore, all'inizio della sua inchiesta, non riteneva indispensabile far notare che questo o quello dei suoi eroi era ebreo, così come non gli sarebbe neppure passata per la testa l'idea di confidare ai suoi lettori che lui è nativo dell'Alvernia. La sua sola reazione era in un certo qual modo di carattere tecnico: gli sembrava poco saggio accumulare i rischi dell'agente clandestino e quelli dell'israelita destinato alla persecuzione. Con il passare dei giorni, ha scoperto che tale prospettiva era un tantino scarsa. Allora domanderà al Gran Capo perché la sua rete contava una percentuale così alta di ebrei, e Trepper risponderà: «Perché avevano un conto speciale da regolare con i nazisti». Lo comprenderà altrettanto bene Himmler. Ai poliziotti incaricati di «spazzare via quel marciume giudaico» (l'Orchestra Rossa), impartirà l'ordine scritto di ricorrere a tutti i mezzi per ottenere confessioni. A quanto ci consta, è il solo caso in cui il Reichsführer oserà apporre la sua firma a un documento che autorizza la tortura fin che morte ne segua. Semplice particolare aneddotico? Ma i piani della Gestapo contro l'Orchestra Rossa, le sue combinazioni, le sue manovre, le reazioni dei suoi poliziotti: tutto

si fonda sul fatto che l'avversario è ebreo, dunque disprezzabile, anche se astuto. Un ebreo è difficile acchiapparlo; una volta catturato, si arrende. Quando l'autore domandava agli ex-poliziotti della Gestapo perché avevano corso il rischio di rilasciare questo o quell'agente arrestato, con la speranza, a priori già lieve, che avrebbe rispettato l'impegno di tradire i suoi compagni, si sentiva rispondere con aria sorpresa: «Ma signore, era un ebreo...». *** Il 22 giugno 1941 è altresì la data in cui ha inizio, nel campo cintato dell'Europa occupata, un duello mortale, altamente simbolico, tra le SS della Gestapo, funesti Golia della “Razza dei Signori”, e la piccola coorte di ebrei dell'Orchestra Rossa, poveri David di un popolo martoriato.

V. FRANZ FORTNER VA ALLA GUERRA

Nel gergo dei servizi segreti tedeschi, il capo di una rete è detto “direttore d'orchestra”; egli coordina e dirige l'esecuzione degli strumentisti. Tra questi, un solista di importanza primaria: il pianista. Si tratta, beninteso, del radiotelegrafista che batte sul tasto della sua emittente, detta anche “scatola musicale”. La scoperta, da parte della stazione d'ascolto di Cranz, del pianista che usava l'indicativo PTX non fu giudicata un avvenimento storico nei circoli dirigenti dell'Abwehr, e neppure della Funkabwehr, la filiale specializzata nella localizzazione e neutralizzazione delle emittenti clandestine. Dopo l'invasione della Russia da parte della Wehrmacht, tutta l'Europa occupata faceva musica. Non si era ancora riusciti a localizzare l'ascoltatore di quelle furtive sinfonie, ma la coincidenza dava da pensare: se l'attacco a est era stato per i musicisti il colpo di bacchetta magica, era probabile che l'ascoltatore si trovasse a Mosca. Deduzione logica e molto rassicurante. Per i Tedeschi, le cose si mettevano bene. Più esattamente, ancora meglio continuavano. Si nuotava in un mare di felicità. Dopo la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l'Olanda, il Belgio, l'Inghilterra, la Francia, la Jugoslavia e la Grecia, era venuto il turno della Russia di mo-

strare le spalle ai suoi soldati. Il Führer lo aveva previsto: «L'edificio sovietico è fradicio; basterà un calcio alla porta perché tutto crolli». Una volta di più, il problema essenziale sarebbe consistito nell'incanalare il flusso dei prigionieri. Che importanza aveva qualche rete di spie di fronte a simili trionfi! Le orchestre avrebbero taciuto l'una dopo l'altra, quando a Mosca non ci sarebbe stato più nessuno ad ascoltarle. Già ora, la loro scadente melodia era soffocata dagli squilli di tromba che alla radio tedesca precedevano i “bollettini speciali” annuncianti sempre nuove vittorie. Stando alle testimonianze dei suoi aiutanti, il capo della Funkabwehr era propenso a lasciare che quella vana agitazione si spegnesse da sola. Qualche giorno dopo la scoperta del PTX, la stazione di Cranz individuò un'altra emittente. Gli specialisti, lavorando in contatto con quelli di Breslavia, si sforzarono di localizzarla. Ricominciarono varie volte daccapo le operazioni, poi trasmisero il loro rapporto a Berlino, dove i responsabili lo accolsero con una alzatina di spalle. Gli specialisti si rimisero al lavoro e verificarono i primi calcoli. Secondo loro, non c'erano dubbi: un'emittente clandestina, la cui tecnica si apparentava a quella del PTX, era in funzione a Berlino. Questa affermazione scosse l'Abwehr come un elettroshock. Che qualche foruncolo spuntasse qua e là sul corpo dell'Europa occupata, non era un gran pericolo, anzi era quasi normale: si sarebbe provveduto con il tempo. Ma un pianista a Berlino, con tutta la rete implicata dalla sua attività, era come uno spaventoso cancro nel cuore stesso dell'impero nazista. Se gli attuali dirigenti russi scoprissero l'esistenza di un'emittente clandestina americana a trecento metri dalle mura del Crem-

lino, è probabile che il loro stupore non eguaglierebbe quello dei capi tedeschi alla lettura del rapporto della Funkabwehr. Perché, in definitiva, era un fatto notorio che il partito comunista tedesco era stato annientato dalla Gestapo. Di tale partito – a suo tempo il più potente d'Europa – non sopravvivevano più che alcune cellule, poco numerose, isolate, infarcite di informatori. Lo spionaggio sovietico fino a quel momento si era mosso nella massa comunista come un pesce nell'acqua; in mancanza di essa, era necessariamente condannato a morire di asfissia. D'altro canto si aveva la certezza che Stalin aveva giocato lealmente dopo il patto russo-tedesco. La Gestapo non aveva forse avuto il raffinato piacere di ricevere dalle mani stesse della GPU parecchi comunisti tedeschi rifugiatisi in Russia? Certo l'idillio si era un tanto guastato con il tempo; sia che fossero coperti da Stalin, sia che avessero agito di propria iniziativa, i capi dei servizi sovietici avevano tentato di ricostruire in Germania una sembianza di organizzazione. Ma che meschini tentativi, erano stati! Ci si era spanciati dalle risate, a Berlino. La mascherata dei paesi baltici, per esempio... Allorché questi paesi erano passati nella zona di influenza sovietica, nel 1940, i cinquecentomila tedeschi che vi abitavano erano stati rimpatriati da Berlino. Parecchie migliaia di essi4 rivelarono altresì alla Gestapo che erano stati avvicinati dai servizi russi prima della partenza e che i sovietici avevano fatto ricorso alle minacce o alla lusinga del denaro per convincerli a lanciarsi in attività spionistiche a danno della madrepatria. Un metodo così grossolano, privo a tal punto di proba-

4 Il 50% dei rimpatriati, secondo Heydrich, ma tale percentuale sembra sia stata gonfiata a scopo propagandistico.

bilità di successo, dimostrava che il servizio informazioni sovietico era alle strette. Se si trovava in tal modo ridotto ai mezzi più disperati, era perché i metodi classici avevano fatto fiasco. Prima di attaccare la Russia, Hitler aveva fatto preparare una documentazione di mirabile malafede che tendeva ad addossare alla Russia la responsabilità della guerra. Vi si invocavano incidenti di frontiera, il fatto che aerei russi avessero sorvolato il territorio tedesco, manovre diplomatiche sleali e altre bazzecole della stessa forza. A Reinhard Heydrich, capo della Gestapo e del Servizio di Sicurezza (SD), era stata affidata la redazione di un testo sullo spionaggio sovietico in Germania. Anche in questo caso l'obiettivo consisteva nell'imputare ai russi il fatto di essere venuti meno al patto, e in modo talmente grave che la Germania poteva reagire solo con la guerra. Il rapporto di Heydrich, registrato con il numero d'ordine “IV EL 17/41 g RS”, fu pubblicato in Europa dal Deutscher Ausländer Dienst. La versione francese, se anche non fa onore ai traduttori del Deutscher Ausländer Dienst, ha un tono di grande ingenuità, che si riscontra ben di rado in documenti ufficiali di questo genere: Dopo la ratifica del patto, il servizio speciale di spionaggio russo ha lavorato in maniera quasi provocatoria. Già senza ritegno nell'applicazione dei suoi soliti metodi, è giunto al punto di servirsi in larga misura, per le sue attività spionistiche, delle rappresentanze diplomatiche della Russia nel Reich, con alla testa l'ambasciata russa a Berlino. Quando qualche tempo fa, l'allora ambasciatore Sckvarzev fu richiamato da Berlino per essere sostituito da Dekanasov, tale cambiamento di titolare costi-

tuì il punto di partenza di un'intensificazione ancora più attiva dello spionaggio sotto forma di informazioni politiche, economiche e militari. Dekanasov, un intimo di Stalin, era in Russia direttore della Sezione informativa del NKVD (Commissariato Russo del Popolo per l'Interno) di cui la GPU fa parte come sezione speciale di spionaggio. La missione che gli era stata affidata da Mosca consisteva nell'aver accesso ai servizi del Reich grazie a una rete di uomini di fiducia che bisognava creare, e soprattutto nel procurarsi rapporti sulla potenza militare e i piani di operazioni del Reich. Suo fedele aiutante era il membro della

GPU

Kobulov,

sedicente

“consigliere

d'ambasciata”, che svolgeva un'intensa attività nel campo dello spionaggio utilizzando spudoratamente l'extraterritorialità di cui beneficiava. Lo scopo che lo spionaggio russo si proponeva in Germania era, indipendentemente dall'ottenimento di informazioni militari, quello di riuscire a sapere le intenzioni politiche del governo del Reich e, mediante la creazione di installazioni clandestine di emittenti di TSF in numerosi punti della Germania, di disporre di posti di segnalazione capaci di trasmettere con l'ausilio di un sottile linguaggio cifrato tutte le notizie importanti per la Russia. A partire dal 1940 erano dunque in atto vasti preparativi di mobilitazione nel campo dello spionaggio, preparativi attuati per mezzo di risorse pecuniarie di cui non si ha neppure l'idea. Il servizio anti-mina tedesco è in tempo a intervenire.

La forma lascia qualche dubbio: perché, ad esempio, dare al servizio di controspionaggio tedesco lo strampalato nome di «servizio anti-mina»? Il fondamento, però, è inequivocabile: sempre e dovunque, la polizia nazista ha saputo sventare gli intrighi so-

vietici; ha arrestato gli agenti di Mosca e messo le mani sulle loro emittenti. Alla vigilia dell'entrata in guerra contro la Russia, Heydrich garantisce al suo Führer una Germania pulita come una banconota appena uscita dalla zecca: non ci saranno attività spionistiche di sorta. Ma il rapporto degli specialisti di Cranz? Impossibile prestarvi fede senza mettere in dubbio in pari tempo l'esattezza del rapporto Heydrich. All'Abwehr qualcuno decise di avere fiducia nei tecnici, ma molti si rifiutarono di credere all'esistenza del pianista berlinese invocando la mancanza di precisione degli apparecchi usati per localizzare l'emittente. Di modo che i due campi avversi, quello di chi credeva e quello di chi non credeva, si accordarono sulla necessità urgente di migliorare il materiale per acquisire la certezza che il pianista si trovava a Berlino, oppure che non c'era. *** Le cose avrebbero potuto andare in maniera molto sbrigativa senza la mafia del grasso Goering. Nel 1941, il vinto della battaglia d'Inghilterra è in piena disintegrazione psichica. Tra poco comincerà a portare parecchi anelli sulle due mani, a imbellettarsi e a indossare spesso e volentieri la toga. L'“Uomo di ferro” finirà come una copia obesa dell'antico Nerone. Eppure, dal 1933 al 1939 fu il personaggio più potente della Germania dopo il Führer. Capo della Gestapo, ben presto ha concesso a Himmler e Heydrich l'uso di questo strumento poliziesco, ma ha conservato ferocemente per sé l'“Istituto di Ricerche” cui ha fatto la grazia di dare il proprio nome. L'“Istituto di Ricerche Hermann Goe-

ring” controlla le reti telefoniche e telegrafiche, nonché le trasmissioni radiofoniche in Germania e nell'Europa occupata. Dispone di apparecchi di rilevamento a lunga distanza di una precisione altrove sconosciuta. Grazie all'Istituto in questione, Goering conserva, pur nella disgrazia, un eccezionale strumento di potere. Tutti i tentativi compiuti per strapparglielo risulteranno vani. L'Istituto è a disposizione delle SS per un'eventuale collaborazione, ma dipende unicamente dall'autorità del Maresciallo del Reich Goering. E quando la Funkabwehr, che dipende dalla Wehrmacht e dunque non beneficia del cupo prestigio delle SS, chiede a sua volta aiuto e assistenza all'Istituto, trova una creatura di Goering che gli sbatte la porta in faccia. È una cosa irritante, ma non disastrosa. La tecnica tedesca è la prima del mondo in campo radiofonico; saprà produrre il materiale adatto. La Funkabwehr necessita in primo luogo di apparecchi di rilevamento a distanza, per poter situare la posizione approssimativa di un'emittente. Cranz sostiene, per esempio, che il PTX si trova in una zona così definita: Germania del Nord, Olanda, Belgio, Francia settentrionale. Perché non la Patagonia? È indispensabile situare almeno la città perché possa avere inizio la caccia. Solo allora interverranno gli apparecchi di rilevamento ravvicinato, che permettono di localizzare la casa in cui ha luogo l'emissione. La ditta Loewe-Opta-Radio, interpellata dalla Funkabwehr, sottopone progetti interessantissimi. Per quanto concerne gli apparecchi di rilevamento ravvicinato, il problema consiste nel farli il più possibile discreti, in modo da non destare allarme. I vecchi esemplari in possesso della polizia e della Funkabwehr sono così voluminosi che occorre sistemarli su una camionetta. Inoltre,

tradiscono la loro presenza mediante un tubo circolare, del diametro superiore a un metro, piazzato sul tetto della camionetta. Bisogna trovare qualcosa di meglio. L'apparecchio viene ridotto in un primo tempo alle dimensioni di una valigia. Ma chi la porta deve mettersi gli auricolari, fatto che, assieme alla valigia, lo denuncerà a eventuali osservatori appostati. Si decide allora di nascondere la valigia in un'automobile che procede lentamente; gli esperimenti sono positivi. Poi si ottiene ancora di meglio: l'apparecchio diventa così piccolo da poter essere fissato alla cintura, sotto il cappotto. Niente più valigia a mettere in allarme gli osservatori. Quanto agli auricolari, sono sostituiti da un dispositivo altrettanto discreto di quello usato dai sordi. Per la Funkabwehr è proprio quello che ci vuole. Ormai resta soltanto da porre in atto i progetti approvati. E a questo punto, prima la delusione, poi l'irritazione fecero seguito al giubilo. Malgrado le note comminatorie della Funkabwehr, la cosa va per le lunghe, non si conclude mai. Gli ingegneri responsabili danno tuttavia prova di manifesta buona volontà, anche se a volte maldestra. Non cessano di riorganizzare i loro servizi per migliorarne l'efficacia, ma quei continui sconvolgimenti non sono privi di inconvenienti. Certi specialisti ricevono l'ordine di partenza per il fronte russo e soltanto dopo la loro partenza ci si rende conto che erano indispensabili alla creazione degli apparecchi. Colmo di sfortuna: i rilevatori a distanza, una volta fabbricati, vengono spediti a un indirizzo sbagliato. Di essi, una metà era destinata alla Funkabwehr, l'altra all'Istituto di Ricerche della Luftwaffe. In realtà, sono tutti recapitati a Goering. Impossibile recuperarli! È davvero seccante.

*** Tre agenti dell'Orchestra Rossa lavorano alla Loewe-OptaRadio, dove uno di essi svolge funzioni direttive; il loro superiore diretto nella rete è un ufficiale dell'“Istituto di Ricerche Hermann Goering”. *** Individuata alla fine di giugno, la presunta emittente berlinese lavora per tre settimane; poi tace, con viva soddisfazione di chi ha sempre creduto ad un errore di Cranz. Ai primi di aprile le emissioni riprendono per una quindicina di giorni; poi, silenzio completo. Queste peripezie finiscono con il deprimere del tutto i capi della Funkabwehr, i cui nervi sono già provati dai ritardi della Loewe-Opta-Radio. Brancolano nel buio con un faro disastroso come unico punto di riferimento: il PTX, ossia la prima emittente individuata da Cranz. Il 7 settembre, sono stati già captati 250 suoi messaggi, che i servizi di deciframento si sforzano di mettere in chiaro. La sua attività è senza dubbio costernante per regolarità, ma a Berlino quasi quasi la si preferisce alle stravaganze dell'emittente fantasma. Non potendo lavorare contro il pianista fantasma che forse si nasconde a Berlino, si decide di mettere alle strette il suo laborioso collega. Cranz afferma che il PTX comunica con Mosca. Ora, il ritmo dei segnali, la scelta delle frequenze e delle ore di emissione, lo apparentano alla presunta emittente berlinese; i due pianisti si sono formati alla stessa scuola. Arrestato uno, si scoprirà forse la pista dell'altro.

Cranz serra lentamente la sua morsa. La Germania e la Francia sono subito eliminate. Poi l'Olanda. Rimane il Belgio. È difficile essere più precisi, ma gli specialisti ritengono che il PTX debba trovarsi sulla costa, probabilmente a Bruges. Viene sguinzagliato il rappresentante locale dell'Abwehr. È Franz Fortner. Fortner si è organizzato. Dispone di una rete di informatori diretta da due fiamminghi che, durante la Prima Guerra Mondiale, avevano già lavorato per i servizi tedeschi. Ordina loro di mescolarsi agli ambienti “estremisti” di Bruges e di frequentare i caffè popolari. Il telegramma di Berlino non specifica forse che l'emittente lavora per Mosca? Con un buon senso a suo modo di vedere degno di elogio, Fortner va a caccia della sua selvaggina là dove necessariamente si nasconde: tra i comunisti belgi. È convinto che i suoi informatori, se aguzzano l'udito nella direzione giusta, non tarderanno a scovare il filo che porta al pianista clandestino. *** Ecco come il Gran Capo si comportò allorché Mosca gli mandò come rinforzo Mikhaël Makarov, alias Carlos Alamo. In primo luogo, bisognava far beneficiare la nuova recluta della “copertura” costituita dalla “Re della gomma”. Makarov possiede 10.000 dollari. Trepper gli consiglia di pubblicare nella stampa belga un'inserzione in cui si annuncia che un uomo d'affari sudamericano è disposto ad assumere una partecipazione in una ditta commerciale florida. Nello stesso periodo, la moglie di Grossvogel, direttrice della succursale di Ostenda, incalza il marito perché le trovi un sostituto, dato che è oberata di lavoro. Il Gran

Capo suggerisce a Grossvogel di scorrere i piccoli annunci. L'offerta di Carlos Alamo balza subito agli occhi del belga, che scrive al giornale. Makarov riferisce al Gran Capo, il quale conviene che un commercio di impermeabili costituisce una buona “copertura”. Affare fatto. Makarov diventa il responsabile della succursale di Ostenda. L'operazione è, né più né meno, un esercizio scolastico. Allo studente Trepper i professori russi di spionaggio avevano certo citato l'esempio di una presa di contatto tra agenti sovietici che fu attuata in un paese anglosassone. I due uomini si erano iscritti allo stesso club di golf, ma avevano evitato accuratamente di incontrarsi sui links. Un giorno, il presidente del club aveva organizzato una cena invitando i due compari. Costoro avevano finto di non conoscersi, ed era toccato al presidente presentarli. L'interesse di questo modo di procedere è evidente. Se la polizia arrestasse gli agenti e tentasse di stabilirne la complicità, potrebbero affermare di aver fatto la conoscenza nelle circostanze più anodine: in occasione di un banchetto di giocatori di golf; in tal caso, il presidente confermerebbe il fatto. Ma il Gran Capo perfeziona ancora più la lezione appresa dallo studente Trepper: perché Makarov e Grossvogel non sanno della loro reciproca appartenenza alla rete. Il russo è persuaso di aver trovato la propria “copertura” in un banale affare commerciale; il belga crede di aver trattato con un sudamericano qualsiasi. Anche se sottoposti alle peggiori torture, Grossvogel e Makarov non potranno denunciarsi a vicenda: si ignorano. Tale è la rete che il bravo Fortner spera di smantellare con i procedimenti di cui sopra. Noi sappiamo che Fortner ha già in-

contrato il Gran Capo, ma, evidentemente, deve ancora imparare a conoscerlo. *** Dalle loro missioni nei caffè di Bruges gli informatori riportarono unicamente le note spese. A loro dire, i comunisti locali erano assolutamente passivi; desideravano farsi dimenticare, sbalorditi dalla valanga di vittorie tedesche in Russia, convinti della prossima caduta di Mosca. Franz Fortner fece rapporto a Berlino. Un telegramma gli indicò quasi subito che l'emittente doveva trovarsi a Knokke-le-Zoute. I suoi bravi invasero i caffè di Knokke, bevvero una quantità di boccali di birra, ma non sentirono alcun avventore domandare giovialmente al padrone se l'ultima emissione era andata bene. Quarantotto ore più tardi, un nuovo telegramma arrivava da Berlino e l'azione veniva spostata nelle osterie di Gand. Decisi a battersi fino all'ultima goccia di alcol, gli informatori calarono in massa su Gand, poi Fortner spedì a Berlino il solito rapporto negativo. Questa volta i suoi capi si intestardirono. Un telegramma precisò che l'emittente doveva essere nascosta nei locali dell'Università di Gand. Fortner montò un'operazione di polizia che si concluse in un laboratorio della suddetta Università: raccolti attorno al loro professore, alcuni studenti di fisica procedevano a certi esperimenti pratici sulle onde corte. L'epopea delle osterie si concludeva con una sconfitta. Non è tuttavia il caso di archiviare la faccenda. Fortner, in possesso di una radio ricevente, capta ogni notte le emissioni clandestine. Certo, gli è impossibile localizzare l'emittente, in

mancanza di un apparecchio di rilevamento, ma questo particolare non sembra ridurre alle giuste proporzioni le esigenze dei suoi capi. Berlino è scatenata e vuole la pelle del pianista. Fortner è tempestato di telegrammi e telefonate comminatorie; gli si spediscono emissari senza peli sulla lingua; si pretendono risultati concreti. La Funkabwehr non si azzarda più a precisare la città in cui si troverebbe l'emittente: a Fortner basti sapere che è in territorio belga. Ma ormai Berlino ha deciso che si è in ballo, e gli informatori di Fortner devono ballare. In Belgio ci sono tanti caffè...

VI. IL DIPLODOCO SI AGITA

Nevicava, credo – si era nel febbraio del 1965 – ed eravamo seduti, Constantin Melnik ed io, nel vestibolo dell'albergo “Deutscher Kaiser” di Monaco. A pochi metri di distanza scintillava l'insegna luminosa dell'albergo “Eden Wolf”. Quella vicinanza offriva materia di conversazioni, perché fu proprio all'“Eden Wolf” che un commando di barbouzes francesi rapì il capo dell'OAS, Antoine Argoud. Ma Melnik, che prima di dedicarsi all'editoria si occupava di spionaggio, risponde solo con indistinti borbottii alle domande concernenti faccende di questo genere; per cui non ne parlammo. Dopo un quarto d'ora di silenziosa attesa, una ragazza bionda entrò nel vestibolo e si mise a parlare con l'impiegata della ricezione. Questi si avvicinò ad alcuni clienti sprofondati nelle poltrone e annunciò che qualcuno desiderava il dottor Tilden. Melnik si alzò e sparì in compagnia della signorina bionda. In seguito mi riferì che la ragazza lo aveva portato a spasso per Monaco una mezz'oretta in macchina e poi lo aveva fatto scendere in una strada tranquilla. Qui aspettava un'altra automobile che aveva portato Melnik al luogo dell'appuntamento. Per quanto estraneo al mondo dello spionaggio, sapevo che è infarcito di situazioni romanzesche. Gli andirivieni della bella

bionda allo scopo di seminare eventuali pedinatori erano imitati dai film di spionaggio oppure davvero giustificati in qualche modo? Non si sa mai... È vero che la tendenza degli agenti dei servizi di informazione a drappeggiarsi in travestimenti misteriosi suscita irritazione. È del pari vero che uno dei segreti del Gran Capo fu di restare costantemente in stato di allarme: agiva sempre come se la polizia lo stesse ad aspettare al prossimo crocicchio. Eravamo venuti a Monaco per cercarvi il filo di Arianna che portava a Franz Fortner. Il nostro “contatto” era il colonnello Giskes, un tempo capo del controspionaggio tedesco in Olanda. Conosceva con tutta probabilità l'indirizzo di Fortner, ma avrebbe acconsentito a rivelarcelo? Giskes è oggi un vecchio signore robusto dai capelli bianchi che ben si accordano con la freschezza della carnagione; lo si direbbe intagliato nel granito rosa. Conduce la vita di un piccolo pensionato in una piccola casa in riva ad un piccolo lago della grande periferia monacense. Ci riservò un'accoglienza cordiale; ci invitò ad accomodarci e ci annunciò di punto in bianco che sarebbe stato della compagnia anche Reile, la qual cosa era una sorpresa. Dal suo quartier generale dell'albergo “Lutetia” a Parigi, il colonnello Reile ha diretto per quattro anni il controspionaggio tedesco nella Francia occupata. Insomma, con Giskes di Olanda e Reile di Francia riuniti in quel salotto felpato, sarebbe mancato, per tenere una conferenza al vertice degli antichi principi del controspionaggio in Occidente, soltanto l'uomo di cui eravamo venuti a cercare la pista a Monaco: Fortner del Belgio. Ma io non pensavo più a Fortner, né al Gran Capo, né all'Orchestra Rossa. La mensola del caminetto del salotto era ingom-

bra degli abituali ricordi privi di interesse per chiunque tranne il loro proprietario. Tra di essi, certe fiaschette metalliche la cui forma convessa consente di infilarle nella tasca per la rivoltella. Sapevo che cosa rappresentavano per il vecchio signore: erano il simbolo della sua trionfale “Operazione Polo Nord”. Il colonnello Giskes, dopo aver catturato e “assorbito” un radiotelegrafista mandato in Olanda dagli inglesi, intossicò Londra a tal punto che decine di agenti olandesi paracadutati a mo' di rinforzo furono accolti a terra da un comitato di benvenuto tedesco, anziché dai partigiani che si aspettavano di trovare. Le fiaschette sul caminetto testimoniavano l'avvenuta tragedia: evocavano i due istanti in cui la vita di un uomo aveva raggiunto l'acme della tensione. L'esaltazione della partenza, innanzitutto, dato che al momento di imbarcarsi sull'aereo gli veniva assegnata quella razione di whisky. L'uomo che si faceva scivolare la fiaschetta nella tasca per la rivoltella era al culmine della sua esistenza. Cacciato dal suo paese dalla disfatta, vi tornava a preparare la vittoria – campione selezionato e addestrato con cura al combattimento, eroe circondato di premure fin sull'aereo. Un'ora dopo, lo stesso uomo tocca il fondo della disperazione: è nelle mani di Giskes il quale, com'è sua abitudine, lo invita cortesemente a bere il suo whisky prima che gli confischi la fiaschetta. Dopodiché, l'uomo in questione ha percorso la dura strada che porta al patibolo; la fiaschetta è finita su un caminetto di Monaco, frammezzo a posaceneri e fotografie di famiglia. Senza quei funebri trofei, sarebbe stato difficile istituire un rapporto tra il pensionato che sgranocchiava biscotti e il capolavoro dell'“Operazione Polo Nord”. Ma con Oscar Reile entrarono nella stanza tutti i fantasmi di un tempo. Reile è alto e scarno,

con una maschera tormentata e occhi sfuggenti; lui, che ha condotto tanti interrogatori, ha la voce sorda ed esitante di un accusato. Il colonnello Reile non ha tuttavia mai provato le angosce che a suo tempo ha fatto subire a centinaia di partigiani francesi. Faceva parte dell'Abwehr – come Giskes, come Fortner – e gli Alleati, dopo la vittoria, lasciarono in pace i gentlemen dell'Abwehr, riservando le loro rappresaglie ai beceri della Gestapo. Reile, al pari di Giskes, non tardò a essere arruolato nei servizi segreti della nuova Repubblica tedesca. Per quale strano mimetismo, a distanza di vent'anni, è rimasto simile agli uomini che un tempo venivano trascinati nel suo ufficio al “Lutetia”? Dopo i fantasmi di Giskes, quelli di Reile. Ciò significava una folla, attorno a noi che bevevamo whisky e sminuzzavamo dolciumi. A dire il vero, mi ero immaginato che i primi istanti fossero imbarazzanti; mi aspettavo lagnanze più o meno ipocrite del tipo: «La guerra, che disastro...», eccetera. Mi ingannavo: i due tedeschi e Melnik non parlavano all'imperfetto, non evocavano né l'“Operazione Polo Nord” di Giskes né l'“Operazione Granduca” che portò negli artigli di Reile intere reti; parlavano del presente, e dell'Orchestra Rossa. Sembrava più una partita a poker che una riunione di ex-combattenti. Ciascuno si sforzava di indovinare il gioco dell'avversario; ogni carta veniva calata con prudenza; l'uno citava un nome e l'altro forniva un indirizzo – oppure non lo forniva affatto. Ero perplesso. La situazione svaniva, mi sfuggiva. Ero l'unico a restare nei suoi panni: quelli di uno scrittore in cerca di documentazione, mentre gli altri tre si modificavano a vista d'occhio. Eravamo venuti a trovare Giskes e Reile, vecchi signori della vecchia Abwehr, ma parlavamo con due astute volpi che, alcu-

ni mesi prima, appartenevano ancora ai servizi della Germania Occidentale. Constantin Melnik non era più soltanto l'editore il cui concorso facilitava le mie ricerche: ridiventava l'uomo che negli ultimi anni della guerra d'Algeria era stato il consigliere del primo ministro riguardo ai problemi dello spionaggio e della sicurezza. In Francia, fino al 1966, i servizi di informazione dipendevano direttamente dal primo ministro. Fu il primo sussulto del diplodoco. Quindici giorni più tardi, eravamo a Berlino Ovest e bussavamo alla porta di Fortner. *** Tozzo, tarchiato, il naso aggressivo, la nuca spessa, l'orecchio elefantesco, una voce stentorea e una risata che gli sommuove le viscere: ecco Franz Fortner, settant'anni. Doveva fare una notevole impressione su coloro che tirava giù dal letto vent'anni fa, alle ore piccole, e a cui si presentava urlando: «Gestapo!». I gentlemen dell'Abwehr, infatti, non avevano niente in comune con i beceri della Gestapo, ma in caso di necessità non disdegnavano di pavoneggiarsi con il nero piumaggio dei loro colleghi e prenderne in prestito il blaterio: dava un'aria più seria a tutta la faccenda. Fortner, avvertito della nostra visita, si dichiarò disposto a parlare. Fino a che punto? Quando si lasciò sfuggire il nome di Claude Spaak, sua moglie reagì con violenza e lo tacciò di imprudenza. Le sembrava pericoloso tirare in ballo personalità di tale levatura. Ma noi non ignoravamo che Claude Spaak, fratello del celebre statista belga, aveva lavorato per il Gran Capo. Dopo

qualche domanda alla quale rispondemmo di buona grazia, Fortner decise che ne sapevamo abbastanza perché egli potesse raccontare il resto senza inconvenienti, specificando tuttavia che nel libro non avrebbe dovuto apparire il suo vero nome 1. A giudicare da tali preliminari, si sarebbe detto che la coppia Fortner non fosse convinta della morte del diplodoco. Avremmo dunque fatto quattro chiacchiere. Ma in che lingua? Fortner aveva dimenticato il francese, e il nostro tedesco era insufficiente per sostenere conversazioni di una certa lunghezza, infarcite di termini tecnici, in cui ogni aggettivo avrebbe avuto il suo peso. Proponemmo un'interprete di fiducia. Fortner si rifiutò di aprirle l'uscio; la preoccupazione della propria sicurezza gli vietava di ricevere una sconosciuta. In tal caso, i nostri colloqui non avrebbero potuto svolgersi altrove? Fortner scartò le stanze d'albergo di Berlino Ovest: troppo facile nascondervi un microfono. Un appartamento privato? Era altrettanto rischioso. Il consolato francese, invece, gli sembrava offrire un asilo sicuro. Lo pensavamo anche noi, ma purtroppo non avevamo il potere requisire un locale ufficiale. Era calata la sera, e ancora proseguivamo i nostri preamboli. Eravamo, una volta di più, installati nel comodo salotto di una villa periferica, con i bicchieri pieni di whisky e vassoi di dolciumi sul tavolo. Era davvero difficile immaginare che sul prato si aggirava un diplodoco, in agguato di Franz Fortner. Ma, per nostra sfortuna, Constantin Melnik è un individuo che ci si può facilmente immaginare con un diplodoco al guinzaglio, così come altri con un bassotto. La signora Fortner lo covava 1 L'autore ha naturalmente rispettato questo desiderio, sicché “Fortner” è uno pseudonimo.

con occhio diffidente; si sarebbe detto che attendesse il colpo di fischietto del padrone che avrebbe fatto sorgere il mostro nel salotto. Eppure non conosceva la reputazione di Melnik; doveva bastarle il suo aspetto fisico. Melnik è lungo e magro, con l'incarnato pallido e tratti di una notevole fissità, completamente indecifrabili. Viene fatto di pensare che nelle vene gli scorra un sangue di temperatura inferiore alla media. Il cranio dagli zigomi sporgenti sembra fatto apposta per evocare il futuro teschio. Gli occhi obliqui, simili a due sottili fessure, retaggio di un antenato mongolo, non tradiscono emozioni di sorta; del resto, nessuno ha mai preteso che Melnik sia capace di emozioni. Porta occhiali dalle lenti schermate, che non servono certo a semplificare le cose. Gli intimi affermano che è relativamente meno malvagio di quanto sembri. A quanto mi consta, non esiste donna che non provi il desiderio di smuovere quel blocco di granito. Ho dimenticato chi di noi due ebbe l'idea di proporre a Fortner Parigi. Saremmo stati a casa nostra e potevamo garantirgli che i nostri colloqui si sarebbero svolti nella più completa discrezione. Fortner cominciò con il rifiutare; enumerò qualche celebre rapimento perpetrato dai servizi sovietici in territorio francese. D'altro canto, aveva una gran voglia di rivedere Parigi. Sua moglie lo bloccò di netto sulla china dell'accettazione: rifiutava i rischi di una simile spedizione. Lasciammo Berlino Ovest l'indomani mattina, ancora più sbalorditi che amareggiati. L'Orchestra Rossa era stata, per anni, la selvaggina di Fortner. Era un fatto sconcertante che le parti si fossero a tal punto rovesciate. Il capovolgimento non mancava di pepe, e io non sapevo impedirmi di trovarlo gradevole, ma ci costava i ricordi di Fortner.

Tornato in Francia, gli scrissi una lettera in cui vantavo la primavera parigina in termini offensivamente lirici. Tre settimane più tardi, Fortner atterrava a Orly. L'aeroporto era tutto uno sventolio di sgargianti vessilli: si celebrava il ventesimo anniversario della vittoria alleata sulla Germania. *** Tra una seduta di lavoro e l'altra attorno ad un magnetofono, vi fu uno strano pranzo da Clavet, in Boulevard Saint-Germain. Melnik aveva portato due convitati supplementari che visibilmente non appartenevano al mondo ovattato dell'editoria; avevano appreso la notizia dell'arrivo di Fortner e desideravano un colloquio con lui. Cominciavo a constatare che la mia inchiesta prendeva una piega curiosa. Avevo messo a punto una macchina per esplorare il tempo, la quale si accaniva a riportarmi di continuo nell'attualità. Un proverbio – indiano, credo – afferma che è difficile cavalcare una tigre. Io non mi sentivo troppo a mio agio in groppa al diplodoco, tanto più che la bestia non si limitava più a sobbalzare o ad agitarsi: scalciava. Confessiamolo: avevo avuto il mio quarto d'ora di romanzesco. La sera della riunione in casa di Giskes, a Monaco, il sonno fu lento a venire. Alla larga dagli ossami preistorici e viva la selvaggina fresca! Già mi vedevo nei panni di un agente segreto, alle calcagna di spie, distruttore di reti!... Anche un brav'uomo qualunque può avere simili vertigini. Infine mi addormentai ripromettendomi sogni avventurosi. Ho dimenticato se ho sognato, ma al risveglio scoprii che un topo d'albergo si era introdotto in camera mia durante la notte e mi aveva rubato il portafogli posa-

to sul tavolino da notte a dieci centimetri dal mio naso. Seppi così, senza ombra di dubbio, che non ero fatto della stoffa in cui sono tagliati i James Bond. Da Calvet, constatammo che era difficile rompere il ghiaccio. Da due giorni portavamo a spasso Fortner per una Parigi fiorita di bandiere, costellata di fuochi d'artificio, consacrata alle feste e alle cerimonie. Quella commemorazione di una vittoria che era la sua sconfitta, teneva Fortner in uno stato di malessere permanente. Per il momento, si ingegnava a far capire che la sua collaborazione alle mie ricerche aveva motivazioni più alte di un buon pasto. Mi dissi che il Gran Capo sarebbe stato messo di buonumore dalle sue contorsioni verbali. Nel 1939, ufficialmente era con Fortner. Dal 1945 in poi, noi eravamo con Fortner contro la rete da lui montata. La guerra segreta esige dai suoi combattenti una grande elasticità di spirito, e Fortner, ovviamente, non era rotto alla ginnastica. È proprio questo che mi piace in lui; Franz Fortner è un dilettante; lo è sempre stato. Quando, dopo Dunkerque, viene sottratto alla sua compagnia corazzata, gli ordinano di recarsi ad un certo indirizzo nel centro di Amburgo. Penetra nell'immobile indicatogli e bussa ad un uscio sul quale campeggia un cartello con la scritta: “Servizio dell'Abwehr”. Viene invitato ad entrare. Si presenta e domanda in che cosa consisterà il suo nuovo lavoro. «Ma non ha letto il cartello?». «Sì, perché?». «Intende dire che non

ha

mai

sentito

parlare

dell'Abwehr?».

«Non

particolarmente!». «Be', farà del controspionaggio». «Io? Ma se non ne so niente!». «Parla inglese?». «Un po'...». «Francese?». «Sì, un po'...». «Benissimo, la spediremo a Bruxelles».

Prima della partenza gli viene messa a disposizione una documentazione tecnica. Non è certo l'equivalente dell'insegnamento approfondito ricevuto da Trepper all'Accademia dell'Armata Rossa, ma è sempre meglio che niente. E l'improvvisato cacciatore di spie è tutto ringalluzzito: in fondo, il suo nuovo mestiere somiglia molto a quello che esercitava prima della guerra. Fortner faceva il magistrato; le sue funzioni erano sensibilmente equivalenti a quelle di un giudice istruttore; ordinava l'arresto dei malfattori e li sottoponeva a interrogatorio. D'ora in avanti, ordinerà l'arresto delle spie e le sottoporrà a interrogatorio. Tutto qui? Lui lo crede e si sbaglia. Il lavoro di un giudice istruttore comincia con l'arresto del criminale; quello del cacciatore di spie è praticamente finito quando mette le manette alla sua selvaggina – o almeno dovrebbe esserlo. Perché il giudice istruttore si interessa soltanto ad un uomo, che procura di far arrestare, prima, e confessare, poi; l'ufficiale del controspionaggio incalza una rete. Un agente arrestato è semplicemente una maglia della catena che salta, mentre l'obiettivo consiste nello strappare l'intera catena in un colpo solo. Per questo, occorre pedinare l'agente smascherato, spiare i suoi appuntamenti, metterlo in contatto con qualcuno del doppio gioco, eventualmente farlo passare dall'altra parte – e arrestarlo, certo, ma solo quando non si può più fare altrimenti. Fortner non è ancora a questo punto. Per il momento, cerca la sua selvaggina nei caffè belgi. Gli rimane molto da imparare? Ebbene, lo imparerà, e tanto peggio per la perdita di tempo, tanto peggio per i servizi tedeschi che hanno trovato solo questo dilettante di buona volontà da contrapporre agli esperti del Gran Capo! E vincerà, naturalmente; non può tornare con le pive nel

sacco: contro un gruppo di uomini isolati, dispone del formidabile apparato di repressione tedesco. Finirà necessariamente con il posare il suo pesante polso sul Gran Capo. Che ne farà? Non lo torturerà. Glielo vieta la sua formazione giuridica. Spedirà una spia sul patibolo, com'è suo diritto e anzi suo dovere, ma non gli torcerà neppure un capello. Del resto, Fortner è un brav'uomo cui la violenza fa orrore. Oggi, a sessantatré anni, dedica le sue giornate ad un'opera che si sforza di addolcire la sorte dei detenuti di diritto comune e di favorire il loro reinserimento nella società. Condurrà dunque l'interrogatorio come se avesse di fronte uno dei delinquenti di cui si occupava prima della guerra? Neppure. Di tanto in tanto, Fortner dimentica le specialità di Calvet, si china verso di me e mi sussurra all'orecchio, in un tonante mormorio, una frase che inizia con queste parole: «Da ufficiale a ufficiale», eccetera, formula che non cessa di essere un tantino imbarazzante allorché uno non ha superato il grado di caporalmaggiore. Fortner è un ufficiale. È di quegli uomini che ricevono le spalline come un tempo si riceveva la spada di cavaliere e la tunica di crociato. Per qualificare un campione umano in tutto e per tutto degno di ammirazione, dirà: «Era il tipo dell'ufficiale». Trepper riveste i gradi di generale dell'Armata Rossa; lui se ne infischia, beninteso, ma Fortner, quando lo saprà, correggerà istintivamente la propria posizione. Fortner imparerà il suo mestiere, ma rimarrà sempre «un tipico ufficiale». Umanamente, è degno di lode; professionalmente, rischia di essere un disastro. Il Gran Capo ha già disposto di avversari ben altrimenti temibili. La crudele polizia polacca? I poliziotti inglesi in Palestina? Gli agenti del controspionaggio fran-

cese che davano la caccia a Fantômas? Sì, e già non era male. Ma i suoi capi, non erano ancora meglio? *** Quando Trepper monta sul treno di Mosca, dopo aver risolto l'enigma del tradimento della rete Fantômas, con tutta probabilità si chiede che cosa lo attende alla fine del viaggio: l'immobile della via Znamenski, sede del servizio di informazioni militare sovietico – il Centro – ovvero i sotterranei del carcere della Lubianka, che ospitano i macelli di Stalin? In pari tempo, decine di capi di rete raggiungono Mosca con l'angoscia in cuore; sanno che forse saranno uccisi e si chiedono perché... Perché? Trent'anni dopo, la faccenda non è ancora chiarita. Come punto di partenza, una sontuosa macchinazione posta in atto dall'SS Reinhard Heydrich. Questi fabbrica di sana pianta falsi documenti indicanti che il maresciallo Tukacevski, capo supremo dell'Armata Rossa, complotta contro Stalin. Li fa trasmettere a Mosca per complicati tramiti. Lo scopo è evidentemente quello di scatenare una tempesta nei circoli dirigenti sovietici: se gli orsi si sbranano tra loro, il lupo nazista sarà il beneficiario dell'operazione. Heydrich incontra un successo insperato. Un'ondata di purghe si abbatte sulla Russia e ne decapita l'esercito. Tutto ciò a causa di qualche documento fabbricato dai falsari delle SS? È già meno sicuro. È probabile che Stalin abbia intuito la manovra, ma abbia deciso di servirsene per sbarazzarsi di un maresciallo troppo popolare e di uno Stato Maggiore irrequieto. È del pari verosimile che Tukacevski preparasse realmente un

putsch. Heydrich, dunque, sarebbe stato soltanto la mosca cocchiera – magari del carro funebre. Le origini sono forse confuse, ma il risultato è chiaro: in un colpo solo l'Armata Rossa diviene preda di Stalin. I suoi quadri popolano i campi di Siberia o ricevono una pallottola nella nuca. Stando agli specialisti più informati, in tal modo è stata eliminata una metà degli ufficiali russi – ossia da trenta a quarantamila uomini. Bersaglio privilegiato della repressione: il servizio informazioni militare. È logico. Se l'esercito cospira, dove si situa il nocciolo del complotto, se non in tale servizio votato alle manovre segrete, protetto dalla penombra in cui si muove? Tutti i quadri superiori sono liquidati, poi vengono richiamati in Russia gli agenti che lavorano all'estero; costoro sono i più sospetti: la lontananza consentiva loro una libertà di movimenti propizia alla cospirazione. Trepper è della partita, oppure torna semplicemente perché ha portato a termine la propria missione? Lo ignoriamo, ma è di importanza secondaria. Il fatto è che, rientrando a Mosca, si trova tuffato nel bagno di sangue, e non può mancare di restarne inzaccherato. Sappiamo che era il protetto, una delle speranze di Jan Berzin, capo del servizio informazioni militare; Berzin viene giustiziato assieme al suo braccio destro, Aleksandr Korin. Sappiamo anche che Trepper ha detto in seguito: «Vedevo sparire l'uno dopo l'altro tutti i miei amici e sapevo che fatalmente sarebbe giunto anche il mio turno. A salvarmi la vita è stato il fatto che mi hanno mandato a Bruxelles». Ignoriamo il particolare di quei giorni di prova? Ah! Ma non è difficile immaginarlo... Una paura che non ha mai fine. Gli interrogatori durante i quali uno si proclama innocente, senza neppu-

re sapere di che cosa è accusato. I confronti con il compagno che vedi arrivare tra due poliziotti e che confessa tranquillamente che tradiva da dieci anni. La paura, sempre. L'ossessione di rispondere nella maniera giusta. Quali sono le parole che aprono la porta della salvezza? Quali quelle che conducono al sotterraneo? Non lo sai. Ogni risposta è come una puntata alla roulette, e la posta in gioco è la tua vita. Il fango delle denunce. E la vigliaccheria. «X ha dichiarato che gli hai tenuto, cinque anni fa, discorsi antirivoluzionari...». «X mente! Del resto, l'ho sempre sospettato di essere venduto agli imperialisti». Ciascuno per sé. I più deboli e i più sfortunati sono trascinati nel cupo sotterraneo. Gli altri, che saranno rilasciati, sono davvero indenni? Come i gladiatori dell'antichità, sono stati gettati nell'arena e hanno avuto salva la vita solo a prezzo di quella dei loro compagni. Naturalmente. Ma i gladiatori si ribellarono e formarono un esercito, fecero a pezzi, per anni e anni, le legioni scelte dalla orgogliosa Roma. Perché le lotte atroci li avevano resi più forti, più scattanti e più spietati dei soldati che venivano loro opposti. Lo stesso vale per Trepper. Anche se non è stato travolto dalla tempesta, anche se la sua vita non era minacciata, ha visto assassinare a coorti serrate i suoi capi e i suoi compagni di lotta. E se ha dovuto battersi per evitare la morte, ripartirà da Mosca segnato da cicatrici che non hanno ancora finito di sanguinare. È cosa che riguarda lui solo. Per noi, che non siamo i responsabili della sua anima, questa stagione all'inferno lo porta ad una sorta di perfezione – non quella che ricerca il brav'uomo qualunque o il «tipico ufficiale». Le avventure della sua giovinezza errante non erano bastate a tanto, né gli insegnamenti di Fantômas, né quelli ricevuti all'Accademia dell'Armata Rossa. Ora è in grado di af-

frontare le terribili prove a venire. A Mosca era arrivato Trepper, per Bruxelles ne riparte il Gran Capo. *** Dopo aver molto parlato di lui, abbiamo bevuto la fine champagne di Calvet. Nessuno ebbe l'idea di fare un brindisi al nostro uomo, ma era superfluo: il pranzo e la piccola conferenza di Monaco costituivano già di per sé un bel omaggio. A un tavolo vicino, un signore rubicondo spiegava a suo figlio che era uno scapestrato; più in là, due uomini d'affari parlavano di import-export; e naturalmente c'erano il maître, i camerieri, gli addetti ai vini. Tutti sapevano chi era Sorge, ma ignoravano perfino l'esistenza del Gran Capo. La rete di Sorge è stata annientata definitivamente dalla polizia giapponese nel 1943. I servizi occidentali di controspionaggio lavorano ancora oggi sull'Orchestra Rossa. Anche lo spionaggio ha i suoi sconosciuti: e naturalmente, sono i più grandi.

VII. SCACCO A BERLINO

Alla fine di settembre del 1941, mentre i rapporti di Fortner si accumulano negli schedari dell'Abwehr, viene di nuovo captata l'emittente berlinese. Lavora al suo solito modo fantasioso, alternando periodi di silenzio e di febbrile attività, ma questa volta il dubbio non è più consentito: il pianista è a Berlino. La Funkabwehr riceve l'ordine categorico di porre fine allo scandalo. Vero è che la tecnica ha fatto sparire dal nostro mondo molte sensazioni forti: la caccia, per esempio, non è più quella che era un tempo, quando si serviva il cinghiale allo spiedo, e non c'è nulla di più sciocco delle cacce a cavallo dei nostri giorni con il cervo braccato attraverso i villaggi con il rischio di intralciare la circolazione e con i cavalli imbizzarriti che scivolano sull'asfalto. Ma la tecnica ha provveduto altrimenti, creando una versione straordinariamente appassionante della più antica e più crudele di tutte le cacce: la caccia all'uomo. Il pianista recita la parte del cervo braccato. In via di principio non possiede la mobilità di cui gode l'animale, perché trasmette suppergiù sempre dallo stesso luogo. È tuttavia nascosto in una grande città ed è altrettanto difficile snidarlo del cervo

che si cela in una fitta foresta. Inutile sperare di imbattersi nell'uno o nell'altro per puro caso: occorre che i cani scoprano la traccia del cervo, captino il suo odore, avvertano i suoi bramiti; l'odore e i bramiti del radiotelegrafista sono ovviamente le onde che lancia nell'etere. Tali onde sono captabili. Meglio ancora: esistono certi apparecchi capaci di determinare la direzione del fascio di onde procedendo per scarti successivi, ed è quindi possibile rilevare con esattezza la posizione dell'emittente. Facciamo un esempio: siete tedeschi, fate parte della Funkabwehr e ricevete l'ordine di scovare un'emittente in funzione nella Parigi occupata. Come vi regolerete? Installate un gruppo di azione provvisto di un apparecchio di rilevamento in Place de la Concorde, ad esempio, ed un altro in Place Wagram; quanto a voi, non vi muovete dal vostro ufficio: i piaceri di questa caccia sono tutti interiori. Le vostre armi? Una pianta di Parigi e due dischi di celluloide graduati da 0 a 360 gradi; al centro di ogni disco è fissato un filo di seta. Disponete i dischi sulla pianta in modo che il centro del primo disco coincida esattamente con Place de la Concorde e quello del secondo con Place Wagram. Adesso siete pronti; tocca ai vostri battitori fare il loro lavoro. Non appena il pianista comincia a trasmettere, i vostri esperti captano il fascio di onde e ne determinano la direzione; ve la comunicano. Se l'apparecchio di Place de la Concorde ha rilevato un'orientazione di 80 gradi, prende il filo di seta fissato al disco corrispondente e lo tendete attraverso la pianta secondo l'orientazione di 80 gradi indicata dalla gradazione. Ammettiamo che il filo risalga l'Avenue des Champs Élysées, attraversi Place de l'Étoile e si perda dalle parti di Neuilly. Ed ecco che il gruppo di Place Wagram vi comunica il risultato delle

sue ricerche: 160 gradi. Il filo risale l'Avenue de Wagram e si allunga verso i quartieri meridionali di Parigi. Ma i due fili si intersecano in Place de l'Étoile. Sapete così che la vostra selvaggina si trova nel punto di intersezione, vale a dire sotto l'Arco di Trionfo. La realtà è naturalmente più dura. In primo luogo saranno necessarie parecchie operazioni di rilevamento per circoscrivere il terreno di caccia al quartiere dell'Étoile. Poi, è evidente che i pianisti non si nascondono nei monumenti pubblici e neppure in case isolate facilmente reperibili; mostrano una preferenza per i quartieri popolari e per gli agglomerati. Abbastanza spesso risulterà impossibile determinare con il solo aiuto dei fili di seta la posizione esatta del pianista. Si dovrà fare ricorso alla “valigia cercatrice” che registrerà la modificazione del campo elettrico in prossimità dell'emittente e indicherà l'edificio in questione. Se non disponete di questo comodo strumento, ovvero se anch'esso si dimostra impotente, dovrete fare ricorso a una squadra di ausiliari i quali, nel bel mezzo dell'emissione, interromperanno la corrente elettrica negli edifici sospetti. Questo perché siete cacciatori degli anni '40, non dimenticatelo, e le emittenti di quel periodo, non funzionando a transistor, bisognava alimentarle a corrente. Se private un certo edificio della corrente e se a tale interruzione corrisponde una brusca interruzione della trasmissione, significa che la vostra preda si trova in quello stabile; non vi resta allora che sguinzagliare i vostri cani. ***

A rendere interessante la caccia è l'intelligenza della selvaggina, e da questo punto di vista l'uomo è tutt'altro che deludente. Cercherà di confondere le proprie piste. Ogni pianista lavora su una data lunghezza d'onda; la stazione ricevente sta in attesa alle ore di emissione su tale lunghezza d'onda e, una volta che l'hanno scoperta, i cacciatori si pongono in agguato. Così il pianista è come il cervo di cui i guardacaccia riconoscono il passaggio dai rami spezzati. Ma il pianista può modificare la sua corsa nell'etere, abbandonare i sentieri abituali, vale a dire cambiare la lunghezza d'onda. È un'operazione delicata: presuppone un accordo perfetto tra il pianista e la stazione ricevente affinché questa non perda contatto con l'emittente. Ecco, per esempio, il “piano di emissione” di un radiotelegrafista sovietico: trasmetteva il suo segnale su una lunghezza d'onda di 43 metri; Mosca accusava ricevuta su 39 metri; il pianista allora emetteva il messaggio su 49 metri. Trucco supplementare: passando da 43 metri a 49, il pianista lanciava un nuovo segnale destinato a sviare i cacciatori facendo loro credere che entrava in funzione un nuovo apparecchio. Con queste astuzie si guadagna tempo, ma l'avversario, fatalmente, finisce per intuirle. Occorrerebbe moltiplicare le acrobazie, cambiare continuamente lunghezza d'onda e segnali. La cosa è tecnicamente possibile, ma bisogna fare i conti con le debolezze umane. Il pianista non è un automa. Sottoposto a condizioni di lavoro spossanti dal punto di vista nervoso, rischierebbe di perdersi nel labirinto di un “piano di emissione” troppo complesso. Più prosaicamente, può cambiare luogo di emissione. I cacciatori reagiranno moltiplicando le retate per le strade e parecchi pianisti cadranno nella rete della polizia assieme al loro

apparecchio. Conclusione: le emittenti non devono essere spostate; a muoversi saranno i radiotelegrafisti. Se la rete è ricca, ogni pianista avrà a disposizione parecchie “scatole musicali”; altrimenti, i pianisti useranno alternativamente gli apparecchi e ciascuno di essi lavorerà sulla sua lunghezza d'onda personale. Qui assume importanza essenziale il fattore “tempo”. Per il pianista si tratta di presentire che un certo rifugio comincia a “scottare”. Quanto alla muta di cani, si sforza di arrivare sempre più in fretta alla meta per sorprendervi la selvaggina. Vi eravate serviti di due gruppi fissi per scovare l'emittente dell'Arco di Trionfo. Il procedimento era lento: i vostri apparecchi erano in grado di procedere solo ad un rilevamento per emissione, dopo di che bisognava traslocare e aspettare l'emissione successiva per ricominciare da capo. Ma ora state per ricevere in dotazione una di quelle auto-goniometri costruite dalla ditta Loewe-Opta-Radio. Essa vi permetterà di accelerare i tempi. Uno dei vostri gruppi resta fisso (a Parigi sarà installato in una caserma del Boulevard Suchet), mentre l'altro circola in macchina. Tale mobilità consente vari rilevamenti anziché uno solo, e voi conseguite prima l'obiettivo. Se disponete di parecchie auto-goniometri, cosa che non tarderà, i rilevamenti risultano moltiplicati e ancora accresciuta la vostra rapidità di azione; in media vi occorrono soltanto quaranta minuti per localizzare l'emittente. I pianisti braccati reagiscono riducendo sempre più la durata delle emissioni. Dal canto vostro li costringete a dilapidare il loro prezioso capitale di minuti e secondi, li obbligate a restare sul posto confondendo le emissioni: devono ripetere più volte i loro messaggi. Si circondano allora di una rete di sentinelle, le quali individuano facilmente le vostre camionette Peugeot dalla capote

grigia, ma voi ben presto le camuffate da ambulanze, da furgoncini di panettiere... In pari tempo sguinzagliate sul terreno di caccia squadre di poliziotti incaricati di arrestare tutti gli sfaccendati sospetti. E poi le sentinelle di cui sopra non vi preoccupano più da quando la Loewe-Opta-Radio ha messo a punto quell'apparecchio di rilevamento di dimensioni così ridotte che lo si può fissare alla cintura. Allorché siete in prossimità dell'emittente, fermate le automobili e sguinzagliate per le strade alcuni oziosi immersi nella lettura del giornale. Contrariamente alla vecchia “valigia cercatrice” sempre individuabile, il minuscolo filo che collega l'apparecchio all'orecchio è praticamente invisibile. La cuccagna è pericolosa; capita spesso che qualche cane si trovi a mal partito. Il pianista sorpreso sul fatto talvolta si difende con l'arma in pugno. Più astutamente, può aver truccato il suo apparecchio. Oppure i vostri accoliti trovano sul suo tavolo una bottiglia di cognac aperta: ne bevono un sorso e muoiono avvelenati. Ma questi sono i rischi della caccia, quelli che le conferiscono il suo acre sapore. Perdete qualche uomo, ma la vittoria è vostra. Nell'estate del 1943, le reti trasmettono da Parigi soltanto in caso di estrema urgenza: siete padroni del terreno. *** Caccia silenziosa e sorniona, senza suoni di corno e senza gaie uniformi, ma che finisce quasi sempre come l'altra: con l'abbattimento della selvaggina. È altrettanto decisiva, perché nella guerra che opponeva le reti della resistenza alle polizie tedesche, fu sempre la battaglia da cui dipendeva tutto. Priva di emittente,

una rete non è più nulla; creata al fine di raccogliere informazioni, è efficiente solo a patto di poterle trasmettere. Ma l'emittente che giustifica la sua esistenza la mette in pari tempo a repentaglio, poiché la denuncia ai cacciatori. Prendete i capi dell'Abwehr: non sospettavano l'esistenza di una rete sovietica in Belgio; ancora meno in Germania; sono i pianisti che li mettono sull'avviso. Un sommergibile non è individuabile a occhio nudo quando è in immersione, ma lo si può localizzare se ne emerge il periscopio. Una rete è come un sommergibile il quale dovesse sempre navigare con il periscopio in emersione; questo periscopio è l'antenna della sua emittente. Caccia crudele, poiché la selvaggina è un uomo. Ogniqualvolta uno dei radiotelegrafisti del Gran Capo si installerà davanti alla sua emittente, leggerete sul suo viso la tensione di chi è braccato, l'angoscia della morsa che si serra. È vulnerabile al pari di un soldato che esca dalla trincea per esporsi alle mitragliatrici nemiche. Sa che la muta è sulla sua pista; si immagina le camionette che procedono lentamente; vede con gli occhi della fantasia gli oziosi che fingono disinvoltura avvicinandosi alla casa; già sente i colpi sparati nella serratura della porta. Il coraggio, per lui, consiste nel restare seduto e continuare a trasmettere. È con tutta probabilità più difficile di un assalto alla baionetta. Caccia emozionante, poiché l'eroismo, spogliato di orpelli e fanfare, vi attinge alla purezza assoluta. Quando vi avrò detto che Mosca, nonostante le suppliche del Gran Capo, ben presto costringerà il pianista del PTX a trasmettere ogni notte cinque ore di fila – ordine insensato, equivalente a una condanna a morte pura e semplice – saprete che il suddetto pianista è ancora più

grande del soldato che una truppa in ritirata si lascia alle spalle provvisto di munizioni e con l'ordine di farsi ammazzare sul posto per ritardare l'avanzata del nemico. Tenente Makarov, alias Carlos Alamo, tu che amavi l'azione soltanto se superba e sfavillante, noi ti ammiriamo ancora di più per quelle cinque ore di emissione consecutive che per aver fatto decollare un aereo verso il sole di Spagna. Caccia frenetica, perché tutte le informazioni trasmesse al nemico dal pianista, per i cacciatori sono come se vedessero colare il loro proprio sangue da una piaga infetta. Scovando l'apparecchio trasmittente, si arresterà l'emorragia; facendo parlare il pianista, si scoprirà la rete e ci si sbarazzerà dei germi infettivi. Caccia grottesca, a volte, come succede a Berlino in quel mese di ottobre del 1941... *** Inizio scoraggiante: le auto-goniometri fabbricate dalla Loewe-Opta-Radio sono state mandate a Parigi e a Varsavia; non ce n'è neppure una disponibile per la Funkabwehr quando scatena la sua operazione berlinese. Il responsabile di tale cantonata? Alla Funkabwehr si sogghigna con amarezza all'indirizzo dell'“Istituto di Ricerche Hermann Goering”. Comunque siano andate le cose, bisogna fare a meno delle auto e operare con apparecchi fissi. Ciò significa che si perderà un sacco di tempo. Il pianista, infatti, si situa ad un gradino superiore nella scala dei trucchi e contro-trucchi: i rilevamenti preliminari dimostrano che trasmette da tre punti diversi. La situazione non è allegra.

Problema cruciale: come vestire gli specialisti componenti i due gruppi di rilevamento? Non è certo il caso di lasciarli in uniforme militare, cosa che li farebbe subito individuare. In borghese? Il capo della Funkabwehr vi si oppone formalmente: una simile eccentricità significherebbe la fine della disciplina, il virus della decomposizione introdotto nell'esercito tedesco. L'argomentazione perentoria è che un soldato in borghese non può manifestare al proprio ufficiale i segni esteriori di rispetto previsti dal regolamento. Non ci credete? W.F. Flicke, ex-appartenente della Funkabwehr, si fa garante dell'autenticità della storia. Il popolo tedesco è davvero stupefacente. Alla fine si scende ad un compromesso: gli specialisti indosseranno la tenuta paramilitare dei funzionari delle Poste. Il primo giorno il pianista notò, nei pressi della casa dalla quale trasmetteva, una grande tenda attorno alla quale si affaccendavano alcuni impiegati postali. Non ne fu particolarmente colpito: l'amministrazione delle Poste si serviva di tende di quel genere allorché procedeva alla posa di cavi o a lavori di manutenzione. Neppure gli autocarri della Wehrmacht impiegati per il trasporto del materiale fecero colpo sul pianista perché, con la penuria di mezzi di trasporto, era concepibile che l'amministrazione avesse fatto ricorso all'esercito. Al contrario, non trovò alcuna spiegazione ragionevole al fatto che i funzionari delle Poste fossero in tenuta ufficiale. Aveva sempre visto gli operai addetti alla posa dei cavi e alla manutenzione in tuta da lavoro. L'indomani il pianista indugiò un poco prima di recarsi all'appartamento che costituiva il suo secondo rifugio. Strada facendo, si imbatté in una grande tenda attorno alla quale si affaccendavano alcuni funzionari delle Poste. Camminò lentissima-

mente accanto alla tenda e udì una voce sorda mormorare: «Sì, signor tenente». Il terzo giorno, mentre passeggiava per il quartiere in cui si trovava il suo terzo rifugio, il pianista si fermò dinanzi a una grande tenda attorno alla quale si affaccendavano alcuni funzionari delle Poste. Chiese del fuoco a uno di essi che sembrava essere di turno. Mentre l'uomo gli tendeva l'accendino, il pianista avvertì distintamente il sibilo caratteristico di un apparecchio ricevente allorché viene sintonizzato su una certa lunghezza d'onda. Il quarto giorno, e quelli che seguirono, i gruppi di rilevamento attesero invano un'emissione. Dovettero ripiegare le tende, restituire le uniformi all'amministrazione delle Poste e tornare all'ovile a ruminare il proprio rancore. Avevano fatto fiasco. La Funkabwehr era sconsolata. *** Sull'altro fronte, nelle file della rete berlinese che il controspionaggio si immagina solidamente strutturato e diretto da esperti armati di gruppi diabolici, tutto è disordine e confusione. Ha fatto il passo più lungo della gamba. I diplomatici sovietici, di cui il rapporto Heydrich denunciava la brama di curiosità e di delazione, sono stati rimpatriati in Russia dallo scoppio della guerra, scambiati con il personale dell'ambasciata di Germania a Mosca. Prima della partenza hanno sparso qualche granello per terra, ma in gran fretta, sopra la spalla, pressati come erano dagli avvenimenti. Non si agisce in questo modo in materia di in-

formazioni, campo nel quale, più ancora che altrove, il tempo si vendica di ciò che non si fa con il suo aiuto. I silenzi intermittenti dell'emittente berlinese? La Funkabwehr ritiene a questo punto che rientrino in un piano destinato a mistificarla. In effetti, sono dovuti all'inesperienza del pianista. Questi, per sbaglio, innesta la spina dell'apparecchio affidatogli da un funzionario dell'ambasciata sovietica nella presa della forza motrice: l'apparecchio salta. Una volta riparata l'emittente, il pianista si perde nel dedalo delle istruzioni di cui è stato oberato: ottime per un virtuoso, sono superiori alle capacità di un debuttante. Il funzionario russo gli ha ordinato di mutare l'indicativo di chiamata e la lunghezza d'onda dopo un certo numero di comunicazioni effettive e secondo un ritmo prestabilito. Lo abbiamo già detto: tale procedimento consente di tenere lontani i cacciatori della Funkabwehr. Una comunicazione effettiva per Mosca consiste in un collegamento radio nel corso del quale siano trasmesse informazioni. Il pianista lo intende diversamente; per lui ogni collegamento costituisce una comunicazione effettiva, anche se si limita a ripetere il messaggio già trasmesso o a chiarire qualche particolare tecnico. Conseguenza inevitabile del malinteso: Mosca aspetta il pianista su una certa lunghezza d'onda, mentre lui la chiama invano su un'altra. Si finisce con il ritrovare il contatto e venire ad una spiegazione. Le emissioni riprendono. Conformemente alle istruzioni, il pianista utilizza 6 lunghezze d'onda e 30 indicativi di chiamata. In altre parole, le prime 6 comunicazioni effettive avvengono su differenti lunghezze d'onda; per la settima, il pianista riprende quella della prima comunicazione effettiva, e così via. Lo stesso avviene per gli indicativi di chiamata. Dal momento che questi ultimi cambiano secondo

un ritmo diverso da quello delle lunghezze d'onda, ne consegue un continuo scarto, una confusione fatta apposta per far perdere la testa alla Funkabwher. 30 indicativi di chiamata, dunque. Ma certi mesi hanno 31 giorni. Per la centrale di Mosca, come per tutti i pianisti esperti, è ovvio che il trentunesimo giorno non si trasmette, in modo da non turbare il ritmo mensile. Il pianista berlinese ignora tale convenzione e il trentunesimo giorno trasmette riprendendo il primo indicativo di chiamata dell'elenco. Risultato: quando la centrale si rimette in ascolto il trentaduesimo giorno, non trova più il suo uomo e questi la chiama invano su una lunghezza d'onda diversa. Contatto interrotto. Bisogna sistemare in qualche modo la faccenda. A Mosca il Centro dei servizi sovietici decide di paracadutare sulla Germania dei radiotelegrafisti esperti. Ma perché questi agenti abbiano una probabilità di sfuggire alla schiacciante sorveglianza della polizia, conviene sottoporli ad un addestramento approfondito. D'altra parte, la Germania è lontanissima dagli aeroporti russi; bisognerebbe chiedere agli inglesi di incaricarsi dell'operazione, cosa che implica negoziati a livello superiore. Addestramento e negoziati faranno perdere tempo. Ora, in quel mese di ottobre del 1941, l'attacco tedesco conserva tutta la forza iniziale e scuote con il suo impeto il muro umano che i russi gli oppongono. Le divisioni sovietiche sono scosse, accerchiate, annientate l'una dopo l'altra; la strada di Mosca è aperta. Per l'Armata Rossa sull'orlo della catastrofe le informazioni comunicate dalle reti sono altrettanto essenziali della bombola di ossigeno che tiene in vita un moribondo. Nessuno, al Centro, si prospetta la possibilità di sospendere l'attività della rete berlinese il tempo necessario a montare l'operazione. Il 10 ottobre un appello di aiuto è lanciato

a Kent. Diamo qui un saluto sfuggevole al messaggio che un radiotelegrafista del Centro manda sulle onde: esso segna l'ingresso nel nostro racconto di un personaggio in marsina da cerimonia, guanti bianchi e cilindro a otto riflessi – il boia tedesco; questo, perché a causa di quelle poche frasi strimpellate con indifferenza, decine di uomini e donne moriranno impiccati o decapitati: KLS di RTX. 1010. 1725 wds qbt. Dal Direttore a Kent. Personale. Recatevi immediatamente Berlino tre indirizzi indicati e determinate cause interruzioni collegamenti radio. Se interruzioni si rinnovano, incaricatevi trasmissione. Lavoro tre gruppi berlinesi e trasmissione informazioni importanza capitale. Indirizzo: Neuwestend, Altenburger Allee 19, terza a destra. Coro. – Charlottemburg, Fredericiastrasse 26 a, seconda a sinistra. Wolf. – Friedenau, Kaiserstrasse 18, quarta a sinistra. Bauer. Ricordatevi qui “Eulenspiegel”. Parola d'ordine: Direttore. Date notizie prima 20 ottobre. Nuovo piano (ripetiamo nuovo) in vigore per tre stazioni. qbt ar. KLS di RTX.

Tre giorni dopo, il 13 ottobre, la rete berlinese riceveva dal Centro il seguente avvertimento: RSK di BTR. 1310. 1425. 54 wds qbt. Dal direttore a Freddy per Wolf che riferirà a Coro. Arrivo di Kent proveniente da BRX. Incaricato di ristabilire le comunicazioni radio. In caso di fallimento o di nuova interruzione inviare tutto il materiale a Kent per trasmissione. Consegnargli il materiale in giacenza. Tenta-

tivo di ripresa delle comunicazioni il 15. Centro all'ascolto a partire dalle ore 9.

Kent, dunque, parte per Berlino in missione di sblocco della situazione. Ha già preso contatto con la rete tedesca nel mese di aprile precedente, in occasione del viaggio alla Fiera di Lipsia che aveva fatto disperare la bella Margarete al punto da farle perdere parecchi chili. Questa volta incontra i due capi della rete al giardino zoologico di Berlino. Tempo qualche giorno e procura al pianista berlinese un'emittente supplementare e lo mette in contatto con un vecchio militante comunista che prima della guerra ha seguito un corso di radiotelegrafista a Mosca. Questi impartisce al giovane alcune lezioni di perfezionamento. Da Berlino, Kent si spinge fino a Praga. Strada facendo si mette in contatto con la moglie di Rauch, l'uomo dell'Intelligence Service. Lo sappiamo da un telegramma di Kent annunciante a Maria Rauch che la incontrerà sulla banchina della stazione di Graudnitz, dove il suo treno si ferma qualche minuto; le fissa appuntamento accanto alla vettura ristorante. Quanto alla missione di Kent a Praga, ne ignoriamo i particolari, ma ci dimostra che decisamente l'Orchestra Rossa aveva musicisti ovunque. Kent rientra a Bruxelles ai primi di novembre con la soddisfazione del dovere compiuto. Ma una brutta notizia lo raggiunge: il pianista berlinese non può più suonare. È stato il 21 ottobre, poco dopo la partenza di Kent per Praga, che le squadre della Funkabwher si sono messe in caccia. Berlino è costretta al silenzio. Conformemente agli ordini di Mosca, tutte le informazioni raccolte dalla rete berlinese devono essere trasmesse da Bruxelles. Il diligente Kent ha emanato disposizioni in vista di una

simile eventualità: un sistema di corrieri tra la Germania e il Belgio è già in funzione. Per Bruxelles, beninteso, ne deriverà un aumento di lavoro. Il povero Makarov inchiodato davanti alla sua emittente, non fa che sognare i bei tempi della guerra di Spagna...

VIII. APPUNTAMENTO A STALINGRADO

Sono dunque così importanti le informazioni raccolte dalla rete berlinese incapace di trasmetterle correttamente? Giudicate voi: Da Coro a Direttore. Fonte: Maria. Artiglieria pesante proveniente Koenigsberg si dirige su Mosca. Batterie pesanti costiere imbarcate a Pillau stessa destinazione. Da Coro a Direttore. Fonte: Gustave. Perdite unità corazzate sul fronte orientale raggiungono per materiale dotazione di 11 divisioni. Da Coro a Direttore. Fonte: Arwid. Hitler aveva ordinato presa Odessa prima 15 settembre. Azioni ritardanti ala Sud causano gravi perturbazioni in dispositivo di attacco tedesco. Informazione proveniente da un ufficiale OKW.

Da Coro a Direttore. Fonte: Moritz. Piano II è entrato in vigore da 3 settimane. Obiettivo probabile raggiungere linea Arkhangelsk-Mosca-Astrakan entro fine novembre. Tutti i movimenti di truppa sono eseguiti in conformità tale piano. Da Coro a Direttore. I carri delle compagnie di propaganda attendono a Briansk dal 19 ottobre entrata truppe tedesche a Mosca, che era prevista per il 20 ottobre. Da Coro a Direttore. Fonte: OKW via Arwid. Fronte orientale, maggioranza divisioni tedesche provatissime da gravi perdite subite hanno perduto il loro potenziale umano normale. Soldati che abbiano ricevuto formazione completa rappresentano soltanto una minima percentuale. Rinforzi costituiti da soldati sottoposti a un addestramento da 4 a 6 mesi.

Si potrebbero moltiplicare gli esempi, dal momento che i telegrammi trasmessi ammontano a centinaia. La rete berlinese è al corrente dei piani offensivi della Wehrmacht, conosce la distribuzione delle forze e gli effettivi dei rinforzi; è in grado di segnalare in anticipo i settori dove atterreranno unità paracadutate, informa Mosca delle perdite del nemico in uomini e materiale. E non è tutto: la rete è altresì in possesso di informazioni precise circa la produzione tedesca di benzina e prodotti chimici, nonché il numero di aerei che escono ogni mese dalle fabbriche del Reich; ha le sue antenne negli organi dirigenti del Partito nazista e perfino presso lo Stato Maggiore, di cui conosce le tesi e le lagnanze. È aggiornato delle manovre della diplomazia segreta di Ribben-

trop. È nella possibilità di seguire giorno per giorno gli spostamenti di Hitler. In conformità alle nuove disposizioni, queste informazioni di importanza capitale saranno d'ora in avanti trasmesse dall'emittente di Kent. *** È del pari su Bruxelles che piovono le richieste di informazioni provenienti dal Centro. Alcune riguardano i movimenti di truppe in Belgio e in Olanda, la capacità di produzione delle fabbriche locali che lavorano per l'occupante, l'atteggiamento della popolazione civile. Ma nella maggior parte dei casi superano largamente i limiti belgi o olandesi. Se il Direttore vuole essere illuminato circa gli effettivi dell'esercito svizzero, le possibilità militari dell'industria chimica tedesca, oppure il particolare delle perdite subite dalla Wehrmacht, è a Bruxelles che si rivolge: Dal Direttore a Kent. Necessita rapporto su esercito svizzero in relazione a eventuale invasione tedesca. Effettivi dell'esercito in caso di mobilitazione generale. Natura delle fortificazioni esistenti. Qualità dell'armamento. Caratteristiche concernenti aviazione, mezzi corazzati e artiglieria. Mezzi tecnici delle diverse armi. Dal Direttore a Kent. Stabilite capacità produzione fabbriche chimiche tedesche (gas asfissiante). Fate rapporto su preparativi sabotaggio fabbriche in questione.

Da Direttore a Kent. Fonti Schneider sembrano bene informate. Chiedergli controllare cifra globale perdite tedesche finora. Ventilare in base armi e campagne.

Ancora, è da Bruxelles che vengono ritrasmesse a Mosca le informazioni raccolte in Francia dal Gran Capo. Al pari di quelle della rete berlinese, sono molteplici, varie e precise; testimoniano soprattutto di una penetrazione del dispositivo tedesco cui nessun altro sistema di spionaggio alleato è giunto, neppure alla lontana, nel corso dell'ultima guerra. Qualche esempio: Fonte: Suzanne. Linea proposta da Stato Maggiore per quartieri d'inverno e sulla quale esercito tedesco dovrebbe attestarsi inizio novembre passa per Rostov – Isium – Kumsk – Orel – Briansk – Dorogobus – Novgorod – Leningrado. Hitler ha respinto questa proposta e ordina sesto attacco su Mosca con totalità materiale disponibile. Se offensiva fallisce, truppe tedesche in ritirata saranno momentaneamente senza riserva materiale. Fonte: Émile. Due nuove combinazioni tossiche: 1) Nitrosylfluoride. Formula:

HC2F.

2)

Kakodylisocyanide.

Formula:

(CH3)2ASNC. Fonte: Ninette. Tedeschi radunano imbarcazioni in porti bulgari per operazione Caucaso.

Fonte: Berlino. Circoli ufficiali superiori ritengono vittoria totale ormai esclusa a causa fallimento guerra-lampo Est. Tendenza sensibile influenzare Hitler a trattare con Inghilterra. Importanti generali OKW pensano guerra durerà ancora 30 mesi e sperano poi pace di compromesso. Fonte: Jacques. Tedeschi hanno perso fior fiore loro esercito su fronte orientale. Superiorità mezzi corazzati russi incontestata. Stato Maggiore scoraggiato da continue modifiche apportate da Hitler a piani strategici e obiettivi. Fonte: Paulette. Ufficiale tedesco segnala aumento tensione tra esercito italiano e Partito fascista. Seri incidenti a Roma e a Verona. Autorità militari sabotano istruzioni del Partito. Possibilità colpo di Stato non esclusa. Ma non nell'immediato futuro. Tedeschi raccolgono truppe tra Monaco e Innsbruck per eventuale intervento. Fonte: Maria. Da un ufficiale superiore tedesco di ritorno da Berlino. Importanti circoli militari scettici esito guerra fronte orientale. Persino Goering dubita vittoria militare. Guarnigioni e piazze d'armi tedesche sprovviste di truppe. Speculazioni a Berlino su morte Hitler e su susseguente dittatura militare. Fonte: Pierre. Forza totale esercito tedesco: 412 divisioni, 21 attualmente in Francia, perlopiù divisioni di seconda linea. Effettivi diminuiscono di continuo in ragione frequenti par-

tenze. Truppe che si trovano sud e dintorni Bordeaux su Vallo Atlantico si spostano verso est. Si tratta di 3 divisioni. Effettivi globali Luftwaffe suppergiù 1 milione di uomini, incluso personale a terra. Fonte: José. 10 chilometri ovest Madrid stazione di ascolto tedesca intercettante collegamenti radio inglesi, americani e francesi (con colonie). Camuffata da ditta commerciale sotto nome “Stürmer”. Governo spagnolo al corrente e complice. Un ufficiale e 15 uomini in borghese. Filiale a Siviglia. Telescrivente diretta da Madrid a Berlino con collegamenti a Bordeaux e Parigi.

Che cos'è, dunque, Bruxelles? La testa, innanzi tutto, di un'organizzazione che copre il Belgio e l'Olanda e fornisce le consuete informazioni su questi paesi alle reti della resistenza. Il cuore, soprattutto, del formidabile apparato spionistico dell'Orchestra Rossa. Assorbe le informazioni raccolte da decine di agenti sparsi in tutta Europa e le trasmette al Centro tramite l'arteria essenziale del collegamento radio. Per Mosca, rintronata dalle cannonate tedesche e dalle incursioni aeree, la voce di Bruxelles è la voce della speranza. I fronti crollano, le dighe cedono l'una dopo l'altra, la marea grigioverde inonda il paese e si avvicina alle mura del Cremlino, ma c'è il posto d'ascolto di Bruxelles che, nel cuore stesso del glorioso frastuono tedesco, percepisce fin le minime dissonanze: i dubbi dei generali di Hitler, il logorio delle truppe, l'usura del materiale. E, nell'ora in cui il Führer urla davanti alla folla berlinese: «Io

dichiaro oggi, senza riserva alcuna, che il nostro nemico orientale è abbattuto e non si rialzerà mai più», è la voce di Bruxelles che permette a Mosca di non rinunciare ad ogni speranza. Tale voce fornisce anche allo Stato Maggiore dell'Armata Rossa tutta una serie di informazioni tattiche, ma i generali sovietici sospinti dall'avversario, tallonati dalle sue avanguardie, non hanno la possibilità di utilizzarle; la superiorità tedesca è così schiacciante che i russi, anche se prevenuti del prossimo colpo, non riescono a sopportarne l'urto. Non sono ancora riusciti a porre tra sé e il nemico lo spazio sufficiente ad una riorganizzazione che renderebbe possibile un efficace sfruttamento delle informazioni. Ma il 12 novembre 1941 il tempo supplisce allo spazio e consente ad un messaggio di Bruxelles di entrare nella Storia, anziché finire nei cestini di uno Stato Maggiore del fronte. Il 12 novembre 1941, nello stesso giorno in cui i capi di Stato Maggiore tedeschi dei tre gruppi di armate del fronte orientale si riuniscono a Orcha per mettere a punto l'avanzata finale sulla capitale russa, dalla quale le avanguardie corazzate distano ormai soltanto 25 chilometri, il Centro riceve da Berlino il seguente messaggio: Da Kent a Direttore. Fonte: Coro. Piano III con Caucaso per obiettivo, previsto originariamente per novembre, sarà attuato nella primavera del 1942. Disposizione delle truppe dovrà essere completata I° maggio. Totalità sforzo logistico teso verso questo obiettivo a partire I° febbraio. Basi di spiegamento per offensiva su Caucaso: Lozovaia – Balakeleia – Ciuguiev – Belgorod – Asctinka – Krassnograd. Quartier Generale a Karkhov. Seguono particolari.

Mosca non cadrà. Cinque giorni più tardi, il 17 novembre, i cavalieri mongoli della 44a divisione caricheranno, sciabola sguainata, davanti a Mussino, a meno di 50 chilometri dal Cremlino, e il loro cruento assalto segnerà l'entrata nella battaglia delle divisioni fresche giunte dalla Siberia. Queste divisioni fresche, Stalin aveva potuto radunarle davanti alla sua capitale perché l'agente Richard Sorge gli aveva assicurato che il Giappone non avrebbe pugnalato la Russia alle spalle – in Siberia. E, mentre i russi si stanno ancora battendo sotto le mura di Mosca, l'Orchestra Rossa, con il suo storico telegramma del 12 novembre, già dà loro appuntamento, con nove mesi di anticipo, sul lontano Volga: a Stalingrado. Sorge aveva permesso di evitare la disfatta davanti a Mosca. Trepper e i suoi uomini renderanno possibile la vittoria di Stalingrado. *** La Funkabwher, dopo lo scacco di Berlino, constata che i collegamenti radio del PTX si sono notevolmente moltiplicati. Il confronto tra il numero dei messaggi trasmessi indica che il pianista del PTX si è addossato anche il lavoro del collega berlinese impossibilitato ad agire. Grazie alle pazienti ricerche di Cranz e di Breslavia, si è giunti alla certezza che l'emittente è nascosta a Bruxelles. La Funkabwher invia a Fortner una squadra di specialisti, alcune auto-goniometri e due “valigie cercatrici”. Un simile spiegamento di forze elimina ogni e qualsiasi possibilità di insuccesso. Questa volta la caccia al PTX è ben congegnata.

IX. SCORRERIA IN RUE DES ATRÉBATES

Continuavano a chiamarlo PTX, ma evidentemente aveva abbandonato da un bel pezzo l'originario indicativo di chiamata; attualmente ne usava una trentina e giocava da virtuoso con le lunghezze d'onda. I tecnici della Funkabwher si accanivano a seguirlo nelle sue acrobazie, ma il 17 novembre fecero una scoperta destinata a complicare sensibilmente il lavoro dei cacciatori: a Bruxelles esistevano tre emittenti clandestine, che usavano a turno gli stessi indicativi e le stesse lunghezze d'onda. Impossibile, in tali condizioni, scoprire quale delle tre fosse il PTX cercato da tanto tempo – benché una delle tre stazioni lavorasse più delle altre. Le squadre di rilevamento arrivarono a Bruxelles il 30 novembre in uno stato d'animo alquanto tetro. Localizzare tre emittenti che usavano identici indicativi e lunghezze d'onda non era cosa facile; se, per di più, i pianisti disponevano di numerose “basi”, il compito sarebbe stato davvero arduo. Era comunque consolante il fatto che le emissioni avessero luogo di notte. Dal momento che il coprifuoco vietava ai pianisti la protezione di una

rete di sentinelle, non ci sarebbe stato bisogno di requisire un lotto di uniformi da postini belgi... I primi rilevamenti furono disastrosi. Il tenente che dirigeva l'operazione non credette ai suoi occhi quando constatò che i fili di seta non si intersecavano in nessun punto. Era un mistero incredibile. Si procedette a rilevamenti di verifica su una stazione trasmittente tedesca, di cui erano note le coordinate e si scoprì che gli apparecchi erano falsati di parecchi gradi. Dal momento che le auto-goniometri erano nuove di zecca, si poteva dedurre che c'era qualcosa di marcio nella ditta Loewe-Opta-Radio. Fu ripresa la caccia tenendo conto delle varie deviazioni. Non ci volle molto per stabilire che i tre pianisti non erano itineranti. Uno si nascondeva nel quartiere di Etterbeck, il secondo si trovava a Uccle, il terzo a Lacken. Gli specialisti della Funkabwher propendevano per ricerche pazienti che consentissero di scovare le tre emittenti tutte assieme, ma ricevevano ordini dai capi locali dell'Abwehr e questi decisero altrimenti. Berlino li tempestava da mesi con la faccenda del PTX: era diventata la loro ossessione. Si esigeva che sparisse? E allora bisognava scovarlo al più presto per farla finita una volta per tutte con le lavate di capo e le grane berlinesi! Una volta dissipato l'incubo, si sarebbe sempre fatto in tempo a dare la caccia agli altri due pianisti. I tecnici giudicarono che il PTX era con tutta probabilità l'emittente che, da qualche giorno, lavorava con maggiore assiduità, vale a dire quella di Etterbeck. Mediante rilevamenti successivi fu localizzata la “base” del pianista; si nascondeva in un'arteria angusta e triste, quasi completamente priva di negozi: la Rue des Atrébates.

*** Racconta Fortner: Ufficialmente ero sempre responsabile del controspionaggio a Gand, ma Berlino mi aveva ordinato di seguire l'affare dell'emittente clandestina. Quando l'apparecchio fu localizzato a Bruxelles, mi installai in un magnifico appartamento del Boulevard Barnd Whitlock che era stato abbandonato dalla sua proprietaria inglese. Tra parentesi, la signora mi ha scritto dopo la guerra per ringraziarmi di aver lasciato tutto in ordine. La portinaia, naturalmente, ignorava quali fossero le mie funzioni; credeva che facessi il mercato nero e io rafforzavo questa sua convinzione regalandole di tanto in tanto qualche pezzo di sapone. L'arrivo della squadra Funkabwher ha cambiato tutto. Fino a quel momento, non potevo fare altro che ascoltare il PTX ogni notte sulla mia ricevente senza poter agire in alcun modo. Il tecnico responsabile della “valigia cercatrice” mi ha particolarmente impressionato. Si trattava di un sergente molto ambizioso, molto sicuro di sé. Mi ha dichiarato di punto in bianco: «Lo beccherò». I rilevamenti hanno fatto rapidi progressi. Mi ricordo perfino che abbiamo imbarcato un apparecchio su un Fieseler Storch per sorvolare la città. Il fatto che l'emittente lavorasse cinque ore per notte ci ha molto aiutati. I russi non diffidavano, era evidente. Perché avrebbero dovuto, del resto? Non potevano indovinare che avevamo a nostra disposizione apparecchi così precisi. La “valigia cercatrice”, soprattutto, era una meraviglia tecnica che

non aveva eguale in tutto il mondo; perfino i professionisti di vecchia data ne rimanevano ammirati. Credo che fosse la prima volta che veniva impiegata fuori dalla Germania. Siamo dunque piombati in Rue des Atrébates. Il sergente era convinto che l'emittente si trovasse in una di queste tre case: il numero 99, il 101 o il 103. Ho fatto procedere a controlli discreti degli inquilini. Al 99 abitava una famiglia fiamminga nota per i suoi sentimenti germanofili. Il 101 era abitato da certi sudamericani di cui seppi dal vicinato che lavoravano per i servizi economici tedeschi. La casa contrassegnata con il numero 103 era disabitata. Avevo il presentimento che l'emittente dovesse essere nascosta nella casa disabitata, ma ci occorreva la certezza assoluta. Ora, alle spalle di queste tre case, nello stesso isolato, c'era una villa requisita nella quale abitavano due uomini dell'Organizzazione Todt. L'informazione ci venne fornita dai Servizi Alloggi di Bruxelles. Ottenni dal generale comandante in Belgio che vietasse ai due uomini di uscire di casa per qualche giorno. Li abbiamo messi al corrente della faccenda; giurarono di non parlarne e di non uscire. Ci installammo in casa loro e, per quattro o cinque notti, il sergente poté lavorare nelle immediate vicinanze delle tre case sospette. Infine, il sergente mi assicurò che le emissioni provenivano dalla casa di mezzo, il 101, quella occupata dai sudamericani. Non ci rimaneva che agire. Ma, contrariamente al mio sergente, il quale, sempre sicuro di sé, non vedeva inconvenienti nel fatto di dare l'assalto alla casa noi due soli, a mio parere era necessaria una grande prudenza. I miei informatori mi avevano detto che i comunisti si erano fatti notevolmente più duri; in caso di attacco, erano decisi a battersi fino all'ul-

timo sangue. Ottenni in prestito dalle autorità militari 10 uomini della polizia segreta. Sarebbero bastati? Non ero sicuro. Ora, in prossimità della Rue des Atrébates, in Boulevard Saint-Michel, c'era una caserma, occupata da un battaglione di anziani territoriali sulla cinquantina che assicuravano la guardia delle ferrovie, dei viadotti, ecc. Il comandante mi ricevette con freddezza e mi disse che non poteva fare niente per me. Ma un comandante di compagnia presente al colloquio si mostrò interessato e mi mise a disposizione 25 uomini. Ora eravamo in grado di colpire. L'irruzione fu fissata per la notte dal 12 al 13 novembre, verso le 2.

*** Racconta Bill Hoorickx: Con il passare del tempo ero diventato sempre più intimo di Carlos Alamo; ci capitò perfino di abitare insieme. Era un tipo che mi piaceva molto e avevamo interminabili conversazioni. L'argomento più frequente? Ne sarà sorpreso: parlavamo molto di metafisica. Quando ero giovane voleva andare in colonia presso una missione protestante; avevo perfino seguito dei corsi di medicina coloniale prima di decidermi per la pittura. Ma sono rimasto profondamente credente e mi piaceva parlare con Alamo dei grandi problemi religiosi. Per lui era una rivelazione, perché in Russia di cose del genere evidentemente non si discute. Non pretenderò di aver convertito Alamo, ma in qualche modo l'ho reso “spiritualista”. Detto ciò, Alamo era un uomo con le sue debolezze e i suoi appetiti. Lo avevo presentato a una bellissima ra-

gazza delle Indie Olandesi, Sumatra o Giava. Si chiamava Suzanne Schmitz. Alamo se la prese per amante e la ragazza abitò perfino con noi. Un giorno Alamo ci invitò a cena nella casa di Rue des Atrébates. C'ero già stato due volte e ne avevo parlato a Rauch, il quale mi aveva detto: «Senti, senti! Non sapevo che avevano qualcosa anche là!». Questa ignoranza non mi aveva troppo sorpreso: non si può dire che Rauch fosse tenuto in disparte, ma mi ha sempre dato l'impressione di essere un po' isolato. Era un “lupo solitario”. Accettai l'invito di Alamo; che naturalmente era esteso anche alla mia attuale moglie, Anya. Ma quando ne parlai ad Anya, mi disse: «È impossibile, devi rifiutare, ho promesso ha Olga Sherbatov che saremmo andati a cena da lei». Telefonai ad Alamo che si mostrò molto deluso e insistette a lungo. Ma noi non potevamo dare un bidone alla nostra amica Olga. Fu dunque deciso che Suzanne sarebbe andata da sola a cena in Rue des Atrébates, la sera del 13 dicembre.

Il Gran Capo arrivò a Bruxelles il 12 dicembre e si recò da Kent dove c'era una camera sempre pronta per lui. Si può supporre che fosse ottimista: gli aerei giapponesi avevano colpito a Pearl Harbor cinque giorni prima e la guerra offriva prospettive completamente nuove. Aveva con sé una delle tre valigie di cui si serviva nei suoi spostamenti. Erano valigie di diversa misura, ma tutte dello stesso modello e di un lusso raffinato. Uno scomparto che fungeva da armadio consentiva di appendervi due, quattro, o sei completi. C'era anche un cassetto speciale per i libri e uno per le scarpe. Margarete era stata molto sorpresa nel vederlo in possesso di quelle valigie, identiche alle valigie di

Kent, e più ancora, di constatare che anche Alamo ne possedeva dello stesso tipo. Margarete non aveva molta simpatia per Trepper; il Gran Capo la irritava. Quando Kent era partito per Lipsia, Trepper era venuto a installarsi senza tanti complimenti in Avenue Slegers e aveva fatto a Margarete una corte piuttosto spinta. Dopo tre giorni di simili maneggi, aveva sloggiato dicendo: “Volevo sapere se era fedele a Vincent e se poteva contare su di lei”. Da allora Margarete diffidava, nonostante i regali di cui la colmava Trepper; quando usciva con Kent era convinta che Trepper lo portasse a donne. D'altronde, Margarete era stata felicissima di poter segnare un punto contro di lui, un giorno che ascoltavano tutti e tre la radio tedesca. Dopo il bollettino, Trepper aveva spento l'apparecchio e meccanicamente aveva cominciato una frase in tedesco. Margarete conosceva troppo bene la lingua per non notare il suo accento yiddish. Aveva detto a Kent: «Ma è ebreo!», e Kent aveva negato senza vigore. Il Gran Capo veniva a Bruxelles per incontrarsi con Makarov, alias Alamo. Il povero diavolo, annoiato a morte, lo tormentava con le sue lamentele: «Compagno, che cosa faccio qui? Tutte le vostre storie sono troppo complicate per me! Ti assicuro che certe cose le so fare bene! Datemi un aereo, almeno sarò utile a qualcosa...». Si erano dati appuntamento in Rue des Atrébates l'indomani, 13 dicembre. *** Fortner:

Il 12 dicembre , verso le 10 di sera, mi trasferisco presso quelli della Todt con il mio sergente e tre ufficiali dell'Abwehr. Con noi ci sono 6 poliziotti; gli altri sono nascosti nello stabile contrassegnato con il numero 97, accanto alla casa dei fiamminghi. I territoriali, nella caserma, si tengono pronti a bloccare la strada. Sono armati di fucili mitragliatori e ho fatto infilare loro grosse calze di lana sopra gli stivali: così non daranno l'allarme con rumori sospetti. Il mio piano è semplice: un assalto brutale. Penetrerò con due poliziotti nella casa dei fiamminghi; un ufficiale e due poliziotti irromperanno in casa dei sudamericani; lo stesso vale per la casa disabitata. Il terzo ufficiale assumerà il comando dei territoriali in Rue des Atrébates. Abbiamo torce elettriche, asce e perfino scale da pompieri se sarà il caso di arrampicarci sul tetto. Alle 2 del mattino installo il mio dispositivo. Una mezz'ora più tardi è tutto predisposto e do l'ordine di attaccare. I fiamminghi restano esterefatti vedendomi apparire all'improvviso con i miei due poliziotti e capisco subito che l'emittente non è lì. Sulla destra, al 101, l'ufficiale dell'Abwehr urla: «Qui! È qui!». Rintronano spari. Vedo i poliziotti tirare su un uomo che esce dalla casa. I territoriali si lanciano all'inseguimento. Io penetro in casa dei sudamericani. Al pianterreno, una donna discinta che dormiva su una branda. È bella, sui 25 anni, ma ebrea, tipicamente ebrea. Al primo piano l'emittente ancora calda sulla quale già si affaccendava il sergente. Al secondo piano, un'altra donna a letto. Alta, niente male, sui 25/28 anni, molto ebrea. Sento gridare: «Lo abbiamo preso! Lo abbiamo preso!». E ridiscendo al

pianterreno. Hanno catturato il fuggiasco che tentava di nascondersi nella cantina dello stabile di fronte. Ha opposto resistenza ed è stato colpito; sanguina. È in possesso di un passaporto sudamericano in piena regola. Quanto alla donna del pianterreno, mi esibisce una carta d'identità francese a nome di Sophie Poznanska. Le faccio notare che parla molto male il francese; di colpo, smette di parlare. Stesso atteggiamento da parte del ferito: neanche una parola! Risalgo al secondo piano. Sono ancora per le scale quando un poliziotto mi grida che la Poznanska chiede di poter andare al gabinetto. Dico che può farlo, ma a patto di essere accompagnata. Rifiuta. La donna del secondo piano si chiama Rita Arnould. Mi dice singhiozzando: «Sono contenta che sia finita. È stato a malincuore, costretta da un amico, che sono entrata a far parte della rete». Le parlo dapprima in francese, ma lei mi dice: «Senta, tanto vale parlare tedesco, sarà più semplice». «Ma conosce la lingua?». «Certo, sono tedesca, nata a Francoforte». È disposta a spifferare tutto. Mando a cercare due bottiglie di vino per brindare con lei. In fondo, quella povera Rita non aveva mai avuto fortuna; era una creatura degna di pietà. Orfana di padre, aveva studiato filosofia a Francoforte e a quel tempo militava in una cellula comunista animata da un certo Isidore Springer, che era il suo amico. Poi aveva lasciato la Germania dopo l'avvento di Hitler al potere ed era venuta ad abitare a Bruxelles per continuare gli studi. Ma aveva incontrato Arnould, un rappresentante di tessuti già avanti con gli anni, e lo aveva sposato piantando studi e attività politica. È probabile che avrebbe terminato la sua esistenza nei panni di brava massaia senza storia, se nel 1940 Arnould non fosse morto. La lasciava senza risorse. Per sua sfortuna, Rita aveva reincontrato Sprin-

ger, il quale si era a sua volta rifugiato in Belgio. Springer l'aveva introdotta in Rue des Atrébates dove Rita si occupava dell'andamento della casa, della cucina e di tutte queste faccende pratiche. Un lavoro pagato a sufficienza perché Rita riuscisse a garantire il mantenimento della vecchia madre. Del resto, essendo ebrea in un paese occupato da noi, è evidente che quella disgraziata non poteva fare la difficile.... Vede, devo confessare che Rita Arnould mi ha commosso. Ero persuaso che non facesse davvero parte del complotto, che fosse stata presa in trappola dalla necessità. Ho tentato di addolcire la sua sorte; anziché gettarla in carcere, l'ho sistemata in un albergo; ho rassicurato sua madre. E addirittura, parecchi mesi dopo, quando mi sono recato in missione in Spagna, a San Sebastián, ho proposto a Rita di condurla con me e lasciarla laggiù. La sua risposta mi ha gelato. Mi ha detto con fatalismo: «A che pro? Ho tradito, e i servizi sovietici mi ritroveranno dovunque andrò». Fu fucilata qualche tempo dopo. Be'... torniamo al 13 dicembre. Durante il nostro colloquio Rita mi butta lì: «Stia attento di sotto». «Attento a cosa?». «Scenda, lo scoprirà da solo». Ridiscendo al pianterreno e ordino ai poliziotti di frugare dappertutto. Uno di essi batte sulla tramezza, dietro la branda della Poznanska: c'è un vuoto! La solleviamo di forza, la spingiamo da parte e sfondiamo una porta camuffata nella tramezza. La porta dà su uno studiolo rischiarato a malapena da una lampadina rossa. Faccio cambiare la lampadina: ora ci si vede meglio. E che cosa vediamo? Un laboratorio da falsari! Tutto il materiale necessario per fabbricare documenti falsi: passaporti in bianco, timbri, formulari, eccetera! Ci sono anche, sistemati su certi scaffali, dei flaconi pieni di liquidi strani e vasi colmi di cristalli.

Avendomi Rita dichiarato che si trattava di veleno, abbiamo spedito fiale e cristalli ad un laboratorio di Colonia per farli analizzare. Il capo del laboratorio mi ha riferito che si trattava di ingredienti necessari alla preparazione di un inchiostro simpatico assai perfezionato, praticamente impossibile da individuare. In quello studiolo ho certamente provato una delle più grandi scosse della mia vita. Capisce, c'erano dei formulari in bianco che provenivano dai nostri servizi e direttamente da Berlino! Era incredibile! Ciò presupponeva l'esistenza di una rete gigantesca, forte di complicità ovunque! A questo punto, il sergente ridiscende dal primo piano con certi documenti bruciacchiati che ha trovato accanto all'emittente: tutti in tedesco! Non riuscivo a capire... Interrogo Rita, la quale mi dice in tono del tutto naturale: «Ma sì, certo, qui il lavoro si faceva in tedesco». Era una cosa semplicemente sconvolgente... Nello studiolo abbiamo trovato anche due fotografie formato tessera che certo erano destinate a falsi passaporti. Secondo Rita una di esse raffigurava un individuo che veniva chiamato “il Gran Capo”, mentre l'altra era quella del “Piccolo Capo”. Le fotografie erano ottime, chiarissime. Esaminandole ho avuto la strana impressione di avere già visto da qualche parte quei due personaggi. Rita non conosceva alcun particolare riguardante il Gran Capo; però sapeva che il Piccolo Capo abitava dalle parti del Boulevard Brand Whitlock, vale a dire nel mio quartiere, che aveva per amante una bionda più alta di lui, e che andavano spesso a passeggio assieme con un grosso cane al guinzaglio: era sufficiente per pescare il nostro uomo in giornata. Ce ne siamo andati da Rue des Atrébates verso le 6.30 del mattino, ma ho lasciato sul posto un poliziotto e un

interprete con l'ordine di arrestare chiunque cadesse in trappola. Mi sono recato direttamente a riferire del nostro successo al capo dell'Abwehr a Bruxelles. Si mostrò felicissimo, naturalmente, e si mise subito a redigere un rapporto per Berlino. Ma che nome in codice dare alla rete? Come lei sa, per noi dell'Abwehr una rete di spionaggio è un'“Orchestra”. Avevamo per esempio l'“Orchestra delle Ardenne”, che lavorava dalle parti di Bastogne. Il mio capo ha proposto: «Orchestra Russa». Io gli ho detto: «Orchestra Rossa sarebbe meglio!».

Conosciamo soltanto lo pseudonimo dell'uomo che è stato arrestato dopo essere rimasto ferito leggermente: Camille. È un ebreo di Palestina, ex-appartenente alle Brigate Internazionali, sposato ad una francese e residente a Parigi. Trepper lo ha incontrato appunto a Parigi e lo ha mandato per un certo periodo in Rue des Atrébates perché apprenda l'arte del pianista. Camille è coraggioso, impetuoso, entusiasta. Morirà senza parlare. Sophie Poznanska è l'addetta ai codici della rete. Eccelle in questa delicata specialità. Se rivela a Fortner il suo codice, sarà un colpo terribile per l'Orchestra Rossa. Sophie Poznanska non parlerà. Poco dopo si suiciderà nella cella della prigione SaintGilles dove Fortner l'ha fatta chiudere. Rita Arnould, coccolata in una stanza d'albergo, è subito disposta a chiacchierare. A prima vista, non è addentro nei segreti della rete. Preparava la minestra e rifaceva i letti... Ma vi sono indizi che permetteranno di scoprire nel giro di poche ore le tracce del Piccolo Capo. C'è soprattutto la trappola

tesa in Rue des Atrébates nella quale Fortner può a ragione sperare che verranno a gettarsi altri agenti... *** Il primo visitatore pretese di essere il padrone di casa che veniva a riscuotere l'affitto. Il poliziotto e l'interprete gli chiesero i documenti e telefonarono al Servizio Alloggi di Bruxelles. L'individuo in questione era proprio il padrone del numero 101, e lo lasciarono andare. Il secondo visitatore era un tipo cencioso, con la barba lunga e maleodorante. Aveva sotto il braccio un paniere nel quale si dibattevano alcuni conigli. Chiese di vedere la padrona di casa, sostenendo di avere l'abitudine di vederle i conigli. Gli venne spiegato che la padrona non era disponibile e, siccome insisteva, fu cacciato a calci. Un po' più tardi, terzo squillo di campanello. Fu fatto entrare il visitatore e furono esaminati i suoi documenti. Erano a nome di Carlos Alamo. Il poliziotto lo perquisì e gli scoprì in tasca parecchi messaggi in codice. Fu ammanettato. Carlos Alamo conosce la maggior parte dei membri della rete e anche il codice usato in Rue des Atrébates. Il quarto visitatore era un tipo intrattabile. Domandò in tono sgarbato se sapevano a che ora apriva il garage situato un po' più avanti in Rue des Atrébates. Che garage? Quello requisito dai tedeschi. Gli fu ordinato di entrare e di mostrare i documenti. Esibì un lasciapassare speciale rilasciato dall'Organizzazione Todt. Imbarazzati, gendarme e interprete decisero di trattenerlo, ma quello tempestò e li minacciò dei fulmini dell'autorità milita-

re se non telefonavano immediatamente al loro superiore. Il poliziotto telefonò all'Abwehr e accennò al lasciapassare. «Ma rilasciatelo subito!», gridò l'ufficiale. Ciò che fu fatto. In serata si pescò ancora una bella ragazza di colore: Suzanne Schmitz. *** Eravamo installati attorno ad un magnetofono in uno degli uffici della Librairie Fayard. Seduto un po' in disparte, l'aria remota, Melnik succhiava la pipa con rumori disgustosi. Io non alzavo neppure la testa dalle mie risme di fogli. Fortner doveva avere la sensazione che la nostra interprete costituisse tutto il suo pubblico. È giovane, bionda e non manca di disinvoltura nei rapporti umani. Fortner aveva preteso un'interprete che non fosse tedesca, anche il suo nome ci era prezioso: Ruth Hamel-Valentini – un nome che potrebbe essere anglosassone, Hamel che è francese e Valentini che evoca l'Italia. In realtà è di origine tedesca. C'era un po' di inganno da parte nostra, ma un inganno altrettanto bonario di quello consistente nel presentarsi alla gente urlando: «Gestapo!», mentre si è semplicemente un gentleman dell'Abwehr. Ruth Hamel-Valentini aveva saputo far passare nei propri occhi azzurri il giusto lampo di ammirazione, mentre le raccontava l'incursione in Rue des Atrébates. Ora, ascoltava il vecchio signore scuotendo il capo con aria di comprensione e simpatia. L'abominevole Melnik sembrava una statua di marmo. Io, dunque, ero il peggiore attore dei tre, l'unico che non riuscisse a dissimulare completamente la ridarella che mi assaliva, sentendo Fort-

ner mormorare con voce umile: «Evidentemente avevo commesso un errore gravissimo: avrei dovuto lasciare al poliziotto e all'interprete le fotografie che avevo trovato... Ma che vuole, eravamo ancora dei dilettanti... dovevamo imparare il mestiere...». Franz Fortner ci aveva appena confessato che il venditore di conigli gettato fuori a calci era il Gran Capo. *** La sera del 13 dicembre Kent e Margarete accompagnarono Trepper alla stazione, ma giunsero sulla banchina solo in tempo per vedere sparire il fanalino rosso del treno di Parigi. Il terzetto tornò in Avenue Slegers. La strada era sbarrata da poliziotti e parecchie automobili stazionavano davanti allo stabile di Kent. Questi telefonò da un caffè: gli rispose un individuo che parlava tedesco. Kent e Margarete andarono a nascondersi in casa di un amico belga. Trepper prese il treno successivo. Più tardi raccontò che in lui la perplessità aveva il sopravvento su tutti gli altri sentimenti. Da parecchio tempo temeva una catastrofe a Bruxelles: non si poteva trasmettere impunemente cinque ore per notte come esigeva Mosca. Per parare la minaccia, Trepper aveva fatto proprio allora tacere l'emittente di Avenue de Longchamps e spostato la maggior parte delle comunicazioni radio su quella di Rue des Atrébates, che aveva lavorato pochissimo fino al mese di dicembre. Come mai i tedeschi erano arrivati così presto alla meta? I metodi di rilevamento classico richiedevano più tempo... E se c'era stato tradimento, bisognava temere il peggio: dove si sarebbe fermato il tradimento?

L'irruzione di Rue des Atrébates sollevò perplessità e sospetti a non finire, e tra le conseguenze ci saranno le manganellate al sedere di un Hauptsturmführer delle SS. Ma non siamo ancora giunti a questo gustoso episodio. Bruxelles, cuore della rete, è fulminata.

X. RITIRATA STRATEGICA

Nell'agosto 1965 andai alle Cévennes. La strada si arrampicava lungo i ripidi pendii, serpeggiava nelle gole, si affondava in un paesaggio sempre più arido e aspro. Sul ciglio della strada, steli testimoniavano delle battaglie impegnati dai maquis contro le colonne tedesche. Quegli austeri villaggi erano stati martoriati dai Dragoni di Luigi XIV; vi erano stati bruciati bambini e donne che non volevano abiurare il protestantesimo. Una contrada selvaggia sulla quale pesava una storia spietata e dove viveva da vent'anni una donna creata per i piaceri e per le feste: Georgie de Winter. Il contrasto tra la perla e lo scrigno era impressionante. Dacché lavoravo alla storia dell'Orchestra Rossa, mi ero fatto una certa idea di Georgie de Winter – “la bella Georgie”, come dicevano tutti. Si sapeva che era sopravvissuta a Ravensbrück, ma dopo il suo ritorno dal campo di concentramento se ne perdevano le tracce. Certi superstiti della rete supponevano che si trovasse da qualche parte in Belgio, ma dove?... Quella testimone preziosa era diventata la mia idea fissa. Mi restava la Georgie che avevo sognato; nel racconto sarebbe stata come una graziosa parentesi.

Ma, un mese prima, in luglio, mentre parlavo di lei con un ex-membro della rete inchiodato al letto dai postumi della deportazione, l'uomo mi aveva teso sorridendo una partecipazione di nozze. Si trattava dell'annuncio di matrimonio di Georgie con un colonnello polacco emigrato. Le nozze erano state celebrate a Soulorgues, nei pressi di Lasalle, nelle Cévennes. Ed ora ero in viaggio per Lasalle con molta impazienza e un po' di inquietudine (è pericoloso mettere a confronto il sogno con la realtà), nonché con la preoccupazione delle eventuali conseguenze della mia visita. Sapevo da tempo che l'Orchestra Rossa era il serpente marino di certi ambienti dello spionaggio. Per essere più precisi: dei pensionati dell'Abwehr e della Gestapo. Costoro assumono, per parlarne o scriverne, il tono profetico e funereo che l'orgasmo anticomunista spesso e volentieri conferisce a queste Cassandre. Walter Schellenberg, ex-capo dei servizi segreti del Reich, conclude il suo capitolo sull'Orchestra Rossa con questa frase: «Continuò le sue attività fino alla fine della guerra. La lotta silenziosa divenne sempre più intensa fino al giorno in cui il conflitto fu portato non soltanto in Germania e nei territori occupati, ma nel mondo intero»1. Paul Leverkuehn, l'agente dell'Abwehr che abbiamo visto errare in Persia alla ricerca delle strade per Baku, Leverkuehn, dunque, assicura: «La lotta [contro l'Orchestra Rossa] non ebbe una conclusione definitiva e non c'è dubbio che la stessa organizzazione, impiegando forse in certi casi gli stessi uomini di un tempo, è attiva ancora oggi»2. Flike afferma: «L'Orchestra Rossa 1 W. Schellenberg, Le Chef du contre-espionnage nazi parle, Julliard, 1967, p. 363. 2 P. Leverkuehn, German Military Intelligence, Praeger, 1954, p. 183.

non ha certo detto la sua ultima parola» 3, e anche Fortner è convinto che sia ancora molto loquace. Essi, insomma, si ingegnano a passare la fiaccola ai loro logici successori: i servizi del controspionaggio occidentale. Tale fiaccola avevo creduto in un primo tempo che i nostri rifiutassero di accettarla, non già perché era loro tesa da mani dubbie, ma per la certezza che la fiamma fosse spenta. Poi, certi particolari mi avevano fatto pensare che non ne fossero poi così sicuri e che continuassero a interessarsi agli exappartenenti alla rete. Era affare loro, loro dovere. Ed era anche nell'interesse nazionale, ma non mi sentivo affatto disposto a entrare nella coraggiosa coorte degli informatori della polizia. È comodo farsi degli scrupoli onorevoli quando si sa che sono più o meno vani. Perché procedevo nella mia inchiesta a viso scoperto. Ad ogni testimone che incontravo offrivo, a mo' di biglietto da visita e dono propiziatorio, una copia del mio ultimo libro, che sfoggiava da qualche parte il nome di Constantin Melnik. E per gli eventuali neo-affiliati dell'Orchestra Rossa, quel nome sarebbe stato come la campanella dei lebbrosi di un tempo. In definitiva, ponevo domande con lo scopo confesso di scrivere un libro e si conosceva ogni risposta destinata ad essere pubblicata. La mia impazienza stava per essere soddisfatta. La mia preoccupazione non era molto grave, ma l'inquietudine restava: sarei stato deluso da Georgie? Senza averla mai vista né sentita, correvo verso Lasalle con l'apprensione di chi vada a ritrovare per la prima volta una donna amata vent'anni prima... ***

3 W.F. Flicke, Spionagegruppe Rote Kapelle, Verlag Welsermühl Wels, 1957.

Lasalle si stende lungo una strada angusta e interminabile; da ciascun lato si aprono cupe caverne: le case. Si attraversa la strettoia e ci si ritrova sulla strada acrobatica che fa del Rallye automobilistico delle Cévennes uno dei più difficili percorsi che esistano. Per 3 chilometri corre a strapiombo su una piccola valle dove sono piantati alcuni fabbricati massicci come fortezze. Giunto al villaggio di Horts, mi ci volle una mezz'ora per scoprire una strada accidentata che si tuffava nella valle e risaliva poi verso tre o quattro case abbarbicate sull'opposto pendio. Quella di Georgie è la penultima del gruppo. Non vedevo quella specie di eremo servire da piattaforma ad una rete di spionaggio, e anche se Georgie era soltanto una “cassetta delle lettere”, compiangevo il postino... Una casa bassa, tozza, con muri atti a sostenere un assedio. Nella cantina mi sarà mostrato un sotterraneo con un passaggio sulla montagna: un tempo consentiva agli abitanti di sfuggire ai dragoni missionari. Bussai invano all'uscio e già mi apprestavo a fare marcia indietro, quando alle mie spalle, proveniente dal giardino, sbucò una giovane donna dal passo leggero in calzoni e camiciotto. Georgie, che nel 1940 aveva 20 anni, somiglia in modo impressionante a Jacqueline Kennedy. Suo marito colpito da un infarto, era degente all'ospedale di Montpellier. Nella casa c'erano un cane, parecchi gatti e un diplodoco. I primi furono buttati fuori per poter parlare in tutta comodità dell'ultimo. Al ritorno dalla deportazione, Georgie era andata a trovare sua madre in Belgio. La polizia belga l'aveva pedinata, arrestata, interrogata, in Francia, la Direzione della Sorveglianza del Territorio, il principale servizio di controspionaggio, si era

occupato a lungo del suo caso. Nel 1962 – 1962! – certi ispettori della DST di Marsiglia, pigiati su due automobili, vengono a pescare Georgie nel suo eremo e la interrogano per due giorni di fila alla gendarmeria di Lasalle. La popolazione emozionata sospetta qualche nero mistero, magari un assassinio, o più di uno. Georgie già dubita che le controllino la posta, ma viene addirittura a sapere che tutti i suoi spostamenti sono sorvegliati e continueranno ad esserlo. Caspita! Georgie è alta, sottile, con una chioma nera che, quell'estate, le copriva le spalle. Gli occhi sono luminosi. La voce è come il passo: giovanile. E ciò che più colpisce, in quella sopravvissuta alla Gestapo e a Ravensbrück, è la voce quasi infantile, cristallina, che si spezza su certe sillabe. Poco dopo la dichiarazione di guerra, Eddy, insomma colui che lei chiama Trepper, mi ha consigliato di andare a rifugiarmi negli Stati Uniti; mi proponeva perfino di pagarmi il viaggio. Ma io non volevo abbandonarlo e poi non vedevo pericolo particolare nel fatto di condividere la sua sorte, neppure dopo la visita del poliziotto. Si era a Bruxelles, nel maggio del 1940, durante l'offensiva tedesca. Un poliziotto belga si è presentato al nostro domicilio e mi ha chiesto informazioni sullo “straniero” che viveva con me. Allora, ecco, senza sapere niente delle vere attività di Eddy, ho presentito che bisognava inventare una storia: ho dato un nome falso e una falsa nazionalità. Questo perché inconsciamente avevo dei dubbi? Può darsi, ma allora non cercavo più in là. Sono stata felicissima di andare a Parigi, che adoro. Facevamo una vita davvero splendida. Lei non può neppu-

re immaginare che cosa erano la gentilezza di quell'uomo, la sua delicatezza, le sue costanti attenzioni. Quando andava in viaggio, mi prenotava posti a teatro e ai concerti per ogni sera in cui sarebbe stato assente. Mi colmava di regali. E adorava mio figlio Patrick, che naturalmente avevamo portato con no. A quel tempo, vale a dire prima di Pearl Harbor, mi recavo con una certa regolarità all'ambasciata degli Stati Uniti a ritirare per Patrick dei pacchi di generi alimentari distribuiti dalla American Aid Society! Gli impiegati mi consigliavano di tornare negli Stati Uniti e anche Eddy tornava spesso alla carica offrendomi un piccolo capitale in dollari che mi avrebbe permesso di vivere laggiù. Ma io lo amavo troppo, ero pronta a morire per lui. Nati che se anche era con me di una tenerezza illimitata, intuivo che poteva essere altrettanto spietato. Una volta è rientrato a casa su tutte le furie contro qualcuno. Ha parlato da solo un bel po' – lo si sarebbe detto un avvocato che pronunciasse l'arringa –, poi si è calmato di colpo e ha concluso placidamente: «Ebbene, che crepi...». Le assicuro che era impressionante. Mi ha presentato alcuni amici, pochi. Mi piaceva molto Hillel Katz, così gentile, e Léo Grossvogel, che era semplice, buono e aveva una vera passione per la musica classica. Erano tutti e due completamente dominati dalla personalità di Eddy. Si sentiva che lui era il capo e che quei due si sarebbero gettati nel fuoco se glielo avesse ordinato. Ma non mi parlava mai dei suoi affari. Insomma, era molto misterioso. Ho un bel non essere curiosa, è probabile che oggi non reagirei a quel modo. A quel tempo avevo 20 anni e lui quasi 40; mi impressionava. E ho capito subito che non bisognava cercare di afferrarlo, intrappo-

larlo in domande. Era inafferrabile, come l'acqua. E poi, non avevo voglia di sapere questo o quello: non mi interessava. Ero molto giovane, molto spensierata, ci amavamo e la vita era meravigliosa. Dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti, essendo americana, potevo essere arrestata e chiusa in un campo di internamento. Allora, ecco, Eddy mi ha rivelato che lavorava per l'Intelligence Service e mi ha detto dei documenti falsi a nome di Elisabeth Thevenet. Io ho creduto alla storia dell'Intelligence Service. In fondo, non aveva importanza. Che facesse quello o che vendesse impermeabili, non cambiava niente dei miei sentimenti. Sicché la vita è continuata così, ma avevo paura che mi arrestassero per via dei documenti falsi. Un giorno gli ho detto: «Finiranno per prendermi e mi ritroverò in prigione». Lui ha alzato le spalle dicendo: «Gente come te e me passa attraverso tutto». Era sempre calmissimo, molto padrone di sé. L'unica volta che l'ho visto emozionato è stato durante una gita in barca a Saint-Germain-enLaye. Il nostro battello per poco non si capovolgeva e io ho ristabilito l'equilibrio per un pelo attaccandomi ai rami di un albero. Eddy era pallidissimo e mi ha confessato che non sapeva nuotare. Del resto, non praticava alcuno sport; e la cosa mi stupiva da parte di un uomo così raffinato, di una pulizia quasi maniacale. Dunque, per tornare ai documenti falsi, per poco davvero non mi hanno arrestata. È stato scendendo dal metrò alla stazione di Saint-Michel. All'uscita della banchina c'era un posto di blocco della polizia. Ho fatto finta di avere sbagliato stazione e mi sono avvicinata ad una pianta del metrò; evidentemente, contavo di prendere la corsa successiva. Ma un brigadiere mi aveva notata. Ha detto ad un agente: «Va' un po' a prendere quella signorinella: si direbbe

che non abbia la coscienza tranquilla!». Ho tirato fuori il mio documento falso tremando. Lui lo ha guardato e ha esclamato: «Ma guarda! È nata a Neuvilly, nel nord? Anche il mio collega, quello là, è di Neuvilly». Ha chiamato il compagno che è arrivato tutto allegro. Io ero terrorizzata. Naturalmente, ha parlato della gente di Neuvilly e roba del genere, e io me la sono cavata come ho potuto, dicendo che me n'ero andata da piccola. Allora mi hanno lasciata andare. Ma che fifa ho avuto!. A quel tempo abitavamo in Rue Fontaine, ma avevamo anche una villetta al Vésinet. Andavo tutti i giorni a prendere lezioni di danza presso una scuola di Place Clichy, perché Eddy insisteva sul fatto che in seguito potessi cavarmela da sola. Studiavo anche le lingue. La sera, quasi tutte le sere, andavamo, ecco, a cena al ristorante e finivamo la serata in un locale notturno o a sentire uno chansonnier; Eddy aveva una vera passione per i chansonniers. Che bella vita facevamo! Posso dire che non sono mai stata così felice...

Parigi, retrovia di un fronte che passerebbe per Bruxelles e Berlino? Parigi, dove si va a ballare e ci si rimpinza mentre il tenente Makarov marcisce nella sua cella e l'addetta ai cifrari Sophie Poznanska si impicca nella sua? Ovviamente no. Se Bruxelles era, fino al momento della calata su Rue des Atrébates, il cuore dell'Orchestra Rossa; se Berlino ne è il cervello, un cervello che raccoglie e seleziona le informazioni con la precisione di un calcolatore elettronico, è a Parigi che partono i corrieri i quali diramano gli ordini del Gran Capo per tutta Europa; è verso Parigi che convergono le decine e decine di rapporti i quali, trasmessi a

Mosca, permettono al Direttore di seguire da vicino l'attività dei suoi agenti, perfino del meno importante. Le delizie della vita parigina? La fama che ne gode è indubbiamente varia, ma un'osservazione attenta consente di individuare almeno due gruppi sociali: i collaborazionisti politici o economici e i quadri superiori della Resistenza. Le due categorie hanno un punto in comune: hanno preso una decisione; per loro la guerra continua. I francesi hanno firmato l'armistizio quasi all'unanimità; dopo di che, si immergono nella contemplazione angosciata del proprio ombelico. Dal 1940 al 1944, il grande problema nazionale consiste nel sapere se il tagliando AH sarà valido; sui treni, nelle code, negli uffici, non si parla che di mangiare. Il fatto è che non si è impunemente una nazione vinta. Ma – e com'è significativo tale capovolgimento! – basta rifiutare la sicurezza implicita nell'armistizio perché scompaiano le sue conseguenze alimentari. Chi si batte, mangia. Così, nei piccoli ristoranti del mercato nero troviamo fianco a fianco i collaborazionisti (hanno preso in corsa il treno blindato nazista), i capi della Resistenza (si impegnano a farlo deragliare) e il fior fiore degli ufficiali tedeschi (volenti o nolenti, manovrano la locomotiva). Il lato pittoresco dei loro banchetti deriva da questo particolare: i convitati sanno che eventualmente dovranno pagare il conto con la loro pelle. Dopo il dolce può venire l'obice russo o americano per gli ufficiali e, per gli altri, le 12 pallottole del plotone di esecuzione tedesco, o quelle della prossima epurazione. Al livello degli stati maggiori, la Resistenza non ha fame. Rémy, puro tra i puri, nel 1942 constata che spende in tre giorni per mangiare l'equivalente del bilancio mensile medio di una famiglia parigina. Roger Vailland, in Drôle de jeu, il miglior ro-

manzo ispirato alla Resistenza, fa rimbalzare l'azione da un bistrot clandestino ad un locale notturno occultato e si spinge addirittura ad abbozzare in poche pagine una guida sommaria dei ristoranti a borsa nera; è già molto se non attribuisce delle stelle di merito. Vi è, in ciò, una ragione pratica: il combattente clandestino, munito di documenti falsi e senza fissa dimora, non sempre può entrare nel circuito alimentare fisso e ritirare le tessere del razionamento. C'è anche una giustificazione morale: è già sufficiente rischiare la tortura e la morte senza avere per soprammercato la pancia vuota; è giusto, equo e salutare che il Gran Capo non mangi cavoli. E, infine, c'è una spiegazione tecnica: per alcuni, e soprattutto per Trepper, la “copertura” implica un certo tenore di vita. Torneremo su questo argomento. *** Parigi non è una retrovia: è la base arretrata dalla quale il Gran Capo dirige la battaglia. Dal suo ritorno da Bruxelles, si dà da fare per tappare la falla aperta da Fortner. Primo problema: Kent. Luba Trepper aveva ragione. Il ragazzo, perfetto per il lavoro in tempo di pace, quando era in ballo solo la sua libertà, non possiede la tempra necessaria per rischiare la pelle. Kent? Un giovanottello, decisamente, cui il libro di Smirnov aveva fatto girare la testa e i cui nervi crollano dopo l'incursione in Rue des Atrébates. Non c'è nulla di più contagioso del panico. Dato che Kent rappresenta un rischio da eliminare, Trepper lo spedisce a Marsiglia, nella zona francese libera. Vi ritornerà il bravo signor Jaspar, l'ex-direttore della “Foreign Excellent Trench-Coat”. Perché non dovrebbero creare, quei due,

una rete locale con emittente autonoma? La zona libera vi si presterebbe, perché evidentemente è meno sorvegliata della zona occupata. Kent è stato pesato e trovato leggero. Se vuole, Marsiglia può offrirgli un nuovo campo di attività; per il momento, è soprattutto un binario morto. E Margarete Barcza? Trepper giudica la sua influenza del tutto deleteria: Kent la ama con tanta passione che ha ancora più paura per lei che per sé; Margarete lo rammollisce e gli fa perdere tempo. Trepper propone a Kent di farla passare in Svizzera dove aspetterà tranquillamente la fine della guerra e tempi più propizi ai loro amori. Kent rifiuta; non andrà a Marsiglia senza Margarete. Il Gran Capo è costretto a cedere. Kent riesce a “sganciarsi” da Bruxelles. Vi conosce parecchia gente e una sparizione in sordina sembrerebbe sospetta: fa il giro dei conoscenti e fornisce una spiegazione plausibile della propria partenza. Robert Christen, il padrone del “Florida”: Alla fine di dicembre del 1941, viene a trovarmi a casa mia e mi dice: «Senti, Robert, deve filare in Francia: sono ricercato dalla Gestapo...». «La Gestapo! Ma perché?». «La Germania ha dichiarato guerra agli Stati Uniti e certamente il mio paese si schiererà con gli americani. I crucchi lo sospettano e si preparano a beccare tutti gli uruguayani...». Gli dico che capisco e gli auguro buona fortuna. Lui mi chiede se posso tenergli un baule fino al suo ritorno. Naturalmente acconsento.

La prima tappa è Parigi. Kent ci va direttamente, ma Margarete e suo figlio René devono passare la frontiera clandestinamente, perché le loro carte d'identità recano il timbro “ebreo”. Si

ritrovano il 20 dicembre all'albergo “Océanic”. Kent è nervoso, tormentato, ma non per questo la coppia rinuncia al quotidiano pellegrinaggio ai locali notturni parigini; René viene affidato alla sorveglianza del portiere dell'albergo. Il 29, Kent parte da solo per la zona libera, lasciando Margarete e il bambino affidati a Trepper. Questi, per non smentire la propria fama, procura loro dei biglietti per l'Alhambra dove assistono alla rappresentazione pomeridiana del 29, poi l'indomani li manda alla linea di demarcazione. Passarla è difficile: Margarete e René camminano nove ore di fila con una temperatura di 15 gradi sotto zero, braccati dai cani sguinzagliati sulle loro tracce e presi a fucilate. Esausti, finiscono in una fattoria. Un furgoncino viene a prenderli e li porta alla stazione. Margarete arriva a Marsiglia il 31 dicembre. La signora Jaspar si vede piombare in casa senza piacere quella creatura fastosa, ma poi si ammala e Margarete la cura con dedizione; le due donne fanno la pace. Del resto, Kent raggiunge a sua volta Marsiglia con nuovi documenti per sé e per l'amante. Mettono su casa in uno stabile di Rue l'Abbé-de-l'Épée. Un altro membro della rete belga è in pericolo: l'amante di Rita Arnould, Isidore Springer, detto “Romeo” per via di una certa inclinazione per le gonnelle. Il Gran Capo lo manda a nascondersi a Lione. Romeo è un bellissimo uomo, commerciante di diamanti ad Anversa, ex-combattente delle Brigate Internazionali, ufficiale dell'esercito belga e decorato al valore nel 1940. Con un passato del genere, è ovvio che Romeo non si adatterà a fare l'imboscato: metterà sottosopra Lione. Secondo problema: i prigionieri. Taceranno? E se parlano, che diranno? La sopravvivenza della rete riposa nelle loro povere mani ammanettate e Trepper non può condurre il suo gioco se

ignora quali briscole cadono nel gioco dell'avversario. Crea un gruppo speciale il cui compito esclusivo consiste nel tenerlo informato sulla sorte dei cinque prigionieri: Alamo, Sophie Poznanska, Camille, Rita Arnould e Susanne Schmitz, che del resto viene subito rilasciata. I suoi uomini comprano alcuni guardiani della prigione Saint-Gilles. Grazie ai suoi uomini, Trepper conosce la frequenza degli interrogatori, la loro durata e in quali condizioni morali e fisiche i prigionieri tornano nella cella; gli riferiscono delle chiacchiere di Rita, dei silenzi di Alamo e di Camille, del suicidio di Sophie Poznanska; spiano la sede dell'Abwehr e si assicurano che il lavoro proceda secondo il tran tran quotidiano: alla prima fiammata di attività insolita, sapranno che un prigioniero ha parlato. Tappate le falle, resta da riorganizzare la rete belga. Ma Kent e Alamo sono fuori combattimento e il posto di Trepper è a Parigi. Chi comanderà a Bruxelles? Risposta di Mosca: il capitano Constantin Yefremov. Sarà paracadutato sul Belgio? Niente affatto: ci abita già da due anni. Il Gran Capo sapeva della sua esistenza e lo aveva incontrato un paio di volte, ma Yefremov era tenuto di riserva dal Direttore. A un dato momento appare per riprendere la barra del timone abbandonata da Kent. Il Centro ha i suoi difetti, ma deve essere piacevole lavorare per un'organizzazione dagli ingranaggi così ben oliati. Essa aveva già dato prova della propria efficacia, in occasione dell'ingresso in Belgio di Yefremov. Questi arriva dalla Svizzera nel settembre del 1939, in possesso del passaporto n. 20268 rilasciato a New York il 22 giugno 1937 a nome di Eric Jernstroem, studente finlandese, nato il 3 novembre 1911 a Väsa. La guerra è appena scoppiata quando Yefremov si presenta alla

frontiera e la polizia belga si mostra pignola. Yefremov si è attardato in Svizzera e il suo passaporto, valido due anni, è scaduto da tre mesi. Si pretende un certificato di buona condotta relativo agli ultimi cinque anni, la promessa di non stabilirsi in Belgio e il nome di un garante belga. Yefremov soddisfa tutte queste esigenze. La polizia, però, approfondisce la sua indagine e chiede alle autorità svizzere informazioni su Yefremov. Risposta favorevole: «Sconosciuto allo schedario centrale». Yefremov, dunque, non ha destato i sospetti della polizia Svizzera, nota per la sua vigilanza. Ma i belgi, decisamente tenaci, interrogano il consolato finlandese a New York circa il loro cittadino Eric Jernstroem. Risposta: «Jernstroem vive modestamente negli USA dal 1932 ed è un leale cittadino finlandese». Tale messa a punto rassicura i poliziotti belgi e suscita in noi una certa ammirazione, perché sappiamo che Yefremov-Jernstroem non ha mai messo piede negli Stati Uniti. L'indagine lo avrebbe certo smascherato se il Centro non avesse avuto un agente perfino al consolato finlandese di New York. Per apprezzare l'episodio nel suo giusto valore, sarà bene ricordare che al tempo in cui l'agente finlandese di New York copre la spia sovietica di Bruxelles, gli eserciti russo e finlandese se le danno di santa ragione attorno al lago Lagoda... Yefremov è un bel ragazzo alto un metro e ottanta, biondissimo, gli occhi azzurri, con una fronte da pensatore e una traccia di malinconia nello sguardo: evoca l'immagine del poeta romantico. In realtà è ingegnere militare di terzo grado, ossia capitano, e specialista in chimica. Non appena giunto a Bruxelles, si iscrive al Politecnico e conduce la vita di uno studente sgobbone. Quando il Gran Capo lo fa uscire dalla ghiacciaia in cui lo aveva tenuto in serbo il Direttore, per gettarlo nel fuoco dell'azione, è certo

che il saggio Yefremov non ha destato alcun sospetto da parte dei servizi tedeschi. I due si incontrano a Bruxelles, a casa di un agente della rete. Il Gran Capo mette al corrente il suo nuovo aiutante delle funzioni che dovrà svolgere, gli consegna 100.000 franchi belgi per le prime spese e gli consiglia la prudenza. La rete deve sonnecchiare per 6 mesi. Le due emittenti sfuggite a Fortner dovranno restare silenziose fino a nuovo ordine; i corrieri limiteranno al massimo gli spostamenti; sarà imposto un rigido sistema di compartimenti stagni. Yefremov accetta le raccomandazioni. È davvero un ragazzo di buona pasta. Un po' troppo buona, forse. Ad essere sinceri, Trepper lo trova molle. Dopo Alamo, che sognava solo avventure, dopo Kent che borbotta all'idea di perdere i suoi cinquanta vestiti, ecco che Mosca gli spedisce un bravo ragazzo il quale riceve le consegne con la noia rassegnata di un figlio di papà al momento di assumere la responsabilità della fabbrica di famiglia. Decisamente, la Giovane Guardia non vale l'altra.

XI. «SONO FORTI, FORTISSIMI»

Dopo la calata in Rue des Atrébates, Mosca è nei confronti dell'Orchestra Rossa come quel passante che, davanti alla vetrina di una sala da ballo, guarda i suonatori senza udire la musica: altrettanto strampalate le evoluzioni dei ballerini, quanto derisoria l'attività di agenti da cui non giungono più informazioni. Berlino? Handicappata dal dilettantismo dei suoi pianisti e sorvegliata dalla Funkabwher. Bruxelles? Le auto-goniometri di Fortner continuano a scorrazzare per le strade. Parigi? Il Gran Capo non possiede un'emittente. Il generale Susloparov, rimpatriato con l'ambasciata sovietica, ha fatto fagotto senza consegnargli gli apparecchi più volte richiesti. Che fare? Suprema speranza, suprema idea: il Partito comunista francese. In via di principio, Trepper non ha diritto di mettersi in contatto con il Partito. Regola prima dei servizi sovietici è che una paratia stagna deve separare reti di informazione e Partiti comunisti locali. Ma, come ogni regola, anche questa ha le sue eccezioni. Un contatto annuale è previsto tra il “Direttore-Resi-

dente” e un emissario del Partito. L'incontro è sempre predisposto dal Centro. Trepper possiede una lista di appuntamenti. Se riceve una cartolina con la fotografia del Monte Bianco, sa che deve incontrare l'emissario del Partito in un certo posto; una veduta del Porto Vecchio di Marsiglia, corrisponde ad un certo altro luogo, eccetera. La data? Per ottenerla, basta aggiungere una cifra prestabilita alla data indicata dal timbro postale; l'ora è fissa. Se le circostanze lo richiedono, i due compagni possono stabilire appuntamenti più frequenti, mensili per esempio. Ma ci vuole il beneplacito di Mosca. Non sono cose semplici. Sappiamo che nel 1941 l'appuntamento annuale di Trepper ebbe luogo nel mese di dicembre. Prima o dopo l'irruzione di Rue des Atrébates? Lo ignoriamo, eppure è di importanza cruciale. È quasi certo che l'appuntamento ebbe luogo prima del 13 dicembre, altrimenti i problemi del Gran Capo sarebbero stati risolti più in fretta. È soltanto nel febbraio del 1942, infatti, due mesi dopo la catastrofe di Rue des Atrébates, che Trepper, tentando di rompere il proprio isolamento, ritrova il contatto con il Partito. Per cui è probabile che l'appuntamento di normale amministrazione abbia avuto luogo prima del 13 dicembre e che i due interlocutori abbiano convenuto di incontrarsi con maggiore frequenza. Due mesi persi! Per 60 giorni la fonte cui Mosca attingeva le informazioni più preziose è inaridita. Questo è il contraltare d'obbligo di un efficace sistema di paratie stagne; non sempre si può unire rapidità e sicurezza. I due mesi sacrificati alla sicurezza vi scandalizzano? Siete nel vostro diritto, ma allora dovete accettare l'idea che in un'altra occasione Mosca abbia sacrificato un

centinaio di vite alla rapidità; il telegramma che ordinava a Kent di recarsi con urgenza a sbloccare la rete berlinese e in cui figurava l'indirizzo di tre capi, abbiamo già detto che avrebbe dato il via a un gentleman in marsina, cilindro e guanti bianchi: il boia nazista. L'emissario del Partito si presenta all'appuntamento di febbraio con in mano il segno di identificazione stabilito: un giornale poco letto a Parigi. È abbastanza giovane, bruno, statura media, elegantissimo. Pseudonimo: Michel. Trepper gli sottopone le sue richieste. In primo luogo, il Partito deve incaricarsi di trasmettere a Mosca i messaggi accumulati in due mesi. La procedura è insolita, ma giustificata dall'urgenza. Perché non si perpetui, con il rischio di annullare il necessario sistema di separazione, occorre procurare alla rete, nel modo più urgente, una nuova emittente. Qualche giorno dopo, l'emissario porta a Trepper la risposta di Mosca. Il Direttore gli ordina, come abbiamo già visto, di mettersi in contatto con Yefremov e di insediarlo alla testa della rete belga. Acconsente in via eccezionale a che la rete affidi alle emittenti comuniste due o trecento gruppi cifrati alla settimana – è poco, ma le radio del Partito sono già sovraccariche. Quanto alla nuova emittente di cui ha bisogno Trepper, dovranno provvedere i tecnici comunisti. Entra in scena Fernand Pauriol. Egli è in qualche modo il pianista virtuoso del Partito, specialista delle “scatole musicali”, gran maestro dei collegamenti radio. Come ci è giunto? Lo ignoriamo: si tratta di un giornalista, ex-redattore capo del Rouge Midi, corrispondente da Marsiglia de L'Humanité. Bruno, tratti regolari, un'espressione seria e aperta insieme, sorriso da ragaz-

zo, sguardo pieno di calore. Consegna a Trepper un'emittente di sua fabbricazione. L'apparecchio non è abbastanza potente da farsi udire a Mosca, ma può raggiungere Londra, dove i messaggi saranno captati dalle radio riceventi dell'ambasciata sovietica e ritrasmessi al Centro. Resta solo da trovare un radiotelegrafista. È meno difficile di un'emittente. Certo, Camille è in carcere, e Trepper contava di impiegarlo a Parigi; ma Susloparov, benché non gli abbia fornito le emittenti, gli ha indicato una coppia in grado di strimpellare: i Sokol. Comunisti di origine russo-polacca, si erano fatti iscrivere alla delegazione sovietica chiedendo di essere rimpatriati. Professione: radiotecnici. Promettente. Il Gran Capo, tuttavia, non si è entusiasmato (non si entusiasma mai, lui) e per il tramite del suo “contatto” con il Partito, ha preteso un'inchiesta sui Sokol. Presto fatto: la coppia, giunta dal Belgio, è sconosciuta agli ambienti comunisti francesi. Allora sono state chieste informazioni al Partito comunista belga (avvertite la pignoleria di questo modo di procedere?). Risposta positiva. Militanti di una devozione assoluta, espulsi dal Belgio a causa della loro attività politica. Ma perché quel capriccio di fingersi radiotecnici? Secondo i belgi, Hersch Sokol è medico, sua moglie Myra è laureata in scienze sociali! Capriccio? No, un'astuzia, una pia menzogna per farla finita con un'esistenza da “spostati” e facilitare il ritorno nella madre patria. Hersch è nato a Byalistock nel 1908. La città era russa. Nel 1918 diventa polacca e Varsavia vieta l'insegnamento del russo, trascurando però di mandare sul posto insegnanti polacchi. Marasma pedagogico. La comunità ebraica organizza una scuola ma i genitori Sokol, commercianti agiati, preferiscono mandare i loro due figli presso un liceo tedesco, a Francoforte sul Meno. Hersch,

incredibilmente dotato, deciso, traboccante vitalità, termina le medie superiori a 16 anni. Poi esita tra la medicina e la carriera di musicista: è un ottimo pianista. Ha il sopravvento la medicina. Parte per Ginevra, si iscrive alla facoltà di medicina, studia due anni. Incontra un cugino emigrato nel Sudafrica che lo invita ad andare a lavorare nella sua azienda; accetta. Sei mesi in Inghilterra in un famoso college gli bastano per imparare l'inglese alla perfezione. Quindi Johannesburg e l'azienda del cugino: confezioni per signora. Hersch fa miracoli; viene mandato a Parigi in qualità di capo dell'ufficio acquisti. Vi resta un anno. Litiga con il cugino. E c'è anche il razzismo imperante a Johannesburg – insopportabile. Hersch torna a Ginevra, poi termina gli studi di medicina all'Università di Bruxelles. Vuole specializzarsi in pediatria. È allora che sposa Myra, nata nel ghetto di Vilna e laureata in sociologia a Bruxelles al termine di studi prestigiosi. Due soggetti brillanti, insomma. Ma stranieri in Belgio. Hersch non può esercitare la sua professione e a Myra non si offre alcuno sbocco. Lui diventa propagandista medico, lei segretaria di un deputato socialista. Prevedendo la difficoltà, avevano chiesto di essere rimpatriati in Russia un anno prima di finire gli studi. Rifiuto, con il pretesto che non era possibile trovare loro un alloggio a Mosca. Nel 1935, nuova domanda e nuovo rifiuto. Non potendo rientrare nella patria socialista, militano sul posto e si iscrivono nel Partito comunista belga – avevano già fatto parte di organizzazioni studentesche di estrema sinistra. La loro è un'attività di tipo soprattutto culturale. Hersch approfitta degli spostamenti in provincia per tenere una quantità di conferenze sul marxismo. Ma il Belgio, come tutti i paesi del mondo, vieta agli stranieri di dedicarsi ad un'attività politica sul proprio territorio.

Nel 1938, i Sokol sono espulsi e si rifugiano in Francia. All'indomani della dichiarazione di guerra, Hersch si arruola nella Legione Straniera. Viene smobilitato dopo la sconfitta. Che fare nella Francia occupata? Se si è ebrei, comunisti senza soldi e senza mestiere? Tentare di uscirne. Hersch e Myra presentano una terza domanda di rimpatrio alla delegazione sovietica a Parigi. Ma poiché questa volta si tratta di una questione di vita o di morte, Hersch scrive accanto alla voce “professione”: «radiotecnico». Mancando la Russia di tecnici, due radiotecnici forse troveranno più facilmente un alloggio che un medico e una sociologa. Hanno firmato la loro condanna a morte. Trepper cerca di mettersi in contatto con i Sokol. Trova solo Myra. Hersch è stato spedito al campo di concentramento di Pithiviers, dove sono chiusi gli ebrei stranieri. Il Gran Capo potrebbe rinunciare: invece si intestardisce. Il fatto è che ha riconosciuto in Myra, intuito in Hersch, tre qualità rare, e ancora più raramente riunite in un solo individuo: l'intelligenza, il coraggio, la fede. Impossibile lasciare quei due sul ciglio della strada, hanno diritto di combattere. Diventeranno pianisti. Myra inizia immediatamente il suo apprendistato. Ma come fare uscire Hersh da Pithiviers? *** La Ferté-Choisel, uno dei villaggi della vallata di Chevreuse e, al pari degli altri, scenografia accuratamente rifinita dove le comparse parigine vengono ogni fine settimana, in tenute di daino e velluto, a dare rappresentazione a se stessi. Quel mercoledì 28 aprile 1965 le strade sono deserte, le imposte chiuse e i fiori

inutili si annoiano nei giardini. Il visitatore si sente un po' il marchese di Carabas di questi feudi abbandonati; ma per trovare la casa degli Spaak, che fatica! È una delle più belle – con tutta probabilità per il semplice fatto che è abitata. Un giardiniere, immerso nella contemplazione di una rosa, non volta neppure la testa. La signora del castello mi conduce in uno studio arredato con mobili inglesi e dal pavimento coperto di moquette. La libreria è addossata ad una delle pareti. Davanti al tavolo di lavoro, un quadro di Magritte: due bei bambini in una scena surrealista. In un angolo, un registratore. Su un tavolino basso, una rastrelliera di pipe; scatole di tabacco sono disposte nei punti strategici della stanza. Dalla grande vetrata si gode la vista dei prati che scendono dolcemente verso un probabile fiume. «Là, tout n'est qu'ordre et beauté, luxe, calme et volupté». La descrizione di Claude Spaak si può ridurre a tre parole, se si conosce suo fratello Paul-Henri: esattamente l'opposto. Quanto Paul-Henri, l'uomo politico, è roseo, grasso e gioviale, tanto Claude, lo scrittore, è asciutto e austero. Ci vorrebbero i pennelli di Rubens per ridare nella loro trionfante pienezza le rotondità dell'uno; l'altro si adatterebbe alle linee scarne di Buffet. Spaak sceglie una pipa, la riempe e si siede alla scrivania. I capelli pepe e sale, una barba a collare un po' appuntita sul mento. La voce posata, tranquilla. Sceglie le parole con cura, sa condurre a meraviglia il racconto – dopo tutto è il suo mestiere. Certi amici belgi ci avevano mandato i Sokol perché li aiutassimo. Erano appena stati espulsi dal Belgio in ragione della loro attività comunista. Ciò accadeva prima

della guerra, naturalmente. Facevamo parte, mia moglie ed io, di un gruppo di intellettuali di sinistra e fu a questo titolo che ci chiesero di dare loro una mano. Abitarono un bel po' proprio qui, a Choisel. A mia moglie piacevano molto. Quanto a me, giudicavo il loro settarismo un po' eccessivo, un po' soffocante, ma ne ammiravo l'idealismo, l'assoluta purezza delle loro convinzioni. Erano due tipi a posto, molto per bene. Il patto russo-tedesco costituì per loro un vero e proprio dramma di coscienza. Finirono con il trovare un piccolo alloggio dalle parti della Tour Eiffel, ma continuammo a vederli con una certa frequenza. Un giorno – si era nel 1941, all'inizio del 1941 –, Myra ci disse che suo marito era stato arrestato in quanto ebreo straniero. Si trovava al campo di Pithiviers. Ma c'era una speranza di farlo uscire, perché Harry – noi lo chiamavamo Harry – era nato in una città della Polonia passata sotto il controllo dell'Armata Rossa. Ora, per via del patto russo-tedesco, i tedeschi lasciavano in pace gli ebrei polacchi nati nella zona di occupazione sovietica. Myra ottenne dalla delegazione dei Soviet a Parigi l'attestazione che suo marito rientrava in tale categoria. In realtà, credo che fosse addirittura cittadino sovietico, dal momento che la sua città era stata annessa all'URSS. Però bisognava trasmettere l'attestato a Harry perché se ne valesse presso le autorità del campo. Myra mi chiese di andare a Pithiviers. Mi ricordo che mi fece giurare sulla testa dei miei figli di consegnare il documento nelle mani di Harry; la delegazione l'aveva avvertita che sarebbe stato impossibile procurarle un altro attestato. Quel foglio di carta rappresentava quindi l'ultima possi-

bilità di salvezza per Harry. Perderlo, smarrirlo, significava condannarlo a morte. Presi un treno carico di povera gente che andava a trovare i prigionieri. La loro miseria era terrificante. A Pithiviers neppue una stanza d'albergo disponibile. Dovetti passare la notte in quello che è il caso di definire un bordello; mi diedero una stanza piccolissima. L'indomani mattina eravamo circa un migliaio, soprattutto donne, ad avviarci verso il campo. Un vero e proprio corteo scortato dai poliziotti. Arrivammo ad una specie di spiazzo incolto cintato da un reticolato di filo spinato altro 3 metri; ci pigiammo dentro. Di fronte a noi, oltre una no man's land larga una cinquantina di metri, una seconda “gabbia” circondata da filo spinato nella quale si schiacciavano suppergiù 500 detenuti. Abbiamo saputo molte cose, dopo il 1941, abbiamo letto o ascoltato molti racconti terrificanti, ma bisogna capire quale scossa fu per me la scoperta di quell'universo dantesco. Tutti quei poveracci erano come impazziti. Ci si gridava messaggi da una gabbia all'altra, si tendevano pacchi a braccia tese, le donne gemevano e piangevano... Era allucinante... Tra le gabbie circolavano poliziotti indifferenti... Ho potuto chiamare uno dei poliziotti e gli ho spiegato la situazione. Ha acconsentito ad andare a portare l'attestato a Harry. Io ho esitato – ricordavo il giuramento fatto a Myra. Gli ho detto: «SI rende conto che è la vita di quell'uomo che ha in mano?». Lui mi ha risposto: «Le do la mia parola d'onore che gli consegnerò il foglio». Rifiutò, però, di prendere un pacco che avevo portato. Era un gesto giustificato: se lo avessero visto andarsene con un pacco, si sarebbe scatenata una sommossa. L'attesa durò una mezz'ora e le posso assicurare che quei trenta minuti passati tra l'isterismo collettivo nella

mia vita contano. Poi il poliziotto tornò e mi tese un foglietto di taccuino sul quale erano tracciate queste parole: «Grazie Harry». Ebbi la sensazione di beneficiare di una specie di miracolo.

Ascoltando Claude Spaak penso ad un altro miracolo. Perché dovette essere una specie di miracolo anche per Alamo, quando Trepper gli salvò la faccia e gli evitò il ritorno a Mosca dove lo attendevano sanzioni disciplinari, forse la degradazione. In questo momento, Alamo è in attesa della condanna a morte in una prigione di Bruxelles. Se fosse partito per Mosca, gli avrebbero certo affidato quell'aereo che tanto desiderava e ora si troverebbe ad abbattere Stukas. Esistono miracoli ambigui. Lo stesso vale per Hersch Sokol, che Claude Spaak crede di aver salvato, che a sua volta si crede salvo quando oltrepassa, libero, il cancello del campo di Pithiviers. Lascia una morte relativamente facile – quella delle camere a gas – per l'agonia difficile che sopravviene dopo il supplizio. Dobbiamo compiangerlo per il fatto che, in questo funereo scambio, è il perdente? Dobbiamo cominciare a capire che, per la maggior parte degli uomini implicati in questa storia, l'impossibilità di battersi era una sorte peggiore della tortura e della morte. Hersch Sokol lascia Pithiviers per battersi. *** Procedo nel mio racconto accompagnato dal rullo sordo dei tamburi delle esecuzioni capitali, agito l'orribile marionetta vestita come un lord inglese e, quale Angelo Sterminatore delle

Scritture, iscrivo la croce di sangue sulla fronte di coloro che devono morire. Sophie Poznanska è l'unica ad averci lasciati? Siate pazienti, avrete i vostri fucilati, i vostri impiccati, i vostri decapitati, udirete le grida dei torturati di cui si straziano le carni. Ma avete ragione voi e torto io: anziché drizzare in anticipo forche e patiboli, meglio attenersi a questo bilancio: una sola vittima per sette mesi di frenetica attività. Il capo di una grande rete francese della Resistenza un giorno mi diceva: «Ho avuto comunque l'onore di dirigere l'organizzazione che ha contato più perdite». Trepper si onorerebbe piuttosto di una contabilità alla rovescia. Una buona rete non ha storia. E, nonostante gli errori del gruppo berlinese, nonostante la disfatta di Rue des Atrébates, l'Orchestra Rossa continua a suonare la sua sinfonia con Hersch Sokol al pianoforte. Berlino ne è frastornata. La cattura dell'emittente di Rue des Atrébates? Un buco nell'acqua. Bisognava scovare tutte insieme le tre emittenti di Bruxelles, anziché dare l'allarme a due pianisti i quali ricominceranno a lavorare non appena la tempesta si sarà allontanata. E poi, a che serve impadronirsi di una radio se l'organizzazione resta intatta? Fortner ha visto rosso e si è buttato a testa bassa anziché predisporre pazientemente l'operazione. Sapeva che al numero 101 di Rue des Atrébates c'era uno dei rifugi della rete: perché non ha insediato di fronte allo stabile una “base” da cui fotografare i visitatori sospetti? Perché non ha fatto pedinare i corrieri per risalire ai capi? Bilancio della sua operazione: Rita Arnould che chiacchiera, ma non sa quasi nulla, Alamo e Camille che tacciono, la Poznanska che si ammazza. Un ben misero bottino...

l'Abwehr richiama i suoi cani per rilanciarli. Si tenterà di ritrovare la pista della selvaggina scomparsa, ma questa volta agendo con più pazienza. Poiché gli uomini si sono involati, non resta che dedicarsi agli scritti: i telegrammi del PTX registrati da mesi dai servizi d'ascolto tedeschi. Tali telegrammi fanno disperare gli “interpreti” della Wehrmacht cui la Funkabwher li ha affidati. Come si scopre il segreto di un testo cifrato? Per lo più grazie alle “frequenze alfabetiche”. Se il testo è redatto in francese, per esempio, è evidente che la a e la e ricorreranno più spesso della x o della z. un calcolo statistico consente, quindi, di scoprire quali lettere hanno sostituito, nel testo cifrato, le lettere più frequenti della lingua in questione. A partire da questo punto, diventa relativamente facile dedurre il resto. Ma la rete sovietica si serve di una tecnica particolarmente complessa: un codice combinato con una graticola sovrapposta alla cifra base. Grazie a questo sistema è possibile cifrare 5.000 telegrammi prima che facciano la loro comparsa le prime ripetizioni suscettibili di destare sospetti. Sarebbe come dire che la partita è persa in partenza. La Funkabwher non rinuncia. Siccome la Wehrmacht dichiara forfait, avrà i suoi “interpreti”. Viene ingaggiato uno specialista, Kludow1, cui è affidata una quindicina di studenti di matematica e filologia ai quali insegnerà la sua arte. Quanto ai telegrammi intercettati, si trovano a Bruxelles. La Funkabwher ne pretende l'immediata restituzione. Bruxelles risponde allegramente che sono stati buttati nel fuoco: non si capiva che interesse potesse esserci a conservarli, dal momento che erano indecifrabili. Tuoni e fulmini! È dunque tutto perduto? No, poiché le 1 Pseudonimo dato dall'autore.

stazioni d'ascolto tedesche generalmente devono conservare per 3 mesi copia dei telegrammi captati. La Funkabwher spedisce in fretta e furia un ufficiale alle quattro stazioni che hanno spiato il PTX. A Göteborg raccoglie una dozzina di telegrammi; gli altri sono stati usati per scarabocchiarci appunti. A Langenargen, gli dicono che tutti i testi sono stati mandati a Stoccarda dove esiste una scuola di deciframento e interpretazione 2; piomba a Stoccarda e raccoglie qualche messaggio. Ad Hannover, il raccolto è scarso: quasi tutto è andato distrutto. A Cranz, l'ufficiale viene condotto in certi sotterranei dove sono ammassati enormi sacchi colmi di telegrammi; sono destinati ad una cartiera; dopo parecchi giorni di ricerca, l'ufficiale torna a Berlino con il suo bottino. Ha salvato dal disastro circa 300 telegrammi. Non bastano per consentire agli “interpreti” di compiere il loro lavoro con qualche probabilità di successo. Vengono però sottoposti a Kludow i documenti trovati assieme all'emittente di Rue des Atrébates. Sono stati strappati da un poliziotto tedesco dalla stufa nella quale Camille li aveva gettati. Kludow studia i foglietti mezzo carbonizzati e scopre che uno di essi rappresenta una graticola da applicare al codice base. È la prova che i telegrammi del PTX erano cifrati in Rue des Atrébates. Dopo parecchi giorni di tenace lavoro, Kludow riesce a ricostruire una delle parole della graticola. Fortunatamente si tratta di un nome proprio, il nome di un protagonista del libro usato dall'addetta al codice Sophie Poznanska. Le reti sovietiche, infatti, praticano la traduzione in cifra in base ad un libro di cui il Centro possiede un'altra copia. Per la Funkabwher si leva l'alba 2 Il deciframento consiste nell'applicare ad un testo un codice che già si possiede. L'interpretazione consiste, invece, nello scoprire il senso del testo scoprendo il codice nemico.

della vittoria. Questo perché, da un lato, si sa che i telegrammi venivano cifrati in Rue des Atrébates; dall'altro, che il libro usato per la traduzione in cifra contiene un certo nome proprio. Conclusione: basterà recuperare i libri rimasti in Rue des Atrébates ed esaminarli con cura per scoprire quello che serviva da codice. Dopo di che non ci vorrà molto perché i telegrammi recuperati svelino il loro segreto. La risposta di Fortner alla telefonata di Berlino è un tantino impacciata. Fortner spiega che la trappola tesa in Rue des Atrébates è rimasta in funzione solo qualche giorno, dopodiché si è fatto fagotto. Allora sono arrivati due sconosciuti con una carriola e si sono portati via la biblioteca. Nella casa non resta neppure più un libro... Maledetto Fortner! E Rita Arnould? Doveva pure spolverarli, quei libri. Chissà che non ne ricordi i titoli. Rita ammette che numerosi libri si trovavano sul tavolo della Poznanska, ma si ricorda solo cinque titoli. Quattro di essi sono reperibili nelle librerie belghe o tedesche, ma quel famoso nome proprio non figura. Si spedisce un emissario a Parigi per acquistare il quinto: Le miracle du professeur Wolmar di Guy de Téramond. È quello buono! Ai primi di giugno del 1942, Kludow e la sua squadra possono attaccare i 300 telegrammi del PTX. La ruota della fortuna comincia a girare. Berlino, tuttavia, non canta ancora vittoria. In realtà, Berlino è spaventata e bisogna capire che tutte queste peripezie si svolgono in un'atmosfera di catastrofe. Prima, l'emittente fantasma berlinese. Poi, i documenti tedeschi trovati in Rue des Atrébates e quella ragazza, quella Rita Arnould, che dichiara tran-

quillamente: «Ma sì, certo, qui il lavoro si faceva in tedesco». Nel cuore del Reich, dunque, esiste una cellula di spionaggio che si fa gioco di tutti i servizi di polizia. È proprio allora che il Führer ammette: «I bolscevichi sono superiori a noi in un solo campo: quello dello spionaggio». E Schellenberg, capo del Servizio informazioni delle SS, scrive: [Hitler] chiedeva e richiedeva informazioni sulle nostre attività di controspionaggio. Giudicava i servizi segreti russi infinitamente più coscienziosi e probabilmente più fruttuosi di quelli degli inglesi o di qualsiasi altro paese. Per una volta, il suo intuito non lo ingannava. Verso la fine del 1941, aveva impartito ordini perché fossero immediatamente centrate le attività dello spionaggio russo che si propagavano con rapidità nella stessa Germania e nei territori occupati.

E il registro delle comunicazioni telefoniche del Reichsführer Himmler attesta delle sue interminabili conversazioni con Heydrich sul tema dell'Orchestra Rossa... All'Abwehr e tra le SS della Gestapo si vedono musi lunghi e i sorrisi sono rari e forzati; si sente mormorare spesso e volentieri, con l'aria di chi la sa lunga: «Sono forti, fortissimi...». *** Naturalmente avrete sentito parlare di quell'ex-combattente dei Freikorps del Baltico e della Slesia, di quel complice degli assassini del ministro Rathenau il quale, dopo aver espiato la sua pena, scrisse I proscritti, I cadetti, La città, Io resto prussiano, e

di cui qualcuno sostiene che sia il più grande scrittore tedesco vivente: Ernst von Salomon. I nazisti lo tenevano d'occhio; lo gettarono perfino in prigione di tanto in tanto, ma bisogna dire che tutti i regimi finiscono, un giorno o l'altro, con il gettare in prigione Salomon. La prudenza di cui diede prova gli evitò il peggio. Una delle ragioni di questa prudenza si chiamava Ille. Era giovane, bella, spensierata ed ebrea – la Gestapo ignorava quest'ultima caratteristica. Tra le loro numerose relazioni figurava una simpatica giovane coppia di sposi: Harro e Libertas Schulze-Boysen. Harro ci invitò da certi suoi amici, un certo signor Harnack imparentato strettamente con il celebre teologo defunto Adolf Harnack. Conoscevo il signor Harnack e sua moglie, di origine americana, per averli visti all'ambasciata russa. Gli Harnack abitavano in un grande, comodo appartamento. Ille ed io ci trattenemmo un'ora, poi ce ne andammo. Avevamo l'abitudine di abbandonarci al vizio del pettegolezzo, il quale vuole che si esprima la propria opinione sugli ospiti appena varcata la soglia dell'appartamento e, nei migliori dei casi la porta della casa. Quella volta Ille cominciò appena uscita dall'appartamento. Disse: «Che tipi formidabili! Si appoggiano con negligenza alla mensola di un caminetto, con in mano una tazza di tè ti raccontano incidentalmente certe cose... Certe cose! Ogni frase può costare loro la testa!». Io tacevo; a casa nostra, Ille faceva altrettanto. Disse: «Sento qualcosa di sinistro! Credo di potermi fidare della mia intuizione!» (la sua voce si faceva insistente). «Pro-

mettimi che non ci torneremo mai più! Non voglio perdere la testa così, incidentalmente! Non voglio!». Io tacevo. Era bene che Ille la pensasse così. Se solo avesse pensato così sempre! Riprese: «Sono cose che mi piacciono! Un gruppo di persone si riunisce, persone distinte, eleganti, e parlano di rapporto trasversale, sia di che cosa si tratta?». Lo sapevo, ma tacevo. Ille disse: «E poi ti parlano di Hitler e di Himmler, di Rosenberg e di Frick, come se fossero dei perfetti idioti, e lo vengono a raccontare a me, a me che non li conosco, che non li ho mai visti, a parte gli Harnack e i Schulze-Boysen...». Ille si fermò nel bel mezzo della strada, rimestò con una mano in un'immaginaria tazza di tè e disse: «... Mi raccontano: “Vede, signora, lo da una fonte assolutamente sicura, ho un contatto diretto con Zurigo... ovviamente ci scambiamo informazioni!”. E poi, quel signore strizza l'occhio ad un altro e dice: “Mi scusi un attimo, signora”, si alza e consegna all'altro una busta gialla con le parole “strettamente confidenziale” e torna a strizzare l'occhio! E io, resto lì e ho l'impressione di non riuscire più a respirare e vado in giro a informarmi chi è questo e chi è quest'altro. E vengo a sapere che uno è consigliere ministeriale e l'altro “vice” qualcosa e un terzo SS e un quarto diplomatico... Dimmi un po', ci capisci qualcosa, tu?». «Sì, sì, è come dici tu», dico. «Dai, vieni!»3.

Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack sono i capi della rete berlinese; quella sera ricevevano, mescolati agli invitati, un certo numero di loro agenti. Tutti gli sbirri del Terzo Reich sono tenuti 3 E. von Salomon, Le Questionnaire, Gallimard, 1953, p. 389.

in scacco da questi eleganti pazzi che si scambiano buste gialle e strizzatine d'occhio con aria da congiurati da melodramma. Il 22 maggio del 1942, durante un pranzo svoltosi nell sala del suo quartier generale di Rastenburg, in Prussia Orientale, Adolf Hitler dichiara: Oggi gli individui che si dedicano allo spionaggio vengono reclutati principalmente nella cosiddetta buona società o nel proletariato. La gente dei ceti medi è troppo seria per dedicarsi a questo tipo di attività. Il mezzo più efficace per combattere lo spionaggio sarebbe di persuadere coloro che sono tentati di dedicarvisi che non avrebbero assolutamente alcuna possibilità di salvare la testa nel caso in cui si facessero prendere4.

4 A. Hitler, Libres Propos, Flammarion, 1954, vol. I, p. 138.

XII. LE SS ALLA RISCOSSA

Franz Fortner aveva rilasciato quasi subito la giovane indonesiana caduta nella trappola di Rue des Atrébates: Suzanne Schmitz non faceva parte della rete. Qualche giorno dopo l'uscita dalla prigione, ricevette da Carlos Alamo la seguente lettera, di cui abbiamo rispettato gli errori di grammatica e ortografia: Prigione di St Gilles Bracio D cella 193 Cara Susone, scusate i fastidi che vi ho causati che non dipendono dalla mia volontà. Siccome gli indisi contro me sembrano molto gravi, non posso prevedere né la lunghezza dell'instruttoria, né il risultato finale. Però avendo la cosciensa pulita mi sento tranquillo e il morale è quasi alto. Cara Susone, Io vi sarei molto riconoscente se poteste dire a Bill, che aspeto da lui un 2-3 pacheti di sigarette. Il problema di tabacco è il più difficile qui ed è moltissimo penoso non fumare.

Se Io sapessi l'indirizzo attuale di Bill, vi eviterei, cara Susone, la noia di andare ad avvertirlo... Vi porgo i miei migliori saluti e credere che tutti i miei penzieri sono per voi. VOSTRO CARLOS ALAMO P.S. Mi sembra che per poter scrivere da qui bisogna avere buste e francobolli, e io sono ridoto allo stato di elemozinare questo di voi, Susone. P.P.S. Sembra che possa scrivere a una sola persona. Ho scelto voi tra tutte le altre. Non vi arrabbiate per questo. Non ho voluto vedervi quando eravate all'Hôtel de la Gare du Midi, perché non mi ero fatto la barba già da qualche giorno e il mio aspeto non era quello di un Gentleman. Non preoccupatevi della mia sorte: sono un grande fatalista e se mi capita qualche cossa – vuol dire che ciò era scritto nel libro della mia vita. Dio sa quel che fa. Mi piacerebbe molto passare con voi un'ora adesso... Ma ci rivedremo ancora poiché siamo ottimisti, non è vero? Per il momento i tedeschi erano abbastanza corretti con me. La mia cella è abbastanza carina; peccato che mi trovi solo. Se almeno avessi qualche cosa da leggere... Arrivederci mia cara Susone, vi ho abbastanza annoiato. Vi bacio con molta tenerezza. Carlos.

Abbiamo detto che Fortner non era un aguzzino: «per il momento i tedeschi sono abbastanza corretti con me». Sappiamo anche che era un po' ingenuo: lascia passare la lettera senza battere ciglio e neppure interroga Suzanne circa il misterioso Bill che deve andare ad avvertire. Peggio ancora: quando il prigioniero,

decisamente scosso dalle conversazioni avute con Bill Hoorickx, chiederà una Bibbia a quest'ultimo, Fortner non avrà la curiosità di cercare il personaggio che, per il tramite di un'affascinante indonesiana, trasmette ad un agente comunista un'opera di cui il Centro non fa certo il proprio breviario. La lettera è firmata Carlos Alamo, come le successive. Ma, dopo un lungo silenzio del prigioniero, Suzanne Schmitz riceve una missiva firmata “Michel Makarov-Carlos”: non ci capisce niente. Il Gran Capo, invece, ha paura di aver capito benissimo. Il suo gruppo speciale di sorveglianza lo aveva avvertito del trasferimento di Alamo: lasciava la prigione Saint-Gilles per destinazione ignota. Qualche settimana più tardi, i suoi agenti lo informano che un certo Michel Makarov, arrivato da Berlino, è stato incarcerato a Saint-Gilles. Evidentemente Trepper ignorava l'esatta identità del russo; ne conosceva soltanto lo pseudonimo. Via radio, domanda a Mosca: «Chi è Makarov?». Risposta: «È Alamo». Dunque, ha parlato. Per lo meno ha rivelato la propria identità. E che altro? Gli agenti della rete di Bruxelles? Il codice basato su Le miracle du professeur Wolmar, che è servito a cifrare la maggior parte delle informazioni inviate dal gruppo berlinese? Il Gran Capo immagina probabilmente insopportabili torture: si sbaglia. Alamo, trasferito a Berlino, è stato alloggiato, nutrito, curato e coccolato al domicilio del Kriminalrat Karl Giering, dignitario delle SS. *** Walter Schellenberg:

[Per ordine di Hitler] Himmler fu incaricato di presiedere alla stretta collaborazione del mio servizio di informazione all'estero, con il servizio di sicurezza di Müller alla Gestapo e il controspionaggio di Canaris. Tale operazione – che ebbe il nome in codice “Orchestra Rossa” – era coordinata da Heydrich1.

È un po' confuso (tutto è confuso nell'edificio bizantino dello Stato nazista), ma è di importanza capitale. Lo si intuisce già all'enunciazione dei nomi: Himmler, Reichsführer delle SS, l'uomo più potente della Germania dopo Hitler; Heydrich, capo del SD, quindi di tutte le polizie tedesche; Müller, detto “Gestapo-Müller” perché la tiene nel suo pugno brutale; Schellenberg, capo del Servizio informazioni delle SS; l'ammiraglio Canaris, capo supremo dell'Abwehr, servizio di spionaggio e controspionaggio della Wehrmacht. Schellenberg è geloso di Müller, che a sua volta lo detesta ma lo tratta con riguardo, perché Heydrich sembra proteggerlo pur minacciandolo di tanto in tanto, a seconda se si trova egli stesso in posizione di forza o di debolezza nei confronti di Himmler, il quale ammira Heydrich, la qualcosa implica che lo teme e non esita a servirsi di lui, di Müller e di Schellenberg, che esecrano tutti e due Heydrich, eccetera, eccetera. Ma Heydrich, Müller e Schellenberg hanno almeno un denominatore comune: l'odio per Canaris. Le loro dispute intestine? Pallide scaramucce di fronte alla guerra santa che conducono contro di lui e che, dunque, contrappone tutte le organizzazioni delle SS ai militari tradizionalisti dell'Abwehr. 1 Op. cit., p. 354.

Ogni paese conosce simili rivalità tra i servizi di informazione concorrenti. La fratellanza – vale a dire l'odio vigile – oppone da sempre la CIA al FBI, il SDECE alla DST, l'MI6 alla Special Branch, il KGB ai servizi dell'Armata Rossa. Ma la lotta delle SS contro l'Abwehr presenta, malgrado tutto, un tratto singolare: si conclude sul patibolo. È un duello all'ultimo sangue condotto in modo ipocrita, a colpi di pratiche confidenziali in merito alla nonna Sarah di Heydrich, ai compromessi finanziari di certi agenti dell'Abwehr, ai contatti di Canaris con il nemico. Ne conosciamo l'esito: l'assorbimento dell'Abwehr da parte delle SS nel febbraio del 1944 e l'esecuzione dei suoi capi. Il piccolo ammiraglio Canaris sarà impiccato all'alba glaciale del 9 aprile, nudo come un verme, al rombo lontano del cannone alleato. Le SS, per far durare più a lungo il supplizio, useranno una corda di pianoforte sottilissima. *** In base all'ordine impartito all'inizio del 1942 dal Führer esasperato, gli acerrimi nemici saranno costretti a collaborare. Viene creato un gruppo misto, il “Kommando Orchestra Rossa”, incaricato di liquidare l'organizzazione del Gran Capo. Per quest'ultimo, non potrebbe esistere omaggio migliore dell'alleanza senza precedenti di tutti i servizi tedeschi contro un nemico giudicato troppo pericoloso perché lo si possa attaccare in ordine sparso – ma quanti pericoli si prospettano... Il colonnello Rémy scrive:

Oggi conosciamo in tutti i particolari la lotta feroce che Himmler, capo supremo della Gestapo, non ha cessato di portare all'ammiraglio Canaris, capo dell'Abwehr. Noi abbiamo beneficiato in larga misura di tale concorrenza 2.

Il Gran Capo, invece, non ne beneficerà. Ancora Rémy: La regola del gioco voleva che fossimo fucilati se ci catturavano: l'Abwehr non veniva meno alla regola e noi non potremmo trovarci niente da ridire. Ma nella maggior parte dei casi i suoi ufficiali conducevano gli interrogatori con perfetta correttezza e mi consta che parecchi esempi di processi istruiti da loro, nonché di verdetti, che si potrebbero citare come modelli del genere [...]. con la Gestapo, di cui sono costretto a riconoscere che i metodi inumani erano più efficaci, le cose andavano diversamente3.

Le SS del “Kommando Orchestra Rossa” sapranno essere inumane. Ma tornano alla riscossa con due armi più temibili di tutti gli strumenti di tortura: l'esperienza e l'intelligenza. *** Fortner si recava spesso a riferire a Berlino. Vi aveva acquisito una sorta di celebrità; alla mensa ufficiali lo additavano; i suoi colleghi lo chiamavano “il direttore dell'Orchestra Rossa”. Tutto ciò era piacevolissimo. Ma un giorno i suoi superiori lo con2 Colonel Rémy, Mémoires d'un agent secret de la France libre, France-Empire, 1959, vol. 1, p. 327. 3 Ibid., vol. 2, p. 413.

vocano per dargli una notizia stupefacente: doveva collaborare con le SS. Fortner ne fu sconvolto, come lo sarebbe stato qualunque gentleman dell'Abwehr. Lavorare con quei beceri! Mentre uno badava a mantenere le distanze! Mentre certi ufficiali avevano, della Gestapo, un tale orrore da non riuscire neppure a nasconderlo ai loro prigionieri. Dicevano, ai prigionieri: «Io che sono dell'Abwehr, stia certo che non le torcerò un capello in alcun caso. Da noi certe cose non si fanno. Solo, vede, se si ostina a tacere sarò costretto a consegnarla alla Gestapo. E allora, povero amico mio, le lascio immaginare... Non crede che sarebbe più ragionevole avere una franca conversazione tra gentlemen, dal momento che finirà comunque per parlare?». Era, insomma, una ripartizione del lavoro efficace e pulita, mentre se si agiva insieme c'era il rischio di insudiciarsi. Fortner era di malumore, mentre si recava all'appuntamento fissato dal Hauptsturmführer delle SS Karl Giering, capo del “Kommando Orchestra Rossa”. Vide un tipo altissimo e magrissimo dall'aria cadaverica, che gli tese la mano sorridente e disse con voce rauca: «Sa, io sono un vecchio poliziotto e non una SS: è d'accordo che si collabori?». I due uomini si diedero del tu. *** Giering è uno dei migliori poliziotti di Germania – molti dicono: il migliore. Ogniqualvolta c'è stato un attentato alla vita di Hitler, è lui che si è visto affidare l'onore di dirigere l'inchiesta. A causa della sua devozione al nazismo? No di sicuro: per Giering, Adolf Hitler è il capo dello Stato; metterebbe altrettanta passio-

ne nello scoprire gli aggressori di un Führer socialista o comunista. La sua filosofia è la stessa del suo fedele braccio destro, Willy Berg, il quale proclama spesso e volentieri: «Io sono stato poliziotto del Kaiser, poliziotto sotto la Repubblica di Weimar, sono poliziotto sotto Hitler e sarò ancora poliziotto se Thaelmann 4 prenderà il potere». Quando la polizia tedesca è stata integrata in blocco nelle SS, i due compari si sono visti attribuire l'uniforme nera delle pecorelle di Himmler e un grado nella gerarchia. La cosa non fece loro né caldo né freddo, naturalmente. Un sorrisetto in tralice magari, come quando ci si traveste da preti o da mendicanti per appostarsi davanti all'alloggio di un tipo sospetto. Il fatto è che un lungo soggiorno nelle file della polizia ti vaccina contro il fanatismo. Se ne vedono troppe, se ne sanno troppe, si respirano troppi odori nauseanti. Giering possiede informazioni piccanti sui “superuomini nazisti”; non si fa menare per il naso, lui. È altrettanto lontano dai gentlemen dell'Abwehr, che credono in Dio, quanto ai beceri delle SS che ripongono la loro fede nel demonio. Lui non crede in niente, e soprattutto non nell'uomo: un vero poliziotto. Il suo universo è quello degli uffici freddi e tristi dove mangi un panino dando del tu al prigioniero. In generale, l'Abwehr rispetta l'avversario sfortunato; le SS amano vederne schizzare il sangue; Giering, invece, vuole semplicemente che si metta a tavola. In ciò spiega molta intelligenza, un'astuzia da vecchia volpe, al caso una certa stizza. I suoi excollaboratori proclamano: «Era il migliore». I suoi avversari di un tempo riconoscono: «Era il più pericoloso». Il suo aiutante e confidente, Willy Berg, è della stessa tempra: due anime gemelle, si oserebbe dire. Berg è stato guardia 4 Capo del Partito comunista tedesco.

del corpo di Ribbentrop in occasione del famoso viaggio a Mosca che vide la firma del patto russo-tedesco. È molto piccolo e rotondetto e ciò crea un comico contrasto con l'interminabile e filiforme Giering. Un don Chisciotte e un Sancio Panza che entrano nella nostra storia a braccetto, lo sguardo cinico, un sogghigno sulle labrra, tutt'altro che ingannati dalle declamazioni del bravo “Heini” Himmler circa il «marciume giudaico che devono spazzare via», un tantino abbacinati, malgrado tutto, dall'immenso campo di azione che si spalanca loro davanti. Particolare interessante: Giering è condannato e lo sa. Deve quella sua voce da avvinazzato ad un tumore canceroso che gli rode la gola. Fatto singolare, i medici si limitano a due rimedi: il caffè e l'alcol. Giering fa un consumo prodigioso sia dell'uno che dell'altro. Ogniqualvolta si evocherà il capo del Kommando, non si dimentichi la bottiglia di cognac sulla sua scrivania e la caffettiera sulla stufa o su un fornelletto portatile. Si tenga altresì presente la gara di velocità in atto tra Giering, il quale può distruggere l'Orchestra Rossa, e il cancro che distruggerà Giering. Alamo è senza dubbio l'agente più importante pescato in Rue des Atrébates. Non ha detto nulla a Fortner. Giering ne ordina il trasferimento a Berlino. Potrebbe farlo torturare, perché il suo Kommando conta alcuni esperti in materia. Giering non è contrario alla tortura, in via di principio, ma la tortura deve essere efficace. Pesa il suo uomo: un puro, un entusiasta, un vizioso del sacrificio, un affamato di eroismo. Se gli si dà l'occasione di godere tra i supplizi bramendo L'Internazionale, si sta freschi. Quindi, lisciargli il pelo, farselo con la dolcezza. Si chiacchiera attorno alla bottiglia di cognac. Alamo si lascia sfuggire di aver combat-

tuto in Spagna. In che arma? Che domanda! Ma nell'aviazione, naturalmente! Alamo non è più padrone di sé quando si tratta di aeroplani. Nel cervello di Giering scatta un ingranaggio. La sera stessa Alamo lascia la sua cella e trasloca nell'appartamento del poliziotto. Viene presentato ad un ragazzone malinconico, ex-pilota della Luftwaffe cui è stata amputata una gamba: il figlio di Giering. I giorni seguenti, appassionate conversazioni e quei contorcimenti di mani di cui tutti i piloti si servono per evocare i duelli aerei. Non era una cattiva idea. Ma Alamo limita le sue effusioni all'Aeronautica: non rivela né il codice, né l'organigramma della rete di Bruxelles. Fallito il bersaglio, Giering lo rispedisce alla prigione di Saint-Gilles. Comunque, abbiamo avvertito la mano di un maestro.

XIII. FRANZ FORTNER RITROVA LA PISTA

Fortner procede nel suo apprendistato. Per il momento, a Bruxelles gli danno carta bianca. Giering ha capito che l'unica speranza di riprendere l'offensiva in Belgio risiedeva in Rita Arnould. Ora, per cortesia sincera, Fortner ha assunto immediatamente nei confronti di Rita l'atteggiamento che Giering adotta per astuzia nei riguardi di Alamo. E siccome la ragazza è più malleabile del russo... Rita ha rivelato pseudonimi preoccupanti: “il Gran Capo”, “il Piccolo Capo”, “il Professore”, eccetera, e fornito un certo numero di segnalazioni. Del suo amante Romeo Springer ignora il recapito, ma sa che si reca spesso alla Borsa di Bruxelles. Fortner si dedica ad un'inutile indagine; l'uccello si è involato senza lasciare tracce. Però, riceve una denuncia utile: gli consigliano, se si interessa a Springer, di sorvegliare la donna che alla Borsa dirige il servizio di dattilografia. Fortner scopre che la donna infila nella corrispondenza ufficiale dei messaggi diretti ad un impiegata degli uffici parigini della Camera di Commercio belga. Sicché la rete avrebbe un prolungamento in Francia? Fortner fa

eseguire fotocopie delle missive e le lascia giungere alla destinataria. Questa deve servire da “cassetta delle lettere”. Viene posta sotto sorveglianza. Fortner interroga Rita anche sull'agente che lavorava nel bellissimo laboratorio di falsario installato in Rue des Atrébates. Rita fornisce alcuni dati, sa che è un ebreo polacco, ma ignora il suo indirizzo e i luoghi che frequenta. Gli indizi sono scarsi, ma Fortner si ritrova a casa sua: un falsario di prim'ordine non si crea da un giorno all'altro, e rischia di attirare l'attenzione della polizia nel corso della carriera. Fortner ne ha fatti condannare parecchi quando era giudice istruttore. Si rivolge alla polizia belga e scopre nel suo archivio che un certo Abraham Raichman, ebreo polacco, è stato sospettato prima della guerra di fornire all'apparato comunista clandestino banconote false. I dati segnaletici riportati sulla scheda personale corrispondono a quelli forniti da Rita. Ma come ritrovare Raichman? È a questo punto che il destino strizza l'occhio per la prima volta a Fortner. Uno dei suoi aiutanti, Weigelt1, lo informa che conosce un poliziotto belga in grado di fornire falsi documenti all'Abwehr. Interessante, perché gli informatori di Fortner devono cambiare spesso identità e la polizia belga, nel complesso, non è abbastanza sicura perché ci si possa fornire da lei. Il prezzo richiesto? 1000 franchi ogni carta d'identità. Fortner fa una smorfia, ma poiché Weigelt gli riferisce che il poliziotto in questione presenta un interesse supplementare, cioè il fatto di essere in contatto con una rete comunista, chiede di conoscerlo. L'ispettore di polizia si chiama Mathieu; il suo “contatto” è Abraham Raichman. 1 Pseudonimo dato dall'autore.

*** C'è altrettanta differenza tra un Raichman e un Alamo quanto, ad esempio, tra Giering e una SS tipica. Alamo, ufficiale sovietico, serve nelle fila di una rete come un ufficiale francese può essere assegnato al Deuxième Bureau. Lascerebbe senza rimpianti il travestimento per indossare un'uniforme. Per Raichman, quel travestimento è come una tunica di Nesso: non potrebbe sfilarsela senza scorticarsi vivo. È un militante rivoluzionario, un professionista della cospirazione: proviene dal Komintern. Fino allo scoppio della guerra, esiste in ogni paese un Partito comunista che lotta per i suoi obiettivi nell'ambito del quadro nazionale. C'è, sul piano internazionale, il Komintern che coordina le attività locali per integrarle nell'offensiva generale. Il Komintern è, insomma, lo Stato Maggiore della rivoluzione mondiale. I suoi membri, selezionati tra i migliori elementi dei partiti, costituiscono un'aristocrazia; ne posseggono le qualità e i difetti. La loro caduta avvenne con Stalin, il quale sacrificò la rivoluzione mondiale al rafforzamento della sola URSS. La storia delle prime purghe staliniane è, in parte, la storia del ridimensionamento del Komintern. Grande rivalità, naturalmente, tra i servizi segreti sovietici e le reti del Komintern. I primi, di stretta osservanza staliniana, lavorano per la Russia, i secondi sono al servizio dei proletari del mondo intero. Occorre però guardarsi dalle generalizzazioni: Trepper, agente del Centro, è per natura più vicino ad un Raichman, agente del Komintern, che un Alamo, suo collega al Centro;

sfugge ad una classificazione semplicistica. Quando Kent e Alamo sbarcano a Bruxelles, recitano al Gran Capo le istruzioni ricevute al Centro; tra le altre: non avere avventure femminili e tenersi lontani dai locali notturni. «Perfetto», risponde Trepper, «allora suppongo che abbiate lasciato il vostro sesso in magazzino a Mosca, no? Ah, è una seccatura! Allora, io vi dico: se una donna vi piace, andateci. Solo, siate prudenti». Questa risposta in stile Komintern avrebbe un brutto effetto al Centro, in via Znamenski. Gli uomini del Centro recitano la parte dei tecnici freddi ed efficienti; giudicano pittoreschi dilettanti gli agenti del Komintern che si danno da fare per perpetuare la tradizione romantica. Al Centro ci si veste da uomini d'affari; al Komintern, spesso e volentieri, si hanno le unghie sporche e i capelli lunghi sul collo. Allo scoppio della guerra, gli agenti del Komintern affrontano la battaglia gravemente handicappati. Fanno parte di un'organizzazione in disgrazia; molti di essi hanno avuto dei contrasti ideologici con il Cremlino. Ci si serve di loro ma li si tiene d'occhio. Se capita loro una disgrazia, non ci si fa di certo in quattro per aiutarli. Essere arrestati costituisce la suprema disgrazia. Ma in questo abisso vi sono pur sempre delle gradazioni. Alamo, per esempio; il suo caso è semplice, era un ufficiale russo; il suo paese è in guerra con la Germania, quindi egli si batte contro di essa. Neppure una SS potrebbe trovarci qualcosa da ridire. Un agente del Komintern, invece, si porta appresso una lunga storia di cospirazioni, di scioperi insurrezionali, di sollevazioni armate. E soprattutto, se ha agito in quella Germania che fu, fino all'avvento di Hitler, il campo cintato delle truppe del Komintern contrapposte

agli uomini dei Freikorps, poi a quelli delle formazioni naziste. Eterni scontri per le strade, con i cadaveri mutilati ritrovati negli androni, rapimenti, torture, spedizioni punitive, assassini individuali o plotoni di esecuzione della repressione collettiva: i conti da regolare sono molti e gli odi più vivaci nascono dal carnaio della guerra civile. Ci si metta nei panni di un macellaio del “Kommando Orchestra Rossa”: Alamo è già una cuccagna. Meglio ancora se l'agente sovietico è anche ebreo. Ma se per soprammercato ha lavorato in Germania per il Komintern, c'è da svenire di gioia. Il prigioniero lo sa e il suo morale ne risente. Non è allegro essere accolti nei sotterranei della Gestapo come un boccone da re. Ora, gli agenti del Komintern rischiano l'arresto più degli altri. La lunga e tumultuosa attività ha valso loro quasi a colpo sicuro la possibilità di essere individuati da una polizia qualunque; in un ufficio belga, o francese, o olandese, esiste una scheda personale a loro nome, a volte un intero fascicolo, che reca i loro dati segnaletici, le loro conoscenze, le loro abitudini. Kent e Alamo sono per così dire “vergini”: non hanno un passato. Gli altri sono vecchi cavalli di ritorno del casellario giudiziario sovraccarico. Era saggio, da parte di Mosca, fondere reti del Komintern e servizi di informazione classici dopo l'aggressione tedesca? Con tutta probabilità, i capi del Cremlino non avevano scelta. Una situazione disperata esigeva che si facesse di ogni erba un fascio, usando magari perfino la gramigna. Del resto, le generalizzazioni sfumano quando giunge il momento della verità. Di fronte alle torture e alla morte, non esiste un atteggiamento da servizio segreto e un atteggiamento da Ko-

mintern. È l'uomo che è in ballo, con la sua forza e la sua debolezza interiore. Può essere stanco per un'attività clandestina durata troppo a lungo, roso dai compromessi che essa comporta, scoraggiato a furia di speranze deluse, corroso dalle dispute ideologiche e susseguenti purghe. Può essere, al contrario, come una lama di acciaio temprata al fuoco di mille prove. Ecco qui, senza commento, il resoconto di una mia visita a uno dei membri del Komintern che fecero parte dell'Orchestra Rossa: Un casermone aggrappato alle pendici di Ménilmontant. Scale di cemento armato, grandi corridoi in calcestruzzo, tramezze a mattonato. L'alveare umano in tutta la sua bruttezza. I Brun2 – tre persone – si pigiano in un minuscolo appartamento: un locale e cucina. La signora Brun è una donna piccola, rotondetta e vivace. Suo marito è visibilmente più anziano. Porta gli occhiali; i capelli bianchi spazzolati all'indietro; il viso è cereo, solcato di rughe, la voce molto roca. Il figlio, sui 18 anni, ha appiccicato al muro i ritratti dei cantanti preferiti, acconsente ad abbassare il giradischi, la cui eco mi era giunta tre piani più sotto. Mi dicono che hanno ricevuto, sì, la mia lettera ma che sono piuttosto sorpresi. «Un lavoro nella Resistenza? Ma io non ho mai fatto parte della Resistenza». Spiego la mia storia. Stupore generale. Brun: «Ah! Probabilmente vuole parlare della mia attività di refrattario». Non ha ottemperato alla richiesta del Servizio del Lavoro Obbligatorio. Una faccenda grossa. Mi raccontano tutte le peripezie. C'è l'episodio in cui Brun ha fatto passare un compagno refrattario, nascosto in un carretto, attraverso 2 Pseudonimo dato dall'autore.

un posto di blocco tedesco. C'è la visita del poliziotto francese venuto ad arrestare Brun al suo domicilio. Questo, perché aveva preso in casa un partigiano che si nascondeva nel casermone. Dice al poliziotto: «D'accordo, la seguo, ma ha notato che abito al sesto piano e che c'è la tromba delle scale e altra gente che abita in questa casa?». Il poliziotto non ha insistito. Deve essersi immaginato le conseguenze di un cazzotto di papà Brun in quell'alveare umano. Altro culmine dell'epopea dei Brun: la loro spedizione ciclistica in campagna a comprare fagioli; al ritorno si sono imbattuti in un posto di blocco tedesco. Una faccenda grossa, eccome. Vent'anni dopo, ricordano ancora la faccia del soldato che li interrogava soppesando il sacchetto... A quanto pare sono venuto per niente. Ma non mi muovo dalla sedia e, testardo come un mulo, ripeto una decina di volte le mie certezze: Brun ha fatto parte di una rete; ho visto il suo nome su certi documenti della Gestapo; me lo hanno confermato alcuni suoi compagni... E tutt'a un tratto si sgela. Forse intendo parlare della storia dei messaggi? Ah be'! Dovevo dirlo prima! Be', sì, portava messaggi, ecco tutto... ma non è in grado di fornirmi dei particolari, nomi: sono storie vecchie... Broncio della signora Brun: cosa? Portavi messaggi? È stupefatta, la signora Brun. Riteneva che un marito refrattario era già una bellissima cosa, ma ecco che adesso le presentano un marito partigiano! Beata e furibonda: perché non mi hai mai detto niente? Lui alza le spalle: a che sarebbe servito? Non è roba da donne! Dunque, portava messaggi. Li nascondeva nel manubrio della bicicletta e pedalava fino ad un certo punto della strada tra Étampes e Orléans; qui faceva finta di accovacciarsi sul ciglio del fossato e infilava i documenti in

una scatola di conserva arrugginita. È la tecnica della “cassetta delle lettere morta”; offre il vantaggio di evitare ogni contatto tra agenti. Gli specialisti credevano che fosse stata inventata dai servizi russi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale: si sbagliavano. Ma chi gli passava i messaggi? Un compagno. Doveva avere pure un nome, uno pseudonimo? Mai saputo... («Evidentemente», taglia corto il figlio specificando che legge molti romanzi di spionaggio, «nella tua rete vigeva un sistema di compartimenti stagni». «Ah, credi?», fa il padre con voce stolida, ma con un lampo negli occhi). E da chi era stato presentato a quel personaggio? Non ricorda... Dai compagni... Com'era? Mistero, amnesia completa. Comunque è inaudito: vi ricordate la faccia di una qualsiasi sentinella tedesca che vi pesca con un sacco di fagioli, ma non vi ricordate più se l'uomo che vi spediva forse alla morte era biondo o bruno? Be', sì, è strano... E dove le consegnava i messaggi? In un appartamento, da quelle parti... Dove, di là? Be', laggiù, non so più bene dove... Che cosa dicevano quei messaggi? Mai saputo... Sa, non sono curioso, io... Se erano tutti così, Trepper deve essersi rallegrato di riceverli in rinforzo.

Abraham Raichman non era così. Più grande, dal punto di vista delle funzioni; più piccolo, da quello del carattere. Aveva fatto parte del leggendario “Pass-Apparat” montato dal Komintern. Si trattava di una vera e propria fabbrica, con sede a Berlino, destinata alla fabbricazione dei documenti falsi, che contava 160 dipendenti, 30.000 timbri e torchi da incisioni e da stampa, apparecchi di riproduzione fotografica, eccetera. Ogni anno, da questa fabbrica uscivano in media 2000 passaporti, oltre a migliaia

di documenti di ogni genere. Gli archivisti delle centrali di controspionaggio in generale si esprimono in maniera squallida, ma diventano lirici quando devono evocare il “Pass-Apparat”: «impresa unica nella storia», «prodigio di destrezza, di precisione e di fantasia». Dopo ancora un quarto di secolo ricordano ancora con emozione i “calzolai” di Berlino. Nel gergo dei servizi russi, un falsario è detto “calzolaio” e i documenti falsi, naturalmente, si chiamano “scarpe”. Il motivo? Nella fabbricazione dei falsi vengono impiegati certi utensili da calzolaio, la lesina per esempio. Ci vollero molti sforzi, da parte della Gestapo, per liquidare il “Pass-Apparat”, i cui membri si sparsero in tutta Europa. *** Trepper ha stima per il calzolaio Raichman, ma diffida dell'uomo: vanitoso e imprudente, spesso pettegolo. Impossibile privarsi dei servizi di un simile maestro, ma occorre trattenere la briglia perché marci diritto. Mentre il Gran Capo è a Bruxelles, tutto procede bene. Ma quando parte per Parigi e presenta Raichman al suo successore, Kent – quel giovanottello – la reazione di Raichman è: «Cosa? Sarà lui il mio capo? Ma se non ne sa niente!». Dopo l'incursione in Rue des Atrébates, Yefremov dà il cambio a Kent. Ancora una volta un novizio che non pesa granché rispetto al passato di Raichman. Un giorno, questi annuncia a Yefremov che è in contatto con un ispettore della polizia belga, il quale lavora per la Resistenza. Mathieu gli ha detto: «Fabbricate documenti falsi? E a che pro? Io ve ne darò di veri!». Yefremov riferisce al Gran Capo e chiede istruzioni. Risposta immediata: «Meglio un paio di scarpe vecchie che siano tue, piuttosto

che un paio nuovo offerto da uno sconosciuto. Troncare il contatto». Yefremov è troppo giovane per riuscire a imporsi a Raichman. Il contatto non viene troncato. *** L'Abwehr di Bruxelles attribuisce a Mathieu lo pseudonimo di “Carlos”; in questa faccenda, i falsi sudamericani brulicano. I servizi tedeschi fanno uso di facezie un po' pesanti che a volte costano loro care3. Se venisse all'orecchio della rete che un poliziotto belga lavora per l'Abwehr con lo pseudonimo di “Carlos”, la detta rete si sentirebbe tenuta d'occhio e smaschererebbe Mathieu. Ma nel caso specifico l'Abwehr non avrà da pentirsi dello scherzo: non trapela nulla. Mathieu si rivela una recluta di prim'ordine. Niente di sorprendente per Fortner, il quale lo descrive con la frase sacramentale: «Era il tipo dell'ufficiale tedesco». Dal punto di vista fisico, un omone dalle spalle larghe, ariano fino alla punta dei capelli. Quanto al morale, la cosa cambia, naturalmente, a seconda se ci si mette dal punto di vista dei suoi padroni tedeschi o da quello delle sue vittime. Per Fortner, le dodici pallottole che sanzionarono, alla fine della guerra, il tradimento di Mathieu, costituiscono una cruenta ingiustizia. Con voce strozzata dalla commozione, gli decreta questo brevetto postumo, alquanto sconcertante:

3 Il colonnello Verneuil, uno dei capi del Deuxième Bureau clandestino, un giorno viene invitato ad incontrarsi con un agente sconosciuto; frase di riconoscimento: «Signore, vi aspettavamo da molto tempo». Verneuil rimugina tra sé la frase e la trova di cattivo gusto. Non si presenta all'appuntamento. La scherzosa Gestapo lo aspetta invano.

«Era un grande europeo». Con il debito rispetto, si potrebbe credere di udire il necrologio di Robert Schumann4. Sicché, Mathieu fa prodigi. Poliziotto esperto, vieta a se stesso di bruciare le tappe manifestando curiosità. È a disposizione di Raichman, ecco tutto... Quanto all'uso che si farà delle sue carte d'identità, affetta disinteresse. Tale rassicurante bonarietà prepara il successo di Mathieu: non avrà bisogno di andare alla rete, sarà la rete che verrà da lui. Vi ricordate il baule depositato da Kent prima di fuggire in Francia, in casa del padrone del “Florida”? Robert Christen: Qualche settimana più tardi, ho ricevuto la visita di Nazarin Drailly. Era il direttore commerciale della ditta nella quale mi aveva fatto entrare Sierra. Mi ha detto che veniva a recuperare il baule. Ho risposto: «Impossibile! Sierra me lo ha affidato e resterà qui fino al suo ritorno». Drailly ha preso un'aria seccata, poi ha finito con lo spiegarmi: «Senta, lei corre un gravissimo pericolo... Sa che cosa c'è in quel baule? Una radiotrasmittente!». È stato così che ho saputo in che razza di pasticcio mi avevano cacciato! Ah, una bella storia! Posso dire che mi hanno davvero menato per il naso!

Su iniziativa di Raichman, la rete ha trovato all'emittente un nascondiglio più sicuro dell'appartamento di Christen: la villa di Mathieu. L'ispettore propone di nasconderla nel garage. Raichman, eseguito un sopralluogo, dà il suo consenso. Una squadra di specialisti arriva espressamente da Berlino per esaminare l'ap4 Contrariamente all'affermazione di Fortner, non è certo che Mathieu sia stato fucilato. Certe informazioni lo danno ancora vivente.

parecchio. Accuratamente guantati per evitare di lasciare impronte, lo smontano e fotografano ogni pezzo. Stando a Fortner, la qualità dell'apparecchio li lasciò stupiti. Di fabbricazione russa, era superiore alle trasmittenti tedesche e perfino a quelle impiegate dagli agenti inglesi. Dopo l'esame, l'emittente è riposta nel suo nascondiglio. L'Abwehr aspetterà giubilante che qualcuno venga a prenderla. La prossima volta che a Bruxelles si farà vivo un pianista, non sarà necessario ricorrere ai tecnici della Funkabwher per catturarlo. Ma Bruxelles, per il momento, resta silenziosa. È sempre Hersch Sokol che suona il pianoforte nell'Orchestra Rossa. *** Il Gran Capo teme per lui. Paventando un nuovo colpo tipo Rue des Atrébates, supplica Mosca di rendersi conto del pericolo; si oppone alla regola draconiana del Centro: prima le informazioni, poi la sicurezza degli agenti; chiede che le trasmissioni di Sokol non superino la mezz'ora. Invano: il Direttore continua ad oberare il pianista di interminabili questionari, al contrario del Gran Capo che condensa al massimo i suoi messaggi per ridurre la durata delle emissioni. Per lo meno non deve più trasmettere la massa di informazioni raccolte dalla rete berlinese. I paracadutisti annunciati da Mosca sono finalmente arrivati? Sì e no. Nel maggio 1942, Erna Eifler e Wilhelm Fellendorf saltano da un bombardiere russo sulla Prussia Orientale – alla fine si è rinunciato a farli passare per l'Inghilterra. Sono entrambi veterani dell'azione clandestina. Erna ha lavorato prima in Germania nelle file di una rete di rab-

cors analoga a quella diretta in Francia da Fantômas. Poi ha operato successivamente a Vienna, a Shanghai, in Olanda e in Inghilterra. Fellendorf, ex-ufficiale delle Brigate Internazionali, ha lavorato in Cecoslovacchia, in Belgio e in Olanda. Hanno seguito un corso di addestramento intensivo della durata di parecchi mesi presso una scuola di spionaggio sovietica. Ne avranno bisogno: la loro missione consiste nel raggiungere Amburgo, dove hanno vissuto tutti e due e dove dispongono di amici sicuri; da qui si metteranno in contatto con la rete berlinese. La prima parte del programma si svolge secondo i piani prestabiliti, con l'eccezione che i paracadutisti, atterrando, perdono la radio. Portano a termine felicemente la perigliosa traversata della Germania e raggiungono senza danno il loro rifugio. Ma la presa di contatto con Berlino va per le lunghe. In quel giorno del 1942, Erna Eifler e Wilhelm Fellendorf sono sempre ad Amburgo. È vero che il problema dei collegamento è ora meno lancinante. Una parte delle informazioni passa per le emittenti berlinesi che lavorano sporadicamente malgrado le difficoltà tecniche e la paura della Funkabwher. Nella maggior parte dei casi i messaggi sono portati da un corriere ad Amsterdam, da dove sono ritrasmessi a Mosca dall'emittente della filiale olandese dell'Orchestra Rossa. Si farà nuovamente ricorso alle emittenti di Bruxelles non appena potranno uscire dal loro forzato letargo. Nonostante ciò, Sokol ha un gran da fare: la rete francese del Gran Capo ha raggiunto dimensioni tali che, per incanalare il flusso delle informazioni, sarebbero necessari parecchi pianisti. Hersch Sokol è troppo intelligente per non intuire l'imminenza della propria fine. Stoicamente, rimane inchiodato alla sedia, gli auricolari infilati, l'indice della mano destra bloccato sul tasto

dell'emittente. Il 9 giugno del 1942, dopo un paziente lavoro di localizzazione radiogoniometrica, la Gestapo sfonda la porta della sua villa di Saint-Germain e lo strappa all'emittente. Con lui viene presa Myra. In un primo tempo i tedeschi credono che facciano parte di un'organizzazione francese. Quando scoprono la loro appartenenza all'Orchestra Rossa, Giering ne ordina il trasferimento a Berlino. Fortner li affronta e domanda a Sokol come ha fatto a diventare radiotelegrafista. Risposta: «Ero seduto a un tavolino da caffè e tamburellavo meccanicamente con le dita sul ripiano. Accanto a me, un cliente ha fatto lo stesso sorridendo, poi si è avvicinato e mi ha chiesto se volevo diventare radiotelegrafista, perché sembravo portato a quel lavoro». Fortner, furioso: «Soltanto perché è un pediatra, non deve credersi obbligato a fare il bambino!». Sokol non risponde. Ma gli aguzzini del “Kommando Orchestra Rossa” si daranno da fare per sciogliergli la lingua. Sokol rappresenta per essi la possibilità insperata di rifar salpare da Parigi l'inchiesta finita in secca a Bruxelles. Vengono posti in atto i più crudeli supplizi. Sokol tace. Ci si accanisce su Myra e Myra tace. Non sapendo più a che santo votarsi, il Kommando fa ricorso alla sua tecnica preferita: viene puntata la canna di una rivoltella alla tempia di Hersch Sokol avvertendo Myra che sarà abbattuto sotto i suoi occhi se lei non parlerà. Myra svela uno degli pseudonimi di Trepper: “Gilbert”. Tutto qui. I Sokol conoscevano il codice radio del Gran Capo ed erano in contatto con il suo braccio destro, Hillel Katz. ***

Claude Spaak: Poco dopo la liberazione di Harry, fortunatamente uscito da Pithiviers, mai moglie mi annunciò: «Ho incontrato Myra. Non dobbiamo più andare da loro senza preavviso: svolgono un lavoro clandestino». Continuò a vedere Myra di tanto in tanto e questa le consegnò un piccolo rotolo di monete d'oro perché lo nascondessimo in casa nostra. Accettai, naturalmente, ma dissi a mia moglie: «Può capitarci qualcosa, oppure ai Sokol, e dovremmo in qualche modo sapere a chi consegnare il rotolo in caso di necessità». Ne convenne anche lei. Ci accordammo con Myra che avremmo consegnato l'oro a chiunque si fosse presentato come “Henri”. A quel tempo avevamo un appartamento in Rue de Beaujolais, di fronte al Palais-Royal; la scrittrice Colette era nostra vicina di casa. Fu là che un giorno si presentò “Henri” – l'uomo che lei chiama Trepper. Era sui 45 anni, di aspetto solido, con un forte accento russo. Dava un'impressione di grande umanità e ispirava assoluta fiducia; nel suo sguardo c'era una luce di bontà. Quella volta era molto nervoso. Mi disse: «I suoi amici sono stati arrestati. Trasmettevano da una casetta di Saint-Germain dei messaggi captati dall'ambasciata sovietica a Londra. È terribile: sono ebrei, russi e spie». In effetti, era un po' come se un medico annunciasse al suo paziente: «Lei ha un cancro, la tubercolosi e un'occlusione intenstinale...». Dopo una pausa, gli dissi che gli avrei consegnato il rotolo di monete d'oro. Ha rifiutato: «No, non ne ho bisogno. Eventualmente manderò qualcuno a prenderlo». E se ne andò.

*** Le due emittenti di Bruxelles sfuggite alla Funkabwher sono rimaste silenziose, tranne per qualche breve collegamento di normale amministrazione, tanto per non perdere il contatto con Mosca. Dopo l'arresto di Sokol, il Gran Capo ordina a Yefremov di rimetterne in funzione una. Sono passati sei mesi dall'irruzione in Rue des Atrébates: Trepper ha tutti i motivi per credere che a Bruxelles il terreno non scotti più tanto.

XIV. PARLANO I PROFESSORI

A Berlino, Kludow e i suoi studenti lavorano senza posa all'interpretazione dei messaggi. Su 300 telegrammi in loro possesso, 97 sono stati cifrati in base al libro di Téramond, Le miracle du professeur Wolmar. La Funkabwher non saprà mai che per tutti gli altri è stata impiegata La femme de trente ans di Honoré de Balzac. I due terzi del bottino essendo eliminati in partenza, ci si butta con ardore sul terzo che rappresenta l'ultima possibilità. Naturalmente, i testi non sono stati cifrati seguendo frase per frase il racconto di Téramond: i passi del libro impiegati erano scelti in funzione di un sistema prestabilito con Mosca e di cui la Funkabwher ignora il segreto. Per ogni telegramma occorre dunque trovare la frase appropriata. A volte, la fortuna mena diritto alla meta; altre, bisogna passare in rivista quasi tutto il libro prima di scoprirla. Questo lavoro da certosini, fatto di pazienza e di ostinazione, è tipico di tutti gli “interpreti”. Ma nel caso specifico, le caratteristiche del libro resero ancora più acute le consuete spine. Bisogna dire che Le miracle du professeur Wol-

mar non è un romanzo meraviglioso. Guy de Téramond lo scrisse nel 1910 ad Arcachon, dopo aver già pubblicato La force de l'amour e Le mystérieux Inconnu («opera che può andare nelle mani di tutti»). La sua scelta da parte della rete si spiega con ogni probabilità con l'avvertimento che figura alla prima pagina: «questo volume, supplemento gratuito dell'abbonamento al Monde illustré, non è in vendita». Un'opera fuori commercio, quindi, e distribuita unicamente agli abbonati. Tanto è vero che l'inviato speciale dell'Abwehr a Parigi lo aveva scoperto soltanto dopo lunghe ricerche sulle bancarelle. Quanto alla trama, dovette far digrignare i denti a qualche membro della coorte studentesca di Kludow, costretto a impararla quasi a memoria. Il professor Wolmar, chirurgo di grande talento, ha una teoria: «Tutti i fenomeni di anormalità erano prodotti da aderenze della materia cerebrale [...] da cui concludeva, con la sua audacia abituale, che gli bastava ripulire il cervello dei criminali di tutte le aderenze che ne paralizzavano l'intelligenza e la volontà per farne degli esseri coscienti, posati e responsabili». Dopo un bel po' di fatica, ottiene di potersi consacrare ad un esperimento su un assassino condannato a morte, detto «il ricciolino di Javel», «uno di quegli esseri degenerati, uno di quei rifiuti che ci si stupisce a volte di incontrare ancora in piena civiltà». Il «ricciolino», graziato, dopo l'operazione che sembra sia fallita, viene mandato al bagno penale. Ma evade e diventa una specie di superman dalle invenzioni folgoranti e benefiche. Come ringrazierà il professore? Spedendo al Kaiser il seguente telegramma: «Se posdomani, entro le 4, non avrete

preso

iniziativa

disarmo,

faccio

saltare

tutta

la

Germania». Firmato: «La Francia». Guy de Téramond conclude: «In un impeto irresistibile, la Germania intera spazzò via il suo

imperatore e i suoi ministri e, rispondendo allo slancio di fraternità universale, si affrettò a chiedere la pace». Era duro dover scrutare il telegramma del «ricciolino di Javel» al Kaiser per poter comprendere i telegrammi del Gran Capo al Direttore, ma la squadra di Kludow superò tali repulsioni di secondaria importanza. A partire dal giugno del 1942 era in grado di decifrare ogni giorno due o tre telegrammi del PTX. Il loro contenuto? Kludow ed i suoi uomini se ne curano poco. Come tutti gli “interpreti”, non scorgono più il significato delle parole per il fatto di osservarle troppo da vicino. La vittoria consiste, per loro, nello spezzare il guscio dei telegrammi per coglierne il significato nascosto; che i telegrammi siano sinonimo di una sconfitta tedesca è cosa che non li riguarda. Ma è cosa che riguarda l'Abwehr. E i capi dell'Abwehr sono terrorizzati. Flicke ci dice che andavano in ufficio con il cuore stretto dall'angoscia all'idea dei testi che il bravo Kludow avrebbe consegnato loro con un sorriso di trionfo. La presenza di emittenti clandestine a Berlino era un fatto inquietante. Le dichiarazioni di Rita Arnould e i documenti tedeschi trovati in Rue des Atrébates erano già una cosa sconsolante. Ma l'interpretazione dei telegrammi rivela che il disastro supera ogni possibile immaginazione. È semplice: non esiste un settore della vita politica, economica e militare che non sia noto ai russi in tutti i suoi particolari. Il Terzo Reich, uno dei più formidabili Stati polizieschi di tutti i tempi, è come una campana di vetro sotto lo sguardo di Mosca. Alla metà di giugno, Cranz annuncia che un'emittente di Bruxelles è rientrata in funzione. L'Abwehr non ha esitazioni: niente indagini accurate che permetterebbero di risalire al cuore

della rete, non c'è tempo! Tra pochi giorni – il 28 giugno 1942 – le divisioni corazzate della Wehrmacht si scuoteranno per un assalto decisivo. L'“Operazione Blu” deve condurle fino a Stalingrado e dare loro in mano i pozzi di petrolio del Caucaso. Dopo i rovesci della campagna invernale, dopo i fiumi di sangue tedesco che hanno tinto la neve russa, a Berlino ciascuno sa che l'imminente offensiva deciderà di tutto: l'esito della guerra si giocherà tra Voronej e Stalingrado. Non è possibile lasciare correre per l'etere messaggi che forse rivelano a Mosca i segreti della vitale “Operazione Blu”. *** Racconta Franz Fortner: Fu naturalmente un'amara sorpresa, quando Berlino ci informò che nel nostro territorio era entrata di nuovo in funzione un'emittente. Nessun agente era venuto a prendere l'apparecchio nascosto nel garage di Mathieu; la nostra trappola non era dunque servita a niente e bisognava ripartire da zero, come per Rue des Atrébates. Sono tornate a Bruxelles le squadre degli esperti radiogoniometrici ed io ho ripescato il sergente specialista della “valigia cercatrice”, sempre sicuro di sé. Nei primi giorni la Funkabwher ha proceduto alle sue triangolazioni. La cosa potrà sembrarvi incredibile, eppure è la verità; l'emittente lavorava tutta la notte come in Rue des Atrébates, cosa che ovviamente facilitava il nostro compito. Confesso di non aver mai compreso l'atteggiamento dei russi... Erano oberati di lavoro a tal punto? Un pianista che lavora poco vale sempre più di un pianista che

tratto in arresto! No, secondo me ignoravano a che punto di perfezionamento erano giunte le nostre tecniche di localizzazione. Non vedo altra spiegazione. Oppure i radiotelegrafisti sono stati sacrificati freddamente... Per farla breve, abbiamo scoperto quasi subito che l'emittente si trovava nel quartiere di Laeken. Purtroppo una ferrovia elettrica attraversava il settore in cui avevamo localizzato l'apparecchio. Confondeva i campi elettrici, o non so cosa, ed il mio sergente dovette ammettere, con suo grande dispetto, che la “valigia cercatrice” non serviva. Abbiamo allora fatto ricorso ad un'automobile della Funkabwher equipaggiata con un apparecchio abbastanza potente per non subire le interferenze della linea ferroviaria. Si trattava di una camionetta camuffata, ma non avevamo da temere eventuali sentinelle, dal momento che operavamo dopo il coprifuoco. Rischiavamo, anzi, di essere fermati a nostra volta ed io intendevo fare di tutto per evitarlo. Non ci tenevo affatto che nel quartiere si diffondesse la voce che una misteriosa automobile andava a zonzo di notte, che la polizia la lasciava circolare, eccetera. Naturalmente, la cosa ha funzionato. La prima sera ci imbattemmo in una pattuglia di poliziotti. Eravamo tutti in borghese, beninteso, e avevamo i “documenti falsi veri” ottenuti da Mathieu. I poliziotti esaminarono le nostre carte d'identità e ci domandano che cosa facciamo in giro a quell'ora. Lascio loro capire che si tratta più o meno di mercato nero, tento di ammansirli, ma loro pretendono di controllare l'interno del furgone. Non è una cosa possibile: avrebbero scoperto l'apparecchio di localizzazione. Batto sulla spalla dell'autista e lui parte di scatto, scansando i poliziotti. Siamo

riusciti a seminarli, ma per quella notte la caccia era finita. La seconda sera, altro intralcio! Nel quartiere aveva sede una caserma della Luftwaffe. Vedendoci passare di continuo su e giù davanti alle garitte, le sentinelle si impensieriscono e ci piombano addosso! Ci portano al posto di guardia, dobbiamo esibire i documenti, dare spiegazione, far telefonare per avere conferma dai miei superiori: ero furibondo... Tutti questi incidenti ci hanno fatto perdere tempo ma, per fortuna, l'emittente continuava a trasmettere come prima, cinque ore per notte, e così abbiamo finito con lo scoprire la casa in cui si nascondeva. Si trattava di un grande stabile fiancheggiato dal magazzino di un commerciante di legna e da un altro negozio. A sentire il mio specialista, l'apparecchio doveva trovarsi ai piani superiori della casa. Difficile essere più precisi. Comunque toccava a me organizzare la faccenda. Comincio, come per Rue des Atrébates, con il reclutare un certo numero di persone. Non bisognava lasciarsi scappare la preda e preferivo essere troppo prudente piuttosto che troppo poco. Da una parte, ottengo 25 uomini della polizia segreta; dall'altra, torno alla caserma della Luftwaffe e spiego come stanno le cose. Gli aviatori erano tutti giovanissimi e pieni di entusiasmo: l'impresa li ha conquistati e si sono messi a mia disposizione. Decido che l'attacco avrà luogo nella notte del 30 giugno, alle 3. Siccome la notte è chiarissima, con una magnifica luna, ordino agli aviatori di nascondersi nel magazzino del commerciante di legna. Usciranno all'ora X e bloccheranno la strada. Con i poliziotti mi installo in un appartamento della casa, quello del pianterreno. Svegliamo l'in-

quilino; si mostra gentilissimo, ci offre il caffè e discorre con noi. Alle 3 diamo inizio all'operazione. Due poliziotti per piano, il resto di riserva. Galoppiamo su per la scala. Tutto a un tratto sento gridare dal solaio: «Venite, è qui!». Mi precipito in solaio. La soffitta è suddivisa in piccoli scomparti. Corro dove scorgo una luce e trovo i miei due poliziotti – soli! Ordino loro di frugare gli scomparti ed eseguo un rapido sopralluogo. Su un tavolino l'emittente ancora tiepida. Accanto, un fascio di documenti redatti in tedesco. Un po' ovunque, decine di cartoline postali spedite da città tedesche... C'era di che sentirsi mozzare il fiato. A terra, una giacca e un paio di stivali. Quel tipo, dunque, si sentiva al sicuro: si era messo comodo. Ma per dove aveva potuto svignarsela? Alzo allora gli occhi e noto il lucernario semiaperto. Ci infilo la testa per esaminare il tetto. Pam! Uno sparo! Mi ritiro di scatto e sento delle urla che provengono dalla strada: «Attenzione! È seduto accanto al comignolo!». Ridiscendo con i documenti. Gli aviatori occupano la strada ma si tengono al riparo sotto gli androni: il fuggiasco spara su di loro. Lo vediamo distintamente saltare da un tetto all'altro. Ha una pistola in ogni mano e vuota i caricatori tra un balzo e l'altro. Intuisco che i miei ragazzi si innervosiscono, vogliono abbatterlo, ma dico loro: «Assolutamente no! Lo voglio vivo!». Il nostro uomo giunge all'ultima casa dell'isolato, è con le spalle al muro. Ma spezza un lucernario e scompare. Si sente una donna invocare aiuto. Dalla strada le urliamo: «Che succede?». Lei risponde che un uomo ha attraversato la sua stanza e ha infilato la scala. Corriamo alla casa e frughiamo tutti i piani: niente! Comincio ad aver paura. Ma alcuni aviatori scendono in cantina, sollevano una tinozza capovolta e scoprono il nostro tipo che si era

nascosto lì sotto. Furibondi, snervati, cominciano a percuoterlo con il calcio dei fucili. Ordino loro di smetterla e mi porto il prigioniero alla sede della polizia segreta. Era completamente distrutto. Si trattava di un uomo sulla quarantina, piuttosto basso, tarchiato, il viso duro, il tipo dell'operaio. Devo dire che non mi ha fatto una grande impressione. Le sue prime parole sono per domandarmi se appartenevo all'Abwehr o alla Gestapo. Lo rassicuro. Parlava francese, ma piuttosto male, con un forte accento straniero. Poi mi chiede di portargli le mani sul ventre – gliele avevano ammanettate dietro la schiena. Rispondo: «Ah, no! So come va a finire! Ne approfitterebbe per gettarsi su di me e colpirmi». Mi dichiara che non ne ha affatto l'intenzione, ma io continuo a non fidarmi. Per compiere un gesto, comunque, poso la pistola sulla scrivania e dico: «Ecco, vede? Sono disarmato: non ha niente da temere». Lui si lagna dei colpi ricevuti e io sono costretto a spiegargli che è stata colpa sua, che non avrebbe dovuto scherzare con la pistola. Che ai soldati non piace che gli si spari addosso senza reagire. Si calma e finiamo con il chiacchierare in tedesco; lo parlava perfettamente. Alla fine gli annuncio che procederò a interrogarlo sulla sua identità. Lui guarda con aria imbarazzata i due poliziotti presenti nel mio ufficio. Ordino loro di uscire, tolgo le manette al prigioniero e gli dico: «Avanti, adesso siamo tranquilli, siamo noi due soli e può parlare in tutta fiducia». Visibilmente disteso, mi annuncia che si chiama Johann Wenzel, nato nel 1902 a Danzica. Un tedesco! Ma soggiunge: «La avverto subito che non sono tipo da accettare compromessi. Non si aspetti da me alcuna rivelazione, alcuna denuncia!». Gli dico: «Su, su, sia ra-

gionevole», ma è impossibile cavargli una parola di più. Sicché lo faccio incarcerare a Saint-Gilles. Per concludere, devo dirvi ciò che abbiamo scoperto più tardi sul conto dell'inquilino al pianterreno – sapete, quel tipo così gentile che ci aveva offerto il caffè. In realtà cercava di trattenerci il più a lungo possibile. Faceva parte della rete e Wenzel era alloggiato presso di lui. Quando siamo tornati a cercarlo, naturalmente aveva sloggiato. Si chiamava Schumacher. Portato via Wenzel, sono andato a riferire ai miei capi. Hanno subito telefonato la notizia a Berlino. Venti minuti dopo, Berlino ci richiama e ci annuncia con una straordinaria eccitazione: «Avete arrestato uno dei membri più importanti del Partito comunista tedesco d'anteguerra, un capo dell'apparato clandestino del Komintern». La preda pareva loro così grossa, così miracolosa, che faticavano a credere si trattasse dello stesso individuo. Per concludere con Wenzel, aggiungerò che la Gestapo di Berlino lo reclamò alcuni giorni dopo. Lui ne aveva un terrore folle, perché evidentemente aveva dei vecchi conti da regolare. A Berlino, lo presero in consegna Giering e i suoi uomini. Lo tortureranno da 6 a 8 settimane, poi lo rispedirono a Bruxelles. Non ho letteralmente riconosciuto Wenzel. Era un uomo finito. Aveva detto loro tutto, in particolare il codice e il proprio pseudonimo: “Il Professore”. Lo chiamavano così perché era un grande specialista dei collegamenti radio e nel corso della sua attività clandestina aveva formato una quantità di pianisti1. Giering mi annunciò che era disposto a lavorare per noi.

1 In particolare aveva insegnato il pianoforte ad Alamo, Camille e Sophie Poznanska.

Ma torniamo a quella famosa notte del 30 giugno. Sono rientrato a casa verso le 7 del mattino, completamente sfinito. Avevo conservato i documenti trovati accanto all'emittente. Si trattava dei telegrammi che Wenzel si accingeva a spedire o che aveva appena ricevuti. I testi, molto lunghi, erano quasi tutti in codice, naturalmente, ma due o tre erano in chiaro. Nonostante la fatica, ebbi la curiosità di dare loro un'occhiata. In uno di essi si parlava di un certo indirizzo di Berlino che era importantissimo e che i tedeschi non dovevano scoprire a nessun costo. Mosca non diceva i “tedeschi”, ma i “crucchi” o qualcosa del genere. Gli altri testi mi hanno svegliato del tutto. Incredibile! Conoscevano informazioni assai precise circa la produzione tedesca di aerei e carri armati, le nostre perdite e le nostre scorte. Il colpo di grazia era un telegramma che forniva tutti i particolari possibili in merito all'offensiva sul Caucaso. Le nostre truppe avevano appena preso il via, si battevano ancora a centinaia di chilometri di distanza dall'obiettivo, ma tutti i piani dell'operazione erano esposti, con l'indicazione del numero di divisioni impegnate, l'identificazione delle divisioni suddette, il materiale con cui erano equipaggiate, insomma tutto. Una vera catastrofe! Naturalmente bisognava avvertire Berlino. Abbiamo telefonato, ma loro si rifiutarono di crederci. Per cui sono partito il giorno stesso in macchina e mi sono recato direttamente alla sede dell'Abwehr in Tirpitzstrasse. Avevo infilato i telegrammi in una cartella che tenevo sotto il braccio. All'ingresso dello stabile, l'ufficiale che comandava il posto di guardia mi ha chiesto di aprire la cartella; voleva esaminarla. Ho rifiutato e, siccome lui insisteva, ho cavato la pistola e ho detto puntandogliela addos-

so: «Se tenta di prendermi la cartella, sparo!». È rimasto impressionato, naturalmente, e mi ha lasciato tranquillo. Poi ho aspettato una mezz'ora prima di essere ricevuto dall'ufficiale superiore che, a Berlino, si occupava delle faccende belghe. Ma ho rifiutato di mostrargli i miei incartamenti e ho chiesto di vedere il colonnello Bentivegni, che era il braccio destro dell'ammiraglio Canaris. Mi ha condotto nel suo ufficio e gli ho dato i documenti. Dopo averli letti, Bentivegni mi ha accompagnato immediatamente dal maresciallo Keitel, il capo dell'OKW. Keitel è rimasto come folgorato dal telegramma relativo all'operazione del Caucaso. Non riusciva a crederci 2. Quanto all'indirizzo che non dovevamo scoprire in alcun modo, era quello di un'alta personalità della Luftwaffe, notissima ai circoli dirigenti di Berlino: si profilava uno scandalo con i fiocchi!...

*** C'era già stato uno scandalo con i fiocchi in merito all'“Operazione Blu”. Qualche giorno prima, il 19 giugno, il maggiore Reichel, ufficiale di Stato Maggiore della 23 a Divisione corazzata, era partito a bordo di un aereo di ricognizione per ispezionare le prime linee. Il suo Storch fu abbattuto e precipitò in un settore tenuto dai russi. Reichel aveva con sé le sue carte e una nota dattiloscritta in cui era esposta la prima fase della prossima offensiva. Lo Stato Maggiore della divisione, sgomento per il colpo subito, lanciò subito un attacco locale per tentare di recuperare lo Storch e i suoi occupanti. Venne ritrovato il relitto – vuoto. 2 Aggiungiamo che Mosca fu del pari informata circa l'“Operazione Blu”, e in maniera esauriente, dalla rete di spionaggio sovietica operante in Svizzera sulla scorta di “fonti” tedesche.

Reichel e il pilota erano scomparsi, ma una pattuglia scoprì due cadaveri sepolti a qualche decina di metri di distanza e si suppone che si trattasse di loro, benché l'identificazione fosse resa difficile dallo stato dei corpi. Non fu ritrovata la cartella di Reichel e neppure le sue carte, che dovevano quindi essere cadute in mano russa. Nella sua fobia dello spionaggio sovietico, Hitler aveva prescritto, per l'offensiva primaverile, misure di sicurezza drastiche: le istruzioni dovevano essere impartite a viva voce ai comandanti locali; ogni ordine scritto era vietato formalmente. I superiori di Reichel, autori della nota dattiloscritta, furono condannati ad alcuni anni di fortezza, ma tale soddisfazione disciplinare non modificava la sostanza del problema. Che fare? Keitel, capo dello Stato Maggiore, era propenso a soprassedere all'attacco. Il maresciallo von Bock e il generale von Paulus si opposero a qualsiasi ritardo: al punto in cui si era, non restava che attaccare. Hitler diede via libera. La notte che precedette l'assalto, i soldati della 23 a Divisione corazzata che veniva dalla Francia e aveva per emblema una Torre Eiffel, furono svegliati dagli altoparlanti sovietici, i quali lanciarono loro un sinistro monito: Soldati della 23a Divisione corazzata, l'Unione Sovietica vi saluta! La bella vita di Parigi è finita! I vostri camerati vi avevano già avvertiti di quanto succede qui. Tra poco ve ne renderete conto di persona...

E gli uomini della Seconda Armata ungherese, rannicchiati nei loro rifugi, furono anch'essi strappati al sonno da una voce che gridava loro: Ungheresi! Sappiamo che domani all'alba varcherete l'Oskol... Non troverete niente davanti a voi. Contrattaccheremo quando vorremo noi e nel punto che avremo scelto. Allora vi pentirete del vostro viaggio in Russia. Maledirete i vostri dirigenti che hanno obbedito agli ordini del maresciallo Keitel e vi hanno mandati qui...

E anche i soldati della 24a Divisione corazzata seppero, la vigilia dell'attacco, quale era la sorte loro riservata: Panzergrenadieren della 24a, non ci troverete a sud di Voronej, come vi hanno assicurato i vostri capi. Non sperate di accerchiarci: non ci saremo più. Economizzate il pane, le munizioni, la benzina. Perché siamo noi che ben presto vi accerchieremo. E i più fortunati tra voi saranno quelli che avranno conservato una pallottola per farsi saltare le cervella.

Se il morale delle truppe tedesche ne fu in parte influenzato, l'Alto Comando conservò il suo sangue freddo: «Era colpa di Reichel». Ma i disastri successivi non fu più possibile imputarli al semplice foglio dattiloscritto caduto in mano ai russi... È il caso di raccontare l'offensiva tedesca del 1942, con il suo avvio folgorante, la corsa verso i pozzi di petrolio del Caucaso e l'assalto finale su Stalingrado? Limitiamoci a dire che lo Stato Maggiore tedesco, per la prima volta dall'inizio della guerra, vide

tutte le sue manovre sventate l'una dopo l'altra; che le divisioni corazzate della Wehrmacht, lanciate a tenaglia nella pianura russa per stritolare nella loro morsa il nemico, accerchiarono solo il vuoto – era la prima volta; che per sganciamenti successivi e in buon ordine, i capi sovietici portarono il nemico a dare battaglia là dove avevano voluto, nel momento che avevano scelto – e, anche in questo caso, era la prima volta. Accontentiamoci di una breve citazione dall'eccellente opera di Paul Carell, Opération Barbarossa, alla quale già dobbiamo il racconto dell'episodio Reichel: Tale concentramento di forze [russe] non consentiva più di dubitare che Timoscenko aveva, nel senso letterale della parola, sbirciato la cartina da sopra la spalla di Hitler e reagiva in modo pertinente al piano tedesco: contenere a Voronej le principali unità dell'ala nord tedesca, vale a dire guadagnare tempo per potersi ritirare, con il grosso delle forze, dall'Oskol e dal Donez, facendo loro ripassare il Don. Per andare dove? Be', curioso, verso Stalingrado3.

Sapevamo da mesi, dal tempo dello storico messaggio trasmesso da Kent il 12 novembre 1941, che l'Armata Rossa si sarebbe trovata all'appuntamento di Stalingrado. *** Il telegramma che rivelava l'indirizzo berlinese ha destato, nei capi dell'Abwehr e della Gestapo, un'emozione altrettanto 3 P. Carell, Opération Barbarossa, Robert Laffont, 1964, p. 459.

viva di quella suscitata in seno allo Stato Maggiore supremo dal dispaccio relativo all'“Operazione Blu”. Ma il telegramma conteneva davvero l'indirizzo in questione? Stando a certe informazioni in nostro possesso, la realtà sarebbe più complessa. Il messaggio avrebbe contenuto certi particolari del tutto confidenziali in merito all'aviazione tedesca, di cui soltanto tre ufficiali del Ministero dell'Aria potevano essere al corrente; una rapida inchiesta avrebbe permesso di smascherare il colpevole. Dal canto suo, Fortner insiste sul fatto che il telegramma conteneva l'indirizzo. La controversia non ha importanza: resta acquisito che il telegramma portava la Gestapo all'obiettivo esatto. E neppure il telegramma in sé e per sé è importante: qualche giorno dopo il viaggio di Fortner a Berlino, Kludow sferra un colpo ancora più decisivo alla rete berlinese. I suoi “interpreti” avevano in un primo tempo lavorato sui messaggi trasmessi da Kent. Forse stufo del cumulo di rivelazioni costernanti – o semplicemente più astuto degli altri –, un dirigente dell'Abwehr suggerì a Kludow di decifrare i telegrammi ricevuti da Kent; si poteva sperare di trovarvi informazioni relative alla struttura delle reti. Il 14 luglio 1942, Kludow polverizza la Bastiglia berlinese dei servizi segreti sovietici: interpreta il funesto telegramma inviato a Kent dal Direttore il 10 ottobre 1941: «Recatevi immediatamente Berlino, tre indirizzi indicati...». Il “Kommando Orchestra Rossa” si mette in caccia. ***

Il capo del Servizio informazioni delle SS, Walter Schellenberg, scrive nelle sue memorie: Dopo l'assassinio di Heydrich, nel maggio 1942, Himmler riprese in mano al posto suo il coordinamento e la supervisione dell'Orchestra Rossa. In breve, la situazione tra lui e Müller4 si fece tesissima. Al punto che, quando ci incontravamo, Müller ed io, a rapporto da Himmler, Müller, di parecchio più anziano di me, si sentiva invitato ad uscire dalla stanza perché potessimo discorrere da soli. Müller era abbastanza intelligente per accettare la situazione e, ogni qual volta aveva qualcosa di difficile da dire, incaricava me al posto suo. Un giorno mi disse con un sorriso ironico: «Preferisce la vostra faccia al mio muso bavarese... È evidente!». Nel luglio 1942, Himmler ci fece recapitare l'ordine di presentarci tutti e due al Gran Quartier Generale, in Prussia Orientale, con un rapporto completo sull'Orchestra Rossa. Avevamo qualche ora per preparare il rapporto. Quando ci trovammo, Müller cominciò con il ripetermi quanto i miei rapporti sull'Orchestra Rossa gli fossero stati sempre preziosi, quanto documentata gli sembrasse la mia approfondita conoscenza delle attività dello spionaggio russo. Poi, dopo qualche altra adulazione dello stesso tipo, finì con il chiedermi di presentare da solo, a nome di tutti e due, il rapporto a Himmler. Risposi che, essendo da parte mia responsabile soltanto del trenta per cento del lavoro, avrebbe fatto bene a presentarlo lui. «No», disse, «a lei darà retta; io, con tutta probabilità, farei un buco nell'acqua!». 4 Capo della Gestapo.

A quel tempo, non mi rendevo conto delle vere ragioni che muovevano Müller. Meditava già, suppongo, la possibilità di abbandonare quel lavoro contro i servizi segreti russi, ma su questo argomento torneremo in seguito. Quando giunsi al Gran Quartier Generale fui molto stupito di apprendere che Himmler aveva convocato anche Canaris5. Voleva discutere della faccenda la stessa sera con Hitler e desiderava averci tutti a portata di mano per poter rispondere a qualsiasi domanda. Himmler era particolarmente di malumore quel giorno. Si rendeva conto, probabilmente, che Müller sfuggiva a qualsiasi colloquio con lui. Scorse le prime righe del rapporto – destinato a Hitler – e cominciò subito a criticarlo nel modo più sgarbato possibile. Il rapporto, disse, era evidentemente tendenzioso. Il lavoro svolto dall'Abwehr e dalla Funkabwher non era esposto lealmente. «È lei o Müller il responsabile di questo resoconto?», mi domandò con un sogghigno cattivo. Dichiarai che ero io. «Riconosco il mio uomo», disse Himmler. «Tipico! Deprezzare il lavoro altrui per fare meglio risaltare il proprio. È un atteggiamento meschino – può dirglielo da parte mia!». Per completare la confusione fece chiamare Canaris e gli chiese informazioni particolareggiate in merito alla collaborazione tra l'Abwehr e la Sezione Radio del controspionaggio. Divenne sempre più evidente che Müller aveva un tantino travisato la realtà a proprio favore. Himmler prese un tono villano, dimenticando che io non c'entravo: «La autorizzo a ripetere a Müller parola per parola quanto le ho detto», concluse. 5 Capo dell'Abwehr.

Il Führer si mostrò così sconvolto dal rapporto e dal tradimento che esso rivelava che non volle vedere nessuno, né Canaris, né me6.

In questa citazione ci sono due indicazioni importanti. In primo luogo, la Gestapo trucca i suoi rapporti: Müller afferma decisamente che il gruppo berlinese è stato scoperto grazie alle confessioni ottenute da Wenzel ad opera della Gestapo. Kludow sarebbe stato incapace, secondo Müller, di decifrare il telegramma del 10 ottobre 1941, se “il Professore” non avesse svelato il proprio codice. Grossolana vanteria: Wenzel ovviamente possedeva un codice personale, che non aveva niente a che fare con quello di Rue des Atrébates e quindi non poteva servire a interpretate quest'ultimo. In questa occasione, Müller mente con il solo scopo di aumentare il proprio prestigio, di farsi bello con le penne del pavone. Ma tra poco vedremo la Gestapo falsificare i propri rapporti in circostanze ben altrimenti drammatiche, e per ragioni più possenti e tenebrose. Da notare, altresì, l'emozione, lo «sconvolgimento» del Führer alla lettura del rapporto presentato dai due capi dei due servizi segreti... … del Führer che, il 7 giugno precedente, aveva dichiarato ai suoi convitati di Rastenburg: Per il suo modo di valutare i crimini di tradimento, la Giustizia mi ha del resto spesso esasperato [...]. In definitiva, ho dichiarato a Gürtner [ministro della Giustizia] che se i tribunali ordinari persistevano a dare prova di simile mitezza nel giudicare i casi di tradimento, mi sa6 Schellenberg, op. cit., p. 354.

rei visto costretto a fare appello ad un distaccamento di SS per passare per le armi i traditori [...]. Colui il quale ha la responsabilità di portare a termine vittoriosamente una guerra e, in via generale, di guidare un popolo in un periodo difficile, ha l'obbligo di fare in modo che non vi siano dubbi di sorta a questo proposito: chiunque, nelle attuali circostanze, si pone al di fuori della comunità, sarà dalla comunità liquidato7.

7 A. Hitler, op. cit., vol. 1, p. 153.

XV. INCURSIONE SU AMSTERDAM

Dopo i grandi momenti berlinesi, Franz Fortner se ne torna nel suo feudo in Belgio. L'indagine non è ancora conclusa, ma dovrebbe arrivare in porto in breve lasso di tempo: mentre, dopo l'irruzione in Rue des Atrébates, aveva perso il filo e si era trovato bloccato, questa volta Fortner dispone del “rilancio” Raichman. La falla aperta nella rete non è stata tappata. Non si tratta, naturalmente, di infilarcisi in forze; si provvederà invece a far uscire piano piano e con l'astuzia gli agenti del Gran Capo dalla loro fortezza. Come al solito, gli indizi sono sfavorevoli. Su Wenzel sono state trovate delle lettere in base alle quali è stato possibile identificare la sua amante, Germaine Schneider. Questa, arrestata dalla polizia segreta tedesca, sostiene che i suoi rapporti con “il Professore” sono di ordine puramente sentimentale. Viene creduta e rilasciata; scompare. Si verrà ben presto a sapere che Germaine Schneider, alias “Farfalla” e “Odette”, faceva parte, assieme a Wenzel e a Raichman, degli agenti del Komintern arruolati nell'Orchestra Rossa. 39 anni, Germaine è sposata con uno sviz-

zero, Franz Schneider, che partecipare in una certa misura al lavoro clandestino. Risiede a Bruxelles dal 1920. Espulsa dal Belgio nel 1929 per agitazione politica, vi è tornata illegalmente dopo un breve intermezzo. Il suo appartamento è stato uno dei recapiti dei capi comunisti di passaggio: ha ospitato Maurice Thorez, Jacques Duclos, Doriot, eccetera. Dopo la guerra serve da corriere tra il Belgio e la Germania. La maggior parte delle informazioni raccolte a Berlino veniva a trasmessa a Bruxelles da questo ingranaggio essenziale, che la polizia tedesca si lascia stupidamente scappare dalle grinfie. Con Schumacher e Germaine Schneider in libertà, è evidente che verrà dato l'allarme e che sono imminenti misure di sicurezza... Esatto, ma è proprio questa la fortuna di Fortner. Il Gran Capo, informato dell'ultimo colpo inferto alla sua filiale di Bruxelles, ordina a Yefremov di assumere un'altra identità. Il russo si rivolge a Raichman che ne parla all'ispettore Mathieu, il quale riferisce all'Abwehr. *** Franz Fortner: Si trattava di una carta d'identità destinata ad un giovane studente. Mathieu, naturalmente, pretese una fotografia e me la mostrò. Il ragazzo era giovane, biondo, con un volto fine e una fisionomia molto aperta, davvero simpatico. Mathieu promise la carta d'identità e fu convenuto che la avrebbe consegnata personalmente allo studente. Raichman organizzò l'appuntamento per il 30

luglio tra mezzogiorno e l'una, sul ponte sovrastante l'Orto Botanico, nel centro di Bruxelles. Superfluo dire che ci vado anch'io, con due automobili cariche di poliziotti. Seguiamo Mathieu a distanza e, dopo qualche minuto di attesa, vediamo arrivare un ragazzo magro e molto alto – almeno un metro e ottanta: era proprio il nostro uomo. Raggiunge Mathieu a metà del ponte e l'ispettore gli porge la carta d'identità. È stato in quel momento che siamo intervenuti. Non tentò neppure di fuggire; del resto, non aveva via di scampo. Ma che grida di sdegno! Ah!, per protestare, ha protestato! E che lui non comprendeva i motivi di quell'inqualificabile aggressione! E che lui era finlandese, cittadino di un paese i cui soldati si battevano a fianco dei nostri! E che avrei sentito parlare di lui e che esigeva di essere messo immediatamente in contatto con il suo consolato! Mi ha rotto i timpani... Ho finito con il dirgli: «Senta, è inutile fare un tale scandalo. Se davvero è finlandese, è ovvio che la rilasceremo». L'ho quindi autorizzato a telefonare al suo consolato. Aveva appena riagganciato che due rappresentanti finlandesi facevano irruzione nel mio ufficio fuori di sé dalla rabbia; urlavano senza darmi la possibilità di dire una parola: «Ma è una vergogna! Conosciamo perfettamente questo giovane che è effettivamente un leale cittadino finlandese, un pacifico studente iscritto all'Università di Bruxelles!». Sono riuscito a calmarli dichiarando loro che avevamo seri motivi per ritenere che “Eric Jernstroem” fosse in realtà un agente sovietico, che avremmo controllato tutto e che, naturalmente li avremmo tenuti informati dei risultati dell'indagine... Ma che storia!

***

Scommettiamo che Fortner, comunque siano andate le cose, deve aver visto profilarsi all'orizzonte lo spettro dell'incidente diplomatico. Nel suo rapporto, la Gestapo fa i complimenti agli specialisti che avevano preparato Yefremov alla sua missione. Scrive: «Il suo travestimento era perfetto in tutti i particolari, fino all'ultimo bottone della biancheria». Ignoriamo quali precisi particolari rendessero tanto sicura la “copertura” di Yefremov, ma conosciamo abbastanza la tecnica dei servizi sovietici per farcene un'idea approssimativa. A giudicare da casi analoghi, Fortner potrebbe aver trovato, per esempio, in tasca al suo “studente”: un telegramma indirizzato al suo falso indirizzo in Finlandia; un vecchio biglietto tranviario strappato – di un tram finlandese, beninteso –; una tessera di abbonamento ad una biblioteca di Helsinki; una ricetta firmata da un farmacista finlandese, eccetera. Il lettore ammetterà che c'era da esserne colpiti. Ma le angosce di Fortner, se angosce furono, non durarono a lungo: in Yefremov, la struttura interiore non possedeva le qualità della copertura. Esistono tre versioni del disastro. I. Secondo un ex-membro del “Kommando Orchestra Rossa”, l'“agganciamento” di Yefremov fu l'operazione più facile del mondo: era ucraino, quindi portato all'antisemitismo. Gli venne dimostrato che tutti i suoi capi erano ebrei e che sarebbe stato proprio sciocco a sacrificarsi per quella canaglia; ne convenne. II. Secondo Fortner, la squadra di aguzzini distaccata a Bruxelles da Giering esercitò le sue doti sul prigioniero. Il quale resistette alcuni giorni, poi cedette.

III. Secondo un altro ufficiale dell'Abwehr, Yefremov soccombette ad una manovra più sottile. Aveva in Russia i genitori e soprattutto la giovane moglie che adorava. La ragazza era ingegnere, specialista di locomotive, profondamente patriota. I tedeschi minacciarono Yefremov di informare il Centro che aveva denunciato Wenzel, cosa beninteso inesatta. Avrebbe così perso l'amore della moglie insieme alla sua stima; la moglie avrebbe rischiato a sua volta di incorrere in rappresaglie da parte delle autorità sovietiche. Yefremov preferì l'amore al dovere. *** Vi sono individui all'occasione più vulnerabili di altri, con lacune e crepe che facilitano lo smantellamento, oppure dipende da una radicale fragilità interiore se all'avversario vengono offerti tanti punti deboli? Grossvogel, quando lo si minaccerà di fucilargli sotto gli occhi la moglie e la figlioletta di poche settimane, risponderà con la sua voce posata da uomo d'affari: «Fucilate pure, ve ne prego». Sokol non aveva battuto ciglio sotto lo scudiscio degli uomini di Giering, né nella vasca d'acqua gelata. Grossvogel e Sokol appartenevano indubbiamente alla Vecchia Guardia. Ma anche Wenzel, detto “il Professore”, era della Vecchia Guardia, prima di indossare la livrea di lacchè della Gestapo... Non esiste una regola. Là dove comincia la Gestapo finisce l'umano e, quindi, la logica. Settanta chili di carne che sanguina sotto la sferza degli aguzzini non sono più un uomo, non sono neppure una bestia, sono qualcosa che può diventare un eroe o un traditore. La metamorfosi finale è imprevedibile, spesso sorprendente, a volte incomprensibile. Non giudicheremo, perché

per avere il diritto di giudicare bisognerebbe essere entrati a nostra volta nella gabbia dove gli uomini di Giering attendevano con il loro randello. A coloro che non hanno parlato, la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza; grazie a loro, ci sentiamo più grandi. Gli altri, li giudichino, se vogliono, i compagni caduti per colpa loro... Franz Fortner: Yefremov, dunque, ci ha confessato che aveva sostituito Kent a capo della rete di Bruxelles. Lo abbiamo interrogato in particolare sui collegamenti radio. Disponeva di tre emittenti: quella di Wenzel, quella che era nascosta in casa di Mathieu e una terza, che era tenuta di riserva a Ostenda. Yefremov ci ha svelato il nome del pianista: un commissario della Marina belga. Lo abbiamo arrestato, ma non era più in possesso dell'emittente e pretese di non sapere dove si trovasse. Dei tre apparecchi localizzati dalla Funkabwher era l'unico ad esserci sfuggito, tenendo presente che quello affidato a Mathieu non era mai entrato in funzione. Gli altri due li avevamo recuperati in Rue des Atrébates e nella soffitta di Wenzel. Stando a Yefremov, la rete non disponeva di un pianista di riserva per l'emittente di Ostenda. L'avevamo fatta finita, dunque, con le emissioni clandestine e, naturalmente, fu un immenso sollievo. Yefremov ci consegnò anche il suo “contatto” con la rete olandese. Ad essere sinceri, ignoravamo perfino l'esistenza di tale rete. Il corriere che assicurava i collegamenti tra Bruxelles ed Amsterdam era un piccolo ebreo – un altro! – che aveva per pseudonimo “Occhiali”. Lo arrestai grazie a Yefremov. Tremava di paura ed accettò subito di mettersi al mio servizio. Gli dissi che saremmo partiti

per Amsterdam, che sarebbe stato rilasciato se si comportava bene, ma che il minimo tentativo di fuga lo avrebbe portato al patibolo. Mi promise di filare diritto. Partii dunque per l'Olanda in compagnia di Occhiali e di tre poliziotti. Là il capo del controspionaggio era il colonnello Giskes dell'Abwehr. Lo misi al corrente delle rivelazioni di Yefremov e gli domandai se sapeva qualcosa. Mi rispose: «Sì, so che qui da noi c'è un'emittente russa, ma le confesso che non ho avuto il tempo di occuparmene: sono immerso fino al collo nell'Operazione Polo Nord».

Soffermiamoci su questa frase e prendiamo in considerazione il colonnello Giskes intento a raccogliere la sua collezione di fiaschette di whisky che vedrò sulla mensola del suo caminetto vent'anni dopo. Giskes si esercita in quello che l'Abwehr chiama Funkspiel, ovvero “Gioco-radio”. Tale sottile operazione, oltremodo emozionante, è in un certo senso il coronamento della caccia al pianista, la sua apoteosi. Anziché abbattere la selvaggina catturata, la si “aggancia” e la si usa come esca. Grazie al contatto così stabilito con il nemico, se ne penetrano i segreti, se ne smaschera l'organizzazione, se ne arrestano gli emissari. Dopo alcuni mesi di Funkspiel, il carniere di Giskes è impressionante: 53 agenti fatti prigionieri al loro arrivo dall'Inghilterra, 18 pianisti “agganciati” in contatto con Londra, migliaia di armi paracadutate dagli inglesi e subito catturate... un trionfo, dunque? Il più bel Funkspiel mai riuscito nella storia! Questo è meno certo... Il guaio, in questo campo, è che non si è mai sicuri. Si è davvero riusciti ad ingannare l'avversario? È davvero caduto in trappola? È vero che il nemico manda armi, denaro, uomini soprattutto,

ma i servizi segreti sanno come sporcarsi le mani: è il loro mestiere. Forse si tratta di un sacrificio deliberato. L'interesse di una manovra tanto perversa? Intossicare l'avversario. Se Londra pone ai pianisti “agganciati” domande relative al litorale olandese e alle difese tedesche, Giskes ne dedurrà che gli Alleati si preparano a sbarcare in Olanda e si ingannerà. D'altro canto, un Funkspiel deve essere alimentato, perché se i pianisti “agganciati” cessassero di inviare informazioni, la loro Centrale sarebbe messa in allarme e il gioco cesserebbe. Vengono fatti loro trasmettere testi accuratamente dosati: un po' di vero, molto di falso. Ma se l'interlocutore non è ingannato dalla soperchieria, può trarre vantaggio dal Funkspiel: il falso porta a volte al vero, perché in base a ciò che si cerca di fargli credere, si può dedurre ciò che si vuole tenergli nascosto. Terza ragione per continuare a fare finta di essere tratti in inganno: il Funkspiel costa caro, in tempo e uomini. Il lavoro di una Centrale che finga di essere mistificata è dei più facili: basta mandare ai pianisti “agganciati” le liste delle solite domande. Ma per chi conduce il Funkspiel, che rompicapo! Quel secchio delle Danaidi che occorre alimentare di continuo lo costringe a strisciare ai piedi delle organizzazioni ufficiali per ottenere qualche briciola di informazione che darà un tono di verità alle risposte. E siccome i militari e i funzionari non sempre afferrano le sottigliezze del Funkspiel, siccome non è possibile illuminarli in merito senza compromettere il segreto dell'operazione, quelli nicchiano all'idea di cedere informazioni, ritengono di avere già detto troppo, proclamano in nome di un buon senso superficiale che non c'era bisogno di “agganciare” una rete per svolgere lo stesso lavoro al posto suo... Di conseguenza, conflitti interminabili e

spossanti tra funzionari avari e sempliciotti e l'organizzazione del gioco che trema per la paura di veder morire di inedia il suo Funkspiel. Ci si può immaginare l'angoscia del povero colonnello Giskes con le sue 18 emittenti da alimentare, per non parlare dei falsi attentati e dei falsi sabotaggi da inscenare, dei “comitati di benvenuto” da appostare ogni qual volta Londra annuncia un lancio di paracadutisti, del lavoro implicito nel controllo di parecchie decine di agenti lasciati in libertà, da trasformare in docili marionette senza che ne dubitino sia pure per un istante... E, per soprammercato, bisognerebbe anche occuparsi dell'emittente russa? Giskes non può farlo: tutto il suo tempo e tutti i suoi uomini sono presi dall'“Operazione Polo Nord”. Ha arrestato 53 agenti mandati da Londra, ma quanti soldati tedeschi sono morti sul fronte orientale a causa dei messaggi del pianista sovietico? Ha recuperato, grazie ai lanci degli inglesi, 30.000 libbre di plastico, 3000 mitra, 5000 pistole, 300 fucili mitragliatori, 2000 granate, 500.000 caricatori, 75 radiotrasmittenti e anche molto denaro. Ma quanti carri armati, autocarri e aerei sono stati distrutti dall'Armata Rossa grazie alle informazioni raccolte a Berlino, trasmesse ad Amsterdam e comunicate a Mosca? L'“Operazione Polo Nord”, in definitiva, è stata un trionfo per l'Abwehr, oppure una gigantesca esca sulla quale si è lanciato ciecamente il controspionaggio tedesco in Olanda1? 1 Stando alle informazioni in nostro possesso, Londra non si lasciò trarre a lungo in inganno dalla mistificazione montata da Giskes, ma continuò a giocare la partita. Beninteso, non era per proteggere un'emittente sovietica di cui gli inglesi, con tutta probabilità, ignoravano perfino l'esistenza. Ma i servizi britannici misero anch'essi a profitto l'impegno totale dei loro avversari nell'“Operazione Polo Nord”: montarono, all'insaputa di Giskes, una nuova rete che restò in funzione senza essere scoperta fino alla fine della guerra. D'altro canto, è quasi certo che Londra si servì dell'“Operazione Polo Nord” per intossicare Berlino in merito allo sbarco. I questionari trasmessi ai pianisti “agganciati” lasciavano prevedere che il secondo fronte sarebbe stato aperto in Olanda.

Esiste una quarta ragione per prestarsi ad uno Funkspiel, ma la citiamo solo a mo' di esempio e senza insistere, perché non sembra di interesse capitale ai tecnici dei servizi di informazione, il cui punto forte – o punto debole – non è di certo il fatto di avere il cuore tenero. Un Funkspiel serve a salvare vite umane. Impossibile giustiziare i pianisti “agganciati” e sostituirli con specialisti tedeschi, perché ogni radiotelegrafista ha un suo modo personale di trasmettere, una sua “firma”, per usare il gergo del mestiere, e il suo interlocutore della Centrale la conosce bene. Fin tanto che Giskes crede di ingannare Londra, i suoi 53 prigionieri sono al sicuro; moriranno solo dopo la fine del Funkspiel, quando non saranno più di alcuna utilità2. L'“Operazione Polo Nord” non è cosa che ci riguardi. Ma Johann Wenzel, detto “il Professore”, ben presto strimpellerà per conto dei tedeschi. Non è stato inutile spiegare che cos'è un Funkspiel. *** Fortner: Avendomi Giskes lasciato libero di agire a mio piacimento, mi installo alla sede della Gestapo e sguinzaglio Occhiali per le strade di Amsterdam. Solo, naturalmente. Poteva approfittarne per scappare, ma, come si dice, chi non risica non rosica. E io contavo più sulla paura che sui giuramenti di fedeltà.

2 Sarebbe ingiusto non accennare al fatto che il colonnello Giskes compì notevoli sforzi per salvarli dalla morte. La Gestapo fu più potente di lui.

Occhiali conosceva parecchie “cassette delle lettere” ad Amsterdam, cosa che non presentava grande interesse. Lo scopo che mi proponevo era l'arresto del capo della rete, con il quale era in contatto. Occhiali si reca perciò in un appartamento dove aveva l'abitudine di incontrarlo, ma senza successo: l'uomo non c'è e la portinaia lo avverte che è assente da vari giorni. Occhiali viene a riferirmi e ci informa che è a conoscenza di un altro indirizzo frequentato dal suo capo. Ce lo mando subito, ma è un nuovo fiasco: nessuno. Mi dico: «Siamo a terra, hanno visto Occhiali in macchina con me e hanno dato l'allarme». Mi reco di persona al secondo appartamento e scopro un'emittente. Era già qualcosa. Ordino a Occhiali di tornare al primo indirizzo e di lasciare un messaggio per il suo capo alla portinaia: appuntamento per quello stesso giorno alle 5, in un caffè di Amsterdam di cui non ricordo più il nome. Il caffè era molto grande, molto affollato, quindi difficile da controllare. D'altra parte, non volevo impiegare troppa gente, perché il nostro uomo poteva fiutare il pericolo e filarsela. Mi reco dunque all'appuntamento con due poliziotti in borghese e il capo della Gestapo di Amsterdam. Si installeranno tutti e tre dentro il caffè, mentre io resto sul marciapiede, piuttosto ansioso, la mano contratta sul calcio della mia fedele Mauser 6,5 che portavo sempre in tasca. Occhiali arriva poco prima delle 5 e va a sedersi ad un tavolo al quale era già insediata una coppia. Io entro subito dopo di lui e mi siedo ad un tavolo vicino. Certi olandesi dovettero stringersi per farmi posto: vi ho detto che il caffè era gremito, cosa che rischiava di complicare la faccenda. Occhiali ordina un caffè, io lo stesso. Lo beviamo senza fretta, ma non si presenta nessuno. Co-

mincio a disperare quando, di scatto, Occhiali si alza in piadi all'avvicinarsi di un uomo molto alto, molto robusto, ma dai tratti un po' smorti: un gigante molle. Questi si siede al tavolo di Occhiali e i due si lanciano in una conversazione che dura almeno 5 interminabili minuti. Che fanno i miei uomini? Ero sui carboni ardenti. Alla fine i due poliziotti arrivano e cercano di infilare le manette al gigante. Lui si dibatte, invoca aiuto e tutto il caffè è in subbuglio. Vedo che si mette male ed esco in punta di piedi per non essere identificato. Dentro, grida, tumulto, gli avventori che si schierano dalla parte dell'arrestato e minacciano di sbranare i miei poliziotti, che devono impugnare le armi per aprirsi la strada verso la porta. Una piccola folla minacciosa si era nel frattempo ammassata sul marciapiede e poco c'è mancato che non si scatenasse una vera e propria rivolta. Vi giuro che c'era una certa elettricità nell'aria! Finiamo per sganciarci e portiamo il nostro uomo alla sede della Gestapo. Qui, il prigioniero rifiutò di rispondere alle mie domande. Quelli della Gestapo cominciarono a percuoterlo e siccome non era in mio potere impedirlo – dopo tutto, erano a casa loro – ho preferito andarmene. Ma in seguito ho saputo che il Kommando era riuscito a farlo cedere completamente. Si chiamava Anton Winterink. Era un ex-membro del Komintern passato all'Orchestra Rossa. Tradì tutto il suo gruppo e accettò perfino di fare il Funkspiel. *** Ignoriamo da chi fu tradito l'olandese Kruyt. Ex-pastore protestante, convertito al comunismo e rifugiatosi in Russia, si era offerto volontario per una missione speciale e aveva seguito a

Mosca gli stessi corsi di spionaggio frequentati da Wilhelm Fellendorf ed Erna Eifler, paracadutati nel mese di maggio precedente sulla Prussia Orientale. Essendo Kruyt destinato ad aiutare Yefremov, i suoi capi lo avevano mandato in sommergibile in Gran Bretagna, dove aveva seguito il severo corso di addestramento dei paracadutisti inglesi. Questi devono aver osservato con stupore quello straniero che avrebbe potuto essere loro padre e forse anche nonno: aveva infatti 63 anni. Kruyt fu imbarcato su un bombardiere inglese assieme ad un altro agente sovietico e si lanciò sul Belgio, in una notte senza luna della fine di luglio, con il legbag imbottito contenente l'emittente fissato alla gamba sinistra. Il suo compagno, che ne aveva condiviso le pene e le fatiche della scuola di Mosca, alla fase di lancio era stato paracadutato un po' prima sulla periferia dell'Aja. Kruyt riuscì ad atterrare senza danni, seppellì il paracadute e procedette nel buio. Tre giorni dopo, qualcuno lo consegnava alla Gestapo. Martoriato, approfittò di un attimo di disattenzione dei suoi aguzzini per inghiottire la pillola di veleno che era riuscito a tenere nascosta. Un'immediata lavanda gastrica lo strappò agli spasmi dell'agonia. L'interrogatorio venne ripreso con questa domanda: «Chi era il paracadutista lanciato sull'Aja?». E siccome continuava a non rispondere, il tedesco si strinse nelle spalle e disse: «Sa, comunque lo abbiamo preso, si è ammazzato atterrando sul tetto di una casa». Allora, per la prima volta, Kruyt ebbe il volto di un uomo di 63 anni, spossato dalla fatica, le torture e l'amarezza del tradimento. Mormorò: «Era mio figlio». Gli fu permesso di assistere ai funerali, poi lo addossarono ad un muro e lo fucilarono. Se esiste un paradiso per i coraggiosi, anche se un po' spretati, Kruyt deve esserci.

XVI. COLPO DI GRAZIA A BRUXELLES

Un ufficiale del Deuxième Bureau, membro attivo della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo, poi interrogato per ore senza che acconsentisse ad aprire bocca. Per farla finita, il tedesco che eseguiva l'interrogatorio fece un cenno al suo aiutante e questi si eclissò. Poco dopo, proveniente dalla stanza vicina, si udì il rumore significativo di un filo d'acqua che colava in una tinozza. L'ufficiale francese alzò le spalle e disse: «Ah, be', doveva dirmelo subito che aveva intenzione di parlare seriamente». E cominciò a parlare. Le sue chiacchiere durarono il tempo di una partita a scacchi. Quando ebbe sacrificato qualche pedina per proteggere i pezzi essenziali, tornò a chiudersi nel mutismo e non venne interrogato oltre. Quell'uomo era un professionista. Yefremov e Kruyt sono dei dilettanti. Con loro non esistono mezze misure: gli apici dell'eroismo o gli abissi della fellonia; una volta preso l'avvio, non sanno più fermarsi. Per un professionista, le parole “eroismo” e “fellonia” sono suppergiù prive di senso: lui gioca a scacchi, non si ritiene disonorato se deve sacrificare qualche pedina; l'essenziale è

salvare il re e la regina. Il dilettante, invece, lotta per il suo ideale, che si incarna tanto nell'agente subalterno, quanto nel capo della rete. Non va per il sottile, si oserebbe dire, e non pesa le conseguenze pratiche delle proprie debolezze. La sua fedeltà sarà totale o nulla. Così, svelato il primo nome, tutto è consumato poiché la fede è tradita. E il dilettante, caduto più dall'alto che il professionista, scenderà necessariamente più in basso. Nauseato di sé, si crogiola voluttuosamente nelle delizie dell'abiezione. Non lasciamoci trarre in inganno: in tale atteggiamento c'è una volontà di autopunizione e a volte di masochismo. Il dilettante infligge a se stesso il castigo. Poiché non ha saputo essere un eroe perfetto, non gli resta che essere un vigliacco assoluto, il traditore escrementizio. È la logica del suo sistema. Non gli passa neppure per il capo l'idea che con tutta probabilità è soltanto un povero diavolo sottoposto ad una pressione eccessiva. Otto giorni dopo l'arresto, Yefremov è arrivato al punto di dire agli uomini del Kommando: «Io nei vostri panni agirei così o così: li conosco bene e vi assicuro che cadranno nella trappola...». *** Primo imperativo: impedire alla rete di scoprire il tradimento dell'ucraino. Viene fatta scrivere a costui una lettera indirizzata a Raichman, in cui gli spiega che le agitazioni conseguenti all'arresto di Wenzel lo hanno costretto a darsi alla macchia, ma che uscirà dal nascondiglio non appena sarà tornata la calma. Secondo imperativo: servirsi rapidamente di Yefremov per annientare la rete, senza lasciare al Gran Capo il tempo di riorganizzare le proprie truppe in rotta. Dopo Occhiali, Yefremov

tradisce Anton Danilov. Ammettiamolo: avremmo dovuto parlare già prima di Danilov, quarto ufficiale russo di questa storia. È arrivato in Belgio nel 1939, proveniente da Parigi, dove svolgeva attività spionistica al riparo del consolato sovietico. Ma che dire di lui? È un personaggio un po' sconcertante. Gli ex-membri della rete e del Kommando condividono lo stesso disprezzo nei suoi confronti: «Danilov? Un tipo meschino, banale, insignificante...». È stato impiegato in mansioni secondarie di corriere; pare che facesse anche il pianista, di tanto in tanto. Povero Danilov: finirà sul patibolo tra l'indifferenza generale, passando inosservato perfino al momento di uscire di scena... Era una spia tuttofare, così come esistono manovali tuttofare. Germaine Schneider è ben altrimenti interessante per il Kommando; può condurlo a Trepper. Il docile Yefremov chiede a Raichman di organizzargli un abboccamento con lei; lo ottiene e spiega a Germaine: «La rete è saltata per aria, a che vale negarlo? Può stare certa che il Gran Capo riuscirà a cavarsela e che saremo noi a rimetterci le penne per lui. A meno di non schierarci con i tedeschi. Tu puoi essere loro utile. Anche tuo marito li interessa». Germaine chiede del tempo per riflettere e avverte immediatamente il Gran Capo. Germaine riceve ordine di troncare ogni contatto con Yefremov e di partire per Lione. Sprovvista di carta d'identità, Germaine non può lasciare subito il Belgio ma si rifugia in un nascondiglio ignoto a Yefremov. Messo fuori strada per un momento, il Kommando rilancia l'offensiva scegliendo per obiettivo Franza Schneider, il marito di Germaine. Lo svizzero non fa esattamente parte della rete, si trova piuttosto alla sua periferia. Trepper ha giudicato inutile farlo scomparire. È un errore: Schneider sa molte cose. Sa anche, attraverso Germaine,

che Yefremov è al servizio del Kommando; ma, strano, quando Raichman lo invita ad un incontro con l'ucraino, Schneider si presenta all'appuntamento. Vi sembra incomprensibile? Non abbiamo la pretesa di avere chiarito tutto, e sta di fatto che i movimenti di Franz Schneider ci risultano tuttora misteriosi. Stando ad alcuni, si è recato all'appuntamento per vedere se Yefremov era davvero passato al servizio del nemico. Questo ricorda un po' il grande, ammirevole, inimitabile Kovalski, capo di un'organizzazione di resistenza comunista operante in Francia. Poiché Kovalski si recava agli appuntamenti senza prendere alcuna precauzione, i suoi uomini, preoccupati per lui, lo costrinsero a mettere a punto un elementare sistema di sicurezza; venne deciso che un tovagliolo steso sul davanzale della finestra avrebbe significato che il nemico occupava l'appartamento dove era stato fissato l'appuntamento. Un giorno, Kovalski scorge il tovagliolo, si precipita per le scale, sfugge per miracolo alla trappola della Gestapo, ridiscende i gradini a quattro alla volta per spiegare agli amici stupefatti: «C'era il tovagliolo, voleva dire che qualcosa non funzionava e volevo avere la coscienza a posto». Se il grande capo Kovalski ha potuto agire in questo modo, perché non Franz Schneider? Un eroe da romanzo si comporterebbe probabilmente con maggiore rigore, ma trattandosi di esseri in carne ed ossa, bisogna ammettere qualche stravaganza nel loro contegno e non pretendere la logica a tutti i costi. Arrestato, interrogato, Franz Schneider si lascia strappare il nome e l'indirizzo di una tedesca che serviva da collegamento tra Berlino e Bruxelles. Afferma, però, di non sapere dove sia sua moglie: lo domandino a Wenzel, che deve essere al corrente! Sic-

come Wenzel non lo sa, o non vuole dirlo, le tracce di Germaine sembrano definitivamente perse. E lo sarebbero, forse, senza Raichman. Questi si mette in contatto con l'ispettore Mathieu e gli chiede una carta d'identità per un agente ricercato. La fotografia fornita è quella di Germaine Schneider. Mathieu promette la carta e suggerisce a Raichman di organizzargli un appuntamento con l'agente. Ricomincia da capo il colpo dell'Orto Botanico, già fatale a Yefremov. *** Che accade? Raichman ignora dunque ancora l'arresto di Yefremov? Franz Schneider, al corrente del tradimento dell'ucraino, avrebbe trascurato di avvertire Raichman quando questi è venuto a fissargli un appuntamento con Yefremov? E il Gran Capo? Il suo gruppo speciale di sorveglianza non lo informa più degli avvenimenti di Bruxelles, oppure Trepper ha freddamente abbandonato al loro destino i superstiti della rete belga? Trepper sa che Yefremov è stato preso, che è tornato al suo domicilio tre giorni più tardi, dichiarando alla portinaia di aver avuto qualche noia da poco a proposito dei documenti, che da allora in poi spiega una frenetica attività per riannodare i contatti – tutti i contatti possibili. L'ucraino è quindi passato al nemico. Se il Gran Capo non informa Raichman, con tutta probabilità è perché questi gli sembra gravemente sospetto: non ha rotto con Mathieu, contrariamente alle sue istruzioni, e il suo tradimento sarebbe più che plausibile. Ma perché aver lasciato che Franz Schneider si gettasse in bocca al lupo? Perché lasciare che sua

moglie si faccia stritolare dal funesto ingranaggio Raichman-Mathieu? Perché qui assistiamo ad una disfatta. Contrariamente al generale di un esercito sconfitto, il Gran Capo sa pressappoco dove si trovano i suoi battaglioni e fino a dove il nemico è penetrato. Ma, al pari del suddetto generale, è nell'impossibilità di impartire ordini capaci di salvare le sue truppe: i suoi collegamenti sono interrotti. È il rovescio di una tecnica perfezionata. Grazie ad un rigido sistema di separazione, si possono affrontare senza rischio i primi assalti del nemico. Ma se questo porta un colpo decisivo, se riesce a spezzarsi il sottile meccanismo della rete, la separazione impedisce di ristabilire la situazione; i vari pezzi non ingranano più. Trepper ha probabilmente perso il contatto con Germaine Schneider, suo marito e tutti gli altri. Vede i pericoli da cui sono minacciati, senza poterli avvertire. E loro, ciechi e sordi, presentono tali minacce, se ne sgomentano, si abbandonano alle vertigini della solitudine e della paura. Franz Schneider si reca all'appuntamento, certo di trovarvi la Gestapo: tutto, piuttosto di restare confinato nell'isolamento, rimuginando dubbi e angosce. Germaine, tagliata fuori dalla rete, braccata da una Gestapo che già le ha catturato marito e amante, affida la propria salvezza alle mani dubbie dell'ispettore Mathieu... Ma dopo aver molto servito, lo strumento Raichman alla fine è spuntato. Fortner e Mathieu attendono invano Germaine Schneider all'appuntamento fissato: a presentarsi sarà Raichman. Questo, perché il Gran capo ha potuto avvertire Germaine? Perché questa ha obbedito ad un ultimo resto di diffidenza? Non lo sappiamo. E neppure il Koomando, il quale, però, ne deduce che

con tutta probabilità Mathieu è bruciato. Ora, se la rete dubita della sua buona fede, Raichman diventa inutile. Lo arrestano. Dice Fortner: Era un orribile criminale, basso di statura, nero nero – un ebreo! Si è immediatamente offerto di lavorare per noi. Il suo servilismo era nauseante e vi assicuro che disgustava tutti noi. Ma, che volete? Non potevamo fare gli schizzinosi. Era in grado di renderci dei servigi e dovevamo utilizzarlo...

«Essendo ebreo e senza spina dorsale», indica dal canto suo il rapporto della Gestapo, «Raichman tradì immediatamente la sua amante, Malvine Gruber, che si mise del pari a nostra disposizione». Un agente al servizio dei Soviet dal 1934 conosce necessariamente un certo numero di persone. Catturato, Raichman si rivelerà indubbiamente altrettanto prezioso di quanto era lo strumento inconscio di Mathieu. Forse condurrà perfino al Gran Capo, il quale, con il procedere dell'inchiesta, è diventato il nemico numero 1 del Kommando, la sua ossessione. Quanto a Malvina, cittadina cecoslovacca e rotondetta madre di famiglia, costituisce anch'essa una preda di prim'ordine. Corriere della rete e incaricata dei collegamenti con il gruppo sovietico operante in Svizzera, confessa di avere attraversato chissà quante volte la frontiera franco-elvetica. E, non appena arrestata, fornisce al Kommando un'informazione di importanza capitale relativa al Piccolo Capo. Non contento di rifiutare a Trepper la partenza di Margarete per la Svizzera dopo l'irruzione in Rue des Atrébates, Kent ha voluto evitare alla sua amante di viaggia-

re sola con il figlio fino a Parigi: l'ha fatta accompagnare da Malvina. L'imprudente Margarete ha rivelato a quest'ultima che la sua destinazione era Marsiglia. Il Kommando saprà trovarvi i due amanti e fare loro pagare il peccato di leggerezza. Ma prima di attaccare Parigi e Marsiglia, occorre ripulire a fondo Bruxelles. *** Franz Fortner: Dopo la vittoria sulla Francia, nel 1940, le autorità del Reich hanno fatto proposte assai interessanti ai paesi neutrali perché creassero imprese commerciali nei territori occupati. Avevamo bisogno di forniture, di merci di ogni genere, e non si sapeva ancora in quale misura avremmo potuto contare sulla collaborazione degli uomini d'affari francesi, belgi, olandesi. I neutrali, al contrario, non avevano alcuna ragione di mostrarsi reticenti. Detto tra noi, offrivano garanzie di sicurezza maggiori di qualsiasi cittadino di un paese vinto. A Bruxelles, come altrove, tali ditte neutrali hanno ottenuto tutte le facilitazioni di lavoro possibili e immaginabili. Potevano telefonare o telegrafare in tutta Europa; i loro dirigenti ricevevano gli Ausveis necessari agli spostamenti. In effetti, era come se per esse lo stato di guerra non fosse esistito. Restavamo prudenti, beninteso, ed esercitavamo una sorveglianza discreta. Sono stato così indotto ad aprire un'inchiesta di normale amministrazione sulla società Simexco, il cui direttore era un uomo d'affari dell'Ameri-

ca del Sud. La Simexco era una delle ditte più importanti di Bruxelles; trattava affari di considerevole importanza con la Wehrmacht ed i suoi dirigenti erano di continuo in viaggio. La cosa che mi ha dato da pensare era la quantità straordinaria di telegrammi che scambiava con Berlino, Praga, Parigi, eccetera. Mi sono confidato con il capo dell'Abwehr III N, il servizio incaricato della sorveglianza delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche. Lui si è mostrato del tutto tranquillo: la Simexco era una delle ditte più serie e non c'era motivo di privarla dei suoi privilegi. Ciò non è bastato a placare le mie inquietudini. Ho deciso di andare a trovare l'intendente militare di Bruxelles, che aveva le mani in pasta in tutte le ordinazioni passate dalla Wehrmacht. Quando gli ho chiesto la sua opinione sulla Simexco: «Ah! Delle persone a posto, efficientissime! Se fossero tutti così... Lavorano in modo impeccabile e, per di più, sono gentilissimi con noi. Di tutti gli uomini d'affari locali, sono gli unici con i quali abbiamo dei veri contatti personali. Ci invitano spessissimo a cene e ricevimenti e devo dire che ci trattano da re...». Proprio quei contatti personali mi preoccupavano. Non è nelle abitudini dei funzionari dell'intendenza spassarsela con i clienti; sono cose che non si fanno. La Simexco doveva avere compiuto un bel po' di sforzi per indurli a tale familiarità. Ma a che fine? Ho chiesto all'intendente di parlarmi un po' dei dirigenti della ditta. Mi ha detto che il sudamericano partito per la Francia era stato sostituito da un belga, Nazarin Drailly, ma che l'uomo più importante dell'azienda sembrava fosse un altro uomo d'affari residente a Parigi. Questi veniva spesso a Bruxelles soprattutto per incassare i guadagni della Simexco e il mio intendente lo ave-

va incontrato spessissimo. Ne parlava nei termini più laudativi, affermando che si trattava di un uomo eccezionale, dinamico ed efficiente, partigiano convinto della causa tedesca. Io allora ho chiesto di descrivermelo fisicamente. Siccome avete già capito di chi si trattava, non sarà neppure necessario dirvi che ho ascoltato la descrizione con i sudori freddi. Alla fine, ho tolto dal portafoglio una delle due fotografie trovate in Rue des Atrébates: «È lui?». Già, era proprio lui: il Gran Capo... Quanto al sudamericano, ovviamente si trattava di Kent... Immaginatevi il mio stupore e la mia paura. Avevo smesso, è vero, di cercare gli agenti sovietici nei caffè di periferia, ma tra questo e ritrovarli nei circoli tedeschi più su di Bruxelles... E soprattutto in quel magnifico posto di osservazione che era l'Intendenza! Grazie alla Simexco e agli affari che combinavano con la Wehrmacht, sapevano tutto degli effettivi tedeschi in Belgio, del loro equipaggiamento, della costruzione del Vallo Atlantico (la ditta vi partecipava attivamente), eccetera. Inoltre, i funzionari dell'Intendenza sono portati dalle loro stesse funzioni a viaggiare molto, a incontrare gente, ad essere al corrente di un mucchio di cose. I bicchieri offerti da Kent dovevano aver sciolto un bel po' di lingue...

*** Margarete Barcza: Si può dire quel che si vuole di Vincent, ma non che non reggesse l'alcol. Non era come quegli ufficialetti tedeschi: qualche bicchiere di cognac e finivano sotto il tavolo! Li ricevevamo tutte le sere o quasi: sapevano che la casa

era sempre aperta per loro, che ci si mangiava bene, ci si beveva ancora meglio e si incontravano belle ragazze – non farò nomi – che si mostravano... diciamo gentili. Era sempre festa!

*** Stando a certe informazioni, la Simexco non sarebbe stata vittima del fiuto di Franz Fortner, ma della denuncia di Yefremov. Quando Trepper aveva passato le consegne a quest'ultimo, gli aveva segnalato l'esistenza della Simexco raccomandandogli di tenersene alla larga: per via della lunga attività di Kent a capo della ditta, il terreno scottava. Yefremov avrebbe tradito la Simexco oltre al resto. Sta di fatto che la sua scoperta coincide con le confessioni dell'ucraino. D'altro canto, Fortner aveva una pista che portava alla ditta. Anche se non aveva scoperto in casa di Kent alcun indizio tale da permettere di scoprire le sue attività commerciali – cosa che va ad onore del Piccolo Capo –, l'inchiesta preliminare all'irruzione in Rue des Atrébates gli aveva indicato che i “sudamericani” domiciliati al 101 lavoravano per i servizi economici tedeschi. E poi, perché dubitare di Fortner? La sua franchezza sulle cantonate prese è stata esemplare e non sarebbe leale mettersi a discuterla quando finalmente accenna ad uno dei successi conseguiti. Le due tesi, del resto, non sono inconciliabili: la denuncia di Yefremov ha forse messo il punto finale ad un'inchiesta già molto avanzata. La Simexco è smascherata: che farne? Fortner riferisce:

Abbiamo preso informazioni sugli azionisti. Si trattava di uomini d'affari belgi che, apparentemente, non sospettavano neppure in quale ginepraio si fossero cacciati. Mi sono recato alla Simexco facendomi passare per un ufficiale dell'Intendenza, desideroso di comprare carta da lettere per le truppe di occupazione. Sono stato ricevuto dal direttore commerciale Nazarin Drailly. Nel suo atteggiamento non c'era nulla che desse adito a sospetti: mi ha trattato come avrebbe fatto un normale commerciante che riceve un normale cliente. Del resto, non aveva carta da lettere e l'affare è andato a monte. Per saperne di più, abbiamo deciso di non arrestare nessuno per il momento e di sorvegliare la ditta, in particolare mettendo sotto controllo il telefono. Ma qui bisogna che vi racconti la mia ultima sorpresa – enorme! – nel corso di quell'inchiesta, che di sorprese non ne aveva certo risparmiate... Arrivando a Bruxelles, avevo pensato che sarebbe stato un errore installarmi alla sede dell'Abwehr; il nemico mi avrebbe subito scoperto. Era preferibile avere da qualche parte un ufficio dove, sotto pseudonimo, avrei potuto ricevere senza rischi i miei informatori. Così ho affittato, con il nome di “Riepert, Import-Export”, un ufficio in uno stabile situato al numero 192 di Rue Royale. E sapete dov'era la sede della Simexco? Al numero 192 di Rue Royale! Avevano l'ufficio sul mio stesso pianerottolo, attiguo al mio, con una tramezza così sottile che si udiva parlare da una stanza all'altra! Del resto, è evidente che dovevano avere installato dei microfoni per registrare le mie conversazioni... Ora, forse vi ricordate che, trovando in Rue des Atrébates la fotografia del Gran Capo e del Piccolo Capo, avevo avuto la strana impressione di averli già visti? Certo, li avevo incrociati dieci volte sulla scala!

Li incontravo sul pianerottolo e ci salutavamo togliendoci il cappello! Aggiungerò che, dopo la spedizione in Rue des Atrébates, si sono guardati bene dal rimettere piede in Rue Royale, nel qual caso li avrei certamente identificati. Ma è incredibile, non è vero? Una storia davvero incredibile! A leggerla in un romanzo, si accuserebbe l'autore di troppa fantasia...

Incredibile davvero, e più di quanto pensi Fortner. Perché se Fortner ha ignorato fino all'ultimo che cos'era la Simexco, la Simexco dal canto suo ha ignorato che cosa si nascondeva dietro la targhetta “Riepert, Import-Export”. Per mesi, lo spionaggio sovietico e il controspionaggio tedesco hanno coabitato sullo stesso pianerottolo senza saperlo! Il caso, prodigioso regista, non aveva trovato degli attori alla sua altezza...

XVII. VENDESI

Emmanuel Mignon, nato il 22 novembre 1917 a Saint-Nazaire, ma dall'età di 18 anni tipografo nella stampa parigina, membro della confraternita giornalistica del quartiere del Croissant dove il dubbio sistematico e la celia sono virtù teologali, provvisto di capelli candidi e lunghissimi, di una pelle fine e pallida come porcellana e di due sopracciglia sorprendentemente nere che formano un piacevole contrasto con tutto quel candore; Emmanuel Mignon, occhio sagace, labbro ironico, lingua appuntita, orecchio teso, cuore a sinistra; Emmanuel Mignon, insomma, pronipote di Gavroche, uno di quegli uomini che, sempre, renderanno difficile la vita ad ogni occupante di Parigi, chiunque esso sia... Nel 1941 abitavamo già qui, in Rue de la Huchette. Trasferendoci qui ci eravamo detti, mia moglie ed io: «Un simile tugurio, dato che non marciremo di certo qui dentro, non vale la pena di sistemarlo». Risultato: ci siamo da 25 anni e abbiamo finito perfino per abituarci.

È stata la portinaia dello stabile a procurarmi il posto alla Simex. Era comunista, conosceva i miei sentimenti e siccome sapeva che cercavo lavoro, ha pensato a me quando uno dei suoi amici, Katz, le ha chiesto di procurargli qualcuno. No! Adesso mi ricordo: prima ha proposto il posto a un altro inquilino, ma un impiego di ufficio non gli interessava, e così ha fatto approfittare me dell'occasione. Posso dire di aver assistito alla creazione della Simex. Sono stato io ad occuparmi della stampa dei biglietti da visita, dell'iscrizione alla Camera di Commercio, eccetera. All'inizio – si era nel settembre del 1941 – eravamo installati agli Champs-Élysées, nello stabile sovrastante il Lido. C'erano due uffici e una piccola anticamera. Sono stato ricevuto, la prima volta, da Jaspar: un uomo sulla sessantina, piuttosto corpulento, proprio il tipo del grosso borghese. Jaspar, però, non è rimasto per molto tempo: è andato a Marsiglia ad assumere la direzione di una succursale della Simex creata laggiù. Anche Sierra [Kent] se n'è andato a Marsiglia e nessuno l'ha più visto. Prima veniva spesso a trovarci agli Champs-Élysées. Siera era un tipico brasiliano, elegantissimo, un po' figlio di papà, del genere “olè, olè”, se capisce cosa voglio dire; era sempre in giro con bellissime donne. Si faceva vedere anche Gilbert, un belga gioviale, sigaro tra i denti, simpaticissimo. Naturalmente ho saputo dopo che non era belga, ma le assicuro che era facile sbagliarsi: aveva l'accento, le espressioni tipiche, tutto il modo di fare... un tipo fuori dal comune, quel Gilbert. Si sentiva che era sempre sotto pressione. Anche quando chiacchierava su argomenti privi di importanza, era teso, come in agguato, e cercava di tirarmi fuori più cose che poteva. Grossvogel faceva parte anche lui della baracca, ma lo si ve-

deva di rado in ufficio: era sempre a zonzo in cerca di mercanzia, dicevano. Quando se n'è andato Jaspar, direttore della Simex è diventato Alfred Corbin. Era un uomo alto, con i baffi, in un primo momento timido, ma si sgelava quando si entrava in confidenza. Un gran patriota, Corbin! Politicamente, direi che era all'ala sinistra del partito radicale.

*** Robert Corbin mi riceve steso sul letto al quale lo inchioda una sciatica contratta nel campo di concentramento di Mauthausen. È anche lui alto, con la stessa fronte stempiata e gli stessi baffi del fratello Alfred. Tutta la dignità e la cortesia di un maggiore britannico in pensione delle truppe coloniali in India. Vero è ha lavorato molto tempo da “Creed”, in Rue Royale, bastione parigino dell'abbigliamento inglese... Prima della guerra ci occupavamo, Alfred ed io, della nostra impresa del mulino di Giverny, presso Mantes. Fabbricavamo mangimi per volatili. Dopo il 1940, le prospettive erano abbastanza nere, tanto più che avevo perso l'impiego da “Creed”, sottoposta a sequestro dai tedeschi. Ora, durante la campagna del 1940, Alfred aveva fatto amicizia con un camerata del suo reggimento, un certo Katz. Questi gli propose di occuparsi di una ditta commerciale di import-export che era stata appena fondata. Alfred esitò molto, ma finì con l'accettare, e questo per ragioni esclusivamente pecuniarie: gli avevano fatto delle condizioni molto allettanti...

*** Vladimir Keller mi aveva dato appuntamento il 24 aprile 1965, alle 8, davanti al numero 37 di Rue de l'Université, che è una dipendenza del Ministero delle Finanze. Arrivò puntuale, preceduto da un gigantesco cane lupo («Keller? Ah! Quello del cane!», mi avevano detto gli uscieri del Ministero). Aveva portato a spasso il mostro, ma a vederli assieme veniva da domandarsi se era l'uomo che portava la bestia o viceversa. Keller è molto piccolo, mingherlino, ma è dotato di una testa enorme, adatta ad un gigante, che stupisce sul suo corpo di adolescente; evidentemente, c'è stato uno sbaglio. Le ossa del cranio sporgono da tutte le parti, spiccano sulla fronte, danno risalto agli zigomi, gli ornano le tempie di due vigorosi chiodi; la terra, dopo le drammatiche spaccature dell'Era Terziaria, doveva essere pressappoco così. Gli occhi sono pittoreschi, perché disposti ad altezza diversa. Di conseguenza, una fisionomia che sfugge alla banalità. Oltre a ciò, un sorriso caldo, che irradia bontà. Nato in Russia da padre svizzero e madre inglese, Keller parla francese con accento tedesco. Entrammo nel Ministero. Keller, il cane lupo ed io. Lo stabile, disertato dai funzionari, era ancora più lugubre del solito. Alcune lampadine diffondevano una fioca luce nei corridoi; sull'ambiente gravava un silenzio abissale. Il cane lupo, fiutando l'odore della stalla, o della cuccia, spiccò un improvviso balzo in avanti facendo barcollare Keller, il quale si afferrò al guinzaglio, unendo i propri ansiti al ringhio del cane, ma siccome era troppo debole per bloccare lo slancio del mostro, dovette mettersi a correre. Galoppammo così per un po' attraverso un labirinto di corridoi deserti; io ero senza fiato e perplesso. Poi un montacarichi ci

issò al sesto piano e di nuovo imboccammo una fila di corridoi sempre più stretti. La bestia andava così in fretta che faticavamo a frenare il nostro slancio davanti alle innumerevoli porte che bisognava aprire. Il risultato era una serie di mischie confuse in cui badavo a non sfiorare le zampe del cane, anche se non ci si vedeva troppo bene. Finalmente ci fermammo davanti ad una porta simile a tutte le altre. La porta ci fu aperta dalla signora Keller, avvertita dalla nostra galoppata. Scorsi una tinozza. Fui invitato ad entrare, ma il mostro, che fino a quel momento aveva dato prova nei miei confronti di una gradevole indifferenza, improvvisamente scoppiò in feroci latrati e si slanciò verso di me, le fauci spalancate e bavose. Mi diedi immediatamente alla fuga, nonostante le grida di Keller che mi esortavano a fermarmi. I coniugi Keller unirono i loro sforzi e, trattenendo l'animale a braccia tese, riuscirono a spingerlo nella stanza accanto. Potei entrare e mi lasciai cadere su una sedia dura, troppo inebetito per stupirmi di quell'alloggio stranamente sistemato nel sottotetto di un Ministero dove lavora la signora Keller. Del resto, questi sono i sacri misteri dell'amministrazione francese. Sfuggono alla comprensione del profano. Nel 1941 facevo il meccanico in un'autorimessa di Le Havre. Ma dall'arrivo dei tedeschi, il mio lavoro consisteva soprattutto nel fare da interprete. E la cosa non mi piaceva. Mi sono detto: «Sei svizzero, la guerra forse non ti riguarda, ma ti piace vivere in Francia e siccome i tedeschi non ci resteranno in eterno, sarebbe meglio non legare troppo con loro: potresti tirarti addosso delle grane». Un amico mi ha parlato di un possibile impiego presso una società parigina, la Simex. Mi ha avvertito

che lavorava molto con i tedeschi, ma che i guadagni servivano ad addolcire la sorte dei prigionieri francesi. Per cui non c'era niente da ridire. Mi sono presentato alla Simex, agli Champs-Élysées, e sono stato ricevuto dal signor Grossvogel. Aveva un aspetto molto tedesco, o forse era alsaziano, e possedeva la disinvoltura di un uomo d'affari cui le cose vadano bene. Del resto, mi hanno detto che era qualcosa come il re degli impermeabili in Belgio. Con me si è mostrato a posto, gentilissimo. Il mio amico mi aveva dato dei documenti tedeschi da tradurre perché dimostrassi le mie qualità di interprete. Ho fatto vedere le traduzioni al signor Grossvogel, il quale è rimasto soddisfatto e mi ha assunto subito. Era il 2 settembre 1941. Quando sono tornato, l'indomani, il posto del signor Grossvogel era stato preso dal signor Corbin, un uomo simpatico, di una grande bontà. Il signor Mignon c'era già. Non aveva qualifiche ben definite e faceva un po' di tutto. Riceveva i clienti, rispondeva al telefono, eccetera. Ho visto un paio di volte il signor Katz e più spesso il signor Gilbert. Mi avevano detto che aveva affari in Belgio. Sta di fatto che parlava proprio come un belga. Io sospettavo che facesse il traffico di valuta tra la Francia e il Belgio, ma la cosa non mi riguardava. Era un uomo molto simpatico, che sapeva sempre trovare una parola gentile. La sua disinvoltura era davvero impressionante. In quell'uomo si avvertiva la forza. L'unica volta che non l'ho visto a suo agio è stato quando mi ha detto: «Ah! Signor Keller, mi chiedo se vivrò a lungo... Nella mia famiglia non siamo molto longevi...». Alla ditta c'era un grande andirivieni. Come personale fisso eravamo solo il signor Corbin, il signor Mignon, la signorina Cointe ed io. La signorina Cointe, segretaria

personale del signor Corbin, era una donna ancora giovane, ma che già aveva l'aria della zitella. E, vede, fin dalla mia assunzione alla Simex ho avuto l'impressione che il personaggio più importante della ditta, nonostante la gerarchia ufficiale, non fosse il signor Corbin ma Suzanne Cointe...

*** Catherine Cointe, sorella di Suzanne, mi aveva dato appuntamento al caffè Georges V, sugli Champs-Élysées, nelle prime ore del pomeriggio: siccome lavorava in una casa di moda nelle vicinanze, mi avrebbe dedicato l'intervallo per il pranzo. Non sarebbe stato difficile riconoscerla: «Porterò un impermeabile nero, un berretto nero, una cartella nera». Il nostro colloquio ebbe quel colore luttuoso. Eppure era estate, il sole scaldava i tavolini all'aperto del caffè e gli Champs-Élysées brulicavano di turisti esilarati. Attorno a noi, belle ragazze cicalavano con i loro cavalieri dapprima senza curarsi della coppia insolita che noi due formavamo in mezzo a loro – Catherine Cointe tutta di nero vestita e che piangeva a calde lacrime; io che facevo domande ed annotavo freneticamente le risposte –, poi scoccandoci occhiate sorprese. Le conversazioni si spensero l'una dopo l'altra ai tavoli vicini; il nostro umore lugubre si spandeva a macchia d'olio. Quando cominciarono a guardarmi in modo strano, distribuii tutt'attorno sorrisi sciocchi destinati a far capire che non ero né un poliziotto, né un ricattatore. Era una situazione imbarazzante. Per fortuna Catherine Cointe non si rendeva conto di niente, persa come era nella sua personale tragedia dei giorni andati.

Eravamo in tre, due sorelle ed un fratello. Nostra madre, di origine polacca, era una gran dama; ci diede un'educazione molto rigida, e siccome papà era generale, può immaginarsi che siamo stati allevati nella tradizione patriottica. Prima della guerra abitavamo a Besançon, dove papà era di stanza. Aveva l'abitudine di indicarci la cittadella e dirci: «Quando i crucchi attaccheranno, mi chiuderò là dentro con i miei soldati e resisteremo». Noi dovevamo domandare: «E quando non avrete più munizioni?». Lui rispondeva: «Ci faremo saltare, piuttosto che arrenderci!». Se le racconto questo, è per farle capire quale dramma fu la conversione di Suzanne al comunismo. Lo fece sotto l'influenza di un uomo di cui avrà certamente sentito parlare: il regista cinematografico Jean-Paul Le Chanois. Naturalmente, non si separò completamente da noi, i legami familiari rimasero stretti, ma per i miei genitori fu un vero calvario. Suzanne aveva seguito corsi musicali al Conservatorio e, prima della guerra, faceva l'insegnante di pianoforte e si occupava attivamente di una corale che aveva fondato, la “Chorale Musicale de Paris”, un'organizzazione comunista. Ma dopo la disfatta del 1940, non era più possibile guadagnarsi da vivere dando lezioni di piano. Suzanne, perciò, imparò a stenografare ed entrò in una ditta commerciale, la Simex. Ignoro del tutto da chi e come abbia avuto il posto. Del resto, ci parlava pochissimo del suo lavoro. Ma a volte le capitava di dire, per esempio: «Ah! Gli venderemo altra porcheria per il Vallo Atlantico!». Dai suoi sottintesi, mi rendevo conto che le sue attività dovevano avere carattere clandestino. E poi, era significativa la sua felicità. Vede, Suzanne era un'esaltata, direi quasi una fanatica. Le era necessario consacrarsi a

qualcosa. A causa di Le Chanois, era stato il comunismo, altrimenti avrebbe potuto entrare nell'Esercito della Salvezza. La lotta contro i tedeschi la rendeva felice nella misura in cui conciliava l'ideale comunista con le tradizioni patriottiche della famiglia. Non è mai stata tanto felice quanto nel periodo della Simex in cui rischiava la vita. Lo sapeva perfettamente, ma non l'ho mai vista nervosa, né preoccupata.

*** Jean-Paul Le Chanois mi riceve in un ufficio della casa cinematografica “Comacico”. Sulla cinquantina, calvo, l'argento vivo nelle vene, un'evidente intelligenza e un profondo interesse per i problemi altrui, cosa che è rara nella gente del cinema. Quando ho conosciuto Suzanne, lei aveva 19 anni ed io 15. Era una ragazza colta, intelligente, dotata di forte personalità. Ex-allieva di Cortot, aveva giudicato le proprie doti musicali insufficienti ad intraprendere una carriera di virtuosa. Gliene rimaneva una certa tristezza che incupiva la sua vita, ma Suzanne era realista; siccome non possedeva denaro, si rassegnò a diventare insegnante di pianoforte. Ero innamorato di lei, tanto innamorato che finì per interessarsi a me, anche se ero solo un ragazzino. È stato grazie a lei che sono uscito dal mio ambiente borghese, da quella «porzione soddisfatta del popolo», come dice Victor Hugo. A quel tempo, Suzanne subiva l'influenza di Nietzsche, di cui le parlava uno zio. Sono diventato l'amante di Suzanne solo dopo la licenza liceale e l'iscrizione a filosofia. Ho rotto con la mia fami-

glia e sono andato a vivere con lei. È durato due anni, due anni di felicità, perché andavamo perfettamente d'accordo. Per me era qualcosa di meraviglioso, la consacrazione di un sogno infantile. E poi ci siamo separati: eravamo giovani, avidi di esperienze – normale. Ma siamo restati buoni amici. Profondamente colpito dalla Rivoluzione russa, partecipavo a iniziative quali il “Teatro operaio di Francia” e il “Gruppo Ottobre” di Prévert. Ho introdotto Suzanne in quei circoli. Lei ha manifestato un interesse prima filosofico, poi pratico, voltando completamente le spalle al suo nietzscheismo precedente. È stato allora che ha fondato la sua corale popolare di cui è stata l'animatrice fino all'ultimo. Nel 1939 ho cercato di arruolarmi, ma non mi hanno voluto: avevo l'asma. Allora mi sono installato in un appartamentino di Place Carpeaux. Tre locali sotto i tetti ai quali si accedeva per mezzo di una scala di servizio esterna, all'aria aperta. Era molto pittoresco, molto simpatico. E – sorpresa! – scopro che Suzanne abita nello stesso stabile! Ci siamo ritrovati con molta gioia, ma nella nostra vicinanza c'era un lato imbarazzante, perché eravamo tutti e due nell'illegalità comunista della “drôle de guerre”. Abbiamo perciò deciso di non incontrarci troppo spesso. Poi è venuto il momento dell'esodo, cosa che abbiamo fatto separatamente, e quindi il ritorno in Place Carpeaux. Tutto era cambiato, naturalmente. Con la Resistenza, i comunisti rientravano nella nazione. L'ha descritto benissimo Aragon, di cui si può dire che ce ne abbia restituito i tre colori. Non appena tornato, ho creato una rete clandestina. Dal canto suo, Suzanne mi annunciò che entrava in una ditta commerciale, ma lasciandomi capire che c'era sotto qualcosa d'altro. Per cui

ci siamo incontrati di rado, per ovvi motivi di sicurezza, tanto più che la portinaia dello stabile era ferocemente pétainista. Suzanne mi ha parlato pochissimo del suo lavoro alla Simex. Mi ricordo solo qualche particolare: tra l'altro, avevano fornito alla Wehrmacht degli sci per le truppe combattenti in Russia...

*** Emmanuel Mignon: La Simex era tutta da ridere, lavoravamo proprio in allegria. La baracca si occupava esclusivamente di borsa nera. Arrivavano dei tipi un po' da tutte le parti a offrirci le mercanzie più straordinarie e noi proponevamo l'affare ai crucchi. Loro compravano sempre. La robaccia che siamo riusciti a rifilargli è semplicemente da non credere. Una volta riceviamo dei cosiddetti tappeti orientali – parecchie balle. Apriamo il primo, tanto per dargli un'occhiata, e ci tiriamo indietro assaliti da un nugolo di tarme. Abbiamo richiuso il rotolo in fretta e furia e deciso di appioppare il tutto alla Todt così come si trovava, ancora imballato. Hanno comprato senza battere ciglio. Sì, bisogna dire che l'Organizzazione Todt era la nostra principale cliente. I suoi capi sapevano benissimo che tutte le nostre merci provenivano dalla borsa nera, ma pareva che la cosa non li preoccupasse affatto. Mi dirà che quelle gabole puzzavano: è proprio per questo che sono rimasto alla Simex. Mia moglie ed io facevamo parte della rete di resistenza “Famiglia Martin”. Il mio capo mi ha ordinato di fare un rapporto regolare su tutte le forniture della Simex ai crucchi e di annotare i nomi dei

fornitori troppo zelanti, per poter regolare i conti dopo la vittoria. La vita è buffa: i miei rapporti li consegnavo ad un certo Charbonnier, che faceva il doppio gioco per la Gestapo – l'hanno fucilato alla Liberazione! Sicché, i miei rapporti che denunciavano la baracca come uno spaventoso affare di collaborazionismo, finivano difilato negli uffici della Gestapo. Adesso che si sa che cos'era realmente la Simex, è abbastanza divertente, no? Una volta gli abbiamo accollato una ferrovia in disarmo che un tale era venuto a proporci. Hanno comprato i binari e abbiamo spacciato le traversine come legna da ardere. Ne ho perfino portato una carretta piena a casa della Cointe, in Place Carpeaux... E abbiamo anche venduto centinaia di migliaia di fusti vuoti di benzina. All'inizio si trattava di materiale di buona qualità, ma poi abbiamo trovato solo fusti bucati che bisognava far riparare. Toccava a me andare nei cantieri a sorvegliare il lavoro. Mi muovevo in mezzo alle montagne di fusti bucati e su ogni fusto tracciavo un circoletto con il gesso nel punto in cui bisognava fare la saldatura. Allora i saldatori si davano da fare a modo loro e saldavano coscienziosamente un po' più in là del buco. Io ho un bell'essere ottimista, mi dicevo: «Non è possibile, finirà male...». Niente! Neanche una grana! I fusti bucati filavano in Germania a vagonate che era una bellezza, e mai un reclamo! La Todt avrebbe comprato anche la luna, se solo le avessimo proposto l'affare! Corbin, tutto questo lo metteva a disagio. Si capiva che era completamente travolto dagli avvenimenti e che tutti quei pasticci di borsa nera lo sgomentavano. Tirava il freno più che poteva, sostenendo che sarebbe stato rischioso spingersi troppo in là. Ma Keller, lui, ci dava dentro, probabilmente perché intascava una percentua-

le. Un bravissimo tipo, quel Keller, ma aveva una manìa che mi dava sui nervi: ogni volta che telefonava ai crucchi, cominciava la conversazione con un energico «Heil Hitler!». Aveva il dono di mandare fuori dai gangheri la Cointe! Spesso capitavano storie un po' strane. Un giorno si presenta alla Simex a chiedere lavoro un bravo vecchio ebreo dai capelli bianchi, con tanto di stella gialla sul petto. Papà Corbin non era capace di dire di no: lo assume. L'indomani mattina vediamo il vecchio arrivare in ufficio con un'enorme macchina per scrivere in mano e dei libroni sotto il braccio. Era un esperto di import-export, conosceva la legislazione doganale sulla punta delle dita e quei libroni erano i suoi codici. Era pieno di buona volontà, quel povero vecchio, e cercava disperatamente di rendersi utile, ma non c'era proprio bisogno dei suoi codici per rifilare alla Todt tappeti orientali rosicchiati dalle tarme. Allora, se ne stava seduto davanti alla macchina per scrivere, circondato dai suoi libroni, senza fare niente dal mattino alla sera. Non che lo tenessimo in disparte apposta, può immaginare, ma che cosa potevamo dirgli? E poi, una mattina, non è tornato e non abbiamo mai saputo che cosa gli fosse capitato... Con tutti quei traffici, certo penserà che la baracca doveva navigare nell'oro: neanche per sogno! Incassavamo cifre enormi, ma non avevamo mai un soldo. Quando la cassaforte era piena, Katz o Grossvogel arrivavano quatti quatti ed evacuavano il malloppo fino all'ultimo centesimo. Per «andare in caccia», dicevano. Ma, curioso, quei due non portavano mai merce... Ce ne erano molte di cose strane, alla Simex. La corrispondenza con la succursale di Marsiglia, per esempio, non veniva spedita per posta: c'era un tipo della vettura

ristorante che serviva da corriere. Ci portava agli Champs-Élysées le lettere di Jaspar e di Sierra e io andavo a recapitare a casa sua quelle che noi mandavamo a loro. Il tipo abitava in Rue Meaux in un vero tugurio, povero vecchio... Noti che quella combinazione, come le altre, non mi sembrava così sorprendente: mi dicevo che, certo, nelle lettere si parlava di affari di borsa nera così sporchi che era meglio evitare la censura...

*** A parte Suzanne Cointe, di cui il Gran Capo dice: «Era il nostro uomo alla Simex», nessuno dei dipendenti sospetta la parte realmente svolta dalla ditta. Entrano a fare parte della rete con una benda sugli occhi; quando il Gran Capo slegherà la benda, sarà troppo tardi per tirarsi indietro. Un modo di procedere dubbio? Condannabile ipocrisia? Trepper ha risposto: «Sceglievo uomini di cui ero certo che nel momento decisivo avrebbero funzionato». Comunque, deve essere abbastanza difficile decidere se un uomo accetterà, al momento opportuno, il momento di affrontare la tortura e la morte per una causa sposata un po' alla cieca... Gli uffici della Simex si aprono, nell'autunno del 1941, sopra il Lido. Venti metri più in là, sullo stesso marciapiede degli Champs-Élysées, il colonnello Rémy nello stesso momento insedia la sua rete nell'edificio del cinema “Ermitage”. Vi trova dei vantaggi rassicuranti, un labirinto di corridoi che complicano la possibilità di pedinamenti e soprattutto varie uscite. Ma Rémy, che ha la Gestapo alle calcagna, è costretto a traslocare spesso la sua centrale. Dopo una serie di trasferimenti, uno dei suoi aiu-

tanti gli riferisce che un certo colonnello Lévy, buon patriota, acconsentirebbe ad affittargli un appartamento. Scrive Rémy: Tramite il portinaio fisso un appuntamento con il proprietario, che abita due piani più su. Non è il caso di nascondergli i rischi mortali che il nostro insediamento gli farà correre.

E spiega al colonnello Lévy: Il mio amico Prévost le ha spiegato brevemente quello che conto di fare dell'appartamento che sto per chiederle in casa sua. Si tratta di insediarvi la centrale della mia rete, di cui i tedeschi conoscono benissimo l'esistenza e che hanno già duramente colpita a più riprese. Credo di sapere che il generale delle SS Oberg, appena arrivato a Parigi, ha impartito l'ordine di annientarla. La nostra centrale sarà molto attiva e io sarò costretto a circondarmi di un certo personale nonché a ricevere visite, dal momento che non possiedo ancora locali di ricambio1.

Ognuno ha i suoi metodi. Ovvero, se si preferisce, ognuno ha la sua morale. Ma prima di giudicare, occorre capire quello che è in ballo. Rémy sa che il colonnello Lévy ha fama di buon patriota; trovatosi in sua presenza, ne ricava un'impressione favorevole. Tutto qui. E non è molto, ma Rémy giudica che è sufficiente per puntare la vita dei suoi agenti, l'esistenza stessa della rete, sulla buona fede del colonnello: è tenuto al fair-play. Al contrario, il Gran Capo non è cricket, come dicono gli inglesi. È pronto a 1 Rémy, op. cit., vol. 2, p. 111.

menare per il naso tutti i Corbin del mondo, a condurli per mano, ciechi come sono, fino al patibolo, pur di non compromettere la sua rete con una fiducia mal riposta. *** Nessun punto in comune, di conseguenza, tra quelli del cinema “Ermitage” e quelli del Lido. 20 metri di marciapiede li separano ed è come se vivessero in due universi differenti. Gli uomini della Simex finiranno probabilmente per unirsi a quelli di Rémy, ma per il momento preferiscono attraversare gli Champs-Élysées per recarsi nello stabile di fronte, al cinema “Marbeuf”, dove ha sede l'Organizzazione Todt. Molte affinità, invece, tra la Simex e il Servizio Economico Francese, con sede al numero 101 dell'Avenue Henri-Martin. Mentre la Simex si specializza in materiale pesante, il Servizio Economico fornisce ai tedeschi tessuti, caffè e materiale sanitario; il tutto acquistato al mercato nero, ben inteso, al di fuori dei circuiti ufficiali. Tale è l'ingegnosa politica economica praticata dalle autorità di occupazione: ottenere con la frode un complemento cospicuo alle enormi forniture imposte ufficialmente al paese vicino. I trafficanti completano così l'opera dei delegati tedeschi presso il governo di Vichy. Vi è un'altra somiglianza tra la Simex e il Servizio Economico Francese. Il capo di quest'ultimo si chiama Masuy; passa per l'inventore del supplizio della tinozza. Oltre a svolgere attività commerciale, è al servizio della Gestapo e dell'Abwehr. In Avenue Henri-Martin, si pratica la tortura per conto dei tedeschi, in mezzo ai sacchi di caffè, così come agli Champs-Élysées si fa ope-

ra di spionaggio per conto degli alleati in mezzo alle balle dei tappeti orientali. Quanto ai dirigenti parigini della Todt, se accettano con tanta facilità fusti bucati e merci avariate, ciò avviene perché sono abbagliati, fino a dover chiudere gli occhi, da sostanziose bustarelle: il Gran Capo li ha comprati tutti.

XVIII. UNA STORIA D'AMORE

«Sono ovunque, signore! Occupano il paese, è una vera invasione! Le più belle tenute, le ville più eleganti: tutto per loro! Glielo dico io: sono i re della zona...». 1943? Grido che sale dal cuore di un patriota esasperato dalla presenza tedesca? No: 1966 e imprecazioni del dottor Darquier contro l'«occupazione ebraica» di Saint-Tropez. Suo fratello Jean Darquier, detto “de Pellepoix”, fu durante la guerra commissario agli Affari Ebraici. Aveva avuto per predecessore alla carica Xavier Vallat, antisemita convinto, ma alla maniera di quegli olandesi che, dopo le prime deportazioni, scrissero sui muri di Amsterdam lo slogan «Giù le vostre sporche zampe dai nostri sporchi ebrei». La Gestapo, contrariata nei suoi piani, pretese la sostituzione di Vallat con un vero aguzzino. Jean Darquier fece del suo meglio, tanto che fu condannato alla pena di morte dopo la Liberazione. Ma si era affrettato a varcare i Pirenei e la sentenza fu pronunciata in contumacia. Oggi vive a Madrid, dove ha trovato impiego presso lo Stato Maggiore dell'esercito spagnolo, mentre suo fratello, ritiratosi

sulle alture di Saint-Tropez, continua a blaterare come un'oca del Campidoglio per ammonire del pericolo ebraico. Settantenne, il dottor Darquier è un vecchio asciutto, dai capelli bianchi riportati a frangia sulla fronte, volubile, nervoso e perfino vulcanico, con una lava di parole tristi e laide che gli cola dalla bocca e sciupa irrimediabilmente la bellezza dell'ambiente circostante: la villa sontuosa, il giardino che sembra un paradiso terrestre e il panorama del golfo. Tuttavia, non ero venuto per parlare con lui degli ebrei, bensì di Anna de Maximovitch. Anna? Che personaggio! Un metro e ottanta di altezza, sul quintale. Una forza della natura! Aveva capelli biondi arruffati, la figura tonda, gli occhi celesti; e allegra, sempre allegrissima... non molto femminile, ovviamente. Ma una potenza fisica, signore – incredibile! Non aveva bisogno di aiuto per trattare i malati in stato di agitazione, non ricorreva mai alla camicia di forza: si limitava a sedersi sopra il paziente e ad aspettare che la crisi passasse. Magari non un quintale, ma comunque 90, 95 chili, una forza della natura. Adesso le racconto la storia dello stupro... Era neurologa e aveva una clinica a Choisy-le-Roi. Del resto, è così che l'ho conosciuta. E in quali circostanze esatte? Non riesco a ricordarmelo. Mi ha chiesto di passare alla clinica due volte alla settimana per controllare se era tutto a posto. Lei sa che le case di cura di quel tipo sono sottoposte a stretta sorveglianza. Si temono sequestri abusivi, le famiglie che si sbarazzano di un seccatore facendolo passare per malato mentale. A quel tempo – parlo di prima della guerra – ero capo della clinica neurologica della Facoltà di medicina di Parigi, sicché potevo fare da garante ad Anna. Del resto, nella sua

clinica c'erano solo degli squilibrati non pericolosi, dei nevrastenici, niente di molto grave... Sapeva che era scappata dalla Russia con i suoi familiari durante la rivoluzione comunista? Suo padre era un generale piuttosto famoso dell'esercito zarista 1. Anna mi ha raccontato spesso la loro fuga. Aveva aspettato i “rossi” nascosta dietro la porta di casa, mentre il padre spariva in giardino in compagnia di un domestico. Quando ho conosciuto Anna, il generale era morto, ma viveva ancora la madre, che era anche lei un personaggio straordinario, uscito direttamente dal folklore russo. Era davvero “la madre”. Aveva un'influenza onnipotente sui figli. Il fratello di Anna, Vassili, l'ho forse incontrato un paio di volte. Piccolo, bruno, con la barbetta. Un personaggio scialbo. Non aveva niente di russo, lui. O meglio, sì: il lato “slavo misterioso”... mi spiego? Mentre Anna era la Russia fatta carne. Una truculenza, signore! E le storie che mi raccontava... Da fare arrossire un intero corpo di guardia. Quando si lanciava nelle sue storielle spinte russe (le nostre, al confronto, sono all'acqua di rose, caro signore), non sapevo più che pesci pigliare. Sul serio. Attenzione, però: un'allegra buontempona, ma ottima nella professione. Rude, coriacea, ma dolcissima con i malati. E zarista. Perché era zarista! Lo zar era davvero per lei il “piccolo padre dei popoli”. Auspicava ardentemente che la Russia tornasse all'antico regime.

***

1 Nel 1914, il generale barone de Maximovitch era stato il primo generale russo a penetrare in Germania alla testa del suo esercito.

Vassili e Anna: due emigrati russi di origine nobile e rovinati dal comunismo; Parigi ne brulica. Ma i Maximovitch non hanno niente in comune con l'aristocratica plebe dei taxisti e degli strimpellatori di balalaika malati di nostalgia. Appartengono alla seconda generazione dell'emigrazione, che ha voltato le spalle al passato e va verso l'avvenire. Morto in miseria il vecchio generale Pavel de Maximovitch, i suoi figli sono presi in custodia da monsignor Chaptal, provvidenza dei profughi di ogni razza e nazionalità che in quel periodo si ammassano a Parigi. Grazie a lui, Vassili entra all'École Centrale, poi diventa ingegnere minerario; Anna si laurea in medicina, specializzandosi in neurologia. Hanno una sorella, ma di lei non sappiamo niente, se non che non ha avuto parte alcuna nella nostra storia. Nel 1936, una dozzina di organizzazioni politiche si disputano la clientela dei russi “bianchi” emigrati a Parigi. Nella maggior parte dei casi, questi si attengono ferocemente all'ortodossia zarista; altri tendono verso il fascismo o il socialismo; altri ancora si sforzano di elaborare un'amalgama fascio-comunista. Tutti sono pittoreschi e privi di importanza. Secondo le valutazioni più moderate, uno su tre fa l'informatore vuoi della polizia francese, vuoi dei servizi nazisti, vuoi dello spionaggio sovietico. Tra le organizzazioni suddette, l'Unione dei Difensisti. Citando la testimonianza di uno dei suoi membri, Piotr Volodin, lo storico Dallin scrive: Nel 1936, l'Unione dei Difensisti affittò un piccolo locale in Rue Dupleix, per organizzarvi adunanze, balli e altre riunioni dello stesso tipo. I fondi dell'organizzazione bastavano appena a coprire le spese. Una sera, una donna

sui 40 anni, alta e robusta, arrivò con una bella automobile e dichiarò ai Difensisti che trovava molto interessante la loro organizzazione. Soggiunse che dirigeva una clinica per malati mentali, la qual cosa la metteva in grado di fornire un contributo finanziario all'Unione. Dopo di che, il locale fu tinteggiato a nuovo e il pavimento coperto di tappeti. Poi fu pubblicato un bollettino. Di tanto in tanto, membri dell'Unione ricevevano somme da 5.000 a 10.000 lire. Le spese, in costante aumento, erano coperte dai guadagni della clinica. Nel 1939, tra i Difensisti si sparse la voce che il denaro di Anna puzzava e che ci si poteva aspettare dei fastidi, ma nessuno volle prestare fede a questo pettegolezzo2.

I Difensisti non erano destinati a sapere se il denaro di Anna aveva un odore e quale, perché furono quasi tutti arrestati dalla polizia francese il giorno della dichiarazione di guerra e internati nel campo di concentramento di Vernet in qualità di stranieri sospetti. Vassili de Maximovitch fu pescato qualche mese dopo, ma Anna, vice-presidente dei Difensisti, sfuggì all'internamento grazie alla sua professione: gli squilibrati e i nevrastenici della sua clinica avevano bisogno di lei. Se anche noi ignoriamo l'odore dei soldi di Anna, sappiamo però – particolare sconosciuto ai Difensisti, nonché al dottor Darquier – che a Choisy-le-Roi aveva curato alcuni feriti dell'esercito repubblicano spagnolo. ***

2 D.J. Dallin, Soviet Espionage, Yale University Press, 1955, p. 158.

Il campo di concentramento di Vernet era situato nell'Ariège, ad una trentina di chilometri dai Pirenei e dalla frontiera spagnola. Vasto 50 ettari e circondato da reticolati, divenne dopo le retate del settembre 1939 una specie di immenso deposito. A Vernet si incontrava il repubblicano spagnolo, l'emigrato russo (zarista, socialista o fascista), il comunista francese, il detenuto comune e anche qualche centinaio di profughi tedeschi sfuggiti per miracolo alle grinfie della Gestapo, e a volte evasi dai campi di concentramento di Hitler. Il fatto che questi ultimi fossero con tutta probabilità più antinazisti di chiunque altro al mondo, non preoccupò minimamente le autorità francesi. Occupate come erano a forgiare la futura vittoria, non avevano tempo da perdere con delle bazzecole e preferirono pigiare nel campo, alla rinfusa, tutti gli individui cui era stata appiccicata l'etichetta di sospetti alla polizia. Il barone Vassili de Maximovitch aveva vissuto fino all'età di 17 anni negli splendori della Pietroburgo imperiale, poi monsignor Chaptal gli aveva addolcito la prova dell'emigrazione. Preparando gli esami del Politecnico e la carriera di ingegnere, voltando le spalle al subbuglio in cui si esasperavano i suoi compatrioti emigrati, probabilmente credeva di assicurarsi una tranquilla maturità. Ma, uscito dalla Storia e dalle sue convulsioni nello stesso momento in cui aveva lasciato la Russia, Maximovitch vi rientrò per la porta di Vernet. Al campo di concentramento scoprì la fame, il freddo e l'umiliazione 3. A Vernet vide perpetuarsi questo incredibile paradosso: i più fanatici nemici di Hitler ridotti in prigionia e alla fame da una Francia in guerra con 3 Arthur Koestler, che soggiornò a Vernet, ha descritto in un libro di memorie le miserabili condizioni di vita dei detenuti (La feccia della terra).

Hitler. Visse il giorno inaudito in cui la Gestapo, arrivando sulle tracce della Wehrmacht vittoriosa, venne a Vernet a scegliersi il suo carico di carne umana; i guardiani francesi glielo consegnarono docilmente, mentre il loro capo, il maresciallo Pétain, farfugliava al paese l'annuncio di una «pace onorevole». Non c'è dubbio che Vassili aveva già imparato la lezione: l'epoca esigeva che si occupasse di politica, perché la politica, comunque, si occupava di te. Dopo la Gestapo arrivò a Vernet una commissione tedesca incaricata di reclutare, tra i prigionieri degni di fiducia, lavoratori per il Terzo Reich. Era diretta dal colonnello Hans Kuprian. Poiché costui aveva bisogno di un interprete, Vassili si offrì e fu accettato. Anzi, fece amicizia con Kuprian. Il colonnello era un ufficiale tradizionalista, ferocemente guglielmino; a suo modo di vedere, la Germania era in mano a usurpatori maleducati, e ai suoi occhi il barone de Maximovitch era stato a sua volta cacciato dalla Russia da una banda di beceri che non conoscevano le buone maniere (e i quali, del resto, avevano stretto un patto con la banda di Hitler – «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei»); i due uomini erano fatti per intendersi. Conclusa la missione, Kuprian liberò Vassili e gli diede appuntamento a Parigi: avrebbe provveduto a trovargli un impiego adeguato alle sue capacità. Maximovitch raggiunse la sorella nella Parigi ancora deserta dell'agosto 1940. *** Darquier:

Nel 1939, naturalmente sono stato mobilitato e mi hanno affidato un'autoambulanza. Fatto prigioniero, subito liberato, torno a Parigi nel novembre del 1940 e vado a Choisy. Nel parco della clinica stazionavano dei soldati tedeschi. Mettendo piede nell'ufficio di Anna butto lì: «Allora, sono arrivati i crucchi, eh?». Lei sobbalza e mi dice sgomenta: «Sst! Taccia!». Infatti, proprio dopo di me entrava in ufficio un'infermiera tedesca. Sa, uno di quei “topi grigi”... Ne piazzavano una in ogni clinica per sorvegliare e al caso riferire. Quel giorno c'era anche il fratello di Anna, Vassili. E ricordo ancora un piccolo particolare: sulla scrivania c'era il giornale russo Izvestija aperto.

*** Nel novembre del 1940, è certamente possibile trovare le Izvestija a Parigi; il patto russo-tedesco è sempre in vigore. Ma Anna de Maximovitch, accanita zarista, si delizia a leggere un giornale bolscevico? Darquier non è particolarmente colpito. Può darsi che abbia ragione: un giornale non è un breviario. E poi il mistero non si addice ad Anna... Una buontempona cristallina come l'acqua, il cuore in mano, gli occhi chiari e la chioma scarmigliata, la risata tonante, sempre pronta a darti una pacca sulle spalle e a riferire la barzelletta un po' spinta – benedetta Anna! Darquier si attiene a questo ritratto oleografico, ma neppure noi, che possediamo qualche istantanea presa dal vivo, sapremmo dire quale di esse riveli Anna in tutta la sua verità. È rimasta, sì o no, la sbarazzina di 16 anni, già un po' gigantesca, che copriva, scure in pugno, la fuga del padre braccato dai bol-

scevichi? La sua scenografica adesione all'Unione dei Difensisti – per conto di chi Le cure prestate ai repubblicani spagnoli? – gesto umanitario o politico? La lettura delle Izvestija è solo per avere notizie del suo paese? Ecco molti punti interrogativi a proposito di una ragazzona così limpida... Suo fratello Vassili, invece, lo «slavo misterioso», tra poco si deciderà a compiere un passo tutt'altro che ambiguo: proporre i suoi servigi al Gran Capo. Tutto chiaro, dunque? Non è il parere di Trepper! Vassili gli è stato presentato da Michel, il suo “contatto” con il Partito comunista francese. Ora, se Maximovitch fosse stato un agente del Centro da parecchio tempo, si sarebbe tenuto accuratamente alla larga dagli ambienti comunisti. Si tratta quindi a priori di una recluta di fresca data: diffidare. E che precedenti! Figlio di un barone generale uscito di Russia nei furgoni dell'Armata Bianca, raccolto a Parigi da un arcivescovo, maturatosi nell'ambito di un ambiente di profughi rosi dall'antisovietismo... Bisogna ammettere che Vassili de Maximovitch fa uno strano effetto nel gregge del Gran Capo: i Katz, i Sokol, i Grossvogel e altre pecorelle provenienti da pascoli ben diversi. Si tratta forse di un lupo che il nemico tenta di introdurre nell'ovile? Trepper chiede istruzioni urgenti al Centro. Usare Maximovitch, se presenta possibilità interessanti, ma non abbandonare la massima prudenza. Risposta vaga ma classica; infatti, chi può, meglio del capo della rete, pesare i pro e i contro? Il compito di Mosca, soprattutto in tempo di guerra, si limita al fatto di cercare nell'enorme archivio del Komintern se esiste un fascicolo riguardante il candidato; in caso negativo, ovvero se il fascicolo è smilzo, la decisione spetta al capo della rete. Tale responsabilità capitale richiede da lui che

sia insieme psicologo, un po' confessore, un po' indovino e molto fortunato. A partire dagli elementi di cui dispone, deve poter ricostruire la personalità di un individuo, la sua storia, le sue forze e le sue debolezze. Ma il mosaico è incompleto. Mancano molte tessere; quelle disponibili sono spesso contraddittorie. Prendiamo per esempio Anna. Bisogna supplire alle lacune e risolvere le contraddizioni con l'istinto e l'esperienza, fiutare il fatto che le “scarpe nuove” dell'ispettore Mathieu sono un regalo dubbio, presentire in Sokol l'essere di eccezione, indovinare che Alfred Corbin non batterà ciglio quando la benda gli cadrà dagli occhi – essendo inteso che la sorte della rete è sospesa ad ogni decisione. Così, il generale Orlov, teorico dello spionaggio sovietico, può scrivere direttamente che un capo di rete si apparenta ad un romanziere: seleziona certi personaggi e li fa agire. Con il rischio di tirarsi addosso gli strali della critica, il romanziere deve costruire una trama logica e far compiere ai suoi personaggi azioni conformi alla psicologia che ha prestato loro. Se il capo della rete non rispetta le stesse regole, si ritroverà ben presto su un patibolo in compagnia dei suoi personaggi. Questo perché «ispira e dirige i sentimenti e le azioni di esseri in carne ed ossa», contrariamente al romanziere che ha la fortuna di lavorare nel mondo della fantasia4. Il Gran Capo scruta il “rebus” Maximovitch e decide per il sì. Così ha inizio, nella diffidenza e l'esitazione reciproche, due passi avanti, un passo indietro, una collaborazione che si rivelerà fruttuosa e aggiungerà alla storia della rete uno degli episodi più piccanti. Il barone Vassili de Maximovitch, infatti, 39 anni ma

4 Generale Orlov, Handbook of Intelligence, Michigan University Press, 1964.

già un po' obeso e con le gambe gonfiate dalla malattia, era designato dalla sorte a diventare il Casanova dell'Orchestra Rossa. *** Margarete Hoffman-Scholz è tedesca, ha 44 anni e non è per niente bella. Aspetta il Principe Azzurro da un quarto di secolo. Il romanziere omologo del Gran Capo potrebbe essere Balzac (ah! Che magnifico ritratto del Gran Capo avrebbe tacciato Balzac!); per Margarete sarebbe piuttosto Delly. Proviene da un'ottima famiglia di Hannover; un suo zio, il tenente Hartog, ex-conservatore delle Acque e Foreste, presta servizio a Parigi nello Stato Maggiore del generale Heinrich Stülpnagel, comandante della Gross Paris. Il padre di Margarete ha incaricato questo zio di vegliare sulla figlioletta quando questa, arruolata nei servizi ausiliari della Wehrmacht, è stata mandata a Parigi. Ma la sensibilità di Margarete non rischia di essere punta dalle spine della soldataglia: è la soldataglia del colonnello Hans Kuprian, distinto gentiluomo. Si è tra gente della stessa classe... Tutte queste fortunate coincidenze non impediscono a Margarete di andare per i 45 e di essere bruttina. La vittoria cantando apre a Margarete la porta di Vernet: fa parte della commissione Kuprian. Non vede l'abiezione, la sofferenza e le brutture, vede soltanto Vassili de Maximovitch. E ne è abbagliata. Il povero diavolo ha gambe elefantesche, una faccia emaciata ed è vestito come un mugiko, ma sotto quegli stracci Margarete indovina il barone. Lui acconsente a degnarla di uno sguardo: probabilmente perfino le rivolge la parola. È sufficiente per la damigella di Hannover. L'autore, che non è né Balzac né Delly, rinuncia a descrivere la tempesta che

si è scatenata nel cuore di Margarete. Quando lascia Vernet è letteralmente pazza d'amore. Torna a Parigi con Kuprian e riprende il lavoro allo Stato Maggiore. Scommettiamo che non ci metteva neppure un po' di impegno e che il suo animo inquieto si poneva cento volte al giorno la domanda: «Verrà?». Vassili viene, come ha promesso, e dapprima manifesta scarso entusiasmo per le proposte del Servizio del lavoro tedesco. Ma ecco che Kuprian gli offre un bellissimo posto di ingegnere presso gli stabilimenti Henschel a Kassel! Inquietudine e sofferenza... Miracolo: Vassili rifiuta. Margarete, sconvolta dalla felicità, non dubita un istante che si tratti di una decisione presa per restarle vicino. La poveretta sarebbe delusa se sapesse che il suo innamorato ha ceduto alle istanze del Gran Capo. Questi ha spiegato a Maximovitch che sarebbe stato più utile a Parigi che a Kassel. Gli ha detto: «Organizzi un gruppo di spionaggio. Frequenti gli ambienti dei russi “bianchi”, gli aristocratici francesi, i circoli cattolici; si dedichi agli ufficiali tedeschi; ma, soprattutto, eviti come la peste gli ambienti della sinistra francese». La migliore “copertura” di Maximovitch consiste, infatti, nel restare conforme al suo personaggio: un nobile russo emigrato; così come quella di Trepper esige che reciti la parte del borsaro nero, abbia un tenore di vita altissimo e se la spassi con quelli della Todt in tutti i ristoranti clandestini di Parigi. Sboccia l'idillio. Vassili ottiene un lasciapassare permanente per l'albergo “Majestic”, sede del quartier generale tedesco. Va a trovare Margarete ogni sera. Lei gli racconta la giornata trascorsa. Siccome la sua memoria può fallire, ammette che la soluzione più semplice è quella di fornire all'essere amato le copie dei documenti che le passano per le mani. Se ne fa dare perfino dalle sue

compagne. In tale modo, al Gran Capo pervengono tutti i rapporti ultrasegreti sui campi di concentramento esistenti in Francia. Esaurito l'argomento, questi chiede a Maximovitch di indirizzare la tenera Margarete verso un nuovo campo di attività. E lei si fa trasferire presso il servizio acquartieramento delle truppe di stanza in Francia. Quando Trepper ha fatto il pieno delle informazioni, Maximovitch, abile guida, dirige Margarete su un terzo settore: la donna entra a fare parte della segreteria dell'ambasciatore tedesco Abetz. L'impegno con cui affronta il lavoro le merita la fiducia di tutti e l'accesso ai documenti più confidenziali. Per il suo tramite, Mosca è informata delle trattative politiche di Vichy, dei sentimenti del popolo francese, dei piani tedeschi e delle difficoltà che essi incontrano. Margarete è così stupida da non rendersi conto che tradisce il proprio paese? Nulla ci consente di affermarlo. Con tutta probabilità, l'amore ha spento in lei i sentimenti tradizionali che vi vegetavano dall'infanzia. Insondabile mistero di un cuore di donna abbandonata alla passione. Qualche cervello lucido comincia a preoccuparsi. Lo zio di Margarete, per esempio, non vede di buon occhio quel suo amore con Maximovitch: equivale a gettare la prudenza alle ortiche. Certi ufficiali del servizio di sicurezza dello Stato Maggiore si preoccupano e ricordano a Margarete che c'è una guerra in corso e che deve osservare la massima discrezione sul proprio lavoro. Bella faccenda! Anche le modeste compagne di Margarete sono pazze di Vassili: è così distinto, si intuisce in lui un fondo di delicatezza, ha sempre un mazzo di fiori per questa, una scatola di dolci per quella – e poi è un barone. Si può diffidare di un barone?

Gli ufficiali dello Stato Maggiore non si sognano neppure di farlo. Nella maggior parte dei casi si tratta di rampolli di buona famiglia, bene educati, antinazisti garbati: cospirano a fior di labbra contro un regime che fa la guerra ai gentlemen inglesi, mentre conclude un patto di amicizia con i beceri bolscevichi. Considerano Vassili uno dei loro. Accettano i suoi inviti, lo invitano a loro volta e parlano davanti a lui a cuore aperto. Un giorno, il generale von Pfeffer, guglielmino, uno degli ufficiali tedeschi firmatari dell'armistizio con la Francia, tiene una perorazione davanti ad una platea di ospiti di eccezione: il tenente colonnello Hartog, il dottor Seiffarth, il dottor Huetgens, eccetera. La guerra contro la Russia è finalmente scoppiata e quei signori se ne rallegrano, ma Pfeffer afferma che non sarà possibile regolare i conti con i sovietici finché la guerra continua con gli anglo-americani. Conclusione: bisogna trattare con questi ultimi per scagliare l'intera Wehrmacht contro la Russia. «Trattare?», osserva Maximovitch. «E il Führer?». Ribatte Pfeffer: «Con o senza il Führer». Vale a dire che si è in confidenza. *** Anna rischia almeno dieci volte di calpestare la porcellana. Le va proprio a cercare con il lanternino. Un giorno propone al Gran Capo di procurargli una quantità di curaro sufficiente ad avvelenare mille persone e spiega, lo sguardo acceso, la bocca golosa, che quella è l'occasione, o mai più, di sbarazzarsi in blocco dello Stato Maggiore tedesco a Parigi. Trepper, a bruciapelo, le ordina di rinunciare a quelle fantasticherie shakespeariane, così

come ha dovuto fare ricorso a tutte le sue arti di seduzione per distogliere Vassili da un progetto consistente nel fabbricare bombe incendiarie: sarebbe pazzesco sprecare in simili compiti agenti così preziosi. Grazie a Vassili, il Gran Capo penetra fino nel cuore del quartier generale tedesco. Per mezzo di Anna è tenuto al corrente dei passi della politica vaticana: Anna gode dell'amicizia di monsignor Chaptal e anche di quella del gesuita padre Valensin, che è aggiornato di tutti gli intrighi. Inoltre, vede spessissimo il dottor Darquier e attraverso di lui conosce i retroscena di Vichy, dove suo fratello fa il fantoccio. Racconta Darquier: Per i Maximovitch, la grande svolta fu l'attacco tedesco contro la Russia. Rimasero zaristi come prima, ma divennero ferocemente antitedeschi: dal momento che la Santa Russia era attaccata, tutti i suoi figli dovevano difenderla – semplicissimo. La madre lo ripeteva loro in tutte le salse e, gliel'ho già detto, quella donna esercitava sui figli un'autorità sovrana; le obbedivano ad un semplice cenno o battito di ciglia. Oh! Noti bene che, per quanto riguarda Anna, apparentemente la cosa non andava molto in là. C'era un cavo telefonico tedesco che attraversava il parco della clinica: ebbene, il cavo veniva tagliato di continuo! Sapevo che era lei e le dicevo: «Senta, la prego, la smetta con questi giochetti da bambina o finirà male!». Quanto al suo gran numero spionistico, confesso di non averci creduto neppure per un istante. Mi faceva ridere, tutto qui. Ah! Bisognava vederla quando faceva la misteriosa, recitava la parte della Mata-Hari, insinuava che questo e quest'altro... impagabile era! Io mi dicevo: «Se

facesse davvero la spia, non si darebbe tanto da fare per farlo credere». Logico, no? Sa quando ho capito che non era una finzione? Soltanto nel 1955 o 1956. Ho ricevuto la visita di un poliziotto della DST. Mi sono detto: «Be', sarà ancora per mio fratello»: ogni anno un paio di poliziotti vengono a domandarmi se ho notizie di mio fratello – alla fine comincio ad esserne stufo. Rispondo loro: «È in Spagna e sta bene, buona sera!». Ma quel poliziotto non veniva per mio fratello: mi ha chiesto informazioni su una certa Louise, che aveva fatto parte, diceva, del personale della clinica di Anna. Non mi ricordavo della detta Louise. Abbiamo chiacchierato un po' e il poliziotto mi ha raccontato la storia di Anna – che avevo completamente persa di vista dal 1942 –, quello che aveva fatto, la parte che aveva realmente svolta, eccetera. Ero stupefatto, signore, stupefatto è la parola. Il poliziotto mi ha perfino mostrato una pagina del rapporto della DST, dove figurava il mio nome. In calce, c'era questa nota – una nota ammirevole, signore: «Sembra che il dottor Darquier non abbia fatto parte coscientemente dell'Orchestra Rossa». Ride, signore? E ha ragione: sono magnifici, quelli della DST! Come supporre, semplicemente supporre, che abbia potuto, io, lavorare volontariamente con quella gente! In un'organizzazione per così dire ebraica! Perché c'erano molti ebrei, vero, signore? E io con loro, se ne rende conto? Ecco, perfino il nome “Maximovitch”, a ben rifletterci, non trova che ha una piccola risonanza giudaica? Me lo chiedo, signore, me lo chiedo... D'altro canto, lei mi insegna che lo zar non si sceglieva i generali tra i giudei... Insomma, non lo sapremo mai, bisognerebbe fare delle ricerche... Sì, avevo perso di vista Anna dal 1942. La clinica non funzionava più tanto bene, si avvertiva un certo mene-

freghismo e Anna ha finito con il venderla alla madre della piccola violata. Oh! Ma devo raccontarle la storia dello stupro: ne viene fuori un ritratto esattissimo di Anna. Si immagini che un giorno un giovane soldato tedesco, 18 anni al massimo, appartenente alla compagnia dislocata nel parco, si intrufola in clinica ed entra nella stanza in cui dormiva una ragazzina affetta da demenza precoce. E ti si mette a violentarla! La bambina urla, Anna accorre e vede la scena. Non dice né “ah” né “ba”, signore, non chiama aiuto: ti afferra il soldato per la collottola e il fondo dei calzoni, te lo solleva di peso («Il peggio non era successo», mi ha dichiarato in seguito) e te lo scaraventa giù per le scale! Il ragazzo se l'è battuta senza aprire bocca. La sera, una storia a non finire. L'ufficiale viene a scusarsi, ma Anna dichiara che sporgerà denuncia alla Kommandantur. L'altro le spiega che significa il plotone di esecuzione per il soldatino. Ma lei non si lascia commuovere. E l'indomani, signore, abbiamo assistito a questo spettacolo: i tedeschi hanno appeso il ragazzo con le braccia tese fra due alberi e lo hanno frustato, signore, fino alla perdita totale dei sensi. Ebbene, Anna ha venduto la sua clinica alla madre della ragazzina. Ci hanno installato un ospizio per vecchi. E non ho più rivisto Anna né sentito parlare di lei fino alla visita della DST con quell'incredibile noticina sul mio conto... Ride, signore?...

Ne rido ancora, dottor Darquier. ***

Gli squilibrati e i nevrastenici della clinica non sono comunque abbandonati a loro stessi. Vengono trasferiti al castello di Billeron, presso Groize, nel Cher. Fino al 1940 era occupato da una congregazione religiosa, ma le monache se ne sono andate in occasione del grande esodo per non tornare mai più. Anna ha affittato il castello dove abitano sua madre e sua sorella. Più che un castello, si tratta di una casa patrizia. Niente torri né torrette, ma una costruzione spaziosa, elegante nella sua semplicità, circondata da una fitta foresta di alberi ad alto fusto. Di fronte, vaste dipendenze disposte a ferro di cavallo. Un po' staccata, una minuscola cappella che si erge al centro di una radura, un gioiello elaborato la cui preziosità contrasta con la linea spoglia del vicino castello, come se i primi proprietari della tenuta avessero voluto riservare a Dio i prestigi dell'arte. Un viale lungo 1 chilometro, fiancheggiato da piante secolari, porta dal cancello del parco al castello. I guardiani conservano un vivo ricordo della signora de Maximovitch. «Era una gran dama, una persona come se ne vedono poche. Aveva perso tutti i suoi beni in Russia, durante la Rivoluzione, ma ci diceva: “Quando si sa come andavano le cose là, quel che è successo sembra del tutto normale. Doveva finire così”». Si ricordano anche di Vassili e di sua sorella. La buona, grossa Anna misurava con i suoi passi da granatiere i viali del parco, vestita il più delle volte di un abito lungo di pizzo viola che faceva pensare che appartenesse ad un ordine religioso, particolare inesatto, ma che doveva comunque costituire un piacevole spettacolo. Si ricordano ancora i malati, i cui nervi si distendevano nella tranquillità di quella Certosa silvestre, e anche i numerosi sog-

giorni delle colleghe di Margarete Hoffman-Scholz e delle mogli di ufficiali tedeschi affaticate dall'aria di Parigi. Tra queste, Käthe Voelkner. Ma quando Käthe risalì, un giorno dell'estate 1941, il lungo, magnifico viale che portava al castello, non era per passarvi un periodo di riposo: veniva ad affrontare l'esame di promozione. *** Cittadina tedesca, nata a Danzica il 12 aprile 1906 da un padre insegnante di disegno e socialista. Viso banale, nonostante un'opulenta chioma biondo-cenere, ma un corpo muscoloso e oltremodo flessibile: Käthe diventa danzatrice acrobata. Tournée miserabili attraverso l'Europa, al braccio del suo amante-manager, l'italiano Johann Podsialdo, che tra un viaggio e l'altro le fa mettere al mondo due figli. Un giorno la famigliola finisce a Leningrado, senza un soldo. Ci si occupa di loro e perfino si offre a Käthe la possibilità di studiare... Käthe è convertita. Con tutta probabilità, data da quel soggiorno il suo arruolamento nei servizi segreti sovietici. Si rimette in viaggio da un capo all'altro dell'Europa, ma questa volta in funzione di un piano preordinato del Centro ed evitando accuratamente la Germania nazista. Nel 1937 riceve ordine di recarsi a Parigi; trova lavoro in un locale notturno e balla per due anni. Nel 1939, dopo lo scoppio della guerra, si nasconde con amante e figli in una casa nel XX Arrondissement per evitare di essere internata come cittadina di un paese nemico. La lunga clandestinità della “drôle de guerre”, Podsialdo e lei la mettono a profitto per imparare la stenodattilografia. Nel 1940, Käthe

emerge dall'ombra e va a proporre i propri servigi ai suoi compatrioti vittoriosi. Viene assunta dal Servizio del Lavoro, o “Organizzazione Sauckel”, con sede alla Camera dei Deputati. Podsialdo trova un impiego subalterno, ma Käthe diventa la segretaria del dottore parigino dell'Organizzazione, il dottor Kleefeld. Gode della sua intera fiducia: forse che non è tedesca e ha dovuto nascondersi quasi un anno per sottrarsi ai poliziotti francesi?... Maximovitch, dopo il ritorno da Vernet, si reca alla Camera dei Deputati per informarsi sulle offerte del Servizio del Lavoro. Incontra Käthe, chiacchiera con lei, intuisce il suo sentimento intimo, insomma giudica che si tratta di una possibile recluta, e di prim'ordine. Ma se si ingannasse? La fa invitare a Billeron. Per 15 giorni la grossa Anna e la piccola Käthe passeggiano chiacchierando nel parco. Quando Käthe riparte, Anna dice al fratello: «Secondo me, è a posto». Vassili continua ad essere diffidente. Ne ha fatta di strada da quando sognava solo bombe incendiarie. Rivede Käthe a Parigi, la spedisce di nuovo a Billeron a passeggiare sottobraccio ad Anna. Questa volta le fronde degli alberi sono rosse e sciarpe di bruma si sfilacciano contro i tronchi massicci degli alberi: è l'autunno del 1941. Anna conferma il verdetto favorevole e Vassili decide che è tempo di parlare di Käthe con il Gran Capo. Il colloquio si svolge dopo l'irruzione in Rue des Atrébates, per cui Trepper è di una prudenza estrema; teme un tentativo di penetrazione. Evidentemente Käthe non ha parlato a Maximovitch del fatto di appartenere da lunga data ai servizi sovietici; si è limitata a manifestare con discrezione il proprio antinazismo. Dal canto suo, Trepper, per motivi che chiariremo tra poco, non chiede informazioni sul suo conto al Centro. Anche se lo avesse

fatto, la risposta ovviamente favorevole non avrebbe comunque disarmato la sua diffidenza: Käthe è scomparsa nel settembre del 1939, troncando i contatti con il Centro, per riapparire nel luglio del 1940 nell'ufficio del dottor Kleefeld. Riuscita iniziativa per mettersi in condizione di tornare in servizio, oppure gesto di una voltagabbana che si è schierata dalla parte del vincitore? Il Gran Capo non batte mai ciglio quando si tratta di scavalcare di un balzo un corso d'acqua, ma prima di risolversi ai rischi spettacolari cerca sempre un guado. Perciò anche il reclutamento di Käthe si circonda di notevoli precauzioni. Per prima cosa, vedere la ragazza – ma senza incontrarla. La fa invitare da Anna in un ristorante provvisto di molti specchi. Seduto ad un tavolo vicino, Trepper scruta tutti gli specchi per individuare un'eventuale sorveglianza. Nessun indizio sospetto. Si può passare alla seconda fase: incontrare Käthe. Ciò avverrà su un marciapiede della metropolitana provvisto di numerose uscite. Käthe chiede a Vassili di descriverle l'interlocutore e la frase di riconoscimento che dovrà pronunciare. Vassili non le fornisce né una cosa né l'altra, e spiega che l'interlocutore la conosce già – stupore della ragazza. Ma se Käthe è un agente provocatore, non potrà indicare agli sbirri della Gestapo la preda: dovrà aspettare di essere abbordata da Trepper, cosa che lascerà a costui il tempo di fiutare un eventuale pericolo. Il Gran Capo mette Katz alle calcagna della giovane, con il compito di pedinarla dal suo domicilio fino alla metropolitana. Se Katz si accorge della presenza di poliziotti, avvertirà il suo capo con un cenno discreto. Nella metropolitana alcuni complici, piazzati nei punti strategici, spiano l'apparizione di signori in impermeabili un po' troppo lunghi e capello tirolese. L'incontro avviene senza intoppi; Käthe manifesta il desi-

derio di servire. Terzo stadio: fase della prova. Vengono chiesti a Käthe sigilli, timbri, esemplari calligrafici. Li consegna. A questo punto viene considerata assunta e si passa alle faccende serie: Käthe fornisce documenti, ma non a Trepper; questi manda avanti una comparsa, la signora Giraud. Protetta alle spalle da Katz, si incontra con Käthe nella metropolitana e riceve da lei, nascosti in un pacco di giornali, i rapporti redatti dal dottor Kleefeld. La signora Giraud ha l'ordine di tornare a casa, sempre tallonata dal fedele Katz. Poi deve conservare presso di sé i documenti per 3 giorni; dopo di che non sarà lei, ma il marito, ad andare a portarli al Gran Capo... Eccesso di cautela? Vero. Ma se tutti i capi di reti avessero agito così, i carnieri nazisti non sarebbero stati così colmi. *** Attraverso Käthe, Mosca conosce i problemi di manodopera che mettono i bastoni fra le ruote ai piani hitleriani e il mezzo previsto per porvi rimedio: la riduzione in schiavitù dell'Europa occupata. Kleefeld sa tutto: i contingenti fissati per ogni paese, la loro destinazione in Germania e – informazione preziosa – le industrie iscritte con diritto di priorità. Non tarderà a riferire in merito alle difficoltà incontrate nel reclutamento e alla vasta evasione nel Maquis. È importante. Ma Käthe fa di meglio. Porta alla rete un francese impiegato presso il Servizio Alloggi della Wehrmacht a Parigi. A prima vista, il personaggio in questione presenta scarso interesse, ma in realtà si tratta forse della recluta più importante mai arruolata dal Gran Capo. Ma lasceremo a Franz Fortner il compito di spie-

garlo: con quelle sue orecchie da elefante, il nasone e la voce tonante, questo orco ingenuo è impareggiabile nel raccontare le belle sorprese organizzate dall'Orchestra Rossa... *** Un giorno, Vassili de Maximovitch mise a parte Trepper del suo imbarazzo (sappiamo perfino che si tormentava nervosamente la barbetta che si era fatto crescere da poco): la gente cominciava a mormorare. In mancanza di una consacrazione ufficiale, i suoi amori con Margarete volgevano verso una banale relazione e le malelingue non avrebbero tardato a sospettare che si trattava di una relazione platonica. La posizione di Maximovitch sarebbe stata compromessa e addirittura avrebbe corso il rischio di essere messo al bando del Gross Paris. Trepper lo scongiurò di sposarsi, ma Vassili gli fece osservare, accarezzandosi la barbetta, che non erano ancora ridotti alla resa senza condizioni: una ritirata strategica lo avrebbe su una posizione capace di resistere almeno qualche mese: il fidanzamento. «E grazie al cielo», soggiunse il russo, «nel nostro ambiente non si parla neppure di consumare il fatto tra fidanzamento e nozze». Bisognava informare Mosca. Il Gran Capo sollecitò l'autorizzazione del Direttore. Essendosi questi degnato di accordare la sua benedizione, il Gross Paris fu inondato di biglietti di invito adorni dello stemma di Maximovitch. Il ricevimento fu fastoso: vide ballare il valzer da parte delle più belle fanciulle dell'aristocrazia russa emigrata e dei più baldi ufficiali dello Stato Maggiore tedesco a Parigi; lo champagne corse a fiumi e i due colombi ricevettero le felicitazioni di tutti i generali del “Majestic”.

Forse sarebbe dare prova di un deplorevole gusto oleografico, ma a noi piacerebbe vedere passare il Gran Capo davanti alle finestre dei saloni dove si svolge il ballo, piacerebbe che si fermasse e osservasse per un istante le figure eleganti roteare come ombre cinesi al suono di un'orchestra cui egli stesso verserà il compenso, e i servitori offrire coppe di champagne di cui sarà lui a pagare il conto. Quelle belle donne, quegli eleganti ufficiali, sono lì riuniti per suo volere e a sue spese; e tuttavia incarna, lui, ebreo comunista, tutto ciò che essi odiano di più al mondo. Trepper ha fatto grandi cose, ne farà ancora, ma per quanto riguarda il lato pittoresco, quella festa di fidanzamento costituisce, con tutta probabilità, il suo capolavoro. Ma il Gran Capo aveva troppe preoccupazioni per la testa e troppa angoscia in cuore per perdere il suo tempo a vedere ballare il valzer dai suoi zimbelli.

XIX. «CONSERVATE IL SANGUE FREDDO!»

Facciamo il punto. Quell'estate 1942 vede la caduta di Bruxelles e di Amsterdam, ma la cittadella parigina sembra inespugnabile. Circondata da sentinelle, protetta da un drastico sistema di compartimenti stagni, è pronta a sostenere l'assalto. Grazie a Grossvogel sono garantiti i servizi logistici. Una decina di appartamenti o di camere disabitate sono in grado di accogliere gli uomini della rete: Rue Edmond-Roger, 3; Quai SaintMichel, 13; Rue de Varennes, 94; Rue Fortuny, 6; Avenue de Wagram, 78, eccetera; c'è anche una villetta a Le Vésinet e una villa a Verviers. È perfino disponibile una base nelle retrovie: il castello di Billeron, dove vanno a ritemprare le forze gli agenti malati, affaticati, sicché clandestini comunisti e mogli di ufficiali Junker respirano fianco a fianco l'aria salubre del Berry. Billeron, situata a qualche chilometro dalla linea di demarcazione, costituisce altresì, per gli agenti minacciati, un'uscita di sicurezza verso la zona libera; guide locali ve li accompagnano. Particolare: la fattoria dei Corbin fornisce in abbondanza polli e uova e The-

venet, azionista della Simexco belga, fabbricante di sigarette, continua ad assicurare il suo tabacco a Parigi. Quanto alle finanze, sono floride. Il guadagno netto della Simex e della Simexco assomma a 1.616.000 franchi per l'anno 1941, a 1.641.000 franchi per il 1942, essendo inteso che tutte le spese di gestione delle reti belga, olandese e francese sono state assegnate al passivo delle due società. Di tali spese, Trepper tiene una contabilità rigorosa perché, come ogni capo di rete sovietica, sa che dovrà presentare i bilanci a Mosca. Lui e i suoi uomini sono retribuiti in dollari (il dollaro è da sempre l'unità monetaria del Centro). Nel 1939, il Gran Capo riceveva 350 dollari al mese, che furono ridotti a 275 quando sua moglie e i suoi figli raggiunsero Mosca via Marsiglia. Kent, Alamo e Grossvogel ebbero prima 175 dollari al mese, poi 225. Ma tutti gli agenti, dal più importante al più secondario, ricevono un salario uniforme di 100 dollari al mese a partire dal 22 giugno 1941. C'è la guerra e sono considerati alla stregua di soldati mobilitati. Le loro indennità per spese di servizio sono, beninteso, illimitate. A prima vista, le spese sembrano lievi. Dal 1° giugno 1941 al 31 dicembre 1941 Bruxelles costa 5650 dollari e Parigi 9421. Dal 1° gennaio 1942 al 30 aprile 1942, 2414 dollari per la rete francese, 2042 per la rete belga, mentre Kent, a Marsiglia, riceve per il suo gruppo 810 dollari. Dal 1° maggio 1942 al 30 settembre 1942, le spese sono espresse in franchi: 593.000 per la Francia, 380.000 per il Belgio, 185.000 per Kent. Si tratta, nel caso specifico, unicamente delle spese di normale amministrazione (stipendi degli agenti, affitti degli appartamenti, eccetera). Per farsi un'idea precisa delle finanze della rete bisognerebbe aggiungere i fondi stanziati per la corruzione

degli ufficiali tedeschi, il conto per la festa di fidanzamento di Maximovitch, la gestione di Billeron, eccetera. Il Gran Capo può spendere senza lesinare poiché il denaro dato ai tedeschi è, per il tramite della Simex e della Simexco, preso dalle tasche dei tedeschi. Il Terzo Reich mantiene l'Orchestra Rossa, così come un organismo alimenta il cancro che lo rode. E la mantiene con tale larghezza che, per un momento, il Centro pensa di fare del Gran Capo il banchiere di tutte le reti sovietiche in Occidente... I suoi conti, Trepper li ha nascosti in un orologio della casa di Verviers. A casa di Katz, certi vasi di marmellata contengono un tesoro di 1000 dollari-oro destinati a parare il colpo di un'eventuale catastrofe finanziaria. Claude Spaak ha sempre in deposito il rotolo d'oro affidatogli dai Sokol. Anche se la Simex e la Simexco saranno scoperte, non verrà a mancare il nerbo della guerra. *** Forte di questa infrastruttura, la rete svolge un lavoro straordinario. Già conosciamo il compito della Simex: penetrazione dell'Organizzazione Todt e informazioni sui grandi lavori eseguiti dalla Wehrmacht nell'Europa occupata; quello di Vassili de Maximovitch: penetrazione dello Stato Maggiore a Parigi, informazioni sui movimenti di truppa, le sostituzioni degli ufficiali, il morale della Wehrmacht, le mene antihitleriane nel suo seno, i rapporti con Vichy; quello di Käthe Voelkner: i problemi della manodopera; quanto ad Anna, fornisce informazioni relative alla politica vaticana e agli affari interni francesi; a Lione, Romeo Springer si è messo in contatto con l'ex-ministro belga Balthazar e con il console americano: ne riceve informazioni interessanti.

E non è tutto. La rete ha reclutato due agenti presso la centrale telefonica tedesca di Parigi: ascoltano le conversazioni scambiate tra la capitale francese e Berlino, riferendo al Gran Capo i fatti più importanti. Del pari, al suo servizio è l'organizzazione del Komintern. A capo di questa, un ebreo di 44 anni, alto e magro, con occhi neri, dallo sguardo vivo: Henry Robinson. La Gestapo scriverà di lui nel suo rapporto: Ebreo tedesco, parla correntemente tedesco, inglese, russo, francese e italiano. Si serve di numerose identità, ma non si sa quale sia quella esatta. Fondatore delle Gioventù Comuniste con l'amico Humbert-Droz. Rappresentante della Gioventù Comunista francese presso il Komintern nel 1922. Nel 1923, capo dell'apparato operaio politico-militare in Renania durante l'occupazione francese. Nel 1924, capo-tecnico dell'apparato operaio politico-militare per l'Europa Centrale e l'Europa Occidentale. Nel 1929, braccio destro del generale Muraille per la direzione dei servizi di informazione sovietici in Francia. Nel 1930, capo dei servizi di informazione per l'Europa della IV Sezione dell'Armata Rossa. Nel 1940, capo della sezione attivista e militare per l'Europa occidentale.

Un curriculum vitae indubbiamente ricco di inesattezze (anche se ha compiuto qualche missione per conto del Centro, Robinson

è

rimasto

fino

all'ultimo

di

stretta

osservanza

Komintern), ma assai eloquente: l'uomo è un veterano della lotta clandestina. Poco più anziano del Gran Capo, è già stato braccio destro del generale Muraille, capo dello spionaggio sovietico in

Francia, tre anni prima che Trepper giungesse in questo paese a seguire le lezioni di Fantômas. Poi, Robinson non ha cessato di migliorare il suo inserimento e di moltiplicare le sue relazioni in tutti gli ambienti francesi, mentre Trepper è vissuto in Russia e in Belgio. E tuttavia, è Robinson che passa alle dipendenze del Gran Capo, e non viceversa. Trepper appartiene ai servizi dell'Armata Rossa, che la guerra mondiale ha posto in primo piano; l'altro fa parte di un Komintern dal prestigio in declino, sospetto di deviazionismo agli occhi di Stalin, ritenuto inefficiente e superato dai giovani tecnocrati del Centro. Ordinando a Trepper di assorbire il gruppo Komintern, il Direttore moltiplica le raccomandazioni: Robinson è stato in conflitto ideologico con il Cremlino, politicamente non è sicuro; lo si sospetta di avere fatto l'informatore per il Deuxième Bureau francese. La consegna è: usarlo con la massima prudenza. Il generale Susloparov organizza un incontro tra i due uomini alla vigilia di “Barbarossa”. Soffocando la sua probabile amarezza, Robinson mette immediatamente a disposizione dell'Orchestra Rossa i suoi agenti belgi e francesi e fornisce al Gran Capo la sua rete personale di informatori. È introdotto nei circoli dirigenti francesi e dispone di parecchie “fonti” in seno all'Alto Comando tedesco. I suoi agenti presenteranno a Trepper rapporti precisi su faccende quali l'evasione del generale Giraud e le sue conseguenze, lo sbarco di Dieppe, i risultati dei bombardamenti alleati sulla Francia, i preparativi dello sbarco anglo-americano nell'Africa del Nord, eccetera. ***

I gruppi di Vassili e Anna de Maximovitch, di Käthe Voelkner, di Romeo Springer, di Robinson: altrettante cellule di lavoro che spacciano informazioni con una regolarità cronometrica. Per essere esaurienti, bisognerebbe aggiungere i contatti individuali che questo o quell'agente allaccia con un informatore a seconda delle circostanze. Il Gran Capo, per esempio, beneficia delle confidenze di una certa signorina Mayol de Lupé, sorella del cappellano della Legione dei Volontari Francesi che combattono in Russia con l'uniforme tedesca. Monsignor Mayol de Lupé, bell'esemplare di monaco dell'Inquisizione, regna su un'unità in cui procedono fianco a fianco mercenari arruolatisi per la pagnotta e tristi ragazzi sbandati, convinti di difendere in Russia l'onore della Francia che hanno ammantato un po' troppo in fretta con il vessillo della croce uncinata. A quanto si dice, la conversazione della sorella verteva essenzialmente sui bei ragazzi, ma scommettiamo che a volte vi si infilava qualche informazione ottenuta dal monsignore. Bisogna anche ricordare le numerose relazioni che il Gran Capo si è fatto tra gli ufficiali tedeschi, sia attraverso la Simex, sia durante le sue uscite serali. Tutti informatori involontari... ...o volontari. Qui viene fatto di ricordare Kainz, l'ingegnere della Todt che aveva annunciato a Trepper l'imminenza di “Barbarossa”. A quel tempo, Kainz era ancora soltanto imprudente – benché l'austriaco non abbia mai avuto simpatia per il regime hitleriano. Poi è stato spedito in missione a Kiev, in Ucraina, e ha visto, il 29 e 30 settembre 1941, 33.771 ebrei – uomini, donne, bambini – massacrati nel burrone di Baby Yar, il burrone delle Buone Donne; li ha visti arrivare tra le dune di sabbia, il fagottello in spalla, poi sedersi sul ciglio della strada e aspettare che

venissero a prenderli, mentre la raffica che mieteva i loro fratelli scandiva la fuga del tempo come un bilanciere di orologio – 33.771 esseri umani assassinati in 48 ore: apice dell'orrore nazista, primato assoluto che mai eguaglieranno le fabbriche della morte, Treblinka e Auschwitz, neppure nei momenti di massimo rendimento; ha visto questo, Ludwig Kainz, e già prova ciò che vent'anni più tardi scriverà il poeta Evtushenko: Tra le erbacce del burrone delle Buone Donne Si direbbe che gli alberi proferiscano minacce, quali guidici. Di silenzio sono fatti tutti i gridi di quel luogo Mi scopro il capo e sento che mi si incanutiscono i capelli. Divento ora il muto lamento che esalano a migliaia i morti inumati laggiù. Sono ogni vecchio fucilato su quel poggio. Sono ogni bambino fucilato su quel poggio. A lungo conserverò il ricordo, oh!, a lungo di ciò.

Dopo Baby Yar, Kainz è dei nostri. ***

Mosca può essere contenta. Il Gran Capo, a forza di lavoro e di intelligenza, ha conseguito, con la rete francese, l'obiettivo supremo fissato ad ogni organizzazione spionistica: l'infiltrazione al vertice del dispositivo nemico. Proprio come Schulze-Boysen e i suoi – ma questi erano tedeschi, quindi già sul posto. Gli fosse semplicemente riuscita l'infiltrazione alla base, alla quale si limiteranno per lo più le reti alleate, il risultato sarebbe stato meno interessante per il Cremlino: Parigi non era l'ombelico del Reich e il tran-tran della sua vita quotidiana era privo di conseguenze dirette per la Russia. Ma noi sappiamo che i rapporti di Maximovitch sulle mene hitleriane degli ufficiali del tipo Pfeffer facilitarono a Mosca la messa a punto della campagna di propaganda sui quadri della Wehrmacht. Il Cremlino conosceva poco e male la psicologia dell'“ufficiale tradizionalista” tedesco e il suo atteggiamento nei confronti del regime. Illuminato da Maximovitch, redasse gli appelli del “Comitato della Germania Libera”, presieduto dal vinto di Stalingrado, il maresciallo von Paulus, tenendo conto delle informazioni raccolte a Parigi. Del pari, i contatti di Vassili e Anna – e pure di Robinson – tra gli emigrati russi sono preziosi nel momento in cui la politica tedesca si sforza di resuscitare a proprio vantaggio i nazionalismi ucraino, tartaro, cosacco, eccetera. Gli aristocratici emigrati a Parigi conoscono, attraverso i loro pari tedeschi, la falsità di tale politica: non si tratta che di dividere per vincere, e quindi ridurre in schiavitù. Informata dal Gran Capo delle loro confidenze e reazioni, Mosca se ne serve nella propaganda contro i transfughi. Sarebbe facile citare altri esempi. Anche lo Stato Maggiore dell'Armata Rossa riceve la sua parte di bottino. Oltre alle informazioni generali sui piani della

Wehrmacht e le sue grandi opzioni strategiche, è messo al corrente della partenza per la Russia di qualsiasi divisione di stanza in Occidente prima ancora che questa divisione abbia finito di fare le valigie – e, a volte, prima che il generale sia stato avvertito del trasferimento. Non è male. Ma sarebbe ancora meglio se una scheda segnaletica completa di tutti i dati accompagnasse l'annuncio del trasferimento. E qui trionfa la Resistenza francese. Il più delle volte impotente ad infiltrare il nemico al vertice, vi supplisce con un'invasione alla base: grazie a migliaia di agenti, tutti dilettanti di buona volontà, riesce a ricostruire – una bustarella qui, una là – il mosaico avversario fin nei più piccoli particolari. Traccia la carta viva dell'esercito nemico. Otterrà da sola, dopo lo sbarco, la resa del più formidabile punto fortificato della costa normanna – Ostek, presso Cherbourg – che resisteva da 4 giorni a tutti gli assalti: gli ufficiali di Ostek si arrenderanno dopo che un parlamentare americano avrà loro mostrato la carta dove il dispositivo tedesco era riportato in maniera ancora più precisa che sulle loro, dove ogni arma era situata con il suo campo di tiro e la sua riserva di munizioni, obice per obice, caricatore per caricatore, dove il contingente di uomini di ogni Blockhaus era indicato nella didascalia, con il nome dell'ufficiale che lo comandava... L'arma psicologica riuscirà là dove falliva un diluvio di ferro e di fuoco: spezzare la resistenza di Ostek. I gruppi specializzati del Gran Capo non possono abbassarsi fino a questi piccoli particolari: bazzicano con i generali dai calzoni listati di rosso, loro, non con i furieri; del resto, non sarebbero abbastanza numerosi. Ma Trepper, al pari degli altri capi delle reti di resistenza, come Rémy, come Sainteny, come Marie-

Madeleine Fourcade, dispone anche lui di una infinità di agenti subalterni, occasionali; ha il suo esercito di “spie tuttofare”. Tutti coloro che fanno parte dei Franchi Tiratori e dei Partigiani, del Partito comunista, delle organizzazioni di lotta ebraiche, dei gruppi di resistenza stranieri – una folla innumerevole! – lavora attivamente per l'Orchestra Rossa. Ogni qual volta un autocarro della Wehrmacht cade in un'imboscata, ogni qual volta una postazione nemica è conquistata d'assalto, le carte dei soldati e i documenti in possesso del loro ufficiale sono esaminati, analizzati su scala locale; se contengono informazioni di interesse generale, vengono trasmessi al Gran Capo. Altra preda preziosa, le informazioni ottenute dalle cellule che le suddette organizzazioni adibiscono al “lavoro tedesco”, vale a dire all'infiltrazione della Wehrmacht. Loro elementi di punta sono giovani militanti incaricati di filare con soldati e ufficiali per cavarne il massimo di informazioni. Il compito è delicato; come è scritto coraggiosamente in un rapporto: «Le ragazze avevano a che fare con uomini i quali vedevano in loro solo l'oggetto delle proprie brame. Occorreva tenerli a distanza, pur accaparrandosene la fiducia, e si può dire che il passaggio dalla zona erotica alla zona politica non era di facile attuazione». Non fatichiamo a crederlo. Il Centro non riceve la totalità del bottino – tutti i pianisti di Francia non basterebbero –, ma solo il fior fiore. E in particolare la scheda segnaletica di ogni unità spedita al fronte russo. Per questo, i soldati della 23a Divisione Fanteria, la “Divisione della Tour Eiffel”, hanno potuto udire dagli altoparlanti dell'Armata Rossa l'annuncio che la bella vita di Parigi era ormai finita. Mettetevi un po' nei panni del soldatino della 23a... Ha lasciato la Francia e i suoi piaceri, ha attraversato l'Europa per andare ad

affrontare un nemico tanto più temibile in quanto gli è sconosciuto (e, di fronte all'ignoto, la fantasia galoppa) e questo per scoprire, la notte precedente all'assalto, per mezzo di altoparlanti, poi di manifestini, che il nemico sa tutto di lui e dei suoi camerati... Amara sorpresa! Terrificante rivelazione! Dunque, fin dall'inizio era spiato dall'occhio di un avversario diabolico? Il soldatino della 23a è come saranno, nel giugno del 1944, i difensori di Ostek: colpito a morte nell'intima fiducia in se stesso. *** Che dire di più, se non che si vide di rado, nella storia dello spionaggio, un servizio dare al suo capo altrettanti motivi di soddisfazione e di orgoglio della rete francese dell'Orchestra Rossa in quell'estate del 1942... Eppure, sta di fatto che quella stessa estate segnò per il Gran Capo l'inizio dell'angoscia. *** In primo luogo, la guerra va male. 25 anni dopo, vediamo con un occhio lo Stato Maggiore tedesco lanciare l'“Operazione Blu” e abbiamo già l'altro occhio su Stalingrado, ma la visuale di Trepper non possiede questa splendida ampiezza. Come tutti gli altri, è costretto a constatare che la Wehrmacht si riversa sul Caucaso, che Rommel respinge i britannici nel deserto africano, che l'esercito giapponese continua a tingere di giallo la carta del Pacifico. Poi, e sempre, e più che mai: il problema delle trasmissioni...

Hersch Sokol è catturato il 9 giugno; Wenzel cade in mano a Fortner alla fine dello stesso mese. Chi darà loro il cambio? Potrebbe farlo Kent. Possiede un'emittente e la sua attività a Marsiglia, dopo 8 mesi, non è stata scoperta dalla polizia di Vichy. Ma che attività! Racconta Margarete Barcza: Facevamo la bella vita. Il mio sogno diventava finalmente realtà: lui non mi lasciava mai. Passavamo il pomeriggio alla spiaggia. Quando il cielo era coperto cinema, e fino a tre film al giorno, oppure ballavamo a casa o andavamo a fare una gita fino alla casa di campagna. Di tanto in tanto, lui andava a bere qualcosa con il signor Jaspar per parlare di lavoro, ma siccome questo mi mandava su tutte le furie, lui diradava gli appuntamenti. Mi creda, non mi ci voleva poi molto per convincerlo: Vincent ne aveva fin sopra i capelli di tutte quelle storie. Che vuole? Ci amavamo, eravamo felici, perché preoccuparsi del resto? Mio figlio René stava con noi, ma ciò non creava problemi, anzi, perché Vincent gli voleva bene come se fosse stato suo figlio. Sì, era una bellissima vita e ci auguravamo un'unica cosa: che continuasse così. A questo scopo, Vincent aveva un piano: filare in Svizzera senza avvertire nessuno e aspettare là la fine della guerra. Possedeva del denaro e un passaporto con il visto per la Svizzera. Io però, naturalmente, ero sprovvista di documenti. Lui voleva che andassi a stare con René nell'Alta Savoia; lui si sarebbe recato in Svizzera e di là avrebbe organizzato il nostro passaggio. Ho rifiutato. Separarmi da lui, fosse pure per qualche giorno, era al di sopra delle mie forze. Così siamo rimasti tranquillamente a Marsiglia, dicendoci che la guerra un giorno o l'altro sarebbe pur finita e che forse saremmo riusciti a cavar-

cela indenni. Per maggiore sicurezza, Vincent mi ha costretto a mettere René, che ormai andava per gli 11 anni, in un collegio di Marsiglia. Così, se ci arrivava tra capo e collo una tegola, non si sarebbe trovato allo sbaraglio. Trepper è venuto a trovarci parecchie volte per rilanciare Vincent. Si mettevano tutti e due in una stanza, parlavano sottovoce e tacevano non appena facevo l'atto di entrare. Mi veniva una rabbia! Al punto che una volta ho messo quel Trepper alla porta! Lui era furibondo, perché era ora di colazione e, per carità!, quando si trattava di cibo non sentiva ragioni! Goloso e buongustaio! Come Vincent, del resto... Ah! Si sarebbe potuto credere che non avesse mai mangiato a sazietà prima di venire in Belgio e in Francia. Al ristorante capitava spesso che ordinasse due o tre piatti di carne alla volta – e ancora non gli bastava: quando tornavamo a casa, mi chiedeva di preparargli uno spuntino! Un orco... glielo giuro...

Kent è perso, per la rete. Fa mille difficoltà per mettere in funzione la sua emittente, invoca continui guasti, sicché il Gran Capo è costretto a mandargli i tecnici di un gruppo di resistenza locale, i quali non tardano a dichiarare che l'emittente è perfettamente funzionante. Ma anche allora Kent nicchia. Impossibile contare su di lui per smaltire il traffico delle comunicazioni radiofoniche della rete. Il Centro si indigna e copre di rimproveri il Gran Capo per l'inoperosità del suo aiutante. Trepper preferisce non mostrare i telegrammi a Kent per non demoralizzarlo del tutto: il meglio che si possa sperare dall'ex-Piccolo Capo è che resti immerso nel suo disfattismo e nella sua ingordigia senza attirare l'attenzione del controspionaggio di Vichy sulla rete.

Anche Robinson possiede un'emittente. Ma il veterano del Komintern non è all'altezza del suo stato di servizio: ha paura delle auto-goniometri della Funkabwher. Robinson ha su Kent l'unico vantaggio di non far perdere tempo in vane esortazioni al Gran Capo: rifiuta decisamente di sedersi al piano, e nulla e nessuno lo indurranno a cambiare idea. Resta la carta Giraud. Pierre e Lucienne Giraud, rispettivamente 34 e 32 anni, sono stati reclutati dal loro vecchio amico Katz. In un primo tempo agenti di collegamento, servono da “interruttori” tra il Gran Capo e Michel, il suo “contatto” con il Partito comunista francese e anche, come si è visto, tra il Gran Capo e Käthe Voelkner. Nella primavera del 1942, quando Sokol e Wenzel sono ancora in libertà, Grossvogel installa la coppia a Saint-Leu-la-Forêt, presso Parigi, con una trasmittente fornita da Pauriol, lo specialista radio del Partito che aveva già procurato un apparecchio a Hersch Sokol; i Giraud ricevono istruzioni di iniziarsi all'uso della radio. Falliscono e non riescono a stabilire un collegamento con il Centro quando Trepper glielo ordina, dopo la cattura di Sokol e di Wenzel. I Giraud tornano ai loro compiti di agenti di collegamento e il Gran Capo è costretto a ricorrere al Partito, come dopo la retata in Rue des Atrébates, per smaltire il traffico radiofonico – soluzione sempre assai poco soddisfacente, per via della saturazione delle emittenti comuniste. I Giraud, desolati dell'insuccesso, si danno da fare per porvi rimedio. Reclutano il prezioso individuo in grado di far funzionare l'apparecchio: Valentino Escudero, repubblicano spagnolo rifugiatosi in Francia dopo la ritirata di Catalogna; internato dalle autorità francesi, poi liberato, Escudero lavora in qualità di elettricista presso una società di

trasporti tedesca a Parigi. Grossvogel affitta per il terzetto una villa a Le Pecq, nel dipartimento Seine-et-Oise. Alla fine dell'estate, Trepper dà il via ad un nuovo tentativo. Ma ancora prima che il tentativo abbia luogo, sopravviene la Gestapo e va difilata all'emittente sotterrata in giardino. I Giraud fuggono. Le loro tracce saranno ritrovate a Parigi dopo la Liberazione, nel 1946, ma scompariranno di nuovo senza lasciare indirizzo. Escudero, fatto strano, non è disturbato dalla Gestapo. Dopo la Liberazione torna in Spagna dove non tarda a raggiungerlo la moglie. Perché Valentino Escudero, ex-appartenente all'esercito repubblicano, ritornasse da Franco nel 1945 bisognava che avesse dato prova della propria conversione politica. Non giureremmo che la Gestapo si sia recata a Le Pecq dietro sua denuncia, ma l'ipotesi sembra perlomeno verosimile. È comunque certo che, dopo questo nuovo colpo del destino, Trepper si ritrova senza emittente. È del pari vero che ormai ci ha fatto l'abitudine. Tanto che fonte della sua angoscia non è tale intoppo, come non lo sono la caduta di Bruxelles e quella di Amsterdam (il sistema di paratie stagne imposto a Parigi limiterà i danni); né quella ineluttabile di Berlino – di cui ignora che è imminente. La sua angoscia ha nome “Mosca”. *** Il Cremlino si era rifiutato di ascoltare il grido di allarme del Gran Capo che annunciava “Barbarossa”, ma Sorge in Giappone, Rado in Svizzera e altri ancora avevano subito lo stesso rabbuffo,

e l'amarezza di non essere creduti costituisce il pane quotidiano del capo di una rete. Il generale Susloparov non aveva procurato a Trepper le trasmittenti che chiedeva, ma non era possibile prendersela con il bravo addetto militare: il suo compito si limitava a trasmettere al Centro, e il Centro non aveva risposto perché non credeva alla guerra. Quando la guerra era venuta, gli ordini del Direttore avevano assunto una veemenza altrettanto eccessiva della sua passività precedente. Nonostante gli avvertimenti del Gran Capo – nonostante le sue suppliche! –, i pianisti della rete erano rimasti inchiodati alla loro emittente 5 ore di fila, quando una trasmissione di 20 minuti offriva già buone possibilità ai segugi della Funkabwher. Alamo, Wenzel e Sokol sono caduti in mano alla Gestapo per aver obbedito al Centro. Ma accade sempre così in tempo di guerra: i capi amano decretare, dal fondo del loro quartier generale, l'ordine di farsi ammazzare sul posto, quando basterebbe un lieve spostamento laterale per evitare i tiri del cannone. Le loro follie non hanno neppure il vantaggio di farla finita con le more burocratiche precedenti, anzi, si aggiungono a queste. Il Direttore tratta i radiotelegrafisti come granatieri d'assalto, ma pretende anche che conservino per 24 ore copia di tutti i telegrammi trasmessi per poterli ripetere nel caso che il Centro li avesse captati o decifrati scorrettamente: si valutino i rischi corsi! Vero è che simili stupide pretese sono comuni a tutti i burocrati del mondo. La prima vera incrinatura sopravviene con il famoso telegramma che ordinava a Kent di recarsi agli indirizzi dei tre capi della rete berlinese. Atterrito, il Gran Capo si dice: «Non è possi-

bile! Sono impazziti!». Tre indirizzi di importanza capitale rivelati in un telegramma che potrebbe essere captato, interpretato – e lo è, infatti... Perché non spedire a Bruxelles un messaggero al corrente degli indirizzi e in possesso di una pillola di cianuro? Se il tempo stringeva a tale punto, potevano almeno suddividere gli indirizzi in tre messaggi, usando codici diversi, in modo da diminuire il rischio che fossero scoperti tutti assieme. A partire da quel giorno, il Gran Capo non svelerà più a Mosca, malgrado le proteste del Direttore, l'identità delle sue “fonti” – attentato sacrilego alle tradizioni dello spionaggio sovietico – e le celerà perfino l'identità della maggior parte dei suoi agenti (è per questo che preferisce non chiedere informazioni su Käthe Voelkner). Meglio ancora: quando sarà di nuovo in grado di trasmettere, riserverà alle emittenti del Partito comunista francese i rapporti di importanza vitale, sia che contengano informazioni essenziali, sia che la loro scoperta rischi di mettere in pericolo l'esistenza della rete. Tale misura di prudenza presenta un vantaggio supplementare: i suddetti rapporti vengono letti da altre persone oltre al Direttore, perché affidati a Pauriol, trasmessi da Pauriol al capo comunista Jacques Duclos, captati a Mosca dai servizi di Dimitrov, capo supremo del Komintern e vengono sottoposti all'attenzione dell'onnipotente Comitato Centrale Sovietico, oltre che al Direttore. Ma dopo il telegramma indirizzato a Kent, il Gran Capo ancora diffida soltanto dell'imprudenza del Centro: non diffida del Centro in sé. Poi vengono le retate in Rue des Atrébates e le misure di sicurezza prese di urgenza: invio di Kent a Marsiglia, ripiegamento degli agenti più minacciati su Lione, interruzione delle attivi-

tà della rete di Bruxelles per 6 mesi. Il Centro si indigna e quasi grida al tradimento; si dimostra a Trepper che non bisogna spaventarsi per così poco, si esige il ritorno di Kent a Bruxelles. Il Gran Capo risponde che, trovandosi sul posto, è miglior giudice della situazione che il Direttore. Kent resterà a Marsiglia e Romeo Springer a Lione. Mosca ordina allora l'immediata riattivazione della rete belga sotto la direzione di Yefremov. Trepper conferma invece le istruzioni impartite: ha pesato Yefremov; tutta l'attività dell'ucraino consiste nell'andare a zonzo per i bar annotando il numero delle unità alle quali appartengono i soldati tedeschi che si sbronzano con lui. Yefremov è catturato da Fortner. Trepper avverte immediatamente il Centro. Risposta del Direttore: «Lo sappiamo. Ci ha avvertiti per radio che aveva avuto delle noie per una storia di valuta, ma che è tutto a posto e che lo hanno rimesso in libertà». Questo lo sa anche il Gran Capo, ma indovina il prezzo pagato da Yefremov per la sua “liberazione”: il tradimento della rete. Come convincere il Centro? Grossvogel e Pauriol partono per Bruxelles con il compito di mettere in chiaro la faccenda. La loro conclusione è categorica, con tanto di pezze di appoggio: Yefremov ha tradito. Messaggio del Gran Capo al Centro. Risposta del Direttore: «La paura vi fa perdere la testa. Ordine di riprendere immediatamente contatto con Yefremov». Trepper, Grossvogel e Pauriol si limitano a ridere verde. Wenzel è catturato. Avvertimento del Gran Capo al Centro. «Vi ingannate. Wenzel continua a trasmettere e ci manda ottimo materiale».

L'olandese Winterink è catturato. Il Centro a Trepper: «Siete pazzo. Continua a fornirci informazioni altrettanto buone che prima del suo preteso arresto. Conservate il sangue freddo!». Se non è ancora pazzo, il Gran Capo sente che lo sta diventando. Notte dopo notte, cerca una spiegazione agli incredibili messaggi di Mosca, si sforza di respingere questo terribile sospetto: al Centro c'è uno o più traditori al soldo dei tedeschi, il cui obiettivo consiste nello spezzare le reti dall'interno. Ma allora, a chi credere e in chi sperare? Se perfino il Centro è infiltrato, non è tutto perso? Altra ipotesi: forse il Direttore pensa che lui, Trepper, sia caduto nella retata operata da Fortner in Rue des Atrébates. Dopo tutto, vista da Mosca, la sua destrezza nel sottrarsi alla trappola può essere sembrata troppo bella per essere vera. Se il Direttore crede che Trepper sia nelle mani della Gestapo, è ovvio che tutto ciò che il Centro riceve da lui è giudicato a priori falso. Ma perché proclamarlo così apertamente? Perché non fingere di stare al gioco tedesco, se non altro per scoprire gli scopi? E poi, se il Gran Capo si è abbassato al punto di suonare il piano per conto della Gestapo, è evidente che avrà tradito anche Yefremov, Wenzel e Winterink. L'ipotesi non regge all'analisi. Nessuna delle ipotesi prese in esame dal cervello fertile del Gran Capo è in grado di fornire una spiegazione logica dell'atteggiamento del Centro. Un'unica certezza: Mosca è ingannata dall'ottima qualità delle informazioni trasmesse dai transfughi. Trepper ha capito il meccanismo del Funkspiel; ne intuisce la principale difficoltà: ottenere dalle autorità superiori l'autorizzazione a passare al nemico un numero sufficiente di informazioni vere per far credere alle false. Coloro che manipolano Yefremov, Wenzel e Winterink

hanno evidentemente ottenuto tale autorizzazione: Mosca non fa che congratularsi del loro operato. Ora, le informazioni trasmesse dai tre uomini prima dell'arresto erano altrettante pugnalate per la Wehrmacht. Occorre, dunque, che lo scopo del Funkspiel sia ben straordinario, ben grandioso, perché si accontenta ad alimentarlo a quel modo. Il Gran Capo è, con tutta probabilità, fiero del proprio operato, ma gli sembra inverosimile che i maestri del Funkspiel puntino così grosso allo scopo di farla finita con una rete. Anche se avessero questo unico obiettivo (essendo uomini del servizio informazioni, e conoscendo l'importanza della propria specialità), non sarebbero riusciti a convincere i profani della Wehrmacht che il gioco valeva la candela. Il Funkspiel nasconde dunque qualcos'altro – ma che cosa? Il segreto risiede a Bruxelles, dove il Kommando conclude la sua battuta di caccia. Il “Gruppo di controspionaggio” montato dal Gran Capo è disperso, annientato. Del resto, non si sarebbe più trattato di spiare alla porta delle prigioni e di prezzolare i guardiani, ma di leggere nelle pratiche di Giering. Trepper decide, tanto la sua angoscia è profonda, di lanciare Vassili de Maximovitch in un tentativo in cui rischia di bruciarsi. Lo zio della sua fidanzata, il tenente colonnello Hartog, è ufficiale di collegamento tra lo Stato Maggiore tedesco a Parigi e quello di Bruxelles: chissà che non sia al corrente dell'imminente arrivo del Kommando in Francia, e soprattutto dei suoi piani... Vassili marcia coraggiosamente incontro al cannone, ben sapendo che lo zio non ha simpatia per lui. Ma a salvarlo è proprio quella inimicizia: dopo qualche visita prudente – prima che sia smascherato agli occhi di Hartog –, la segretaria di questi, una certa signorina

Kreuziger, informa Vassili che il suo capo si augura che lo privi del piacere della sua conversazione... Al Gran Capo non resta più che attendere.

XX. LA FINE DEI BERLINESI

Pare un sogno. Nessun romanziere oserebbe inventare una trama così romanzesca come quella che affrettò la caduta del gruppo di Berlino. Gruppo destinato a finire come era vissuto: nella fantasia e nella confusione. A partire dal 14 luglio, la Gestapo sfrutta il filone scoperto da Kludow. Ha identificato i capi della rete: Harro Schulze-Boysen, ufficiale della Luftwaffe; Arvid Harnack, Oberregierungsrat al Ministero dell'Economia; Adam Kuckhoff, scrittore noto, autore del lavoro teatrale Till Eulenspiegel, direttore della casa cinematografica “Prague-Films”. Schulze-Boysen e Harnack sono personalità di primo piano, conosciute nei circoli più in vista di Berlino, che se la fanno con il fior fiore del regime. Oggi si spiega come mai i segreti meglio protetti del Reich abbiano potuto arrivare fino a Mosca. Due Kriminaldirektor della Gestapo, Panzinger e Koppkow, prendono in mano l'inchiesta. Superiori gerarchici di Giering, posti agli ordini diretti del grande Gestapo-Müller, i due sono vecchi specialisti della lotta anticomunista. Hanno liquidato il partito clandestino tedesco, spedito i suoi membri al

patibolo o nei campi di concentramento, infarcito di informatori i resti lasciati in vita per essere avvertiti di un eventuale risveglio. Con loro somma sorpresa, la rete dell'Orchestra Rossa – il loro spauracchio! – si rivela più facile da smantellare di una cellula comunista della periferia berlinese. Separazione inesistente, appuntamenti presi per telefono, messaggi trasmessi per posta: il militante di base era una preda più elusiva di queste superspie! Poiché la lista nera della Gestapo si allunga di giorno in giorno, non è il caso che Panzinger e Koppkow mettano in atto una retata prematura. Sarà la rete nel suo complesso a cadere nella trappola come un bel frutto fradicio. *** Il sabato 29 agosto, trambusto alla sede della Funkabwher: Kludow e i suoi giovani collaboratori traslocano per andare ad occupare uffici più spaziosi al piano superiore. Con tutta probabilità, la cosa si svolge in un'atmosfera di franca allegria goliardica. Ma al termine dell'operazione, Kludow fa il duro: annuncia che l'indomani, domenica 30 agosto, si lavorerà per recuperare il sabato perduto. Costernazione nei ranghi. Tranne forse per Horst Heilmann, un buon elemento, nazista accanito, il più sgobbone di tutto il gruppo. Siccome era d'accordo con certi amici per una gita in barca, l'indomani, sul Wansee, deve avvertirli del contrattempo. Si serve del telefono appena installato nell'ufficio di Kludow e chiama un numero berlinese. Risponde la cameriera: i padroni sono assenti. Horst lascia un messaggio: lo richiamino appena possibile. Lascia alla domestica il numero di Kludow, dal

momento che il suo apparecchio personale non è stato ancora trasferito nel nuovo ufficio. *** Il destino degli uomini e quello dei popoli obbedisce, forse, a leggi simili a quelle della balistica, ma accade di rado di poter isolare l'istante esatto in cui parte la traiettoria, di poter fissare il mese, il giorno che segnano in pari tempo l'apice del trionfo e l'inizio della parabola discendente. Si dà tuttavia il caso che la Storia, ottima musa, si presti all'oleografia. Così ci consente di scrivere che l'impero hitleriano toccò l'apogeo esattamente la domenica 30 agosto 1942. La potenza del Führer non si era mai esercitata su territori così vasti e su un così gran numero di uomini, come in quel giorno memorabile; mai la Germania parve così prossima a stringere il mondo in pugno. Fu, da tutti i punti di vista, una giornata calda. L'Afrika Korps di Rommel è schierato in ordine di battaglia e tiene sotto la propria mira le Piramidi. La “Volpe del Deserto” ha raccolto le sue forze in vista di un'offensiva che le darà in mano Il Cairo, Alessandria, il delta del Nilo e Suez, la «suprema conquista», come Rommel scrive nei suoi appunti. Tutto ciò si trova, “offerto”, a meno di 100 chilometri dai suoi avamposti. I carristi tedeschi, stessi sotto i loro carri, soffocano nella fornace dell'estate egiziana. Attendono il crepuscolo. Con il crepuscolo verranno la frescura e il razzo rosso che darà il segnale di attacco. Hanno percorso migliaia di chilometri in un deserto disumano che trasforma i carri armati in forni. Si battono da mesi contro un av-

versario sempre più numeroso e sempre meglio armato. Hanno sgranato moltissimi camerati morti lungo la pista. Ma domani, nei bari del Cairo, berranno birra inglese e fumeranno tabacco biondo. *** Rommel è più vicino al Cerek che a Roma, due volte più vicino al Cerek che a Berlino. Prodigioso esercito tedesco! Il Cerek, fiume del Caucaso, è l'ultimo ostacolo che si frappone alla corsa dei carri armati del generale von Kleist verso il petrolio di Baku. Tre divisioni russe sono schierate sulla riva meridionale, con i loro cannoni e le loro armi automatiche. Kleist lancia un reggimento attraverso il fiume. Il 30 agosto 1942, alle 3 del pomeriggio, con una temperatura di 50 gradi, i fantaccini del 394° Fanteria corazzata di Amburgo saltano nei battelli da sbarco e si spingono verso la riva nemica. Il Cerek: 250 metri di larghezza, una corrente impetuosa, gorghi. Ogni obice russo solleva una colonna d'acqua e i canotti da sbarco fanno lo slalom tra quegli effimeri pilastri. Le raffiche di mitragliatrice spazzano la cresta delle onde, rimbalzano sugli scafi, falciano gli uomini quando sorgono dall'onda spumosa. Ma gli amburghesi riescono a raggiungere la riva meridionale; affondano le unghie nella sabbia; si arrampicano verso l'argine; vi si dispongono ad istrice; resistono al primo contrattacco sovietico. La sera, la testa di ponte è sufficiente perché si possa prendere in considerazione l'ultimo colpo di reni che porterà a Baku. Gli uomini del 394° Fanteria hanno fatto molta strada da quando, 15 mesi prima, hanno attraversato il Bug polacco. Hanno dovuto combattere nella neve alta dell'inverno,

sguazzare nel fango primaverile. Non contano più i morti, i mutilati e quelli che la guerra ha reso pazzi. Ma domani verseranno nei serbatoi delle loro autoblinde il petrolio dei pozzi caucasici. *** Quella domenica 30 agosto, Hitler si trova al suo quartier generale di Vinnitza, in Ucraina. Alcune baracche di legno in cui la temperatura è ancora più soffocante che fuori. Il Führer non sopporta il caldo; non tarderà a tornare nell'umida tana di Rastenburg, in Prussia Orientale. Ma è probabile che l'attraversamento del Cerek e l'imminente assalto dell'Afrika Korps gli faranno dimenticare per quel giorno i rigori dell'estate ucraina. Occhi febbrili, bocca arida, è certo chino sulle sue carte dove si scrive a tratti di fuoco e di sangue, per suo solo volere, una delle più stupefacenti avventure militari di tutti i tempi; già immagina l'incontro tra le punte avanzate di Kleist e quelle di Rommel, laggiù, dalle parti di Baghdad, poi la loro marcia comune verso l'Oceano Indiano dove le attende l'esercito giapponese; ode le parole selvagge che cantano i carristi delle SS: «Le ossa verminose del mondo tremano sotto il nostro passo». Hitler crede che il suo sogno stia per trasformarsi in realtà. 10 giorni prima, l'incursione dei canadesi su Dieppe è riuscita soltanto a disseminare di cadaveri i ciottoli della spiaggia. Hitler è persuaso di avere respinto un vero e proprio tentativo di invasione. A Occidente è invulnerabile ancora per molto. A Oriente e in Africa sta per assestare il colpo decisivo. L'impero del mondo è a portata di mano.

*** A Berlino fa meno caldo che nel Caucaso, meno caldo che in Ucraina e in Egitto. È soltanto una splendida giornata estiva. Dimenticando una guerra di cui non sospettano che è giunta alla svolta decisiva, i berlinesi giocano alla pace nei boschi che circondano la capitale. Molte donne, molti bambini e vecchi, naturalmente, ma anche uomini con incarichi speciali, gli ufficiali che prestano servizio negli Stati Maggiori berlinesi, i convalescenti, i soldati in licenza che si chiedono se per caso non sognano... Sul Wannsee, paradiso degli appassionati della vela, le barche sono meno numerose che nell'anteguerra, per cui ci si diverte di più. Corpi stesi sulle plance tiepide, sciacquio di onde contro lo scafo, chitarre e armoniche che suonano in sordina, canti ripresi da un battello all'altro; il sole, l'acqua, la pace – la felicità. «Ma un osservatore attento avrebbe notato...», scriverebbe a questo punto Balzac. ...Che gli equipaggi passavano spesso e volentieri da un battello all'altro e per motivi che apparentemente non avevano niente a che vedere con la vena scherzosa; che conciliaboli animati si tenevano attorno agli scaldavivande sui quali le donne facevano cuocere le patate; che molte imbarcazioni andavano accostandosi, l'una dopo l'altra, al battello al cui timone si trovava un ragazzone biondo dall'aria imperiosa, come un tempo i velieri andavano a ricevere ordini dalla nave ammiraglia... Professionisti dello spionaggio, tecnici del sistema di isolamento, specialisti dell'ombra e del segreto, velatevi il volto con le vostre cappe da congiurati: questi divertimenti nautici forniscono l'occasione di una conferenza plenaria organizzata da Schul-

ze-Boysen, timoniere della nave ammiraglia. Ha riunito sul Wannsee 30 membri della sua rete. Ci si rifiuterebbe di crederlo se l'avvenimento non fosse documentato nel rapporto della Gestapo e se un superstite, Günther Weisenborn, non ne attestasse la veridicità. *** La sera del 30 agosto, gli amburghesi si seppelliscono nelle trincee che hanno scavato lungo la riva meridionale del Cerek. Resisteranno 5 giorni ai contrattacchi sovietici. Poi volteranno le spalle all'Oriente, ripasseranno il fiume e marceranno verso l'Occidente per fermarsi soltanto l'ultimo giorno di guerra. Il razzo rosso solca il cielo egiziano e i granatieri dell'Afrika Korps attaccano una volta di più i “Topi del Deserto” dell'esercito inglese. Il loro slancio sarà bloccato da Montgomery, il quale prepara da lunga data la punizione di El Alamein. Volteranno le spalle alle Piramidi e rifaranno il lungo cammino, il duro cammino che questa volta porta ai reticolati della prigionia. I buontemponi del Wannsee attraccano le loro barche ai pontoni e se ne tornano a Berlino. Con quella bella giornata finiscono per loro i piaceri di questo mondo. Le loro nuche abbronzate dal sole sono ormai promesse alla corda o alla lama della ghigliottina. ***

L'indomani, 31 agosto, verso le 9 del mattino, una telefonata interruppe Kludow nel suo lavoro. Stando a Flicke, della Funkabwher, alzò il ricevitore e udì queste parole: «Parla Schulze-Boysen. Voleva dirmi qualcosa?». Stupore di Kludow, al quale i capi dell'Abwehr avevano confidato, con l'obbligo del segreto, i veri nomi di coloro che aveva permesso di smascherare. «Pronto? Mi scusi... Non ho capito...». «Schulze-Boysen. La mia cameriera mi ha comunicato proprio ora il suo messaggio. Dovevo richiamarla non appena possibile. Di che si tratta?». «Pronto? Be'... Vede... Già...». «Pronto, la ascolto...». «Mi scusi... in realtà, posso domandarle se il suo nome si scrive con una “y” o con una “i”?». «Con una “y”, naturalmente. Suppongo di aver sbagliato numero. Lei non mi ha chiamato?». «Be', no... non credo...». «Un errore della mia cameriera, senza dubbio. Avrà annotato un numero sbagliato. Mi scusi». «Non c'è di che». *** Quando Kludow annunciò ai suoi superiori che aveva avuto una conversazione telefonica con Schulze-Boysen, questi credettero che l'accanita fatica avesse avuto ragione dei nervi del bravo professore: vedeva fantasmi... Gli accennarono alla possibilità di una licenzia premio, ma lui si intestardì a negare di essere stato

vittima di un'allucinazione. E finì con il vincere lo scetticismo dei suoi capi rivelando la domanda posta a Schulze-Boysen sull'ortografia del nome. Dato che Kludow conosceva la sua identità, il problema “i” o “y” era diventato una vera e propria ossessione. Nello stato di stupore in cui si era trovato, la domanda gli era uscita di bocca senza che neppure si rendesse conto di formularla. Era convincente e catastrofico. Schulze-Boysen, probabilmente messo in allarme dalla sorveglianza della Gestapo, aveva voluto fare un sondaggio telefonando alla Funkabwher. Ora, la domanda di Kludow gli confermava che era stato scoperto. Koppkow e Panzinger, avvertiti della cosa, gridarono al sabotaggio dell'inchiesta. Così veniva lacerata la tela di ragno in cui speravano di prendere tutta l'organizzazione; erano costretti a passare all'azione. Harro Schulze-Boysen fu preso nel pomeriggio. Koppkow inventò un trucchetto per farlo uscire dall'ufficio presso il Ministero dell'Aria; bisognava evitare lo scandalo. Venne arrestato per strada e venne fatta correre voce tra i suoi colleghi che era destinato ad una missione segreta all'estero. Sua moglie, Libertas, fu presa qualche giorno più tardi, di ritorno da un viaggio a Brema. La coppia Harnack fu arrestata il 3 settembre nella stazione balneare dove si trovava in vacanza. Una settimana dopo l'inizio della retata, le squadre di Panzinger e Koppkow avevano ammassato 118 persone nei sotterranei della Prinz-Albrechtstrasse, sede della Gestapo. Tra queste, Horst Heilmann, stimato collaboratore di Kludow e attivo membro dell'Orchestra Rossa. Perché quel Schulze-Boysen, abbastanza pazzo da tenere riunioni nautiche sul Wannsee, era anche

tipo da introdurre un agente in seno all'Abwehr – meglio ancora: nel cuore dell'Abwehr, nel suo sacrario, ovvero il servizio di deciframento... Stupefacente capo di rete che suscita l'iperbole sia nella lode, che nella critica! Ma vedremo che Schulze-Boysen era individuo fuori dal comune in tutti i sensi. Il giovane Horst Heilmann ha alle spalle un itinerario di vecchia volpe della politica. Ex-membro della Gioventù Comunista, membro del Partito comunista, passa ai nazisti e si fa notare per la fanatica devozione alla causa: da cui la sua scelta per prestare servizio prima alla centrale radio dell'Abwehr, poi nella sezione ultrasegreta del deciframento. Ma conosce Schulze-Boysen e avviene in lui un nuovo mutamento – l'ultimo, perché vi resterà fedele fino alla morte. Recluta per Schulze-Boysen un altro membro del servizio cifrari, Alfred Traxl; gli fornisce, per un anno, le informazioni più preziose. Ma nulla sulla squadra di Kludow e il suo lavoro, sull'interpretazione del telegramma fatale? Se ne discute. Alcuni ritengono che Heilmann abbia saputo il 29 agosto, in occasione del trasloco, di che il suo capo era stato scoperto. La telefonata avrebbe avuto lo scopo di dare l'allarme, e non semplicemente di avvertire che non si sarebbe recato all'appuntamento del Wannsee. E in questo caso, Heilmann si sarebbe limitato a lasciare un messaggio alla donna di servizio? Non avrebbe tentato il tutto per tutto pur di mettersi in contatto con Schulze-Boysen il sabato sera, poi la domenica sera uscendo dall'ufficio? Dopo la giornata trascorsa sul Wannsee, Schulze-Boysen andò da un amico berlinese, Hugo Buschmann, con il quale chiacchierò fino alle 4 del mattino. Secondo Buschmann, era «sgomento, digiuno e un po' nervoso». Atteggiamento normale se sentiva la rete della Gestapo stringersi lentamente attorno a lui. Ma chiese a Buschmann

di procurargli un contatto con un diplomatico croato di Zagabria: non si sarebbe dato la pena di farlo se si fosse sentito sul punto di essere arrestato. Dunque, Heilmann non lo aveva ancora avvertito. Questo perché ignorava la visita di Schulze-Boysen a Buschmann e lo stava aspettando inutilmente a casa sua? Il pericolo era così grande che lo avrebbe atteso fino al ritorno verso le 4 del mattino, che sarebbe perfino andato a cercarlo al Ministero la mattina dopo di buon'ora, nell'ipotesi che Schulze-Boysen non fosse tornato a casa dopo la nottata trascorsa da Buschmann! No, con tutta probabilità Heilmann era al corrente dei progressi di Kludow, ma non doveva sapere quale tappa decisiva avesse compiuto interpretando il messaggio del Direttore a Kent; il segreto non era uscito dai circoli superiori dell'Abwehr. 118 persone arrestate. Fin dai primi interrogatori, Panzinger e Koppkow sanno che tutto l'edificio posa su due pilastri: Arvid Harnack e Harro Schulze-Boysen. *** SCHEDA BIOGRAFICA DI ARVID HARNACK Nato nel 1901 da una famiglia votata da generazioni alla cosa pubblica e alle opere dello spirito. Suo padre, il professore Otto Harnack, è un'autorità in campo letterario. Un suo zio è noto in tutto il mondo come uno dei migliori specialisti di storia del cristianesimo. Parecchi parenti prossimi occupano posizioni di primo piano nell'amministrazione pubblica.

Dopo la disfatta del 1918, Arivd milita qualche tempo nelle file di un'organizzazione ultranazionalistica, poi si converte per sempre al comunismo. Nel 1927 ottiene una borsa di studio alla Fondazione Rockefeller e si reca negli Stati Uniti a studiare economia e storia dei partiti politici di sinistra. Vi scrive un libro, Il Movimento sindacale premarxista negli Stati Uniti. Studente presso l'Università del Wisconsin, si innamora di una giovane americana, Mildred Fish, insegnante di letteratura. La sposa e torna con lei in Germania. Nel 1931 fonda a Berlino il “Circolo di studi di economia pianificata”, nel quale si raggruppano alcune decine di personalità progressiste. L'attività del gruppo è esclusivamente di ordine scientifico. Ma l'anno successivo, nel 1932, 24 membri del Circolo, fra cui Harnack, compiono un viaggio di studi organizzato dall'ambasciata russa a Berlino. Nel corso di tale viaggio, Harnack viene ricevuto dai due capi del Komintern, Otto Kuusinen e Osip Piatnisky. La sua devozione, le sue grandi capacità sono state notate in alto loco: «Accetta di lavorare per Mosca?». Risposta affermativa. Nel 1933, dopo l'avvento al potere dei nazisti, Harnack entra al Ministero dell'Economia. In un primo tempo Regierungsrat, è in seguito promosso all'importante rango di Oberregierungsrat. Viene adibito al servizio dei rapporti economici con la Russia, il che legittima le sue numerose visite all'ambasciata russa a Berlino. Sua moglie Mildred prosegue nei lavori di carattere letterario. Traduce in tedesco i romanzi Drums along the Mohawk di Walter Edmond e Lust for Life di Stone. Le viene affidato un corso di letteratura americana all'Università di Berlino.

Nel 1937, gli Harnack compiono un viaggio negli Stati Uniti. I loro amici li sollecitano a non tornare nella Germania nazista e promettono di aiutarli a stabilirsi negli Stati Uniti. Harnack ritiene che una simile soluzione equivarrebbe a una diserzione, ma non può fornire i veri motivi, tanto che, dopo la sua partenza per la Germania, gli amici concludono che è passato al nazismo. Nel 1939 fa parte della delegazione tedesca che si reca a Mosca a negoziare gli accordi commerciali preliminari al patto russo-tedesco. Al suo ritorno a Berlino, viene trasferito al servizio dei rapporti economici con gli Stati Uniti. Quando scoppia la guerra, Arvid Harnack è uno dei funzionari più importanti del Ministero dell'Economia. Basta chiedergli, per ottenere immediatamente tutti i particolari possibili e immaginabili, su qualsiasi settore della vita economica tedesca, compresa la produzione bellica. *** SCHEDA BIOGRAFICA DI HARRO SCHULZE-BOYSEN Nato nel 1912 da una famiglia di aristocratici di tradizione monarchica. Pronipote dell'ammiraglio von Tirpitz, gloria nazionale tedesca. Suo padre, capitano di fregata, ha comandato una nave da guerra durante il primo conflitto mondiale; in occasione del secondo, è capo di Stato Maggiore del generale che comanda le truppe tedesche in Olanda. A 17 anni, Harro entra nel “Jungdeutscher Orden”, organizzazione nazionalista e conservatrice che incarna le tradizioni e i sentimenti della sua famiglia. Ma durante gli anni dell'universi-

tà se ne distacca e, rifiutando insieme il nazismo e il comunismo, cerca la “terza via” che porta ad una rivoluzione totale delle strutture di una società che giudica superata. Fonda la rivista L'Avversario, i cui collaboratori provengono da ogni estrazione politica. Nel 1933, in occasione dell'avvento al potere di Hitler, viene arrestato dalle SS per aver permesso a comunisti di scrivere nella sua rivista. Chiuso in un “carcere privato” delle SS, è maltrattato. Lo rilasciano in seguito all'intervento dei genitori, che mettono in moto la vastissima e influentissima rete delle loro conoscenze1. Si iscrive in seguito ad una scuola di pilotaggio, ma non riesce ad ottenere il brevetto. Si dedica allora allo studio delle lingue, imparando il danese, lo svedese, l'italiano, il francese e il russo. Nel 1936 sposa Libertas Haas-Haye. Rampolla di un'illustre famiglia tedesca, Libertas è nipote del principe Filippo von Eulenburg, intimo del Kaiser e malcapitato eroe di un caso di omosessualità che scosse la corte imperiale. Loro testimone di nozze è il maresciallo Goering. Poco dopo, grazie alle sue capacità linguistiche, e soprattutto grazie all'appoggio del capo della Luftwaffe, Harro Schulze-Boysen entra all'“Istituto di Ricerche Hermann Goering”. Servendosi delle possibilità offerte dalla sua nuova posizione, collabora fin da allora con i servizi di informazione sovietici. In particolare, trasmette loro informazioni sui piani offensivi franchisti in Spagna, e ci si renderà conto più tardi che le sue informazioni sono 1 Stando a certe informazioni, Schulze-Boysen sarebbe stato arrestato dalle SA. Ma il colore dell'uniforme non modifica il tipo di trattamento inflittogli.

efficacemente servite alla difesa repubblicana. D'altro canto, nel 1937, un amico interroga Schulze-Boysen in merito al lavoro che svolge all'“Istituto di Ricerche”, dove era incaricato di raccogliere informazioni sull'Unione Sovietica. Poiché il detto amico si stupisce della sua profonda conoscenza di cose russe, Schulze-Boysen scoppia in una risata e toglie dalla cassaforte personale (il colloquio si svolge a casa sua) un fascio di fotocopie. I fogli sono coperti di scrittura in caratteri cirillici. «Vedi», dice Schulze-Boysen, «siamo informati da Tucacevski in persona!». Apprendendo in seguito la notizia del processo del maresciallo Tucacevski, poi del lavoro compiuto dall'Orchestra Rossa per i russi, l'amico fu convinto che le informazioni trasmesse da Schulze-Boysen avevano contribuito alla caduta del maresciallo. È nel 1936 che Schulze-Boysen getta le basi della sua rete. Riunisce sei amici fidati, nocciolo di quella che diventerà la sezione berlinese dell'Orchestra Rossa. Nel 1940, pur conservando i contatti all'“Istituto di Ricerche”, viene destinato alla sezione degli addetti della Luftwaffe. Le sue funzioni lo portano a prendere conoscenza dei rapporti segreti inviati da tutte le ambasciate tedesche dagli addetti militari della Luftwaffe. Incaricato di tenere un corso all'Accademia degli Affari Esteri, riunisce attorno a sé un gruppo di studenti che trasforma in discepoli di una devozione assoluta. Sua moglie Libertas lavora al Ministero della Propaganda, nel servizio film culturali. Quando scoppia la guerra russo-tedesca, Harro Schulze-Boysen è in grado di trasmettere a Mosca informazioni militari del massimo interesse, in particolare per ciò che concerne la Luftwaffe, di cui si può dire che nessuno dei servizi ha segreti per lui.

Sua moglie e lui formano una coppia conosciuta dalle persone più in vista di Berlino, e la vita mondana che conducono li mette in contatto con le personalità più eminenti del regime.

XXI. EPITAFFIO PER DUE OMBRE

Se le storie a carattere spionistico accaparrano tutto il vostro interesse, potete saltare questo capitolo perché già conoscete i dati essenziali: gli elementi biografici e la natura delle informazioni trasmesse a Mosca. Ma se provate simpatia, o semplicemente curiosità, nei confronti dei due protagonisti di questo episodio; se siete stupiti del fatto che il nipote del teologo Harnack e il pronipote dell'ammiraglio von Tirpitz abbiano finito per collaborare con i servizi sovietici; se vi interrogate sui moventi che hanno indotto questi uomini a versare a fiumi il sangue dei loro compatrioti; se vi augurate di sapere alla fine chi erano in verità i due capi di una rete ridicola dal punto di vista dell'organizzazione, notevolissima da quello dell'efficienza, allora dovete seguirci al di là dell'arida enunciazione dei fatti e delle date. Un impiegato del Centro tra poco archivierà due schede: gli agenti “Arvid” e “Coro” sono liquidati; tali erano i loro pseudonimi. Ora non si tratta più di agenti, ma di uomini.

Quanto al fisico, nessuna difficoltà: parlano le fotografie. Harro è uno splendido esemplare della razza nordica: alto, biondo, occhi azzurri, volto cesellato; Fortner dice di lui con amarezza: «Eppure era il tipo perfetto dell'ufficiale tedesco». Cerca Libertas, sua moglie, un ordine scritto precisò, non appena fu arrestata, che gli interrogatori avrebbero dovuto essere sempre condotti da due commissari, perché era così bella e così commovente che si temevano, per i cuori dei poliziotti, i rischi di un colloquio a quattr'occhi... Gli Harnack sono più sbiaditi. Arvid ha il viso placido e l'espressione riflessiva di un uomo votato agli studi. Lo si intuisce riservato, avaro di parole e di gesti, difficilmente emotivo. Mildred e lui non dovevano recarsi spesso sul Wannsee. Per saperne di più, e poiché sono ormai muti per sempre, non esiste altra soluzione che ricostruire la loro personalità in base agli abbozzi tracciati da chi ha combattuto con loro o contro di loro, come fa la polizia quando vuole ricostruire il ritratto di un sospetto ignoto. Fu una strana ricerca. *** Gli ex-membri dell'Abwehr e della Gestapo tracciano violente caricature a carboncino. Ecco, secondo uno di loro, come venne arruolato nell'Orchestra Rossa il tenente Herbert Gollnow: Gollnow lavorava all'Abwehr-Aria; teneva i collegamenti con il Ministero dell'Aria, dove conobbe Schulze-Boysen. Era un ragazzo giovane, di modestissime origini, che si era fatto strada a forza di volontà. Orfano di padre, ado-

rava la madre, la quale nutriva a sua volta per lui una grande ammirazione. La caratteristica di Gollnow era l'ambizione. Voleva arrivare a tutti i costi. Ora, riteneva di perdere tempo a Berlino. Decorazioni e galloni si guadagnavano al fronte, non nei corridoi dei Ministeri. Chi meglio di SchulzeBoysen poteva fargli ottenere il trasferimento? Gollnow fu abbagliato all'idea che un simile personaggio, provvisto delle conoscenze più potenti, acconsentisse ad interessarsi alla sua sorte. Schulze-Boysen, naturalmente, non si sognò neppure per un istante di far trasferire Gollnow: gli era troppo utile a Berlino. Ma gli promise mari e monti, gil fece balenare un avvenire dorato e cominciò con l'invitarlo alle conferenze che teneva all'Accademia degli Affari Esteri. Fu la prima tappa. La seconda consistette nel convincere Gollnow che avrebbe dovuto imparare una lingua straniera. La conoscenza dell'inglese, per esempio, era indispensabile per fare carriera sul serio. Schulze-Boysen gli suggerì di pubblicare un'inserzione nei giornali berlinesi per cercare un insegnante e gli promise che lo avrebbe aiutato ad operare una scelta tra le proposte. Ne ricevette due. La prima proveniva da un vecchio professore che, naturalmente, pose certe condizioni finanziarie. Schulze-Boysen consigliò a Gollonow: «Vai a trovare l'altro, forse sarà più interessante». L'altro era una donna, Mildred Harnack. Gollnow andò a farle visita e fu accolto nel modo più caloroso. La donna gli disse: «Sono americana, sarà un piacere per me chiacchierare con lei in inglese, il pomeriggio, bevendo una tazza di tè». Gollnow, intimidito dall'appartamento e da quella donna dell'alta società, farfugliò una vaga domanda sulle condizioni finanziarie. Lei scartò con un gesto della

mano il problema e disse sorridendo: «Ma non ci pensi neppure! Non ho nessuna intenzione di chiederle denaro: sono troppo felice di avere l'occasione di parlare la mia lingua». Gollnow parlò della sua visita a Schulze-Boysen, il quale gli batté sulla spalla ed esclamò: «Formidabile! Una bella donna e le lezioni gratis! Herbert, sei nato con la camicia!». In realtà, Gollnow si trovava molto a disagio nel salotto degli Harnack, la tazza di tè in mano, impalato sulla sedia, di fronte a Mildred che gli raccomandava di osservarle attentamente la bocca per imparare l'esatta pronuncia delle parole. Passato direttamente da un ambiente modesto all'esercito, si invischiava in squisitezze che gli erano completamente ignote. Uno dei momenti peggiori fu quando Arvid Harnack, severo come sempre, fece irruzione nel bel mezzo di una lezione. Gollnow trovava già strano che Mildred lo intrattenesse a quattr'occhi per ore senza che suo marito battesse ciglio. Gli sembrava anche che la gentilezza della sua insegnante andasse oltre i limiti fissati dalla preoccupazione pedagogica. Vedendo entrare nel salotto Harnack, credette dapprima che sarebbe scoppiata una scenata, poi pensò che il modo di agire della gente dell'alta società obbediva ad un codice decisamente bizzarro. Perché Harnack fu gentilissimo, si informò dei suoi progressi in inglese e delle funzioni che svolgeva nelle file dell'esercito. Gollnow, scarlatto, mormorò che non aveva il diritto di rispondere su quest'ultimo argomento. Harnack abbozzò un sorriso protettivo e disse: «Sa, io sono Oberregierungsrat al Ministero dell'Economia e ho l'abitudine al segreto». Gollnow, rassicurato, annunciò che lavorava per l'Abwehr. Passo passo, la conversazione deviò sulla situazione mi-

litare e Harnack deplorò la stasi sul fronte orientale – si era nell'inverno 1941-1942. «Non si preoccupi», assicurò Gollnow, «tra poco si muoveranno...». «Lei mi stupisce molto: se fosse prevista un'offensiva, ne sarei al corrente!». «Signor Oberregierungsrat, in questo campo forse ne so più di lei». E Gollnow, beato di potersi mettere in valore, rivelò che addestrava un reggimento di prigionieri originari del Caucaso, i quali avevano voltato gabbana. I caucasiani dovevano essere paracadutati nel loro paese, dietro le linee sovietiche, in occasione dell'imminente offensiva. Naturalmente, in seguito, si è saputo che i russi avevano ricevuto tutti i piani concernenti tale offensiva. Ma di piani, vede, gli Stati Maggiori ne fabbricano a dozzine: sono lì per questo. E la maggior parte ammuffisce in un cassetto senza mai trovare applicazione. Quella storia dei caucasiani addestrati al sabotaggio era il particolare vivo, inconfutabile, che provava a Mosca come il piano di un'offensiva sul petrolio non fosse più soltanto un'ipotesi teorica, dal momento che si era già passati alla fase dei preparativi pratici. Non appena gli altri si resero conto che Gollnow era malleabile, tutto si svolse rapidamente. Vale a dire che Mildred andò a letto con lui. E anche Libertas, la moglie di Schulze-Boysen. Lesbiche tutte e due, del resto, per cui il nostro Gollnow assistette a sedute alquanto piccanti. Non ebbero alcuna difficoltà a fargli perdere completamente la testa, a fargli dimenticare i più elementari doveri e, perfino, la sua ambizione. Si renda conto: due donne di cui una almeno – Libertas – era affascinante, due donne colte, aristocratiche fino alla punta dei capelli – e tutte e due si offrivano a lui! E gli facevano scoprire piaceri che non si era mai immaginato! Gollnow ha rivelato tutto ciò che sapeva. E la sapeva lunga. A quel tem-

po, l'Abwehr mandava commandos di sabotaggio dietro le linee russe. Non ne è tornato neppure uno. Per colpa di Gollnow. E noi, fino all'arresto della banda SchulzeBoysen, nutrivamo la più viva ammirazione per il controspionaggio

sovietico.

Ci

dicevamo

che

era

impeccabile!.. Gollnow ha perfino passato ai russi informazioni relative alle nostre infiltrazioni di agenti in Inghilterra, ai tentativi di sabotaggio degli aerei a lunga autonomia che tenevano i collegamenti USA-Portogallo, eccetera. Parola d'onore, avrebbe consegnato loro la propria madre per avere il diritto di partecipare alle “serate 14 punti”! Le “serate 14 punti”? Erano dei surprise-parties, in un certo senso, organizzati dalla banda SchulzeBoysen. C'era solo il fior fiore di Berlino: alti funzionari, ufficiali superiori, aristocratici dissoluti. Le donne avevano il diritto di portare su di sé solo l'equivalente dei 14 punti assegnati ogni anno dal razionamento dei tessuti. E siccome 14 punti non davano diritto a granché, tanto vale dire che erano quasi nude. Tutto si concludeva, beninteso, con orge collettive. Noti bene che le donne non erano le sole a praticare tale metodo di reclutamento. I due ragazzi del servizio di deciframento, Heilmann e Traxl, non creda che SchulzeBoysen li abbia convinti convertendoli alle sue dottrine politiche più o meno fumose: se li è portati a letto, ecco! Heilmann era pazzo di lui. Lo avrebbe seguito all'inferno – e l'ha fatto, del resto. E non era il solo. Harro otteneva altrettanto successo presso gli uomini quanto Libertas presso le donne.

***

Margaret Boveri: Mildred aveva capelli biondi e fini, tirati indietro sulle tempie, occhi azzurri dallo sguardo deciso. Per me incarnava il tipo perfetto della “puritana americana”1.

Axel von Harnack, cugino di Arvid: Mildred aveva occhi chiari e lo sguardo luminoso; il volto incorniciato da capelli biondi, lisci e pettinati all'indietro. La sua calda personalità le attirava l'affetto unanime. Il meno che si possa dire è che aveva un'anima d'eccezione... I suoi modi diretti e franchi procedevano di pari passo con l'estrema semplicità del suo abbigliamento e del suo stile di vita in generale2.

Otto Meyer3, già alto funzionario del Terzo Reich: Schulze-Boysen omosessuale? È la prima volta che lo sento dire. Aveva una tale quantità distorie con le donne che non vedo come avrebbe potuto trovare il tempo di andare a letto con gli uomini. Quanto a Libertas, è vero che conduceva una vita molto libera. Era una ragazza ambigua, di gran classe, direi quasi “macabra”. Certi miei amici hanno assistito in casa loro a serate che si concludevano in orge. Ma si amavano, quei due, non prenda abbagli. Il loro era stato un matrimonio d'amore. Il successivo disordine della loro vita non so se vada imputato all'attività clandestina, con tutte le continue paure e la tensione nervosa che comportava, oppure se ab1 M. Bovery, Treason in the Twentieth Century, Putnam's Sons, 1963, p. 256. 2 A. von Harnack, “Arvid und Mildred Harnack”, in Die Gegenwart, 31 gennaio 1947. 3 Pseudonimo dato dall'autore.

biamo fatto freddamente ricorso alla dissolutezza per corrompere possibili fonti di informazione. Mildred non era né bella, né sexy, ma possedeva un'intelligenza accattivante, un innegabile fascino. Aveva le sue avventure, come tutte, ma rimanendo molto pura, rigidamente morale. Ogni volta era il grande amore, il legame di tutta la vita. Schulze-Boysen ne aveva fatto una cosa sua, ed erano quei due che costituivano il vero asse della rete.

Ernst von Salomon: Harro pederasta? Non ne so nulla. È possibile. E con ciò? È esatto che Lib e lui si accordavano reciprocamente una completa libertà sessuale, ma che c'è di straordinario in questo? Avevano conservato lo stile scapigliato che fu quello della Berlino tra le due guerre. Bisogna avere vissuto quel periodo per poter capire. In quel tempo non era neppure divertente andare a letto con la moglie del tuo migliore amico, tanto era facile. Quanto a Mildred Harnack, si diceva che avesse tentato di avvicinare Hitler con la speranza di sedurlo. Lui non si era neppure degnato di abbassare lo sguardo su di lei, da cui l'odio duraturo di Mildred. Ma che abbia condotto una vita da libertina, con seduzioni di giovani ufficiali e altre fantasie del genere, non ci credo neppure per un momento: era troppo brutta!

Stando ai superstiti della rete, una precauzione normale consisteva nel camuffare i contatti tra agenti di sesso opposto sotto le apparenze di rapporti amorosi. Si indignano ai ritratti ignominiosi della Gestapo. Respingono a priori tutto ciò che potrebbe offuscare l'aureola dei loro martiri.

*** Lasciamo tutto questo, cui ci aveva condotto, confessiamolo, una specie di turbamento di fronte all'inaudita violenza e alla bassezza delle accuse poliziesche. Vi è un fascino dell'immondo. Anche se un simile approccio porta in un vicolo cieco, forse non è stato inutile affrontarlo; strada facendo, abbiamo scoperto la radicale contrapposizione di due tesi avverse: quella di coloro che si accaniscono a mettere alla gogna e quella di chi si ingegna ad elevare monumenti. Spinta all'estremo nel caso specifico, che consentiva di gettare fango a piacimento, tale contrapposizione va ben oltre il semplice campo dei costumi. Otto Meyer ed Ernst von Salomon hanno evidentemente ragione: uomini e donne della rete berlinese non erano simili a quelle caricature e neppure a quelle immaginette da prima comunione. Né angeli, né bestie, insomma. Avremmo dovuto sospettarlo. *** Neppure l'ombra della passione attorno al caso Harnack, secondo Reinhold Schönbrunn, suo vecchio amico politico: Fanatico, rigoroso, sgobbone, notevolmente energico ed efficiente, Harnack non era esattamente un tipo simpatico. Non era certo un allegro buontempone. Sempre serio, non possedeva alcun senso dello humour... In quell'uomo c'era una traccia di puritanesimo, qualcosa di rigido e

dottrinario, ma era estremamente devoto alla causa. Sua moglie Mildred condivideva le caratteristiche di Arvid4.

Axel von Harnack, cugino di Arvid, traccia uno schizzo molto simile a quello di Schönbrunn: Arvid possedeva un'intelligenza vivace e uno spirito portato alla meditazione e al raccoglimento. Era esperto nell'arte del contraddittorio e sempre disposto a metterla in pratica. Gli era congenita una certa durezza; aveva anche la tendenza al sarcasmo, specialmente quando discuteva con un interlocutore che non era alla sua altezza. Era molto ambizioso, ma la fiducia in sé si basava su indiscutibili doti5.

Anche gli ex-membri della Gestapo ammettono l'intelligenza e la serietà di Harnack. A proposito di lui evitano di evocare fantasie tipo «serate 14 punti». Panzinger, che non era uno stupido, passò lunghe ore a discutere con lui di problemi politici ed economici. Fino ai giudici che resero omaggio alla sua scienza e alle sue austere virtù... In primo luogo, Harnack sa il fatto suo. Si fa valere quasi quanto annoia. E, soprattutto, fu sempre e soltanto un brillante secondo, come capita spesso a chi sa il fatto suo. Il secondo di un uomo meno intelligente di lui, meno equilibrato, meno colto, ma dotato di una vitalità quasi spaventosa, infaticabile nelle feste e nel lavoro, nato per sedurre ed entusiasmare, fatto per il comando: Harro Schulze-Boysen, l'anima della rete berlinese. 4 Dallin, op. cit., p. 236. 5 A. von Harnack, ibid., p. 237.

*** Era un perfetto avventuriero, spiritoso e intelligente, ma impulsivo e sfrenato, temerario, portato a sfruttare gli amici, ambizioso al massimo, un rivoluzionario innato e fanatico6.

Ritratto severo, ma contestabile: l'autore è Alexander Kraell, presidente del tribunale che giudicò Schulze-Boysen e i suoi amici. La sua nazionalità e le sue funzioni lo inducevano necessariamente alla severità. Nazionalità e funzioni di Allen Dulles, invece, avrebbero dovuto indurre l'americano all'elogio: inviato in Svizzera da Roosevelt durante l'ultimo conflitto mondiale, aveva il compito di incoraggiare i movimenti tedeschi di resistenza a Hitler: Agli inizi, Schulze-Boysen si oppose sia ai nazisti che ai comunisti, giudicando i primi troppo borghesi e i secondi troppo burocratici. Inventò tutto un guazzabuglio politico per affermare le proprie opinioni: sosteneva che non esisteva né una destra né una sinistra e che i partiti politici non seguivano una linea retta, ma tracciavano un cerchio che non era ancora saldato. I comunisti e i nazisti, naturalmente, erano situati alle due estremità del cerchio aperto. Schulze-Boysen decise che il suo partito avrebbe occupato lo spazio libero e saldato il cerchio. Era giovane, biondo, nordico – un prodotto del «movimento della gioventù tedesca». Sempre infilato in un maglione nero, si accompagnava ai rivoluzionari, i surrealisti, alla

6 Deposizione del 6 agosto 1948 in occasione dell'istruttoria del processo Roeder.

feccia e alle persone di reputazione dubbia della «generazione perduta»7.

Si resta sorpresi constatando tanta sprezzante freddezza nei confronti di un uomo che contribuì così attivamente alla sconfitta del nazismo, quindi alla vittoria alleata. Vero è che Dulles, futuro capo della CIA, è, per così dire, un anticomunista «innato e fanatico». In Schulze-Boysen ha visto soltanto l'agente sovietico, oggetto di esecrazione? E la Resistenza tedesca – quella ufficiale, omologata – che dice della rete berlinese? Niente. La ignora. Meglio: la rifiuta. Fabian von Schlabrendorff, che fu uno dei combattenti più valorosi, citava Schulze-Boysen nel suo libro Ufficiali contro Hitler; ma nella prima edizione. Ogni accenno scomparve nelle edizioni successive. Vero è che quella Resistenza era piuttosto di destra, mentre Schulze-Boysen era veramente di sinistra. I vecchi gentiluomini che cospiravano attorno al generale Beck tenevano le loro assisi al “Club dei Signori”; non reclutavano i loro militanti, come Schulze-Boysen, nelle periferie operaie; non si aspettavano, come lui, la salvezza dall'Oriente, bensì dall'Occidente. E tuttavia, il fosso non è così profondo: il conte von Stauffenberg, eroe dell'attentato contro Hitler, non era forse pronto a negoziare con Mosca – e a spingersi molto avanti su questa strada – se gli anglo-americani avessero fatto orecchio da mercante alle sue proposte? Non si è forse messo in contatto, qualche giorno prima dell'attentato, con alcuni capi comunisti clandestini che intendeva fare entrare nel complotto? 7 A. Dulles, Germany's Underground, MacMillan 1947, p. 100.

È vero che i degni gentlemen dell'opposizione di destra avevano la tendenza a situare la loro azione sul piano metafisico più alto. Operavano, ad esempio, «per la rinascita morale e religiosa del popolo tedesco, per la soppressione dell'odio e della menzogna e per la ricostruzione di una comunità dei popoli europei». Portati a tali sublimi sogni, non avrebbero mai acconsentito a mettere mano nelle sporche faccende dello spionaggio. Con un'eccezione, che però è di notevole portata, dato che si tratta dell'uomo di cui essi dicono che fu il più puro fra tutti, nonché il più efficiente: il colonnello Oster, braccio destro di Canaris all'Abwehr, il loro “cavaliere senza macchia e senza paura”, il quale ha, come SchulzeBoysen, passato al nemico i segreti militari tedeschi. Con tutta probabilità, le sue informazioni non furono prese sul serio dai governi occidentali interessati. Ma se lo fossero stati – e Oster ci contava –, il suo tradimento avrebbe fatto scorrere sangue tedesco a Occidente con la stessa abbondanza con cui quello di Schulze-Boysen lo fece scorrere a Oriente... Ancora una volta era forse giusto e salutare, dal punto di vista di Oster e dei suoi amici, fare ammazzare i figli di Germania dai fucili inglesi e francesi, ma non dai fucili russi. Ammettiamolo. Ma la contestazione della scelta fatta da Schulze-Boysen non dovrebbe impedire loro di ammettere la purezza delle sue intenzioni, l'importanza della parte da lui svolta e il coraggio di cui ha dato prova. In mancanza di ciò, Schulze-Boysen sprofonda nel dimenticatoio della Storia, mentre Oster, invece, è innalzato ai sommi fasti. Le memorie di Ulrich von Hassel, uno dei capi della Resistenza tedesca, sono intitolate Da un'altra Germania, vale a dire da una Germania non posseduta dal nazismo e che, anzi, lo com-

batte. Schulze-Boysen ne faceva certamente parte. Agli occhi di Alexander Kraell (un avversario), di Allen Dulles (un “alleato”), di Fabian von Schlabrendorff (un “compagno della Resistenza”), tutte e tre schierati con la Germania di Bonn, egli fa soprattutto parte di «un'altra Germania», quella di Pankow, la Germania Orientale, dove oggi si troverebbe se il boia lo avesse risparmiato. Ciò spiega la loro tacita condanna della lotta sostenuta da Harro Schulze-Boysen, ma non la riserva, se non addirittura il disprezzo, a malapena dissimulato, di cui danno prova nei suoi confronti. Trattandosi di tre uomini così diversi, una simile concordanza è per lo meno singolare. Più sorprendente ancora è il silenzio che si mantiene attorno alla tomba di Schulze-Boysen – a parte i latrati dei botoli ringhiosi e invecchiati della Gestapo e i borbottii corrucciati dei cani da guardia della leggenda. Il grosso pubblico poco si cura dell'alta politica e dei suoi meandri. Un traditore è un traditore, quale ne sia il padrone. E per quel pubblico Schulze-Boysen, con tutta probabilità, è soltanto una spia, traditore del suo paese. Si ma anche Richard Sorge, ed è una figura leggendaria. Si ammette Sorge, pur non entrando nel merito delle sue ragioni, e se ne ammira l'operato. Non figurerà mai negli elenchi della Resistenza tedesca, ma viene consacrato «la più grande spia di tutti i tempi». Il mondo si stupisce del suo famoso telegramma che permise, in parte almeno, la vittoria sovietica davanti a Mosca, ma nessuno si meraviglia del telegramma di Schulze-Boysen che ha facilitato Stalingrado. In Sorge viene riconosciuto e celebrato il tecnico; a Schulze-Boysen è negato perfino questo. ***

Così, tra gli ex-membri della Gestapo che impastano con le dita insanguinate oscene figurette di fango, e i pochi fedeli – parenti e amici – che montano nervosamente di sentinella attorno alla statua marmorea dell'eroe, ecco il pubblico che abbassa gli occhi per non vedere e si tappa le orecchie per non sentire. Talvolta, un Schlabrendorff esce dalle file e respinge con il piede il cadavere ingombrante di Harro Schulze-Boysen. Perché? *** Innanzitutto, non è serio. Non ha un'aria seria. Un borghese scapestrato. Maglione nero che mette in risalto il casco di capelli biondi. Le discussioni fino all'alba nei bar alla moda: poesia surrealista e – ciò che è più imbarazzante – politica surrealista. Né destra né sinistra, bensì cerchio. I comunisti? Burocrati. I nazisti? Troppo borghesi. Caspita! Ernst von Salomon: Proclamava che avrebbe fatto saltare in aria quel mondo vecchiotto e imbevuto di pregiudizi. Era partigiano di una rivoluzione nazionale ma, contrariamente ai nazisti, voleva farla con il fior fiore, non con la massa, che disprezzava. Hitler, ai suoi occhi, non era che un individuo molto volgare con il quale era di cattivo gusto bazzicare.

Dunque, si fa saltare in aria il mondo in famiglia, prima di tornare a dormire nello studio di Altenburgerstrasse. La sua famiglia pensa probabilmente che batte la cavallina, che non tarderà a ricordarsi di essere il discendente dell'ammiraglio von

Tirpitz e che tornerà all'ovile, alle sue tradizioni e ai suoi riti. E la famiglia avrebbe avuto forse ragione, se non ci fosse stato il piccolo borghese Hitler... Viene preso dalle SS, chiuso in un bunker e torchiato da certi mascalzoni che non sanno niente delle sottigliezze della “politica circolare”. Ed è qui che il destino di Schulze-Boysen prende una piega decisiva. Al fuoco del bunker, quella molle argilla diventa un blocco compatto e duro. Un blocco di odio. Non dimenticherà mai le sofferenze e le umiliazioni subite. Non perdonerà. A Salomon, che lo incontra per strada, il viso tumefatto, un orecchio acciaccato, dice: «Ho messo in fresco la vendetta. E così ora sono dalla parte di quelli che combattono quella gente nel modo migliore». Sei anni più tardi, ripeterà a Hugo Buschmann: «Nel 1933 sono stato messo in prigione dalle SS e a più riprese in seguito. Da allora, ho un unico scopo: la vendetta!»8. Anche Klaus Fuchs, che pure viene maltrattato dalle SS nello stesso periodo, lascerà la Germania, lavorerà per conto degli Alleati alle ricerche atomiche, passerà ai russi il segreto della bomba, sarà preso e giudicato. Ma nel caso di Fuchs la cosa è comunque più grave: suo padre è chiuso in un campo di concentramento; sua madre si suicida; poi una sua sorella si getta a sua volta sotto un treno della metropolitana. Ci si inchina davanti al dolore di Fuchs. Checché faccia ora, è in un certo qual modo giustificato. Ma Schulze-Boysen? Un fantasista cui i pugni delle SS hanno fornito il primo contatto con la realtà, un figlio di papà che si è cacciato in un pasticcio. Del resto, la sua famiglia è riuscita subito a cavarlo di impiccio: avvertito, Levetzow, capo della 8 H. Buschmann, “Dalla Resistenza al disfattismo”, in Les Temps Modernes, nn. 4647, p. 266.

polizia berlinese, invia una squadra al soccorso. Schulze-Boysen esce dal bunker con il viso gonfio e l'animo esacerbato, lasciandosi alle spalle i sogni di poeta e le fantasticherie da dilettante della politica. Si schiera con i comunisti – non per convinzione, ma perché sono «quelli che combattono quella gente nel modo migliore». L'ideologia non gli interessa; nel 1939, in pratica, ignora Marx e Lenin. Niente a che vedere con le solide convinzioni ideologiche di un Sorge, di un Harnack. In verità, un'unica passione: cancellare dalle proprie guance la scottatura degli schiaffi delle SS. È povera cosa. *** Ora, su questa misera base sorge una macchina di prodigiosa efficienza – come un motore che funzioni al massimo della potenza con un filo di carburante. Il contrasto tra la motivazione e gli effetti è radicalmente impressionante. L'odio può accecare. Può anche illuminare, depurare, purgare. In Schulze-Boysen strappa di colpo i paraocchi che gli offuscavano la visuale. Ormai, lo sguardo che poserà sul mondo sarà di lucidità assoluta, quasi scientifica. Impossibile non sorridere delle divagazioni politiche del Schulze-Boysen un tantino farraginoso di prima del 1933; difficile non riconoscere la pertinenza del pronostico che scrisse a suo padre l'11 ottobre 1938: Vi predico oggi che una guerra mondiale scoppierà al più tardi nel 1940-41, ma più probabilmente la prossima primavera. Sarà seguita da una guerra di classe in Europa.

Ma affermo con forza che l'Austria e la Cecoslovacchia sono state le due prime battaglie della nuova guerra.

Il giorno in cui scoppia la terza battaglia – quella di Polonia – e insieme la guerra mondiale, Harro Schulze-Boysen festeggia il compleanno. Hugo Buschmann: C'erano scrittori, attori, pittori, un produttore cinematografico, medici, avvocati, belle donne – e non era esattamente un compleanno che festeggiavano, era l'entrata in guerra. Quante illusioni in quella gente! Erano tutti convinti che stava per giungere la fine del Terzo Reich, quasi tutti addirittura la credevano imminente... Soltanto un ufficiale dell'Aviazione, la cui mascella tremava di odio quando entravano in ballo i nazisti, avanzava obiezioni: non voleva distruggere l'ottimismo, il piccolo borghese Hitler era promesso ad un'inevitabile catastrofe, ma non se ne sarebbe venuti a capo tanto facilmente. Era Harro Schulze-Boysen. Poi riprese a ballare e molto bene. Le donne lo guardavano ammirate. Alla fine, ne ebbe abbastanza di tutto quel frastuono. Mi attirò in un angolo e, rifacendosi ad una delle mie osservazioni, disse: «... la Polonia sarà sommersa, ma questo è solo un intermezzo. Poi eserciti e aviazioni di distruggeranno a vicenda a Occidente... Quella gente», e designava gli ospiti che chiacchieravano allegramente, «sopravvaluta la potenza militare dell'Occidente. Intanto, l'Inghilterra deve ancora prepararsi. Non hanno quasi aviazione né in Inghilterra, né in Francia. Ma possono ancora tirare il fiato fino a primavera, perché il complesso delle operazioni in Polonia durerà fino alla fine dell'anno. Quel pazzo di Hitler crede ancora che si mangerà l'Inghilterra in un

boccone, una volta inghiottita la Polonia. Si immagina che avrà la possibilità, secondo i progetti del Mein Kampf, di rivolgere alla fine la propria forza di aggressione contro l'Oriente. No, gli inglesi dovranno tenere duro. Non possono cavarsela con concessioni. Un giorno ci sarà equilibrio di forze. E allora l'ordine borghese sarà scosso in tutta Europa, perché le forze borghesi si saranno date battaglia fino al completo esaurimento»9.

*** Lucidità nell'analisi, ma soprattutto implacabilità nell'azione. Schulze-Boysen è contro «quella gente» con tutte le sue forze, con tutto il suo odio. Anche se, dopo lo scoppio della guerra, «quella gente» sono anche, per forza di cose, i suoi compatrioti, i suoi fratelli – il popolo tedesco, e non solo i nazisti. In lui, nessuno degli equivoci in cui si dibattono tanti tedeschi antihitleriani. Costoro si commuovono al vedere scorrere il sangue dei loro per un'impresa insensata, ma in pari tempo provano una segreta fierezza davanti alle gesta compiute da tale sangue. Vogliono il crollo di Hitler, ma non la disfatta della Germania. E questi tormenti non sono propri solo degli oppositori di destra, dei nazionalisti reazionari del “Club dei Signori”. Hugo Buschmann, che è di sinistra: Più volte ho domandato a certi miei amici personali, quando parlavano così a vanvera, loro che avevano svolto un'attività politica prima del 1933: «Vuoi che perdia-

9 H. Buschmann, op. cit., p. 264.

mo la guerra, sì o no?». Quasi sempre, dopo un attimo di timida esitazione, la risposta era «no»10.

Alcuni, in Germania, sono riusciti a superare tali contraddizioni; hanno compreso che la fine del nazismo passava per la sconfitta del loro paese. Ma non hanno fatto nulla per favorire tale sconfitta. È mancata loro la forza d'animo per impugnare il coltello e colpire i loro alle spalle. Schulze-Boysen, invece, si è servito del pugnale fino al giorno in cui la Gestapo è andata a strapparglielo di mano. E senza dilemma apparente, senza intime lacerazioni. Ma il suo cuore è insorto contro i crudeli diktat della mente. Ah! Se l'autore di queste pagine fosse stato tedesco, non avrebbe avuto il coraggio di fare ciò che fece Schulze-Boysen; avrebbe versato copiose lacrime sulla tragedia, su tutte le tragedie, e Harro avrebbe potuto dirgli ciò che un giorno rinfacciò ad un amico lagnoso: «Lei ha la ghiandola lacrimale facile del piccolo borghese». E avrebbe avuto ragione. Ma il suo odio doveva essere ben ardente perché non gli sia mai salita agli occhi una lacrima! E tuttavia non si limitava a spingere l'Armata Rossa all'appuntamento di Stalingrado, a trasmettere informazioni strategiche scarne quanto il piano di uno Stato Maggiore: si pensi ai paracadutisti che l'Abwehr spediva dietro le linee sovietiche e di cui Schulze-Boysen conosceva i nomi, magari le facce, e che si imbarcavano sull'aereo pallidi e solenni, agnelli bardati di acciaio, promessi al macello che era stato loro preparato... Sì, era necessario che fossero uccisi, loro e gli altri, perché Hitler perdesse la sua guerra; tale era il prezzo della salvezza dell'Europa. Ma qui si tratta di Schulze-Boysen e non dell'Europa: tra gli schiaffi 10 H. Buschmann, op. cit., p. 273.

del bunker e quei giovani corpi colti in pieno cielo dal fuoco delle mitragliatrici, esiste una misura comune? Forse attribuiamo una parte eccessiva alla vendetta nelle sue motivazioni – forse egli stesso la esagerava quando urlava il suo odio in faccia a Salomon e Buschmann. Era certamente uomo da tempeste: esse solo potevano consentirgli di sfruttare a pieno la propria vitalità. Era stato, nella Berlino degli anni precedenti il 1933, come un vascello immobilizzato su un mare in bonaccia; ci volle il colpo di mano nazista per tendere finalmente le sue vele, l'incidente del bunker per fornire l'alibi di uno scopo a quella forza potenziale che chiedeva soltanto di scatenarsi. Ma se il vento avesse soffiato in un'altra direzione, Schulze-Boysen avrebbe salpato verso un altro porto – uno qualunque, purché si potesse raggiungerlo a gonfie vele? Se l'alibi avesse indossato una camicia rossa anziché l'uniforme nera delle SS, se ne sarebbe accontentato allo stesso modo, meno attento al colore che al segnale di partenza che comunque gli dava, rosso nero che fosse? Una singolare incoerenza, e che misera leggerezza... Arvid Harnack e Harro Schulze-Boysen: uno che sa il fatto suo, che non si pone più domande perché conosce tutte le risposte; l'altro furibondo, che brucia dalla voglia di agire, forse di vendicarsi, di bollare il mondo con la sua cicatrice. E per un anno hanno percorso insieme, fianco a fianco, la strada disseminata di morti e feriti, ma impavidi, ma sordi ai lamenti, ciechi al sangue e alle lacrime; l'uno attento a marciare nel senso della Storia; l'altro tutto preso dalla sua piccola storia personale. Se sono ancora soli, 25 anni dopo; se sono destinati a non entrare mai nell'immaginario pantheon in cui i popoli finiscono con il porre gli eroi, anche quando sono stati soltanto spie; se la me-

moria degli uomini non trattiene i loro nomi; se oggi nessun cuore di adolescente batte più forte al racconto delle loro gesta, ciò accade forse perché mancava loro, a tutti e due, un po' di umanità. *** Questo, al contrario dei membri della Resistenza tedesca – quella ufficiale, omologata. Che invece ne traboccano. Che si dibattono nel dubbio, negli scrupoli, nelle crisi di coscienza. Goerdeler, Beck, Hassel – tutti gli altri: come le preferiamo, queste belle anime perdute, agli automi Harnack e Schulze-Boysen! Con loro, ci si sente a proprio agio! Guardate, del resto, come si accumulano i panegirici: quanti libri sono stati scritti sul loro gruppo? Venti? Trenta? Raramente nella Storia tante pagine saranno state consacrate a uomini che influirono così poco sugli eventi. È facile, infatti, tracciare il bilancio obiettivo della loro azione: zero. Come in Schulze-Boysen, anche in loro esiste un impressionante contrasto tra le motivazioni e gli effetti; ma in loro la situazione è capovolta: ammirevoli motivazioni, risultati derisori. Dopo anni di complotti, congiure, cospirazioni – vane chiacchiere –, si decidono finalmente ad ammazzare Hitler. E falliscono il bersaglio. Risultato: una crisi di sordità passeggera per il Führer che ha i timpani rotti. Tutto qui. Stauffenberg fu eroico, Goerdeler diede prova di un'infaticabile attività, Beck e Hassel erano dei perfetti gentlemen, ma non hanno anticipato di un giorno la fine della guerra, non hanno abbreviato di un'ora le sofferenze imposte dal nazismo a centinaia di milioni di uomini, compresi i loro compatrioti. La Storia, la quale si cura più dei

fatti che delle intenzioni, la Storia dirà senza dubbio che la Resistenza tedesca fu ad immagine e somiglianza del suo capo, quel generale Beck che, la sera dell'attentato del 20 luglio, non riuscì per ben due volte a suicidarsi; fu necessario che il generale Fromm ordinasse ad un ufficiale: «Aiuti quel vecchio signore». Non era riuscito ad uccidere Hitler e non ce la faceva neppure ad uccidere se stesso. Mentre i membri della Resistenza tedesca erano in preda ai loro scrupoli onorevoli ma sterili, le SS continuavano, nello strano modo che si sa, a classificare l'umanità e a sterminare a colpi d'arma da fuoco con il gaso gli strati reputati inferiori. Neppure loro avevano la ghiandola lacrimale facile. Contro uomini simili ci volevano probabilmente avversari ad immagine e somiglianza di Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack: sommari e freddi come una lama d'acciaio, ma altrettanto efficaci. *** Sarebbe ingiusto concludere senza notare che esiste un paese in cui Schulze-Boysen e i suoi amici sono riconosciuti e celebrati: la Germania Orientale. Ma nei libri che vi si pubblicano, nei lavori teatrali che vi si recitano e si consacrano loro, non si parla mai delle emittenti clandestine e delle centinaia di messaggi spediti a Mosca. Si parla solo dell'azione politica clandestina della rete: la quale pubblicava opuscoli, manifestini, un foglio quindicinale. I superstiti del gruppo berlinese, con l'unica eccezione di Günther Weisenborn, osservano rigorosamente la consegna del silenzio che è stata loro imposta sulle attività spionistiche svolte. Schulze-Boysen è così ridotto alle dimensioni di un eroico colle-

zionista di farfalle; il suo gruppo altro non è che una cellula di agitazione politica di dubbia efficacia. È come se la rete berlinese, già impiccata alle forche nazista, fosse strangolata una seconda volta dai bonzi comunisti di Pankow. *** Alla fine dell'estate 1942, il controspionaggio tedesco ha dunque ripulito Berlino dopo Bruxelles ed Amsterdam. Ma quei successi, lungi dal placare i capi nazisti, ne scatenano il furore svelando loro l'importanza e l'efficienza della rete sovietica: un'organizzazione tale per cui le informazioni raccolte a Praga, a Berlino, a Madrid – ovunque! – venivano trasmesse a Mosca da emittenti installate a Bruxelles e ad Amsterdam, il tutto diretto da un capo supremo nascosto a Parigi. E ciò in un periodo in cui le frontiere sono ritenute insuperabili, in cui l'Europa è piegata sotto un giogo poliziesco assolutamente senza precedenti! La Gestapo e l'Abwehr ricevono l'ingiunzione di catturare ad ogni costo, e nel più breve lasso di tempo, l'uomo che ha creato, messo a punto e animato tale organizzazione. Hitler esige da Himmler un rapporto quotidiano in merito. Il “Kommando Orchestra Rossa” lascia i quartieri di Bruxelles e Berlino e si ammassa a Parigi per dare la caccia al Gran Capo. Alla testa del Kommando, Karl Giering, il poliziotto maestro. Si porta appresso una squadra scelta, forte di una ventina di uomini e a Parigi disporrà del concorso illimitato dei servizi locali dell'Abwehr, della Gestapo e dei loro ausiliari francesi. Ecco qui di seguito, senza commenti, le risposte che Franz Fortner, rappre-

sentante dell'Abwehr presso il Kommando, diede alle domande postegli dall'autore in merito ai suoi colleghi: «Willy Berg?». «Il braccio destro di Giering. Sulla cinquantina. Piccolissimo, quasi un nano. Era un duro, senza scrupoli. Un vero macellaio». «Richard Voss?». «Fisicamente il contrario di Berg: molto alto, spalle quadrate, capelli biondi. Un macellaio». «Otto Schwab?». «Sì, un ometto... Aveva un carattere duttile, conciliante. Preferiva l'astuzia alla forza». «Ella Kempka?». «Ah! La segretaria... una bionda piuttosto carina... Assisteva senza battere ciglio a tutti gli interrogatori: veniva da Berlino, dove lavorava alla sede della Gestapo; là, ne aveva viste ben altre...». «Eric Jung?». «Alto e magro, aria da sportivo. Si è sempre mostrato molto amichevole nei miei confronti. Con i prigionieri era un altro paio di maniche... un macellaio!». «Rolf Richter?». «Duro! Terribilmente duro! Anche con le donne, era spietato...». Eccetera, eccetera...

IL GRAN CAPO

XXII. LA SIMEX ASSEDIATA

A Parigi il Kommando si insedia in Rue des Saussaies, nello stabile della Sûreté; gli viene ceduta una serie di uffici al quarto piano. Già il primo giorno Abraham Raichman, il falsario di Bruxelles, viene sguinzagliato per le strade con il compito di rintracciare le fila che portano a Trepper. Alfiere delle speranze della Gestapo, investito della sua completa fiducia, Raichman si stabilisce in città con la sua compagna Malvina. È libero di andare e venire a piacimento. Unico obbligo: presentarsi a rapporto ogni mattina da Fortner. Il che avviene al caffè Viel, in Boulevard des Italiens; i due uomini vi consumano regolarmente la colazione. Raichman fa il giro di alcune “cassette delle lettere” di sua conoscenza. Ogni volta, lascia un messaggio in cui chiede di poter avere un colloquio urgente con il Gran Capo, e addirittura fissa un appuntamento. Il giorno stabilito, nel luogo previsto, Giering dispone, con parecchie ore di anticipo, la rete poliziesca in cui spera di prendere il suo grosso pesce. Ma Trepper non si fa vedere. Il Kommando segue anche un'altra pista: Simone Pether, impiegata dell'ufficio parigino della Camera di Commercio belga con sede in Rue Saint-Lazare. Grazie a lei, e grazie alla sua cor-

rispondente del servizio dattilografico della Borsa di Bruxelles, le reti belghe e francesi disponevano per la posta di una “copertura” ufficiale insospettabile – fino al momento in cui l'inchiesta relativa a Romeo Springer ha permesso di scoprire la sua recluta della Borsa, poi la corrispondente parigina di quest'ultima. Il Kommando finora si è limitato a sorvegliare la corrispondenza scambiata, ma ora è giunto il momento di passare all'azione. Una lettera impostata a Bruxelles chiede a Simone Pether di organizzare un appuntamento tra il suo capo ed un agente giunto dal Belgio – sarà Raichman. Simone non sospetta che la lettera è un falso. Indica alla sua corrispondente la data e l'ora dell'appuntamento, che avrà luogo in un ristorante parigino. Ma si insedia in anticipo nel suddetto ristorante parigino, constata che è sotto sorveglianza e, qualche attimo prima che il suo capo entri nella sala, simula una violenta crisi di nervi. Gli avventori fanno cerchio attorno a lei. Arriva il capo, vede l'assembramento, fiuta il pericolo e si eclissa: era Léon Grossvogel. Ciò equivale a dire che i “trenta denari” del tradimento regolarmente versati a Raichman sono buttati al vento? No di certo. Raichman ha una scarsa conoscenza della rete parigina: da cui la sua incapacità di infiltrarla. Farà invece prodigi a Lione, dove si sono raccolti i superstiti della rete di Bruxelles: Germaine Schneider, Romeo Springer e anche Schumacher, quello che aveva offerto il caffè a Fortner in occasione dell'arresto di Wenzel. Raichman li conosce tutti e potrà facilmente riannodare i contatti. Il fatto che Lione si trovi nella zona libera non costituisce più un ostacolo per il Kommando, perché un mese prima, nel settembre del 1942, una serie di negoziati con Vichy ha avuto per effetto di aprire la zona libera al controspionaggio tedesco. L'ammiraglio

Canaris in persona è venuto a Parigi a sistemare la faccenda con gli emissari di Vichy. Grazie alla compiacenza di questi ultimi, 280 agenti dell'Abwehr e della Gestapo il 28 settembre varcano la linea di demarcazione, in possesso di documenti falsi forniti dalla polizia francese. Per lo più si stabiliscono a Lione in alloggi affittati anticipatamente. Hanno per compito principale di scoprire e scovare una ventina di emittenti clandestine nascoste nella regione di Lione e che trasmettono in Inghilterra. Ma ne approfitteranno per spazzare via i resti di Bruxelles con l'aiuto di Raichman, che viene spedito a Lione. Quanto alle squadre inviate a Marsiglia, si metteranno alla caccia di Kent e di Margarete Barcza che, secondo Malvina, si nascondono in quella città. Pesciolini di poco conto, rispetto al Gran Capo! Ora, che si sa di lui, dopo 15 mesi di indagini? Si possiede la sua fotografia, trovata in Rue des Atrébates. Si conosce il suo pseudonimo, “Gilbert”, rivelato da Myra Sokol. Si sa, da Wenzel e da Yefremov, che abita a Parigi. Nient'altro. Tre centrali radio distrutte (Bruxelles, Amsterdam, Berlino), decine di agenti arrestati, ma, grazie al drastico sistema di separazione, neppure un filo che porti al cervello della rete! A meno che, per mezzo della Simex... Giering conosce la Simex parigina grazie alla sorveglianza esercitata sulla Simexco di Bruxelles: le due ditte si scambiano una fitta corrispondenza commerciale. Perché i suoi sospetti si trasformassero in certezza, basterebbe a Giering una visitina alla Camera di Commercio della Senna, dove la ditta è stata registrata il 16 ottobre 1941 sotto il numero “285031 S”. Tra gli azionisti: Léon Grossvogel, di cui Giering sa da Yefremov che è uno dei luogotenenti del Gran Capo.

Ma non è il caso di compulsare il registro della Camera di Commercio della Senna, né di chiedere informazioni alla polizia tributaria francese: il nemico è ovunque, perfino i muri hanno orecchi! Giering e Fortner decidono di andare ad informarsi sulla Simex alla sede dell'Organizzazione Todt. «Prudenza!», dovrebbe dire a questo punto Giering, mentre Fortner, rincarando la dose: «Dirò di più: prudenza!». I nostri due compari in visita alla Todt sembrano infatti una versione Gestapo di Dupond e Dupont, i famosi poliziotti alla ricerca di un magistrale Tintin. *** Fortner: Abbiamo deciso di non trascurare alcuna precauzione, di evitare ogni passo falso che avrebbe potuto farci scoprire. Il fatto era che, questa volta, si trattava del Gran Capo! In borghese, naturalmente, ci presentiamo dunque alla sede della Todt, sugli Champs-Élysées, e chiediamo di essere ricevuti dal Hauptsturmführer Nikholai, ufficiale di collegamento tra la Gestapo e l'Organizzazione Todt. Per non dare l'allarme ci presentiamo come rappresentanti di una ditta tedesca venuti a trattare affari a Parigi e desiderosi di ottenere certe informazioni. Ah! Bisognava diffidare! L'usciere che aveva preso in consegna i nostri biglietti, per esempio, chi ci garantiva che non fosse un agente del Gran Capo? E nella sala d'attesa, nei corridoi, perfino negli uffici: dappertutto francesi! E poi, semplice: Giering ed io diffidavamo di tutti. Be', ci fanno aspettare. Passano le ore. Giering si spazientisce. E tutto perché, alla fine, l'usciere ci informi

che Nikholai era troppo occupato per riceverci, che dovevamo tornare un'altra volta! Eravamo piuttosto di malumore... L'indomani mattina torniamo alla Todt, ma avevamo preso le nostre precauzioni: Giering aveva in tasca un certificato del generale von Stülpnagel, comandante del Gross-Paris, attestante chi eravamo e in cui si esigeva da parte di tutti la più completa collaborazione. Ci presentiamo dunque all'usciere – sempre nei panni di rappresentanti di commercio – e lui ci dice di aspettare. Ma Giering ed io non ci lasciamo infinocchiare, ci arrabbiamo e pretendiamo che avverta immediatamente Nikholai del nostro arrivo! Lui si allontana, lo seguiamo e, quando apre la porta dell'ufficio lo scostiamo per entrare. Nikholai, dall'altra parte, tenta di spingere la porta ma io la blocco con il piede: impossibile chiuderla! Nikholai, rosso scarlatto, con l'uniforme delle SS, ci urla insulti fino al momento in cui Giering gli tende il certificato. Allora bisognava vedere che faccia ha fatto! Si è calmato di colpo. Rispettoso. Perfino spaventato. Giering lo fa mettere sull'attenti e lo costringe a giurare che manterrà il segreto su tutto ciò di cui parleremo. Ah! La faccia di Nikholai... A questo punto, tiro fuori la fotografia di Trepper e gli domando: «Lo conosce?». «Lo credo bene! Un tipo formidabile!». Giering ed io ci scambiamo un'occhiata. «Che cosa vuol dire con questo?». «Be'», ci dice Nikholai, «è un uomo d'affari con il quale trattiamo da un anno grosse forniture soprattutto per il Vallo Atlantico. Molto ben disposto nei nostri confronti,

con molto spirito di collaborazione... Ho molta simpatia per lui». «Vorremmo conoscerlo, è possibile?». «Facilissimo. Il suo Ausweis per la zona libera scadrà tra qualche giorno e lui non tarderà a chiamarmi per ottenere il rinnovo». Be', gli facciamo ancora qualche domanda, lui parla nel modo più lusinghiero della Simex – «Una ditta seria, quella, che collabora sinceramente con le autorità di occupazione!...» – e lo lasciamo dopo avergli ricordato il giuramento di mantenere il segreto. Restiamo intesi che ci avvertirà non appena fisserà l'appuntamento al Gran Capo. Ma sapete che cosa ha fatto quell'idiota di Nikholai? E senza neppure avvertirci, né chiederci consiglio! Anziché aspettare che Trepper venisse a trovarlo, gli ha scritto che il suo Ausweis stava per scadere e l'ha invitato a passare alla Todt per farlo rinnovare! Ah! Un po' grossolano, come trucco!... Bisogna però dire che Nikholai non sapeva che si trattava del Gran Capo. Doveva credere che ci occupassimo di una faccenda banale. Non ci restava che inventare qualcosa d'altro. Ma che cosa? Come ottenere il contatto senza dare l'allarme? Dopo aver riflettuto a lungo, abbiamo finito con il trovare la soluzione. Continuare il giochetto iniziato con Nikholai. Presentarci alla Simex come uomini d'affari e proporre loro un'operazione commerciale. Abbiamo messo a punto accuratamente il nostro piano. Ci saremmo presentati come due tizi venuti da Magonza a Parigi per comprare diamanti industriali. A quel tempo, non c'è bisogno che vi dica che si trattava di una merce rarissima e molto ricercata. Un milione e mezzo di marchi in diamanti: c'era di che adescare chiunque.

Chiediamo dunque a Nikholai come fare per proporre l'affare alla Simex. Lui ci dice: «Niente di più facile. Qui alla Todt lavora una certa signora Likhonin. È in ottimi rapporti con quelli della Simex. È a lei che dovete rivolgervi». Per prudenza, abbiamo preferito svolgere una piccola inchiesta prima di andare a trovarla. Risultati positivi: era una donna a posto, a postissimo. Vedova dell'ultimo addetto militare zarista a Parigi. Una russa “bianca”. Alla Todt, tutti cantavano le sue lodi. Del resto, alla Todt lavorava anche suo figlio. Persone come si deve. Ci mettiamo in contatto con la signora Likhonin e le proponiamo l'affare dei diamanti. Lei si entusiasma, come era nei piani, e ci promette di parlarne alla Simex. Recitando la parte di commercianti intimiditi, Giering ed io diciamo che si tratta di un grossissimo affare nel quale investiamo tutte le nostre disponibilità, che lei deve capire che vogliamo garanzie, insomma che il contratto dovrebbe essere firmato dal direttore della Simex in persona. Lei è d'accordo e ci promette di sbrigarsela.

*** Nell'autunno del 1942, la sede della Simex non è più sugli Champs-Élysées. Lo stabile del Lido, rifugio di scrocconi e parassiti che vivono alla giornata, non andava a genio ad Alfred Corbin. Trovava che «non era serio». Nel mese di febbraio del 1942, Emmanuel Mignon, l'uomo tuttofare della ditta, fu incaricato di trovare una nuova sede. Fu facile: a quel tempo, i cartelli “Affittasi” costellavano Parigi. Il 20 febbraio, la Simex lasciava i due locali angusti degli Champs-Élysées e traslocava in un sontuoso appartamento borghese al terzo piano del numero 89 di Boule-

vard Haussmann, di fronte alla chiesa di Saint-Augustin. Il secondo piano, requisito, era occupato da un servizio tedesco. Alfred Corbin conosceva da parecchi mesi la verità circa la società di cui era il direttore ufficiale, ma fu in occasione del trasloco che Katz, il braccio destro di Trepper, rivelò a Mignon la vera sostanza della Simex. Gli propone di entrare nella rete, ma avendogli detto Mignon che già faceva parte della rete “Famiglia Martin”, fu deciso di lasciare la situazione come si trovava: una delle regole fondamentali dell'azione clandestina vieta formalmente l'appartenenza a due diverse organizzazioni. Del resto, la collaborazione di Emmanuel Mignon alla Simex non avrebbe tardato ad avere una conclusione imprevista: in settembre, Mignon spariva per motivi estranei alla nostra storia. La signora Mignon – bionda, occhi azzurri, un bel viso dai tratti volitivi; piena di foga e di vita; la parola energica che traduce i sentimenti in tutta la loro tensione: una “pasionaria” bionda – racconta: Ero priva di sue notizie. Ero senza notizie e soprattutto senza soldi. In capo ad una settimana, mi sono decisa ad andare a trovare il signor Corbin e a chiedergli se non potevo prendere il posto di mio marito. Mi ha risposto che doveva riferire in merito al Consiglio di amministrazione, ma mi ha prestato 1000 franchi per cavarmi dai pasticci. D'altra parte, non mi ha mai chiesto di restituirglieli! Era un uomo molto gentile, di una bontà davvero straordinaria. 48 ore più tardi, ho ricevuto un biglietto che mi annunciava che la mia domanda era stata accolta.

Sono dunque entrata alla Simex e ci sono restata, perché il capo della rete “Famiglia Martin”, il capitano Darcy, insisteva perché continuassi il lavoro di sorveglianza. Della conversazione di mio marito con Katz non ero al corrente, beninteso, e Darcy neppure, apparentemente. A me la cosa non piaceva affatto. Sognavo avventure straordinarie: scagliare granate sui tedeschi, organizzare attentati, ecco che cosa mi sarebbe piaciuto. Ma Darcy sosteneva che ero molto più utile alla Simex che nelle file dei maquis. E pensare che consegnavo tutti i miei rapporti a quel Charbonnier, quel tipo della Gestapo! Insomma1... La vita alla Simex era molto piacevole, molto familiare. Arrivavo, per prima, verso le 9. Un po' più tardi, verso le 9.30, arrivava Keller. Mi era molto simpatico. Era cortese, premuroso, e molto istruito, anche. La signorina Cointe non arrivava mai prima delle 10. Era una donna arida, bisbetica, zitella fino alla punta dei capelli, un caratteraccio. Ma aveva una bella cosa, la Cointe: la voce. Meravigliosa. Cantava tutto il giorno. La sua aria preferita era quella de La Sposa Venduta di Smetana. Il signor Corbin era l'ultimo ad arrivare in ufficio, verso le 10.30. Spesso ci portava un po' di roba da mangiare, perché possedeva una fattoria dove allevava polli. E anche sigarette. Grazie a lui non restavamo mai senza. Ho visto la signora Likhonin solo un paio di volte: quando sono entrata alla Simex non era già più in odore di santità. La prova è che Keller mi ha ordinato di non consegnarle la posta che si faceva arrivare in Boulevard Haussmann. Doveva darla o alla signorina Cointe o allo stesso Keller. Resta pur sempre il fatto che la signora Li1 I signori Mignon sono stati entrambi decorati con la croce di guerra per il complesso delle loro attività in seno alla “Famiglia Martin”, attività di cui la “sorveglianza” della Simex costituiva naturalmente soltanto un'infima parte...

khonin era una donna la quale faceva davvero impressione: di gran classe, ancora bellissima nonostante l'età, di un'eleganza squisita. Mio marito mi aveva detto che era l'amante di Kessmeyer, un pezzo grosso dell'Organizzazione Todt.

*** Keller, mentre il suo cane ringhia dietro l'uscio: La signora Likhonin era bella, ma come poteva esserlo una donna della sua età. Secondo me aveva un'aria da avventuriera. Nella ditta aveva una parte molto importante, dato che era stata lei a procurarci la clientela della Todt. Era un suo feudo riservato, nessun altro aveva diritto di occuparsi delle trattative con la Todt. Ecco come andavano le cose – semplicissimo: arrivavano intermediari che ci proponevano l'acquisto del materiale, merci di ogni tipo. Il signor Corbin preparava gli incartamenti. Io li traducevo in tedesco. La signorina Cointe li batteva a macchina. La signora Likhonin, infine, li presentava alla Todt e io, dal canto mio, sbrigavo la pratica presso le altre amministrazioni tedesche. Il signor Gilbert spesso mi complicava il lavoro. Mi faceva proporre ai tedeschi merci che non avevamo. Quelli si montavano la testa, pretendevano la consegna ed io faticavo non poco a cavarmela con spiegazioni imbarazzate. Allora non capivo il signor Gilbert. Quel modo di procedere mi stupiva da parte di un uomo così serio. Poi, naturalmente, ho compreso che, proponendo ai tedeschi cose che non aveva, otteneva informazioni preziose sulle loro necessità e i loro progetti... Ê come per il signor Cor-

bin. Più volte mi ha mandato a portare dei messaggi a certi impiegati della Gare de Lyon. Ritiravo anche la posta depositata in un bistrot di fronte alla stazione; il padrone infilava le lettere in un giornale, prima di consegnarmele. Parola: supponevo che si trattasse di faccende di mercato nero, particolarmente sporche... Non ho cercato più lontano... Tanto più che non avevo di che lamentarmi! Avevo uno stipendio fisso piuttosto mediocre, ma mi spettava il 5% su tutti gli acquisti e le vendite che riuscivo a combinare. E ciò rappresentava somme enormi. Vivevo bene. Senza contare le cibarie e le sigarette che il signor Corbin ci distribuiva generosamente. Durante quel periodo, ho frequentato soltanto i migliori ristoranti del mercato nero. Non si può proprio dire che mi privassi di qualcosa. Un giorno vado da un grande sarto dell'Avenue de l'Opéra per farmi fare un vestito. Il sarto indossava un completo di un bel tessuto che mi piaceva molto. Gliene ordino uno della stessa stoffa. Ma, al momento della consegna, mi accorgo che il mio completo non è nuovo, è quello del sarto: si era limitato ad adattarlo alle mie misure. Racconto la storia alla signora Likhonin e lei mi dice: «Mi dia il nome: ho degli amici alla Gestapo. Si occuperanno di lui». Mi è venuto freddo alla schiena e ho cominciato a guardarla con occhi diversi. A questo punto, la Likhonin se ne va in vacanza a Spa, in Belgio. Siccome tardava a tornare e c'erano parecchie fatture in sospeso, il signor Corbin mi ha spedito alla Todt ad esigere il saldo. Quelli della Todt mi dicono: «Diamine! È un bel po' che queste fatture sono state pagate alla signora Likhonin!». Il signor Corbin è andato su tutte le furie quando ha saputo che quella intascava i pagamenti, ma al suo ritorno lei non si è lasciata smon-

tare. Anzi! Ha dato in escandescenze, accusandomi di avere invaso il suo settore: «La Todt è roba mia!». Dopo quella scenata è venuta molto meno spesso alla Simex. L'atmosfera era cambiata.

*** Fortner: La signora Likhonin ci ha portato una risposta sollecita, come previsto, ma negativa. Il capo della Simex non poteva firmare il contratto. Era gravemente malato di cuore ed era in cura. Strano. Ma Nikholai ci conferma che Trepper soffre di cuore e va spesso a riposarsi al Château des Ardennes, a Spa. Mandiamo una squadra a Spa: nessuno. Diciamo alla signora Likhonin: «È una cosa intollerabile, non possiamo aspettare. Allora, combina l'affare, sì o no?». L'indomani, arriva tutta soddisfatta: «Tutto a posto, andrà a Bruxelles il tale giorno per firmare il contratto». Già, avevamo proposto Bruxelles. La storia reggeva, dal momento che i diamanti erano ad Anversa. La verità è che preferivamo agire là, ci sentivamo come a casa nostra. Parigi è così grande... Decidiamo, Giering ed io, di arrestare il Gran Capo alla Gare du Sud di Bruxelles appena scende dal treno. Stretta sorveglianza della stazione e una squadra della Gestapo con noi, sulla banchina. Ciò nonostante, confesso che, aspettando il treno, eravamo nervosissimi. Eravamo convinti che sarebbe stata dura, che sarebbe stato necessario sparare, che il Gran Capo non si sarebbe lasciato prendere tanto facilmente. Neppure Giering era a suo agio.

Il treno arriva, spiamo i viaggiatori – e chi ti vediamo? La signora Likhonin! Sola! Che delusione... La abbordo. Lei mi dice: «Sono desolata, non ha potuto venire. Ma ho i pieni poteri per firmare il contratto. Se siete sempre disposti a trattare, andrò domani stesso a prendere i diamanti ad Anversa». Naturalmente ho rifiutato. E ho fatto pedinare la donna: si è recata direttamente alla Simexco. Avevamo fatto fiasco.

*** Keller: Bisognava che vi raccontassi la storia delle fatture della Todt perché capiste la sorpresa che ho provato un po' più tardi. È stato dopo la faccenda dei diamanti industriali con i due tedeschi di Magonza. Ti vedo arrivare la signora Likhonin che mi dice: «Buone notizie. Alla Todt c'è un ufficiale che ha preparato per lei una lista di clienti. Basterà che si rivolga a mio figlio: la condurrà personalmente dall'ufficiale in questione». Non credevo alle mie orecchie; dopo che mi aveva rimproverato di invadere il suo settore, proprio lei mi introduceva nel suo feudo! Mi reco dunque al cinema “Marbeuf”, insomma, alla Todt, incontro Likhonin figlio e lui mi accompagna all'ufficio dell'ufficiale. Sulla porta c'era un cartello: “Ufficiale di collegamento della Gestapo”. L'ufficiale, un certo Nikholai, è stato gentilissimo. Mi ha guidato al bar installato nel suo ufficio e, versandomi un cognac, mi ha spiegato: «Ecco, ho delle ordinazioni importantissime per certe fortificazioni nella zona vietata, il Vallo Atlantico.

La cosa migliore sarebbe che lei andasse laggiù per mettersi direttamente in contatto con le autorità. Per questo le occorre un Ausweis, ma lo richiederò io e lo avrà in fretta. Ha con lei i documenti?». Glieli ho dati. Lui li ha esaminati, poi mi ha guardato con aria strana, dicendo: «Ma guarda... padre svizzero, madre inglese, nato in Russia...». Mentre compilava la domanda dell'Ausweis, mi ha detto in tono confidenziale che si trovava in una situazione molto dolorosa: i suoi familiari erano scomparsi sotto un bombardamento; inoltre aveva gravi difficoltà finanziarie. Ha menato il can per l'aia per un po', prima di chiedermi con l'aria impacciata se il capo della Simex non avrebbe potuto accordargli un aiuto finanziario temporaneo. Era alquanto imbarazzato. Ho risposto: «Senta, io non ne so niente, ma posso sempre parlargliene». E lui mi ha detto: «Magnifico! Quanto a me, lo avvertirò non appena il suo Ausweis sarà pronto». Qualche giorno dopo, un gruppo di soldati tedeschi in divisa arriva in delegazione alla Simex. Li ricevo io. Mi spiegano che in precedenza abbiamo fornito loro certe macchine e che vorrebbero avere i pezzi di ricambio per le riparazioni. Era una richiesta imbarazzante, come può immaginarsi! Il nostro lavoro consisteva nel proporre ai tedeschi le merci offerteci da dubbi intermediari che le avevano razziate chissà dove... Non era neanche il caso di organizzare un servizio di assistenza dopo la vendita! Comunque, me la sono cavata come ho potuto, dicendo che avremmo tentato, ma che non potevo promettere niente. A questo punto, un soldato mi dice: «Mi scusi, ma ho mal di denti. Potrei telefonare al mio dentista per fissare un appuntamento?». Gli ho indicato il telefono e lui ha chiamato un numero parlando effettivamente di mal

di denti. Lì per lì non ho avuto alcun sospetto. Oggi mi chiedo se non si è trattato di un raggiro per verificare se la nostra linea era sotto controllo o qualcosa del genere. Ho naturalmente informato il signor Corbin di ciò che mi aveva detto Nikholai, ma ignoro come è finita la faccenda. A quel tempo, il signor Corbin non era più lo stesso: si sentiva che era teso, nervoso, roso dall'inquietudine. Spesso si piantava davanti alla grande carta geografica che si trovava nel suo ufficio e diceva: «Ah, Keller! Che cosa non darei per trovarmi in un angolino sperduto a mille miglia da qui...». È stato proprio in quel periodo che mi ha parlato di un aumento. Mi ha detto: «Keller, vorremmo che lei guadagnasse da vivere bene». Ero stupefatto! Io, che non avevo mai sguazzato nell'oro! Suppongo che avessero deciso di tacitarmi.

*** Dopo i tentativi di Raichman, l'invito a far rinnovare l'Ausweis e le trattive fallite sui diamanti industriali, la faccenda del prestito a Nikholai è la quarta trappola tesa al Gran Capo. Giering e Fortner sperano che afferri al balzo quell'occasione di corrompere l'uomo della Gestapo presso la Todt. Ma è Corbin che tratta con l'Hauptsturmführer e gli versa 40.000 franchi. Nikholai firma una ricevuta nella debita forma. Sicché, Trepper lo ha in pugno e può farlo cantare. Adesso si metterà in contatto finalmente con lui? È la suprema speranza di Giering e Fortner. Se non diventa realtà, se il Gran Capo non abbocca, sono ben decisi a farla finita con la Simexco e la Simex. La loro pazienza è giunta al limite.

Ignorano questo particolare (Giering lo ignorerà fino alla morte; Fortner fino alla lettura di queste pagine): Maria Likhonin li ha traditi. Fin dai primi approcci, ha confessato al Gran Capo, piangendo a calde lacrime: «I tedeschi mi fanno lavorare contro di lei; vogliono che la tradisca...». Trepper, bonario, le ha battuto un colpetto sulla spalla dicendo: «Su, su, non è poi così grave...». *** È grave, invece, e Trepper lo sa. La morsa si stringe attorno alla sua “copertura” commerciale. Per 18 mesi la Simex e la Simexco gli hanno permesso di infiltrarsi nei circoli tedeschi più chiusi, di ottenere tutti gli Ausweis necessari per varcare a suo piacimento le frontiere sorvegliate dalla Gestapo; hanno probabilmente fatto di lui la spia più ricca della storia. Ma è ora di chiudere bottega. Non è in gioco la sua sicurezza personale, né quella della Vecchia Guardia. Trepper, Katz, Grossvogel non vanno più alla Simex; Corbin e i suoi impiegati ignorano il loro rifugio. Inoltre, Trepper ha messo a punto per sé uno straordinario gioco di prestigio che lo sottrarrà allo sguardo della Gestapo proprio come un illusionista fa sparire un coniglio. Ma Suzanne Cointe, attivista della prima ora? E Jules Jaspar, Alfred Corbin, entrati nella rete con la benda sugli occhi, ma che non hanno battuto ciglio quando Trepper gliel'ha tolta e hanno visto profilarsi davanti a sé l'ombra del patibolo? E Keller, il quale crede di lavorare per un ente di beneficenza i cui milioni servono ad addolcire la sorte dei prigionieri francesi? E Juliette Mignon, l'occhio della “Famiglia Martin” alla Simex?

Trepper preparava da molto tempo la ritirata strategica della sua succursale marsigliese. Jaspar e Kent si sarebbero trasferiti nell'Africa del Nord, dove avrebbero aperto un nuovo ufficio ad Algeri. In seguito, gli impiegati della sede parigina avrebbero potuto raggiungere il distaccamento mandato in avanguardia e mettersi al riparo. In effetti, il 15 giugno precedente, Jaspar ha ottenuto un visto per Algeri; ha avuto dei colloqui soddisfacenti con Chataigneau, governatore generale di Algeria, ma l'attuazione del progetto è andata per le lunghe. Kent frenava più che poteva: per via di Margarete, non voleva lasciare Marsiglia. L'8 novembre, le truppe americane sbarcano ad Algeri. Chiudendo alla Simex quell'uscita di sicurezza. La Wehrmacht invade la zona libera. Una settimana dopo, Kent e Margarete sono arrestati. *** L'arresto ebbe luogo il 12 novembre al domicilio della coppia in Rue de l'Abbé-de-l'Épée, 85. Quel giorno, la portinaia suonò il campanello al loro uscio alla solita ora; veniva a fare le pulizie. Margarete la riconobbe attraverso lo spioncino, le aprì e fu scostata bruscamente da cinque uomini che irruppero nell'appartamento. Erano poliziotti francesi. Aspettavano dall'alba nascosti in cantina. Kent restò di sasso, ma Margarete scoppiò in singhiozzi. Del resto, i poliziotti sembravano interessarsi soprattutto di lei; gridavano: «È proprio lei! La spia!». Frugarono in casa e scoprirono in un cassetto strani schemi che li fecero urlare di gioia: «Ecco le prove: piani di fortificazione!». Tra un singhiozzo e l'altro, Mar-

garete spiegò loro che si trattava di schemi per certi lavori a maglia, ritagliati da una rivista di moda. I due prigionieri furono condotti al commissariato della stazione di polizia Saint-Charles, dove subirono una perquisizione. La donna cui era stata affidata Margarete le trovò una castagna in una tasca del cappotto («Adoro le castagne: sono così lisce, fresche. Quella l'avevo raccolta a Spa, nel settembre del 1940, quando eravamo così felici. Me l'ero ficcata in tasca meccanicamente. Può immaginarsi che tristezza ho provato rivedendola in simili circostanze»). La visitatrice prese la castagna con un paio di pinze e invocò aiuto: «Attenzione! Sicuramente contiene esplosivo!». Tutto il commissariato fu in subbuglio. Accuratamente imballata, la castagna partì per ignota destinazione – probabilmente per qualche laboratorio municipale. Kent e Margarete passarono la prima notte di detenzione al commissariato Saint-Charles, stesi sul gelido cemento. L'indomani, 13 novembre, furono consegnati nelle mani della Gestapo. Era stata la polizia francese a procedere all'arresto, ma dietro indicazioni fornite dalla Gestapo. Da settimane, automobili camuffate da ambulanze e furgoncini solcavano le strade di Marsiglia alla ricerca del Piccolo Capo e della sua amica. A capo della squadra tedesca Boemelburg, Sturmbannführer delle SS, ma, come Giering, vecchio poliziotto rotto a tutti i trucchi del mestiere, illustre membro dell'“Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale”, che prima della guerra svolgeva le stesse funzioni dell'attuale “Interpol”. L'unico elemento concreto di cui disponesse Boemelburg era la fotografia di Kent trovata in Rue des Atrébates. Ma grazie alle informazioni raccattate a Bruxelles, sapeva che l'abbigliamento di Margarete non passava inosserva-

to («A quel tempo adoravo uscire con un cilindro»), e anche che Kent si distingueva per un appetito davvero prodigioso. Era inevitabile che i camerieri dei ristoranti conservassero il ricordo di un simile cliente e che l'ingordigia perdesse Kent. Nel suo appartamento furono trovate, tra l'altro, 50 paia di scarpe e 5000 sigari. Interrogato sui motivi di quelle scorte, Kent rispose: «Chissà se potrà comprarne ancora un domani?». Era chiaro che, dopo una giovinezza spartana nella patria socialista, il Piccolo Capo non aveva saputo resistere alle vertigini dell'abbondanza capitalistica. Era del pari probabile che non avrebbe più avuto occasione di sedersi ai banchetti di questo mondo. Il 13 novembre, nel tardo pomeriggio, Kent e Margarete lasciarono Marsiglia a bordo di due automobili della Gestapo. Boemelburg era con Kent; uno dei suoi aiutanti con Margarete; una mezza dozzina di poliziotti francesi completavano l'equipaggio delle due macchine. Erano armati fino ai denti perché Boemelburg temeva che la rete tendesse un'imboscata per liberare i prigionieri, e se l'esercito tedesco occupava la zona libera già da parecchi giorni, pure non la teneva ancora saldamente in pugno. Lungo tutto il viaggio, i poliziotti francesi tennero i fucili mitragliatori e le pistole puntate verso il ciglio della strada, pronti a fare fuoco. Nonostante gli sforzi di Boemelburg per attaccare discorso con loro (Boemelburg parlava francese, e persino l'argot, alla perfezione), rimasero ostinatamente muti come se la faccenda non li riguardasse. Scesa la sera, fecero tappa a Lione in un albergo requisito. Kent a Margarete furono chiusi nella stessa stanza, ma privati dei vestiti per eliminare qualsiasi rischio di evasione. Kent restava calmissimo. Si limitò a rispondere alle domande della sua

compagna: «Non preoccuparti! Soprattutto non preoccuparti!». Stando a Margarete, lei era ancora convinta che le loro peripezie fossero dovute alla nazionalità urugayana di Kent. I poliziotti francesi l'avevano accusata di essere una spia, e lei sapeva bene di non esserlo – perché Kent avrebbe dovuto esserlo più di lei? L'indomani, la carovana giunse a Parigi nel tardo pomeriggio. I prigionieri furono rinchiusi in Rue des Saussaies. Ancora in una stessa stanza, ma sotto la sorveglianza di un guardiano che per tutta la notte recitò versi a Margarete. La mattina del terzo giorno, le automobili presero la strada di Bruxelles. I poliziotti marsigliesi erano stati rimpiazzati da guardie tedesche. Kent e Margarete furono condotti direttamente alla fortezza-penitenziario di Breendonck. Quando vide i pesanti cancelli chiudersi dietro le loro spalle con un sinistro stridore, Margarete Barcza, che fin dalla nascita aveva camminato nella vita su un tappeto di rose, ebbe una crisi di nervi. Il suo cuore cedette. Riprese i sensi per udire un medico dichiarare: «Se la mettete in prigione, non vivrà a lungo». Furono di nuovo sistemati nella stessa cella, ma durante la giornata erano sotto la costante sorveglianza di due guardiani che ricevevano il cambio ogni 2 ore; di notte, un agente della Gestapo dormiva nella cella. Avevano il permesso di parlarsi. I loro discorsi si limitarono ad argomenti futili. Kent continuava a mostrarsi placidissimo. Fu sottoposto a qualche interrogatorio senza che si facesse ricorso alla brutalità nei suoi confronti. Qualche giorno più tardi, i due furono condotti alla sede della Gestapo di Bruxelles, in Avenue Louise. Qui, furono fatti salire su una grossa Mercedes nera. La portiera destra posteriore era bloccata all'esterno da una grossa corda che andava da un para-

urti all'altro, ed era girata più volte attorno alla maniglia; per cui era impossibile aprirla. Kent ricevette l'ordine di sedersi da quella parte, sul sedile posteriore; Margarete prese posto al centro, mentre un agente della Gestapo era seduto alla sua sinistra. Davanti, accanto all'autista, un altro agente della Gestapo era seduto di traverso in modo da poter puntare il fucile mitragliatore sui prigionieri. Rimase in quella scomoda posizione per tutto il viaggio. La Mercedes era piena di pacchi che i membri della Gestapo di Bruxelles mandavano alle loro famiglie. Ad eccezione dell'autista e della guardia con il mitra, ogni passeggero ne aveva una pila sulle ginocchia. Arrivarono a Berlino dopo il crepuscolo. La Mercedes si fermò prima davanti alla sede centrale della Gestapo, in Prinz-Albrechtstrasse; Kent fu condotto e rinchiuso in una cella dei sotterranei. A pochi passi da lui dormivano Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack, che aveva incontrato un anno prima allo zoo di Berlino per aiutarli a riorganizzare il sistema di trasmissioni. Poi l'automobile condusse Margarete alla prigione dei Alexanderplatz. Fu messa in una cella vuota. Ebbe una nuova crisi di nervi, ma i guardiani non ne furono commossi. Mentre finalmente si stendeva sul pagliericcio, il volto inondato di lacrime, il corpo scosso dai singhiozzi, cercando suo malgrado il calore del fianco di Kent contro il suo, continuava a non capire perché mai il mondo fosse diventato tutto ad un tratto così orribile. Era come se un lampo terrificante, scaturito dal cielo azzurro, fosse venuto a folgorarla, in piena felicità.

XXIII. «DOV'È GILBERT?»

Il 18 novembre, verso le 9.30 del mattino, Keller ricevette una telefonata da Nikholai: «Il suo Ausweis per la zona vietata è pronto; passa a prenderlo lei?». Keller si reca immediatamente alla sede della Todt. Nikholai lo accoglie a braccia aperte e lo ringrazia calorosamente del ruolo che ha svolto nel procurargli un aiuto finanziario. Keller si informa dell'indirizzo dei clienti che deve andare a visitare nella zona proibita, ma l'altro ha un gesto evasivo: «Calma, calma... Devo prima avvertirli...». Annuncia a Keller che farà un salto alla Simex nella tarda mattinata assieme ad un nuovo cliente. E infatti si presenta in compagnia di un certo Jung che dichiara di volere dei ferri da saldatore. Keller promette di fare il possibile per trovarglieli. L'atteggiamento dei visitatori gli sembra strano: non stanno fermi un momento, ispezionano minuziosamente la stanza, esaminano le carte sciorinate sulla scrivania. Nello stesso momento, nella stanza attigua, Alfred Corbin riceve il fratello Robert. Quest'ultimo non è assolutamente al corrente delle attività clandestine del fratello maggiore. Si stupisce di trovarlo «stanco, con l'aria abbattuta, come un animale braccato». È la prima volta che vede Alfred in quello stato. Non gli fa

domande, perché conosce il suo pudore, la sua riservatezza su tutto ciò che riguarda la sua vita privata. Alfred Corbin ha paura. Il giorno prima, il 17 novembre, si è incontrato con il Gran Capo che lo ha messo al corrente del probabile arresto di Kent e gli ha consigliato di sparire. Corbin ha risposto: «Perché scappare? Non hanno niente contro di me, neppure una prova! L'unico che possa compromettermi è Kent. Ma lei è sicuro di lui, non è vero?». Aveva accompagnato Kent alla Fiera di Lipsia, in occasione del viaggio d'affari che era servito da “copertura” ai primi contatti con la rete berlinese. Sorpreso del silenzio di Trepper, Corbin ha ripetuto: «Lei è sicuro di lui, no?». Il Gran Capo ha risposto con un'alzata di spalle: «Senta, la Gestapo è la Gestapo. Deve filare». Corbin ha rifiutato. È un uomo onesto che crede all'onestà altrui: Kent non lo denuncerà – sarebbe disonesto; la Gestapo non lo arresterà senza prove – sarebbe ingiusto. Malgrado tutto ha paura. Con voce stanca chiede al fratello di fargli compagnia mentre pranza con un ufficiale tedesco. Quell'impegno sembra pesargli molto. Tanto che finisce con il rinunciarvi. Chiama Keller e gli dice: «Accompagni questi due signori al ristorante». Keller invita Nikholai e Jung in un ottimo ristorante del mercato nero, situato in fondo ad una cantina, nei pressi della stazione Saint-Lazare. Già agli antipasti, i tedeschi si scatenano contro la Svizzera: «Uno sporco paese di orologiai popolato da vigliacchi», eccetera. Keller, cittadino svizzero, perde l'appetito. Perché quell'attacco inaudito alla sua patria? In effetti, l'esame dei suoi documenti d'identità ha destato in Nikholai i più neri sospetti. Vero è che un padre svizzero, una mamma inglese e il fat-

to di essere nato in Russia danno vita ad uno stato civile fuori dal comune. Il Kommando si chiede perfino se tale stato civile non esca direttamente dal laboratorio di un falsario. Da cui la sottile manovra psicologica: attaccare la Svizzera in presenza di Keller; se davvero è cittadino elvetico, l'orgoglio nazionale punto sul vivo lo indurrà a ribellarsi. Arrossendo un po', il naso nel piatto, Keller mastica tristemente il pasto e ingoia senza protestare tutti i rospi: «Uno non ha il diritto di litigare con i clienti». Ma al dolce, gli attacchi dei due arrivano ad una tale grossolanità che Keller si vendica lasciando freddamente che sia Nikholai a pagare il conto. Il terzetto si separa senza eccessivo calore. Nikholai propone a Keller di passare alla Todt l'indomani assieme ad Alfred Corbin; appuntamento per le 4. Il tedesco chiede a Keller di essere puntuale. *** Nel tardo pomeriggio, la signora Mignon apre l'uscio della Simex ad un visitatore «sulla trentina, biondo, lo sguardo sfuggente, l'aria agitatissima». Il giovane chiede per prima cosa di vedere il signor Gilbert, poi il direttore della ditta. La signora Mignon gli risponde che sono assenti entrambi. Il visitatore si trattiene qualche minuto nella sala d'attesa e si dedica ad uno strano maneggio: «Ha fatto tutta una scena, si sarebbe detto che avesse paura. Non la smetteva di guardare dalla finestra, come se sorvegliasse il boulevard». Andatosene il giovane, la signora Mignon, preoccupata, mette a parte delle sue apprensioni la signorina Cointe. Questa la richiama all'ordine e le consiglia di non impicciarsi in faccende che non la riguardano. È il loro secondo

scontro, quel giorno. Il giorno prima, Suzanne Cointe aveva chiesto alla signora Mignon di far fare un duplicato della chiave della scala di servizio e le aveva chiesto se era pronta quella stessa mattina del 18 novembre. La chiave non era pronta, e siccome la signorina Cointe se ne era mostrata molto scontenta, la signora Mignon le aveva fatto osservare che non sapeva fosse una cosa così urgente e che, del resto, «non correva dietro loro nessuno». Suzanne Cointe le aveva allora buttato lì con la solita aria altera: «Mia piccola Mignon, qui succedono cose che lei non deve sapere». Alle 6, la signora Mignon lascia l'ufficio del Boulevard Haussmann in preda ad una sorda inquietudine. Le spiace di non aver potuto avvertire il signor Corbin, rimasto assente tutto il pomeriggio, della strana visita ricevuta. *** Quella sera Suzanne Cointe cena con i familiari nell'appartamento di Place Carpeaux. Da qualche giorno la madre e la sorella si meravigliano del suo insolito nervosismo. Suzanne ha detto loro: «Ci sono dei pasticci. La russa ci ha venduti». Le due donne ne deducono che la signora Likhonin ha denunciato ai tedeschi le illecite manovre commerciali della Simex. Suzanne ha ripetuto loro spessissimo: «Gli vendiamo della porcheria...». Terminata la cena, Suzanne Cointe esce dall'appartamento, si arrampica fino all'ultimo piano per la scaletta di ferro e suona all'uscio di Jean-Paul Le Chanois. È seria, tesa. «Vengo a salutarti». «Perché? Te ne vai?».

«No, ma succedono cose molto gravi alla Simex. Rischia di finire male. Ho voluto abbracciarti prima...». Si abbracciano. *** L'indomani, all'alba del 19 novembre, una fitta nebbia è calata sul fronte russo, dove la Sesta Armata di von Paulus, avanzata a cuneo, si accanisce a snidare gli ultimi difensori delle ultime rovine di Stalingrado ancora in mano nemica. È dal seno di quella massa ovattata e fredda – bruma di ghiaccio – che ci giungono, attutiti, i mille e uno rumori di un esercito che si prepara all'attacco. Li avevamo uditi, allora soffocati dalla bufera di neve, quando la Wehrmacht si disponeva all'ultimo balzo su Mosca e captavamo a Bruxelles, con Alamo, il fatale messaggio a Kent; li udivamo anche il 9 giugno scorso, nella villa dalla quale Hersch Sokol trasmetteva per l'ultima volta, ed era l'esercito tedesco che usciva dal torpore invernale e riprendeva l'offensiva. Ne eravamo quasi assordati poche settimane fa – il 15 agosto –, tanto l'aridità cricchiante del deserto li rendeva vivi e chiari, mentre Rommel attaccava verso il Nilo, gli amburghesi di Kleist sul Cerek, e noi vogavamo sul Wannsee assieme a Schulze-Boysen. Ed ecco che quelli della Simex emergono da una notte di angoscia e noi udiamo di nuovo il rotolio dei cingoli, lo schiocco delle culatte che vengono caricate, i bisbigli degli uomini, l'imprecazione del sottufficiale quando la torretta di un carro armato si chiude con troppo rumore – i mille ed uno scricchiolii di un esercito che si sveglia e si stira e si appresta a balzare in avanti. Vero è che le peripezie di questo nostro racconto saranno fino all'ultimo scan-

dite dalle percussioni della Storia, come se un regista, chissà dove, avesse sintonizzato sullo stesso ritmo l'azione della guerra mondiale e quella della rete dell'Orchestra Rossa. Ma, mentre una funesta coincidenza ha fatto sì che ad ogni sconfitta della rete abbia corrisposto finora una vittoria delle armi dell'Asse, il colpo che oggi si abbatterà sui nostri coinciderà, invece, con il più grave disastro che abbia mai conosciuto Hitler (il quale sta dormendo nel suo Nido d'Aquila di Berchtesgaden, in cima alle Alpi, ben al di sopra delle nebbie del Don e della foschia che grava su Parigi). Quel 19 novembre 1942, all'alba, l'Armata Rossa emerge dal nulla ovattato, percuote il fronte tedesco a nord della sacca di Stalingrado, sfonda le difese, penetra per 50 chilometri alle spalle di von Paulus e lo chiude nella trappola nella quale si è cacciato e dalla quale il suo Führer rifiuterà di lasciarlo uscire. La sorte della guerra è giocata. Gli accordi dell'Orchestra Rossa, infatti, possono essere sempre più deboli, i suoi solisti sempre meno numerosi: le mattine in cui avvengono esecuzioni per mezzo della ghigliottina, fucilazioni ed impiccagioni, si ode ormai il sordo brontolio dell'Armata Rossa in marcia verso Berlino – rumore consolante per il cuore di coloro che stanno per morire dopo aver fatto tanto per suscitarlo. *** Il 19 novembre, alle 10 del mattino, squilla il campanello alla porta della Simex. Va ad aprire la signora Mignon. Sul pianerottolo, il visitatore biondo del giorno prima. Ha con sé una decina di uomini in borghese. «C'è il signor Corbin?».

«Senti, senti, oggi sa come si chiama? E quanta gente ci porta!». «Risponda! Polizia!». «D'accordo, lo avevo sentito dall'odore!». «Stia zitta! Torni nel suo ufficio!». Gli ausiliari francesi della Gestapo si spargono per le 12 stanze dell'appartamento, ma vi scoprono soltanto Suzanne Cointe. Alfred Corbin e Keller, presi fuori ufficio, quella mattina non verranno alla Simex. Livida, la signorina Cointe assiste senza fare parola alla perquisizione del suo ufficio. La signora Mignon, la quale non ha gli stessi motivi per tremare, oppone alle imprese dei poliziotti un violento tiro di sbarramento verbale: «Belle porcherie combinate! I tedeschi passino, si capisce... Ma voi, mi fate schifo. Siamo tra francesi, no?». «Che vuole, bisogna pur mantenere l'ordine», eccetera. Senza neppure curarsi di perquisire più a fondo, la banda porta via le due prigioniere. Sulla scala, la signorina Cointe si volta e sussurra alla signora Mignon: «Aveva ragione lei, a proposito del biondino!». Le due donne vengono separate. E la signora Mignon è condotta alla Prefettura di polizia. Vi resterà 4 giorni, rendendo la vita difficile ai gendarmi, facendo risuonare i muri di continui reclami, rivendicazioni e maledizioni, tanto che il suo rilascio sarà accolto con generale sollievo. Nonostante le nette riserve che fa nei confronti dei poliziotti in generale, la signora Mignon, del resto, in seguito dirà dei suoi guardiani: «In fondo erano molto gentili. Era evidente che quell'impresa li seccava». Uno di essi le insegnò perfino a comunicare battendo sul muro, il che gli valse

una ramanzina da parte del suo brigadiere: non bisognava esagerare. Suzanne Cointe è condotta in Rue des Saussaies. *** Alfred Corbin e Vladimir Keller risalgono gli Champs-Élysées in direzione del cinema “Marbeuf”. Sono le 15.45. Keller, a disagio, ripete per la terza volta al suo capo: «No, decisamente, quel Nikholai non mi convince. Un ufficiale della Gestapo che in pari tempo combina affari per conto suo... Che vuole? Lo trovo strano...». Corbin, preso nei suoi pensieri, mormora una frase rassicurante. Le edicole espongono Paris-Soir. Le punte avanzate tedesche progrediscono fra le rovine di Stalingrado. La Wehrmacht ha occupato Biserta. Franco mobilita le sue truppe. Il maresciallo Pétain parlerà stasera sullo sbarco alleato nell'Africa del Nord. Ma al pubblico francese sono fornite notizie ben più importanti. Con le stesse lettere cubitali con cui dà l'annuncio del discorso del maresciallo, il giornale proclama: «Con l'inizio del 1943, il tesseramento del tabacco sarà prorogato senza altre dilazioni». E su due colonne, in prima pagina: «La perdita dell'Africa del Nord ci priva soprattutto di grassi». All'altezza del Rond-Point, Keller individua tra la folla il proprietario di un'autorimessa che ha conosciuto a Le Havre. Lo abborda e, pratico come sempre, gli propone un lotto di pezzi di ricambio. L'altro si affretta ad accettare. Affare fatto. Keller raggiunge Corbin e i due si rimettono in cammino verso il “Marbeuf”.

Alle 15.55, Keller si ferma e guarda il compagno. «Allora, signor Corbin, si va sul serio?». «Ma certo!». Entrano nel vestibolo. Come al solito, c'è molta gente, in particolare soldati tedeschi. Keller si fa strada verso l'ascensore, in fondo all'atrio. Corbin lo segue. Nel momento esatto in cui Keller posa la mano sulla maniglia dell'ascensore, si sente chiamare: «Herr Keller?». Si gira. Prima che riesca a fare dietro-front, un paio di manette gli scattano attorno ai polsi. Un quarto di secondo dopo, Vladimir Keller sarà ancora stupito di tale destrezza. Gli strappano la cartella che stringe sotto il braccio e che contiene l'ammontare delle sue ultime commissioni: 138.000 franchi. «A quell'epoca, era una bella somma!». Di fronte a lui, pistola in pugno, Jung, acquirente occasionale e dilettante di ferri da saldatore e Kriminal-Obersekretär del “Kommando Orchestra Rossa”. Alla sua sinistra, 4 soldati in uniforme, mitra puntati, bloccano l'uscita su Rue Marbeuf. Jung li sospinge, Corbin e lui, verso l'uscita e li fa salire su un'automobile parcheggiata accanto al marciapiedi. La macchina si mette in moto bruscamente. Non sono trascorsi dieci secondi dall'istante in cui Keller ha posato la mano sulla maniglia dell'ascensore. Alfred Corbin è di un pallore cereo. La testa abbandonata all'indietro, gli occhi socchiusi, mormora: «La mia povera piccola Denise non avrà più il suo papà...». Il tedesco seduto a fianco del guidatore si volta e scatta: «Su, un po' di dignità! Prenda esempio dal suo compagno: lui, almeno, si controlla». Keller è allibito. Che intende dire Corbin? È pazzo! Lo svizzero si era immaginato che la Gestapo avesse ficcato il naso nelle

sporche faccende tra la Simex e la Todt, da cui il loro arresto. La frase di Corbin gli fa pensare che si tratti di una cosa più grave di quanto credesse. Nikholai deve avere scoperto qualcosa di particolarmente marcio... Ma tra questo e vedere tutto nero... Corbin lavora troppo di fantasia! L'automobile varca il portone di Rue des Saussaies e si ferma nel cortile. Keller viene condotto da Jung nel suo ufficio. «Si accomodi!». Fa appena in tempo a sedersi che gli arriva uno schiaffo: «In piedi! È finita, la bella vita!». Il tedesco gli ordina di vuotare le tasche, affrettandosi a soggiungere: «Per prima cosa, mi dia il suo Ausweis per la zona proibita». Lo esamina attentamente e conclude, con una punta di rammarico: «Ah! Non l'ha nemmeno usato...». L'ausweis era una trappola. La Gestapo sperava che lo svizzero tanto sospetto se ne servisse per compiere missioni segrete in zona vietata. Ma Jung dovrebbe sapere che Keller lo ha ritirato soltanto il giorno prima... «Dov'è Gilbert?». Keller lo ignora. Si prende un paio di schiaffi, qualche pugno. «Dov'è Gilbert?». Keller dichiara che non ne ha la più pallida idea. Jung apre un cassetto e ne toglie una corda che annoda attorno alle gambe del prigioniero. Poi impugna un bastone che si propone di inserire tra i lacci. È il supplizio detto “dell'arganello”. Si gira il bastone finché la corda, tesa a spezzarsi, penetra nelle carni del paziente. Ma prima di passare all'azione, il tedesco alza al massimo

il volume della radio posata su un mobile. Rimbomba una voce inglese: l'apparecchio è sintonizzato sulla BBC. Keller comprende che è per coprire le sue urla di dolore. Sbraita a perdifiato: «Non ne vale la pena!». Sorpreso, Jung abbassa la radio. «Come? Che cosa dice?». Gli ho spiegato che ero dotato di una singolare particolarità fisiologica: sono sensibile ai dolori leggeri, ma a partire da un certo limite non sento più niente. Uno schiaffo, sì, mi fa male alla guancia; invece potrebbero frustarmi a morte senza che dica: “bah”. Ho avuto occasione di parlarne con dei medici e mi hanno detto che era un caso molto raro ma spiegabile scientificamente. Così l'ho raccontato a Jung. Alla fine, era fuori di sé, non sapeva più che fare...

Dopo aver riflettuto, l'Obersekretär decide comunque di attenersi al regolamento. Inserisce il bastone nei nodi dicendo a Keller: «Ci rimproverano spesso di essere disumani, noi della Gestapo, ma non è vero. Qui, in Rue des Saussaies, non usiamo neppure tutto il materiale per la tortura che ci hanno lasciato i francesi...». Gira il bastone. La corda incide solchi nelle gambe di Keller. Questi guarda il soffitto con aria assente, mentre Jung, paonazzo, le vene turgide, si sforza di strappargli almeno un sospiro. Il tedesco, senza fiato, finisce con il rinunciare. Scioglie la corda, ordina a Keller di alzarsi e gli somministra una scarica di schiaf-

fi e pugni precisando: «Questo, per quel suo scherzetto di ieri, quando ci ha fatto pagare il conto!»1. Verso le 8 di sera, Keller e Corbin sono imbarcati su un'automobile della Gestapo. Siedono l'uno accanto all'altro sul sedile posteriore. Davanti, l'autista è un ufficiale. È buio pesto. L'oscuramento trasforma le strade in tenebrose gallerie. L'autista erra per minuti e minuti nel quartiere della Porte d'Orléans prima di confessare di aver perso la strada. Dall'ombra, provvidenzialissimo, emerge un passante, un vecchio signore che se ne va per i fatti suoi, mani dietro la schiena, portamento dignitoso. L'ufficiale scende di macchina e gli chiede la strada per Fresnes. Il passante dà un'occhiata dentro la macchina, vede i prigionieri ammanettati ed esclama: «Me ne infischio! Non lo so!». «Ma sa con chi parla? Con un ufficiale tedesco! Se non risponde, arresto anche lei!». «Col cavolo! Me ne frego delle tue minacce!». Racconta Keller: Il vecchio signore era scatenato. Sputava addosso al tedesco le peggiori ingiurie. E il tono di voce saliva, saliva, al punto che l'autista è sceso anche lui a dare man forte all'ufficiale: l'aria era carica di elettricità. Mi sono detto: «Adesso o mai più!». Come avrebbero fatto a riprenderci: non ci si vedeva a tre metri di distanza! Quanto alle manette, non era cosa grave. In un lampo ho pensato a Racoua, un venditore di ferramente di Aubervilliers che lavorava con la Simex. Per quello che sapevo di Racoua, 1 Quando l'autore domanderà a Keller la sua impressione su Jung, lo svizzero risponderà in tono grave, dopo un attimo di riflessione: «Non mi è sembrato né troppo corretto, né troppo onesto».

non avrebbe esitato un secondo a tranciare un paio di manette! Ho dato di gomito al signor Corbin e gli ho fatto segno di battersela. Lui ha scosso la testa, non voleva saperne. Io, era soprattutto a lui che pensavo. Per via di quella sua frase a proposito di Denise. Mi dicevo che si era cacciato in un brutto guaio, che rischiava grosso. Ma lui è rimasto completamente amorfo. Eppure non lo avevano ancora torturato. Vede, il signor Corbin, con tutte le sue qualità, non era un uomo d'azione. Non era fatto per quel lavoro...

Fuori, la lite si conclude in fretta. Il vecchio signore corrucciato sparisce nella notte borbottando insulti; l'autista ritrova la strada. A Fresnes, Corbin e Keller sono chiusi in due celle separate, con i polsi ammanettati dietro la schiena, il che rende il sonno difficile. Ma Giering preferisce non correre rischi: teme i suicidi. Fortner e lui si sono divisi i compiti. Mentre l'uomo delle SS liquida la Simex parigina, quello dell'Abwehr opera a Bruxelles nei locali della Simexco. Con tutta probabilità, mai operazione poliziesca richiese così pochi sforzi: a Fortner basta uscire dal suo ufficio in Rue Royale e bussare alla porta accanto. Nell'appartamento trova soltanto un impiegato inoffensivo; gli incartamenti non nascondono alcun documento compromettente; l'esame delle pareti non fa scoprire alcun microfono. Fortner è convinto che siano stati tolti appena prima della perquisizione. Nel complesso, un buco nell'acqua. Ma Fortner conosce nome e indirizzo degli azionisti e degli impiegati della Simexco; può pescarli quando vuole.

*** Denise Corbin aspetta suo padre nell'appartamento di Rue Cernuschi, 15. È sola: sua madre è in provincia da certi parenti e rientrerà l'indomani. Denise si sta preparando all'esame di maturità presso il Liceo Jules-Ferry. Ignora tutto delle attività paterne. Katz è un compagno d'armi di Alfred Corbin che viene spesso in Rue Cernuschi; Trepper è un tipo alquanto burbero che è venuto due o tre volte a parlare di affari a casa. Accennando al Gran Capo 25 anni dopo, Denise dirà ancora: «L'impiegato di mio padre...». Alle 8 Alfred Corbin non è ancora tornato. Denise decide di telefonare allo zio Robert. Gli spiega la sua ansia. Robert Corbin la interroga: sa se suo padre aveva qualche impegno? Sì, aveva un appuntamento alla Todt nel tardo pomeriggio. Be'. Lo avranno trattenuto, magari invitato a cena. Denise ripete queste frasi rassicuranti alla madre che le telefona un'ora più tardi e si stupisce dell'assenza del marito: «Deve essere stato trattenuto più a lungo del previsto». Inutile tormentare la signora Corbin, che già ha anche troppa tendenza ad agitarsi. Denise aspetta fino a mezzanotte, china sui libri, poi il sonno le chiude le palpebre. Sei ore più tardi, la sveglia di soprassalto il trillo del telefono. È suo zio. Alfred è tornato? Denise va nella camera del padre: nessuno, il letto non è neppure stato disfatto. Robert fissa un appuntamento alla nipote per le 8, davanti alla Simex. Prima passano dal commissariato di zona per ottenere l'autorizzazione ad entrare negli uffici. Il commissario dichiara che non può concedere il permesso, ma neppure lo rifiuta. Robert

Corbin va in cerca di un fabbro e lo porta al numero 83 di Boulevard Haussmann. Nessun sigillo sulla porta. Dentro, è tutto in ordine. Dopo una rapida ispezione dei locali, zio e nipote se ne tornano a casa. Sono preoccupati, ma non troppo. La Simex, lo sanno, si dedicava ad operazioni commerciali alquanto speciali; può darsi che un affare sia andato male, il che spiegherebbe il nervosismo di Alfred Corbin che avvertiva l'avvicinarsi di una grana. Denise racconta a Robert Corbin anche una storia di un certo prestito di cui il padre ha parlato a più riprese negli ultimi tempi: un ufficiale tedesco si era fatto prestare 40.000 franchi e Alfred Corbin era un po' preoccupato per la faccenda; probabilmente temeva che l'altro non glieli restituisse. Ma se ora ha qualche difficoltà con la Todt, la storia del prestito non può che contribuire ad appianare il conflitto: non si dà addosso ad un uomo che ti ha prestato 40.000 franchi. Robert Corbin pensa ad una sporca faccenda di mercato nero. Ha preferito fare una capatina alla Simex per sottrarre eventuali pratiche compromettenti, ma non ne ha trovate. Per tutto bottino, porta con sé la rubrica degli indirizzi del fratello, che ha trovato sulla sua scrivania. *** In giornata, la signora Corbin torna dal suo viaggio. Al pari del cognato e della figlia, non sospetta minimamente che Alfred faccia parte di una rete di spionaggio. Ciononostante, l'annuncio della sua scomparsa la piomba in uno stato di panico folle. Senza neppure disfare le valigie, organizza un gigantesco autodafé nel

quale spariscono i documenti più disparati, comprese le lettere di quando erano fidanzati e perfino lo schema per evitare le interferenze che permetteva di ascoltare la BBC. Le ceneri del rogo sono ancora tiepide, quando trilla il campanello. Sono ausiliari francesi della Gestapo, gli stessi che il giorno prima si sono dati da fare alla Simex. Dicono cose rassicuranti: Alfred Corbin è stato trattenuto per via di un affare di mercato nero privo di gravità; la faccenda sarà sistemata al più presto. Quanto alla signora Corbin e alla figlia, non è il caso di metterle in allarme. I poliziotti chiedono loro soltanto di non uscire di casa per qualche giorno. Gli uomini se ne vanno con queste benevoli rassicurazioni, ma due poliziotti restano di fazione nel corridoio dei Corbin, davanti alla porta di ingresso. Il Kommando spera che il Gran Capo si faccia vivo cadendo così in trappola. *** Interrogatori di Alfred Corbin e di Keller. Un'unica domanda, ma ripetuta cento volte: «Wo ist Gilbert? - Dov'è Gilbert?». I due dichiarano di non saperlo. Giering non ci crede. Chiede a Berlino di mandargli uno specialista della tortura. Nel frattempo, i suoi uomini si limitano alle brutalità di normale amministrazione: «Qualche pugno», scriverà Alfred Corbin nei suoi appunti, «ma in definitiva niente di grave». Quanto a Keller, la sua piccola particolarità fisiologica scoraggia anche la migliore volontà. Dopo tre giorni di vana attesa, gli ausiliari francesi di fazione in casa Corbin ricevono il cambio da agenti tedeschi del Kom-

mando, tra i quali Eric Jung. Il regime imposto alle due donne continua ad essere liberale: Robert Corbin e sua moglie possono venire a trovarle quando vogliono, sbrigare le commissioni per loro e consumare i pasti assieme. Ma i tedeschi, abilmente, esercitano sulla signora Corbin una costante pressione psicologica. Non parlano più di mercato nero ma di spionaggio. Sì, certo, sono disposti a credere all'innocenza di Alfred Corbin. Il guaio è che rischia di pagare per il vero colpevole: Gilbert. In tempo di guerra, la giustizia non va troppo per il sottile! Compiangono molto la signora Corbin. In fondo, la signora è quella che ha più interesse di tutti a che Gilbert sia pescato. Loro si limitano a fare il loro mestiere. Un fiasco, non è la morte di nessuno. Ma se non riescono a mettere le mani su Gilbert, Alfred Corbin rischia di lasciarci la pelle... Con i nervi a pezzi, ossessionata da quelle voci di compatimento e lusinga, la signora Corbin erra per l'appartamento dove tutto le ricorda il marito assente, il marito minacciato, il marito innocente – ne è sicura. Grida a Jung e agli altri: «Se potessi dirvi qualcosa lo fare... Ma non so niente! Proprio niente!». Il 24 novembre, alle 11 del mattino, le torna alla mente un ricordo insignificante. Un giorno, Gilbert si è lamentato con loro di avere il mal di denti. Alfred Corbin gli ha dato l'indirizzo del dentista di famiglia: il dottor Maleplate, Rue de Rivoli, 13, dalle parti dell'Hôtel de Ville. Perché nascondere quel particolare ai suoi guardiani? Gilbert è, ai suoi occhi, solo un conoscente d'affari di Alfred. La signora è persuasa che si sia servito di suo marito senza che questi lo sospettasse – se lo avesse sospettato, e avesse lavorato di sua spontanea volontà per Gilbert, lei, sua moglie, ne

sarebbe quanto meno al corrente! Perché la signora Corbin dovrebbe esitare tra la vita di Gilbert e quella del marito? L'informazione da lei fornita, è probabile, certo, che la fornirebbe anche un professionista. Il mal di denti del Gran Capo risale a più di 6 mesi prima e certo, Trepper se l'è sbrigata da tempo con Maleplate. L'indirizzo del dentista? È proprio la pedina senza importanza che un giocatore di scacchi sacrificherebbe per salvare i pezzi essenziali. C'è una probabilità su mille che la sua presa consenta alla Gestapo di dare scacco matto. *** Il dottor Maleplate – oggi un pezzo d'uomo dai capelli pepe e sale, il colorito acceso e lo sguardo vivace – racconta: Il mattino del 24 novembre lavoravo come ogni mattina all'ospedale Laënnec, dove ero assistente. Verso mezzogiorno, qualcuno della direzione è venuto ad avvertirmi che mi desideravano al telefono. Era il mio odontotecnico. Mi ha detto: «Deve tornare qui immediatamente». Volevo sapere perché, ma lui si è limitato a rispondere: «Non posso dirle niente, ma deve venire». Ho subito chiesto al primario il permesso di andare. Nella sotterranea ero roso dalla preoccupazione. Per via di mio padre. Faceva il dentista anche lui; a quel tempo, lavoravamo nello stesso studio. Era un uomo anziano ed io temevo un attacco, una crisi cardiaca, insomma qualcosa di molto grave perché l'odontotecnico non avesse voluto dirmi la verità. Uscendo dalla stazione del metrò di Saint-Paul, verso le 12.30, ho trovato l'odontotecnico che mi aspettava in

cima alle scale con un mazzo di fiori in mano. Saltellava impaziente perché aveva fretta di tornare a casa: era il compleanno di sua figlia. O l'onomastico. Mi ha annunciato: «C'è la Gestapo da lei, la aspettano». Ho tirato un sospiro di sollievo, dicendomi: «Se è tutto qui...». Erano in due, in borghese. Uno molto alto, l'altro piccoletto [Giering e Fortner]. Mi hanno chiesto di prendere il taccuino degli appuntamenti e di enumerare loro tutti gli appuntamenti della settimana. Cosa che ho fatto. Hanno ascoltato i nomi attentamente, senza alcuna reazione apparente. Alla fine mi hanno detto: «Ricominci da capo, per favore». Ho riletto la lista, ma non è bastato: «Ancora una volta, per favore». A questo punto mi sono accorto di avere commesso un errore. Ho detto loro: «Ah! Avevo segnato per questo pomeriggio alle 2 la signora Labayle, la moglie di un collega. Poi mi ha telefonato che non poteva venire e ho inserito al suo posto un altro paziente. Ma ho dimenticato di cancellare dal taccuino il nome della signora Labayle e di sostituirlo con quello del signor Gilbert».

*** Quale che fosse la città in cui lo avevano portato i suoi incessanti andirivieni, era a Neumarkt che il Gran Capo trascorreva il 24 novembre di ogni anno – almeno con il pensiero e con il cuore: suo padre era morto il 24 novembre ed il tempo non aveva sminuito il funebre potere di quella data. La retata della Gestapo alla Simex doveva necessariamente approfondire la consueta tristezza. Perlomeno, Trepper era cosciente di avere fatto tutto ciò che poteva per parare il colpo. Al-

fred Corbin e Suzanne Cointe erano al corrente. Se non avevano neppure tentato di evitare la cattura, era dipeso, per Corbin, da certe illusioni; e soprattutto, tanto per l'uno quanto per l'altra, dalla certezza che la loro salvezza personale avrebbe comportato la rovina dei familiari, abbandonati alle rappresaglie nemiche. Il Gran Capo, evidentemente, ignora l'episodio della Porte d'Orléans, la sera del 19 novembre, e la possibilità di evasione subito intravista da Keller. Se anche lo sapesse, capirebbe la passività di Alfred Corbin: a che pro sfuggire al carcere di Fresnes per farvi chiudere al posto suo la moglie e la figlia? Il fabbro Racoua avrebbe, sì, tranciato le manette tedesche, ma nessuno avrebbe mai potuto spezzare i legami famigliari che tenevano avvinto Corbin. Quanto alla signora Mignon e a Keller, è un altro paio di maniche. Loro non sanno niente. Sarebbe stato un errore avvertirli del pericolo, perché la loro bella innocenza ne sarebbe stata offuscata – l'innocenza che finirà necessariamente con l'imporsi alla Gestapo. Malinconia, tristezza: i successi della armi sovietiche sul Don sarebbero forse bastati ad attenuarne il potere sull'animo del Gran Capo. Ma neppure la piega prodigiosa presa dalla guerra è in grado di soffocare la sua angoscia. Il Centro fa cose pazzesche: 4 mesi dopo l'arresto di Wenzel, di Yefremov e di Winterink, continua a credere ai loro messaggi. Gli avvertimenti di Trepper rimangono lettera morta. Il Direttore dissimula a malapena la diffidenza nei suoi confronti. Il capo dello spionaggio sovietico in Occidente è meno ascoltato al Centro della SS Giering.

Cadere nella trappola del Funkspiel è già grave. Ora, Trepper da mesi si rafforza nella convinzione che tale Funkspiel non è un fine per il Kommando, bensì un mezzo, la piattaforma che consentirà di lanciare una manovra più ambiziosa. Anna de Maximovitch è stata scoperta. È grave, tragico – logico. Scoperta, viene circuita dal Kommando: è sconcertante, perché la cosa non ha una giustificazione razionale, almeno a prima vista. Trepper ignora come Anna è stata smascherata. Noi lo sappiamo: i Maximovitch sono caduti in trappola per una triplice scoperta. In primo luogo, la scoperta della pratica a loro carico negli archivi della polizia francese. L'Abwehr ci si era recata per avere informazioni dopo che Margarete Hoffmann-Scholtz aveva domandato, in conformità al regolamento della Wehrmacht, l'autorizzazione di convolare a giuste nozze con Vassili, cittadino straniero. La Sûrete aveva registrato le simpatie sinistrorse di Anna e il fatto che avesse curato dei repubblicani spagnoli. Kludow e la sua squadra aprirono una seconda breccia, decifrando alcuni telegrammi in cui erano sintetizzati parecchi rapporti dell'ambasciatore Abetz: ciò riportava a Margarete, e quindi a Vassili. Infine, un altro telegramma intercettato attestava degli scarsi effetti di un bombardamento alleato sulla città tedesca di Ham; diceva: «Nostra persona di fiducia ha constatato i danni, sono inesistenti». L'inchiesta dell'Abwehr dimostrò che, dopo aver inoltrato la richiesta di autorizzazione alle nozze, Margarete aveva fatto un viaggio in Germania ed era passata per Ham; interrogata in proposito, la brava ragazza innamorata confessa di aver informato il suo barone. Il Kommando dovrebbe piombare come la folgore sui due russi: è il metodo abituale della Gestapo. E invece, lascia in pace

Vassili e spedisce un emissario ad Anna. Questa si sente proporre uno straordinario accordo: non sarà punita per la sua attività clandestina se riuscirà a procurare a Giering un incontro con il Gran Capo. Un incontro! Avvertito da Anna, Trepper le ordina di sparire. Anna si reca a Billeron e passa nella zona libera. Ora l'hanno arrestata, contemporaneamente a Kent – ma questo il Gran Capo ancora non lo sa. Vassili lo indovina. Preoccupato del fatto di essere senza notizie della sorella, malato, le povere gambe più gonfie che mai, dice a Trepper: «Se vengono a prendermi, mi uccido al momento dell'arresto: preferisco andare subito all'altro mondo». Risposta del Gran Capo: «No. Lasci pure questo mondo se le pare, ma porti con sé il maggior numero di quelle canaglie». Un incontro... La trappola sarebbe stata offensiva nella sua ingenuità se un altro elemento non fosse venuto ad accrescere la perplessità ansiosa di Trepper. Per mezzo di Nikholai, il Kommando gli ha teso due trabocchetti: l'offerta di far rinnovare l'Ausweis e la corruzione dell'ufficiale SS mediante i 40.000 franchi prestati da Corbin. I due trabocchetti sono falliti. Terzo trabocchetto: l'acquisto di diamanti industriali proposto dai due sedicenti uomini d'affari di Magonza. E terzo fiasco. Giering lo sa, tanto più che il Gran Capo si è preso la briga di telefonare a Nikholai per dirgli: «La Simex tratta con tutti, tranne con la Gestapo». Non dovrebbe essere il caso di insistere. E invece insistono. Dopo l'arresto di Corbin e dei suoi, quando Giering non può più nutrire la minima speranza di farsi passare per un industriale di Magonza agli occhi di Trepper, gli fa proporre dalla Likhonin di

riprendere le trattative in merito ai diamanti industriali – e questo, a Berlino! E tutto accade come se il Kommando, più che di arrestare il Gran Capo, tentasse di mettersi in contatto con lui. Ma a che scopo, e per servirsene in vista di quale manovra? Il 22 novembre, Trepper si incontra con Michel, l'emissario del Partito comunista francese. Lo informa della sconcertante proposta di Giering e gli chiede di informare Mosca che è disposto a partire per Berlino se le alte sfere ritengono utile mettere in chiaro la faccenda. L'indomani, 23 novembre, decide di tenere tutto in sospeso in attesa della risposta del Centro. L'attività della rete è interrotta: lavoro bloccato, collegamenti spezzati, vietati i contatti – che ognuno si nasconda nel suo buco! La stessa sera riunisce per l'ultima volta la Vecchia Guardia: Katz e Grossvogel. Assieme a loro redige un estremo telegramma indirizzato al Direttore, da cui trapela la sua disperazione di non essere creduto: La situazione si aggrava di ora in ora. Kent è stato probabilmente arrestato. La Simex è liquidata. Ma, più grave di tutto questo: le vostre affermazioni concernenti Yefremov, Wenzel e Winterink. È chiaro che la Gestapo può, presso di voi, più di me.

Il terzetto scrive anche una lunga lettera a Jacques Duclos per supplicarlo di convincere Mosca della veridicità delle informazioni riguardanti i disastri subiti dalla rete e il tradimento dei pianisti. Che fare di più?

Viene deciso che Katz partirà l'indomani per Marsiglia, dove dispone di un nascondiglio sicuro. Quanto a Grossvogel, ne possiede uno a Vichy e vi si precipita. Sia all'uno che all'altro Trepper fa questa suprema raccomandazione: «Se per disgrazia foste arrestati, tentate ad ogni costo di scoprire qual è il gioco del Kommando e dove vogliono andare a parare». Lui ha già preso le sue misure personali. Georgie resterà nascosta nella villetta di Le Vésinet. Due mesi prima l'aveva convinta a mettere al sicuro Patrick. Il bambino è stato sistemato in un primo tempo presso una pensione di Saint-Germain-en-Laye, ma era così poco curato che avevano dovuto affrettarsi a riprenderselo. Poi, attraverso un'amica di Georgie, una certa Denise, hanno avuto l'indirizzo dei Queyrie, brave persone che abitano in periferia, a Suresnes. Patrick, coccolato come un figlio, sembra al sicuro dalle grinfie del Kommando. Quanto a lui, Trepper, tra qualche giorno morirà. Un medico di Royat, che ha conosciuto in occasione di una cura, compilerà un certificato di morte e il suo nome verrà inciso su una pietra tombale, davanti alla quale si raccoglieranno stupiti gli uomini di Giering. Ma prima di partire per le montagne di Alvernia – il Gran Capo diventato Pollicino, che semina dietro di sé sassolini bianchi perché gli altri possano seguire la pista –, prima di tuffarsi nella sublime clandestinità dell'aldilà, ha voluto mettersi in pace con i denti. L'appuntamento al quale si reca quel giorno nello studio di Maleplate è l'ultimo della cura: troppo occupato, lo ha rimandato da una settimana all'altra fino a quel 24 novembre. ***

Racconta il dottor Maleplate: Al nome di Gilbert non hanno avuto alcuna reazione particolare, ma uno mi ha domandato: «Lei conosce bene i suoi pazienti?». «Un po', sì». «Allora avanti, riprenda la lista degli appuntamenti e per ogni nome ci dica di chi si tratta, la professione, eccetera. Non ha schede personali dei pazienti?». «No». «Tanto peggio. Avanti...». Ho dunque ricominciato la litania fornendo certi particolari su ogni paziente. Di Gilbert, sapevo soltanto che mi era stato mandato dai Corbin. Per me, era un uomo d'affari qualunque, dall'accento belga, che arrivava sempre con una cartella sotto il braccio. Simpatico, indubbiamente, ma un po' troppo incline a parlare di sé. Loro mi ringraziano e lasciano lo studio, ma cinque o dieci minuti dopo eccoli di ritorno. Questa volta erano in tre. Ho saputo in seguito che avevano tenuto un rapido consiglio di guerra nel caffè che si trova al pianterreno dello stabile. Mi dicono: «Arresteremo Gilbert». «Fate un po' come vi pare, è affare vostro». «Ah, no!», esclama quello alto. «Non andrà così. Lei dovrà collaborare, che le piaccia o meno!». Mi hanno esposto il loro piano. Io dovevo allontanare l'odontotecnico, andare ad aprire la porta personalmente, far sedere Gilbert in poltrona e cominciare il mio lavoro. Nel momento in cui si sarebbero precipitati su di lui avrei dovuto indietreggiare, rifugiandomi in un angolo della stanza. Questo per la mia sicurezza personale, perché erano convinti che non sarebbe andato tutto liscio e che ci sarebbe stata una sparatoria. Cominciavano già ad essere nervosi. Per esempio: nel bel mezzo di queste spiegazioni, squilla il telefono. Quello più alto sfodera la

Lüger e grida: «Che succede?». Io gli ho detto: «Su, calma, è un collega». Mi telefonava per ricordarmi che quella stessa sera dovevamo operare in una clinica di Rue d'Alésia. Ho confermato a monosillabi che ci sarei andato e ho troncato la comunicazione. Quando è arrivato l'odontotecnico, l'ho spedito assieme a mio padre nell'appartamento – sì, abitavamo al piano superiore. Poi, trilla di nuovo il campanello. Era una vecchia signora, paziente di mio padre. L'ho sistemata in sala d'attesa. No, mi sbaglio: è stata la vecchietta che è arrivata per prima, e poi l'odontotecnico. Comunque, mancava poco alle 2 e Gilbert doveva arrivare a minuti. Era il mio primo appuntamento del pomeriggio.

*** Di fronte alla porta di ingresso, un lungo corridoio. A destra del corridoio, un'unica stanza: il laboratorio dell'odontotecnico. A sinistra, si aprono successivamente le porte della sala d'attesa, di uno studio che una volta era quello del dottor Maleplate padre, di un ufficio che, oggi almeno, sacrifica al culto napoleonico (stampe, eccetera) e, infine, quella dello studio di Maleplate figlio. Giering piazza un uomo nel laboratorio dell'odontotecnico per tagliare la ritirata al Gran Capo. Lui e Fortner si portano in fondo al corridoio e si nascondono dietro la porta dello studio di Maleplate. È inteso che quest'ultimo farà passare Trepper per l'ufficio “napoleonico”. Oltre l'ufficio, il corridoio fa una curva: impossibile scorgere i due cacciatori in agguato. Fuori, naturalmente, il Kommando al gran completo e i suoi ausiliari francesi. Tutto è pronto.

*** Trepper dirà più tardi il disagio provato non appena mise piede nel gabinetto dentistico. C'è qualcosa che non va. La sala d'attesa è deserta, salvo per la vecchia signora; di solito è affollata. Il dottore lo fa passare per lo studio, come al solito, ma contrariamente al solito la porta dello studio che dà sul corridoio è chiusa. Maleplate: L'ho fatto sedere in poltrona. Era disteso. Mi dico: «Povero diavolo, a che pro trapanargli il dente? Non è il caso di fargli male». Chiacchierando, faccio finta di scegliere gli strumenti. E lui mi butta lì, sorridendo: «Va bene, eh? Ha sentito le notizie alla radio?». Io avevo i sudori freddi: dietro la porta del corridoio, sentivo il tintinnio delle manette che quelli preparavano... Siccome la cosa andava per le lunghe, io gli ho infilato in bocca un batuffolo di cotone e ho cominciato a sistemare la lampada, ma a questo punto quelli si sono decisi ad intervenire. Gli sono balzati addosso, pistola in pugno. Lui ha alzato le mani dicendo: «Sono disarmato». Era pallidissimo, ma perfettamente calmo. Quanto ai tedeschi, tutto ciò che posso dire è che erano agitatissimi!

Fortner conferma: Il dentista tremava; Giering ed io eravamo nervosissimi. Ah! Devo proprio riconoscere che il più calmo era lui! Non ha battuto ciglio! Mentre Giering lo ammanettava,

ci ha detto: «Bravi! Avete fatto un buon lavoro». Io ho risposto modestamente: «È il risultato di due anni di ricerche».

Al momento del congedo, il dottor Maleplate dice al prigioniero: «Voglio che lei sappia che io non c'entro». Trepper: «Ma certo! Stia sicuro che non ce l'ho con lei!». Segue una cortese discussione a proposito del saldo degli onorari del dentista, ma quest'ultimo rifiuta il pagamento. Il Gran Capo gli stringe la mano e se ne va, ammanettato, tra il lungo Giering e il piccolo Fortner, tra la Gestapo e l'Abwehr. *** Georgie aveva appuntamento con lui nel tardo pomeriggio a Rueil. Dovevano andare a cena assieme a Saint-Germain-enLaye. Lo aspetta invano. Trepper le ha ripetuto una quantità di volte: «Possono arrestarmi da un momento all'altro. Devi essere preparata. Non dovrai muoverti e, soprattutto, non andare a cercare notizie». Rosa dall'inquietudine, Georgie va in cerca di notizie. Telefona a Katz. Si mettono d'accordo per incontrasi al caffè “Le Chien qui fume”, a Montparnasse. Georgie trova Katz immerso nella lettura del Potiomkin. Conversazione breve e angosciosa. Katz dice: «Sono quasi certo che lo hanno preso. È capitato anche ad altri. Anch'io sono braccato. E mia moglie è in clinica per partorire...». Povero Katz, che non vedrà mai il bambino e che a sua volta, così sembra a Georgie, come un un bambino cui abbiano strappato il padre. Doveva partire quella stessa sera per Marsi-

glia, per ordine del Gran Capo. Non partirà. Simile ad un uccello affascinato dal serpente, annullato ogni riflesso, attende il morso mortale. Georgie, invece, di fronte agli eventi si mette in agitazione. Spedisce la sua donna di servizio, Marcelle Loukia, a chiedere ai guardiani della prigione del Cherche-Midi se ci hanno chiuso Trepper. Perché il Cherche-Midi? Perché ha letto nel giornale, qualche giorno prima, che ci avevano portato l'attore Harry Baur... Passo imprudente, addirittura insensato, se si considera la personalità della messaggera. Marcelle Loukia, una negra della Martinica sulla quarantina, è un po' razzista: secondo lei, i tedeschi appartengono ad una specie inferiore e dice quello che pensa senza peli sulla lingua. Fatto fiasco al Cherche-Midi, Georgie la manderà – sempre invano – a bussare al portone di tutte le prigioni parigine. Le stessa percorre in lungo e in largo Parigi, con indosso il suo soprabito preferito «in tessuto scozzese, a colori straordinari, un soprabito di lusso come se ne vedevano pochi allora». Passa così abbigliata davanti allo stabile di Rue des Saussaies. Il Kommando non sa nulla della compagna del Gran Capo, se non che possiede uno splendido soprabito: Giering fa cercare «la donna dal soprabito scozzese». Georgie potrebbe recarsi in casa di Alfred Corbin, cadere in trappola, ma il caso, la fortuna, la provvidenza che si è crudelmente fatta gioco delle infinite prudenze del Gran Capo e tuttavia si accanisce a proteggere i suoi amori, la provvidenza fa sì che si rechi invece da Robert Corbin. La signora Corbin conferma a Georgie l'ondata di arresti. Infine, la ragazza di reca da Katz. La portinaia la riconosce e si precipita fuori dalla guardiola: «Non salga! C'è la Gestapo!». Georgie se ne va, si reca a Suresnes, dove sta Patrick, e annun-

cia ai Queyrie l'arresto di suo marito. Soggiunge: «Vedrete che se la caverà. Non per niente, i suoi amici lo chiamano “Palla di fuoco”».

XXIV. IL CROLLO

Il Gran Capo parla. Racconta Fortner: Sull'automobile mi ha domandato se ero dell'Abwehr o della Gestapo. Gli ho risposto che ero un ufficiale dell'esercito tedesco. È parso sollevato e ha aggiunto: «Per me, è finita. Vi dirò certe cose, ma voi dovrete accettare che non vi dica tutto». Naturalmente siamo rimasti stupefatti, Giering ed io, da quella insperata dichiarazione. Se il Gran Capo accettava di collaborare, per lo spionaggio sovietico in Occidente era la fine. Fin dal nostro primo colloquio, ho perciò cercato il contatto umano. Abbiamo parlato della sua vita, della sua famiglia, bevendo caffè e fumando sigarette. Chiacchierava molto apertamente; personalmente, devo dire che non faticavo ad ascoltarlo con simpatia. Era un tipo per bene, calmissimo, molto sobrio. Avevo l'impressione di trovarmi di fronte ad un vecchio camerata con il quale scambiavo dei ricordi.

Dopo l'autobiografia, il corso serale. Al cospetto del Kommando allibito, Trepper tiene una conferenza sull'arte dello spionaggio. I grandi princìpi: rigido sistema di compartimentazione, impiego sistematico di pseudonimi, decentramento (perché è perico-

loso concentrare troppi collegamenti su un'unica persona); compartimenti stagni tra i pianisti, assai vulnerabili, e il resto della rete. Le precauzioni classiche: mai portare armi, che ti pongono alla mercé di un normale controllo; fare a meno dell'automobile; abitare in periferia, dove è più facile scoprire se qualcuno ti pedina che nelle strade affollate del centro; non ricevere posta in quantità anormale – e farsi spedire cartoline anziché lettere, perché la polizia non diffida di chi riceve cartoline; mai trasmettere documenti da una mano all'altra senza camuffarli (penne stilografiche, scatole di fiammiferi, giornali); organizzare i contatti tra gli agenti preferibilmente di domenica o nei giorni festivi, dato che la polizia è meno numerosa e meno vigile; fissare appuntamenti in posti banali e molto frequentati: biblioteche, farmacie e anche impianti sportivi, laghi (gite in barca), piscine, ma a patto, precisa Trepper a beneficio dei suoi interlocutori – e la Gestapo registrerà scrupolosamente il consiglio nel suo rapporto –, a patto che la stagione si presti... Infine, certe astuzie tecniche lasciano di stucco Fortner e fanno capire a Giering e a Berg, maestri collaudati della caccia al comunista clandestino della specie “militante”, che stanno ancora balbettando i primi rudimenti del controspionaggio. Per esempio: l'uso degli elenchi telefonici delle cabine pubbliche per fissare gli appuntamenti. Fissato in anticipo il luogo, rimane da indicare il giorno e l'ora; ad una certa pagina prestabilita dell'elenco, l'agente sottolinea una parola della quarta riga: il contatto avrà luogo alle 4; inquadra un'altra parola della sesta riga: il sesto giorno della settimana, vale a dire il sabato successivo. Grazie a questo sistema non è necessario alcun contatto diretto tra i due agenti. D'altro canto, chi fissa l'appuntamento, se ha dubbi sull'altro, può controllare

se l'altro si reca alla cabina telefonica da solo, non scortato e seguito a breve distanza. Dopo la conferenza del Gran Capo, l'Abwehr scriverà nel rapporto alle autorità del Reich le seguenti righe destinate a giustificare retrospettivamente le lungaggini dell'inchiesta: Tutta l'esperienza precedente acquisita in Occidente era per noi priva di valore. In breve, ci si rese conto che i russi avevano compiuto un lavoro da esperti. Per questo fu necessario che l'Abwehr apprendesse le teorie che presiedevano all'addestramento e all'infiltrazione degli agenti sovietici, teorie fino allora sconosciute ai suoi ufficiali.

Constatazione obiettiva: «l'esperienza acquisita in Occidente» lo era stata a detrimento di reti di resistenza improvvisate in fretta e furia da volontari di buona volontà, del tutto all'oscuro delle regole dello spionaggio. Il migliore tra essi – Rémy – sarà in grado di compilare questo bilancio del tradimento di uno solo dei suoi agenti: «60 arresti, 52 deportazioni, 14 decessi in campo di concentramento, 1 decesso in carcere, 2 esecuzioni capitali, 2 dispersi. E non sono neppure sicuro che la lista sia completa» 1. E il traditore non era neppure un agente di primaria importanza! Né Yefremov, né Raichman sono stati in grado di fare tanti danni; nessun agente dell'Orchestra Rossa lo potrebbe – ad eccezione di Trepper – perché decentramento e separazione impediscono alla cancrena di invadere l'intero organismo. Sia ben chiaro: non intendiamo accusare Rémy! La sua grandezza consistette proprio nel fatto di essere un dilettante, e tanto più grande fu in quanto 1 Op. cit., vol. 2, p. 51.

ne sapeva ancora meno in materia di tecniche di salvataggio. Del resto, egli stesso dirà: «Dove erano i nostri maestri? Tutti quanti noi siamo, abbiamo ben di rado trovato degli specialisti disposti a guidarci e inquadrarci. Bisognava per forza ricorrere ai mezzi d fortuna»2. Che sorprendente capitano! Marinai di fortuna, né bussola, né carte nautiche, ma lo sguardo fisso ad una stella. Tra qualche mese Rémy verrà a sapere che uno dei suoi uomini, arrestato dalla Gestapo, ricerca il contatto con lui: Ho saputo che Gaspard è stato liberato e desidera vedermi. Liberato... Sono certo della sua lealtà, ma sospetto una trappola un po' troppo tedesca. Gaspard è pedinato, questo è certo. Ma non se ne parla neppure di abbandonarlo. Appuntamento a mezzogiorno meno un quarto sotto la Torre Eiffel. Il Champs-de-Mars è il posto ideale per parlare in santa pace. È impossibile tenere d'occhio qualcuno senza che se ne accorga. E poi, è proprio accanto a casa mia, dove ho molto da fare3.

Due sbagli ed una pericolosa scommessa. Primo sbaglio: l'appuntamento vicino a casa. La Gestapo conosce bene questa prassi abituale dei capi di reti oberati di lavoro: dopo aver corrotto un agente, lo scarrozza in macchina per ore e ore nei quartieri in cui ha avuto gli appuntamenti; prima o poi, finisce con lo scoprire i suoi interlocutori. Secondo sbaglio: la scelta del Champ-de-Mars, soprattutto sapendo che Gaspard rischia di essere pedinato: come scappare da quella distesa deserta? La splendida scommessa è condensata in cinque parole: «Sono sicuro della sua lealtà». 2 Op. cit., vol. 1, p. 413. 3 Op. cit., vol. 1, p. 474.

Parole che tornano spesso sotto la penna di Rémy, come una litania, come una preghiera. Informato dell'arresto di certi agenti, che ha ricevuto al proprio domicilio (terzo sbaglio): «Cambiare casa significherebbe dubitare della lealtà e del coraggio dei miei amici. Non mi muoverò»4. Più tardi, in circostanze identiche: Da più di otto giorni non torno a casa senza dirmi che nel corso della notte sarò arrestato... Ho pensato di lasciare l'appartamento, ma non ne ho avuto il coraggio. Significherebbe venire meno alla fiducia che devo a quei miei amici che si trovano in carcere5.

Una “separazione mistica”, in un certo senso, che scandalizzerebbe di sicuro la brava gente del Centro. Per Rémy, la fiducia riservata ai suoi non è un tributo passivo, è un atto di fede che sarà accreditato alla rete e grazie al quale i prigionieri riceveranno, per gli invisibili tramiti della divina provvidenza, un accrescimento di forza in mezzo alle torture. Noi vediamo con chiarezza ciò che gli esperti dello spionaggio possiedono e che invece manca a Rémy. E tuttavia, Rémy, con il suo equipaggio di fortuna, ha saputo pilotare in porto la nave nonostante tempeste e fortunali. C'è da credere che abbiano posseduto, lui e i suoi, qualcos'altro che non aveva a che fare con la tecnica. L'occhio fisso ad una stella. L'inesperienza li ha posti più spesso di altri di fronte a questa scelta: essere eroi o traditori. Furono più spesso eroi che traditori. Trepper è giunto all'incrocio decisivo.

4 Op. cit., vol. 1, p. 498. 5 Op. cit., vol 1, p. 544.

Può stupire il Kommando con il suo virtuosismo tecnico: ciò non toglie che le SS di Giering lo abbiano in loro potere. Trattare? Conciliare? Iniziare una sottile partita a scacchi? Ma lui è il Gran Capo e gli altri non si accontenteranno di qualche pedina, dal momento che è in grado di consegnare loro gli alfieri e le torri della rete – tutta la scacchiera! Traditore o eroe? *** L'indomani, 25 novembre, vengono arrestati la moglie di Alfred Corbin, sua figlia Denise e Robert Corbin. Il 24, Giering aveva fatto avvertire le due donne che desiderava metterle a confronto con Alfred Corbin; era stato fissato un appuntamento per le 3 del giorno 25; un'automobile del Kommando sarebbe venute a prenderle in Rue Cernuschi. La Gestapo fu puntauale. La signora Corbin domandò se era il caso di prendere delle coperte. Si sentì rassicurare: «A che scopo? Tornerete subito». Nonostante le rassicurazioni, la prova che le attendeva tormentava la signora Corbin a tal punto che sua cognata, la moglie di Robert Corbin, presente in compagnia del marito, convinse quest'ultimo ad accompagnare le due donne in Rue des Saussaies. L'automobile della Gestapo condusse direttamente il terzetto alla prigione di Fresnes. Robert Corbin, le mani ammanettate dietro la schiena, fu gettato in una cella vuota. Un drappo nero, inchiodato alla finestra, faceva da schermo alla luce del giorno, ma una lampadina era accesa in continuazione. La sera, i detenuti incaricati della distribuzione del cibo gli sussurrarono che, alla porta della sua cella, c'era il cartello rosso riservato ai casi

più gravi. Robert Corbin dice: «Non capivo niente. Era come se il cielo mi fosse crollato sulla testa». Ma Trepper non era stato lo strumento della catastrofe. *** Il 25 novembre furono arrestati in Belgio i membri della Simexco. Robert Christen, il truculento proprietario del “Florida”, fremerà ancora di sdegno 24 anni dopo: Le do la mia parola d'onore che mai, neppure per un momento, ho avuto l'idea di lavorare per la resistenza! È una vergogna che la Gestapo non abbia riconosciuto la mia buona fede!

Alla prigione di Saint-Gilles, ritrovò l'editore Henri de Ryck, gli uomini d'affari Jean Passelecq e Charles Drailly, l'avvocato Beublet, consulente legale della ditta, il proprietario della fabbrica di sigarette Louis Thevenet. Henri Seghers fu chiuso in una cella della fortezza di Breendonck per avere fatto il quarto a bridge da Margarete Barcza e il sesto in occasione della costituzione della Simexco. Nazarin Drailly, direttore della ditta, sfuggì alla retata; si nascose in casa di un'amica, la signorina Ponsaint, che preparò minuziosamente la sua fuga in un nascondiglio sicuro. Ma la moglie di Drailly era stata arrestata e Drailly acconsentì a sparire dopo che la signorina Ponsaint le avesse recapitato un pacco: la Ponsaint accettò e fu arrestata. La Gestapo venne ad arrestare anche Nazarin Drailly.

Drailly era entrato nella rete per il tramite di Grossvogel, di cui era amico intimo da lunga data; la signora Drailly era stata perfino gerente di una succursale del “Re della Gomma”. Al pari di Alfred Corbin, il suo omologo della Simex, Nazarin era stato avvertito dell'imminente burrasca; Trepper aveva organizzato tutto per consentirgli di rifugiarsi in Svizzera. Ma, al pari di Corbin, con cui sembra avere avuto più di un punto in comune, in particolare l'interessamento per gli altri e le loro sofferenze, Drailly sapeva di non poter sparire senza compromettere i suoi. Si era quindi limitato ad avvertire il Gran Capo che riteneva di non essere in grado di sopportare la tortura. Il suo sacrificio non aveva evitato né la cattura di sua moglie, né quella di suo fratello Charles, azionista della Simexco. Anche la signora Grossvogel fu arrestata il 25 novembre. Andarono a prenderla alla clinica doveva aveva dato alla luce il figlio che tanto desiderava, e da tanti anni. Le speranze sempre deluse l'avevano indotta a temere di essere sterile, ma una cura a Sailes-de-Béarn aveva finalmente compiuto il miracolo: era madre. Suo marito, conscio della minaccia che gravava sulla rete, l'aveva supplicata di lasciare al più presto la clinica e rifugiarsi nel nascondiglio che le aveva preparato. Lei aveva rifiutato per non privare troppo presto il piccolo delle cure mediche. La Gestapo la chiuse in una cella della prigione Saint-Gilles, permettendole di tenere con sé il bambino. Bill Hoorickx fu catturato qualche giorno dopo. Aveva trascorso la notte in un locale dove suonava Django Reinhard. All'alba, fu arrestato in casa di un amico da un ufficiale delle SS e da una squadra di agenti tedeschi armati di fucili mitragliatori. La Gestapo conosceva l'indirizzo di Rauch. Chiese a Hoorickx di

telefonargli per farlo cadere in una trappola. Quando l'amico venne al telefono, Hoorickx gridò: «Scappa! Mi hanno arrestato!». I suoi guardiani gli si scagliarono addosso, quasi massacrandolo. Rauch fu comunque arrestato l'indomani. Ormai nella rete aveva soltanto una parte secondaria, ma suo figlio era diventato una “fonte” importante. Il giovane cecoslovacco, studente di ingegneria, era stato arruolato di forza nella Wehrmacht e adibito alla costruzione del Vallo Atlantico; ogni volta che veniva in licenza a Bruxelles, consegnava al padre un fascio di documenti. Così morì definitivamente la rete belga. Ma Trepper non aveva avuto parte alcuna nella sua liquidazione. *** La Gestapo si presentò anche in Rue du Dragon, a Marsiglia, dove aveva sede la succursale della Simex. Arrestò Jules Jaspar, sua moglie e una giovane segretaria, Marguerite Marivet. Il signor Jaspar, nobile belga, ex-console, ex-direttore della “Foreign Excellent Trench-Coat”, fu informato dalla Gestapo della sua appartenenza ad una rete di spionaggio sovietica. Divenne paonazzo ed esclamò: «Ah! Mascalzoni, e io che credevo di lavorare per l'Intelligence Service!». Trepper aveva forse mentito sulla propria osservanza e confuso scientemente Mosca con Londra, ma non era colpa sua se il bravo Jaspar non poteva ormai più lavorare per quello che riteneva il servizio di Sua Maestà britannica: la Gestapo aveva trovato l'indirizzo della succursale marsigliese nelle carte della casa-madre, in Boulevard Haussmann.

*** Poi cade il gruppo di Lione. Posto agli ordini dell'ardente Romeo Springer, si sa che aveva stretto contatti interessanti con personalità quali l'ex-ministro belga Balthazar e il console degli Stati Uniti. Provvisto di un'emittente fabbricata in loco, il gruppo lionese si preparava a trasmettere direttamente le informazioni a Mosca quando la Gestapo lo colpì. I tedeschi arrestarono, in particolare, Otto Schumacher, in casa del quale Wenzel era stato sorpreso in flagrante mentre trasmetteva. Germaine Schneider, amante del “Professore”, riuscì a fuggire, ma per andare a farsi arrestare a Parigi dal Kommando. Romeo Springer si difese armi alla mano e la Gestapo ne venne a capo solo dopo un assedio in piena regola. Arrestato, trasferito a Parigi assieme agli altri, scavalcò il parapetto della terza galleria di Fresnes e si gettò nel vuoto, muto per l'eternità. Era sempre stato coraggioso. Tale fu la fine dell'effimera rete lionese. Raichman, non Trepper, ne aveva precipitato la perdita. *** Ma i documenti tedeschi iscrivono all'attivo del Gran Capo gli arresti di Katz, Grossvogel, Vassili de Maximovitch e Robinson. Tradì per primo Katz, il suo vecchio compagno di Palestina, il suo luogotenente più devoto. Per ordine di Giering gli telefonò e gli fissò un appuntamento alla stazione della metro Madeleine. Il piccolo Katz vi fu arrestato, condotto in Rue des Saussaies e messo a confronto con Trepper. Questi gli disse: «Katz, bisogna lavorare con questi signori. Il gioco è finito». Perché nel gergo dei

servizi sovietici, lo spionaggio si chiama il «gioco». Poi tradì Vassili; poi venne la volta di Léon Grossvogel, capo di Stato Maggiore della rete. Infaticabile organizzatore, Grossvogel aveva messo a punto tutto un ventaglio di canali che portavano a nascondigli sicuri dove i superstiti avrebbero potuto aspettare la bonaccia. Nei suoi piani aveva omesso un'unica ipotesi di lavoro: la fellonia del suo capo. Un traditore. *** Fortner: Non ho assistito ai primi interrogatori dei Maximovitch, ma so che gli uomini di Giering sono stati molto duri, specialmente Rolf Richter, che era incaricato di Anna. Hanno fatto ricorso a tutti i mezzi per piegarli. Capisce? Un Trepper, ufficiale dell'Armata Rossa, non si poteva rimproverargli di aver lavorato contro di noi: faceva il suo dovere. Ma Maximovitch, figlio di un generale zarista! Gli ho detto: «Come ha potuto lei, un russo “bianco”, aiutare i comunisti?». Mi ha risposto: «Sono stato con i tedeschi fino al giorno in cui ho letto nei giornali che volevano dare l'indipendenza all'Ucraina. Io sono russo, prima di tutto, e un russo non può accettare che si smembri la sua patria». Devo dire che il ragionamento stava in piedi. Non si può dire, invece, che i Maximovitch siano propriamente crollati. Sarebbe eccessivo. Ma, insomma, hanno parlato. Enorme scandalo, naturalmente! In pratica, tutto lo Stato Maggiore tedesco a Parigi era nei guai. E

l'ambasciata! E il Servizio del Lavoro! Può immaginarsi, con le conoscenze che avevano... Giering ha lasciato che fossi io a svolgere l'inchiesta, perché tutto ciò che riguardava la Wehrmacht e l'amministrazione militare rientrava nella giurisdizione dell'Abwehr; le SS non avevano diritto di ficcarci il naso. Ho dunque dato il cambio ai suoi uomini. Della rete propriamente detta Maximovitch ci ha dato in mano Käthe Voelkner. Sapevamo che Raichman riceveva da Parigi dei formulari amministrativi in bianco. Maximovitch ha confessato che erano forniti da un'impiegata dell'Organizzazione Sauckel e non ci ho messo molto a scoprire che si trattava della Voelkner. Non si trovava a Parigi, era andata in ferie a Koenigsberg con il suo capo. Non appena è di ritorno, mi presento al suo ufficio e la trovo in ginocchio, nell'atto di aprire una cassaforte. «La signorina Voelkner?». «Sì. So perché è venuto: ad arrestarmi». «Esatto. Mi dia quella chiave e mi segua». Era bionda, piccolina, ma molto muscolosa, vivacissima. Aggiungerò che il suo capo è rientrato l'indomani e mi ha fatto una scenataccia: «Ma lei è pazzo! Quella ragazza è irreprensibile», eccetera. Io: «Calma, calma, si ritenga fortunato se non arrestiamo anche lei: la sua Voelkner è una spia». È rimasto di sasso. È stato lui a darmi l'indirizzo dell'abitazione dove la ragazza viveva con un italiano di nome Podsialdo. Ci precipitiamo là, ma lui non c'è. Käthe, interrogata su di lui, rifiuta di parlare. Torniamo al suo domicilio e interroghiamo i vicini. Una donna ci dice: «L'italiano? Ma lavora anche lui per i tedeschi!». È così che lo abbiamo scovato in un ufficio dell'Organizzazione Sauckel; dipendeva da un servizio diverso da quello della Voelkner.

Lei era una ragazza della stessa razza di Sophie Poznanska, l'addetta ai cifrari di Rue des Atrébates. Non ci ha detto niente – niente! Ma Podsialdo ci ha raccontato tutto: i viaggi attraverso l'Europa, il soggiorno a Leningrado, eccetera. Un debole, un tipo da quattro soldi, quel Podsialdo. Ci ha detto che la sua amica spesso batteva dei rapporti segreti su una macchina da scrivere nascosta in casa loro e che avremmo perfino trovato la copia di certi rapporti. Ci siamo andati con la Voelkner e, quando abbiamo scoperto la macchina da scrivere, Käthe ha cominciato ad agitarsi e abbiamo dovuto ammanettarla con le braccia dietro la schiena. Lei ha gridato: «Questo non mi disturba affatto!» e op.!, si contorce e riporta le mani davanti a sé. Per forza, un'acrobata... Ci siamo messi tutti a ridere e le abbiamo tolto le manette. Podsialdo ci ha anche confessato che era in contatto con un impiegato del Servizio Alloggi della Wehrmacht a Parigi. Un francese. È stato fucilato, quello, ma il male che era riuscito a farci... Si occupava degli “Jeip-Fahrer” [viaggiatori Jeip]. «Jeip» è una parola formata dalle iniziali della frase «Jeder einmal in Paris» [Ciascuno una volta a Parigi]. In altre parole, si trattava di un servizio incaricato di far visitare la bella Parigi ad ogni soldato tedesco. Una specie di propaganda: teneva alto il morale delle truppe. Noti bene: gli inviti erano individuali; non si potevano richiamare dal fronte intere unità. Il servizio di Parigi veniva dunque avvertito che il soldato X, appartenente alla tale unità, sarebbe arrivato dal tale posto per passare la licenza a Parigi. Comprende che cosa significa? Significa che, grazie a quel piccolo insignificante francese, Trepper era in grado di ricostruire in gran parte l'ordine di battaglia della Wehrmacht. Ah!, signore, questo sì che è spionaggio! Noti che il francese

in questione non aveva il diritto, in via di principio, di consultare gli elenchi; ma si era guadagnato la fiducia dei due sottufficiali responsabili e quelli lo lasciavano fare. I due sono stati condannati a 8 anni di lavori forzati. Non sono stati i soli. Margarete Hoffmann-Scholtz, la fidanzata di Maximovitch, ha avuto 6 anni. E molti ufficiali superiori compromessi con i Maximovitch sono stati condannati a gravi pene. Che storia! Ero andato a trovare il generale Schaumberg, incaricato delle questioni relative alla sicurezza presso il Quartier Generale. Quando mi ebbe ascoltato, era furibondo: «Non guarderò in faccia a nessuno!». Purtroppo, ormai il male era fatto... Si formò perfino una specie di unione sacra, si era capito che bisognava serrare i ranghi. Se Berlino avesse saputo l'intera verità, sarebbe scoppiato il finimondo! Ci siamo messi d'accordo per spedire loro rapporti molto edulcorati, di modo che non hanno mai saputo fino a che punto lo Stato Maggiore di Parigi fosse compromesso...

*** Al domicilio di Käthe Voelkner, Fortner aveva trovato un pappagallo. Lo affidò ad una vicina e ridendo disse: «È suo. Può tenersi questo uccello, visto che l'altro non tornerà più...». Ma il figlio di Käthe, un ragazzo di 14 anni, fu mandato a Berlino in un «asilo del Partito nazista». Non c'era ragione perché, una volta “rieducato”, non diventasse un devoto servitore di coloro che si apprestavano ad uccidere sua madre. ***

Kent crolla. Racconta Margarete: Mi hanno lasciato quattro giorni nella cella della Alexander Platz, prima di condurmi alla sede della Gestapo. Lui era là. Povero caro, ha avuto una terribile scossa: era la prima volta che mi vedeva con gli abiti in disordine, senza trucco, spettinata... E il tipo della Gestapo che era presente al colloquio si è accorto della sua emozione e gli ha detto: «Le propongo un affare: noi la lasciamo con la signora tutto il giorno, ma lei parlerà durante la notte». Vincent ha accettato. Così ho potuto vederlo tutti i giorni. Ma gli altri continuavano ad essere diffidenti: si figuri che ogni volta che ci separavamo, mi controllavano l'interno della bocca per vedere se, baciandomi, Vincent non mi avesse fatto scivolare dentro un messaggio! Anche alla prigione sono diventati più gentili con me. Willy Berg veniva spesso a farmi visita. Ah!, quello, aveva davvero una brutta faccia, un muso proprio da Gestapo! Ma era un pover'uomo, se lo si conosceva meglio, un disgraziato... Aveva perso due figli, portati via dalla difterite. E un giorno me lo vedo entrare nella cella tutto sconvolto. Mi dice: «Ho appena seppellito il mio ultimo figlio». Una bambina di 10 anni. Poi, sua moglie ha tentato di uccidersi. Povero diavolo, faceva pena...

Così, dopo ogni bacio di addio a Margarete – versione modificata del bacio di Giuda –, Kent passa le sue notti a tradire. Conferma alla Gestapo i suoi contatti con Schulze-Boysen e Harnack: è per questo che lo hanno fatto venire a Berlino. Denuncia la presenza di Alfred Corbin a Lipsia. Tali ammissione costitui-

scono unicamente delle conferme, ma sono accolte con interesse nella misura in cui fanno fede del servilismo di Kent. In quegli ultimi giorni del 1942 che consacrano il completo successo del Kommando sull'Orchestra Rossa, i capi della Gestapo già pensano al futuro. Vogliono costruire sulle rovine dell'organizzazione distrutta un capolavoro di controspionaggio offensivo. La sera del 24 novembre, Giering aveva fatto avvertire Adolf Hitler, che conosceva personalmente, della cattura del Gran Capo; il Führer si era degnato di esprimere le sue congratulazioni. Anche Himmel aveva giubilato al telefono sentendo Giering annunciarli, con quella sua voce da ubriacone, la splendida notizia; aveva concluso la conversazione con questo scongiuro dal tono medievale: «... E ora, gettatelo nel sotterraneo più profondo di Parigi e caricatelo di catene, perché non possa evadere!». Naturalmente, è un modo di dire. Il Reichsführer e i suoi accoliti hanno immaginato per il loro prigioniero un ruolo proporzionato alla sua personalità. Non hanno catturato il capo dello spionaggio sovietico in Europa Occidentale per lasciarlo stupidamente ammuffire in fondo ad una cella. Alla fine di dicembre, Kent è informato che verrà trasferito a Parigi. Là, il Gran Capo e il Piccolo Capo, di nuovo associati, saranno gli strumenti del Funkspiel più straordinario che si sia mai visto. Kent accetta. Trepper ha già dato il suo consenso.

XXV. IL SUPPLIZIO

I berlinesi tengono più duro. 118 prigionieri chiusi nelle carceri di Berlino, i più importanti custoditi alla sede della Gestapo in Prinz-Albrechtstrasse. Giovani e vecchi, operai e signore della buona società, militari e studenti, comunisti e reazionari. Un eterogeneo guazzabuglio in cui ogni classe sociale, e perfino ogni tendenza, sembra avere delegato un rappresentante. È un po' come accade nelle grandi retate del tempo di pace, all'alba, quando la polizia chiude alla rinfusa nelle sue reti gli impiegati che si recano al lavoro e gli ultimi nottambuli in frac e abito da sera. Ed è esattamente il contrario della metodica demolizione delle reti sorelle. A Bruxelles e a Parigi, ogni pietra scalzata dalla Gestapo comportava il crollo di un pezzo di muro, ma il resto resisteva. A Berlino, invece, basta che i due pilastri della rete siano abbattuti perché tutto l'edificio crolli. La Gestapo non ha che da classificare le macerie. 118 persone, non 118 agenti. Quanti di loro conoscono l'esistenza delle emittenti, i legami di Trepper e Kent, le centinaia di messaggi che ponevano il soldato tedesco sulla linea di tiro del cannone russo? Cinque al minimo, quindici al massimo. Agenti sono i paracadutisti Erna Eiffler e Wilhelm Fellendorf, lanciati il mese precedente sulla Prussia Orientale e poi bloccati ad Am-

burgo, dove sono stati arrestati assieme a 15 portuali comunisti. Agenti, Albert Hössler e Robert Barth, paracadutati con un'emittente qualche giorno prima dell'arresto di Schulze-Boysen e catturati quando erano appena riusciti a stabilire il collegamento con Mosca. Ma si può dire che il colonnello Gehrts sia una spia consapevole? Politicamente si situa a destra, se non addirittura all'estrema destra. Tenente pilota durante la Prima guerra mondiale, si dedica in seguito al giornalismo e diventa redattore della pubblicazione conservatrice Tägliche Rundschau. Nel 1935 riveste l'uniforme di aviatore, sale i gradini della gerarchia; nel 1942 ottiene il comando del servizio delle missioni speciali della Luftwaffe. Tale carica gli dà accesso alle informazioni più varie e più segrete; in particolare, è a conoscenza in anticipo delle operazioni aviotrasportate sul fronte orientale. Ufficialmente, si limita ad organizzare il trasporto dei paracadutisti, ma in via ufficiosa procura a costoro una morte rapida non appena varcato il portello dell'aereo. Gehrts, benché anticomunista, ha fin dall'inizio considerato la guerra contro la Russia come una follia omicida. Come lui la pensano molti suoi colleghi, che tuttavia non tradiscono. Ma Schulze-Boysen è maestro nell'arte di conquistare gli uomini; sarebbe stato un geniale sergente addetto ai reclutamenti. Gehrts è superstizioso, dedito all'occultismo, adepto dei tarocchi, fanatico della caffeomanzia. Viene messo in contatto con Anna Krause, cartomante. Perché la rete aveva anche una cartomante. Tra la sua clientela, molti ufficiali superiori, funzionari, uomini d'affari. Anna li faceva parlare del presente svelando loro l'avvenire, mescolando allusioni ad un incontro con una donna bruna o bionda e domande sui rispettivi lavori del cliente (riceve-

va un questionario compilato espressamente per ciascuno). Gehrts, caduto in sua balìa, è una spia o uno zimbello? *** Nella maggior parte dei casi, i prigionieri fanno parte della resistenza. C'era stata la notte memorabile del 1941, durante la quale 60 di essi si erano sparsi per le strade di Berlino a incollare sui muri manifesti antinazisti; erano protetti da ufficiali in uniforme, pistola in pugno; Harro Schulze-Boysen dirigeva l'operazione. Operazione che aveva organizzato per replicare all'esposizione di Goebbels intitolata “Il paradiso sovietico”, la quale presentava al pubblico tedesco impressionanti testimonianze sulla miseria del popolo russo. La mattina seguente, i berlinesi avevano letto con stupore la risposta di Schulze-Boysen: «Il popolo nazista: guerra-fame-menzogna-Gestapo. Per quanto tempo ancora?». C'erano i ragazzi che percorrevano le strade di Berlino, al calare della notte, nelle vesti di viaggiatori stanchi, reduci da un lungo viaggio. La loro valigia era così pesante che erano costretti ad arrestarsi spesso e a posarla per riprendere fiato. Quando tornavano a sollevarla, la valigia aveva impresso sull'asfalto uno slogan antinazista. C'erano i redattori, i tipografi e i distributori del foglio bimensile Il Fronte Interno, organo di propaganda destinato soprattutto alla massa degli operai stranieri che lavoravano in Germania; comportava edizioni in tedesco, russo, italiano, polacco, ceco e francese.

C'erano i manifestini antinazisti che venivano depositati nelle cabine telefoniche, sotto i sedili della metropolitana e del tram, o infilati nottetempo nelle cassette delle lettere. C'erano gli opuscoli lungamente meditati e stampati alla macchia che venivano spediti a coloro che facevano parte del sistema nazista, pur senza accettarne sempre l'ideologia, e che erano ritenuti accessibili al ragionamento: “La nascita del Partito nazista”, “Chi ha reso inevitabile la guerra?”, “Appello alla resistenza”, “Perché la guerra è persa”. Il migliore di tali testi, “Napoleone Bonaparte”, descriveva le prove della Wehrmacht in Russia e ne annunciava la sorte futura mediante citazioni prese a prestito dalle opere di storia sulla disfatta della Grande Armée. E, ancora, c'erano i canali di evasione verso la Svizzera e la Svezia per gli ebrei, gli evasi dai campi di concentramento, i perseguitati dal regime. C'era, infine, il progetto di una campagna di sabotaggio su scala nazionale, di cui si stavano portando a termine i preparativi quando la Gestapo colpì. Tanto di cappello a questi coraggiosi, ma che pazzia, tutto ciò! Harro Schulze-Boysen, una delle tre o quattro “fonti”-chiave dello spionaggio sovietico, che si infila la sua bella divisa e se ne va, pistola in pugno, a proteggere i suoi ragazzini mentre incollano ai muri manifesti che la polizia avrà già strappato cinque ore dopo! E redige manifestini! E corregge le bozze del Fronte Interno. Lui, che equivale per lo Stato Maggiore russo al sostegno di parecchie divisioni, si pone alla mercé di una ronda di polizia, delle confessioni di un distributore di volantini, del tradimento di un lavoratore straniero – dopotutto, molti sono venuti a lavorare per il Reich spontaneamente. Qualcuno lo mette in guardia.

Harnack, prudente e segreto, lo scongiura di smetterla con quelle follie, ma lui si ostina. Hugo Buschmann, che pure non è un professionista dello spionaggio, ma che possiede buon senso: Dicevo ad Harro che bisognava separare la propaganda e l'importantissimo lavoro relativo alle emissioni clandestine. L'esperienza dimostrava che una simile propaganda finisce sempre con l'essere scoperta. Sarebbe stato comunque terribile compromettere in tal modo compiti molto più importanti. Harro prometteva, Harro non era mai capace di mantenere la promessa. Continuò le due cose fino alla fine1.

Era il suo divorante bisogno di agire che lo gettava in tutte le imprese e gli impediva di rifiutarne qualcuna, anche se di ordine secondario? Oppure, quella roccia che era Schulze-Boysen aveva in fin dei conti qualche debolezza umana? Forse, per compiere la sua terribile missione, aveva bisogno di sentirsi attorniato dalla generosità, dall'entusiasmo, dalla purezza di coloro che rischiavano la vita in cambio di risultati mediocri; lui, che martellava con tanta ferocia il volto odioso che scopriva alla sua patria, aveva forse bisogno di quelle povere testimonianze – un manifestino, un opuscolo – per dimostrare a se stesso che contribuiva a foggiarle un nuovo volto... ***

1 H. Buschmann, op. cit., p. 274.

Presi nella rete con i veri agenti e i veri membri della resistenza, coloro che facevano venire i brividi a Ille, la compagna di Ernst von Salomon: Si appoggiano con negligenza alla mensola di un caminetto, con in mano una tazza di tè, e ti racconta incidentalmente certe cose... certe cose! Ogni frase può costare loro la testa!

Alcuni sono chiusi in cella. Molti (400 o 500) sono disturbati, interrogati; sono seduti su uno sgabello di nudo legno, non hanno più in mano tazze di tè e non raccontano granché, dato che ignorano quasi tutto, se non che Schulze-Boysen urlava il suo odio per i nazisti in occasione di ogni cena in compagnia – ma questo, lo sapevano mille o duemila berlinesi... Scrive Buschmann: Volevo indurre Harro alla prudenza. Era spaventosamente imprudente. A quel tempo, andava di moda nell'alta società berlinese raccontare quelle che venivano definite “barzellette politiche”. Harro non poteva certo esimersi. Se ne stava lì seduto nella sua uniforme da aviatore, decorato con la Croce di ferro, e aveva un gran successo quando raccontava cose pazzesche sul Ministero, sui teatri di operazione, sulle esecuzioni di prigionieri e così via. Tutte quelle dame eleganti e quei signori pettegoli cicalavano fino all'alba; ma le donne non dimenticavano di parlare di quel brillante ufficiale che per tutte loro era un dio. Non sapevano fino a che punto era pericoloso avere rapporti con lui2.

2 H. Buschmann, op. cit., p. 272.

E lui con loro, di conseguenza! *** Ma che faceva la Gestapo? Si riesce a capire l'ingresso di Schulze-Boysen, notorio oppositore del regime, all'“Istituto di Ricerche”: era raccomandato dal Maresciallo del Reich Goering. Inoltre, sarebbe errato credere che i nazisti si siano insediati al potere e vi si siano rafforzati con il terrore come unica arma: erano così certi di avere ragione, avevano una così viva consapevolezza del proprio dinamismo e del proprio entusiasmo, che credevano di poter guadagnare alla loro causa, prima o poi, anche gli avversari più accaniti. E l'esperienza li giustificò: per qualche migliaio di irriducibili chiusi alla fine nei campi di concentramento, quante decine di migliaia si strapparono il distintivo del loro partito e inalberarono la croce uncinata? Infine, stando al dottor Meyer, alto funzionario del Terzo Reich, occorre tenere conto di una particolarità tedesca: la fiducia nel prossimo, l'incapacità di prevedere la perfidia. Dall'istante in cui Schulze-Boysen rivestì l'uniforme di ufficiale della Luftwaffe, divenne insospettabile. Non si sospetta di un ufficiale tedesco. Non si può in pari tempo essere un traditore e indossare l'uniforme tedesca.

Ammettiamo pure che le incontinenze verbali di Harro e dei suoi amici siano state giudicate trascurabili dalla Gestapo. In tutti i paesi, sotto tutti i regimi, i salotti fanno la fronda. Dappertutto, dame eleganti e signori pettegoli cicalano fino all'alba

prendendo in giro i dirigenti con i quali hanno cenato altrove. Del resto, sempre secondo Meyer: Oggi si esagera il carattere totalitario del regime e l'efficienza della Gestapo. Esagerazione del tutto normale, dal momento che tutti sono interessati, soprattutto in Germania, a pretendere di avere sofferto per colpa del nazismo. Ciascuno fa come se fosse vissuto per 12 anni in attesa che, da un momento all'altro, la Gestapo suonasse il campanello. Non è vero. A Berlino, in particolare, regnava un liberalismo piuttosto notevole. Le battute a spese del regime, le conversazioni a ruota libera, le riunioni del tipo delle famose “serate 14 punti” – be', nei circoli dirigenti, quel genere di libertà era piuttosto diffuso.

E sia, ammettiamolo, anche se gli scherzi di uno SchulzeBoysen, «cui tremava la mascella di odio quando entravano in ballo i nazisti», devono aver superato largamente i limiti consentiti nei salotti berlinesi («Caro, lo sapeva che Ley, il ministro del Lavoro, ha soppresso la “v” che c'era una volta nel suo nome, tra la “e” e la “y”?»)... Ma i 60 attacchini sguinzagliati per le strade di Berlino, l'edizione in sei lingue del Fronte Interno, le migliaia di volantini sparsi per la città, gli opuscoli diffusi a bizzeffe: a quante donne e uomini gettati in carcere equivale tutto questo? Sarebbe bastata la confessione di uno solo per far risalire la polizia alla rete, una rete male impostata, e fare scoprire il nucleo centrale di agenti in contatto con Mosca. Ah! Non si abbia paura delle parole: è prodigioso, stupefacente, che la Gestapo sia rimasta cieca! È una cosa che non si spie-

ga. Ci si scontra con l'irrazionale, da cui la tentazione di invocare il soprannaturale. Così dice Rémy, la cui rete pure era una meraviglia tecnica in confronto a quella di Schulze-Boysen, ma il quale sa benissimo che normalmente avrebbe dovuto essere preso: Perché sono stato protetto, mentre altri soccombevano? Probabilmente, perché la missione che mi era stata affidata, e che andava ben oltre la mia modesta persona, doveva essere portata a termine con successo. Non vedo altra ragione. Solo, disarmato, privo di esperienza, avevo paura, sempre paura. Se ho tenuto duro, se sono stato soccorso, è perché ho pregato, riponendo tutta la mia fiducia in Colei che non ha cessato di prodigarmi la sua benevolenza e sotto la cui egida avevo posto la mia rete3.

È probabile che Schulze-Boysen e Harnack non avrebbero ammesso la Madonna nel loro dispositivo di protezione, ma è certo che la loro lunga impunità, al pari della sopravvivenza di Rémy – e di tanti altri! –, suggerisce l'ipotesi che lo spionaggio non sia una scienza esatta e che la sorte del migliore agente, come quella del peggiore, in definitiva riposa sulle ginocchia degli dèi. A che servono le scuole? *** A impedire, per esempio, il crollo della rete tedesca, caduta per colpa di un funzionario del Centro che non sapeva il suo mestiere. Se l'agente è un funambolo abbandonato ai capricci del 3 Rémy, op. cit., vol. 1, p. 329.

destino, ragione di più per serrare accuratamente le viti che trattengono il suo filo alle pertiche! E sono cose che si imparano. Non si abbia paura delle parole: è scandaloso, ripugnante, che il Direttore dei servizi sovietici abbia infilato tranquillamente in un telegramma i tre indirizzi fatidici e che Schulze-Boysen e i suoi, per tanto tempo protetti per qualche inspiegabile grazie contro i padroni di Berlino, siano stati alla fine vittime dell'incapacità dei capi di Mosca. Perché la Prinz-Albrechtstrasse li scoprisse, fu necessario che la Via Znamenski – il Centro – glieli additasse. «Stalin, Stalin è stato il solo colpevole!», scrisse il maresciallo Eremenko a proposito dei primi disastri militari russi. Il Direttore potrebbe dire altrettanto della catastrofe berlinese. La cecità politica del dittatore ha impedito ai servizi sovietici di installare in Germania un'organizzazione coerente. E, dopo l'inizio dell'“Operazione Barbarossa”, il Centro è stato preso, come tutti, nel vortice del “si salvi chi può”. Il telegramma a Kent è del 10 ottobre. Qualche giorno più tardi, il 19 ottobre, ogni collegamento radio tra la centrale moscovita e le decine di emittenti sovietiche sparse per il mondo veniva interrotto; certi pianisti che quella notte ricevevano istruzioni da Mosca, persero il contatto nel bel mezzo di un gruppo cifrato; lo avrebbero ritrovato soltanto 6 settimane dopo – il tecnico moscovita riprese, senza fornire spiegazioni, il gruppo cifrato dove lo aveva lasciato. La spiegazione risiede nel fatto che i carri armati tedeschi avanzavano su Mosca ed era stato impartito l'ordine di trasferire la centrale a Kuybuscev. L'ordine di partenza era stato dato con 12 ore di preavviso agli ufficiali superiori e senza preavviso alcuno ai subalterni. Quando il cervello si smarrisce a tale punto, c'è da stupirsi se le membra perdono ogni coordinazione?

Ma Kent aveva già avuto un contatto con il gruppo berlinese nell'aprile del 1941, in occasione del viaggio a Lipsia. Prima dell'inizio di “Barbarossa”. Il Direttore aveva avuto modo di organizzare un appuntamento conforme alle norme di sicurezza, con tanto di segno di riconoscimento e parola d'ordine. Perché non avere colto l'occasione per instaurare un sistema di comunicazione tra gli esperti di Bruxelles e i dilettanti di Berlino? Ecco l'errore! Certo, c'era un rischio: collegando le due reti, si rischiava che la scoperta dell'una portasse a quella dell'altra. Ma non mancano le astuzie tecniche atte a permettere la possibilità di moltiplicare le paratie stagne (“cassette delle lettere”, vive o morte; “interruzione del circuito”, eccetera). Un dispositivo chiuso avrebbe garantito la sicurezza. Poi, naturalmente, non c'era più tempo. Tutti i tecnici dello spionaggio che abbiamo interrogato ammettono, senza battere ciglio, il telegramma del Direttore: al diavolo le norme di sicurezza quando i carri tedeschi sono in vista del Cremlino. Che importa la morte della rete berlinese, se il suo sacrificio contribuisce a salvare Mosca. La ricchezza dello spionaggio sovietico, del resto, lo autorizza a simili meditate ecatombi: Schulze-Boysen ed i suoi saranno presto rimpiazzati. Sicché, sono stati sacrificati. Proprio come la retroguardia che un generale abbandona al nemico per salvare il grosso dell'esercito. È un gesto razionale. E lo avrebbero probabilmente ammesso anche loro. E tuttavia, la loro sorte continua a scandalizzarci, mentre quella del fantaccino sacrificato si limita a commuoverci. Il fatto è che un soldato mette a repentaglio solo la propria vita, e si sa – e lo sa anche lui – che diventa carne da cannone non appena indossa l'uniforme. L'agente rischia qualco-

sa di più della morte: la tortura; e qualcosa di più che atroci sofferenze: rischia di tradire i suoi compagni, la donna che ama, perfino i figli, e di perdere ciò che per semplificare definiremo la sua anima. *** Tengono duro. I commissari Koppkow e Panzinger dosano la sofferenza in base a criteri gerarchici. Sul gradino più basso della scala i “rivoluzionari da salotto”. Conformemente alle loro abitudini, chiacchierano senza freno. Sì, a volte ascoltavano la radio inglese; sì, è capitato che si siano fatti gioco del dottor Ley, quel bonario ubriacone, del piccolo Goebbels e delle sue amanti, e perfino – sì, perfino del Führer. Ma non hanno mai fatto parte di una rete. Non si immaginano neppure che una simile cosa potesse esistere a Berlino. Giurano che non erano agenti. Ed è vero: erano semplicemente “fonti”. I segreti che tradivano per brillare in società, come potevano sospettare che fossero trasmessi a Mosca? Saranno puniti per le loro chiacchiere, così come saranno puniti i capi e i colleghi di Schulze-Boysen e di Harnack, colpevoli di avere permesso a quei due di ficcare il naso in faccende che non erano di loro competenza. Allora, bisognava diffidare del protetto di Goering? E di Harnack, funzionario modello, incarnazione della coscienza professionale? Immenso stupore... Per i membri della resistenza, la lampada che acceca, l'ufficio surriscaldato dopo la cella gelida, le manette strette fino a lacerare le carni, gli interrogatori senza fine con l'interludio di una scarica di botte. Qualcuno crolla; la maggior parte tiene duro e

lotta ferocemente per la vita. Come Günther Weisenborn, noto autore drammatico, entrato per ordine di Schulze-Boysen alla radio tedesca, dove partecipava alle riunioni segrete. Grazie a lui, i discorsi di Stalin, di Churchill e di Roosevelt, ovviamente censurati dai nazisti, venivano diffusi per mezzo di manifestini tra la popolazione tedesca. Nega tutto. Poi viene a sapere che una donna lo ha tradito parlando con Panzinger. Continua ad avere fiducia: la legge tedesca esige due deposizioni a carico per ottenere una condanna. Ma lo scultore Kurt Schumacher incrimina a sua volta Weisenborn. Il quale ne viene a conoscenza nel corso di un interrogatorio. Di ritorno nella sua cella, lacera il lenzuolo e nasconde una striscia di tessuto; è pronto al suicidio. Kurt Schumacher è incarcerato nella cella accanto. Tra i due, un muro di un metro di spessore. Weisenborn prende una matita e batte sul muro: un colpo per “a”, due colpi per “b”, tre colpi per “c”, eccetera. Lo scultore risponde con un martellio incoerente. Non capisce. Weisenborn si accanisce tutta la notte, un occhio allo spioncino, il cuore stretto dal timore di vedere apparire un guardiano. All'alba, spossato, disperato, si getta sul giaciglio: Schumacher continua a non capire. La seconda sera ricomincia. All'improvviso, dall'altra parte del muro, i colpi si organizzano, assumono un ritmo. Weisenborn traduce: «Capito». Sorpreso, comunica a Schumacher: «Deve ritrattare la posizione. Seconda deposizione contro di me. Significa pena di morte». «Non sapevo. Ritratterò».

Weisenborn ignora se basterà, se la legalità sarà rispettata, ma ritiene che occorra sempre battersi fino in fondo4. *** Per i membri della rete di spionaggio, la tortura – quella vera. Heinrich Kummerov, sopraffatto dalla sofferenza, ingoia il vetro sbriciolato degli occhiali; si salva. Si apre le vene; lo curano in tempo. Con l'aiuto di un filo, si apre le carni tra le dita dei piedi e scava profonde piaghe che fa del suo meglio per infettare; lo salvano dalla cancrena. Era stato uno dei migliori ingegneri della “Loewe-Opta-Radio”, la ditta dalla quale erano usciti parecchi radiogoniometri ingegnosamente sabotati. All'attivo di Kummerov, tra le altre informazioni di importanza capitale: i piani di un sistema di guida per caccia notturni e quelli di una nuova bomba iconoscopica. Walter Husemann, meccanico aggiustatore, balza verso una finestra aperta e tenta di trascinare nella caduta la SS Panzinger; lo acciuffano appena in tempo. A Husemann erano stati concessi due minuti di tempo per rivelare i nomi due nomi. Johann Sieg e Herbert Grasse riescono a uccidersi. Per Frieda Wesolek, la canna di una rivoltella puntata alla nuca del suo bambino. Il corpo crudelmente ustionato dai raggi ultravioletti, Schulze-Boysen e Harnack non parlano. Davanti allo scacco della scienza, si fa appello all'arsenale dei supplizi medievali. Il dizio4 L'episodio è riferito da E.H. Boehm nel suo libro We Survived, Yale University Press, 1949.

nario Littré dà la seguente definizione degli “stivaletti”: «Nome di una specie di tortura, in cui le gambe del criminale venivano serrate tra due pezzi di legno, con dei cunei, sui quali si batteva per aumentare la pressione». La Gestapo modernizza il procedimento, sostituendo i cunei con viti; ne migliora anche l'efficienza, applicandoli agli avambracci oltre che alle gambe. I due suppliziati urlarono certamente il loro dolore, ma non parlarono. A Libertas, Schulze-Boysen fu promesso che avrebbe avuto salva la vita se avesse confessato. Disse tutto, e sapeva quasi tutto. Il poco che dimenticò di dire a Koppkow, lo confidò a Gertrude Breiter, che divideva la cella con lei e che in effetti era un'informatrice della Gestapo. Libertas si spinse al punto di consegnarle lettere compromettenti per molte persone, avendole l'altra assicurato che aveva modo di farle uscire dal carcere; le missive andarono ad ingrossare il fascicolo della polizia. Tanto bella che era stato vietato di interrogarla a quattr'occhi, avventurosa e anche un tantino pazza, Libertas era troppo evidentemente fatta per cogliere le rose della vita; si lacerò al contatto delle spine. Il pastore Poelchau, cappellano della prigione, scriverà di lei: «Era una donna senza volontà, molto incoerente, priva di senso critico e influenzabilissima»5. Aveva sempre avuto il presentimento che sarebbe uscita indenne dall'avventura; quando venne il momento della prova, sfruttò tutti i mezzi per riuscirci. A dire il vero, Panzinger e Koppkow potevano tranquillamente fare a meno di confessioni. Davanti alle macerie della rete, non furono mai come gli egittologi di un tempo davanti ai loro misteriosi geroglifici. Nonostante certe occasionali ingegnosità (il reclutamento di un Gollnow, per esempio, e le inserzioni 5 H. Poelchau, Die Lletzten Stunden, Magdeburgo, 1949.

nel giornale che richiamano la tecnica usata da Trepper a Bruxelles per mettere in contatto Alamo e Grossvogel), la rete berlinese restava pur sempre l'organizzazione di cui uno dei capi aveva per pseudonimo il proprio nome, “Arvid” – e così firmava i telegrammi, proprio come nella rete di Rémy il signor Louis si chiamava allegramente “Joe”; il signor Petit, “Poucet”; il signor Colas, “Nick”; e il signor Bernard, “L'Hermite”. Harro SchulzeBoysen restò muto sotto la tortura, ma aveva chiacchierato molto per telefono prima dell'arresto, e il suo apparecchio era sotto controllo... *** Alexander Kraell, magistrato tedesco: La scoperta di una rete di spionaggio quale era lungi dall'avere mai visto, e in cui avevano una parte predominante funzionari appartenenti ai diversi Ministeri, scoppiò come una bomba. Hitler pretese una punizione rapida e severa6.

Il Führer esige altresì il segreto assoluto. Il caso è classificato come “segreto di Stato”. Il semplice fatto di parlarne è passibile della pena di morte. Secondo uno dei capi della Gestapo, Non potevamo permetterci il lusso di dare pubblicità ad una simile storia. Gli accusati non erano né ebrei, né cit-

6 Deposizione di Alexander Kraell in occasione dell'istruttoria aperta a carico di Manfred Roeder nel 1948.

tadini di bassa estrazione, né dei falliti. Al contrario, si trattava del fior fiore della società tedesca7.

Nessun accenno alla radio o nei giornali. I colleghi di Schulze-Boysen credono che sia stato mandato in missione all'estero. Il Ministero dell'Economia continua a spedire lo stipendio ad Harnack e il ministro Funk apprenderà solo all'ultimo momento il tradimento del suo collaboratore. Ma Funk non doveva essere provvisto di antenne particolarmente sensibili, dato che la notizia finisce naturalmente per filtrare; la si mormora all'orecchio, e perfino Ulrich von Hassel, illustre membro della Resistenza, annota nel suo Diario: «Una vasta cospirazione comunista è stata scoperta al Ministero dell'Aria e in altri dipartimenti. Apparentemente, si tratta di fanatici (per odio del regime); pretendono di avere voluto creare un'organizzazione “di ricambio” nell'eventualità di una vittoria del bolscevismo» 8; nei salotti, nelle anticamere dei Ministeri, nei corridoi dei quartier generali, si parla dell'ascesso il cui subitaneo fetore appesta il Terzo Reich; ciascuno sostiene di sapere tutto; quello che non si sa, lo si inventa; la faccenda si trasforma in mito e i sospetti non hanno più limiti – è il prezzo del segreto quando non è assoluto; Berlino freme di orrore e già di spavento, perché laggiù, sulle rive del Volga, a Stalingrado... Come non instaurare un rapporto di causa-effetto tra il veleno berlinese e la paralisi mortale che attanaglia la Wehrmacht? Ci si ripete la fredda valutazione dell'ammiraglio Canaris, capo dell'Abwehr: «Quella rete è costata alla Germania la vita di 200.000 soldati». Senza parlare delle conseguenze strategiche. 7 G. Weisenborn, Der lautlose Aufstand, Amburgo, 1953. 8 U. von Hassel, D'une autre Allemagne, Éditions de la Baconnière, 1948, p. 263.

Una punizione spietata e rapida: è la volontà del Führer e sarebbe probabilmente anche nei voti del popolo, se il popolo sapesse. Ma le grandi belve naziste sono meno frettolose, se non meno severe. Girano attorno al gregge prigioniero; contano con occhio acuto le pecore nere che recano il marcio del concorrente, e in pari tempo si sforzano di imbiancare le proprie. Goering è il più compromesso; parecchi ufficiali della Luftwaffe facevano parte della rete; Schulze-Boysen ne era il capo. Fiutando il pericolo, il Maresciallo del Reich reagisce con vigore. Più tardi, quando scriverà le sue Memorie nella cella di Norimberga, Ribbentrop sceglierà proprio questo episodio per illustrare il tono dei suoi rapporti con Goering: Quando ero in compagnia del Führer e di Goering, quest'ultimo si accaparrava l'attenzione di Hitler e io neppure esistevo; ne soffriva, a causa delle incidenze che ciò aveva in materia di politica estera. Goering sapeva sfruttare magnificamente la sua influenza su Hitler. Mi ricordo una scena tipica, che si svolse al castello di Klesheim; desideroso di mettere Hitler al corrente “con cautela” del caso di spionaggio noto con il nome di “Orchestra Rossa”, in cui si erano trovati coinvolti parecchi ufficiali della Luftwaffe, Goering ne addossò la responsabilità ad un innocente funzionario del Ministero degli Esteri. Hitler, che non aveva simpatia per il personale della Wilhelmstrasse, si schierò, come al solito, dalla parte di Goering; per ristabilire la verità dovetti protestare con veemenza9.

9 J. von Ribbentrop, De Londres à Moscou, Grasset, p. 41.

Una punizione rapida. Hitler dispera di ottenerla per i normali tramiti della procedura, che prevede una corte marziale composta di ufficiali superiori. Un “Tribunale del Popolo”, invece, sistemerebbe celermente gli imputati. Ogni giorno, ogni ora di vita in più accordati ai prigionieri, sono giudicati dal Führer come un'offesa personale. Vuole farla finita. La Gestapo si preoccupa di quella fretta teme un precedente. Se si fa l'abitudine a strapparle di mano i prigionieri prima che ne abbia tratto profitto, non sarà più possibile lavorare. E poi, non tutte le reti di spionaggio e di resistenza si riveleranno forse altrettanto facili da smantellare della sezione berlinese dell'Orchestra Rossa. Himmler, dal canto suo, vorrebbe poter mandare al macello qualche pecora nera in più – possibilmente di quelle con il marchio del Ministero degli Esteri Ribbentrop, suo odiato rivale. In tal modo, resterebbe l'unico dei “bonzi” nazisti, oltre a Martin Bormann, a non avere parte alcuna nello scandalo. Ha un abboccamento con Goering, la cui influenza su Hitler permane possente. Sprofondato fino al collo nel fango, il grasso Maresciallo ha, più di chiunque altro, interesse a infangare i suoi colleghi. Himmler gli svela le prospettive offerte dal caso Ilse Stöbe. Persuaso, Goering stringe d'assedio il Führer. La sua testardaggine trionfa: gli accusati dell'Orchestra Rossa saranno giudicati da una corte marziale della Luftwaffe e non da un “tribunale del popolo”. Ciò darà qualche mese di respiro alla Gestapo e le consentirà di sfruttare la pista Stöbe. ***

Ilse Stöbe, alias “Alta”; funzionaria del Servizio Informazioni del Ministero degli Esteri e angelo custode, per conto di Mosca, del consigliere di ambasciata Rudolf von Scheliha. Ilse è una giovane comunista convinta e senza misteri. Dal punto di vista estetico, ciò sciupa un po' la coppia, perché una volgare Mata-Hari sarebbe stata più nello stile di Scheliha, anche lui un brav'uomo senza complicazioni – ma che sensazione di riposo, dopo tutti quei berlinesi dalle motivazioni confuse, dal comportamento strano ed elusivo all'analisi, che sensazione di riposo dà una spia che tradisce semplicemente per amore delle donne, dei cavalli e del gioco... Lo stipendio di Schleliha e la dote di sua moglie sarebbero bastati, a rigor di termini, al mantenimento dell'harem e della scuderia, ma li baccarà fu causa della sua rovina. Nel 1937, si dice, accarezzava l'idea di farsi saltare le cervella, unica soluzione che si convenisse al nobile rampollo di un'antica famiglia della Slesia, quando le anime buone dell'Intelligence Service e del Centro intervennero miracolosamente a pagargli i debiti di gioco e a sottrarlo al trapasso. Ignoriamo i particolari della sua successiva attività per conto di Londra. A Mosca, il Direttore si permise di fare dell'ironia e gli affibbiò lo pseudonimo di “l'Ariano”, che divenne subito famoso tra i cassieri del Centro per l'enormità delle somme che gli venivano corrisposte. I servizi sovietici sono parsimoniosi e preferiscono gli uomini di fede agli uomini di denaro. Ma Schleliha era a quel tempo consigliere di ambasciata a Varsavia, dove era in gioco una partita diplomatica di importanza cruciale. Schleliha fornì informazioni in merito ai tentativi tedeschi di attrarre la Polonia nella coalizione antisovietica. I suoi rapporti gli furono pagati 6.500 dollari, dirottati dalla Chase Na-

tional Bank di New York, via Crédit Lyonnais, sul conto a lui intestato presso la banca di Zurigo Julius Bär. Alla vigilia della guerra, Scheliha fu richiamato a Berlino, ma continuò a stupire i cassieri moscoviti. Nel febbraio del 1941 gli fecero pervenire la somma di 30.000 marchi. L'ambasciata sovietica rimise il malloppo a Ilse Stöbe, che a sua volta le trasmetteva i rapporti di Scheliha. Quattro mesi dopo, “Barbarossa” rispediva i diplomatici russi a casa loro e costringeva il Direttore a trovare un nuovo sistema di comunicazione. Fece ricorso a Kent. Il 28 agosto 1941, sei settimane prima del famoso telegramma contenente i tre indirizzi, Kent riceveva un messaggio in cui gli si ordinava di mettersi in contatto con “Alta”, abitante al numero 37 di Wielandstrasse a Berlino, e di procurarle un collegamento radio indipendente dal gruppo Schulze-Boysen. Quando il Direttore impartì questo ordine, i mezzi corazzati tedeschi non manovravano sotto le mura di Mosca: ne distavano ancora 500 chilometri e, del resto, si spingevano a sud, verso le pianure dell'Ucraina. E tuttavia, l'indirizzo di Ilse Stöbe figurava in chiare lettere nel telegramma, di modo che, se il Direttore fu forse quel personaggio angosciato di cui abbiamo parlato e che, con l'acqua alla gola, si decide a sacrificare un pugno di agenti per salvare la patria, è del pari possibile che sia stato un placido travet che credeva con fede da carbonaro all'ermetismo dei propri codici. I berlinesi, anziché essere sacrificati a impellenti necessità superiori, sarebbero in tal caso state vittime della sua presunzione, ciò che sarebbe ancora più amaro. Un solo uomo basta a Kent per sistemare le faccende Schulze-Boysen-Harnack e Stöbe-Scheliha. Ci si ricordi che presentò al pianista dilettante di Schulze-Boysen uno specialista in fatto

di trasmissioni, da cui il dilettante prese qualche utile lezione. Si tratta di Kurt Schulze, ex-radiotelegrafista della Marina. Kent gli affidò un codice e lo presentò a Ilse Stöbe, con l'ordine di trasmettere da qual momento in poi tutti i rapporti di Scheliha. Il telegramma contenente l'indirizzo di “Alta” fu decifrato al pari dell'altro. Il 12 settembre 1942, Ilse Stöbe raggiunge i compagni in prigione. Rifiuta di confessare, nonostante il testo del telegramma che la incrimina. Continuano ad interrogarla. Ma non è solo nella speranza di ottenerne la confessione che Himmler e Goering vogliono guadagnare tempo: sperano molto di più, grazie all'intercettazione di un altro messaggio. Sì, pare confermato che il Direttore decisamente credeva di aver scoperto la meraviglia delle meraviglie, il codice indecifrabile. Lo credono tutti, un giorno o l'altro, e già questo basterebbe a meritare loro l'inferno se non vi fossero già destinati. Cinici come nessun altro, apprenderebbero senza battere ciglio che sono stati traditi dal padre e dalla madre, e che il loro figlio prediletto è un agente manovrato dal nemico; ma, ingenui come nessun altro, vanno in estasi davanti ai capolavori prodotti dal loro servizio cifrari, pronti ad essere sinceramente desolati quando l'esperienza conferma, una volta di più, che altri matematici sono in grado di disfare ciò che i loro matematici hanno fatto. All'inizio di settembre, la stazione di ascolto tedesca di Praga intercetta e decifra il seguente telegramma indirizzato dal Direttore ad una rete di resistenza cecoslovacca: «Avvertire “Alta” Berlino-Charlottenburg, Wielandstrasse 37, prossimo arrivo di Köster». Una donna della Gestapo si insedia nell'appartamento di Ilse Stöbe. Due poliziotti si pongono di fazione in una stanza dello

stabile di fronte. È pronta la trappola in cui dovrà cadere “Köster” e che, forse, permetterà di coinvolgere il Ministero degli Esteri nello scandalo dell'Orchestra Rossa. Ma un rombo di tuono impietrisce improvvisamente le grandi belve naziste, tutte prese a tendersi agguati a vicenda, e le rende di colpo solidali: l'affare dei documenti di Stoccolma.

XXVI. L'ULTIMA BATTAGLIA DI SCHULZE-BOYSEN

Il 30 settembre, il capitano di vascello Eric Schulze, giunto dall'Olanda, entra alla sede della Gestapo, in Prinz-Albrechtstrasse, per incontrarsi con il figlio, Harro Schulze-Boysen. I genitori degli altri prigionieri avevano sollecitato un'autorizzazione similare, ma le loro richieste erano state respinte senza pieta; lo furono fino all'ultimo giorno. Gli imputati erano segregati. Tranne il loro capo, che ora riceveva la visita del padre. Secondo la nera leggenda che ha corso, oggi ancora, tra gli ex-membri dell'Abwehr e della Gestapo, Eric Schulze, ardente patriota, sfoderò la pistola non appena si trovò di fronte al figlio e tentò di ammazzarlo; fu necessario ricorrere alla forza per impedirglielo. Ecco il suo racconto: Il commissario Koppkow, collaboratore di Panzinger, mi conduce al primo piano dello stabile, in un locale che ha l'aria di non essere occupato abitualmente. In un angolo, una scrivania nuda, un divano contro la parete, due poltrone ed un tavolino. Aspetto da solo un paio di minuti. Si apre un uscio mimetizzato nella tappezzeria e ne fa il suo ingresso Harro, accompagnato da Koppkow e da un altro commissario. Avanza con passo pesante, come se avesse perso l'abitudine di camminare, ma con il busto

eretto, le mani dietro la schiena, tanto che ho creduto che fosse ammanettato, cosa che non era. Il volto è cereo, tremendamente smagrito, gli occhi cerchiati. A parte ciò, dà quasi l'impressione di un uomo curato, come se fosse stato preparato in vista dell'appuntamento. Indossa un completo grigio e una camicia azzurra. Gli prendo la mano, lo dirigo verso una delle poltrone e mi siedo nell'altra che avvicino alla sua. Gli prendo di nuovo le due mani che stringe nelle mie per tutta la durata del colloquio. La pressione delle nostre mani è come un lungo dialogo intimo tra noi due. I due commissari si siedono dietro la scrivania e ci sorvegliano. Uno di essi sembra redigere un verbale. Dico ad Harro che sono venuto da lui traboccante di sentimenti paterni, per aiutarlo, per combattere per lui, per sentirmi dire da lui in che modo potrei aiutarlo e perché era stato arrestato. In pari tempo, gli porto i saluti di sua madre, pure lei a Berlino, e di suo fratello. Non hanno permesso loro di venirlo a trovare. Mi risponde calmo, ma in tono fermo: è impossibile aiutarlo, sarebbe una battaglia disperata. Da anni tradisce il suo paese in piena cognizione di causa. Vale a dire che ha combattuto il regime attuale come poteva, dove poteva. È perfettamente cosciente delle conseguenze e del tutto pronto a subirle. Uno dei commissari – che fino a quel momento sono rimasti muti – fa una domanda riguardante una faccenda di cui Panzinger mi ha già parlato e che, a quanto pare, procura gravi preoccupazioni alla Gestapo: certi indizi fanno loro pensare che Harro avrebbe trasmesso all'estero, prima dell'arresto, documenti segreti di estrema importanza – probabilmente si tratta di rivelazioni concernenti i crimini dei nazisti – con il probabile scopo, o addi-

rittura nella certezza, di procurare a se stesso e ai suoi amici una specie di garanzia nel caso in cui fossero scoperti. Fino a questo momento, Harro si è rifiutato di fornire la minima indicazione in merito, ma forse ora sarebbe disposto a parlarne1.

*** Ecco la trappola. Dacché Schulze-Boysen ha fatto capire di aver trasmesso a certi amici a Stoccolma alcuni incartamenti segretissimi e molto compromettenti, nei dirigenti nazisti regna quello che si può definire “panico”. Sul loro capo è sospesa non una spada di Damocle, bensì una sorta di ripugnante tinozza colma di fango, di sangue e di escrementi: i loro crimini, le torture, le esecuzioni di massa, i campi di sterminio. Dipende da SchulzeBoysen se quello sterco si riverserà su di lui, insudicando volti che, certo, non sono considerati angelici da nessuno, ma di cui il mondo non sa ancora, in quel 1942, fino a che punto siano nauseabondi. Loro lo sanno. E hanno paura. «Mi basterebbe premere un bottone», ha minacciato Harro. I documenti verrebbero trasmessi a Londra o a Mosca, non si sa. Se ne ignora perfino il contenuto, il che lascia supporre tutto. Come al solito, il primo strumento è il terrore fisico. Goering ordina alla Gestapo di ricorrere a «tutti i mezzi per costringere Schulze-Boysen a svelare i fatti». Himmler firma un'autorizzazione ufficiale di un «interrogatorio duro». Ciò significa, nel gergo giudiziario nazista, che si può frustare il prigioniero. Il supplizio riservato a Schulze-Boysen fu annotato regolarmente nel verba1 Lettera indirizzata da Eric Schulze al settimanale tedesco Stern in seguito alla pubblicazione, nel giugno 1951, di una serie di articoli dedicati all'Orchestra Rossa.

le. Orrenda pagliacciata e vana mascherata: che cosa sono alcuni colpi di frusta per chi sopporta gli “stivaletti” senza cedere? Non riuscendo a spezzare la resistenza di Schulze-Boysen, si cerca di ammansirlo: la visita del padre. *** Prosegue il padre: Harro respinge con fermezza la loro richiesta. La conclusione del nostro colloquio fu di ordine personale e intimo, ma di fronte ai due emissari, Harro ed io ci guardiamo bene dall'esternane i nostri sentimenti profondi. E tuttavia, alla fine, il dolore mi travolge e mi alzo dicendogli: «La strada che ti si apre davanti è dura. Non voglio renderla ancora più dolorosa. Me ne vado». Anche Harro si alza. Raddrizza le spalle davanti a me, mi guarda con fierezza, ma, per la prima volta, gli salgono agli occhi le lacrime. Non gli posso dire altro che questo: «Ti ho sempre voluto bene». Lui mi risponde dolcemente: «Lo so». Gli tendo le mani e, sulla soglia, mi volto, lo guardo ancora una volta e gli faccio un cenno con il capo. Avevamo tutti e due la sensazione che fosse l'ultima volta che ci vedevamo.

*** Suonano alla porta di Ilse Stöbe. La donna della Gestapo si precipita ad aprire. Sulla soglia, un giovanotto. Dice a bassa voce: «Cerco una vecchia conoscenza...».

«Chi?». «Una vecchia conoscenza». «Entri, sono io». Ma il ragazzo porge una busta e se ne va. I due poliziotti di fazione nell'edificio di fronte non hanno avuto il tempo di intervenire. Nessuno saprà mai chi era il messaggero, da dove veniva, da chi riceveva gli ordini. Nella busta, un foglio di carta con quest'unica frase: «Köster arriverà probabilmente il 20 ottobre; procurare un contatto Köster-Scheliha». La Gestapo si precipita al Ministero degli Esteri e viene a sapere che Rudolf von Scheliha è in vacanza in Svizzera, nei dintorni di Costanza. È scappato, senza dubbio. L'arresto di Ilse Stöbe lo avrà messo in allarme. Viene sottoposto a sorveglianza da agenti tedeschi operanti in Svizzera. Panzinger in persona parte per Costanza. Ma come riportare in Germania Scheliha con la forza? Il 21 ottobre, il 22, i giorni successivi, nessuno si presenta al domicilio di Ilse Stöbe. Nella notte tra il 22 e il 23, la Luftwaffe segnala il sorvolo della Prussia Orientale da parte di un bombardiere russo che se ne va senza lanciare bombe: Köster è arrivato. Poi, la Prinz-Albrechtstrasse riceve da un agente svizzero questa stupefacente notizia: Scheliha fa fagotto e si prepara a tornare in Germania. Il viaggio, dunque, non era una fuga? Sarebbe per caso innocente, nonostante la lettera del misterioso messaggero? I servizi sovietici, informati dell'arresto di “Alta”, tanto di avviare la Gestapo su una pista falsa? Oppure, l'informazione fornita dall'agente svizzero è solo inesatta? Il commissa-

rio Panzinger si insedia al posto di frontiera di Costanza e spia, senza crederci troppo, l'arrivo del diplomatico. Il 26 ottobre, verso le 5 del pomeriggio, i due poliziotti in agguato di fronte all'appartamento di Ilse Stöbe vedono entrare nello stabile un uomo di media statura, con l'impermeabile ed una valigia. Lasciano il posto di osservazione e si confondono tra i passanti. La donna della Gestapo è armata di una pistola che nasconde sotto il tailleur, ma i suoi due colleghi si tengono pronti a volarle in aiuto perché, se Köster conosce personalmente “Alta”, è impossibile prevederne la reazione quando scoprirà la sostituzione. Passano cinque minuti. L'uomo esce. Non ha più la valigia. Si allontana a passo tranquillo. Uno dei poliziotti lo pedina. L'altro si precipita nell'appartamento. La donna, raggiante, gli fa rapporto. Era proprio Köster. La valigia contiene un'emittente. Köster ha chiesto di potersi incontrare con Scheliha e la donna gli ha proposto un appuntamento per quella sera stessa al caffè “Adler”, in Wittenberg Platz. Köster ha borbottato minacce all'indirizzo di Scheliha, affermando che se si fosse rifiutato di marciare dritto lo avrebbero fatto saltare. Ha mostrato alla donna una ricevuta di 6.500 dollari firmata dal diplomatico nel 1938. Köster si reca all'appuntamento. Si tratta, in realtà, di Heinz Köhnen, figlio di un ex-deputato comunista al Reichstag. Il padre è a Londra, dove partecipa alla celebre “Operazione Radio Nera”, destinata a demoralizzare la Wehrmacht via radio; ogni giorno, tedeschi antinazisti incitano i loro compatrioti alla ribellione e forniscono loro le notizie censurate da Goebbels. Il figlio, invece, ha scelto Mosca. Il Centro lo arruola nell'“Operazione Paracadute”, destinata alla rianimazione della rete tedesca. Dopo Erna

Eiffler, Wilhelm Fellendorf, Albert Hössler e Robert Barth – tutti e quattro mandati in aiuto dei berlinesi e caduti nelle mani della Gestapo – Heinz Köhnen si lancia da un bombardiere russo e atterra presso Osterode, nella Prussia Orientale. Il suo compito principale consiste nel mettersi in contatto con Scheliha per ridestarne lo zelo. Da qualche tempo, i rapporti del consigliere di ambasciata sono rari e mediocri, mentre l'incarico al Ministero degli Esteri gli svela gli arcani della diplomazia tedesca. Probabilmente ha paura. Il fatto è che l'atmosfera della Berlino del 1942 non è quella dell'allegra Varsavia d'anteguerra. Scheliha, magari, vorrebbe ritirarsi dal quel “gioco” particolare in cui si rischia la vita e non semplicemente il proprio denaro, ma non si può abbandonare la partita del Direttore come ci si alza da un tavolo di baccarà. Heinz Köhnen arriva da Mosca per ricordaglielo. È latore di 8.000 marchi e della vecchia ricevuta risalente al 1938. Il bastone e la carota. Se il malloppo non basta a resuscitare l'entusiasmo di Scheliha, saprà pungolarlo con la minaccia di consegnare la sua ricevuta alla Gestapo. Köhnen è arrestato al caffè “Adler”. Ignoriamo se fu torturato o se parlò senza coercizione fisica, schiacciato dall'evidenza che la Gestapo sapeva tutto di lui grazie alle confessioni dei quattro primi paracadutisti. Gli abbiamo buttato in faccia, per esempio, l'indirizzo al quale viveva a Mosca, il numero del tram che prendeva per andare alla scuola di spionaggio, come erano fatte le porte di questa scuola, i nomi degli allievi e degli insegnanti, quelli dei suoi amici, eccetera; si è sentito smascherato e tradito2. 2 Testimonianza di un agente della Gestapo citata da D.J. Dallin nella sua opera So-

Köhnen parla; Ilse Stöbe parla, convinta che il suo silenzio ormai non serva più a nulla; Rudolf von Scheliha parla non appena lo arrestano al posto di frontiera di Costanza. Goering è riuscito a compromettere Ribbentrop. Quanto a Himmler, ha completato il suo campionario: a parte le sue SS e la cancelleria di Bormann, tutti gli organismi del Reich avranno un rappresentante sul banco degli accusati. Ma il processo non può essere aperto prima che sia sistemata la faccenda dei documenti di Stoccolma. *** Nessuno sa da quali idee fosse mosso Schulze-Boysen nella sua cella, ed è difficile comprendere il comportamento di un uomo che ha ormai in mano un'unica carta, e la cui vita da tale carta dipende. Harro era stato magnifico fino in fondo, riuscendo a far tremare i “bonzi” nazisti perfino dal fondo della sua cella. E fu sconcertante fino all'ultimo. Un altro si sarebbe aggrappato disperatamente a quell'ultima boa di salvataggio. Avrebbe avvertito Panzinger e Koppkow che i documenti di Stoccolma sarebbero stati pubblicati non appena fosse stato giustiziato un membro della rete; e poi avrebbe atteso i risultati della scommessa. Harro non attese. Giocò a carte scoperte con la Gestapo. Dichiarò a Panzinger che era pronto a svelare il nascondiglio dei documenti se gli veniva garantito che non vi sarebbe stata alcuna esecuzione prima del 31 dicembre 1943, cioè un anno più tardi. Era perciò convinto che Hitler entro quel lasso di tempo avrebbe perso la viet Espionage, Yale University Press, 1955, p. 254.

guerra. La Gestapo riferì alle autorità superiori: Himmler, Goering, lo stesso Führer. Il patto fu concluso. Schulze-Boysen pretese che il padre fosse presente quando avrebbe fatto le sue rivelazioni e che la Gestapo ripetesse in sua presenza la promessa. Racconta Eric Schulze: Harro entra nella stanza con un sorriso fiducioso. Panzinger gli dà solenne conferma che l'accordo entrerà in vigore non appena avrà detto la verità circa il nascondiglio dei documenti, quale che sia. Dopo una breve pausa destinata a preparare l'effetto, Harro dichiara: «I documenti non sono mai usciti dagli armadi del Ministero dell'Aria. Ho destato scientemente i sospetti della Gestapo per avere in mano un mezzo di pressione». Lo stupore dei commissari è indescrivibile. Un attimo dopo, Panzinger dichiara che le condizioni del contratto sono soddisfatte e che, di conseguenza, l'accordo è valido.

A mo' di parola d'ordine, Harro Schulze-Boysen sceglieva spesso questa citazione del poeta Stefan George: «Uno sguardo aperto ed una mano ferma sono più eloquenti di mille parole». *** Il giorno della prima udienza del processo, una squadra di operai è già al lavoro nel locale della prigione di Plotzensee dove vengono decapitati i condannati a morte. Gli operai fissano al soffitto la rastrelliera d'acciaio munita di ganci scorrevoli. Il personale della prigione non comprende il motivo di quella frettolosa installazione (viene definita «importante e urgente»), perché il

codice penale è chiarissimo: ogni condannato a morte deve essere fucilato o decapitato; in Germania non si impicca. La Corte è composta da ufficiali superiori. L'accusa sarà sostenuta dal procuratore Manfred Roeder, Oberstgerichsrat della Luftwaffe, cui il fanatico zelo ha meritato il nomignolo di “Segugio di Hitler”. Gli avvocati, designati d'ufficio, non hanno avuto il tempo di studiare la pratica; del resto, sembra che alcuni non lo desiderassero neppure. Sul banco degli accusati, 13 membri dell'Orchestra Rossa. Ovviamente fanno parte di questa prima infornata le coppie Schulze-Boysen e Harnack. C'è anche Horst Heilmann, della squadra di deciframento di Kludow; Herbert Gollnow, il giovane ambizioso che addestrava i transfughi caucasici; Kurt Schulze, radiotelegrafista di Scheliha, e il suo allievo Hans Coppi, il pianista dilettante di Schulze-Boysen. Ed ecco ancora Johann Graudenz, ex-corrispondente della United Press da Mosca e del New York Times da Berlino; incaricato dei rapporti tra certe fabbriche di materiale bellico e la Luftwaffe, comunicava a Schulze-Boysen le cifre relative alla produzione aeronautica tedesca e tutti i particolari riguardanti il tipo di aerei, le loro prestazioni, il loro armamento. Lo scultore Schumacher è il detenuto che, dopo ore di angoscia, ha finalmente compreso l'SOS lanciatogli dalla cella vicina da Günther Weisenborn; è sul banco degli accusati assieme a sua moglie Elisabeth. Kent ha ammesso di averli incontrati in occasione del suo viaggio a Berlino. Seduto accanto al comunista Schumacher, il reazionario colonnello Erwin Gehrts, dilettante di spiritismo e cliente della cartomante Anna Krause. C'è infine una giovane donna dal sorriso radioso, bellissima, traboccante vitalità: la contessa Erika von Brockdorf. Al pari di

Elisabeth Schumacher, dallo scoppio della guerra era impiegata al Ministero del Lavoro. Suo marito è ufficiale. Ha dato rifugio in casa sua all'emittente di Coppi e ad alcuni paracadutisti. Al procuratore Roeder, che, irritato di vederla assistere al processo come ad una festa, le griderà questo sinistro monito: «Ha ancora poco da ridere!», risponderà: «Finché vedo lei». I 13 accusati sanno che rischiano la pena capitale. Harro Schulze-Boysen, con tutta probabilità, spera che la pena di morte, se anche sarà pronunciata, non venga applicata prima che sia trascorso un anno. Quanto a Libertas, è persuasa che la attenda una lieve condanna – chissà, magari addirittura la rilasceranno alla fine del processo. Il fascicolo del procuratore si basa quasi interamente sulle sue dichiarazioni e quei signori della Gestapo hanno spiegato a Libertas che cosa era in Inghilterra un “teste della Corona”: le confessioni e la testimonianza a carico dei complici gli valgono l'impunità. Be', Libertas, “teste della Gestapo”, beneficerà dello stesso privilegio! È vero che i codici tedeschi non prevedono niente del genere, ma da qualche tempo la giustizia, in Germania, si prende certe libertà sul codice. Libertas è sicura che se la caverà. Gli altri, non sappiamo quali siano i loro sentimenti intimi allorché prendono posto sul banco degli accusati. La paura, probabilmente, e forse la speranza, perché la speranza è dura a morire. Tranne per Arvid Harnack, il cui viso esprime soltanto profonda malinconia. E anche per Erika von Brockdorf: il suo sorriso è al di là della paura, al di là della speranza. Il processo si tiene a porte chiuse, ma nella sala è presente qualche spettatore: funzionari della Gestapo e rappresentanti dei diversi Ministeri implicati nello scandalo. Per loro non c'è dubbio che i 13 imputati sono destinati al supplizio al termine di

un'udienza puramente formale. Si sbagliano. La Corte tornerà dalla camera di consiglio con 11 condanne a morte. *** Roeder fu all'altezza della sua fama. Gli bastava dimostrare che gli accusati si erano dedicati allo spionaggio per ottenere la testa, e la prova era nel suo incartamento. Ma la vita di quei 13 non lo interessava già più – la considerava già un caso chiuso; fu contro la loro memoria che si accanì. Accusò Schulze-Boysen di avere stornato i fondi dell'organizzazione; parlò a lungo delle “serate 14 punti” e, anziché mostrare ai giudici l'organigramma della rete, preferì abbozzare uno schema particolareggiato delle relazioni amorose di ciascuno di loro. Suo scopo era, evidentemente, quello di applicare una maschera di fango sul volto degli accusati. Ma a beneficio di chi? Il pubblico non sapeva nulla del processo; Roeder e i giudici erano fermamente convinti che non ne avrebbe mai saputo nulla. I capi della Gestapo e i funzionari nazisti presenti in sala non erano tipi da commuoversi per qualche facezia sessuale; del resto, conoscevano i personaggi seduti sul banco degli accusati. I posteri? Sì, era a beneficio dei posteri che il procuratore doveva esibire le sue immagini pornografiche, dimenticando che i posteri non sono agli ordini delle Corti marziali, e che spesso il loro verdetto differisce dalle sentenze dei tribunali. Arvid Harnack, con voce stanca e sorda, si limitò ad una di9chiarazione di principio. Concluse con queste parole: «Ho agito nella convinzione che gli ideali dell'Unione Sovietica preparino la strada alla salvezza del mondo. Mio scopo è stata la distruzione

del regime hitleriano con ogni mezzo». Schulze-Boysen si batté come un leone, negando ogni particolare che non fosse concretamente provato. Da accusato si trasformò in accusatore e mise con le spalle al muro i suoi avversari per mezzo di interventi in cui ardevano, ancora intatte, a sua passione e la sua foga. Dovettero imporgli il silenzio. Gli altri furono alla sua altezza. Un ufficiale presente all'udienza ci dirà: «Sta di fatto che si sono comportati tutti in maniera splendida. Tranne Libertas». 11 condanne a morte. Due donne avevano salva la vita: Mildred Harnack, 6 anni di prigione; Erika von Brockdorf, 10 anni. L'avvocato Behse racconta: Quando fu pronunciato il verdetto, Libertas urlò e svenne. Benché l'avessi scongiurata più di una volta di rendersi conto della situazione e di prepararsi al peggio, era rimasta fino a quel momento fiduciosa e ottimista. E ora mi spiegava che la Gestapo le aveva promesso, in compenso della confessione, una pena lieve, se non addirittura la libertà...

In via di principio, la sentenza era soggetta alla ratifica del presidente della Corte marziale, che poteva confermarla o impugnarla. Ma nel caso specifico, Hitler si era riservato tale privilegio in cambio della rinuncia ad un “tribunale del popolo”. La sorte dei 13 riposava dunque nelle sue mani. Un messaggero si recò a riferire a Goering non appena fu emessa la sentenza. Stando al Generaloberstabrichter Lehmann, la sua reazione fu violenta: «Esplose alle parole “pene detentive”, e disse che il Führer non avrebbe mai dato il consenso» 3. Qualche 3 Deposizione di Lehmann in occasione dell'istruttoria del caso Manfred Roeder.

ora dopo, Hitler veniva informato dal suo aiutante di campo, l'ammiraglio Putkamer. Hitler confermò le pene capitali, cassò le pene detentive e ordinò un nuovo processo a carico di Mildred Harnack ed Erika von Brockdorf. *** Furono in 11 a morire tre giorni dopo, il 22 dicembre 1942. L'esecuzione di Herbert Gollnow e del colonnello Gehrts era stata rimandata perché c'era bisogno di loro per il secondo processo a carico di Mildred Harnack, ma il loro posto fu preso da Rudolf von Scheliha e Ilse Stöbe, a loro volta condannati a morte. Il 22 dicembre fu una giornata lugubre e fredda; un vento gelido che soffiava da est spazzava Berlino e la notte scese ancora più presto del solito. E tuttavia, la tradizione del Natale è così fortemente radicata nei cuori tedeschi che perfino quel giorno, malgrado la guerra, malgrado i brutti venti e le brutte notizie che soffiavano da est, malgrado le pene, la miseria, perfino quel giorno doveva esserci nelle strade di Berlino come un riflesso delle vigilie di Natale di un tempo. Le donne furono decapitate, secondo la legge. Per aggravare il calvario di Libertas, le fu rivelato che la sua compagna di cella e confidente, Gertrud Breiter, apparteneva alla Gestapo. Libertas scrisse alla madre, qualche ora prima della fine: Ho dovuto bere la coppa fino alla feccia e sapere che una persona in cui riponevo piena fiducia, Gertrude Breiter, ci ha tradite, te e me.

«Raccogli ora ciò che hai seminato perché colui che tradisce sarà a sua volta tradito». Per egoismo, ho tradito gli amici. Volevo essere libera e tornare da te – ma credimi, avrei sofferto immensamente della mia colpa.

Secondo la nera leggenda della Gestapo, Libertas aveva sedotto una giovane guardia delle SS di Prinz-Albrechtstrasse. Si era chiuso un occhio sui loro frettolosi amori. Avendo chiesto ed ottenuto che il suo amante la accompagnasse fino al momento estremo, si fece amare da lui un'ultima volta nell'automobile che la portava al supplizio. L'indomani, 23 dicembre, sua madre, la bella contessa Thora Eulenburg, nota pianista, corse a Berlino con un freddo glaciale a bussare alla porta di ogni prigione per ottenere che consegnassero alla figlia il pacco di Natale che le aveva preparato. Venne ovunque respinta, ma nessuno le disse che Libertas era stata giustiziata qualche ora prima. Allora, sfinita, pazza di angoscia, la povera donna andò a suonare alla porta del suo amico Maresciallo Goering, il quale le chiedeva spesso di suonare il pianoforte per i suoi ospiti. Goering si finse all'oscuro di tutto. Ma probabilmente sapeva che il corpo decapitato di Libertas in quello stesso momento era sottoposto al bisturi di un perito settore. Questo perché, subito dopo l'esecuzione, Roeder era stato informato di una voce secondo la quale Libertas era incinta ad opera della sua SS: ben sapendo che la legge tedesca rimanda l'esecuzione di una donna incinta fino a dopo il parto, Libertas aveva fatto ricorso all'espediente per ottenere una proroga. L'implacabile Roeder ordinò l'autopsia: risultato negativo.

*** Gli 8 uomini erano stati trasferiti da Prinz-Albrechtstrasse alla prigione di Plotzensee nel pomeriggio. Prima di lasciare la cella, Harro nascose in una fessura del muro una poesia che aveva scritto. Avvertì della cosa un altro prigioniero il quale, al momento dell'esecuzione, lo disse ad un terzo detenuto. Quest'ultimo sopravvisse e dopo la guerra tornò a frugare tra le rovine dell'edificio. Miracolosamente, la poesia era intatta. Si conclude con questa strofa: Le argomentazioni estreme Non sono la corda né la lama E i nostri giudici di oggi Non siedono al tribunale supremo.

I prigionieri furono messi in 8 celle del terzo braccio. Le porte rimasero aperte per facilitare la sorveglianza da parte delle guardie. Ogni condannato ebbe il diritto di scrivere una lettera di addio. Arvid Harnack scrisse ai suoi familiari: Miei cari, Nelle prossime ore abbandonerò la vita. Vorrei ringraziarvi ancora una volta per tutto l'amore che mi avete donato, soprattutto in questi ultimi tempi. Il pensiero di questo amore mi ha reso più lieve il fardello. Sono perciò calmo e felice. Penso anche alla natura prodigiosa, cui

mi sento così vicino. Questa mattina ho recitato ad alta voce: «Il sole, secondo il rito antico, Confonde la sua voce con il coro armonioso delle sfere E conclude il corso prestabilito A passi tonanti». Ma, innanzitutto, penso all'umanità in piena evoluzione. Ecco i tre fondamenti della mia forza. Sono stato particolarmente felice di sapere che quanto prima in famiglia ci sarà un fidanzamento. Mi piacerebbe che il mio anello (quello a sigillo), che ho ereditato da papà, andasse a F. E L. potrebbe così portare il suo. L'anello vi sarà consegnato con i miei effetti personali. Questa sera organizzerò una piccola veglia di Natale tutta per me leggendo il racconto della Natività. E poi verrà il momento di andarsene. Avrei voluto rivedervi tutti ancora una volta. Purtroppo, non è possibile. I miei pensieri volano verso di voi e non dimenticherò nessuno, ciascuno deve saperlo, soprattutto la mamma. Per l'ultima volta, vi abbraccio tutti. Vostro Arvid P.S. – Dovete festeggiare il Natale come al solito. È il mio ultimo desiderio. E cantate: «Invoco la potenza dell'amore».

Harro Schulze-Boysen scrisse: Cari genitori,

Ecco, il momento è giunto: tra poche ore uscirò da questo mio “io”. Sono completamente tranquillo e vi prego di esserlo anche voi, di accogliere impassibili la notizia. Cose così importanti sono attualmente in gioco sulla Terra che una vita umana che si estingue non conta davvero molto. Di ciò che è stato, di ciò che ho fatto, non voglio più parlare. Tutto ciò che ho compiuto, l'ho compiuto con la mente, con il cuore e per convinzione. Date queste premesse, voi che siete miei genitori, dovete accettarlo. Ve ne prego. Questa morte mi si addice. In qualche modo, ho sempre saputo che sarebbe andata così. È, per così dire, la «mia propria morte», come diceva Rilke. È soltanto se penso a voi, miei cari, che mi si stringe il cuore. Libertas mi è vicina e condividerà il mio destino nello stesso momento. Voi provate in pari tempo la mia perdita e la vergogna, e ciò non ve lo siete meritati. Il tempo lenirà le vostre sofferenze, non solo lo spero, ma ne sono convinto. Con i miei slanci impetuosi e i miei intenti, forse non del tutto chiari, non sono stato che un precursore. Credete con me che il tempo, il quale è giusto, tutto farà maturare. Fino alla fine penserò all'ultimo sguardo di papà, penserò alle lacrime natalizie della mia cara mammina. Sono stati necessari questi mesi perché io potessi riavvicinarmi tanto a voi, figliol prodigo tornato all'ovile. Dopo tanto impeto e tanta passione, dopo tanto camminare per vie che vi sembravano strane, ho finalmente ritrovato la strada di casa mia. Penso al buon H. e sono felice che stia meglio. I miei pensieri tornano a Friburgo dove ho visto Helga e i suoi per la prima e ultima volta. Sì, evoco il ricordo di tanti

altri, il ricordo di una vita piena e bella per la quale tanto vi devo – tanto che non fu mai reso. Se foste qui – e ci siete, anche se invisibili –, potreste vedermi ridere al cospetto della morte. È da molto tempo che l'ho vinta. In Europa è di uso fare con il sangue il fermento dello spirito. Può darsi che noi si sia stati solo un gruppo di imbecilli. Ma quando si è così vicini alla morte, si ha pure diritto ad una piccolissima illusione personale. Sì, e ora vi do la mano a tutti, e tra poco depositerò qui una lacrima (una sola) come pegno e suggello del mio amore. Vostro Harro

*** Il cappellano Poelchau era stato avvertito per puro caso dell'arrivo a Plontzensee di un gruppo di condannati a morte. Vi si recò immediatamente e visitò ogni cella, l'una dopo l'altra. Lo scultore Schumacher gli fece una profonda impressione. A poche ore dalla morte, era raggiante di gioia. Harro, invece, gli parve recalcitrante. Non che avesse paura: la sua calma era assoluta. Ma soffriva per tutte le occasioni di agire che gli erano sottratte; così come un soldato vinto è straziato nel momento di consegnare le armi al nemico, Harro Schulze-Boysen doveva costringersi ad accettare l'evidenza che la battaglia era finita e che doveva affidare alla morte il suo coraggio e la sua forza. La poesia che aveva nascosto nella cella conteneva questo grido: Con la morte alla gola

Quanto ami la vita... E tutta colma è l'anima Di ciò che la spingeva innanzi.

Fu necessario accendere prestissimo la luce nelle celle; fuori era già quasi buio. I guardiani andavano e venivano per il corridoio. Disumani, simili ad automi, erano murati in un silenzio ostile. In tutte le prigioni del mondo, i guardiani diventano fraterni negli ultimi istanti di un condannato, anche se ha commesso crimini mostruosi. Non sappiamo se i guardiani di Plotzensee erano sempre implacabili, oppure se lo diventarono a beneficio dei condannati dell'Orchestra Rossa. Un funzionario giunse prima degli altri e si recò da Scheliha. Ribbentrop aveva chiesto una proroga per il consigliere di ambasciata, con il pretesto che questi non aveva ancora concluso l'inventario completo delle informazioni passate ai russi dal 1937 in poi. Si aspettava la risposta a tale richiesta. Siccome la risposta poteva tardare, il Ministero degli Esteri aveva preferito mandare a Plotzensee uno dei suoi funzionari, Karl Hofman 4: in caso di risposta favorevole, si sarebbe trovato già sul posto. Hofman conosceva Scheliha. Lo trovava simpatico e sperava che ottenesse la dilazione. Certo, Scheliha era un traditore, ma Hofman riteneva che avrebbe avuto la probabilità di avere salva la vita se non fosse stato coinvolto con quelli dell'Orchestra Rossa. Il cappellano Poelchau trovò Arvid Harnack calmo e sereno. Era pronto a morire per le sue convinzioni, pur sapendo che un simile sacrificio non avrebbe salvato la Germania. Spiegò al cap4 Pseudonimo dato dall'autore.

pellano la sua angoscia a proposito del popolo tedesco, di cui Hitler aveva corrotto l'anima. Poi gli chiese di recitargli i versi dell'Orfeo di Goethe. Quando il pastore ebbe terminato, lo pregò di leggergli il racconto della Natività del Vangelo. Hans Coppi, l'ex-radiotelegrafista di Schulze-Boysen, pensava probabilmente al figlio, nato il 27 novembre precedente nella prigione in cui era chiusa sua moglie, Ilde. Non appena ne aveva appreso la nascita, Hans aveva scritto a Ilde una lettera in cui la esortava a non tormentarsi per il futuro e a godere della grande felicità che il presente riservava loro. Per lui, tale felicità era durata 26 giorni. Il rinvio non arrivava. Hofman, angosciato dalla crudeltà di quelle ore interminabili, vide infine i guardiani avvicinarsi ai condannati per l'ultima toeletta. Vennero loro tagliati i capelli e cambiati i vestiti. Poi giunsero i funzionari. Il cappellano Poelchau si lagnò presso Roeder di non essere stato avvertito ufficialmente dell'esecuzione. Il procuratore rispose: «Non era prevista la partecipazione di un ecclesiastico»5. I guardiani fecero uscire i condannati dalle celle e li ammassarono nel corridoio. Venne fatto l'appello. Quando l'appello fu concluso, venne ordinato agli 8 condannati di avanzare verso la porta del corridoio. Si mossero a passo fermo, a testa alta, salvo Scheliha, il quale si rotolò a terra urlando che non voleva essere ucciso. Gli riusciva più difficile accettare l'idea che agli altri, dal momento che moriva per qualche migliaio di dollari. La porta del corridoio dava su un cortile. Qualche metro più in là si apriva la stanza delle esecuzioni. Una grande tenda mascherava la sala. Il corteo si fermò, poi uno dei lembi della tenda 5 H. Poelchau, Die letzten Stunden, Magdeburgo, 1949.

venne sollevato e apparvero i carnefici. Erano tre, in marsina da cerimonia, guanti bianchi, cilindro. Si fecero consegnare i condannati e li condussero dall'altro lato della tenda, seguiti dai funzionari. Al cappellano Poelchau non fu concesso di accompagnarli. All'interno vi fu una nuova sosta accanto alla porta. Il presidente della Corte marziale rilesse le 8 condanne a pochi passi di distanza dalla ghigliottina, che si drizzava al centro della sala. Poi, i condannati si rimisero in marcia e oltrepassarono la ghigliottina; attraverso un uscio aperto sulla destra, scorsero le loro bare disposte in fila sotto una tettoia. In fondo alla sala, gli operai avevano fabbricato quattro scomparti mediante grandi fogli di carta nera; fissata alla rastrelliera d'acciaio, una corda penzolava in ogni scomparto. Bisognava salire su uno sgabello; uno dei carnefici passava la corda attorno al collo del condannato, mentre l'altro spostava lo sgabello. Tale morte, scelta personalmente da Hitler, piaceva al Führer per due ragioni: il suo carattere degradante e le sofferenze che comportava. Con la ghigliottina tutto si concludeva in 11 secondi, mentre i carnefici di Plotzensee erano stati avvertiti dal medico della prigione che non avrebbero dovuto calare gli impiccati prima di 20 minuti, altrimenti non avrebbero potuto rispondere con certezza del loro decesso. Il procuratore Roeder uscì dalla sala di esecuzione dicendo: «Quel Schulze-Boysen è morto da uomo». *** Il cappellano Poelchau scrisse:

Dopo fu il silenzio. I guardiani si dispersero e i funzionari se ne andarono. Il guardiano di servizio quella notte passò nel corridoio, facendo tintinnare il mazzo di chiavi; chiuse la porta delle celle ormai vuote e spense le luci l'una dopo l'altra. Era buio dappertutto.

XXVII. IL “GRANDE GIOCO”

Franz Fortner è formale: Non ho assistito a tutti gli interrogatori, lungi da questo, perché dopo il suo arresto sono tornato a Bruxelles dove mi richiamava il mio lavoro. Ma possono garantirle una cosa: se il Gran Capo ha parlato, non è stato per timore di essere torturato o per salvare la pelle. Quell'uomo non aveva paura. Niente a che fare con un Raichman o un Wenzel. Neppure sotto la tortura, ne sono convinto, avrebbe parlato se avesse deciso di tacere. Vede: ho capito il suo atteggiamento solo molto più tardi, dopo la guerra, quando abbiamo conosciuto un po' meglio i metodi dello spionaggio sovietico. Oh! È stato intelligentissimo, bravissimo! Ci ha menati tutti per il naso! I russi impiantano sempre tre reti: una rete attiva, una rete di riserva, una rete “in letargo”. Quando la rete attiva si trova con le spalle al muro, non perdono tempo a tentare di salvare il salvabile – no: ci fanno una croce sopra, punto e basta. E la rete di riserva entra in azione, con il suo capo, il suo Stato Maggiore, i suoi agenti di collegamento e i suoi radiotelegrafisti. La rete “in letargo” passa di riserva, pronta a dare il cambio al prossimo colpo. Capisce l'astuzia, ora? Trepper ci buttava qualche briciola su cui noi ci precipitavamo e intanto, mentre perdeva-

mo tempo a spazzare via i resti della sua rete, l'altra, la rete di riserva, ne prendeva tranquillamente il posto! Trepper ha parlato, è vero, ma ha parlato perché gli è stato ordinato. Era il suo dovere. Per quanto curioso possa sembrare, avrebbe tradito Mosca tacendo.

Tre reti che manovrano come battaglioni di soldatini di piombo? Un telegramma del Direttore che funge da manifesto di mobilitazione, e i riservisti che guadagnano in buon ordine le loro posizioni prestabilite, mentre i “dormienti” si svegliano e subito si mettono a fare un po' di ginnastica per sgranchirsi le gambe? Fortner deve sbagliarsi di data, confondere l'Orchestra Rossa radunata al rombo del cannone, con le minuziose reti che il Centro monterà molto più tardi, una volta tornata la pace. Se infatti Mosca avesse disposto in Francia di un simile effettivo, Trepper non sarebbe stato tanto tormentato dal problema delle trasmissioni; è probabile che avrebbe “attivato” qualche radiotelegrafista della riserva, anziché decidersi ad abbattere la paratia stagna che separava il Partito comunista dalle organizzazioni spionistiche. Tre reti? Ma sarebbero già state buttate nella battaglia! A Waterloo, perfino la Guardia Imperiale entra nella mischia. Tra il 1941 e l'arresto del Gran Capo, quante Waterloo ci sono state in terra russa? Tre reti? Ammettiamolo. È possibile trovare i quadri, reclutare gli agenti, addestrare i radiotelegrafisti. Ma le “fonti”? Non sono moltiplicabili a piacimento. Una “fonte” non si addestra: la si scopre, generalmente per caso, e la si capta. La teoria di Fortner si applica a Grossvogel o a Katz: Trepper può tradireq questi vecchi compagni, i quali hanno già pronti i sostituti nella rete di

riserva. Ma chi sostituirà Maximovitch? Chi darà il cambio a Käte Voelkner? La pignoleria del Direttore non si spinge comunque al punto di prevedere – nel 1942! – delle “fonti di riserva” e delle “fonti in letargo”... Poco importano le debolezze della spiegazione fornita da Fortner. L'essenziale è che esiste, è la necessità avvertita di una giustificazione logica. Fortner ha arrestato il Gran Capo e ha passato parecchie ore con lui. È persuaso che né la paura delle sofferenze, né quella della morte hanno potuto indurlo a parlare. Eppure, ha parlato: ne fanno fede i rapporti della Gestapo. Quindi doveva avere una ragione. Quale? *** Gli specialisti francesi sono unanimi: Trepper, una volta catturato, ha pensato unicamente a proteggere il Partito comunista e le sue organizzazioni satelliti. La Gestapo puntava accanitamente all'arresto del Comitato Centrale; si dedicò a tale compito fino all'ultimo giorno di occupazione del suolo francese e i suoi archivi dimostrano fino a che punto fu vicina al successo. Vi furono capi comunisti importanti identificati, localizzati, e tuttavia lasciati in libertà nella speranza che facessero risalire al “Santo dei Santi”. Ma il Comitato Centrale dà prova di un'estrema prudenza. Rémy, quando entra in contatto con esso, ne prova una certa irritazione: «Questo Comitato fantasma si circonda di tali precauzioni che gli ci vogliono almeno 15 giorni per rispondere alla meno importante delle mie domande», pur riconoscendo che «i comunisti possono darci dei punti in materia di prudenza» 1. Le 1 Rémy, op. cit., vol. 2, p. 121.

ragioni di tale prudenza e dell'accanimento tedesco sono ovvie: l'arresto del Comitato avrebbe inferto un colpo mortale all'intera Resistenza comunista. Ora, per mezzo di Trepper, la Gestapo aveva la possibilità di risalire al Comitato. Il dilemma era quindi crudele, ma semplice. Trepper poteva optare per il silenzio. Significava affrontare i supplizi; ed è follia presumere troppo dal proprio stoicismo sotto la tortura. Poteva invece dare in mano alla Gestapo i superstiti della rete, persuaderla della propria buona volontà e, dicendo abbastanza, lasciarle credere che diceva tutto per evitare che gli si domandasse il resto. Su quella terribile bilancia, Katz e Grossvogel erano necessariamente destinati ad avere poco peso. Neppure Maximovitch, neppure Käthe Voelkner pesavano molto: a che servono le “fonti” se non esiste più una rete per sfruttarle? Così ragionavano gli specialisti e la loro spiegazione non mancava di forza di persuasione. Ma il fatto che l'ipotesi fosse verosimile, non implicava che fosse esatta. L'atteggiamento di Trepper era stato davvero determinato dal ragionamento che gli veniva attribuito? Andai a Stoccarda a domandarlo ad Heinrich Reiser. *** Fisicamente, un elefante. I capelli bianchi, tagliati cortissimi. Gli occhi azzurri: due oasi sperdute in un deserto di carne rosea. Il loro sguardo, ad essere sinceri, non irradia tenerezza. Si accomoda su una sedia come se fosse per sempre, incrocia le mani e parla in francese per cinque ore di fila senza un gesto, senza una mimica, senza un fremito nel viso. Pare quasi di sen-

tirlo riflettere. Ogni parola pesa una tonnellata. Sua moglie, piccola e mingherlina, lo ascolta con aria adorante. Non sa il francese, ma non importa: lui è l'oracolo. Non le ha mai parlato del suo lavoro. La donna sa soltanto che ha passato la maggior parte del periodo bellico a Parigi. La natura delle sue incombenze a Parigi le interessa altrettanto poco del significato delle frasi che ascolta come se per lei fossero una melodia divina. Ciò che lui ha fatto era necessariamente ben fatto. Il regno di lei è la gabbia dell'elefante. La lustra da 30 o 40 anni. Invano si potrebbe cercare un granello di polvere nell'appartamento. È tutto lustro, di una pulizia spietata. Lui era Haupsturmführer delle SS ma, come Giering, come Berg, ex-poliziotto di professione raccolto da Himmler. Specialista del controspionaggio già prima dell'avvento al potere dei nazisti. Destinato a Parigi all'inizio dell'occupazione. Giering era il capo del Kommando, ma faceva di continuo la spola tra Berlino, Bruxelles e Parigi. L'elefante Reiser non si muoveva. Giering aveva la supervisione su scala internazionale ed era Reiser, il suo braccio destro, che comandava in Francia. Dice: Ho lottato contro l'Orchestra Rossa già prima della creazione del Kommando. L'arresto dei Sokol, sono stato io. Non sapevamo che lavorassero per i russi. Pensavamo che si trattasse di una banale rete di resistenza agli ordini di Londra. Berlino li ha reclamati subito. Se sono stati torturati, è stato a Berlino, non a Parigi. La guerra, che tragedia! E che idiozia! Ho sempre amato la Francia. Ancora adesso vado ogni settimana a farmi un po' di cultura all'Istituto Francese di Stoccarda. I

miei scrittori preferiti sono Henry Bordeaux e René Bazin, ma leggo anche quella donna, quella esistenzialista – come si chiama... Simone de Beauvoir! Non appena sono arrivato in Francia, ho dichiarato ai miei uomini che non era il caso di brutalizzare i prigionieri. Ai miei ordini non è mai stata applicata la tortura. Del resto, alla fine della guerra, siamo stati presi dai francesi e tenuti a lungo in prigione, ma l'istruttoria si è conclusa con un “non luogo a procedere”. Se ci fossero state delle torture, non ci avrebbero rilasciati così facilmente. Per i recalcitranti, quelli che non volevano parlare, esisteva un servizio speciale, del tutto indipendente: il “Servizio per gli interrogatori duri”! Là succedevano cose molto spiacevoli. Katz, sono stato io ad arrestarlo. Personalmente. Ce lo ha dato in mano Raichman, il “calzolaio” di Bruxelles. Raichman conosceva alcuni indirizzi di persone in contatto con Katz. Le ho poste tutte sotto sorveglianza, ma senza risultato. Fino all'arresto del Gran Capo. A questo punto, Katz sembra avere perso la testa. Cambiava rifugio di continuo. Una notte si è rifugiato in casa di un'amica, una comunista, che c'era stata segnalata da Raichman. Gli uomini di fazione mi hanno avvertito e sono andato ad arrestarlo.

Sicché avrebbe tutto dell'elefante, fatta eccezione per la memoria? «Signor Reiser, lei fa confusione: Katz le è stato dato in mano da Trepper...». «È falso. Il Gran Capo non ha tradito alcuno dei suoi agenti per la semplice ragione che non glielo abbiamo

chiesto. Se lo avesse fatto, lo saprei: ero presente di continuo». «Eppure, il rapporto della Gestapo è preciso. Trepper ha telefonato a Katz e gli ha dato appuntamento alla stazione della metropolitana Madeleine, davanti ad una colonna Morris. Quando Katz è stato condotto in Rue des Saussaies, Trepper gli ha detto: “Bisogna lavorare con questi signori. Il gioco è finito”».

Si accascia un tantino sulla sedia, gli occhi duri, ridotti a due minuscole macchioline azzurre, le mani serrate al punto che si sbiancano le nocche. Stia bene a sentire, signore. Se vuole capirne qualcosa, di questa faccenda, non deve credere ad una sola parola di ciò che i rapporti della Gestapo dicono del Gran Capo. Mi capisce? Neppure una parola!

A prima vista, ciò mutava tutto. A ben rifletterci, non era cambiato niente. Lo abbiamo già detto: il Funkspiel è un'operazione tanto delicata quanto entusiasmante, il cui scopo finale consiste nell'ingannare l'avversario. Ma prima di vincere la partita, è necessario ottenere l'autorizzazione a giocarla. La gerarchia è diffidente. Ritiene che l'affare possa garantire grossi dividendi, ma che se fallisce saranno state comunicate inutilmente al nemico le informazioni esatte destinate ad “alimentare” il Funkspiel. La paura delle responsabilità induce a pretendere garanzie, la prima delle quali è ovviamente che si sia sicuri del personale corrotto.

La Gestapo decide di servirsi di Trepper per iniziare un Funkspiel di una portata senza precedenti. Ha perfettamente ragione: in Olanda, Giskes fa meraviglie contro Londra impiegando un pugno di pianisti di secondo ordine. Che cosa non è possibile sperare dall'impiego contro Mosca di uno dei capi dello spionaggio sovietico! Ma occorre convincere la gerarchia. Dopo l'arresto di Trepper, la gerarchia è nervosa. Fa piovere su Parigi telegrammi di cui Fortner e Reiser attesatno la monotonia: «Che dice il Gran Capo?». Ebbene, il Gran Capo narra la propria vita e fornisce particolari affascinanti circa le possibilità offerte da un elenco telefonico. Se si informa Berlino di tale splendido risultato, Himmler soffocherà per la rabbia e rifiuterà decisamente l'idea del Funkspiel. E ha perfettamente ragione. Per convincere lo Stato Maggiore supremo, gli Esteri e tutti i Ministeri tedeschi a fornirgli il “cibo” necessario, deve poter portarsi garante del servilismo del suo prigioniero. Allora, spezzare la resistenza di Trepper? Affidarlo alle cure del “Servizio per gli interrogatori duri”? Strappargli il nome del suoi agenti? Naturalmente, la rete non interessa più alla Gestapo. Un edificio magnificamente strutturato e ripartito, certo, ma quando le fondamenta cedono, anche le tramezze di separazione crollano con il resto. I superstiti saranno pescati l'uno dopo l'altro. E se anche alcuni sfuggono, che importa, dal momento che ormai sono inefficaci? Però, forzando le confessioni del Gran Capo, precipitandolo nel tradimento, la gerarchia sarebbe rassicurata. Spezzare la resistenza di Trepper? Non è impossibile, ma molto aleatorio, e pericoloso. Una cosa è far sì che un suppliziato urli dei nomi, un'altra ottenere la sua collaborazione spontanea

per mesi a beneficio di un Funkspiel. Quel brav'uomo non è un prigioniero di tutto comodo. Per il momento non parla, ma chiacchiera. Accetta il caffè e le sigarette. Se verrà trattato in modo brusco, non ci sarà il pericolo che si chiuda come un'ostrica? Ora, la sua collaborazione è necessaria. Lui solo è in grado di conferire ai messaggi del Funkspiel lo stile, la zampata atta a rassicurare Mosca. Da qui l'ingegnosa soluzione: fabbricargli una leggenda, presentare a Himmler l'immagine ritoccata e tranquillizzante di un fellone completo. Schellenberg ci ha già illustrato la Gestapo intenta a truccare i propri rapporti per attribuirsi gli allora spettanti ad altri. Nel caso specifico, la fanfaronata è più giustificata: si mente per un motivo valido. Giering spiega al Gran Capo: «Non occorre dire tutto ai militari, perché non capiscono niente di politica; e non occorre dire tutto ai politicanti, perché non capiscono niente di spionaggio». Trepper: «Ma allora, chi deve sapere tutto?». «Chi conduce il gioco. Spetta a lui distribuire a ciascuno la sua parte». Himmler ne riceve una buona dose. I resoconti di Giering non lasciano dubbi in merito al tradimento del prigioniero. Fortner, al pari di tutti gli altri, crederà, leggendoli, che Trepper abbia davvero tradito Katz, Grossvogel, Robinson, Maximovitch. In qualche rapporto l'arresto del Gran Capo è perfino anticipato dal 24 al 16 novembre, in modo da potergli imputare il crollo della Simex e della Simexco, la retata operata in Belgio e la cattura del gruppo di Lione... Giering è comprensibile. Ma Trepper? Non vede la posta in gioco nella partita che si sta per iniziare e in cui è destinato ad essere l'asso nella manica del Kommando?

*** La posta in gioco è enorme. Prima di mettersi alla sua scoperta, sarà meglio sbarazzarsi di certe idee preconcette che ci appesantirebbero la marcia. Il morale tedesco nel 1943 o 1944 fu meno basso che durante l'inverno 1941-1942, quando gli Alleati battuti su tutti i fronti toccavano a loro volta il fondo della depressione. La Germania, ebbra di vittorie, svegliata di colpo sotto le mura di Mosca, conobbe per qualche mese la tristezza del dopo-sbronza. La guerra cessava di essere una grandiosa passeggiata; sarebbe stata lunga e dura. Il suo esito diveniva dubbio. Spaventosa presa di coscienza per un popolo che si era abituato a vivere al ritmo dei bollettini speciali che gli annunciavano offensive sempre vittoriose e l'ampliamento del Terzo Reich alle dimensioni dell'Europa. Basta leggere il Diario di Goebbels per misurare la gravità della scossa; dal gradino più alto a quello più basso della scala sociale, cominciò a serpeggiare il dubbio. Poi Hitler strinse la Wehrmacht nel suo pugno di ferro e la galvanizzò a forza di disciplina; poi gli Alleati scatenarono il «terrore aereo» e, sull'incudine delle sue rovine, forgiarono al popolo tedesco un morale nuovo – risultato inaspettato, ma incontestabile –; poi la paura dell'Armata Rossa chiamò a raccolta le energie per una battaglia disperata. Tranne che negli ultimissimi tempi, non si sarebbe più visto alla Germania volto disfatto che aveva avuto durante il primo inverno della campagna di Russia. Tra i capi militari o civili, molti continuano però a ritenere che si va incontro al disastro. La Germania non ha mai vinto una

guerra su due fronti. Bisognerebbe trattare con l'Occidente o con l'Oriente. Ma preconizzare negoziati equivarrebbe ad un suicidio; ci si farebbe tacciare di disfattismo, quindi di tradimento. Meglio marciare verso il precipizio come tutti gli altri: al passo dell'oca. Himmler non è tutti gli altri. Sfugge al terrore generale, dato che è la fonte e lo strumento di tale terrore. La Gestapo non lo spaventa: la Gestapo è lui. Se posa uno sguardo lucido sulla situazione, chi meglio di lui è in grado di prendere i provvedimenti necessari? Himmler: un pazzo pieno di buon senso, specie non rara. Testa nelle nuvole e piedi piantati saldamente a terra. È suppergiù convinto di essere la reincarnazione di Enrico l'Uccellatore, che ha regnato sui popoli germanici nell'XI secolo e cui fa tributare un culto speciale – non importa se le sue divisioni di SS sono le uniche ad essere equipaggiate di divise imbottite fin dal primo inverno russo. Quell'inverno, Himmler constata il crollo del morale tedesco di fronte ad una situazione di cui non si riesce a scorgere la soluzione. Il morale potrà essere rafforzato a colpi di eccitanti, ma non per questo la situazione risulterà modificata. A primavera, quando la Wehrmacht riprende lo slancio e avanza verso il Caucaso tra l'entusiasmo generale, perché tutta la Germania è persuasa che sta per dare al nemico il colpo di grazia, Himmler conserva la sua lucidità: Ciano, ministro degli Esteri d'Italia, annota il 19 maggio 1942 nel suo Diario che il Reichsführer delle SS ritiene che l'offensiva sarà brillante ma non decisiva, con la prospettiva di un altro inverno difficile dal punto di vista materiale e morale. Gli avvenimenti confermano la previsione. È per questo che l'avvocato Langbehn, amico di Himmler, ottiene da lui l'autorizzazione ad intavolare colloqui, nel dicem-

bre del 1942, con alcuni ufficiali inglesi ed americani a Zurigo e a Stoccolma; sonda i suoi interlocutori circa la possibilità di una pace separata con l'Occidente, a patto di un mutamento di regime in Germania. Lo storico Wheeler-Bennett scrisse: Nulla di definitivo uscì da quei contatti, ma essi rafforzarono la duplice convinzione che, date certe circostanze, Himmler avrebbe “rilanciato la palla” ai cospiratori [la Resistenza tedesca] e che questa era la condizione indispensabile perché riuscisse l'eliminazione di Hitler e del regime nazista2.

Ulrich von Hassel, uno dei capi della Resistenza, diplomatico messo in disparte da Hitler, ma sempre bene informato, hassel dunque accenna a tali conversazioni nel suo Diario. Non è del resto la prima volta che constata il gioco in cui si è impegnato Himmler. In data 22 marzo 1942 scriveva: Recentemente, serata molto interessante in casa di Langbehn, il quale continua a credere che tra i seguaci di Himmler si progetti tutta una serie di cose di vario tipo. Comunque, in quell'ambiente sono più capaci di agire che non nel gruppo di Beck, eccetera.

Sette mesi prima, nel settembre del 1941, Hassel ha ricevuto la visita di un certo Danfeld, membro del Servizio informazioni delle SS: Quell'ufficiale delle SS, ancora relativamente giovane, era notevolmente informato in fatto di politica estera, 2 J.W. Wheeler-Bennett, The Nemesis of Power, MacMillan, 1953, p. 577.

dotato di un giudizio sobrio e di una sorprendente franchezza. Si è intrattenuto un'ora e mezza e si è imbarcato per strade lungo le quali, per prudenza, non l'ho seguito. Nel complesso, l'impressione era che nel raggio di azione di Himmler ci si fanno gravi preoccupazioni e ci si scervella per trovare una via di uscita3.

Non ci sorprendiamo di sentire dei membri delle SS usare un simile linguaggio (non se ne stupisce neppure Hassel): abbiamo già detto che erano i soli a poter esprimere ad alta voce ciò che gli altri a malapena osavano dire. E non è neanche il caso di stupirsi constatando l'avvicinamento contro natura tra un uomo della Resistenza ed un agente delle SS: il fatto è che Himmler conta proprio sulla Resistenza per ottenere il contatto con l'Occidente e trattare. Gli storici del Terzo Reich hanno riferito particolareggiatamente come tentò di servirsi ai propri fini politici di ogni canale clandestino. Dal 1942 al 20 luglio 1944, data dell'attentato contro Hitler, i gruppi di resistenza in rapporto con l'Occidente beneficiarono da parte sua di una straordinaria mitezza. Scoperti, i loro membri venivano arrestati solo in ultimissima istanza; arrestati, nella maggior parte dei casi furono giustiziati soltanto dopo il 20 luglio 1944, quando non era davvero più possibile sottrarli al carnefice. Così conclude lo storico inglese Gerald Reitlinger: Si può affermare con certezza che nessun movimento il quale avesse una probabilità di negoziare con gli Occidentali nel 1943 sarebbe stato colpito da Himmler, se 3 U. von Hassel, op. cit., pp. 205 e 233.

soltanto questi avesse potuto evitarlo. E Himmler era restio a trasformare in esempio i cospiratori scoperti dai suoi agenti, perché temeva che un tale esempio distruggesse la Resistenza nel suo complesso4.

La Resistenza intuisce così bene il gioco del Reichsführer che va addirittura a bussare alla sua porta. Abbiamo visto che Hassel e i suoi amici erano perfettamente al corrente delle inquietudini delle SS in merito all'esito della guerra. In pari tempo disperavano di conquistare i timorosi generali della Wehrmacht all'idea di un putsch antihitleriano. Da tale duplice constatazione deriva un piano sorprendente e insieme razionale: arruolare Himmler nelle file della Resistenza. I rischi non mancano, ma Hassel e i suoi amici ritengono a buon diritto che il gioco valga la candela. Se Himmler e le sue SS saranno con loro, i militari non potranno più rifiutarsi di agire. L'intermediario è quello stesso Langbehn che ha già eseguito una missione esplorativa in Svizzera e in Svezia. Organizza un appuntamento tra Himmler e Popitz, ministro delle Finanze della Prussia, membro della Resistenza. Il colloquio ha luogo al Ministero degli Interni il 26 agosto 1943. Popitz suggerisce che si dovrebbe tentare di negoziare con l'Occidente anche senza il consenso di Hitler. Himmler («il fedele Heinrich», come lo chiama spesso e volentieri il Führer), resta quasi silenzioso, pur dicendo abbastanza perché Popitz ne tragga l'impressione, scrive Wheeler-Bennett, «che non è ostile in via di principio» 5. È già moltissimo! Langbehn fila immediatamente in Svizzera a dare la buona notizia ai suoi interlocutori occidentali. Purtroppo, la Gestapo 4 G. Reitlinger, The S.S., Heinemann, 1956, p. 289. 5 op. cit., p. 578.

capta un messaggio radio trasmesso dalla Svizzera, nel quale sono riassunte a beneficio di una capitale alleata le informazioni recate da Langbehn. Hitler è è avvertito prima che Hitler possa intervenire. Quest'ultimo, costretto a proteggersi, lascia in libertà Popitz ma fa arrestare Langbehn6. L'operazione è fallita a causa di un disgraziato e imprevedibile incidente. Resta comunque significativa della politica perseguita da Himmler: sempre con i piedi ben piantati in terra e la testa tra le nuvole. Il buon senso gli detta di farla finita con la guerra su due fronti. Trattare con l'Oriente è per lui fuori discussione: crede testardamente alla «crociata antibolscevica». I suoi sforzi tenderanno, perciò, ad intavolare trattative con l'Occidente. La follia di Himmler è ovviamente quella di sperare che un Churchill o un Roosevelt accetteranno di negoziare con lui e di stringergli la mano macchiata del sangue di milioni di vittime. Ma le illusioni del Reichsführer, illusioni che conserverà, del resto, fino all'ultimo, sono altra cosa: una cosa che riguarda lui solo. Ciò che riguarda noi è la sua politica. *** Che rapporto c'è tra il gioco politico su scala mondiale di un Himmler e Trepper, il suo minuscolo prigioniero? Un rapporto diretto e di un'assoluta semplicità. Per concludere una pace separata con uno degli Alleati, occorre in primo luogo rompere l'alleanza, spezzare il fronte avversario, aprirvi una breccia attraverso la quale infilarsi. L'impresa è sempre possibile, spesso facile, dato che la Storia abbonda di 6 I due uomini saranno giustiziati soltanto dopo il 20 luglio 1944.

coalizioni che si sciolsero prima di dare i loro frutti. Essere alleati significa guardare nella stessa direzione, pur tenendo d'occhio il vicino; significa procedere di pari passo, pur badando a non inciampare; significa pubblicare dichiarazioni comuni in cui non compaiono i secondi fini e i dubbi da cui ogni controparte è funestata. Così, l'alleanza migliore non è mai molto lontana dalla separazione dei corpi e dei beni, se non addirittura dal divorzio. Stalin, Churchill e Roosevelt ne offrono l'esempio perfetto. Le peripezie della loro unione provvisoria sono troppo note perché ci si dilunghi. Riepiloghiamole: durante la prima parte della guerra, quando la Russia vacilla sotto i colpi tedeschi, Churchill e Roosevelt tremano all'idea di vederla sfuggire al martirio mediante la scappatoia di una pace separata; nella seconda metà del conflitto, quando l'Armata Rossa contrattacca al prezzo di 10.000 soldati al giorno, Stalin si infuria vedendo che gli Occidentali ritardano di continuo l'apertura del secondo fronte, poi arriva a sospettarli di voler trattare con il Reich per bloccare la marea rossa che dilaga sull'Europa centrale. Il gioco tedesco consisterà perciò nell'irritare gli antagonismi, nell'avvelenare i malintesi, nel distillare nella coalizione il veleno dei dubbi reciproci in modo da farla esplodere per la forza stessa delle sue contraddizioni interne. Come? Schellenberg, capo del Servizio informazioni delle SS, lo spiega chiaramente nelle sue memorie: facendo credere a ciascuno degli Alleati che la Germania si prepara a negoziare con l'altro. Schellenberg scrive:

Era dunque importantissimo entrare in contatto con i russi nel momento stesso in cui avremmo iniziato negoziati con l'Occidente. La crescente rivalità tra le potenze alleate avrebbe rafforzato la nostra posizione7.

Ma soggiunge che la maggiore difficoltà consiste nel trovare un abboccamento con i sovietici8. Gli Occidentali sono facilmente accessibili. Stoccolma, Madrid, Ginevra, Lisbona brulicano di emissari ufficiali e ufficiosi che potranno essere altrettanti validi interlocutori. Il cauto Himmler cerca di raggiungerli per il tramite della Resistenza tedesca al fine di dissimulare i propri interventi ai colleghi nazisti. Ma, se è davvero deciso a negoziare, pronto ad assumerne il rischio e la responsabilità, gli basta volere il contatto diretto con l'Occidente per ottenerlo subito, e nella maniera più semplice, in una capitale neutrale. I russi, lo abbiamo detto, sono meno facili da raggiungere. Eppure, il gioco del Reichsführer richiede che egli li raggiunga. 7 Op. cit., p. 378. 8 Gli storici hanno finora rintracciato un unico contatto diretto tra rappresentanti sovietici e tedeschi nel corso dell'ultima guerra mondiale. Nel dicembre del 1942, poi ancora nel giugno del 1943, Peter Kleist, diplomatico tedesco, viene avvicinato mentre è in missione a Stoccolma dall'agente sovietico Edgar Clauss, il quale gli propone un incontro con Alexandrov, capo del Dipartimento europeo del Commissariato sovietico degli Esteri, annunciandogli che il Cremlino sarebbe disposto a concludere a certe condizioni una pace di compromesso con la Germania. A seguito di una mossa sbagliata di Clauss (che si mette anche in contatto con il rappresentante a Stoccolma dell'Abwehr, il cui capo, l'ammiraglio Canaris, è un accanito anticomunista), Hitler viene messo al corrente. Scoppia di rabbia di fronte alla «impudente provocazione giudaica» (si presume che Clauss sia ebreo) e ordina un'inchiesta sugli antecedenti razziali di Alexandrov. Peter Kleist conclude: «La missione fu eseguita con cura tutta particolare. Ma rimase senza risultato, perché fu impossibile interrogare l'“Ufficio Centrale sovietico per la determinazione della razza e dell'origine” in merito all'albero genealogico del compagno Alexandrov» (cfr. P. Kleist, Entre Staline et Hitler, Librairie Plon, 1953). Naufraò così in un ridicolo tipicamente nazista l'unico tentativo di lanciare una passerella tra Mosca e Berlino.

Ignoriamo chi gli abbia suggerito questa soluzione: le emittenti dell'Orchestra Rossa. L'idea era ingegnosa; la sua attuazione fu perfetta. Ora possiamo capire l'ottima qualità delle informazioni trasmesse dai pianisti corrotti: bisognava ad ogni costo che Mosca ignorasse gli arresti e continuasse a credere alla buona fede dei suoi. Così, l'Orchestra Rossa avrebbe continuato a suonare senza preoccupanti intervalli, ma questa volta per conto di Berlino e a tutto danno di Mosca. Yefremov, Wenzel e Winterink furono i primi solisti della nuova sinfonia. L'obiettivo fondamentale restava, tuttavia, quello di riportare alla testa di questa orchestra “seconda maniera” il suo capo legittimo – il Gran Capo. Gli altri sono strumentisti; lui solo possiede il talento necessario per intossicare Mosca sul piano della politica internazionale. Come sarà impiegato, ora che lo tengono in pugno? Anche in questo caso con ingegnosità e brio. Procedendo per tocchi leggeri, senza forzare la nota e soffermandosi sui particolari concreti. Pietra su pietra verrà costruito il muro di diffidenza dietro il quale si spera di isolare Stalin. A titolo di esempio, ecco tre di queste pietre. *** I capi delle SS ricevono un rapporto di dieci pagine dattiloscritte redatto dai servizi di Goebbels, ministro della Propaganda. Il rapporto sintetizza i risultati di un vasto sondaggio dell'opinione pubblica circa l'atteggiamento del popolo tedesco nei confronti della guerra. Due conclusioni si impongono: primo, il popolo continua a credere nella vittoria; secondo, nell'ipotesi di una

sconfitta della Wehrmacht, il tedesco medio ritiene che bisognerà trattare a qualsiasi prezzo con l'Occidente in modo da tenere lontani i russi dalle frontiere germaniche. Il rapporto, naturalmente, è segretissimo, ma le SS, dopo animate trattative, strappano l'autorizzazione a trasmetterlo a Mosca sotto copertura del Gran Capo. Detto rapporto fornisce a Stalin la prova dell'inclinazione tedesca a trattare con gli Occidentali per gettare tutto il peso della Wehrmacht sull'Armata Rossa. Gli aviatori inglesi e americani abbattuti nel cielo della regione parigina, se feriti, vengono ricoverati all'ospedale di Clichy. Il Kommando trasmette, per mezzo delle emittenti “agganciate”, le dichiarazioni di un certo numero di tali aviatori che un membro della rete sarebbe riuscito ad avvicinare. Sono stanchi della guerra. Soprattutto, dubitano della giustezza della causa: la maggioranza sembra più antisovietica che antinazista. Si chiedono se, schiacciando la Germania, non si stia «ammazzando il maiale sbagliato». In tal modo, Stalin verrà a conoscenza dei reali sentimenti dei combattenti occidentali nei confronti dell'alleato russo. Già sospetta nere trattative tra i capi nazisti, Churchill e Roosevelt: il rapporto di Goebbels e le interviste di Clichy gli dimostrano che tali mene al vertice non corrono il pericolo di essere controbattute dagli strati popolari9. Mosca chiede ad uno dei pianisti corrotti informazioni sulle difese di Calais. Il Kommando trasmette qualche dato che viene giudicato insufficiente dal Centro, il quale esige un supplemento di indagini. Il Kommando spiega le proprie difficoltà: Calais brulica di agenti tedeschi armati di mitragliatori Sten. Mosca abboc9 L'autore precisa di non avere la prova dell'autenticità delle interviste. È probabile che le “dichiarazioni” degli aviatori siano state inventate di sana pianta per soddisfare alle esigenze della causa.

ca. Cosa? Sten, di marca inglese? Cercate e scoprite in che modo la Wehrmacht è riuscita a procurarseli! Risposta del Kommando: gli Sten sono stati acquistati dalla Wehrmacht in paese neutrale; gli inglesi sapevano chi era l'acquirente, ma hanno posto una sola condizione alla vendita: le armi non avrebbero dovuto essere impiegate sul fronte orientale. Ah! Che splendida soperchieria! Stalin, infatti, tirerà all'episodio due conclusioni sbagliate e gravide di conseguenze. In primo luogo, gli inglesi armano la Wehrmacht, patente violazione dell'alleanza. Se hanno vietato l'uso degli Sten sul fronte orientale è ovviamente per evitare che la cattura di un'arma sveli la loro fellonia; ciò non impedisce che, equipaggiando le truppe hitleriane in Occidente, liberino una parte dell'armamento tedesco a beneficio delle truppe in Oriente. Peggio ancora: se gli inglesi accrescono con tanta compiacenza la potenza di fuoco del Vallo Atlantico, è più che evidente che non hanno alcuna intenzione di sbarcare. L'apertura del secondo fronte è ben lontana! Al sicuro nelle loro basi, gli Occidentali aspetteranno tranquillamente che «l'ultimo soldato russo uccida l'ultimo soldato tedesco», secondo la celebre formula, se addirittura non decidono di trattare con la Germania per far sì che sia l'ultimo soldato tedesco a uccidere l'ultimo soldato russo... *** Il 17 gennaio 1944, il giornale moscovita Pravda pubblica con il titolo «Voci dal Cairo» la seguente informazione: Il Cairo, 12 gennaio (dall'inviato speciale della Pravda). Secondo informazioni degne di fede, provenienti da fonti

greche e jugoslave, un incontro segreto tra due importanti personalità britanniche e Ribbentrop ha avuto luogo recentemente in una città costiera della penisola iberica. Scopo dell'incontro era di mettere in chiaro le condizioni di una pace separata con la Germania. Si presume che l'incontro non sia stato privo di risultati.

A Berlino, Goebbels viene a conoscenza dell'articolo con stupore. Il suo ex-collaboratore Wilfred von Oven scrive: Ebbe sul ministro l'effetto di una potente droga. Quando mi convocò alla conferenza dedicata al materiale di stampa, tra il quale si trovava naturalmente anche l'articolo in questione, sembrava eccitatissimo. L'articolo era in cima ad una pila di telegrammi ed era contrassegnato – simbolo di grandissima importanza – da un grande fregio tracciato con la sua stilografica verde; a margine, si notavano anche parecchi punti esclamativi. Il ministro mi lancia un'occhiata gravida di significato, batte sul foglio il dorso della mano e dice: «Ecco qui la notizia più importante che possa esserci in questo momento. Ovviamente – e, devo dire, sfortunatamente – è tutta inventata dalla A alla Z. Il problema che si pone è questo: dove Stalin – perché è quel volpone e nessun altro che si nasconde dietro la faccenda –, dove Stalin vuole andare a parare con questa frottola?»10.

Lo stesso problema si pone ansiosamente a Londra e a Washington. La notizia della Pravda è, naturalmente, priva di qualsiasi fondamento, ma se Stalin è propenso a crederci – ed è notorio che la Pravda non pubblica nulla che egli non abbia prima 10 W. von Oven, Mit Goebbels bis zum Ende, Buenos Aires, 1949, vol. I, p. 180.

approvato –, l'alleanza può essere compromessa. Il Foreign Office si affretta a pubblicare una smentita; viene aperta un'inchiesta; si scopre che la Pravda non ha un corrispondente in Egitto; che il suo articolo sarebbe stato comunque sottoposto alla censura prima di essere trasmesso. L'agenzia sovietica Tass pubblica la smentita britannica con l'aggiunta di commenti insinuanti sulle losche attività di Fritz von Papen, ambasciatore di Germania in Turchia. La confusione è generale. A Berlino, Goebbels dice a Wilfrid von Oven: Dobbiamo seguire con molta attenzione gli sviluppi della faccenda. In ogni caso, è una conferma di ciò che ho predetto già molto tempo fa: gli Alleati si minacciano a vicenda di mettersi d'accordo con noi. Ovviamente, il pubblico non deve sapere nulla di questa notizia; verso l'estero dobbiamo del pari osservare un mutismo assolutuo e non lasciare trapelare neppure con una parola fino a che punto siamo interessati. Sicché, informazione bloccata per l'interno e l'estero. Lei è responsabile di qualsiasi fuga di notizie.

Ma vi furono delle fughe. Il 7 febbraio, Ulrich von Hassel annota nel suo Diario: Tratto significativo della situazione: la “bombetta puzzolente” lanciata dalla Pravda contro gli anglo-americani, secondo cui Ribbentrop avrebbe avuto un abboccamento con Hoare in Spagna. Risultato in Germania: accresciuta diffidenza dei dirigent, i quali suppongono che non Ribbentrop, è vero, ma altri gruppi siano in contatto con gli

inglesi. Schwerin11 mi ha raccontato che vengono controllate le mosse di un gruppo di giovani del Ministero degli Esteri12.

Londra e Washington non sanno che cosa abbia potuto giustificare l'articolo. Le capitali neutrali si interrogano in merito. A Berlino, Goebbels, ministro della Propaganda, Schwerin von Krosigk, ministro delle Finanze, e la quasi totalità dei dirigenti nazisti navigano nella stessa incertezza. Perfino gli storici del Terzo Reich inciamperanno in questo episodio e si precipiteranno a credere ad un semplice “pesce” – una «frottola», come dice Reitlinger, riprendendo l'espressione di Goebbels... Redatta dagli ispiratori del Funkspiel, trasmessa a Parigi da Gestapo-Müller, l'informazione è stata comunicata a Mosca dal Kommando sull'emittente di Kent. Un messaggio di parecchio anteriore, trasmesso dalla stessa emittente, aveva annunciato a Mosca che il Piccolo Capo era in contatto con un importante funzionario del Ministero degli Esteri. Il Direttore si era affrettato a domandare come si chiamava. Il Kommando aveva fornito il nome di un autentico diplomatico tedesco che aveva prestato servizio a Lisbona prima del 1939 e di cui erano ben noti i sentimenti antinazisti. Così era stato giustificato l'improvviso afflusso di importanti informazioni diplomatiche nei telegrammi di Kent. Anche l'informazione relativa alle trattative tra Ribbentrop e i britannici era attribuita alla stessa fonte. Secondo Kent, il suo agente aveva avuto sentore del rapporto di un diplomatico neutrale in missione a Londra, rapporto che era stato intercettato dai servizi tedeschi. Ed era esatto che il diplomatico neutrale in 11 Schwerin von Krosigk, ministro delle Finanze del Reich. 12 Op. cit., p. 315.

questione sitrovava in quel momento a Londra – il Cremlino poteva facilmente verificarne la presenza –, che aveva spedito un resoconto al proprio governo e che i servizi tedeschi erano riusciti ad intercettarlo. Gli ispiratori del Funkspiel avevano dovuto soltanto cambiare qualche frase per modificarne completamente il significato e fargli annunciare un incontro in territorio neutrale tra funzionari tedeschi e britannici, incontro motivato dall'inquietudine dei circoli dirigenti di Londra di fronte agli immensi acquisti territoriali operati dall'Armata Rossa. Si trattava, dopo aver accuratamente coltivato i dubbi di Stalin sulla lealtà dei suoi alleati, di convincerlo che questi si preparavano a negoziare con la Germania affinché si affrettasse a superarli sulla strada della fellonia, scatenando in tal modo il processo di disintegrazione dell'alleanza per aver erroneamente creduto che tale processo fosse già iniziato. *** Tale è il temibile “Grande Gioco” cui Trepper è costretto a prestarsi se vuole salvare la vita.

XXVIII. SOLE E NEBBIA

Una buona vita. Dopo l'arresto nello studio del dottor Maleplate, Giering e Fortner lo avevano portato in Rue des Saussaies. Lo aveva accolto il padrone di casa, lo Sturmbannführer delle SS Boemelburg, che due settimane prima era andato ad arrestare Kent a Marsiglia. Boemelburg, uno dei capi della Gestapo in Francia, vedendo Trepper aveva esclamato: «Ah! Lo abbiamo preso finalmente, l'orso sovietico!». Durante la mezz'ora successiva, il Kommando telefonò a Berlino la meravigliosa notizia, poi il prigioniero fu fatto salire in un'automobile che lo condusse alla prigione di Fresnes. La macchina era scortata da parecchie altre vetture stipate di poliziotti armati. Trepper trascorse una sola notte a Fresnes ed è probabile che abbia avuto qualche difficoltà a trovare sonno: gli erano state ammanettate le mani dietro la schiena, in conformità alle istruzioni impartite da Giering per tutti i prigionieri dell'Orchestra Rossa. L'indomani, il Kommando riportò Trepper in Rue des Saussaies e lo sistemò in una cella improvvisata al pianterreno. Era destinato a restarci due mesi e mezzo. Nessuno levò mai la mano su di lui. Era ben nutrito e fornito di sigarette. Siccome soffriva

di un vizio cardiaco, un medico della Wehrmacht veniva a visitarlo e a curarlo ogni tre giorni. Reiser riferisce perfino che aveva il permesso di fare il bagno due o tre volte alla settimana in una vasca esistente all'ultimo piano dello stabile. Il prigioniero si era lagnato della noia che gli procurava l'ozio; gli fu dato un dizionario, carta e matita èerche potesse occupare il tempo libero a perfezionare la propria conoscenza della lingua tedesca. Gli interrogatori si svolgevano nell'atmosfera più familiare. Avevano luogo dopo pranzo perché, di mattina, i membri del Kommando non erano nella loro migliore forma intellettuale; formavano un'allegra squadra, ben amalgamata, resistente alla fatica, ma ardente nei piaceri, abilissima a distendersi di sera dalle grandi fatiche della giornata. Ad eccezione dell'austero Reiser, tutta la banda se ne andava all'avventura non appena gli uffici chiudevano. Suo rifugio preferito fu dapprima un bar russo – era, in un certo senso, come restare nell'atmosfera dell'Orchestra Rossa –; ma i buontemponi del Kommando vi incontrarono la cantante Suzy Solidor, la quale li sedusse e se li accaparrò come clienti per il suo locale notturno personale, in Rue Sainte-Anne, 12. Qui, ogni sera, Giering e i suoi uomini ritrovavano le loro amanti (donne che facevano parte dei servizi ausiliari della Wehrmacht) e ingollavano una gran quantità di alcol ascoltando la bionda Solidor che declamava loro con la sua voce roca Avevo un camerata o Lili Marlen. Quelle canzoni malinconiche non escludevano grasse risate. Così, il giorno in cui Suzy, di ritorno da Berlino, raccontò di aver trovato la stazione berlinese drappeggiata di bandiere fregiate delle iniziali “SS”. Si trattava, naturalmente, di orifiamme spiegate in onore di Himmler, ma la cantante sospirò: «Non valeva comunque la pena di esporre per

me tutte quelle bandiere con le mie iniziali». Fortner ne ride ancora oggi. Dopo pranzo, dunque, Giering e Trepper si sedevano davanti ad una bottiglia di cognac e ad un'enorme caffettiera. Chiacchieravano per interi pomeriggi come due vecchi compagni d'armi che si scambiassero ricordi, e solo molto di rado una certa piega del discorso veniva a ricordare loro che non si trovavano dalla stessa parte della barricata. Un giorno, per esempio, Giering annunciò che l'Armata Rossa aveva varcato il Dniepr, aggiungendo: «A Berlino cominciano a contare i fiumi che li separano dal fronte». Trepper raccontò del celebre aneddoto del Kaiser che, nel 1918, esprime al suo aiutante di campo il desiderio di visitare il fronte; e l'aiutante di campo risponde: «Pazienza, Sire, il fronte non tarderà ad arrivare fino a voi». Giering impallidì ed il suo prigioniero, comprendendo che si era spinto un po' troppo oltre, soggiunse in tono filo sofico: «Bah! I fiumi ora corrono in un senso, ora in un altro». E questo, che a rigor di termini non significava nulla, bastò con l'aiuto del cognac a placare Giering. Il capo del Kommando dimagriva di continuo e la sua voce non era ormai più che un cavernoso brontolio: il cancro avanzava ancora più rapidamente dell'Armata Rossa. Trepper compiangeva le sue sofferenze e lo incoraggiava ad aumentare il consumo di alcol – unico mezzo, secondo lui, per ridurre il fatale tumore. Fatto strano, il Gran Capo diventò del resto una specie di consulente medico del Kommando, distribuendo tutt'attorno pareri e consigli gratuiti. Il suo paziente più assiduo era il collaboratore di Giering, Willy Berg (“Hügel”1), le cui sofferenze dopo le bevute 1 In tedesco, Berg significa “montagna” e Hügel significa “collina”. Si ricordi che Willy Berg era alquanto piccolo.

erano tremende. Il Gran Capo lo confortava dicendogli: «Conosco una farmacista parigina che fabbrica un rimedio miracoloso; dovremmo andarci insieme uno di questi giorni». E non tardò, infatti, a ottenere dei permessi di uscita. Le prime volte che lasciò la cella per una passeggiata in automobile, due macchine della Gestapo lo scortavano la sua. Poi la scorta fu dimezzata, poi soppressa del tutto. L'automobile di Trepper correva dunque sola per le strade di Parigi, con due guardie a bordo oltre all'autista. Poi fu abbandonata anche questa precauzione: il prigioniero fu lasciato uscire in compagnia di un unico guardiano che per lo più era Willy Berg. Questi implorò più volte di fare un salto alla famosa farmacia, ma Trepper rifiutò sempre, con vari pretesti, e il povero Berg finì con il credere che la storia del rimedio miracoloso fosse puro frutto della sua fantasia. *** I pianisti corrotti delle reti belga e olandese beneficiano di un trattamento altrettanto mite. Yefremov e Wenzel abitano in un appartamento requisito in Rue de l'Aurore, 68, a Bruxelles; Winterink è ad Amsterdam. Il Kommando, per prudenza, aveva dapprima ritenuto preferibile servirsene unicamente per la redazione dei messaggi: si temeva da parte loro un eventuale risveglio degli scrupoli che li riconducesse all'osservanza di un tempo. Così, dapprima, al pianoforte si siedono specialisti tedeschi che tentano di riannodare il dialogo con Mosca. Fanno fiasco. Il Centro diffida e non risponde. Non c'è da stupirsene: ogni pianista ha una sua tecnica personale – una sua “firma”, altrettanto individuale e identificabile della sua voce o delle sue impronte digita-

li (trasmette con un ritmo più o meno rapido, stacca questa o quella lettera, eccetera). Il suo interlocutore della Centrale conosce le sue manie e lo identifica già solo alla qualità del tocco; se il pianista viene sostituito, è in grado di scoprire il trucco a orecchio. Dopo qualche settimana di affannosi tentativi, il Kommando si rassegna ad impiegare i suoi tre prigionieri per la trasmissione dei messaggi. Per prudenza, vengono fatti loro trasmettere parecchi testi a vuoto, vale a dire senza stabilire il collegamento con Mosca. Tali testi, debitamente registrati, sono in seguito analizzati da specialisti che si sforzano di scoprire un'eventuale anomalia atta a mettere in allarme i russi. I tre pianisti si rimettono in contatto con il Centro. Questo si stupisce: «Che cos'è accaduto?». Il Kommando fa rispondere: «C'è stata una certa confusione dovuta agli arresti; ora va tutto bene». E la qualità del materiale trasmesso non tarda a sopire i dubbi di Mosca. Da quel momento in poi, è un idillio. Un ex-membro della Funkabwher racconta: La passione dei prigionieri per il loro lavoro finì per diventare una vera e propria mania. Le loro condizioni di vita erano passabili, godevano di una certa libertà e i loro rapporti personali con gli ufficiali tedeschi incaricati di tenerli d'occhio non fecero che migliorare con il passare del tempo.

Tali rapporti, iniziatisi nella diffidenza reciproca, si trasformano in caloroso cameratismo. È quasi inevitabile. In primo luogo sono tutti specialisti, hanno in comune la stessa passione per la stessa tecnica, parlano instancabilmente di lavoro come fanno

tutti gli specialisti del mondo. E poi, vivono insieme dal mattino alla sera, condividono i pasti, fumano le stesse sigarette, si scambiano battute che ben presto diventano rituali. Il mondo esterno sfuma, perfino il rombo della guerra si attutisce: esiste ormai soltanto una specie di camerata adibita ad una missione appassionante. Dopo qualche settimana sarebbe difficile ad un visitatore distinguere a prima vista i prigionieri dai guardiani. Tutti gli ispiratori del Funkspiel sanno del fenomeno. Si sforzano di lottare contro un'eccessiva fraternizzazione, ma invano: l'uomo è fatto così. Grandezza o debolezza, come si preferisce. Un giorno dell'inverno 1943, Wenzel ed il suo custode in carica entrano nella stanza dove è situata l'emittente; la stufa è spenta; fa freddo. Il tedesco si accovaccia a riattizzare il fuoco, Wenzel si scaglia su di lui, lo mette fuori combattimento, si precipita verso la porta. Le chiavi sono nella toppa, all'esterno. Wenzel chiude il suo guardiano nella stanza e scende le scale a precipizio. La strada. La libertà. Nonostante le accanite ricerche, il Kommando non ripescherà mai Wenzel. Il suo angelo custode lo sostituisce al pianoforte. Ha avuto tutto il tempo di studiare la tecnica del prigioniero: il Centro non si accorge della sostituzione. Ma siccome i tedeschi hanno fiutato il vento contrario, strappano i due altri pianisti alla loro dorata prigionia e li chiudono nelle celle del campo di concentramento di Breendonck, nei dintorni di Bruxelles, da dove continueranno il Funkspiel. Winterink e Yefremov pagano con una detenzione più dura la libertà di Wenzel. ***

Intanto a Parigi la dolce vita del Gran Capo era turbata dalla spaventosa apparizione di prigionieri catturati dal Kommando. La SS Jung aveva infranto gli occhiali di Katz con un pugno e il viso del prigioniero era solcato da lunghi tagli; tra gli altri supplizi, gli erano state strappate le unghie. Katz mostrò le dita insanguinate a Trepper e sussurrò: «Non ho detto niente!». Ignoriamo in che modo fu torturato Grossvogel, ma sappiamo che si rifiutò di parlare anche dopo essere stato avvertito che il suo silenzio avrebbe causato la morte di sua moglie e di suo figlio. Doveva la cattura al suo amore per loro. Il Kommando, arrestata la signora Grossvogel, l'aveva minacciata di uccidere il bambino sotto i suoi occhi se non avesse collaborato ad attirare il marito in una trappola. La sventurata acconsentì. Grossvogel, nonostante i dubbi, rispose al suo appello e fu arrestato. Era accaduto una settimana dopo la cattura del Gran Capo. Robinson fu catturato qualche settimana dopo da Reiser e Fortner. Secondo Reiser, il Kommando lo aveva snidato seguendo certe piste del Komintern. Gli venne fissato un appuntamento al Palais de Chaillot, e Robinson ci si recò. Rannicchiato in fonda ad un'automobile della Gestapo, Trepper assisteva all'arresto. Quando Reiser lo aveva avvertito che lo avrebbero condotto con loro perché collaborasse eventualmente all'identificazione di Robinson, il Gran Capo aveva risposto: «Quello, prendetelo pure se volete. Non mi ha procurato altro che fastidi e non sarà una perdita per nessuno!». Robinson, che si spacciava per giornalista, alloggiava in una cameretta d'albergo in cui regnava un disordine tipicamente Komintern: libri e incartamenti traboccavano dai cassetti e formavano pile sui mobili. Il Kommando scoprì, tra

quel guazzabuglio, 5 passaporti che temperarono la sua gioia per aver messo le mani su un personaggio tanto celebre dell'Internazionale comunista: 3 dei passaporti erano intestati a Henri Robinson; i timbri che vi erano apposti dimostravano che il loro proprietario se ne era servito recentemente per recarsi in Svizzera. Ora, Henri Robinson figurava dal 1930 nel “Bollettino di Ricerche” della polizia tedesca! Come era possibile che un agente davvero importante commettesse la pazzia di servirsi di documenti così compromettenti? Il numero dei passaporti si spiegava con la preoccupazione di non allarmare la polizia di frontiera con frequenti passaggi (i timbri risultavano in tal modo diradati), ma che fossero tutti a nome di Robinson restò un mistero per il Kommando. Quanto a Trepper, vi scorse un esempio tipico del dilettantismo del Komintern in generale e di Robinson in particolare2. Reiser e Fortner portarono il loro prigioniero allibito negli uffici del Kommando. Qui, Fortner diede inizio all'interrogatorio alla sua solita maniera, vale a dire con gentilezza. Al punto che Robinson finì con l'esclamare: «Ma perché è così gentile con me?». Colto alla sprovvista, l'uomo dell'Abwehr riuscì solo a rispondere: «Perché lei mi è simpatico». A questo punto sopraggiunge Willy Berg, che aveva esaminato il contenuto della cartella di Robinson. Ascoltò alcune domande e risposte, poi, apparen2 I servizi occidentali condividono ancora oggi la perplessità del Kommando. Il loro stupore è stato vieppiù rafforzato dalla scoperta fortuita, nella Germania Occidentale, durante il 1947, di parecchi passaporti rilasciati prima della guerra e recanti tutti la fotografia di Robinson. L'inchiesta permise di risalire fino ad un certo Max Habijanic, poliziotto svizzero di Basilea. Arrestato nel 1948, Habijanic confessò che da 20 anni forniva al Komintern passaporti di insospettabile autenticità (cfr. Dallin, op. cit., p. 203). Risulta quindi ancora meno chiaro il motivo per cui Robinson, disponendo di un tale “calzolaio”, abbia corso l'enorme rischio di usare i propri documenti personali.

temente poco soddisfatto del tono dell'interrogatorio, si scagliò sul prigioniero e prese a schiaffeggiarlo con violenza. Robinson si alzò urlando: «Che cosa vuole da me? Sono solo un giornalista!». Fortner, irritatissimo, gridò a Giering: «Se cominciate a menare le mani, io me ne vado!». Giering fece uscire Berg, ma a partire da quel giorno Fortner non fu più nelle grazie del Kommando. Sapeva che lo consideravano da un pezzo noioso e formalista. La prima volta che aveva visto un prigioniero con la faccia sfigurata dalle botte, aveva detto a Giering: «Senta un po', lei è un poliziotto di professione e sa che simili procedimenti sono illegali». Giering aveva risposto: «Come? Ma quel tipo ha semplicemente urtato contro la porta». Pareva che i prigionieri del Kommando avessero la mania di buttarsi contro le porte. Tutto ciò fece sì che Fortner accettasse di buon grado l'idea di essere messo in quarantena. Tenuto in disparte, privato di informazioni, si ritirò a Bruxelles da dove non si mosse più. Non poteva certo indovinare fino a che punto la sua ritirata facesse piacere a Giering: il Kommando non desiderava che un membro dell'Abwehr fosse al corrente del “Grande Gioco” inaugurato dalle SS; l'eccessiva pusillanimità di Fortner era stata solo un pretesto per metterlo con le spalle al muro. *** Il 16 febbraio 1942 fu decapitata a Berlino la dolce Mildred Harnack. Dopo la cassazione della prima sentenza da parte di Hitler, i difensori di Mildred avevano manifestato alla famiglia il loro stupore di fronte a quel ripensamento senza precedenti. Axel von

Harnack, cugino di Arvid, decise di tentare un intervento presso il procuratore Manfred Roeder. Scrive: «Non ho mai provato una simile impressione di brutalità da parte di un individuo. Roeder si circondava di un'atmosfera di paura» 3. Roeder rispose alla replica: «Metto in guardia la famiglia Harnack contro qualsiasi intervento in favore di quella donna. Occorre comportarsi come se non avesse nulla a che fare con voi. Non appartiene più alla vostra famiglia». E concluse con minacce tutt'altro che velate nel caso in cui qualcuno intervenisse ancora in suo favore. Mildred Harnack e la contessa Erika von Brockdorf comparvero davanti ad un altro tribunale. L'accusa non invocò alcun fatto nuovo, alcuna testimonianza inedita, alcuna prova che già non fosse conosciuta. Ma i giudici, docili al loro Führer, questa volta emisero due sentenze capitali. Mildred tornò nella sua cella e attese che venissero a prenderla. Si era molto sciupata: nel giro di cinque mesi, la bella chioma bionda che costituiva il suo principale ornamento era diventata bianca. Il cappellano Poelchau scrisse più tardi ad uno dei suoi parenti: Era molto coraggiosa, pienamente cosciente, ma era evidente che aveva ormai chiuso con il mondo esterno. Per farsi insensibile al dolore, si era circondata di una muraglia, escludendo dal suo universo tutto ciò che era di ordine sentimentale: le sue relazioni intime, la sua famiglia, eccetera. Soltanto la fotografia di sua madre riusciva a farle abbandonare per qualche istante tale atteggiamento. Mildred teneva dialoghi muti ma appassionati

3 A. von Harnack, op. cit.

con la fotografia, e le lacrime le inondavano gli occhi. Copriva di baci il ritratto, poi ritrovava la calma4.

Il 15 febbraio tradusse in inglese questi versi di Goethe: CANTO DEL VIANDANTE NOTTURNO O tu che dal cielo splendi, E ogni pena e dolore plachi, A chi duplice miseria sa, Tu duplice conforto apprendi, Ah, stanco sono di questo vagare! A che servon gioia e dolore? Dolce pace, Vieni, ah, vieni nel mio cuore!

L'indomani, quando vennero a prenderla per l'esecuzione, quell'americana che un giovane studente tedesco appassionato e testardo si era andata a cercare, 15 anni prima, in una Università del lontanto Midwest, disse semplicemente: «... E ho tanto amato la Germania!». Marciò verso il patibolo a passo fermo, scortata da due guardie. *** Sei giorni prima era stato decapitato il colonnello Erwin Gehrts, cliente della cartomante Anna Krause.

4 Günther Weisenborn, op. cit.

E otto giorni prima Wilhelm Thews. Ex-ufficiale delle Brigate Internazionali, era evaso da un campo di concentramento francese per tornare in Germania e riprendere la lotta. *** Il 23 febbraio, giorno della festa dell'Armata Rossa, il Kommando offrì al suo «orso sovietico» una gabbia finalmente degna di lui. Trepper fu condotto a Neuilly, in una palazzina situata all'angolo tra il Boulevard Victor-Hugo e la Rue du Rouvray. Si trattava di una costruzione circondata da un giardino, piuttosto graziosa, con una facciata adorna di colonne bianche che le davano l'aria di un tempietto greco. La Gestapo l'aveva requisita per alloggiarvi i suoi prigionieri di rango: ci passarono il ministro spagnolo Largo Caballero, il colonnello de La Rocque, parecchi statisti francesi. Montavano la guardia una decina di volontari slovacchi. Vi regnava un regime piuttosto liberale: ogni detenuto disponeva di una comoda camera, di libri in abbondanza e i pasti, cucinati all'esterno, venivano serviti nelle camere. Le porte era chiuse a chiave, ma bastava battere un colpo perché subito comparisse una guardia, pronta a soddisfare qualsiasi richiesta ragionevole. Due donne facevano i servizi, armate di aspirapolvere. I detenuti avevano diritto ad una passeggiata quotidiana, vuoi attorno al prato, davanti alla facciata, vuoi attorno all'orticello che il portinaio Proudhomme e le sue figlie coltivavano amorosamente dietro la palazzina. La cancellata che cintava il giardino era stata schermata con fogli di lamiera per impedire la visuale, ma c'erano pur sempre alcune fessure. Il prigioniero che faceva i suoi quattro passi poteva anche udire i rumori del traffi-

co, i discorsi e passanti e perfino i mormorii affettuosi delle coppiette che si appoggiavano fiduciosi alla cancellata, perché all'esterno non c'erano sentinelle che montavano la guardia; per proteggersi dalla Resistenza, la Gestapo contava di più sul segreto che su uno spiegamento di forze. E l'esperienza le diede ragione. Anche a Neuilly il padrone di casa era Boemelburg. Accolse Trepper presentandogli il suo cane che si chiama “Stalin”. Trepper rispose con una smorfia: «Sì, lo so, molti comunisti chiamano il loro cane “Hitler”; ho sempre trovato molto ridicolo questo modo di fare». Boemelburg storse il naso. Un buon diavolo, in fondo, ma ubriaco fin dalle prime ore del mattino, cominciava la giornata esercitandosi al tiro alla pistola; i bersagli erano costituiti da grandi fotografie di capi comunisti o di personalità ebraiche ricercate dalla Gestapo. Boemelburg e le sue manie; la guardia slovacca rispettosa; i prigionieri di alto bordo che passeggiano a passo solenne, la testa pensosamente china, come ai tempi in cui misuravano i tappeti dei palazzi governativi; il portinaio Proudhomme, le sue due figlie e la loro attività di giardinieri; le grida dei ragazzi che vanno a scuola dall'altro lato delle lastre di lamiera: la Gestapo ebbe, in tutta Europa, prigioni alquanto sorprendenti, ma nessuna con tutta probabilità simile a quella di Neuilly sul piano della stranezza e dell'ovattato mistero. Anche André François-Poncet, illustre ambasciatore, ne fu profondamente colpito quando i tedeschi ve lo condussero, in compagnia di Albert Lebrun, presidente della Repubblica, nell'agosto del 1943. I due grandi personaggi, del resto, avrebbero sog-

giornato a Neuilly soltanto 6 giorni, prima di essere deportati in Germania. François-Poncet scrive nei suoi Carnets d'un captif5: La casa in cui ci troviamo ci lascia perplessi; è piena di mistero; si tratta di una palazzina che deve essere stata comoda e che conserva una certa eleganza; ma a che serve ora? Ha 10 camere numerate. Sono tutte trasformate in celle? E chi vi alloggia? Oltre alla cancellata scorgiamo il campanile di una chiesa. Passano carrozze, miserabili cocchieri, ancora più miserabili cavalli, ciclisti; nessuno degna di uno sguardo la nostra strana casa... Ma chi abita nelle 10 stanze della casa? Che cosa è questa casa, che dà rifugio sia ai funzionari della Gestapo, che sembrano trascorrervi un periodo di riposo, sia a prigionieri tedeschi e francesi! Non riusciamo a chiarire il mistero. Vediamo girare tutt'attorno al prato, come del resto facciamo anche noi, successivamente un uomo calvo sulla cinquantina, in completo sportivo; un uomo più giovane, più magro, che sembra serio e meditabondo; e infine un terzo dalle reni inarcate, che gonfia il torace e discorre familiarmente con i guardiani.

Quelle reni inarcate, quel torace che si gonfia – i superstiti della rete sono unanimi: è Trepper! Impossibile sbagliarsi («Aveva lo stesso portamento di Léon Zitrone», preciserà uno di essi). François-Poncet prosegue: Dalla finestra del mio abbaino scorgo una donna bionda in modo oltraggioso, di mezza età, in pigiama di lana; è 5 Historia, agosto 1951, n. 57.

seduta su una poltrona da giardino davanti all'orto che fa da contrappeso al prato sull'altro lato della casa; legge; di tanto in tanto alza la testa e discorre con un'altra donna che le rivolge la parola da una delle stanze della casa; sento un misto di frasi tedesche e francesi.

Margarete Barcza, evidentemente. Ma François-Poncet la vedrà a Neuilly nell'agosto del 1943, e per ora siamo soltanto in febbraio: Kent e la sua amante non sono ancora ospiti di Boemelburg. Lui è incarcerato in Rue des Saussaies; lei è segregata in una cella di Fresnes. Il 4 gennaio, a Berlino, la Gestapo aveva annunciato a Margarete: «È libera; la riportiamo a Parigi. Anche Kent torna a Parigi ma avremo ancora bisogno di lui, per cui lo tratteniamo». Fecero il viaggio in treno, ammanettati. Una guardia pietosa posò il suo cappello sui polsi di Margarete per nascondere le manette agli sguardi degli altri viaggiatori. A Parigi, per Margarete, una cella di Fresnes al posto della promessa libertà: crisi di nervi. Cinque o sei giorni dopo, accompagnano da lei Kent scortato da due uomini del Kommando. Margarete: «Ero brutta, senza trucco, pazza di ansietà: gli sono saltati i nervi». Allibite, le SS vedono Kent scoppiare in singhiozzi, gettarsi ai loro piedi urlando: «Farò tutto ciò che vorrete, ma lasciatela in pace! Rimettetela in libertà». Margarete è trattenuta a Fresnes, ma ai due amanti viene concessa l'autorizzazione ad un incontro settimanale. Dopo ogni colloquio, una guardiana spoglia la prigioniera e la passa in rassegna nel modo più intimo possibile. Margarete, a furia di crisi di nervi, ottiene altri incontri; i suoi custodi, sopraffatti, le dicono: «Va bene, va bene, la

smetta e la portiamo da lui». Margarete viene accompagnata in Rue des Saussaies per nuove effusioni. *** Anche quelli della Simex si trovano a Fresnes. Soltanto Alfred Corbin e Suzanne Cointe sanno perché. In attesa dell'arrivo dello specialista berlinese della tortura, il Kommando aveva applicato ad Alfred Corbin il suo procedimento preferito: il ricatto mortale. Il 30 novembre, sua moglie e sua figlia furono riunite nella stessa cella di Fresnes; fu loro ordinato di restare in piedi faccia al muro. Udirono avvicinarsi dei passi; due o tre persone entrarono nella cella. Una voce dall'accento tedesco consigliò a qualcuno di rendere una confessione completa se non voleva che fosse posta in atto una certa minaccia. Le due donne udirono allora la voce di Alfred Corbin; rispondeva che non aveva niente da dire. Il tedesco consigliò alla signora Corbin di esortare il marito a confessare. La donna pronunciò qualche frase, ma Alfred Corbin rimase muto. I tre prigionieri vennero ricondotti nelle rispettive celle. Strada facendo, Denise incespicò e cadde sulla scala. L'emozione delle guardie fu notevole: si gettarono su di lei, credendo ad un gesto di disperazione – ancora l'ossessione del suicidio. Lungi dal nutrire neri progetti, Denise si preparava diligentemente alla maturità. Era stata portata a più riprese in Rue des Saussaies per essere interrogata da Reiser. Qui incontrò uno degli interpreti del Kommando, l'Oberscharführer delle SS Siegfried Schneider – molto giovane, di ottime maniere –, il quale le testimoniò una profonda simpatia tanto

che andò a prendere i libri di scuola di Denise in Rue Cernuschi. Dell'Oberscharführer Schneider avremo modo di riparlare. Il 3 dicembre arrivò lo specialista con il suo materiale. Alfred Corbin gli venne consegnato alle 6,30; uscì dalle sue mani solo 3 ore dopo in stato quasi comatoso. La seduta era iniziata con l'applicazione del manganello su cosce, reni e pianta dei piedi; dopodiché fu la volta degli “stivaletti” – gli stessi forse che erano serviti per Schulze-Boysen e Harnack. Durante il mese di dicembre, vi furono 3 interrogatori di questo tipo, poi lo specialista ripartì per Berlino, reggendo la sua valigetta: Alfred Corbin non aveva parlato. Dal momento che Suzanne Cointe era segregata al pari di tutti gli altri, i suoi familiari ignoravano ciò che era stato di lei. Aveva detto alla sorella: «Se mi arrestano, andate a chiedere a Jean-Paul [Le Chanois] che cosa dovete fare». La sera del 19 novembre, sua sorella salì perciò all'ultimo piano dello stabile e avvertì Le Chanois. Questi si limitò a imprecare e si mise a svuotare i cassetti. Non fornì alcun consiglio (e che consiglio avrebbe potuto dare?), se non quello di distruggere tutti gli indirizzi che avrebbero trovato tra le cose di Suzanne. Qualche giorno dopo, le due donne ricevettero per vie misteriose un messaggio della prigioniera: «Moriamo di fame, mandateci cibo». Il regime alimentare di Fresnes, infatti, era durissimo. Non sapendo in quale prigione fosse rinchiusa Suzanne, le due donne consegnarono dei pacchi a vari enti di assistenza (i Quaccheri, la Croce Rossa), ma furono tutti respinti dall'amministrazione carceraria tedesca. Infine, una sera, la signora Cointe ricevette una telefonata da una sua amica, la signora Malavoix, la cui figlia Odette, “Dolores” nella Resistenza, era incarcerata, ma non segregata, a Fresnes.

Odette aveva mandato alla madre una camicia che recava ricamate sul petto una croce rossa le parola «Yaya». La signora Malavoix sapeva che «Yaya» era il nomignolo dato in famiglia a Suzanne. Disse alla signora Cointe: «Che succede a sua figlia? Non ci capisco niente!». La signora Cointe apprese in tale modo dove era imprigionata Suzanne, ma i tentativi di farle giungere dei pacchi fallirono l'uno dopo l'altro. Gli altri prigionieri della Simex passavano dall'incubo dell'incomprensione totale a quello in cui li piombava la rivelazione di una realtà incredibile. Come passare da Scilla a Cariddi. Il più stupito di tutti era, con tutta probabilità, Robert Breyet, odontoiatra. Amico dei Corbin, padrino della loro figlia Denise, era diventato azionista della Simex allo stesso modo in cui il funzionario belga Seghers aveva accettato di entrare a fare parte della Simexco: per fare un piacere. E ora rischiava la testa! C'era da impazzire... Robert Corbin era sempre vittima di un enorme stupore. Tre giorni dopo l'arresto, quattro soldati tedeschi ed un caporale fecero irruzione nella sua cella e gli ordinarono di spogliarsi. Lo lasciarono in camicia, ammanettato dietro la schiena, come gli altri. Una tenda nera inchiodata alla finestra; la lampadina accesa giorno e notte. E gli scopini, il barbiere della prigione, che gli sussurrano di avere visto sulla porta della sua cella il fatidico cartello rosso. La vigilia di Natale lo fanno uscire dalla cella, gli tolgono le manette e lo fanno salire su una magnifica automobile americana, guidata da un ragazzo; è convocato in Rue des Saussaies. Lungo il tragitto, prende in considerazione per un attimo l'idea di scappare, ma alla fine ci rinuncia: di che cosa possono accusarlo? In Rue des Saussaies si accorgono che c'è stato un er-

rore, era Alfred che volevano interrogare, non Robert. Lo riportano a Fresnes. In marzo, interrogatorio condotto con molta gentilezza dalla SS Jung. Questi fa a Robert Corbin delle domande sorprendenti. Per esempio: «È imparentato con l'ambasciatore Corbin?» (questi si trova a Londra con gli esponenti della Francia Libera; la presenza nella rete di Scheliha e del barone Jaspar faceva sospettare al Kommando che l'Orchestra Rossa avesse proseliti presso tutte le cancellerie europee...). Jung conclude l'interrogatorio con frasi tranquillizzanti: Robert Corbin sarà rilasciato quanto prima, al pari di sua nipote Denise. Al ritorno a Fresnes, gli tolgono le manette. Lui comincia a sperare. Keller era stato interrogato a due riprese da Jung, con accompagnamento di schiaffi, calci e applicazioni dell'arganello – sempre senza visibile danno per il suppliziato. Come Robert Corbin, fu poi portato per sbaglio in Rue des Saussaies: lo avevano confuso con un altro prigioniero. Keller dovette attendere il furgone serale che riportava i prigionieri a Fresnes. Durante il pomeriggio gli venne voglia di andare al gabinetto. Ci andò, accompagnato dal soldato preposto alla sua sorveglianza. Ma venne il momento in cui Keller avrebbe avuto bisogno di una certa libertà di movimento; ora, era ammanettato. Il guardiano rifiutò di togliergli le manette e preferì dare lui una mano al prigionero – sempre la fobia del suicidio. Keller fu enormemente impressionato dall'episodio: non c'erano dubbi, la Gestapo lo considerava un personaggio molto importante. Lui avrebbe preferito essere ritenuto quantità trascurabile. Quando vennero a prenderlo per la quarta volta, credette che fosse la fine. Una guardia, un soldatino di 19 anni, gli mostrò un

pezzo di stoffa dicendo: «Mi spiace, ho avuto ordine di metterle questo». Era un cappuccio che lo accecò completamente. Il soldato lo guidò all'automobile e lo fece salire. Con il gomito Keller si rese conto che c'era qualcun altro seduto accanto a lui. Lungo la via, un tedesco fece una domanda: rispose Grossvogel. Fu durante quel terzo interrogatorio che Keller ebbe la rivelazione folgorante: la Simex dissimulava una rete di spionaggio. La sua sorpresa fu proporzionata a quella che era stata la sua cecità. Crollò sulla poltrona gridando: «Ah! Mio Dio! Ah! Mio Dio!». Un quarto di secolo più tardi, avrà l'onestà di non alterare quella che fu la sua reazione immediata: «Se avessi saputo, non sarei venuto!». Cittadino svizzero, non aveva alcun obbligo di andare in guerra; la guerra, sorniona, era venuta a cercarlo. Keller era, di tutti i prigionieri, il meglio acclimatato alla vita carceraria. Le manette gli avevano in un primo tempo impedito di dormire, ma lui, abile meccanico, aveva scoperto il modo di aprirle ogni sera per rimetterle solo all'alba. Del resto, il guardiano addetto alla sua persona veniva spesso a toglierle durante la giornata. Si trattava di un ragazzo di 22 anni, alto, bello e biondo, che nella vita civile faceva la guardia forestale. La notte di Natale divise con Keller il contenuto del suo pacco. Keller apprese in seguito che il povero ragazzo era stato fucilato dai suoi compatrioti per avere trasmesso una lettera ad un prigioniero 6. Keller era molto popolare presso le guardie di Fresnes. Il fatto che parlasse perfettamente la loro linguanon sarebbe stato sufficiente. C'era anche il suo straordinario calore umano, il dono della simpatia che possiede al massimo grado. Ogni settimana, 6 Il personale delle prigioni francesi, passate sotto il controllo tedesco, fu, fino all'ultimo, scelto tra i militari della Wehrmacht. Nonostante tutti i tentativi, la Gestapo non riuscì mai ad avere mano libera nell'amministrazione carceraria.

nella sua cella sfilavano ininterrottamente le guardie: avevano ricevuto il foglio di trasferimento per il fronte russo e venivano a dare sfogo alla loro angoscia, in lacrime. Keller faceva del suo meglio per consolarli. Tutto ciò gli consentì di ottenere l'invidiato incarico di scopino. Poteva così circolare per i corridoi della prigione e scambiare qualche frase con i suoi amici della Simex, che avevano un gran bisogno del suo conforto. La prigione di Fresnes non era la palazzina di Neuilly; vi si moriva di fame.

XXIX. CONVOGLIO PER BERLINO

La mattina dell'8 marzo 1943, Jung si presentò a Fresnes in Simca 8 e si fece consegnare Alfred Corbin e Keller. I due prigionieri si rivedevano per la prima volta dal momento dell'arresto, il 18 novembre precedente. Keller trovò Corbin «smagrito, pallidissimo, quasi del tutto afono». Gli sembrò un uomo completamente distrutto. L'impressione era tanto più forte in quanto Corbin non presentava alcun segno esteriore di torture. La Simca prese la strada di Parigi. Quando attraversò Place de la Concorde, Alfred Corbin mormorò: «Ah! Non rivedrò mai più questa piazza...». Si fermarono davanti al palazzo dell'Eliseo. Jung fece entrare i suoi prigionieri nello stabile dove ha sede la società dei “Parfums Coty”. Vi aveva sede il “Consiglio di Guerra a procedura accelerata del generale comandante militare della III Regione aerea”. In altri termini: la corte marziale della Luftwaffe. Come vedremo, le parole più importanti sono: «a procedura accelerata». Il vestibolo è pieno di ufficiali tedeschi. Davanti all'ascensore, Jung ne afferra per il braccio uno che si prepara a salire; gli indica i prigionieri e dice: «Diritto di priorità! Candidati alla morte». L'ufficiale si scosta.

Il terzetto sale al sesto piano. Qui, una piccola stanza con qualche panca; in fondo, un tavolo; dietro il tavolo, bandiere naziste incorniciano il busto di Hitler, nero ebano; quattro palme in vaso ornano gli angoli della sala. Un ufficiale tedesco si avvicina a Keller: «Sono il suo avvocato, mi racconti un po' come sono andate le cose». Keller spiega come è entrato alla Simex, insiste sulla sua completa ignoranza delle attività segrete della ditta. L'altro: «Bene, cercherò di cavarla dai pasticci. Ma qualunque pena le infliggano, le consiglio di non protestare. Il suo amico Corbin parla tedesco?». No, Corbin non conosce quella lingua; Keller farà da interprete. Il dialogo, del resto, è breve: «Signor Corbin, si rende conto della gravità del suo caso?». «Sì». «Capirà che, in quanto ufficiale tedesco, non posso difenderla. Deve aspettarsi il peggio». «Lo so». Di rado si è visto un avvocato più singolare e una difesa improvvisata in maniera così cavalleresca... Ma Corbin non se ne stupisce; sembra rassegnato alla sorte. Un po' alla volta, la sala si riempe di ufficiali che vanno a sedersi sulle panche. Poi entra la corte, in testa a tutti il presidente. Lo conosciamo già: è Manfred Roeder, che fu il procuratore al processo dei berlinesi. Il “segugio di Hitler” continua la sua caccia, lasciandosi alle spalle una scia di sangue. Dopo aver ottenuto la testa, e se ne vanta, di una sessantina di membri della rete berlinese, si è recato a Bruxelles con il suo equipaggio giudiziario, e ha spedito al patibolo un'altra carretta di condannati. Eccolo ora a Parigi a fare i conti con la rete francese. Jung si alza, fa il saluto hitleriano e presenta la sua requisitoria. Di Keller dice: «Quello non ha partecipato direttamente alla congiura, ma si è mostrato per lo meno simpatizzante. D'al-

tra parte, una volta arrestato, ha dato prova di reticenza nelle sue dichiarazioni». Ciò che segue è abbastanza strano per chi è avvezzo alle norme procedurali di uso comune. Roeder fa alzare Keller e gli legge la sentenza: «5 anni di lavori forzati». L'avvocato non ha battuto ciglio. Nonostante il consiglio del suddetto avvocato, Keller esclama con le lacrime agli occhi: «5 anni per non aver fatto niente, è duro!». Il difensore a questo punto si alza, preso il coraggio a quattro mani, e mormora alla corte: «Quello che è capitato a quest'uomo può accadere a chiunque di voi. Vi chiedo di riflettere». Roeder esita, poi si ritira a deliberare con i giudici – ufficiali superiori della Luftwaffe. Quando torna dà lettura di una nuova sentenza: «3 anni di lavori forzati». È poi la volta di Alfred Corbin. Roeder: «Si rende conto della gravità dei suoi atti?». Corbin: «Sì». Si passa immediatamente alla lettura della sentenza: «Pena di morte per decapitazione». Il difensore non ha aperto bocca. Roeder, sarcastico, lancia al condannato: «Vede, anche a fare dello spionaggio economico si perde la testa!». Allora, Alfred Corbin lo guarda e con la sua debole voce, poco più di un bisbiglio, fa di rimando: «Non importa: voi perderete la guerra». Roeder, paonazzo, esce dalla sala sbattendo la porta. Ritorno a Fresnes. Per tutto il tragitto Alfred Corbin non dice una parola. La sera, Keller sussurra a Robert Corbin porgendogli la gavetta di zuppa: «Suo fratello è stato condannato. Ha avuto il massimo della pena». Quasi tutti i membri dell'Orchestra Rossa ebbero il «massimo della pena». Attesero a Fresnes di essere messi a morte. Secondo una voce che correva nella prigione, i tedeschi avevano l'a-

bitudine di procedere all'esecuzione 100 giorni esatti dopo che la sentenza era stata pronunciata. *** Ma il 15 aprile, la prigione è in subbuglio: i guardiani radunano i prigionieri della rete e li dispongono in fila nel cortile. Non ne conosciamo con esattezza il numero, né l'identità. Erano certamente assenti: Grossvogel, i Maximovitch, Katz, Robinson e, beninteso, Trepper e Kent. Erano presenti: i fratelli Corbin, la moglie di Alfred Corbin, i signori Jaspar, Robert Breyer, Keller, Suzanne Cointe, Germaine Schneider (l'ex-amante di Wenzel) e suo marito, nonché Ludwig Kainz, l'ingegnere della Todt. Del pari presente la coppia dei Griotto, membri del gruppo Komintern di Robinson; Medardo Griotto, di professione incisore, era come Raichman, uno specialista dei documenti falsi. Käthe Voelkner non c'è. È stata giudicata da Roeder, si è sentita condannare a morte, ha salutato con il pugno chiuso dicendo con un sorriso: «Sono felice di aver potuto fare qualche piccola cosa per il comunismo». Poi è stata giustiziata in un lasso di tempo brevissimo. Denise Corbin non ha lasciato la sua cella. La vigilia di quel 15 aprile, ha sentito un certo trambusto nella cella attigua: i tedeschi vi chiudevano per qualche ora Suzanne Cointe. Le due prigioniere sono riuscite a comunicare; Suzanne ha annunciato a Denise che sarebbero stati tutti trasferiti altrove. Ma i guardiani vengono a prendere Suzanne e ignorano Denise. La quale è divorata dall'inquietudine: le sembra un fatto allarmante non condividere la sorte comune. Scriverà in Rue des Saussaies lamentan-

donese: «Se ne sono andati tutti, tranne me. Perché? Quale sarà la mia sorte?». E i suoi tormenti dureranno ancora poche settimane; sarà rilasciata in giugno, appena in tempo per farsi promuovere all'esame di maturità. Tra coloro che se ne vanno, la maggior parte è stata condannata a morte come Alfred Corbin; ad alcuni sono stati inflitti i lavori forzati, come a Keller (3 anni) e alla moglie di Alfredf Corbin (18 mesi); altri, come Robert Corbin, non sono stati neppure sottoposti a giudizio. Ma che importano le condanne e la loro gravità: nel cortile di Fresnes, un ufficiale tedesco prende la parola per annunciare ai prigionieri allibiti che sono stati tutti graziati; li portano a lavorare in Germania, dove le industrie hanno bisogno di braccia. E a ciascuno vengono restituite le carte d'identità, che naturalmente erano state confiscate al momento dell'arresto... I detenuti sono condotti sotto buona scorta alla Gare du Nord. Qui vengono fatti salire su una vettura ferroviaria. Da sei a otto prigionieri per scompartimento; porte e finestrini sono sbarrati; nel corridoio vanno e vengono uomini delle SS, arma in pugno. I prigionieri sono stati raggruppati a seconda della gravità della condanna loro inflitta. Così, Robert Corbin riesce a vedere suo fratello ma non a parlargli: Alfred è in uno scompartimento riservato ai condannati a morte. Riesce invece a scambiare qualche parola con la cognata. Nel suo stesso scompartimento c'è il barone Jaspar, quasi settantenne, ma di una giovialità a tutta prova, il quale non fa che raccontare storielle divertenti, e anche Ludwig Kainz, che è riuscito a tenere nascosto alla Gestapo le sue attività spionistiche: è stato condannato soltanto per corruzione e mercato nero.

Verso mezzogiorno, fermata a Lille. Negli scompartimenti ermeticamente chiusi fa un caldo spaventoso. I prigionieri supplicano che gli si dia da bere. I guardiani tendono una brocca a Keller (scelto come “uomo di fiducia” in ragione della lievità della pena inflittagli) e gli ordinano di andare a prendere dei caffè al Soldatenheim della stazione. Lui ci va, scortato da un soldato. Mentre un inserviente riempe la brocca, Keller chiede al suo custode il permesso di andare a lavarsi le mani sudicie ai lavandini; permesso accordato. In fondo ai gabinetti, una seconda porta si apre sulla libertà keller esita, poi rinuncia. Dopotutto, deve scontare solo 3 anni; sarebbe troppo stupido evadere con il rischio di essere ripreso e condannato a morte. Torna al treno con la sua brocca. A Bruxelles, seconda fermata. Orripilati, i viaggiatori vedono avanzare verso di loro un gruppo di prigionieri in condizioni miserande, magri da fare paura, alcuni con piaghe profonde e suppuranti alle gambe: sono i membri delle reti belga e olandese estratti dalla fortezza di Breendonck. *** Indubbiamente, la Francia non conobbe l'equivalente di Breendonck, l'orribile campo di concentramento paragonabile solo a Dachau, Mauthausen e Buchenwald: vi si uccideva con la stessa facilità. La sorte dei detenuti era perfino peggiore di quella dei deportati perché, dal momento che erano in numero relativamente ridotto, erano conosciuti uno per uno dai guardiani e si sapevano sorvegliati personalmente dal mattino alla sera, men-

tre era possibile confondersi nell'anonimato misericordioso delle grandi masse chiuse a Mauthausen o a Buchenwald. Breendonck, nei pressi di Bruxelles, consisteva in una serie di casematte militari addossate le une alle altre e circondate da un largo fossato pieno di acqua stagnante. Vi si accedeva per mezzo di un ponte levatoio e si cadeva in potere delle SS tedesche e belghe, signori della vita e della morte. Il regime alimentare vigente a Breendonck comportava il deperimento organico a breve scadenza. Ogni mattina, i detenuti validi, riuniti in squadre di lavoro, se ne andavano cantando a compiere lavori spossanti. La ciurma maneggiava il randello con frenesia; c'era sempre il rischio di restare uccisi da un momento all'altro. Dopo le torture di Berlino, dopo 5 mesi di Fresnes, già indeboliti dalla sofferenza e dalle privazioni, Hersch e Myra Sokol furono precipitati in questo inferno. Sappiamo che cosa fu i l loro martirio grazie alla testimonianza della signora Betty Depelsenaire, avvocato presso la Corte d'Appello di Bruxelles, che trascorse tre mesi a Breendonck, dal settembre al dicembre 1942. La cella mai riscaldata; le manette dietro la schiena – e strette così forte che incidevano le carni fino a provocare svenimenti; la passeggiata quotidiana, ma con un cappuccio in testa (la guardia delle SS che si diverte a fare inciampare il prigioniero, poi a finirlo con una scarica di pugni); e, lancinante, fonte di deliri in cui lo spirito si smarrisce: la fame... L'unica distrazione di Myra consiste nel vedere davanti alla finestra i prigionieri riunirsi prima e dopo il lavoro. Una sera, tra le loro file scorge una figura familiare: è Jack Sokol, suo cognato. Membro di una rete di resistenza diversa dall'Orchestra Rossa, è stato arrestato anche lui e gettato a Breendonck.matti-

na e sera, badile in spalla, percorre a passo cadenzato la strada che porta dal campo al luogo di lavoro, e canta in coro con i compagni: Prima che il giorno si desti Prima che il sole sorrida Le colonne marciano Nel grigiore dell'alba Verso le pene del giorno E la foresta è nera E il cielo è rosso E noi portiamo nella bisaccia un tozzo di pane E nel cuore, nel cuore i nostri affanni.

Poi la tortura. Ha luogo in una sala alla quale porta un lungo corridoio stretto e buio. La stanza non ha finestre, non riceve mai aria. Un puzzo di carne bruciata e di muffa sale alle narici e dà il voltastomaco. Un tavolo, uno sgabello, una grossa corda fissata al soffitto per mezzo di una puleggia, un telefono che comunica direttamente con i servizi polizieschi di bruxelles1.

Ci portano Myra. La fanno inginocchiare, il busto appoggiato allo sgabello. La sferzano con lo scudiscio; lei tace. Allora le ordinano di alzarsi e fissano il capo della corda alle manette. La issano in aria in modo che sfiori terra solo con la punta dei piedi. In tal modo, gli spigoli delle manette di acciaio tagliano i polsi, mentre lo sforzo imposto alle dita dei piedi procura crampi insop1 B. Depelsenaire, Symphonie fraternelle, Éditions Lumen, Bruxelles, p. 28.

portabili. Lei non parla. La picchiano con uno scudiscio, poi con un manganello, poi con un bastone. Lei urla ma non parla. Siccome i piedi rattrappiti dai crampi non toccano più terra, il corpo della suppliziata prende a dondolare smorzando l'effetto dei colpi; un tedesco afferra Myra e la tiene ferma. Ma lei non può più parlare: è svenuta. La calano e la staccano. Dopo qualche attimo di pausa, riprende i sensi. La riattaccano e ricominciano da capo. Altro svenimento. Questa volta, il comandante del campo lascia la stanza tenendo al guinzaglio il suo cane, che è una vera belva addestrata ad assalire i detenuti. Dopo la seduta di tortura, Myra viene trasferita alla “casamatta dei torturati”. Hersch vi si trova già lì. I due possono parlarsi, se non vedersi: la sala è suddivisa in cellette, ma le tramezze arrivano solo a 50 centimetri dal soffitto. Benché separati dall'intera lunghezza della casamatta, i due sposi si sentono, a patto di gridare a squarciagola; se un guardiano sorprende le grida, fa ricorso al bastone. In ogni celletta, un giaciglio di nude assi per dormire. Durante la giornata è vietato sedersi. La perpetua stazione eretta conclude il logorio delle energie. Dopo una visita medica, Myra, atterrita, sente Hersch annunciarle il suo peso: 38 chili... Nella cella di fronte a quella di Myra è chiuso un “diplomatico russo”, Danilov. Ma il lettore certo ricorderà Danilov, funzionario del consolato sovietico in Francia prima di essere aggregato alla rete belga, e di cui abbiamo detto che era soltanto una spia tuttofare destinata a finire nell'indifferenza generale 2. Era quello un giudizio un tantino sbrigativo. A Breendonck,

2 Cfr. supra.

Dan è simpatico a tutti. Ha la voce dolcissima e si esprime in termini accurati, da vero diplomatico, ed è sempre di una calma imperturbabile. Non esprime mai un'idea senza avere prima riflettuto, pesato il pro e il contro, e con tutto il suo atteggiamento dà l'impressione di avere un cervello saldamente costruito, di essere un individuo perfettamente equilibrato. Fu in svariate occasioni l'uomo di scienza, la guida nelle valutazioni politiche 3.

E poiché siamo punti da qualche rimorso, confessiamo di avere taciuto fino a questo momento l'esistenza di Hermann Isbutski, alias “Bob”, uomo tuttofare della rete belga, sparuto, miserello, l'aria fiacca e codarda, la fisionomia da traditore classico, ma di cui il Gran Capo diceva: «È di quelli che tirano la carretta». Tradito da Yefremov, Bob è subito sottoposto alla tortura: il Kommando sa che è in contatto con Grossvogel. Invano lo suppliziano. Nella “casamatta dei torturati”, occupa la prima cella verso l'ingresso. Era particolarmente detestato dal tenente e quando la sentinella di guardia segnalava il minimo atto di indisciplina, era Bob che si prendeva le frustate. Era lui che montava di guardia e gridava «22» o «23» a seconda se la guardia si avvicinava o si allontanava di qualche passo. Ciò permise a tutti di tenere di tanto in tanto lunghi discorsi, tanto necessari per mantenere alto il morale. È stato lui un giorno a dire ridendo: «Viene fatto di chiedersi se di qui usciremo con i piedi per terra o i piedi in avanti...». Rendendosi immediatamente conto che questa riflessione avrebbe potuto scoraggiare qualcuno, cercò di 3 B. Depelsenaire, op. cit., p. 37.

convincerli che aveva voluto scherzare ma che, comunque, bisognava che ognuno si considerasse alla stregua di un soldato che sacrifica volontariamente la vita. «È la guerra», diceva, «meglio morire così che sotto i bombardamenti»4.

Di tanto in tanto, la Gestapo veniva nella “casamatta dei torturati” a scegliervi qualche vittima, perché Breendonck serviva da vivaio degli ostaggi; ogni attentato commesso in Belgio trovava là il suo epilogo. Più spesso, il torturatore in carica del campo, un sergente enorme dal grugno di pugile, sempre sorridente, veniva a prendere un prigioniero e lo portava in sala di tortura dopo avergli infilato in testa un cappuccio. Hersch Sokol compì di frequente il viaggio. Un giorno ne tornò annunciando al suo vicino di cella che era stato bruciato («un puzzo di carne bruciata e di muffa sale alle narici...»). Poi, una mattina, è colto da spaventosi dolori al ventre. Per ore si torce sul giaciglio, soffrendo le pene dell'inferno, incapace di trattenere i lamenti che giungono fino a Myra, così vicina e così lontana... La sentinella, avvertita, si rifiuta di accompagnarlo all'infermeria. Si limitano a gettarlo in un'altra casamatta, in fondo al campo, dove le sue grida non infastidiscono più nessuno. Subito Myra viene convocata dal comandante delle SS, che le dice: «Lei sa che suo marito è molto malato, ma lo guariremo se lei parla»; lei non parla. L'indomani, la crisi è passata; Hersch può tornare nella sua cella. Ma diventa sempre più debole, perché lo stomaco in sfacelo non sopporta più alcun alimento; diventa sordo al punto che non riesce più a sentire Myra. Medico, sa che gli resta poco da vivere. Lo sa anche il medico del campo, che 4 B. Depelsenaire, op. cit., p. 35.

anzi si stupisce di quell'interminabile agonia; ogni visita alla casamatta esclama: «Ma guarda! Non è ancora morto... È un duro quello. Sorprendente come l'organismo umano possa resistere tanto. Bisognerà che prenda nota di questo caso nel mio libro di statistiche. Gli prescriverò del lievito, che lo manterrà in vita ancora un po'...»5. Ma rifiuta fino all'ultimo il ricovero del moribondo all'infermeria. Il calvario di Hersch Sokol non tocca però l'apice nella casamatta, bensì in sala di tortura. Ci portarono quel terribile spettro per un ultimo interrogatorio; lo appesero al soffitto e il comandante del campo sguinzagliò contro di lui il cane. Hersch morì. Qualche giorno dopo, Myra veniva trasferita alla prigione Saint-Gilles6. Anche quelli di Saint-Gilles vengono a prendere il treno per Berlino. Sul marciapiede è radunata tutta la Simexco: Charles Drailly, fratello di Nazarin, la signorina Ponsaint, lo svizzero Robert Christen, l'editore Henri de Ryck, Jean Passelecq 7. All'ap5 B. Depelsenaire, op. cit., p. 59. 6 Hersch Sokol riposa all'ex-poligono di tiro di Bruxelles, dove fu fucilata, durante la Prima guerra mondiale, l'eroina Edith Cavell. Vi sono 300 tombe di membri della Resistenza giustiziati dai nazisti, tombe semplice e belle come quelle di soldati. 7 Passelecq lasciava a Saint-Gilles un cugino, arrestato pressappoco assieme a lui. Questo cugino non apparteneva né alla Simexco né alla rete. Si era rifugiato in Inghilterra e arruolato nei servizi segreti britannici. Dopo un accurato addestramento, fu paracadutato in Belgio e telefonò a Jean Passelecqu. Questi, che sentiva stringersi attorno a sé la morsa della Gestapo, avvertì il cugino che non gli era possibile incontrarlo. I due uomini si ritrovarono a Saint-Gilles, dove poterono scambiarsi qualche frase da una cella all'altra. In seguito, il cugino fu deportato in Germania e decapitato. Dopo la guerra, Jean Passelecq ricevette il diario personale che suo cugino aveva tenuto in Inghilterra; vi aveva annotato qualche particolare sulla sua missione e, con sua vivissima sorpresa, Jean Passelecq scoprì che tale missione consisteva soprattutto nel mettersi in contatto con la Simexco. I capi britannici del cugino sembra siano stati assai bene informati in merito alla rete, perché negli appunti figurano parecchi pseudonimi, per esempio quelli di Nazarin Drailly (“Commerciante”), dello stesso Jean Passelecq e della signorina Ponsaint. A nostro modo di vedere, tali informazioni devono essere state fornite a Londra da Rauch, ma il signor Passelecq

pello manca solo il fabbricante di sigarette Louis Thévenet, morto in carcere. C'è anche Rauch, l'uomo dell'Intelligence Service; e il pittore Bill Hoorickx, la signora Grossvogel, Augustin Sesée, commissario di polizia a Ostenda, consegnato a Fortner da Yefremov. Crediamo, pursenza averne la prova, che con loro ci fosse anche Myra Sokol. Stessa incertezza per quanto riguarda la composizione del gruppo tratto da Breendonck. Siamo certi della presenza di questi prigionieri: Henri Seghers, della Simexco; l'avvocato della ditta, Beublet; il suo direttore, Nazarin Drailly; Camille, il pianista catturato in Rue des Atrébates; Bob Isbutski e Alamo. I più mal ridotti erano Nazarin Drailly, Beublet, Camille e Alamo: come Sokol, erano stati «interrogati con il cane» e riuscivano a malapena a camminare. Le condizioni di Alamo erano così gravi che avevano dovuto ricoverarlo all'infermeria del campo. Quanto a Nazarin Drailly, era stato martoriato al punto che sua moglie, quando lo vide sul marciapiede, non lo riconobbe. I guardiani suddividono i prigionieri per affinità di condanna, poi il convoglio si muove e l'Orchestra Rossa corre verso Berlino. Nello scompartimento di Robert Corbin erano stati sistemati alcuni belgi di poco conto, in possesso di pacchi della Croce Rossa. Spartiscono generosamente i loro tesori con gli affamati di Fresnes. Robert Corbin mangia una tale quantità di cioccolata da farsi venire un violento attacco di fegato. Improvvisamente, il treno si ferma: allarme aereo. Le SS di guardia sbarrano il vagone e spariscono. Bill Hoorickx esce dal ritiene la cosa improbabile. Dobbiamo concluderne che l'Intelligence Service aveva un secondo agente all'interno della rete?

suo scompartimento, entra in quello dove si trovano Alamo, Camille e Beublet, tutti e tre in uno stato pietoso. Hoorickx, molto commosso, abbraccia Alamo. Il russo gli restituisce l'abbraccio e gli dice: «Perdonami di averti coinvolto in questa faccenda». Beublet, le lacrime agli occhi, il viso disfatto («era un uomo spezzato, annientato»), dice a sua volta: «È colpa mia, sono io la causa di tutto; mi hanno costretto a rivelare i nomi. Ma vi sono cose che non si possono sopportare». Cessato allarme, il convoglio riparte. Arriva a Berlino il 17 aprile, 48 ore dopo la partenza da Parigi. È una domenica mattina. I viaggiatori sfiniti hanno l'impressione di sbarcare su un altro pianeta: le banchine sono affollate di berlinesi che vanno allegramente a fare il picnic nei baschi attorno alla città... La Gestapo suddivide il suo gregge. Suzanne Cointe e la moglie di Robert Corbin sono portate alla prigione di Moabit. Keller, Alfred Corbin, Robert Breyer, Medardo Griotto e Ludwig Kainz vengono chiusi nella prigione della Lehrterstrasse. E probabilmente anche Makarov, Danilov, Camille e Isbutski, ma i superstiti non ne sono certi8. 8 Questo perché ogni prigioniero è, nella sua cella, come al centro di un universo limitato ma familiare fin nei minimi particolari (i suoi vicini, la frequenza delle ronde di sorveglianza, gli scopini, eccetera); ogni incidente, ogni anomalia sono registrati e analizzati. Strappato a questo universo, il detenuto viene sommerso da una folla di impressioni nuove che ha grandissima difficoltà ad assimilare, tanto più che ogni cambiamento è fonte di angoscia (dove lo portano? che ne faranno di lui?). Così, sul marciapiede della stazione di Berlino, ciascuno è murato nei suoi tormenti personali e quasi indifferente alla sorte del vicino. Se perdiamo le tracce, per lo meno momentaneamente, di uomini e donne che in questa storia hanno avuto una parte di primo piano, è superfluo dire che la confusione risulta ancora maggiore per coloro che sono soltanto delle comparse. Non sempre li abbiamo menzionati. Per esempio, abbiamo raccontato il crollo di Amsterdam attraverso la cattura di Winterink, senza dilungarci sulla liquidazione della sua rete. Il fatto è che tutti quei personaggi, le com parse di Bruxelles, di Amsterdam, di Parigi, di Lione e di Marsiglia – parecchie decine di uomini e donne – avrebbero reso ancora più affollato questo racconto già

Keller conserva un ricordo indimenticabile dell'arrivo alla prigione della Lehrterstrasse. Si sarebbe detto che in quel carcere fosse in corso una kermesse: era piena di soldati tedeschi, per lo più giovanissimi, che cantavano allegramente e si scambiavano battute. Erano disertori; aspettavano di essere giustiziati. Keller, attonito, disse loro: «Non capisco, eppure siete condannati a morte...». Gli risposero: «Ma qui è un paradiso! Ci passano razioni quasi uguali a quelle dei combattenti e per morire basterà mettersi con le spalle contro un muro, mentre in Russia bisogna subire pene di ogni genere prima di essere finalmente uccisi...». I belgi sono prima condotti alla sede della Gestapo, in Alexander Platz, poi trasferiti al campo di Mauthausen. Bisognerebbe poter descrivere l'arrivo al campo con gli accenti di Robert Christen, il chansonnier di Bruxelles. La loro grandezza è data dalla sincerità. Nessuna enfasi, nessuna vanteria retrospettiva, ma lo spavento di un brav'uomo precipitato in un mondo disumano – e 25 anni dopo avrà la dignità di attenersi a questa semplice verità: La cosa più dura era soffrire tanto per non avere fatto niente, in definitiva. Gli altri deportati avevano la consapevolezza di avere combattuto e di soffrire per qualcosa.

Christen dice che videro per prima cosa profilarsi all'orizzonte il campo di Mauthausen, fortezza di granito cinta da una muraglia. Poi costeggiarono una cava immensa, profonda, lunare, in fondo alla quale brulicavano migliaia di formiche umane in una complesso. Ma, come Bob Isbutski, «avevano tirato la carretta». E se non avevano eguagliato i loro capi per l'importanza dei servizi resi, eccoli ora superarli per la grandezza del sacrificio compiuto.

specie di uniforme a righe. Si dicevano l'un l'altro: «Ma chi lavora laggiù? Ma dove siamo?». La sera, videro per la prima volta assassinare un uomo sotto i loro occhi: i kapò si erano gettati su di lui e lo avevano percosso; l'uomo giaceva a terra, privo di sensi, ma ancora vivo; allora, secondo il rituale, i kapò chiamarono il boia del campo perché venisse a dare il tradizionale colpo di grazia con una sedia, e il nome del boia volava di baracca in baracca, riecheggiato da ogni kapò. Quella notte, i belgi spaventati non dormirono, chiedendosi con angoscia come mai il topolino Simexco aveva potuto partorire la montagna concentrazionaria. *** Erano in 68 sul treno di Berlino. Ne sopravviveranno 9. *** Il 13 maggio morirono sul patibolo nazista 13 membri del gruppo berlinese: Fritz Thiel, Walter Kuchenmeister, Walter Husemann, Fritz Rehmer, Karl Behrens, Philippe Schaeffer, Wilhelm Guddorf, Hens-Helmuth Himpel, John Rittmeister, Richard Wüsstensteiner, Thomfor, Ericka von Brockdorf, Heinz Strelow. La contessa von Brockdorf andò al supplizio come ad una festa: rise fino ai piedi del patibolo. Coloro che assistevano alla sua esecuzione ne furono stupefatti, addirittura scandalizzati. I nazisti, infatti, spesso seppero morire, ma sembra che non abbiano mai capito che si poteva morire allegramente.

L'ultima lettera di un condannato a morte in generale è scritta con penna serena, come se il condannato, giunto sul passo estremo, si fosse già staccato dai rumori di questo mondo e, lasciando cadere le braccia, pensasse ormai solanto a qualche essere amato. Perfino Harro Schulze-Boysen aveva suggellato con una lacrima la sua ultima lettera. Ecco quella che scrisse a suo padre, prima di essere decapitato, Walter Husemann, meccanico aggiustatore, militante comunista9: Mio caro papà, Sii forte, muoio come sono vissuto: da combattente della lotta di classe. È facile dirsi comunisti finché non occorre versare il proprio sangue. Se uno è veramente un comunista, lo dimostra nell'ora della prova. Io sono comunista, papà. Non soffro, papà, devi credermi. Non sarà dato a nessuno di vedermi cedere. Devo morire bene: ecco il mio ultimo dovere. Sii fiero di tuo figlio, supera il tuo dolore: tu hai ancora un compito da svolgere. E devi svolgerlo doppiamente, addirittura per tre, perché i tuoi figli non sono più. Povero papà, papà fortunato, che ha dovuto sacrificare al suo ideale ciò che di più caro aveva al mondo. La guerra non durerà per sempre e verrà anche la vostra ora. Pensate a tutti coloro che hanno già seguito questa strada e che la seguiranno in futuro. E imparate questo dai nazisti: ogni debolezza si pagherà con fiumi di sangue. È per questo che bisogna tenere duro. Non rimpiango nulla della vita, se non fosse di non avere fatto abbastanza. Ma la mia morte riconcilierà coloro che 9 È Walter Husemann che, durante un interrogatorio in Prinz-Albrechtstrasse, aveva tentato di gettarsi da una finestra trascinando con sé nella caduta il commissario Panzinger.

non sempre erano d'accordo con me. Oh, papà, papà, mio caro, mio buon papà, se solo sapessi che non crollerai a causa della mia morte... Tieni duro, duro, duro! È questo il momento in cui puoi dimostrare che sei stato, in fondo al cuore, sempre, sempre un combattente della lotta di classe. Aiutalo, Friede, spalleggialo, sostienilo! Non deve lasciarsi abbattere. La sua vita non gli appartiene più, appartiene al Partito. Ora, mille volte di più di prima. È in questo momento che deve dimostrare che le sue convinzioni non si fondano su di un ideale romantico, ma su una necessità inesorabile. Occupati di Marthe, è vostra figlia. Vi aiuterà a sopportare la mia scomparsa. Trasmetti il mio ricordo a tutti, a tutti gli amici, a tutti i conoscenti di cui non voglio fare i nomi. A ognuno do la mano con riconoscenza profonda per l'amore che mi hanno testimoniato. Morrò senza difficoltà, perché so perché muoio. Quelli che mi assassineranno subiranno quanto prima una brutta morte, ne sono persuaso. Tieni duro, papà, duro! Non indietreggiare! Ad ogni istante di debolezza, ricordati dell'ultima richiesta di tuo figlio Walter.

«Quelli che mi assassineranno subiranno quanto prima una brutta morte, ne sono persuaso»... 15 giorni dopo, aver ammirato il golfo di Saint-Tropez dalla terrazza del dottor Darquier, contemplai un panorama quasi altrettanto bello: la piana di Francoforte, che si stendeva a perdita d'occhio, il lontano orizzonte che sfumava in una bruma rosata. E di nuovo ascoltai una voce dura urlare l'odio per gli ebrei. Mi trovavo sui primi contrafforti del Taunus, a Glasshütten. Mi trovavo in casa del “segugio di Hitler”: Manfred Roeder.

A sentire lui, seppe subito che sarebbe sfuggito alla morte, brutta o meno (ma dobbiamo crederlo? I drogati dell'antisemitismo sono come tutti i drogati: vorrebbero che il loro vizio fosse condiviso da tutti e non esitano a distorcere la realtà in conformità ai propri desideri). Secondo Roeder, dunque, fu arrestato dagli americani alla fine della guerra e affidato in custodia ad un certo colonnello Hays. I suoi precedenti erano conosciuti, ma non per questo fu trattato con particolare severità. I collaboratori di Hays gli mostrarono un anello che portavano al dito dicendo: «È l'anello di West Point. Quando lo vedrà al dito di un ufficiale, saprà che non ha niente in comune con i tre milioni di ebrei d'America». Quando Roeder fu convocato per un interrogatorio a Norimberga, Hays gli disse: «Mi scusi se l'ho fatta accompagnare da un sergente maggiore, ma gli ebrei che troverà laggiù non meritano che mandi loro un tenente» 10. E il colonnello consigliò al suo prigioniero: «Non dica loro niente, soprattutto: tutti quegli ebrei di Norimberga, sospettiamo che lavorino per i comunisti». L'istruttoria si concluse con un “non luogo a procedere”. Non appena rilasciato, Manfred Roeder aderisce al Partito Socialista del Reich della ex-SS Roemer, organizzazione neo-nazista, di cui diventa subito uno dei personaggi rappresentativi. Nel corso di infiniti comizi, trascina nel fango «i cani dell'Orchestra Rossa», prendendosela particolarmente con un superstite del gruppo berlinese, Alfred Grimme, divenuto direttore di Radio Amburgo 11. 10 Un gran numero di “giudici istruttori” americani di Norimberga era costituito da ebrei tedeschi emigrati negli Stati Uniti dopo l'avvento al potere dei nazisti. Naturalizzati americani, arruolati o mobilitati nelle file dell'esercito, erano stati adibiti a compiti di denazificazione in ragione della loro profonda conoscenza della Germania, dei suoi costumi, della sua organizzazione politica, economica e sociale. 11 Alfred Grimme, ex-ministro di Stato della Prussia, è uno dei venti prigionieri di Berlino che ebbero salva la vita, su 75 imputati. La corte marziale tenne a suo carico i discorsi sovversivi che ebbe con Arvid Harnack e Adam Kuckhoff («che lo aveva-

Roeder attacca sul tema: «Un traditore contamina le nostre onde». Grimme risponde dai microfoni di Radio Amburgo: «Com'è possibile che un individuo simile abbia il diritto, oggigiorno, di parlare pubblicamente in Germania?». I superstiti del gruppo berlinese si agitano e moltiplicano le proteste contro l'attività politica di Roeder. Prudentemente, questi rinuncia alla battaglia, scompare. Qualcuno che lo ha conosciuto, e che al pari di lui servì nel Terzo Reich, ci confesserà: In fondo, aveva fatto soltanto il suo mestiere. Se i procedimenti aperti contro di lui non si fossero conclusi con un “non luogo a procedere”, si sarebbe dovuto condannare in seguito tutti i procuratori della Germania. Ma quel Roeder era così duro, così implacabile, così sgradevole che comprendo perfettamente perché i superstiti abbiano tentato di metterlo con le spalle al muro.

Era scomparso. Per due anni avevano continuato a dirmi che si era rifugiato nel Sud America, dove viveva sua figlia maggiore. Ma, in dei conti, lo scovai sul Taunus, a Glasshütten, un grazioso no convinto al 90 per cento»), e il fatto che aveva nascosto in casa sua, nella canna di un radiatore, una somma di 5.000 marchi affidatagli da Harnack. Ma il verdetto sostiene che l'accusa non ha recato le prove che Grimme fosse a conoscenza delle attività spionistiche di Harnack e di Kuckhoff, né che conoscesse l'origine e l'uso cui erano destinati i 5.000 marchi. Fu condannato semplicemente per non aver denunciato l'attività sovversiva dei suoi interlocutori e i loro discorsi sediziosi contro lo Stato. La Corte dichiarò perfino doversi tenere conto delle convenzioni religiose di Grimme, convinzioni che lo predisponevano alla ribellione contro il regime. Gli inflisse 3 anni di carcere. Anche Günther Weisenborn, di cui abbiamo descritto gli sforzi per farsi capire dal suo vicino di cella, e che era più compromesso di Grimme, fu condannato a 3 anni di penitenziario. Sembra che le comparse del gruppo berlinese abbiano beneficiato di un processo legale ogni volta che non ebbero la sfortuna di trovarsi incorporati in un gruppo particolarmente pericoloso. La Gestapo, infatti, fece giudicare i suoi prigionieri a gruppetti e tentò sempre di infilare in ogni drappello qualche imputato tra i più compromessi, affinché ne restassero contaminati tutti gli altri.

borgo silvestre dove i borghesi di Francoforte hanno la villa per il weekend. È stato eletto vicesindaco. Il suo studio legale è fiorente. Vive felice e prospero tra la moglie, che deve essere stata molto bella, e la figlia minore. La maggiore non è nel Sud America, ma negli Stati Uniti: ha sposato un americano. Roeder dice spesso e volentieri: «Nel 1965, quando sono stato invitato dall'ex-governatore del Michigan...». Oppure: «L'ultima volta che un pezzo grosso della CIA è venuto a farmi visita...». La sua magnifica villa è in puro stile californiano, omaggio alle sue amicizie. Nel garage, una grossa Opel e una piccola Fiat. È un uomo alto, un po' obeso, i capelli bianchi, la carnagione che tende al paonazzo, un grosso naso violaceo. La bocca è orrida, deformata dalla protuberanza dei denti. Dietro le lenti degli occhiali, spesse come fondi di bicchiere, dell'occhio si scorge soltanto un'enorme pupilla bruna dallo sguardo spietato. Per riposarmi della vista della sua faccia, di tanto in tanto contemplavo l'immensa pianura al di là della vetrata. E pensavo non tanto a Walter Husemann, nella sua tomba, quanto ai Mignon, per esempio, che marciscono tuttora nella loro topaia in riva alla Senna, mentre un Roeder o un Darquier dominano da padroni le bellezze di questo mondo. E mi dicevo che la guerra, decisamente, aveva tutto sconvolto senza nulla cambiare. *** Il commissario Koppkow ebbe meno fortuna con gli inglesi. Stando a Roeder, non gli inflissero una morte brutta, ma ridicola: una morte finta. Caduto in loro mani, fu subito trasferito ad Edimburgo, poi interrogato per quattro anni. Gli fecero racconta-

re ciò che sapeva, e sapeva molte cose. Quando ebbe finito, i capi dei servizi inglesi temettero che, se avessero rilasciato quel prezioso testimone, altre mani se ne sarebbero impossessate – mani sovietiche. Compilarono un falso certificato di morte a nome di Koppkow, lo spedirono a sua moglie, in Germania e solo allora concessero al prigioniero di fare ritorno al suo paese. Da quel momento in poi si sarebbe chiamato Cordes e non avrebbe dovuto in alcun caso mettersi in contatto con la moglie e i familiari. Koppkow rispettò scrupolosamente tali istruzioni: sapeva che Mosca non gli avrebbe offerto gli stessi agi di Edimburgo. Visse solitario per cinque anni. Gli era stato trovato un lavoro presso una ditta tessile. Nel 1954 la Guerra fredda si intiepidì e gli inglesi ritennero possibile procedere alla resurrezione del morto. Koppkow ottenne l'autorizzazione di aggiungere il suo vero nome a quello di Cordes. La vedova stupefatta cadde nelle braccia di un fantasma bene in carne. Oggi vivono a Gelsenkirchen, nella Ruhr. Passai due giorni davanti alla loro porta, ma l'ex-commissario Koppkow non voleva vedermi: preferì lasciare la città. Sua moglie è una donna strana, dai modi ovattati, la voce senza timbro, vive come sotto la minaccia di un'imminente catastrofe. Secondo lei, tale minaccia non è più di marca russa, bensì tedesca: suo marito è alla mercé dello zelo di un procuratore. Il commissario Panzinger, per essere esatti, ebbe infatti ancora meno fortuna con i suoi compatrioti della Germania Occidentale che Koppkow con gli inglesi. Alla fine della guerra, Panzinger era sfuggito alle ricerche nascondendosi in un convento. Qualche anno dopo, rassicurato, andò ad abitare a Monaco. Nel

1961, la giustizia di Bonn aprì un'inchiesta contro di lui. Quando seppe che il suo rifugio era stato scoperto, Panzinger si uccise.

XXX. IL PATIBOLO

Due detenuti dividevano la cella con Alfred Corbin: un maestro di scuola belga e un giovane olandese – non appartenevano all'Orchestra Rossa. Siccome c'erano soltanto due giacigli, Alfred Corbin dormiva per terra. La mancanza di spazio costringeva i prigionieri ad un'immobilità che rendeva ancora più difficile sopportare il freddo. Il cibo, invece, era quasi sufficiente, soprattutto per chi proveniva da Fresnes. I prigionieri ricevevano i tre quarti di una razione militare, vale a dire che erano meglio nutriti dei civili tedeschi e due volte di più che a Fresnes. E poi, Ludwig Kainz era stato adibito ai servizi di cucina. Kainz dava prova di un'ammirevole dedizione nei confronti dei suoi compagni di rete, i quali lo chiamavano “il Toporagno”, per via del suo naso appuntito. Fu fino all'ultimo il segreto fornitore di meravigliosi banchetti. Grazie a lui, i detenuti riuscivano perfino ad ottenere giornali tedeschi. I detenuti della Lehrterstrasse potevano disporre di carta e matite. Fin dal suo arrivo, Alfred Corbin tenne un diario personale. Ma si tratta proprio di un diario? Tre volte al giorno scriveva rivolgendosi alla moglie, Marie Corbin, chiusa nel carcere di Moabit; le parlava come se l'avesse di fronte, “entrava in comunicazione” con lei, tanto che le parole tracciate con grafia microsco-

pica, una grafia che si va facendo ancora più minuta con il passare del tempo, sembrano essere la trascrizione di un'ininterrotta conversazione tra i due coniugi, come se non li separassero muraglie e soldati in armi, come se il loro dialogo non rischiasse di essere interrotto da un momento all'altro dall'arrivo del carnefice. Il 12 maggio, Alfred Corbin scrisse: Dobbiamo rallegrarci di essere stati trasferiti a Berlino? Ad ogni modo, non perdiamo niente con il cambio! Non ritengo che ci abbiano portati qui solo per fucilarci 100 giorni dopo la sentenza, com'è la regola vigente – o meglio era, dal momento che il giovane olandese e molti altri che sono stati giudicati e condannati più di 6 mesi fa non ne hanno sentito più parlare. Riapriranno il processo, come dicono tutti? È possibile. Staremo a vedere, il morale è alto e voglio tornare a casa con te, come mi hai chiesto. Sono tornato dal Belgio, dalla guerra in Francia – perché non da questo viaggio in Germania? Ho intenzione di affidare gli affari della Simex a mio fratello, che è sempre del parere di lasciare Creed, andando a controllare le cose dall'alto solo una volta ogni tanto. Mi sono fatto un bel po' di conoscenze all'estero e penso che ci sarà molto da fare dopo la guerra nel campo delle importazioni-esportazioni. Comunque, cambierò il nome della ditta.

*** 19 maggio:

E faccio dei calcoli, e delle ipotesi, sulla fine della guerra, che gli uni prevedono fra 3 mesi e gli altri per la fine dell'anno... C'è da impazzire! E il problema è tanto più angoscioso in quanto ne dipende il mio destino... Non nutro infatti illusione alcuna circa il verdetto che sarà emesso qui; il problema consiste perciò nel sapere se riusciremo a guadagnare abbastanza tempo da sfuggire all'esecuzione.

*** 20 maggio: Ho fatto un piccolo cenno di saluto a Keller, che è all'aria. Ma Breyer, che fa parte dello stesso gruppo, non guarda mai verso la mia finestra. Ha l'aria di essere immerso in profonde riflessioni... Chissà, forse calcola anche lui la fine della guerra!

*** 4 giugno: Che spaventosa mattinata. Il nostro compagno di cella olandese è stato giustiziato stamattina assieme a tutto il suo gruppo di 40 condannati. Stamane, alle 3.30, sono venuti a svegliarci e, per un malinteso, ho creduto che venissero a prendermi per l'ultima passeggiata. Ci hanno fatto rivestire tutti e tre e quando siamo stati pronti, hanno fatto uscire quel ragazzo di 23 anni che aspettava il compimento della sua sorte dal 2 ottobre 1942! Che infamia! Ero nervoso da alcuni giorni e sentivo che si pre-

parava qualcosa. Ovviamente non so che cosa mi attende, ma spero sempre! Cosa che forse è cretina. Ma se dovesse succedermi di essere svegliato allo stesso modo, sii certa, mia cara, che sarò calmo, calmissimo. Sono perfino un po' sorpreso della mia serenità.

*** 6 giugno: Quel tipo è diventato mezzo pazzo, venerdì mattina è rimasto due ore nella nostra cella e ci ha spiegato in quattro e quattr'otto che la guerra non sarebbe finita prima del 1945! Figurati che desolazione!

*** Il 12 giugno, Alfred Corbin riceve in lettera per la prima volta un libro della biblioteca del carcere. Si trattava di un'opera francese, Le Monde où l'on s'ennuie. Corbin, però, non si annoiava. Redattore, prima e durante la guerra, della rivista Rustica1 (con lo pseudonimo di “Bellême”), aveva iniziato, già durante la prima settimana successiva al suo arrivo a Berlino, a scrivere un libro destinato ai fedeli lettori di Bellême. Ecco qui di seguito l'introduzione:

A Gérard Biront di Lovanio (Belgio) e Jean Vrolyk di Zwyndrecht (Olanda) 1 Pubblicazione specializzata in problemi di giardinaggio ed allevamento.

miei compagni di cella Lehrterstrasse 3 Berlino, aprile 1942. Devo innanzitutto scusarmi con i miei amici lettori di Rustica per averli lasciati tanto bruscamente; stiano certi che non è stata colpa mia! E che penso molto a loro. Cinque mesi in cella di segregazione, in Francia, seguiti da una condanna a morte, non sono probabilmente parsi sufficienti alla polizia tedesca che mi ha portato qui, in questo carcere berlinese. Che può fare uno di meglio, in attesa che si compia il suo destino, che pensare agli amici e lavorare per loro? Mi sono quindi messo al lavoro e ho iniziato a trattare qui il problema che mi ha sempre interessato: la creazione e l'organizzazione di allevamenti su scala professionale. Mi auguro che quest'opera, il più possibile completa, serva da guida a tutti i miei amici allevatori o aspiranti tali. Quando sarà data alle stampe? Avrà mai modo di essere pubblicata? Ecco due domande cui non posso rispondere, ma qui, in questa nostra solitudine, mi sono ricordato le parole di Guglielmo d'Orange: «Non è necessario sperare per cominciare, non è necessario riuscire per perseverare», e allora ho cominciato... Con mezzi di fortuna, vale a dire semplicemente con le cognizioni che ho del problema e l'aiuto della memoria. Il lettore, dunque, mi scusi se in questo libro non sempre troverà tutta l'esattezza che sarebbe nei suoi voti. Non ho una biblioteca a mia disposizione, e di conseguenza nessun mezzo di compilazione: del resto, le cifre di oggi non avranno probabilmente più valore domani e per il

momento dobbiamo attenerci alle generalizzazioni e ai principî fondamentali. L'avicoltura francese, attualmente in rovina, quanto prima rinascerà; possa questo libro contribuire alla sua rinascita: è questo il mio più vivo desiderio. A. Corbin Bellême.

Abbiamo già espresso a sufficienza la nostra ammirazione per Grossvogel, Alamo, Sokol, Erika von Brockdorf che non appartengono alla stessa parrocchia, territoriale o spirituale; e abbiamo aggiunto una lacrima a quella versata dal tedesco Schulze-Boysen sull'ultima lettera indirizzata ai genitori; e abbiamo recitato Goethe con l'americana Mildred Harnack; e il nostro cuore ha accelerato i battiti leggendo l'ultimo appello alle armi del comunista Husemann; e abbiamo teso il pugno a Roeder assieme a Käthe Voelkner... Ci sia dunque consentito di affermare che siamo fieri del nostro Alfred Corbin. Perché queste righe scritte in una cella della morte, ad un centinaio di passi dalla ghigliottina, testimoniano anch'esse, in un loro modo ingenuo, della grandezza dell'uomo. Il 21 luglio, Margarete Barcza esce dal carcere di Fresnes e, accompagnata da una donna della Gestapo, prende il treno per Marsiglia. Nei giorni precedenti, in cella, le avevano fatto fare le prove della parte che avrebbe dovuto recitare. Si trattava di fingere che fosse sempre libera, allo stesso modo di Kent. Così, le comparse della rete marsigliese – ammesso che ce ne fossero –, sarebbero state rassicurate circa la sorte del loro capo e della sua amante: eventuali sospetti da parte loro non dovevano in alcun

modo mettere in allarme Mosca in merito alla sincerità dei messaggi di Kent. Il viaggio si svolse senza intoppi e Margarete ebbe la sua ricompensa non appena tornata a Parigi: fu installata con Kent nella villa di Neuilly. Lasciò Fresnes «festeggiata come una diva» dai guardiani, che le offrirono un mazzo di fiori in segno di riconciliazione. A Neuilly, si insediò nella stanza numero 7. Kent alloggiava alla numero 8. Dapprima poterono stare assieme soltanto la domenica, ma Margarete fece in modo di attenuare tale severità. Il 12 agosto fece lo sciopero della fame. Quando vennero a chiedergliene il motivo, urlò: «Come? E osate domandarlo? Ma se sono senza marito, senza sigarette; eppure sapete, dalle vostre scartoffie, che oggi è il mio compleanno!». Andarono in fretta a prenderle Kent e un pacchetto di Gauloises. D'altronde, un avvenimento inatteso, benché prevedibile, convinse poco dopo Boemelburg a sistemare i due amanti nella stessa camera: Margarete era incinta e la gravidanza minacciava di risultare infernale se Kent non la aiutava a sopportarne le noie. La vita allora riacquistò un po' del fascino di una volta, dei bei tempi di Bruxelles e di Marsiglia. Trascorreva, monotona e felice, tra bagni di sole in giardino, partite a carte con le guardie ed effusioni amorose con Kent. Questi continuava ad osservare un mutismo assoluto in merito alle proprie attività. Non aveva neppure ritenuto opportuno spiegare all'amica gli avvenimenti che avevano sconvolto la loro esistenza, di modo che Margarete credeva tuttora che causa delle loro peripezie fosse un confuso problema relativo alla nazionalità uruguayana. Ci volle un incidente fortuito per disingannarla. Un giorno udì un guardiano di

Neuilly gridare a perdifiato: «La macchina da scrivere russa di Kent»2. Sapeva il russo? Era forse russo? Margarete interrogo Willy Berg, il quale confermò a malincuore la nazionalità russa, affrettandosi ad aggiungere: «Ma, per carità, faccia finta di non saperlo: la cosa lo sconvolgerebbe. Da quando lo abbiamo arrestato, non ha fatto che supplicarci di tenerle nascosta la sua nazionalità, perché sa che lei detesta i russi e ha una paura matta di perderla per tale motivo». Margarete promise e mantenne la promessa. In effetti, non amava la Russia. Ma perché Kent negava con tanta forza di essere ebreo, dal momento che lo era anche lei e quindi non poteva fargliene una colpa? A dire il vero, Margarete non si preoccupava di questi misteri, così come accettava la sfortuna e i rovesci finanziari con indifferenza, fintantoché non ne risentiva l'unione fisica con Kent. L'inferno consisteva unicamente dall'essere separata da lui; Neuilly, nonostante tutti i suoi inconvenienti, era quindi un paradiso. Non si scappa dal paradiso, soprattutto quando vi si lascia in ostaggio l'essere adorato. Qualche settimana dopo il trasferimento a Neuilly, Margarete tornò a Marsiglia a riprendere il figlio René. La scortava Jung. La SS, robusto bevitore, lasciò la prigioniera sola nella stanza d'albergo – neppure chiusa a chiave – per andare a fare il giro dei bari. Non era un'imprudenza: Margarete non si sognava neppure di evadere. René, che allora aveva 11 anni, fu messo in collegio a Sainte-Barbe. Ogni giovedì, Margarete lasciava Neuilly per andare a passare il pomeriggio con lui. Gli altri giorni offriva quasi invariabilmente lo spettacolo osservato da André François-Poncet. Attorno alla sua sedia a sdra2 In realtà, la guardia disse «di Fritz», perché il Kommando aveva affibbiato a Kent lo pseudonimo di “Fritz Frisch”.

io passeggiava a volte Trepper, oppure Katz, lui pure alloggiato a Neuilly, al pari di Schumacher, catturato a Lione. Nella prigione di lusso della Gestapo, su dieci stanze, cinque erano riservate all'Orchestra Rossa. *** Il 1° luglio, Alfred Corbin annota nel suo diario: Comincia un nuovo mese ed un nuovo semestre: ci porteranno la liberazione?

*** Il 20 luglio: Poco fa sono venuti a domandarmi se ero belga o francese. Forse per cambiarmi cella o per qualcosa di più grave! Non mi piace molto che si interessino alla mia umile persona!

*** Il 21 luglio: Mi sono dimenticato di dirti che stamattina sono di nuovo venuti a domandarmi se ero civile o militare! Ho paura che ci saranno dei cambiamenti di cella.

***

Nello stesso periodo, una straordinaria ondata di ottimismo travolge i detenuti della Lehrterstrasse. Questi, come tutti i prigionieri del mondo, si nutrivano di speranze che consideravano realtà di fatto e fondavano le più grandi aspettative sulla più futile voce. Le loro informazioni si limitavano al bollettino pubblicato nei giornali di Berlino: perfino nel testo tendenzioso elaborato da Goebbels leggevano la certezza del crollo del Reich per il mese successivo. Corbin non condivideva i loro deliri. Taceva le proprie obiezioni, ben sapendo che sarebbe stato crudele smentire una benefica illusione, e si accontentava di trascriverle nel suo diario. Non che credesse, come quel suo compagno reso pazzo dall'esecuzione di 40 prigionieri, che la guerra si sarebbe conclusa soltanto nel 1945 (opinione di un pessimismo altrettanto insensato, ai suoi occhi, di quanto fosse l'ottimismo della maggioranza), ma aveva la certezza che la Wehrmacht sarebbe stata colpita mortalmente soltanto da uno sbarco alleato sulle coste francesi. Neppure l'invasione della Sicilia, il 10 luglio, gli fa cambiare parere, mentre per i suoi compagni è come l'annuncio di una liberazione imminente. Perfino la caduta di Mussolini, il 25 luglio – che porta al culmine l'entusiasmo – lascia intatta la sua lucidità: Corbin studia a fondo i discorsi del re d'Italia e di Badoglio e conclude: «Non è finita». Ma, improvvisamente, il 27 luglio, si abbandona e si lascia trasportare come gli altri dall'ondata di speranze: «Ho la convinzione che tutto sarà finito per la fine dell'anno». L'indomani, 28 luglio, appena sveglio annota:

Buongiorno, tesoro. Ho dormito abbastanza bene, nonostante il rumore della stazione e di un aereo che ha girato per parecchie ore. Credevo che soltanto io fossi nervoso e... debole di tanto in tanto, ma Biront ha avuto una violenta crisi di preoccupazione. È una cosa terribile dal punto di vista dei nervi: sentiamo che il crollo dell'Italia deve precedere quello della Germania, ma quando accadrà? Cara, cara, come penso a te – a noi.

*** Proprio allora vengono a prenderlo annunciandogli che deve lasciare nella cella gli effetti personali. Sa che cosa significa quella frase. Con lui perirono 6 membri dell'Orchestra Rossa, tra cui Benjamin Breyer e Medardo Griotto. Furono decapitati nella prigione di Plotzensee, nello stesso stanzone dove erano stati impiccati Schulze-Boysen e Harnack. Stando alla testimonianza del cappellano Kreuzberg, tutti morirono da coraggiosi. *** Otto giorni dopo, il 5 agosto, perirono a loro volta sul patibolo nazista 15 membri del gruppo berlinese: Rose-Marie Terwiel, Adam Kuckhoff, Hilde Coppi, Oda Schottmüller, Emil Hubner, Ursula Goetze, Frieda Wiesolek, Liane Berkowitz, Stanislas Wesolek, Eva Maria Buch, Anna Krause, Cato Bontjes van Beek, Rose Schlosinger, Klara Schabbel e Ingeborg Kummerow. 12 donne... La ballerina Schottmüller, che aveva nascosto in casa sua un'emittente, al pari di Rose Schlosinger; Anna Krause,

cartomante; Cato Bontjes van Beek, ceramista; Eva Maria Buch, che aveva tradotto in tedesco un articolo scritto da un operaio francese per il foglio Il Fronte Interno e che dichiarò di esserne l'autrice, salvando così un compagno sconosciuto; Klara Schabbel, che teneva i collegamenti tra Berlino e Bruxelles; Ingeborg Kummerow, moglie di Hans Heinrich Kummerow, ingegnere della “Loewe-Opta-Radio”; Rose-Marie Terwiel, segretaria di Schulze-Boysen; Ursula Goetze, studentessa; Frieda Wesolek, che aveva dato rifugio ad alcuni paracadutisti e fu deportata assieme al padre e al marito; Liane Berkowitz, 20 anni, cui fu sottratto il figlio, nato in prigione, per essere messo in un ospizio delle SS – dove morì prima di lei; Hilde Coppi, la moglie del pianista dilettante di Schulze-Boysen, che pure aveva dato alla luce un figlio in carcere e che poco prima dell'esecuzione scriveva: «Sono calmissima, sono perfino contenta, sono felice di ogni giorno che posso passare con mio figlio. E lui, gli piace tanto ridere, è così allegro, perché volete che pianga?». Dei 3 uomini, il più degno di nota era Adam Kuckhoff. Noto scrittore, autore drammatico di successo, era stato con SchulzeBoysen e Harnack una delle colonne del gruppo berlinese, di cui aveva organizzato le finanze e per il quale aveva redatto una quantità di articoli e di manifesti antinazisti. Tanto che il suo indirizzo figurava nel famoso messaggio trasmesso dal Centro a Kent. Viene fatto di pensare che il Direttore specificava: «Ricordare qui Till Eulenspiegel». Era il titolo dell'ultimo lavoro teatrale di Kuckhoff: era servito da chiave per il cifrario dei telegrammi della rete. Kuckhoff era piccolo, tarchiato, con una testa rotonda dai tratti energici. Condannato a morte, consacrò le ultime settima-

ne di vita a redigere – ammanettato – uno «schema di un'estetica dialettica». La sua sorte personale lo lasciava indifferente, ma soffriva all'idea di lasciarsi alle spalle un bambino inerme: suo figlio Ule di 5 anni. Quando vennero a prenderlo nella cella, tracciò di getto su un pezzo di carta questi quattro versi: Per Ule Mio figlio amato, mia grande e ultima felicità Ti abbandono e ti lascio senza padre No! Tutto un popolo – no, non basta – L'umanità intera ti farà da padre.

Qualche settimana dopo morirono Wilhelm Schürmann-Horster, Wolfgang Thiess, Eugen Neutert. Con loro si concludeva il martirio del gruppo berlinese. 2 condannati erano riusciti a suicidarsi, 8 erano stati impiccati, la lama della ghigliottina era caduta 41 volte. *** A Parigi, il cancro aveva battaglia vinta con Giering. Il capo del Kommando fu costretto ad abbandonare l'incarico nell'agosto del 1943; fu ricoverato all'ospedale di Landsberg, dove morì verso la fine dell'anno. Certo, deve essere stato penoso per lui abbandonare la partita in corso, perché amava appassionatamente il suo lavoro. Ma Giering portava con sé la consolante certezza di avere vinto la gara impegnata due anni prima con la malattia: l'Orchestra Rossa era stata annientata e lui aveva alla sua mercé, obbedienti servitori, il Gran Capo e il Piccolo Capo. Aveva

dato prova di violenza e di crudeltà, ma anche in intelligenza e scaltrezza. Aveva inflitto senza battere ciglio la tortura e subito senza battere ciglio la tortura del cancro. I superstiti dell'Orchestra Rossa lo odiano, e lo rispettano. Suo successore alla testa del Kommando dovrebbe essere Reiser. Ma questi, contrariamente a Giering, è assolutamente incapace di elevarsi dal piano delle incombenze poliziesche a quello dell'alta politica. Dicono di lui i suoi uomini: «Un testardo, niente di più». Mentalità da mezze maniche, restio a prendere iniziative, attento ad evitare responsabilità. Non è neppure stato informato del “Grande Gioco” – feudo riservato a Giering e a Willy Berg. Sa semplicemente che è in atto un Funkspiel, senza che sospetti l'importanza della partita. Ed è uomo di intollerabile pusillanimità! Sei mesi dopo la cattura del Gran Capo, continua a manifestare nei suoi confronti una diffidenza da serpe, convinto che Trepper si faccia gioco dell'intero Kommando. Anche Giering diffida, beninteso, ma ciò non gli impedisce di andare avanti. Mentre, in occasione di ogni suo viaggio a Berlino, opprime con i suoi dubbi i capi della Gestapo, senza poter mai fornire la minima prova, naturalmente, ma appellandosi al proprio fiuto di vecchio poliziotto incanutito in servizio, tanto che i suoi superiori, stufi, finiscono con il dirgli: «Basta con questi suoi eterni sospetti! È chiaro che quel tipo è dalla nostra parte!». Reiser viene messo in disparte. Lo rispediscono in Germania, a Karlsruhe. Pretesto invocato: lavora da troppo tempo a Parigi per non correre il rischio di essere individuato dal nemico... Successore di Giering sarà il Kriminalrat delle SS Heinz Pannowitz.

*** Pannwitz è un esemplare caratteristico di quelli che lo storico americano Shirer definisce i «gangsters intellettuali del Terzo Reich». Quando, nel 1933, Hitler sale al potere, ha 22 anni e si interessa pochissimo di politica. Studia teologia per diventare pastore. Ma dopo i cinque anni di studi, si allontana dalla religione e decide, a conti fatti, di entrare nella polizia nazista. Le vie della vocazione sono imprevedibili. Nello stesso periodo, debutta presso Himmler un giovane di 23 anni, laureatosi a pieni voti all'Università di Bonn, appassionato di storia del Rinascimento: Walter Schellenberg, destinato a diventare il capo supremo dei servizi di spionaggio tedeschi. E anche un ragazzo di 27 anni, uno sgobbone che si chiama Adolf Eichmann. E ancora uno di 30 anni: Alfred Naujocks, ex-studente dell'Università di Kiel. Superiore di tutti questi era Reinhard Heydrich, 39 anni, ex-ufficiale di Marina, virtuoso di violino e schermidore di classe internazionale. Avevano in comune la gioventù e grandi appetiti. L'avventura nazista parve offrire il migliore impiego immaginabile alle loro doti. Permetteva tutto, e subito. La Germania fu la loro prima preda, poi ricevettero l'Europa dalle mani imbelli dei vecchi signori che la governavano e ne fecero il loro terreno di gioco. Perché, in sostanza, erano giocatori, che credevano unicamente al fascino e alle virtù dell'azione per se stessa. Schellenberg tradirà, Naujocks diserterà e Heydrich, se fosse vissuto fino alla fine, è lecito pensare che avrebbe rappresentato per l'esistenza del Führer una minaccia ben altrimenti temibile dei gentlemen della Resistenza. I loro giochi furono derisori e incantevoli. Derisori, perché l'egemonia temporanea della Germania non

fu cosa loro, bensì della Wehrmacht. Senza le sue divisioni corazzate non avrebbero ottenuto nulla; grazie ad esse, ebbero mano libera per mettere a ferro e fuoco un intero continente. Si divertirono come re. Tutte le ferrovie europee per Eichmann e 4 o 5 milioni di uomini da sballottare da un capo all'altro del continente: un gran bel trenino elettrico. Eichmann ne gode senza odio per le sue vittime, come sarà dimostrato in seguito ai suoi giudici stupefatti. Ma se il fatto di giocherellare con orari e scambi ferroviari era un divertimento pacifico, fatto apposta per conquistare Eichmann – il meno fantasioso della compagnia –, gli altri portarono nelle loro attività un'immaginazione delirante, doti di inventiva davvero straordinarie. Naujocks e Schellenberg, nel 1939, organizzano e attuano con successo il ratto rocambolesco di due ufficiali dell'Intelligence Service alla frontiera olandese: si tratta dell'“incidente di Venlo”, che sembra uscito da un romanzo di Eugène Sue. Qualche mese dopo, Schellenberg è a Lisbona per rapire il duca e la duchessa di Windsor; fa scagliare sassi contro le loro finestre e manda alla duchessa un mazzo di fiori accompagnato dal seguente messaggio: «Attenta alle macchinazioni del servizio segreto britannico. Un amico portoghese che ha a cuore i suoi interessi», e sembra di leggere Alexandre Dumas. Naujocks inventa l'“Operazione Bernhard”, un fantastico piano consistente nell'inondare l'Inghilterra di banconote false in modo da scombussolarne l'economia, e siamo in piano Ian Fleming. Heydrich installa a Berlino un bordello di lusso, il “Salone Kitty”, frequentato dai diplomatici accreditati a Berlino; tutte le conversazioni sono registrate in una sala d'ascolto ricavata nelle cantine, e questo è Roger Peyrefitte. Quanto ad Heinz Pannwitz, offre il mezzo mirabolante per sopprimere Winston Churchill, anima

della resistenza britannica; paracadutare sull'Inghilterra due pazzi ossessionati dall'idea fissa di ucciderlo. Il progetto è accettato. Siccome nessun manicomio tedesco ospita alienati che presentino tale particolarità, alcuni psichiatri si daranno da fare per settimane – ma invano – ad inoculare l'odio per Churchill nel cervello di due poveri diavoli... Divertente. Ma ci sono cose meno buffe, come è risaputo. Il 29 settembre 1941, Reinhard Heydrich si insedia a Praga. È stato nominato “vice-protettore di Boemia e Moravia”. In effetti, Hitler gli ha dato i pieni poteri per riprendere in pugno l'ex-Cecoslovacchia, che il padrone in carica, il “protettore” Neurath, si rivela impotente a strangolare. Fa parte della comitiva anche Heinz Pannwitz. Grazie all'appoggio di Heydrich, compie un'ascesa folgorante nelle file della Gestapo. Giunto alla carica di Kriminalrat, si stabilisce a Praga con moglie e figli per fare da braccio destro al suo capo in quel grande disegno politico. Una politica che il vice-protettore riassume in cinque parole: «La frusta e lo zuccherino». Prima la frusta: esecuzioni in massa e deportazioni al minimo scarto. Due settimane dopo l'arrivo di Heydrich, Himmler riceve il seguente rapporto: Tutti i battaglioni delle Waffen SS si porteranno in autocarro nel Protettorato di Boemia e Moravia per eseguire le fucilazioni e controllare le impiccagioni. Vi sono finora: a Praga, 99 fucilati e 21 impiccati; a Brno, 54 fucilati e 17 impiccati, ossia un totale di 191 esecuzioni, di cui 16 ebrei.

Ed è solo l'inizio. Ma qualsiasi bruto delle SS è capace di maneggiare la frusta, mentre la politica dello “zuccherino” richiede intelligenza e tatto. Ad Heydrich non mancano. Mette a punto una straordinaria campagna di promozione alimentare: per ogni ora di lavoro supplementare, l'operaio ceco riceve a mo' di gratifica non già del denaro, privo di valore, ma qualche tagliando per l'acquisto di carne o di grassi. Heydrich ha mirato in basso, e giusto. La produzione industriale ceca compie immediatamente un balzo in avanti3. Sviluppa il suo sistema, lo perfeziona di continuo (vacanze in alberghi di lusso per gli operai più diligenti, eccetera) e lancia, in un secondo tempo, una campagna di propaganda impostata sul tema della riconciliazione ceco-tedesca. La terza tappa consisterà nell'accordare ai cechi un'autonomia limitata in cambio del loro ingresso nella grande crociata antibolscevica. Questo è troppo per il governo ceco in esilio a Londra: Heydrich, l'“Angelo del Male”, deve sparire. Due agenti vengono lanciati con il paracadute con il compito di ucciderlo. Il 27 maggio assaltano la Mercedes scoperta di Heydrich armati di pistole e bombe, feriscono gravemente l'ufficiale delle SS –morirà il 4 giugno – e fuggono. È a questo punto che la carriera di Heinz Pannwitz giunge al culmine. Qualche giorno prima dell'attentato, aveva supplicato il suo superiore di accettare una scorta. Heydrich aveva rifiutato, come al solito: era tutto, tranne che vigliacco. Ma Pannwitz, capo della Gestapo a Praga, quindi responsabile della sicurezza del viceprotettore, rischia ora di pagare per la sua temerarietà. La sera 3 Avrebbe compiuto un balzo in avanti la produzione industriale di qualsiasi paese occupato.

stessa dell'attentato, atterrano a Praga Schellenberg e GestapoMüller. I dirigenti nazisti, sconvolti, esigono un olocausto per vendicare Heydrich. Goebbels ha già fatto arrestare 500 ebrei berlinesi, di cui 252 saranno messi a morte, mentre altri 300, strappati al ghetto di Theresienstadt, saranno a loro volta giustiziati. Baldur von Schirach, Gauleiter di Vienna, esige la distruzione di una città inglese di interesse culturale a titolo di rappresaglia. Ma, naturalmente, è in Cecoslovacchia che dovrà scorrere il fiume di sangue espiatorio. A Praga e nelle grandi città, più di 3000 arresti; 1331 cechi, di cui 201 donne, giustiziati in loco; nelle campagne, 5000 comuni rastrellati e 657 persone fucilate. La morte di Heydrich, il 4 giugno, rilancia il massacro: i plotoni di esecuzione si insediano addirittura nei cortili delle prigioni. Al carcere Pankrac di parga, 1700 cechi assassinati; a quello di Brno, 1300 cadaveri. Poi, il 10 giugno, lo sterminio del villaggio di Lidice, l'esecuzione della popolazione maschile e la deportazione delle donne a Ravensbrück, e i bambini di tenera età sgozzati sul posto. Heinz Pannwitz non era stato l'ispiratore di questi massacri, ma ne fu, a causa delle funzioni che svolgeva, uno degli organizzatori. L'inchiesta propriamente detta fu condotta ai suoi ordini. Cominciò nei sotterranei adibiti alle torture della sede della Gestapo e si concluse, il 18 giugno, nella cripta della chiesa di San Carlo Borromeo, dove si erano rifugiati i paracadutisti e i loro compagni. Pannwitz diresse l'assalto di un reggimento scelto di SS, che 7 eroici cechi tennero in scacco per ore: fu necessario affogarli.

Ad Heydrich furono decretati funerali a spese dello Stato. Hitler lasciò il suo quartier generale per venire a pronunciare l'orazione funebre; celebro nel caduto l'«uomo dal cuore d'acciaio». Gli decretò la più alta onorificenza dell'Ordine Tedesco, che era stata attribuita un'unica volta. L'orchestra filarmonica di Berlino suonò la marcia funebre del Crepuscolo degli dèi, poi il morto fu calato nella fossa e i capi nazisti sazi di sangue, saturi di bella musica e di stendardi sventolanti, se ne tornarono nei loro uffici. Era stato un bello spettacolo. *** Per la maggior parte di loro, la scomparsa di Heydrich era anche stata un affare, e Pannwitz non lo ignorava. Sapeva del terrore fisico che il suo capo ispirava agli altri (il «complesso di Heydrich», come diceva Schellenberg). Era al corrente delle gelosie suscitate da una carriera vertiginosa, la cui meta era ovviamente il potere supremo. Intuiva che la scomparsa del vice-protettore avrebbe significato per i suoi protetti il crollo di ogni speranza: il Kriminalrat Pannwitz avrebbe finito la carriera come Kriminalrat. È probabilmente per questo motivo che il suo rapporto sull'inchiesta criminale fu redatto in modo tanto singolare. La prima parte era un'esposizione classica dei fatti, ma la seconda, con il pretesto di cercare i movimenti degli «assassini», accumulava critiche contro la politica seguita da Heydrich in Cecoslovacchia: un vero e proprio atto di accusa, e di una violenza inaudita. Era come giocare a “lascia o raddoppia”. Se gli avversari di Heydrich accoglievano a braccia aperte il transfuga Pannwitz, la

sua carriera aveva un rilancio. Se lo respingevano diventava possibile il peggio, perché i fidi dell'«uomo dal cuore d'acciaio» non lo avrebbero perdonato. Heinz Pannwitz perse la prima puntata. Convocato a Berlino, dove il suo rapporto aveva fatto scandalo, fu ricevuto freddamente, ascoltato senza interesse, congedato con l'ordine di tornare a Praga. Se avesse tradito Heydrich, l'accoglienza sarebbe stata senza dubbio diversa, ma aveva tradito soltanto il suo cadavere. Il Kriminalrat perse la testa. A torto o a ragione, vedeva la propria vita in pericolo. Aveva certe conoscenze all'OKW, il Gran Quartier Generale tedesco; le supplicò di salvarlo. Il mezzo migliore che escogitarono fu di mobilitarlo nella Wehrmacht. Ricevette segretamente un foglio di trasferimento e andò a raggiungere la propria unità sulle rive del lago Ladoga, alla frontiera russo-finlandese. Si trattava di un reggimento della famosa Divisione “Brandeburgo”. La “Brandeburgo”, corpo scelto adibito alle missioni speciali, dipendeva direttamente dall'Abwehr. Le SS non sarebbero venute a cercare Pannwitz. Il suo soggiorno al fronte durò quattro mesi: dal settembre 1942 alla fine dell'anno. Nel gennaio del 1943, fatta pace con i capi di un tempo, rientro nel giro delle SS e si insediò a Berlino per lavorare agli ordini di Gestapo-Müller. Sei mesi dopo, gli veniva affidato l'incarico abbandonato da Giering. Era una nomina lusinghiera. Pannwitz non la doveva unicamente al fatto di avere seguito da vicino, dalla sua scrivania, il lavoro del Kommando, grazie ai rapporti mandati da Giering: ai tempi di Praga, Pannwitz aveva avanzato proposte rivoluzionarie per farla finita con la Resistenza. Il metodo tradizionale consisteva nell'annientare

qualsiasi rete scoperta; ma non appena un'organizzazione era distrutta, un'altra rinasceva dalle sue ceneri, non era mai finita. Heinz Pannwitz suggeriva di lasciare in pace le reti, dedicandosi soltanto alla cattura dei capi. Questi, una volta assorbiti, sarebbero diventati i “consulenti politici” delle autorità tedesche e, grazie a loro, si sarebbe sfruttato l'apparato della Resistenza – rimasto intatto – per distruggere lo spirito stesso della resistenza. Era una proposta ingegnosa e audace – troppo audace per quei tempi. Ma il “Grande Gioco” non si fondava forse sui principî definiti da Pannwitz? Il sottile Kriminalrat era, con tutta evidenza, l'uomo che ci voleva per rimpiazzare Giering. E ciò tanto più che il “Grande Gioco” stava per giungere alla svolta decisiva. Da sei mesi ci si dedicava soprattutto al compito di conquistarsi la fiducia di Mosca, perché il pesce russo abboccasse all'amo: era giunto il momento di pescarlo. Heinz Pannwitz arrivò a Parigi poco prima della partenza di Reiser. Gli dichiarò: «Finora, avete fatto soltanto dei lavoretti senza importanza. Adesso si comincia con l'alta politica». Reiser gli rispose che personalmente era soltanto un poliziotto desideroso di fare il suo mestiere di poliziotto, e che quindi gli lasciava ben volentieri il posto. Pannwitz aveva allora 32 anni; secondo uno dei suoi collaboratori, era «paffuto, fresco e roseo come un porcellino». *** Il 13 settembre 1943, Willy Berg si alza con un atroce mal di stomaco. La sera prima ha bevuto ancora più del solito per annegare i dispiaceri: era l'anniversario della morte dei suoi figli.

Verso le 11.30, arriva alla palazzina di Neuilly in uno stato di completa prostrazione. Trepper compiange le sue sofferenze e propone di accompagnarlo a quella farmacia dove vendono il rimedio miracoloso. Berg lo ringrazia calorosamente. Montano su un'automobile della Gestapo. Trepper ordina all'autista di dirigersi alla stazione di Saint-Lazare. A sinistra della stazione, in Rue de Rome 15, c'è la farmacia “Bailly”. È un banale stabilimento farmaceutico. Il pianterreno, enorme, contiene una decina di banchi. Ai piani superiori dello stabile hanno sede i laboratori. Un ingresso in Rue de Rome ed un altro in Rue du Rocher. L'automobile si arresta davanti all'ingresso principale. Trepper smonta e tiene la portiera aperta per Berg. Questi si solleva e dice, aggrottando la fronte: «Ma questa farmacia ha parecchie entrate...». «Certo, ma lei viene con me». Berg esita, poi torna a crollare sul sedile mormorando: «Ma si immagini! Ho fiducia in lei. Vada pure...». Il Gran Capo entra per la porta di Rue de Rome, esce per quella di Rue du Rocher e scompare tra la folla. È mezzogiorno. Venti ore prima è stata attuata l'evasione più spettacolare del secolo: Benito Mussolini, dittatore caduto, è stato sottratto alla prigione del Gran Sasso dallo Sturmbannführer delle SS Otto Skorzeny. *** Il 15 ottobre 1965, a Varsavia era una bellissima giornata. Scesi a piedi la grande arteria di Nowy Swiat fino a Via Nowogrodska. È una stradina che somiglia stranamente a quelle del Greenwich Village di New York; manca soltanto la scaletta di si-

curezza ad ogni stabile perché l'illusione sia completa. Tutt'attorno alla porta del numero 5, sede dell'Unione Culturale Ebraica, una mezza dozzina di targhe redatte in polacco e in yiddish, o forse in ebraico. Alcune persone aspettavano nel vestibolo. Domandai all'impiegato della segreteria se era possibile vedere il signor Leiba Domb. Lui mi invitò a seguirlo e mi fece cenno di entrare in un ufficio. Il mio cuore doveva battere altrettanto forte di quello del Gran Capo quando, 22 anni prima, spingeva la porta della farmacia “Bailly”. Secondo Manfred Roeder: «Gli americani avevano un'altissima opinione di lui. Volevano prenderlo a tutti i costi. Ma nel 1948, un capo sezione della CIA mi informò che era stato fucilato dai russi». Sapevo che la notizia non aveva trovato conferma. In realtà, tutti ignoravano che cos'era accaduto al Gran Capo, e tutti – i servizi americani, inglesi, francesi, belgi – avrebbero voluto saperlo. Era diventato la loro Arlesiana: se ne parlava sempre, non lo si vedeva mai. Di tanto in tanto, veniva segnalata una sua apparizione qua e là, ma i controlli subito iniziati non riuscivano a situarlo, e tanto meno ad acciuffarlo. Sapendo tutto questo fin dall'inizio delle mie ricerche, è quasi superfluo dire che non avevo nutrito neppure per un attimo la speranza di potermi trovare un giorno faccia a faccia con l'uomo cui avrei consacrato alcune migliaia di ore della mia esistenza – supponendo che fosse ancora vivo. Se organizzazioni tanto potenti non erano riuscite a scovare Leopold Trepper, sarebbe stato vano credere che ci sarei riuscito io. Con l'aiuto della fortuna, fu tuttavia relativamente semplice scovare Leiba Domb, di cui la CIA, l'Abwehr, l'Intelligence Service, la DST e la Gestapo (mi si perdoni l'amalgama) ignoravano che fosse Leopold Trepper.

Claude Spaak mi aveva detto, il 28 aprile 1965: Dopo la guerra, non ho avuto notizie sue. Ma 4 o 5 anni fa, ad una cena in casa del mio amico dottor Chertok, questi mi ha detto che aveva sentito parlare di Trepper; attualmente vive in Polonia, a Varsavia...

Il dottor Chertok, che in questa storia ebbe la parte fortuita che vedremo in seguito, è uno psichiatra di fama internazionale. Cinque giorni dopo che Claude Spaak mi ebbe parlato di lui, la stampa francese pubblicava il resoconto dei suoi interventi al Congresso mondiale dedicato all'ipnosi terapeutica che si teneva allora a Parigi. Mi aspettavo di vedere un vecchio signore barbuto con occhiali dalle lenti affumicate, e scoprii invece un pezzo d'uomo sprizzante energia da tutti i pori, solido come un giocatore di rugby, lo sguardo vivo, la risata tonante, la cui apparizione basta a suscitare nell'interlocutore un complesso di inferiorità fisica. Mi disse: Ripenso spesso a quella faccenda in cui sono stato coinvolto per puro caso – dopotutto, mi è costata uno dei peggiori spaventi della mia vita –, e mi sono spesso chiesto che ne era stato del protagonista. Ora, qualche anno fa, in occasione di un congresso scientifico tenutosi a Varsavia, ho ritrovato alcuni ex-compagni della Resistenza e, naturalmente, abbiamo evocato certi ricordi. Uno di essi ha parlato del Gran Capo. Con mia somma sorpresa, mi sono reso conto che si trattava del mio uomo, di colui che per me era rimasto “l'uomo di Bourg-la-Reine”. Mi hanno detto che viveva a Varsavia, in completa libertà, ma

che era gravemente ammalato. Il suo vero nome è Leiba Domb. È presidente dell'Unione Culturale Ebraica di Polonia.

Per qualche mese vissi negli affanni dell'indecisione. Scrivere, sollecitare un colloquio, significava esporsi ad un rifiuto inappellabile. Bussare alla sua porta senza farmi annunciare rischiava di mandare a monte ogni probabilità di essere ricevuto. Decisi di partire all'avventura, senza preavviso. Anche se mi buttava in strada, avrei almeno visto il Gran Capo. Valeva il viaggio. È invecchiato, certo, ma lo riconobbi immediatamente allo sguardo che così spesso avevano evocato i suoi antichi compagni. Gli occhi, di un grigio chiarissimo, ti fissano con straordinaria intensità. Vedi solo gli occhi nella maschera alla Joseph Kessel: leonina e solcata di rughe. I capelli ondulati, un tempo biondi, si sono fatti quasi bianchi. Seduto, quando metto piede nella sua stanza, dietro una piccola scrivania ingombra di carte ed opuscoli, si alza e mi viene incontro tendendomi la mano. Giacca marrone in imitazione tweed, calzoni grigio antracite, e maglio grigio chiaro. Un passo molto pesante. Le famose reni inarcate. La voce estremamente dolce, modulata, musicale, crea un impressionante contrasto con la durezza dello sguardo, con quel viso dove tanti drammi hanno lasciato la loro cicatrice. Farfugliai che ero venuto da Parigi per parlargli del passato. Scosse il capo. I suoi lineamenti restarono impassibili. Teneva nella mano sinistra una pipetta in miniatura simile a quella di Tito; nel fornello era infilata una sigaretta. Quella mano sinistra tremava. Lo attribuii al mal di cuore. Però, i giorni successivi, non tremava più.

Dissi: «Da due anni in pratica vivo con lei, con il Trepper di 20 anni fa». «Senti, senti...». «Voglio scrivere un libro sulla sua rete». «Se non ha altro da fare, perché no?». «Ha letto ciò che è stato scritto su di lei?». «Pochissimo. Non mi interessa». «Le dispiace parlarmene?». «Parlarne? Oh, parlare si può sempre...». «E che cosa mi dirà?». Quando ride, ringiovanisce di 20, 30 anni, e il suo viso perde di colpo la sua implacabilità. È come uno studente che racconti di una baldoria. Scoppiò in una risata e disse: «Ma... quello che sa già, naturalmente!».

XXXI. IL DUELLO TREPPER-GIERING

Mentre usciva dallo studio del dottor Maleplate tra Giering e Fortner, la sua impazienza era più forte della sua ansia. Da mesi si sforzava di trovare una spiegazione allo strano modo in cui il Kommando si comportava e all'inverosimile credulità di Mosca di fronte al Funkspiel: finalmente avrebbe saputo. All'indomani dell'arresto, lo riportarono da Fresnes in Rue des Saussaies. In serata si presentò al cospetto di un areopago di capi della Gestapo. Parecchi erano arrivati da Berlino quello stesso giorno; tra questi, un certo Müller cui gli altri testimoniavano grande deferenza e che, forse, era Gestapo-Müller in persona. Prese la parola Giering. Disse: Ecco, ha perso. E non solo ha perso contro di noi, ma di fronte a Mosca. Da un bel po' non le credono più. Dopo gli arresti operati in Rue des Atrébates, le hanno rimproverato di sgomentarsi per niente. Dopo la cattura di Yefremov ha cercato di avvertire Mosca e ha perso un'altra volta. Noi della Gestapo, noi godiamo della fiducia del Centro, non lei. Ma tutto questo lo sa già, naturalmente. Quando un uomo del suo stampo vede i suoi agenti cadere uno dopo l'altro, checché faccia, comprende

necessariamente che il nemico è in contatto con i suoi capi. Ed è proprio così che sono andate le cose. Guardi, ecco qualcuno dei telegrammi che abbiamo scambiato con Mosca: le dimostreranno fino a che punto siamo padroni della situazione.

Il Gran Capo prese conoscenza dei messaggi scambiati tra i pianisti agganciati e Mosca, poi li restituì a Giering. Questi riprese: Ora, che cosa abbiamo intenzione di fare con lei? Ottenere i nomi dei suoi ultimi agenti? Non ci interessa. La sua rete era una bella cosa, glielo concedo, ma è finita. Vuole le prove? Eccole...

E Giering lesse al prigioniero la lista degli agenti dell'Orchestra Rossa già agli arresti. Enumerò tutti quelli che erano stati individuati, localizzati, e che potevano arrestare quando volevano. Gli fornì perfino il nome degli uomini e delle donne semplicemente sospettate di lavorare per la rete. Poi concluse: Come vede, non abbiamo bisogno di lei per liquidare la sua organizzazione. Ma, ancora una volta, questo non ci interessa. Abbiamo un obiettivo molto più importante. Un obiettivo che va al di là di tutti noi, di lei e di noi. Si tratta di giungere ad una pace tra la Russia e la Germania per porre fine a questa guerra assurda. Questa guerra conviene soltanto alle plutocrazie capitalistiche, le quali aspettano che noi si finisca di sgozzarci a vicenda per venire a raccogliere il bottino. Sarebbe stupido e noi vogliamo impedirlo.

Ovviamente lei può rifiutarsi di aiutarci. Francamente non sarebbe un gran guaio. Lei sa che disponiamo di emittenti assorbite e i telegrammi le hanno dimostrato che la faccenda funziona. Siamo in contatto con Mosca e possiamo iniziare il dialogo anche senza di lei. Semplicemente sarebbe meglio farlo assieme a lei. Se rifiuta, morirà per così dire due volte. Qui, la fucileremo come spia e faremo credere a Mosca che ha tradito, che è passato dalla nostra parte. Lei sa che possiamo farlo: quelli bevono tutto quello che trasmettiamo loro. Aspetto la sua risposta.

*** Trepper aveva registrato mentalmente i testi dei telegrammi; si era annotato nella memoria i nomi degli agenti che Giering gli andava enumerando con tanta cortesia; e si era detto: «L'unica loro arma contro di te è che tu sei qui, seduto, con le manette ai polsi. Ma tu sei più forte di loro e li metterai nel sacco». Rispose: Essere fucilato è una cosa che mi aspettavo. Essere considerato un traditore da Mosca, figuratevi quanto mi importa. La storia della pace, invece, non è priva di interesse... Ma la vostra faccenda non funzionerà, ve lo dico subito. Vorrete riconoscere un certo valore all'organizzazione che ho messo in piedi: sapete che il sistema di informazione sovietico non è niente in confronto al sistema che il Centro predispone per proteggerlo, o sorvegliarlo. Noi lo

chiamiamo il “controspionaggio”. È onnipresente e onnipossente. Verrà a sapere quanto prima del mio arresto e avvertirà Mosca. Quando quelli sapranno che sono caduto in mano vostra, potrete dire addio ai vostri piani.

Giering gli fece notare che gli arresti e gli agganciamenti di Bruxelles erano sfuggiti al controspionaggio sovietico. Trepper replicò fornendo una quantità di particolari sulle attività del Kommando in Belgio. Pretese che gli erano stati riferiti dal suddetto “controspionaggio”. In realtà, li aveva ricevuti dal gruppo di controllo che egli stesso aveva organizzato dopo la retata in Rue des Atrébates. E concluse con questo avvertimento: Finora siete riusciti a tenere nascosto al Centro l'assorbimento di qualche pianista e di qualche elemento subalterno quale Yefremov. È cosa evidente e io sono costretto a riconoscerlo. Ma lasciate che vi dica che, per quanto mi concerne, le cose andranno un po' diversamente. Io non sono uno Yefremov. Non potete farmi sparire senza suscitare un vespaio.

La discussione si concluse solo all'alba. Trepper non si era rifiutato di collaborare: si era limitato a sottolineare le difficoltà pratiche di una simile collaborazione. Giering non aveva insistito per ottenere una risposta decisa: una richiesta del genere avrebbe smentito la sua affermazione, sincera o meno, secondo la quale poteva fare a meno del Gran Capo. Durante questa prima ripresa, si erano accontentati di studiarsi a vicenda. Al termine, Trepper sapeva che Giering era un avversario temibile.

Il prigioniero fu accompagnato al pianterreno e chiuso in una stanzetta che un tempo era stata l'Ufficio Cassa della Sûrete. Si trattava di averlo sottomano pur tenendolo segregato. Giering temeva soprattutto la promiscuità con la polizia francese, di cui certi servizi erano tuttora insediati in Rue des Saussaies. Ma, ingenuamente, sulla porta fu appeso un cartello con la scritta: «Detenuto speciale – Vietato l'ingresso», sicché nello stabile fu subito desta la curiosità. La rivelazione del “Grande Gioco” aveva sconvolto Trepper pur senza stupirlo quanto si era aspettato. Dai rapporti di Maximovitch sul gruppo di ufficiali riuniti attorno al generale von Pfeffer, sapeva che una parte dei quadri della Wehrmacht auspicava trattative con l'Occidente per poter fare meglio i conti con l'Oriente. Ma si trattava di vaghe velleità nutrite da ufficiali che non avevano modo di agire. Che le SS avessero imboccato la stessa strada era gravido di conseguenze infinitamente più importanti. Questo, perché Trepper era convinto che il discorso di Giering circa una pace di compromesso con la Russia era soltanto una trappola destinata a facilitare il suo tradimento. Il “Grande Gioco” doveva tendere allo scopo perseguito dalla cerchia di Pfeffer: preparare un accordo tra la Germania e gli angloamericani, o almeno suscitare tensione tra gli Alleati. In entrambi i casi, l'esito della guerra rischiava di essere compromesso. Il grande capo era sempre stato economo in fatto di uomini. I più duri rimproveri del Centro non erano riusciti a indurlo a mettere a repentaglio la loro esistenza. Ma là, nella celletta di Rue des Saussaies, decise che la posta in gioco andava oltre tutti loro. A costo di perdere la vita, il piano delle SS doveva essere fatto fallire. Due possibilità: o avvertire Mosca, o bloccare il mec-

canismo operando dall'interno del Kommando. Luna e l'altra ipotesi comportavano la necessità che la posizione del prigioniero si rafforzasse potentemente e rapidamente. Gli occorreva avere le spalle coperte. Aveva capito Giering. Grazie a Kent, arrestato due settimane prima, il capo del Kommando sapeva che i messaggi più importanti del Gran Capo passavano per le emittenti del Partito comunista. Logicamente, Giering doveva ad ogni costo scoprire il tramite che portava a tali emittenti. Se riusciva a mettere le mani sulla lista del Partito, i suoi messaggi a Mosca avrebbero avuto il suggello di un'incontestabile autenticità. Inoltre, avrebbe saputo se la cattura del Gran Capo era stata segnalata dal “controspionaggio”. Due uomini potevano portare il Kommando al Partito: Trepper e il Direttore. Alla fine di novembre, qualche giorno dopo l'arresto nello studio del dottor Maleplate, Giering porge con aria di trionfo al suo prigioniero un messaggio che il Centro ha trasmesso a Kent, la cui radio è in mano alla Gestapo. Il Direttore ordina un incontro fra Trepper e Michel, il suo “contatto” con il Partito; fissa il giorno, l'ora, il luogo. Giering tende una trappola. Non si tratta di arrestare Michel, beninteso, ma di pedinarlo per risalire attraverso lui al Partito. Michel non si presenta. Era convenuto con Trepper di non andare agli appuntamenti fissati dal Centro, se non con un certo scarto di tempo: due giorni e due ore prima di quelli indicati.

Seconda ripresa a vantaggio del Gran Capo. Ma l'esito del duello resto incerto. Giering lo tiene sempre confinato nella cella. Ora, Trepper riuscirà ad agire solo a patto di uscirne. *** In realtà non si poteva dire che ne uscisse, quanto piuttosto che ne era tirato fuori per subire qualche interrogatorio o confronto. L'incontro più drammatico fu quello con Vassili Maximovitch. Non si era ucciso prima di essere arrestato, il grasso barone barbuto, povero Casanova nelle mani degli aguzzini; aveva obbedito al Gran Capo e si sforzava di trascinare con sé all'altro mondo «il maggior numero possibile di quelle canaglie». La cerchia di Pfeffer era sui carboni ardenti. La sorte dei suoi membri dipendeva da sei parole: «negoziare con o senza il Führer». Giering domandò a Trepper se il rapporto di Maximovitch specificava che la frase era stata pronunciata da Pfeffer. Trepper si affrettò a confermare e vide «un'immensa felicità illuminare il volto martoriato di Maximovitch». Per colmare la misura, soggiunse che tutti gli ufficiali della cerchia di Pfeffer volevano negoziare con l'Occidente «con o senza il Führer». Era esatto per quanto riguardava i negoziati, ma si tratta di un'extrapolazione per quel che concerneva il Führer. Il Gran Capo non credette opportuno lesinare: bisognava colpire il maggior numero possibile di partigiani di una pace separata, fossero SS o meno. Fu interrogato anche in merito al curaro: Anna de Maximovitch aveva affermato accanitamente di avergliene consegnato una quantità sufficiente ad avvelenare mille persone, scatenando in pari tempo panico e giubilo. Fu uno dei suoi momenti migliori.

Poi, comparve a più riprese davanti al giudice istruttore militare incaricato di indagare sulle sue “fonti” tedesche. Dal fondo della sua gabbia, aveva avvertito gli echi dello scandalo da cui era scosso il Gross-Paris e che andava sempre più ampliandosi a mano a mano che si scopriva fino a che punto l'Orchestra Rossa aveva infiltrato lo Stato Maggiore tedesco. Era un bell'omaggio al suo lavoro. Quelle udienze furono per lui l'occasione di completare tale lavoro, consentendogli lo squisito piacere di tenere nelle mani ammanettate l'esistenza di parecchi ufficiali. Questa volta, nessuna esigenza di alta politica lo costringeva alla severità; distribuì la morte, i lavori forzati o la degradazione a seconda dei guai personali, risparmiando i “buoni” e precipitando i “cattivi”. Sua prima preoccupazione fu, beninteso, quella di salvare Ludwig Kainz. Sostenne che questi si era limitato a fare del mercato nero con la Simex e dichiarò al giudice istruttore: «Se lo punite per questo, bisognerà punire tutta la Todt, dal braccio destro del direttore all'ultimo galoppino». Salvò anche il bravo colonnello austriaco dell'Intendenza della Wehrmacht, dal quale aveva saputo l'imminente inizio di “Barbarossa”. Invece, accusò tutti gli ufficiali delle SS che aveva frequentato, al pari di certi ufficiali della Wehrmacht particolarmente fanatici: dichiarò di averli comprati; in realtà, erano stati solo un po' troppo chiacchieroni – a morte! Fu anche questo un bel momento. Dispensatore di morte, ne fu però anch'egli colpito, almeno indirettamente. Il Kommando aveva scoperto in casa della signora Grossvogel un passaporto a nome di Trepper recante la fotografia del Gran Capo. Giering lo mostrò al prigioniero, che esclamò: «Bravo! È il mio passaporto vero: mi chiamo proprio Trepper». Tale prontezza ad ammettere la propria identità suscitò la

diffidenza di Giering. Non poteva certo indovinare che il Gran Capo desiderava sopra ogni cosa evitare che scoprissero il suo pseudonimo “Domb”, con il quale era conosciuto negli ambienti comunisti e paracomunisti. Un membro del Kommando partì per la Polonia per cercare eventuali tracce di un Leopold Trepper a Neumarkt. Il suo rapporto pervenne a Berg proprio mentre questi stava interrogando il Gran Capo. Berg gli lesse il testo del telegramma: Neumarkt è judenrein1. I documenti anagrafici sono stati dati alle fiamme. Il cimitero è stato distrutto e arato, sicché non è possibile cercare il nome “Trepper” sulle lapidi.

Così, il Gran Capo apprese che tutti i suoi famigliari erano stati sterminati. Nel tempo sufficiente a leggere un telegramma aveva perso la madre, i fratelli e le sorelle, e anche gli zii e le zie, i cugini – l'intero parentado, 48 persone. Gli adulti erano stati deportati e gasati. Vecchi e bambini erano stati uccisi sul posto. Si strinse nelle spalle e disse a Berg sorridendo: «Dovreste cercare negli archivi della Prefettura di polizia di Parigi. Sarebbe strano se non trovaste niente a nome di Trepper». *** Giering gli aveva fatto dare un dizionario, carta e matita. Di giorno scribacchiava sotto lo sguardo indifferente del guardiano insediato in permanenza nella cella. Gli era vietato parlare con il 1 “Ripulito dagli ebrei”. Nel gergo nazista, questa espressione significava che l'intera popolazione ebrea di una località era stata liquidata o deportata.

prigioniero. Di notte, le sentinelle manifestavano la tendenza a infrangere la consegna. Stavano zitte fin verso l'una del mattino, ma poi, quando nello stabile tutti dormivano, chiacchieravano fin verso le 2 o le 3. Poi la sentinella si stendeva sulla brandina e si addormentava. Il Gran Capo aspettava ancora una mezz'ora prima di sollevare il proprio giaciglio per recuperare un rotolino di carta che aveva nascosto nel tubo cavo di uno dei piedi: il suo rapporto a Mosca. Il rapporto iniziava con una serie di particolari. Da mesi, Trepper trasmetteva al Centro avvertimenti di cui il Centro non teneva conto. Questa volta era necessario che gli credessero. Era l'estrema possibilità. Trepper descrisse minuziosamente il proprio arresto (giorno, data, luogo), l'incarcerazione a Fresnes, il ritorno in Rue des Saussaies. Raccontò di ogni confronto (con chi, quando e dove). Tutte cose verificabili, anche se il famoso “controspionaggio” sovietico era soltanto uno spauracchio destinato a rendere più docile Giering. Suppergiù convinto che il Centro avrebbe creduto che era prigioniero del Kommando, Trepper proseguì elencando gli agenti già arrestati e soprattutto fornendo i nomi di quelli di cui Giering gli aveva detto che erano ritenuti, o almeno sospettati, di appartenere alla rete. Il più importante era Fernand Pauriol, responsabile radio del Partito. Trepper insistette perché sparisse al più presto. Poi espose in che cosa consisteva il “Grande Gioco”. Ne descrisse lo scopo e i mezzi posti in atto. A mo' di prova di ciò che si poteva fare con qualche pianista agganciato, citò il testo dei telegrammi che Giering gli aveva così gentilmente fatto leggere, nonché i commenti del capo del Kommando. Concluse avvertendo che avrebbe tentato di evadere e proponendo vari piani di fuga.

L'occasione migliore gli sembrava offerta da un caffè a doppia uscita situato in fondo al Boulevard Saint-Michel. La redazione del rapporto richiese parecchie notti. Trepper poteva occuparsene soltanto fra le 3 e le 6 del mattino, sorvegliando il sonno del guardiano. Berg era il più comodo, perché l'alcol gli serviva da potente sonnifero; il più preoccupante era un sacerdote richiamato alle armi che passava le notti di guardia a pregare per l'anima del prigioniero. Compilò il testo in ebraico, yiddish e polacco, mescolando le tre lingue nel modo più complesso possibile. Se il documento fosse stato scoperto, per decifrarlo ci sarebbero voluti ben tre interpreti: ciò avrebbe pur sempre consentito qualche ora di respiro. Precauzione di poco conto, ma caratteristica del Gran Capo; di fronte al plotone di esecuzione, quell'uomo avrebbe riflettuto sul comportamento da tenere nel caso in cui le 12 pallottole avessero fallito il bersaglio. Quando ebbe terminato il rapporto, giudicò che era tempo di correre l'alea con Giering. Di tutti i rischi che aveva affrontato in vita sua, quello era il più grave. Il capo del Kommando seppe che la prima maglia della catena che portava al Partito era una certa Juliette, vecchia militante comunista. Lavorava presso una pasticceria all'ingrosso situata dalle parti dello Châtelet. Ma, anziché mandare da lei Trepper, come questi sperava, Giering decise di servirsi di Raichman, il falsario di Bruxelles; questi aveva avuto un contatto con Juliette più di un anno prima. Il Gran Capo disse alla SS: «Perde tempo. Vedrà che quella farà finta di non conoscere Raichman».

Juliette fece finta di non conoscere Raichman. Alcuni mesi prima, Trepper le aveva ordinato di non ricevere più nessuno, all'infuori di Katz e di lui. Ogni altro emissario doveva esibire, in segno di riconoscimento, un bottoncino rosso. Giering e Raichman ignoravano questo particolare. Terzo round a favore del Gran Capo. Giering e Willy Berg vanno a Berlino. Al loro ritorno, Berg insiste perché Trepper collabori. Questi ribatte che non chiede di meglio, ma che non gliene danno la possibilità tenendolo confinato in cella. Era pronto ad andare da Juliette. Non è colpa sua se Giering ha preferito mandare Raichman. È sempre disposto ad aiutare il Kommando, ma che almeno gli diano modo di trarre in inganno il famoso “controspionaggio”. Occorre che si faccia rivedere nei posti che era solito frequentare; occorre anche che gli lascino riprendere contatto con certi agenti. Berg risponde che accetterebbe volentieri queste condizioni, ma soggiunge che Giering non acconsentirà mai, più che per diffidenza nei confronti del Gran Capo, per timore di un attentato se lasciasse uscire il suo prezioso prigioniero. Giering è persuaso che tutti i gruppi di assalto parigini del Partito comunista abbiano ricevuto l'ordine o di sbarazzarsi di Trepper, o di ucciderlo per chiudergli la bocca. Il Gran Capo suggerisce allora di mandare Hillel Katz da Juliette. *** Aveva appreso l'arresto del suo fedele collaboratore con disperazione e sollievo insieme. La pena era più che logica; il sol-

lievo si rifaceva alle qualità eccezionali di quell'uomo: con lui, la partita era un po' meno difficile da giocare. Torturato, incitato a parlare e collaborare, Katz ripeteva di continuo dal momento della cattura: «Trepper è il mio capo. Lo sarà fino in fondo. Farò quello che mi chiederà di fare e nient'altro». Di sicuro sarebbe andato a trovare Juliette soltanto se il Gran Capo glielo avesse ordinato. Berg riuscì a convincere Giering a mettere a confronto i due. Si rividero per la prima volta il 23 novembre: Katz era sfigurato dalle percosse. Il confronto era stato minuziosamente organizzato tra i due ufficiali delle SS e Trepper. C'era una grossa difficoltà: contrariamente a Trepper, Katz non parlava tedesco; Giering e Berg non sapevano il francese. Naturalmente, non era possibile ricorrere all'aiuto dell'interprete del Kommando, l'Oberscharführer Siegfried Schneider: se un Reiser era tenuto all'oscuro della faccenda, non era certo il caso di mettere al corrente un semplice sottotenente. D'altro canto, la più elementare prudenza vietava alle due SS di permettere ai prigionieri di conversare tra loro senza comprenderne il dialogo. La soluzione era stata proposta dal Gran Capo. Aveva detto a Berg: «Capite più o meno l'yiddish. Parlerò a Katz in yiddish e così potrete vedere che non vi inganno». L'yiddish, lingua derivata dal tedesco, risulta infatti comprensibile ad un tedesco; però è costellata di parole ebraiche di cui, ovviamente, si può afferrare il significato solo a patto di parlare ebraico. Il Gran Capo fece a Katz un lungo discorso per esortarlo a sottomettersi ai voleri del Kommando; gli ingiunse di andare a trovare Juliette e gli fornì numerosi consigli per farsi riconoscere da lei – consigli superflui, dal momento che Katz sarebbe stato

comunque ricevuto da Juliette. E disseminò il discorso di parole ebraiche che, accostate l'una all'altra, significavano: «Juliette deve rispondere che cercherà il contatto, ma che non promette niente». Reiser conserva un vivo ricordo dell'incontro, che ebbe luogo in un piovoso pomeriggio di novembre. Un cordone di agenti in borghese circondava il quartiere dello Châtelet. Il Kommando aveva preso posizione nelle strade circostanti la pasticceria, ma lasciò che Katz entrasse da solo: Trepper aveva avvertito che il “controspionaggio” probabilmente sorvegliava Juliette; se i guardiani si fossero tenuti troppo alle calcagna di Katz, sarebbero stati individuati e il tentativo sarebbe fallito. Katz tornò con la risposta dettata dal Gran Capo. Otto giorni dopo, Giering lo rispedì alla pasticceria. In conformità alle istruzioni di Trepper, Katz pretese che Juliette gli avesse risposto: «Ho trovato il contatto, ma occorre che il capo venga di persona». Quelle tergiversazioni e quella richiesta diedero molto da pensare a Giering: nascondevano una trappola? Trepper lo rassicurò: «Macché! Solo che la mia scomparsa improvvisa li preoccupa! Non faccio che ripeterglielo: se non mi vedono più in circolazione, è la prova che sono stato arrestato e tutta la vostra storia va a pallino. Certo, cominciano a fiutare qualcosa...». Giering non poteva più tirarsi indietro. Arrestando il Gran Capo, in definita aveva giocato a “lascia o raddoppia”. Con lui, e grazie alla trasmittente del Partito, i messaggi del Funkspiel potevano attingere ad un'assoluta credibilità; invece, se il suo arresto si risapeva, Mosca avrebbe dovuto ammettere che le precedenti apprensioni di Trepper erano giustificate. Il Centro avreb-

be allora proceduto ad un nuovo esame della situazione della rete e la controinchiesta avrebbe avuto per risultato sicuro quello di smascherare i pianisti assorbiti. Sarebbe stato il crollo del Funkspiel e la fine del “Grande Gioco”. Il capo del Kommando decise di mandare Trepper alla pasticceria. Questa volta l'intero quartiere fu bloccato da imponenti forze di polizia. Plotoni di agenti in borghese presero posizione agli incroci che permettevano l'accesso allo Châtelet. La Gestapo ed i suoi ausiliari francesi erano incaricati della protezione a distanza ravvicinata. Giering aveva consegnato al prigioniero un messaggio che Juliette avrebbe dovuto passare alle gerarchie superiori perché fosse trasmesso a Mosca. Si supponeva che emanasse dal Gran Capo. Questi spiegava che la rete aveva subito un grave colpo, ma non era stata distrutta; proponeva di interrompere i collegamenti con Mosca per un mese, per lasciare che le acque si calmassero. Sarebbe stato il Centro a dare il segnale di via libera per nuovi contatti, spedendo al Gran Capo, in occasione della festa dell'Armata Rossa, il solito telegramma di congratulazioni. La proroga di un mese era uno stratagemma di Trepper. Aveva dichiarato a Giering che il Centro, abituato alla sua prudenza, si sarebbe aspettato una proposta del genere. In effetti, il prigioniero, voleva dare a Mosca il tempo di controllare il suo rapporto e nel frattempo bloccare ogni iniziativa da parte del Kommando. La traduzione in codice del messaggio aveva rappresentato un problema. Attraverso Kent, Giering sapeva che per i telegrammi trasmessi dall'emittente del Partito era impiegato un codice segretissimo. Logicamente, il messaggio doveva essere cifrato in base a tale codice. Invitato a svelarlo, Trepper scoppiò

in una risata esclamando: «Non crederete che un pezzo grosso come me perdesse il suo tempo dietro queste storie di codici!». Kent rivelò che Grossvogel possedeva la chiave del cifrario, ma noi sappiamo che tutti i tentativi intesi a spezzare la resistenza di Grossvogel fallirono. In mancanza di meglio, il messaggio venne cifrato usando dei codici di Bruxelles. *** Willy Berg accompagnò Trepper alla pasticceria, ma finse di interessarsi alla merce esposta. Trepper si avvicinò a Juliette e le tese un fascicolo. C'erano il messaggio di Giering, il suo rapporto trilingue e una lettera che cominciava con queste parole: Caro compagno Duclos, ti supplico di fare l'impossibile per trasmettere questo documento a Dimitrov e al Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. A Mosca c'è qualcosa che non va. È perfino possibile che un traditore si sia infiltrato nei nostri servizi.

Juliette prese i fogli senza fare cenno. Trepper le mormorò: «Sparisca immediatamente dopo aver consegnato questa roba, e non torni più». Poi uscì seguito da Berg. Per quanto lo riguardava, la partita era conclusa e vinta. Dal seno interno della Gestapo, dal seno di quel gruppo scelto che era il Kommando, era riuscito a comunicare con Mosca sotto il naso e in barba ai suoi guardiani. Grazie a lui, il Centro avrebbe ricevuto più armi di quelle che ci volevano per parare il gioco delle SS. Ma le delusioni subite da parte del Centro erano state così crude-

li, che un vago timore continuava a ossessionare Trepper. Anche dopo aver surclassato e ridicolizzato Giering, l'esito dell'incontro dipendeva dalla decisione del giudice-arbitro: il Direttore. Se questi rifiutava di prestare fede al rapporto trilingue, la SS si aggiudicava l'incontro. *** L'attesa di un mese andava oltre le riserve di pazienza di Giering. Tre giorni dopo la consegna dei documenti a Juliette, spediva un agente francese alla pasticceria a domandare, da parte del Gran Capo, se la trasmissione in alto loco era avvenuta. Juliette non c'era. La padrona spiegò che era andata in ferie. Una settimana dopo era ancora in ferie. Un'altra settimana, e la padrona informava l'emissario che Juliette era stata chiamata al capezzale di una zia malata; non si sapeva quando avrebbe potuto riprendere il lavoro. Sgomento, Giering pretese una spiegazione da Trepper. Il prigioniero fece una smorfia e mormorò: «Ve l'ho detto e ripetuto: se mi isolate qui, desterete necessariamente sospetti». Lo lasciarono uscire. Due automobili scortavano la sua. Portò il Kommando in vari negozi dove, a sentire lui, c'erano dei suoi agenti. Le guardi lo lasciavano entrare da solo nella bottega, ma sorvegliavano severamente le uscite. Ovviamente, nessuno fu arrestato: ciò avrebbe messo in allarme qualcuno, quando invece bisognava rassicurare. Se i tedeschi lo avessero fatto, avrebbero messo le mani sul sarto del Gran Capo, sul suo tabaccaio, sul suo libraio, sul suo calzolaio, eccetera; tutte brave persone che ignoravano nel modo più assoluto le attività del loro cliente.

Il 23 febbraio, giorno della festa dell'Armata Rossa, Giering riceveva il telegramma di congratulazioni spedito al Gran Capo dal Direttore. Era il segnale di via libera per la ripresa dei collegamenti con Mosca. Era soprattutto il segnale di via per il “Grande Gioco”. Certo, bisognava rinunciare provvisoriamente a servirsi della preziosa trasmittente del Partito, perché si erano perdute le tracce di Juliette, ma il telegramma del Centro garantiva a Giering che la cattura di Trepper era ignorata da Mosca: si poteva coprire il Funkspiel con la sua autorità. Quel giorno di festa dell'Armata Rossa fu probabilmente anche giorno di festa per il Kommando: nel locale di Suzy Solidor, il cognac deve essere corso a fiumi. Trepper approfittò dell'euforia generale: quella stessa sera lo sistemarono a Neuilly. Kent, invece, restava in Rue des Saussaies. Era chiuso in un locale attiguo a quello di Trepper e i due uomini avevano potuto scambiarsi qualche frase. Kent aveva detto: «Sono convinto che non lavori sul serio per loro... Cerchi di infinocchiarli...». Trepper: «Ma certo che sto con loro! Che fare altrimenti? Vedi bene che tutto è perduto!». Il trasferimento alla prigione di lusso di Neuilly non era solo una ricompensa. Giering manifestava una crescente diffidenza nei confronti dei poliziotti francesi insediati in Rue des Saussaies. Borbottava, rivolto ai suoi uomini: «Ogni volta che lavoriamo con quelli lì, finisce male». Meglio allontanare il prigioniero. I suoi sospetti erano stati ancora più alimentati da certe osservazioni del Gran Capo in merito alla simpatia che la polizia francese manifestava per la Resistenza, per cui la SS prestò attento orecchio ad un suggerimento del prigioniero. Questi gli fece osservare che era privo di documenti d'identità e di denaro. Ora,

gli agenti del Kommando, per passare meglio inosservati – perché in Francia erano come pesci fuor d'acqua e diffidavano di tutti e di ciascuno –, si servivano di documenti falsi al posto dei loro documenti tedeschi. Le carte d'identità li presentavano come uomini d'affari olandesi, fiamminghi o svedesi, domiciliati a Parigi; esibivano sempre i documenti quando dovevano passare un posto di blocco della polizia francese. Ma che cosa sarebbe accaduto se l'automobile di Trepper, durante una delle sortite, fosse stata fermata da agenti francesi? Quale sarebbe stata la reazione di questi ultimi di fronte ad un individuo privo di documenti e di denaro? Certo, avrebbero preteso di fermarlo. L'incidente sarebbe stato chiarito in breve volgere di tempo, ma le sue conseguenze erano imprevedibili. C'era da temere che la Resistenza fosse avvertita dell'esistenza di un misterioso prigioniero, scortato da un capo all'altro di Parigi da poliziotti tedeschi travestiti. Sarebbero stati diffusi i dati somatici di Trepper e, a partire da quel momento, tutto diventava possibile. Giering ne convenne e fece dare al Gran Capo documenti e denaro. *** I sei mesi successivi, Trepper li trascorse essenzialmente a girare in tondo attorno al prato di Neuilly. Il Kommando chiedeva al Gran Capo solo una specie di consulenza di ordine generale; le incombenze pratiche del Funkspiel spettavano a Kent; redigeva e cifrava i messaggi – i suoi in francese, quelli di Trepper in russo.

Katz non aveva niente da fare e passeggiava in tondo. Era stato trasferito a Neuilly per le insistenze del Gran Capo, così come Grossvogel era tenuto in vita grazie alla sua affermazione secondo cui avrebbe potuto rivelarsi indispensabile al Funkspiel. Otto Schumacher – in casa del quale si era fatto prendere Wenzel e che era stato a sua volta arrestato a Lione – era tenuto d'occhio dai compagni. Domandava di continuo a Katz: «Ma è vero che il Gran Capo lavora per loro? Non credi che tenti di giocarli? Non riesce a credere che abbia tradito!». Un “informatore”, probabilmente. Katz inarcava le sopracciglia e rispondeva stupito: «Vuoi scherzare? Certo che è passato dalla loro parte! Credi che ci fosse un'altra soluzione?». Fatto strano: Kent, che dopo la cattura era davvero passato dalla loro parte, tornava lentamente sui suoi passi. Trasferito a sua volta a Neuilly, aveva ripetuto a Trepper che non credeva al suo tradimento. Certe sue osservazioni facevano supporre che fosse pentito del proprio tradimento. Ancora un po', e non era impossibile che il Piccolo Capo tornasse ad essere utilizzabile. Con Berg era l'idillio. Aveva esposto a Trepper la sua formula preferita: «Io sono stato poliziotto sotto il Kaiser, poliziotto sotto la Repubblica di Weimar, sono poliziotto sotto Hitler e sarò ancora poliziotto se va al potere Thaelmann». I due uomini si erano capiti. Poi Berg, cui la malattia aveva rapito tre figli, tornò irriconoscibile da una licenza a Berlino: sua moglie era impazzita durante un bombardamento. Da allora in poi fu un uomo finito. Aspirava soltanto a vedere la fine della guerra e il Gran Capo a volte si diceva, ascoltandolo, che lui, perlomeno, auspicava sinceramente una pace di compromesso, quale che fosse. Berg costituì per il prigioniero una “fonte” eccezionale, che lo informava giorno

per giorno, e fin nei minimi particolari, delle attività del Kommando, di modo che Trepper era al corrente dei progetti di Giering ancora prima che fossero posti in atto. Non vi fu tradimento da parte di Berg, né tacita complicità; Trepper aveva l'impressione che ragionasse come segue: «Se il Gran Capo lavora sinceramente per una pace separate e per noi, posso parlare con lui senza rischi. Se si fa gioco di noi, be', non si sa come può andare a finire la guerra e comunque io gli parlo...». Con Giering, era un altro paio di maniche. Fino all'ultimo giorno, Trepper si rese conto che non doveva abbassare la guardia con alcuni pretesto. Accolse con sollievo la sua partenza e con soddisfazione l'arrivo di Pannwitz, convinto che dal cambio aveva tutto da guadagnare. Era esatto per vari motivi, in particolare questo: Giering, nel suo enorme scetticismo da poliziotto, riteneva che gli ebrei non valessero più degli altri; Pannwitz era assolutamente persuaso che valessero meno degli altri. 23 anni dopo il suo arrivo a Parigi, ci traccerà questo tratto del suo prigioniero: Uno sguardo commediante! Quando non si sapeva osservato, aveva uno sguardo molto duro, molto diffidente e un contegno pieno di calma e dignità. Se ci si occupava di lui, recitava la commedia. Se lo subissavamo di domande, si portava una mano al cuore per ricordarci che aveva un vizio cardiaco. Ma, prima di tutto, era un ebreo. I russi hanno fatto malissimo a infilare tanti ebrei in quella rete – pensi che l'Orchestra Rossa era ebrea al 90 per cento! –, perché un ebreo è troppo scaltro per morire per una causa persa!2 2 Manfred Roeder, che vide Trepper dopo l'arresto, lo descrive così: «Un uomo d'affari intelligente e duttile, molto cortese, un tipo molto bene educato». Quanto a Fortner,

Il Kriminalrat tanto meno credeva alle virtù eroiche dell'ebreo Trepper, in quanto a Berlino aveva letto i rapporti in cui era stato illustrato con dovizia di particolari il suo tradimento. Significativo della scarsa fiducia vigente tra i membri della Gestapo: nessuno spiegò al nuovo venuto che la “leggenda” di Trepper era stata inventata di sana pianta ad uso e consumo della gerarchia. Si lascia che Pannwitz si insedi a capo del Kommando con un'idea del tutto falsa del suo prigioniero. Tanto che subito gli manifesta la massima fiducia. Trepper è informato che quanto prima lascerà Neuilly; andrà ad abitare in un appartamento parigino e potrà andare e venire a suo piacimento, pur se sottoposto ad una discreta sorveglianza. Ma, per prima cosa, deve contribuire all'avvio dell'“Alta politica” inaugurata da Pannwitz. Contrariamente al vecchio e cauto Giering, il Kriminalrat è posseduto dall'impazienza tipica della sua età. È deciso a bruciare le tappe. Per lui, le emittenti assorbite costituivano degli ottimi strumenti finché si trattava di preparare le strade al “Grande Gioco”, captando la fiducia di Mosca – e ora tale scopo è raggiunto. Ma per parlare di politica al livello più alto, la radio offre solo possibilità ridotte. Bisognerebbe poter discutere, argomentare, insomma fare della diplomazia, il che non è possibile con il solo veicolo di pochi gruppi cifrati. Perché non abboccarsi direttamente con Mosca? Perché non mandare laggiù un emissario con l'avallo del Gran Capo? Prima di partire per Parigi, il petulante Pannwitz ha sottoposto il suo piano all'approvazione di Himmler. Questi non ne ha apprezzato l'audanaturalmente sintetizza la sua impressione con la solita frase: «Era il tipo dell'ufficiale».

cia. Ha detto, con la sua voce sentenziosa: «No. L'ideologia bolscevica è così affascinante che non dobbiamo mandare nessuno là: il rischio di contaminazione è troppo grande». Conclusione di Pannwitz: il Reichsführer è soltanto un pedante di bassa lega paralizzato dalla paura delle iniziative. Si attiene al suo piano, ma lo modifica: anziché spedire un emissario in Russia, si farà mandare qualcuno da Mosca. Pannwitz domanda a Trepper se è d'uso, nei servizi sovietici, delegare un responsabile di alto rango per sistemare sul posto le faccende di interesse eccezionale. Risposta affermativa. Kent, interrogato a sua volta in merito, afferma il contrario. Pannwitz, contrariato, invita Trepper a spiegare la contraddizione. Il prigioniero alza le braccia al cielo ed esclama: «Ma come vuole che un Kent sappia come si svolgono le cose ad un certo livello!». Pannwitz ne conviene. Il Centro riceve, dunque, un lungo messaggio del Gran Capo. Questi spiega che è in contatto con un potente gruppo di oppositori di Hitler, i cui sentimenti sono molto favorevoli all'Unione Sovietica. Però non è competente a trattare faccende politiche: il Direttore potrebbe delegare una personalità suscettibile di intavolare trattative? Viene fissato un appuntamento in date successive nell'appartamento un tempo abitato da Katz, in Rue Edmond-Roger. Alla prima delle date fissate, Trepper è accompagnato all'appuntamento di Katz. Ha la sorpresa di trovarvi Raichman, che attualmente ci abita. I due uomini chiacchierano. Come Kent, come Schumacher, Raichman dice al suo ex-capo: «Non è possibile, non è vero che lavori per loro». Come con Kent, come con Schumacher, Trepper recita la parte dell'uomo che è crollato.

L'emissario di Mosca non si presenta all'appuntamento. Forse è solo un rinvio e Pannwitz non perde le speranze. Ma prima che scada l'ultimo appuntamento fissato al Centro, una bomba a scoppio ritardato, lasciatasi alle spalle da Giering, esplode in seno al Kommando. *** Fu l'ultimo trionfo del poliziotto, ed è probabile che non ne abbia saputo nulla: stava morendo a Landsberg. Il caso Juliette gli aveva lasciato una sensazione di disagio. Perché quella donna era scomparsa all'improvviso e senza lasciare tracce? Si poteva ammettere che il “controspionaggio”, preoccupato della sorte del Gran Capo, le avesse ingiunto di nascondersi. Ma, in tal caso, avrebbe dovuto riapparire dopo le prime sortite del prigioniero, comunque dopo l'arrivo del telegramma di congratulazioni del 23 febbraio. Se quel telegramma era “sincero”, il Centro non sospettava trappole e Juliette poteva tornare alla pasticceria. Se non ci tornava, forse che il telegramma era stato spedito da Mosca in perfetta cognizione di causa e per trarre in inganno il Kommando? L'unico mezzo per liberarsi degli scrupoli consisteva nel catturare l'anello successivo della catena che portava al Partito: Fernand Pauriol. Giering conosceva l'esistenza di Pauriol da Raichman. Da Kent ne apprese le funzioni in seno all'apparato tecnico del Partito e il ruolo di corriere straordinario per conto dell'Orchestra Rossa: Pauriol assicurava i collegamenti tra Juliette e il Comitato Centrale. Il suo arresto avrebbe offerto la possibilità di mette-

re in chiaro il caso Juliette e di sapere se le istanze superiori del Partito, cioè Mosca, erano davvero cadute nella trappola del Funkspiel. Giering era troppo diffidente per non voler compiere ad ogni costo un sondaggio del genere. La Gestapo ricevette l'ordine di braccare Pauriol in tutta la Francia. Fallì nell'intento: l'uomo era sparito. Passarono i mesi, ma Giering non dimenticava. Voleva Pauriol. E per averlo, mise a punto una trappola di un machiavellismo a prova di bomba: farsi consegnare dal Centro colui che la Gestapo non era riuscita a prendere. L'emittente usata per trasmettere i messaggi attribuiti al Gran Capo un bel giorno ebbe un guasto. Il Kommando, naturalmente, disponeva di tecnici in grado di ripararla ma, anziché fare ricorso ad essi, Giering trasmise con l'emittente di Kent un messaggio in cui informava il Centro del guasto e chiedeva di mandargli urgentemente uno specialista radio del Partito. Era uno stratagemma astuto. Ci si metta nei panni del Direttore: se questi è sempre ingannato dal Funkspiel, spedisce a Trepper uno specialista senza battere ciglio; ma anche se il rapporto del Gran Capo gli è pervenuto, e lui gli presta fede, anche se il Direttore sa che Giering gli tende una trappola, deve fare finta di essere ingannato e organizzare il contatto con un radiotecnico. Significa sacrificare quest'ultimo? Non si è ancora giunti al punto di avere bisogno di ogni uomo. E neppure Giering, del resto, e niente prova che arresterà il tecnico. Impegnatosi in una partita gigantesca, perché dovrebbe perdere tempo a pescare agenti di infimo ordine? Il messaggio che annuncia il guasto deve avere per unico scopo di creare un'impressione di verità: una rete senza guai non esiste – o non esiste più...

Il Direttore indica a Trepper un tecnico comunista il cui pseudonimo è “Jojo”. I suoi genitori gestiscono un bar a SaintDenis. Quanto a lui, ha impiantato un laboratorio dove fabbrica e ripara apparecchi trasmittenti. Niente prova che Jojo porterà fino a Pauriol, e la strada rischia di essere lunga (Giering lascerà Parigi prima di arrivare in fondo), ma i macellai del Kommando si mettono all'opera. La fortuna li assiste. Sempre la stessa storia di torture e di nomi urlati quando il corpo non ne può più e la ragione vacilla e l'anima si spezza. Jojo fa il nome di August, che fa quello di Marc, che fa quello di Michel. Michel porta a Francis – o François –, che si teneva nascosto nei dintorni di Bordeaux. Fernand Pauriol, alias “Duval”, si trova a Bordeaux. Viene fatto venire a Parigi e lo si arresta in una topaia il 13 agosto 1943. Siccome si chiude in un mutismo assoluto, la Gestapo ci mette ben 3 settimane per identificare il suo prigioniero. Un giorno della prima settimana di settembre, Berg, pazzo di gioia, fa irruzione nella stanza di Trepper urlando: «Ci siamo! Abbiamo Duval!». Il Gran Capo ne fu come folgorato e, per la prima volta, credette di essere giunto al termine della sua lunga lotta. La porta della sua stanza si sarebbe aperta da un momento all'altro e lui si sarebbe sentito ordinare di uscire per essere giustiziato. Non gli restava che finire in bellezza. Sempre metodico, preparò la bella frase che avrebbe gettato in viso ai suoi carnefici. Ma Fernand Pauriol non parlò. Atrocemente torturato, non parlò. Minacciato di vedere uccisa la moglie sotto i suoi occhi, non parlò.

Il suo calvario durerà esattamente un anno, ma Pauriol non parlerà. *** Il Gran Capo è appena riuscito a soffocare i suoi timori che un nuovo colpo si abbatte su di lui. Il 12 settembre, Berg gli annuncia che partirà sotto scorta per il sud della Francia. La Funkabwher vi ha scoperto un'emittente comunista e ha messo la mani sulle copie dei telegrammi trasmessi e captati. L'illustre decifratore Kludow è in viaggio per la Francia e si consacrerà anima e corpo agli archivi, ma il Kommando è già fin da ora persuaso che l'emittente scoperta è quella che ha trasmesso a Mosca il messaggio affidato a Juliette. Così, si saprà in che termini il Centro ne ha accusato ricevuta, se ha posto delle domande al Partito, e quali. Trepper, naturalmente, fa parte della comitiva: può darsi che ci sia bisogno di lui. È un disastro. Se l'emittente ha trasmesso il messaggio della Gestapo, non ci sono tutte le possibilità che abbia trasmesso anche il rapporto del Gran Capo, che verrà scovato negli archivi e che Kludow non tarderà a decifrare? Il ragionamento è logico, ma l'ipotesi di partenza è falsa. L'emittente scoperta, infatti, non è servita a trasmettere a Mosca il messaggio di Giering. Quanto al rapporto trilingue del Gran Capo, Jacques Duclos non ha voluto affidare alle onde un documento di tale importanza: lo ha fatto recapitare per corriere a Londra, da cui è stato fatto giungere a Mosca. Questo, Trepper non può indovinarlo: dà per scontato che sta per essere smascherato, ma dispone pur sempre di un margine di manovra. Il viaggio è previsto solo per dopodomani.

In 6 mesi ha avuto modo di esaminare il posto e di pesare il valore delle misure di sicurezza. Un tentativo di evasione si concluderà probabilmente sotto le pallottole delle guardie slovacche, ma che fare, se non correre il rischio? La stessa sera confida il progetto a Katz. Questi rifiuta di seguirlo. Sua moglie e i suoi figli sono al castello di Billeron, dai Maximovitch e servono da ostaggi al Kommando. Katz è stato avvertito che se non rigava dritto sarebbero stati giustiziati. Ha accettato di mettere a repentaglio la loro vita nella faccenda Juliette, a causa della posta in gioco, ma non si sente in diritto di condannarli a morte per salvare la propria vita. Resterà a Neuilly – e buona fortuna al vecchio compagno! Kriminalrato Pannwitz, Hauptsturmführer delle SS, boia di Praga, lei che è vivo e vegeto mentre Katz è morto, dirà ancora, dopo aver letto queste righe, che quell'uomo era per la razza cui apparteneva inadatto al sacrificio? Trepper modifica il suo piano. Aveva pensato ad un tentativo di forza per non lasciarsi alle spalle l'amico. Solo, può evitare di affrontare il fuoco degli slovacchi. È in possesso di documenti e di denaro; può farsi beffe di Berg e dei suoi malesseri da ubriacone. L'indomani mattina gli suggerisce di andare alla farmacia “Bailly”. *** Sul fatto che il tedesco restasse sull'automobile, il Gran Capo non ci contava. Aveva deciso di abbatterlo nella farmacia e scappare a gambe levate. Se Berg sfoderava la pistola, la presenza di un pubblico sempre numeroso gli avrebbe impedito di aggiustare

il tiro. Era perfino possibile che qualche cliente cercasse di fermarlo. Tutto fu infinitamente più semplice: bastò entrare da una porta e uscirne dall'altra. Due anni prima, lo stesso giorno, il 13 settembre 1941, il Gran Capo era riuscito a sottrarsi alla trappola tesa da Fortner in Rue des Atrébates. Fin dall'infanzia considerava il numero 13 il suo portafortuna.

XXXII. LA CACCIA

Willy Berg, più morto che vivo, telefona in Rue des Saussaies; la notizia scatena il panico. Pannwitz ordina immediatamente una gigantesca operazione di polizia. Il quartiere Saint-Lazare viene bloccato; decine di passanti sono fermati; lo stabile dove ha sede la farmacia viene setacciato da cima a fondo. Nessuna traccia di Trepper. Nel tardo pomeriggio, Pannwitz revoca l'inutile dispositivo di sicurezza. Allora il Gran Capo penetra nella stazione di Saint-Lazare dalla Rue d'Amsterdam e balza su un treno per Saint-Germain-en-Laye. Aveva previsto che la Gestapo avrebbe infierito nel quartiere. Dalla farmacia si era precipitato nella metropolitana e, salito sul primo treno, c'era rimasto fino al capolinea. Di là era tornato a piccole tappe verso il centro; un autobus lo aveva infine depositato a Saint-Lazare. Il treno si fermò a Le Vesinet, ma Trepper non scese. Non sapeva se Georgie de Winter abitasse sempre nella loro villetta in Rue de la Borde, 22. Forse non aveva più avuto denaro per pagare l'affitto. Del resto, il contratto stava per scadere, se addirittura non era già scaduto. Scese dal treno a Saint-Germain-en-Laye e andò a suonare all'uscio di una pensione familiare gestita da due sorelle. Era là che da qualche tempo era stato sistemato Pa-

trick, il figlio di Georgie. Il fuggiasco fu accolto. Telefonò subito a Le Vesinet, ma nessuno rispose. Apparentemente, la villetta era deserta. Katz! Era certo al corrente del progetto di evasione del suo capo; probabilmente sa dove si nasconde. Katz viene portato in Rue des Saussaies e torturato. Non parla. Lo riportano a Neuilly mezzo morto. Spaventato, il portinaio Proudhomme si avvicina al malcapitato disteso a terra. Katz gli bisbiglia: «Un giorno, il signore che è scappato tornerà qui. Gli dica che, se anche mi avranno fatto morire sotto le torture, sarò morto con la gioia in cuore. E gli chieda, da parte mia, di occuparsi dei miei figli». Cala la sera. Pannwitz, prostrato sulla poltrona, contempla con sguardo fisso il telefono. Finisce con il decidersi. Alza il microfono e chiede che gli passino l'ufficio di Gestapo-Müller, a Berlino. Quando Müller è al telefono, gli dice: «Non si faccia venire uno svenimento: Trepper è evaso». All'altro capo del filo, silenzio. Pannwitz: «Pronto... È svenuto?». Scoppia allora una tempesta di furibonde imprecazioni. Poi Müller smette di bestemmiare e mormora con voce disfatta: «Come faccio adesso al dirlo al Reichsführer Himmler – lui che ci aveva ordinato di mettere il prigioniero in un buco profondo e coprirlo di catene!...». Pannwitz: «Una soluzione c'è...». «Ah, sì? E quale?». «Non dirgli niente!». Prima stupefatto, Müller ammette poi che è l'unico modo per evitare i fulmini di Himmler. I due compari stringono un patto di silenzio. Il patto sarà rispettato: il Reichsführer ignorerà fino alla morte l'evasione del Gran Capo. Pannwitz riaggancia. Il peggio è provvisoriamente scongiurato. Lui resta alla testa del Kommando. Ma è solo una dilazione, e

lo sa. Se non riprende l'evaso nel più breve lasso di tempo possibile, il “Grande Gioco” sarà finito prima di essere cominciato sul serio. Quella notte, il sogno del Kriminalrat deve essere stato popolato di incubi. *** Quella notte, a Le Vesinet, Georgie fece un sogno: ritrovava l'amico sul marciapiede della stazione di Rucil, dove lui le aveva fissato l'ultimo appuntamento e dove lei l'aveva aspettato invano. Lo squillo del telefono la strappò dal letto – la sera prima era rientrata tardi. Alza il microfono e riconosce la voce di una delle sorelle di Saint-Germain. «Signora, venga qui subito!». «Io? Ma perché? Che succede?». «Non posso dirle niente, ma deve venire». Georgie si veste in fretta e furia, prende il treno per SaintGermain, suona alla porta della pensione. Le viene ad aprire Trepper. Si abbracciano. Lei aveva sempre saputo che si sarebbero ritrovati – «Gente come te e me, passa attraverso tutto». Trepper le parla a lungo. No, non lavora per l'Intelligence Service; ha il grado di generale dell'Armata Rossa e dirige una grande rete di spionaggio sovietica. Georgie è sorpresa, perché aveva creduto che facesse davvero parte dei servizi inglesi, ma tutte quelle storie di osservanza politica le sembrano poco interessanti. Quello che conta è l'ultima frase del Gran Capo: «Devi aiutarmi».

Decidono di nascondersi temporaneamente a Le Vésinet. Prima di lasciare la pensione, Trepper scrive una lettera a Pannwitz. Gli spiega che la sua scomparsa non è un'evasione; è stato costretto a farlo da una circostanza imprevista: mentre entrava nella farmacia “Bailly” con l'unico desiderio di acquistare un rimedio per Berg, è stato avvicinato da un membro del “controspionaggio”. Questi ha pronunciato la parola d'ordine prestabilita e gli ha annunciato che pendeva su di lui una grave minaccia e che doveva sparire immediatamente. Trepper era costretto a seguirlo, per non correre il rischio di destare i peggiori sospetti e di mettere in pericolo il “Grande Gioco”: l'uomo del “controspionaggio non avrebbe capito perché un agente avvertito del pericolo facesse orecchio da mercante. Insomma, era un ordine e bisognava obbedire. Una squadra del “controspionaggio” aveva prima trasportato Trepper in macchina, poi avevano preso tutti assieme il treno. Approfittava di una sosta alla stazione di Besançon per infilare il messaggio in una buca postale. Messaggio che si conclude con un'arringa in favore di Willy Berg: non lo puniscano, non ha alcuna colpa da rimproverarsi. Una delle due sorelle di Saint-Germain acconsente a partire immediatamente per Besançon, dove imposterà la lettera. Come Pannwitz, ma per una ragione ovviamente inversa, il Gran Capo si sforza di salvare ad ogni costo il “Grande Gioco”: è convinto che Mosca ne tragga il massimo vantaggio. Il suo rapporto di gennaio ha fatto sì che il Direttore ora sia, come si dice, a cavallo. Sarebbe un peccato che il cavallo si azzoppasse prematuramente. ***

Nei giorni successivi, Georgie de Winter corre su e giù per Parigi in cerca di un contatto con il Partito. Lo ottenne il 17. Il Gran Capo lascia la sua tana e si incontra con un emissario accreditato, il quale lo informa che il suo rapporto è stato trasmesso a Mosca e che l'emittente scoperta nel sud della Francia non è servita allo scopo. Il Kommando, perciò, non scoprirà negli archivi su cui ha messo le mani la prova che è stato mistificato. Il “Grande Gioco” può continuare. Trepper chiede al Partito di avvertire il Centro della sua evasione, di spiegargliene i motivi e di metterlo in guardia che, verosimilmente, la cosa non modificherà in alcun modo i piani del Kommando. L'emissario gli consegna la pillola di cianuro che Trepper aveva richiesto: non vuole essere ripreso vivo e rischiare di compromettere tutto parlando sotto la tortura. All'alba della terza notte passata a Le Vésinet, i due amanti sono svegliati dai colpi battuti alla porta Trepper balza dal letto e si precipita alla finestra. Il buio è quasi completo, ma indovina un gruppo di uomini raggruppati sul marciapiede. I colpi si fanno più insistenti, scuotono la porta; qualcuno chiama. Poi, un intervallo di silenzio. Da basso, il gruppo resta immobile. D'un tratto, il rumore inequivocabile di una chiave infilata nella toppa. La porta si apre. Trepper prende la pillola e passa in una stanza la cui finestra dà sul retro della casa. Georgie lo ha seguito. Lui le ordina di lasciarlo solo e apre la finestra. Quando gli altri entreranno, inghiottirà il cianuro e si getterà nel vuoto. Scoppi di voci, richiami – Georgie risponde. Trepper tende l'orecchio e sente la voce del proprietario della villetta, che si scusa di quell'intrusione mattutina. Georgie gli aveva dato la disdetta e lui

voleva fare visitare la casa a dei possibili inquilini. Era già venuto il giorno prima, ma non aveva trovato nessuno, da qui l'idea di tornare quel mattino di buon'ora per avere la probabilità di trovare l'inquilina. Trepper si infila la pillola in tasca: c'era mancato pochissimo che la ingoiasse per niente. Ma bisogna fare fagotto. *** La famiglia Queyrie abita a Suresnes, in Allée de la Pépinière. È una stradina che serpeggia lungo il fianco del monte Valérien. In linea d'aria, la villeta dei Queyrie dista un centinaio di metri dal fossato dove operano i plotoni di esecuzione tedeschi. In puro stile periferico, la casa presenta una facciata intonacata in giallo canarino. Vi si accede attraverso un giardino 4 metri per 2 piantato a begonie. L'interno, che non deve aver subito modifiche nell'ultimo quarto di secolo, non smentisce l'esterno: una cucina abitabile, una sala da pranzo dove si entra il meno possibile, le camere al piano superiore; il tutto, di una pulizia meticolosa. Una villetta simile a centomila altre; una famiglia simile a 10 milioni di famiglie francesi. Il signor Queyrie è giardiniere municipale a Parigi, la signora si occupa della casa. Hanno una figlia, Annie, che a quel tempo ha 10 anni. Patrick è affidato alle loro cure da 12 mesi – dall'ottobre 1942. È arrivato da Saint-Germain in condizioni spaventose: magro, sudicio, coperto di croste, al testa invasa dai pidocchi – un orrore! E anche una sfida al culto che la signore Queyrie tributa

alla pulizia. In men che non si dica ha reso il bambino lustro come la credenza della sala da pranzo, poi si è lanciata in un programma in tre fasi: «salvarlo, rimetterlo in sesto, farlo rifiorire». Grazie alle sue cure, al suo amore – lo ama come se fosse suo –, patrick è sbocciato come un fiore. È vivace, allegro, intelligente, ha i capelli biondi, lo sguardo luminoso e un piccolo mento volitivo. Ha da poco compiuto 4 anni. Chiama la signora Queyrie «mamma Annie» (per «mamma di Annie»). Ignoriamo invece perché chiamasse Trepper «papà Nano» – di tutti gli pseudonimi del Gran Capo, probabilmente è il più grazioso. Attraverso Georgie, i Queyrie sono al corrente dell'esistenza di Trepper, sanno che si batte contro la Germania ma non lo hanno ancora conosciuto. Sempre da Georgie, sono stati informati del suo arresto. Ritengono che sia perduto, anche se non osano smentire le speranze in cui si ostina la povera Georgie. Ma improvvisamente, il 18 settembre: «Ho visto arrivare Georgie fuori di sé», racconta la signora Queyrie: Mi ha detto: «Mamma Annie, papà Nano è scappato! Bisogna che lei lo nasconda!». Ero molto emozionata, naturalmente, mi girava la testa, e Georgie non la smetteva di gridare: «È qui, a Suresnes, ma non sappiamo dove andare! Mamma Annie, solo lei può salvarlo!».

La signora Queyrie decide – non sul principio: sui mezzi. La villetta è affollata, ma la sua vecchia madre abita a Suresnes in un minuscolo appartamentino. In quel momento non c'è. Trepper sarà sistemato là: venga subito che ce lo accompagna. Continua il racconto la signora Queyrie:

Ma aveva un cervello, quel papà Nano! Aveva già tutto preparato, tutto organizzato! Georgie mi ha detto che cosa dovevo fare: andare fino a Place de la Paix a Suresnes, attraversarla per poi recarmi al nascondiglio senza preoccuparmi di niente. Georgie gli aveva detto come ero fatta e lui mi avrebbe seguita senza che ci fosse bisogno di parlarci. Allora vado in Place de la Paix e vedo un uomo in attesa, valigia in mano, l'aria calmissima. Mi ha seguito passo passo e io l'ho guidato a destinazione.

E là lo raggiunge la risposta di Mosca al messaggio che annunciava la sua evasione. È così asciutta che gli gela il cuore: «Siamo molto felici per voi. Ora dovete troncare i contatti con tutti e sparire». È vero che la continuazione del “Grande Gioco” esige che lui sparisca; ma perché tanta freddezza? Che il Direttore dubiti ancora di lui? Trepper si ricorda di una frase di Giering: Se scappa e avverte Mosca, sarà comunque considerato un traditore. Le diranno che all'inizio non sapeva se sarebbe riuscito ad avvertirli e la accuseranno di essersi schierato dalla nostra parte unicamente per salvare la pelle.

*** Kent conosce l'esistenza della pensione di Saint-Germain. Non sappiamo da chi o come l'abbia appreso. Georgie? Non l'ha ancora conosciuta. Trepper? Non è impossibile. In occasione delle sue visite a Marsiglia, il Gran Capo aveva insistito molto perché

Kent e Margarete mettessero al riparo in un collegio il piccolo René: forse aveva citato, a mo' di esempio, le precauzioni prese per Patrick. Ma avrebbe fornito particolari, precisato la località? Ciò non si adatta alla sua abituale prudenza. C'è un'altra spiegazione. A Saint-Germain lavorava una domestica di origine russa. È lecito supporre che facesse parte della rete; che, attraverso di lei, Trepper sia entrato in rapporti con le due sorelle. In tal caso, Kent avrebbe potuto farne la conoscenza in occasione di un qualche lavoro. L'evasione di Trepper ha sconvolto la tranquilla vita di Neuilly. Fino a ieri amichevole, il Kommando oggi presenta facce feroci e le stanze echeggiano di imprecazioni e di minacce di morte. Come dopo la retata di Rue des Atrébates, come dopo l'arresto, Kent crolla. Rivela a Pannwitz che Saint-Germain è uno dei possibili rifugi dell'evaso. Ma se conosce l'esistenza della pensione, ne ignora l'indirizzo esatto. Il Kommando perde una settimana a trovarlo. Ci va personalmente Kent; le padrone pretendono di non capire assolutamente che cosa voglia. Ci va Katz, sotto sorveglianza: ottiene la stessa risposta. Pannwitz si rassegna a fare arrestare le donne. Trepper ne è subito informato. Ora, attraverso le due sorelle, il Kommando può risalire fino a Suresnes: sanno che Patrick, è stato tolto loro per affidarlo ai Queyrie. Una volta di più, bisogna fuggire. ***

Claude Spaak: Verso la fine di settembre 1943, una donna molto bella si è presentata al mio domicilio parigino, in Rue de Beaujolais, da parte di Trepper. Mi ha detto: «Vorrebbe che sua moglie venisse a trovarlo subito. È in un appartamento dalle parti de La Défense e non può uscirne perché la Gestapo lo cerca». Era evidente che c'era pericolo e ho preferito andarci di persona. L'appartamento era situato a Suresnes, in un grande edificio. Trepper mi ha aperto la porta e si è gettato nelle mie braccia. Poi mi ha detto: «Ho tutta la Gestapo alle calcagna, può aiutarmi?».

Al Gran Capo si pongono due problemi: rassicurare Pannwitz e riprendere contatto con il Partito. Forse il secondo problema è potrà essere risolto con l'aiuto degli Spaak, ma nessuno è in grado di aiutarlo a risolvere il primo. Gli arresti di Saint-Germain non hanno per unica conseguenza il fatto di costringerlo a lasciare Suresnes: compromettono anche il “Grande Gioco”. Se Pannwitz viene a sapere che la lettera da Besançon è stata impostata da una delle due sorelle, saprà che il fuggiasco gli ha mentito almeno una volta, e ciò rischia di renderlo sospettoso circa il resto. Trepper gli scrive una seconda lettera. Siccome recherà il timbro postale di Parigi, spiega che il “controspionaggio”, all'ultimo momento, ha deciso di riportarlo in città anziché fargli passare il confine svizzero. E si indigna degli arresti operati dal Kommando dopo la sua fuga. Pannwitz, infatti, ha fatto fermare i proprietari e i commessi dei negozi che Trepper frequentava al tempo della sua prigionia, con il pretesto di farsi vedere in circolazione da certi agenti. Sono state arrestate più di 100 persone,

tra cui tutti i fornitori del Gran Capo. Questi rimprovera apertamente a Pannwitz quell'imprudente frenesia: creando tanto trambusto, finirà per mettere in allarme il “controspionaggio”. Deve rilasciare i prigionieri, e prima sarà, meglio sarà. Questa lettera, ovviamente, non risolve la principale difficoltà: cancellare l'impressione prodotta su Pannwitz dalle eventuali rivelazioni delle sorelle di Saint-Germain. In mancanza di meglio, Trepper non può sforzarsi di imbrogliare le cose. Sa che il più ardente desiderio del Kriminalrat sarebbe quello di poter concludere che il Funkspiel è tuttora possibile. Con la seconda lettera, il Gran Capo tenta di fornirgli i motivi per credere che non è stato mistificato. Non è però più il caso di sparire e troncare ogni contatto. Mosca glielo aveva ordinato nell'interesse del “Grande Gioco”. Ora, gli arresti di Saint-Germain rischiano di modificare radicalmente la situazione; non è neppure più sicuro che il “Grande Gioco” continui. Trepper deve poter informare il Centro dei futuri svilluppi. I suoi contatti sono interrotti, ma Suzanne Spaak lo aiuterà a ritrovare il filo. *** Racconta Claude Spaak: Fin dalle prime deportazioni, Suzanne si era consacrata al salvataggio dei bambini ebrei. Come forse lei sa, i tedeschi procedevano per fasi. Prima arrestavano gli uomini, poi le donne, poi i bambini. Questi ultimi venivano si-

stemati provvisoriamente in centri di raccolta sorvegliati da personale francese; costituivano una specie di riserva cui la Gestapo veniva ad attingere per riempire i treni della deportazione. Ma, tra la cattura dei genitori e il loro arresto, passava spesso un lasso di tempo, durante il quale i bambini restavano abbandonati a se stessi sul posto. Era allora che potevano intervenire mia moglie e i suoi amici, tra cui il professor Debré e molte altre personalità. Ma dove ospitarli? E come nutrirli? Qualcuno ebbe l'idea di farli entrare clandestinamente nei centri di raccolta: sarebbero stati presi in carico dai tedeschi senza che questi lo sospettassero. Presso ogni centro esistevano, quindi, due elenchi: l'elenco degli “ufficiali” e quello dei “clandestini”. Un giorno, veniamo a sapere che i tedeschi avrebbero evacuato tutti i centri l'indomani e deportati i piccoli. Come può bene immaginarsi, la notizia fu accolta con orrore. Che fare dei “clandestini”? Come salvarli? Il pastore dell'Oratorio protestante del Louvre accettò di accoglierli, ma era soltanto una soluzione provvisoria, perché quell'uomo non aveva ovviamente la possibilità di nutrire un centinaio di ragazzi, né di ospitarli per molto tempo. Fu Suzanne che ne assicurò la salvezza. Spiegando una frenetica attività, chiamò a raccolta tutti coloro che erano suscettibili di prendersi in carico uno o più bambini e riuscì ad accasarli tutti. Anche noi ne abbiamo nascosti cinque o sei nella nostra casa di Choiseul. Tutto ciò, Suzanne lo faceva con incredibile dedizione e un assoluto sprezzo del pericolo. A più riprese ricevette avvertimenti che non tenne in nessun conto. Una volta, per esempio, un sacerdote è venuto a dirle che doveva diffidare, che era stata segnalata al commissariato del quartiere. Ma questo non la fermava. Continuava.

Nell'ottobre del 1943, Suzanne Spaak è ormai diventata una delle “piattaforme” della Resistenza. È in contatto con le organizzazioni clandestine più diverse: reti dipendenti dal BCRA gollista o dai servizi britannici, movimenti antirazzisti, organizzazioni comuniste, eccetera. In particolare, la sua attività in favore dei bambini ebrei l'ha messa in contatto con le fila del Movimento Nazionale contro il Razzismo, o con l'avvocato Ledermann, uno degli organizzatori della Resistenza Ebraica in Francia (gruppi di combattimento, propaganda, eccetera). Ledermann è in rapporto con Kovalski, di cui abbiamo citato in precedenza il superbo sprezzo del pericolo. E Kovalski è uno dei massimi capi della Resistenza comunista. Vice-capo del MOI (Mano d'Opera Immigrata), vale a dire dell'organizzazione che raggruppa i lavoratori stranieri, è responsabile nazionale dei gruppi di combattimento stranieri. A questo titolo, dipende dallo Stato Maggiore degli FTP (Franchi Tiratori e Partigiani), a sua volta in costante contatto con il Comitato Centrale del Partito Comunista. Tale è la lunga trafila attraverso la quale Trepper si sforzerà di ritrovare il contatto con Mosca. Ma, in attesa dei risultati degli interventi di Suzanne Spaak, la coppia braccata deve trovare un nuovo rifugio. I Queyrie, pur coscienti del pericolo cui andavano incontro, vedono andarsene Trepper con rimpianto. Li ha conquistati con la sua semplicità e la sua umanità. L'amore di cui da prova nei confronti del piccolo Patrick ha colpito al cuore la signora Queyrie, che gli ha condotto più volte il bambino. A Suresnes rimpiangeranno le lunghe conversazioni con il Gran Capo («Dica, papà Nano, lei che è in politica, crede che questa guerra durerà ancora per molto?». «Ah!, mamma Annie, secondo

me siamo verso la fine...»). Molto più tardi, dopo aver conosciuto per causa sua le angosce e il carcere tedesco, dopo essere stata a lungo interrogata su di lui, durante la Guerra fredda, dai poliziotti francesi della DST, la signora Queyrie resterà incrollabile nella sua opinione, che è poi quella di tutti i francesi coinvolti in questa storia – anche di chi la racconta oggi: «Spie e simili non sono proprio il nostro genere, però avevamo capito che lavorava per la Francia». Dove andare? Georgie propone di ricorrere alla sua amica Denise. L'ha conosciuta al corso di ballo di Place Clichy. Denise è un pezzo di ragazza di 22 anni, molto sveglia, che parla un argot piuttosto spinto, innamorata del proprio corpo e che dice spesso e volentieri, a proposito del marito prigioniero di guerra in Germania: «È talmente cornuto che non potrebbe passare sotto l'Arco di Trionfo». Georgie non ha grande stima di lei, ma la diverte il suo lato di parigina fino al midollo; hanno passato ore ed ore insieme ad ascoltare dischi e a ballare. Denise accetta di prestare la sua stanzetta di Rue du Chabanais; la coppia vi si trasferisce il 24 dicembre. La tensione della caccia comincia a logorarli; hanno paura; Trepper resta chiuso in casa tutto il giorno. *** Le due sorelle di Saint-Germain non parlano. Pannwitz sospetta che possono metterlo sulle tracce del fuggiasco? È poco verosimile. Ai suoi occhi, le due donne sono probabilmente due delle centinaia di persone arrestate dopo il 13 settembre. Il Kommando dedica invano i suoi giorni e le sue notti ad interrogare

tutta quella gente: credeva di avere in pugno agenti del Gran Capo e si ritrova di fronte soltanto dei bravi commercianti che giurano all'unisono la loro innocenza – c'è da impazzire. Willy Berg, deciso ad ottenere la sua riabilitazione, rischia una crisi di nervi ad ogni interrogatorio. Pannwitz ripone le sue speranze altrove. Dopo l'evasione, ha fatto svolgere un'indagine su Georgie de Winter, di cui conosceva l'esistenza da un pezzo, ma della quale nessuno si era finora preoccupato. Tempo 12 ore, il Kriminalrat ne scopre le origini belghe. La madre di Georgie e parecchie sue amiche sono arrestate e trattenute qualche tempo. A Parigi, il Kommando si dà da fare per scoprire l'attività recente di Georgie, le sue conoscenze, i posti che frequentava. Pannwitz ha chiesto e ottenuto da GestapoMüller l'invio di importanti rinforzi. *** Ogni giorno Georgie lascia la soffitta di Rue du Chabanais e va in cerca di notizie di Spaak, in Rue de Beaujolais. Suzanne Spaak le organizza un primo appuntamento al Giardino del Lussemburgo. La parola d'ordine sarà «Leben». Georgie, camuffata con un paio d'occhiali, attende invano l'emissario. Secondo appuntamento alla chiesa di Auteuil. Questa volta Georgie dovrà presentarsi con un giornale sotto il braccio e un crocifisso in mano. L'emissario le domanderà: «C'è il signor curato?». Lei risponderà: «No, ma può trovarlo nella chiesa vicina». Georgie si piazza sotto il portico della chiesa – che bella patronessa doveva sembrare! –, ma non arriva nessuno.

Il suo interlocutore designato non avrebbe stonato nel quadro, perlomeno a giudicare dal suo aspetto attuale: carnagione rosea, guance paffute, una zazzera di capelli ricciuti che gli formano un'aureola attorno al capo, la voce dolce: un vero monsignore. È l'avvocato Ledermann, illustre legale comunista di cui i colleghi dell'albo parigino, anche se non appartengono alla sua stessa parrocchia, apprezzano il talento e la cortesia. A quel tempo, ignora quasi tutto di Trepper e della sua rete: Sapevo che esisteva un'organizzazione segretissima che faceva dello spionaggio militare, con a capo un altissimo dirigente. Sospettavo che questo o quello ne facesse parte, o ne fosse in contatto. Ma non ne parlavamo mai tra noi. Era tabù.

Perché l'appuntamento è andato a monte? Nessuno lo sa. Un malinteso sull'ora, probabilmente... *** Dopo tre giorni di clausura, Trepper vuole cambiare rifugio. Georgie ha moltiplicato i suoi andirivieni tra Rue du Chabanais, l'appartamento degli Spaak e i diversi luoghi di incontro; rischia di essere stata scoperta. In mancanza di un nascondiglio veramente sicuro, la loro salvezza dipende dai continui spostamenti. Passano la notte tra il 28 e il 29 settembre all'oratorio del Louvre di cui apre loro la porta una raccomandazione di Suzanne Spaak. Il pastore dà loro due camere separate. I due si riposano fino alle 4 del mattino, poi devono andarsene. Trepper continua a

dare prova di un incrollabile sangue freddo, ma la sua amica intuisce che è mortalmente preoccupato. L'indomani sera, sono a casa degli Spaak. Claude Spaak: Abbiamo chiacchierato a lungo – ascoltando Trepper, avevo l'impressione di leggere un romanzo –, e lui mi ha raccontato nei particolari la sua straordinaria storia: l'arresto nello studio del dentista (a proposito, guardi com'è piccolo il mondo: recentemente, il mio medico curante mi dice: «Ho per paziente un dentista che mi ha fatto un racconto singolare. Pare che abbiano arrestato nel suo studio, praticamente sotto il trapano, il capo dello spionaggio russo ai tempi dell'occupazione...»); il suo arresto, dunque, e la comparsa davanti ad una commissione suprema della Gestapo. Mi ha anche detto come e perché aveva deciso di fare finta di lavorare per i tedeschi. Era una decisione gravissima, che comportava rischi enormi, ma aveva ritenuto che non ci fosse altro mezzo per salvare i suoi uomini, quelli che erano in arresto e gli altri. Lo hanno perciò lasciato circolare liberamente per Parigi. Nei primi tempi, la sorveglianza era molto severa, ma le guardie lo seguivano a distanza per non dare l'allarme. Si è divertito molto alle loro spalle pretendendo di avere un agente ai grandi magazzini Printemps: siccome non potevano seguirlo dentro, erano costretti a sorvegliare tutte le uscite – e ce n'erano parecchie! Naturalmente, aveva subito ripreso contatto con uno dei suoi agenti, autentico questo. Si trattava di una commessa della farmacia “Bailly”: per mezzo di lei, è riuscito ad avvertire Mosca del gioco della Gestapo.

Mi ricordo un esempio preciso che mi ha citato. Mosca gli aveva chiesto di fornire le cifre degli effettivi tedeschi nel Var e alle Bocche del Rodano e di identificarne le unità. Ricevendo il messaggio, i capi della Gestapo avevano detto che si sarebbero guardati bene dal trasmettere informazioni di tale importanza (per Mosca, ovviamente, si trattava di sapere se un tentativo di sbarco alleato nel sud della Francia avrebbe incontrato forte resistenza). Allora Trepper tenne loro una lezione di alta politica, spiegandogli che avevano tutto l'interesse a rivelare a Mosca la verità, ossia che il sud non era saldamente presidiato dalla Wehrmacht: era un mezzo per rafforzare i sospetti russi circa il ritardo dei loro alleati ad aprire un secondo fronte. I capi della Gestapo riconobbero la giustezza del ragionamento e risposero al questionario. Quello che mi ha colpito era la qualità delle sue informazioni. Pensi che, già a quel tempo, mi ha rivelato l'esistenza delle V1. Sapeva come funzionavano e dove erano situate le rampe di lancio. Nell'ottobre del 1943!1

*** Trepper parla perché ci è, poco o molto, costretto. La sua rocambolesca evasione potrebbe suscitare dubbi (non sarebbe la prima volta che la Gestapo organizza un'“evasione” per infiltrare nella Resistenza un agente assorbito); Spaak gli procurerà contatti in alto loco solo a patto di essere certo della sua buona fede. In realtà, lo scrittore non è così sospettoso: Non gli chiedevo certo tutte quelle spiegazioni, e non c'era alcun bisogno che me le fornisse. Ho sempre avuto 1 La prima V1 sarà lanciata su Londra solo nel luglio del 1944, quasi un anno dopo.

l'impressione che quell'uomo giocasse a carte scoperte con me. La sua franchezza non mi ha mai dato adito al minimo dubbio.

A carte scoperte? Il Gran Capo ne tiene qualcuna nella manica. Non che diffidi del suo interlocutore: ha completa fiducia in lui. Ma Spaak rischia di essere arrestato. A che pro caricarlo di segreti che forse dovrà proteggere contro la tortura? Non gli svela la vera ragione della sua “collaborazione” con il Kommando, non gli indica il reale obiettivo del Funkspiel (pur fornendo un esempio dei messaggi trasmessi a Mosca, che è tipico del “Grande Gioco”); infine, gli tiene nascosta l'esistenza di Juliette e pretende falsamente che il suo agente fosse una commessa della farmacia “Bailly”. La menzogna è destinata a rassicurare Pannwitz nel caso in cui arrestasse Spaak e lo facesse parlare. Da Berg, il Kriminalrat saprà che Trepper non è mai andato da Bailly tra il 24 novembre 1942, data del suo arresto, e il 13 dicembre 1943, giorno dell'evasione. Ne concluderà che l'affermazione del fuggiasco a Spaak era solo un'inutile vanteria, destinata a fargli fare bella figura. *** E ora, dove andare? L'appartamento di Rue de Beaujolais non costituisce certo un rifugio sicuro; la Gestapo potrebbe piombare da un momento all'altro su quella “piattaforma” da cinque o sei strade diverse. Suzanne Spaak ottiene da un'amica l'indirizzo di una pensione familiare di Bourg-la-Reine, dove sono ospitati parecchi bambini ebrei. Georgie fa un sondaggio presso il pro-

prietario, il quale accetta di accoglierli, lei e Trepper. Ma la pensione, già affollata di ospiti clandestini, non ispira al Gran Capo una grande impressione di sicurezza. Nella stessa strada, proprio accanto, un'altra pensione familiare gestita da due pacifiche signore: “La Maison Blanche”. Questa sembra più sicura. Presentato dal vicino, Trepper ottiene una stanza. Quanto a Georgie, ha deciso di metterla al riparo della Gestapo. Siccome lei protesta, si limita a rispondere: «Ascolta, io devo restare qui per ritrovare i contatti, perché sono completamente isolato. Dopo, è probabile che mi spediranno molto lontano, all'estero e non ci vedremo per un bel po'». Crede davvero, in cuor suo, che si rivedranno un giorno? Trepper non ha mai nascosto a Georgie il suo indissolubile attaccamento per la moglie Luba. Nata con la guerra, la loro relazione con la guerra finirà. Gli Spaak hanno due amiche inglesi, Ruth Peters e Antonia Lyon-Smith (sono cugine), che si tengono nascoste a Parigi dall'inizio dell'occupazione. La più giovane, Antonia, conosce un certo dottor de Joncker, di Saint-Pierre-de-Chartreuse, presso la frontiera elvetica, di cui sa che fa passare il confine svizzero ai clandestini ricercati. Acconsente a scrivergli per chiedergli di occuparsi di Georgie de Winter. Ma Trepper trema per l'amica; ritiene che ogni minuto di coabitazione le faccia correre il rischio di cadere in mani spietate. In attesa della risposta del medico, Georgie va a nascondersi in un paesino della Beauce, presso Chartres, in casa di certi contadini cui è stata raccomandata da una delle sue amiche del corso di danza – che non è Denise. Trepper le ha consegnato un viatico di 100.000 franchi; Georgie possiede anche una lettera di

Antonia Lyon-Smith che le consentirà di farsi riconoscere dal dottor de Joncker. La separazione poneva un problema: chi avrebbe assicurato i collegamenti di Trepper al posto di Georgie? Questa ha proposto la vecchia signora May, che ha conosciuto per mezzo della sua sarta. La signora May è la vedova di un cantautore molto celebre prima della guerra; vive con i diritti d'autore del defunto marito. La sua allegria, il suo perpetuo slancio hanno incantato Georgie e le due donne hanno simpatizzato. Avvertita dalla giovane amica, la signora May non esita un istante: il suo aiuto ad un uomo cui la Gestapo dà la caccia è scontato. Entra nella pensione familiare di Bourg-la-Reine in qualità di infermiera del Gran Capo. In tal modo saranno giustificati la clausura del “malato” e gli andirivieni di colei che lo cura. Rimane sempre da trovare la trafila che porta al Partito. Gli Spaak si rivolgono al dottor Chertok, membro del Movimento Nazionale contro il Razzismo, nella speranza che riesca a mettersi in contatto con gli esponenti della resistenza comunista. Dopo averli ascoltati raccontare l'odissea di Trepper, Chertok scoppia in una risata e dice: «Miei poveri amici, siete cascati su un mitomane di prima grandezza! Non può trattarsi che di una serie di bugie!». Dietro insistenza degli Spaak, acconsente tuttavia a tentare di istituire il collegamento. Qualche giorno dopo, torna in Rue de Beaujolais e tutta la sua allegria è scomparsa: «Avevate ragione: è una cosa seria». Viene fissato un appuntamento con un emissario del Partito in una via di Bourg-la-Reine. Data: il 22 ottobre. L'ora sarà indicata in seguito da una telefonata di Chertok agli Spaak.

*** Pannwitz viene a sapere che Georgie de Winter studiava danza, scopre la scuola di ballo di Place Clichy, arresta Denise. E, in conformità al suo carattere, questa crolla. Conosce la villetta di Le Vésinet, i Queyrie (è stata lei ad indicarli a Georgie un anno prima) e la signora May (Georgie gliel'ha presentata). A Le Vésinet, il Kommando scopre solo degli indizi comprovanti il recente soggiorno dei due fuggiaschi. A Suresnes, la villetta dei Queyrie è fatta oggetto di uno spettacolare assalto. Due automobili della Gestapo si precipitano per l'Allée de la Pépinière, frenano violentemente davanti alla casa; il Kommando al gran completo scavalca la cancellata con un volteggio, pistola puntata, e sfonda la porta. Pannwitz è convinto di aver preso Trepper; trova soltanto la nonna Queyrie. Il signor Queyrie è al lavoro. Quanto alla signora Queyrie, seguendo il consiglio del Gran Capo, si è recata con Patrick a Corrèze da una cognata che ospita già da parecchi mesi sua figlia Annie. Corrèze è una borgata situata esattamente al centro del Dipartimento omonimo. Gli altopiani circostanti danno a quel tempo rifugio ai macilenti maquis che, nel giugno 1944, ritarderanno con tanto valore la marcia della Divisione “Das Reich” verso il fronte della Normandia. Senza che tra loro sia scambiata una sola parola, gli uomini del Kommando hanno tutti la stessa idea: laggiù non si tratterà di scavalcare il cancello di una villetta di periferia per ammanettare una vecchia signora. Anziché andare a Corrèze, cercheranno di farne tornare la signora Queyrie. La sera, questa riceve una telefonata da Parigi. Una voce sconosciuta le annuncia che suo marito si è rotto una gamba e invoca la

presenza della moglie. Diffidente, la signora Queyrie non si muove. Sicché, bisogna proprio andare a Corrèze. Pannwitz ne avverte la necessità tanto più che è convinto che Patrick sia il figlio di Trepper; la sua cattura dovrebbe consentire un efficace ricatto. Partirà con due automobili, stipate di uomini e piene di armi. Bisogna sentire Pannwitz evocare la spedizione: sembra Stalingrado. Le SS trasformate in kamikaze puntano a sud a tomba aperta, giungono alla borgata, si impadroniscono di Patrick e della signora Queyrie («Se li avesse visti», precisa quest'ultima, «sembrano dei pazzi»), tornano a puntare su Parigi senza attardarsi un attimo di più in quei luoghi inospitali. All'una del mattino, varcano il portone di Rue des Saussaies. Il cuore stretto dall'angoscia, la signora Queyrie sente i pesanti cancelli chiudersi alle sue spalle. Patrick dorme sulle sue ginocchia. Lo prende in braccio, sale al seguito dei guardiani in una stanza piena di fumo. Seduta su un angolo del tavolo, sigaretta tra le labbra, gonna rialzata sulle cosce, una donna chiacchiera familiarmente con i tedeschi: è Denise. I nuovi venuti vengono sistemati in un locale provvisto di un divano. Simili a naufraghi aggrappati ad un relitto, resteranno su quel divano tre giorni e tre notti, lo sguardo abbacinato dal vorticare degli sbirri della Gestapo, l'orecchio intontito dalle urla di cui non afferrano il significato. Un faro in tutto quel buio: l'Oberscharführer Siegfried Schneider, l'interprete del Kommando. Si mostra altrettanto servizievole nei confronti della donna e del bambino di quanto lo era stato per Denise Corbin. La signora Queyrie dice:

Era un bel ragazzo alto, sempre in borghese, con le scarpe di camoscio. Secondo me, si trattava di un giovane di buona famiglia che si era arruolato nella Gestapo per imboscarsi. Era troppo per bene per essere sul serio un poliziotto.

Da lui apprende che sua madre e suo marito si trovano a Fresnes, ma stanno bene. Dopo tre giorni, il Kommando decide che quell'insolito campeggio non può prolungarsi oltre e delibera in merito alla sorte dei due prigionieri. La discussione è alquanto animata. Alla fine, Pannwitz annuncia alla signora Queyrie: «Vi sistemeremo tutti e due in uno dei nostri centri, a Saint-Germain. Se cercherà di evadere, ne subiranno le conseguenze sua madre e suo marito». Schneider soggiunge di soppiatto questa precisazione: «Volevano spedire Patrick in Germania, da qualche parte della Foresta Nera. Glielo lasciano perché sembra così affezionato a lei». Dal momento dell'arresto, il bambino si aggrappa a due mani alla gonna della signora Queyrie e lancia strilli non appena si fa l'atto di staccarlo. Donna e bambino sono sistemati presso la sede della Legion d'Onore di Saint-Germain. L'istituzione, requisita dalla Wehrmacht, è gestita dai “topi grigi”. Due di questi, Grete e Margarete, si innamorano di Patrick. Lo sistemano con la signora Queyrie nella più bella stanza dell'infermeria. Quando viene loro servito il primo pasto, la signora Queyrie, incredula, fa tanto d'occhi: sul vassoio, accanto al piatto, una fetta di pane bianco. La afferra tra il pollice e l'indice, la solleva come se fosse un'ostia consacrata, vi affonda i denti con deferenza.

Il figlio adottivo di “papà Nano” continuava ad avere fortuna. Da parte della signora May, il Kommando subisce una nuova delusione: l'appartamento è deserto. Pannwitz vi tende una trappola, lasciando sul posto qualcuno dei suoi ausiliari francesi, membri della celebre “Banda Lafont”. Henri Chamberlain, detto “Lafont”, figura ben nota della malavita parigina, ha reclutato per conto della Gestapo un certo numero di detenuti comuni selezionati nelle varie prigioni. Costoro tengono le loro riunioni nel sinistro stabile di Rue Lauriston 93, i cui muri non sono abbastanza spessi per soffocare le grida dei suppliziati. Detto per inciso, questi criminali si arricchiscono a forza di omicidi, di furti, di ricatti e di mercato nero. Pannwitz ha scoperto nei documenti della signora May che era imminente il compleanno del suo defunto marito. Trale circostanza gli fornisce l'idea di un'astuta trappola. Quel giorno, il Kommando si reca in delegazione al cimitero; il suo capo porta una splendida corona di fiori avvolta da un nastro su cui è specificato: «Da parte degli Amici della Canzone». Lo sguardo intento, i membri del Kommando battono i piedi per ore al venticello frescolino che soffia tra le tombe. Ma la signora May non viene a raccogliersi sui resti del caro estinto. Cala la sera: i custodi del cimitero annunciano che è l'ora di chiusura. Il Kommando rattristato depone la corona sulla tomba del signor May e se ne torna lugubre in Rue des Saussaies. La caccia all'uomo è iniziata da un mese; il Gran Capo continua a scappare.

XXXIII. SI SALVI CHI PUÒ

Georgie de Winter si annoia. Il 14 ottobre, non potendone più della sua solitudine, lascia il paesino della Beauce e raggiunge Trepper a Bourg-la-Reine. Lui la rimprovera per quell'imprudenza, ma i rimbrotti dissimulano male la sua intima felicità. Il loro ricongiungimento dura solo una notte: Georgie, debitamente sgridata, riparte la mattina del 15 ottobre. Sulla soglia, la signora May le dice: «Dovrebbe darmi il suo indirizzo perché possa almeno avvertirla se succede qualcosa». Georgie glielo dà. La signora May lascia a sua volta la pensione familiare per recarsi alle Buttes-Chaumont. Prima dell'arresto del Gran Capo, il Centro aveva organizzato con lui un sistema di appuntamenti detti di “normale amministrazione”. Il primo e il 15 di ogni mese, un emissario doveva presentarsi davanti ad una certa chiesa del quartiere delle Buttes-Chaumont per incontrarsi con lui se lo riteneva necessario. Georgie, mandata all'appuntamento il 1° ottobre, non ha trovato nessuno. Trepper spera che la signora May abbia più fortuna. Gli Spaak, naturalmente, lo hanno avvertito dell'incontro fissato per il 22 a Bourg-la-Reine, ma il Gran Capo non vuole trascurare nessuna occasione di ritrovare il contatto. Inoltre, il rappresentante del Centro potrebbe assicurare i colle-

gamenti con il Direttore molto più rapidamente del Partito comunista. La signora May ha avvertito Trepper che approfitterà dell'occasione per fare un salto a casa – il suo appartamento si trova proprio alle Buttes-Chaumont: vorrebbe ritirare qualcosa. Lui glielo ha formalmente sconsigliato, ma la vecchia signora si è intestardita e non c'è stato niente da fare. *** Pannwitz: Non appena ricevuta la telefonata degli uomini di Lafont, sono saltato in macchina e sono andato a casa della signora May. Era furibonda perché la banda, come al solito, aveva saccheggiato ogni cosa. Quando mi ha visto entrare mi si è scagliata addosso urlando insulti e mi ha sferrato un violento calcio alla tibia destra. Mi ha fatto molto male. Ho gridato di dolore e, istintivamente, mi sono chinato a massaggiarmi la gamba. Lei mi ha colpito con una scarica di ombrellate e io sono caduto in ginocchio. Gli uomini di Lafont sono comunque riusciti a bloccarla. Ho preferito lasciare loro l'incarico di interrogarla, perché ero fuori di me e si sarebbe messa male.

La signora May ha un figlio. Minacciata di vederselo uccidere sotto gli occhi, fornisce l'indirizzo di Trepper e quello di Georgie. ***

Il Gran Capo le aveva detto: «Se la arrestano, le chiedo semplicemente di tenere duro per due ore: capirò che le è successo qualcosa e prenderò provvedimenti». L'appuntamento alle Buttes-Chaumont era previsto per mezzogiorno. Alle 2, Trepper comincia a preoccuparsi. Alle 3, lascia la pensione dicendo alla direttrice, la signora Parrend: «Senta, ho l'impressione che abbia qualche pensionante... in posizione irregolare. Se è così, devono sparire immediatamente». Soggiunge: «È possibile che vengano a cercarmi o che mi chiamino al telefono. Risponda per favore che sono andato a fare una passeggiata e che sarò di ritorno alle 7». Se, infatti, ignora che Georgie ha avuto l'imprudenza di dare il suo indirizzo alla signora May, sa chela vecchia signora possiede quello degli Spaak, dai quali l'ha mandata più volte. Deve avvertirli immediatamente del pericolo. Bloccando il Kommando a Bourg-la-Reine, Trepper conta di facilitare la propria visita in Rue de Beaujolais. E alle 7, sarà buio. Lo stratagemma ha successo. Nel momento esatto in cui Bourg-la-Reine è bloccata da un'operazione di polizia, Trepper entra tranquillamente in casa di Claude Spaak e gli dà la terribile notizia. Bisogna fuggire immediatamente. Ma Suzanne Spaak si trova ad Orléans; rientrerà solo in serata. E che fare dei ragazzi – una bambina di 13 anni, un bambino di 12? Trepper supplica lo scrittore di rendersi conto della realtà: la Gestapo può suonare all'uscio da un momento all'altro! Bisogna sparire! E occorre anche avvertire l'amica dalla quale ha avuto l'indirizzo della prima pensione di Bourg-le-Reine; facendo parlare le signore della “Maison Blanche”, la Gestapo non tarderà a risalire l'intera trafila.

Finalmente convinto, Claude Spaak riaccompagna Trepper alla porta. Gli domanda: «E lei dove va?». «Non lo so». Suzanne Spaak è di ritorno alle 9 di sera. Messa al corrente dal marito, si reca immediatamente ad avvertire la persona minacciata. Poi, la coppia e i bambini vanno a rifugiarsi dalla loro amica Ruth Peters, che si nasconde in un appartamento di Avenue Matignon. Quella notte, il Gran Capo la passa all'aperto, steso su una panchina, tremante di freddo, alla mercé di una ronda di polizia. *** L'indomani, Claude Spaak si presenta al consolato belga. Ottiene per la moglie e i figli un'autorizzazione a recarsi in Belgio. Il giorno successivo, il 17 ottobre, accompagna i suoi alla Gare du Nord. Suzanne Spaak è molto restia. Come al solito, ritiene che ci si preoccupi per poco. Ma il marito le ha fatto presente che non avevano il diritto di mettere a repentaglio la vita dei loro due bambini. Sulla banchina, Claude Spaak le dice: «Non si sa che cosa può capitarci. Decidiamo se ricevo da te una lettera che comincia con “Mio caro Claude”, invece di “Carissimo”, e firmata “Suzanne”, anziché “Suzette”, saprò che non devo crederci» (Claude chiama sempre sua moglie “Suzette”; “Suzanne” era riservato ai litigi). Un sistema analogo è previsto per le lettere di Claude. Il treno si muove.

Suzanne grida un'ultima volta: «Ti assicuro che esageri! Fra otto giorni, torno!». Non la rivedrà mai più. *** Nello stesso momento, il Gran Capo si dirige verso quella chiesa di Auteil dove Georgie ha già aspettato invano, un giornale sotto il braccio e un crocifisso in mano. Il suo appuntamento non è con l'avvocato Ledermann. Deve incontrarsi con un agente mandato dal tipografo Grou-Radenez, membro di una rete di resistenza agli ordini di Londra. Il contatto, organizzato dall'instancabile signora Spaak, era destinato ad ovviare ad un eventuale fallimento dei tentativi di Chertok. Trepper conta di chiedere all'emissario di Grou-Radenez di metterlo in contatto con l'ambasciata sovietica a Londra. Al punto in cui è la situazione, bisogna sfruttare tutte le possibilità. Davanti alla chiesa, una Citroën nera, del tipo usato dalla Gestapo. Ne ne sappiamo di più. Oltre al fatto che Grue-Radenez sarà arrestato l'11 novembre e morirà per aver tentato di aiutare il Gran Capo. Il quale fa dietro-front. Qualche minuto dopo, entra in una cabina telefonica e chiama la “Maison Blanche”. Gli risponde una voce sconosciuta che si sforza di tirare in lungo la conversazione. Trepper riaggancia: la Gestapo è a Bourg-la-Reine. ***

Rassicurato dalla partenza dei suoi, Claude Spaak esce dalla Gare du Nord prospettandosi con cuore più sereno la prova che lo attende. Deve passare da casa sua, in Rue de Baujolais, dove la Gestapo ha forse teso una trappola, perché il dottor Chertok lo chiamerà a mezzogiorno per dirgli l'ora dell'appuntamento di Bourg-la-Reine. Naturalmente, non è più il caso di far incontrare Trepper e l'emissario del Partito: il terreno scotta; bisognerà predisporre nuove misure. L'appartamento è deserto. Spaak si mette in poltrona e aspetta. A mezzogiorno in punto, lo squillo del telefono lo fa sobbalzare. Alza il ricevitore e dice in fretta: «Scotta! Che nessuno si muova!». All'altro capo del filo silenzio, poi lo scatto del ricevitore riagganciato. Perplesso, Spaak riaggancia a sua volta. Perché Chertok non ha detto niente? È stato proprio lui a chiamare? Spaak lascia subito l'appartamento e torna a nascondersi in Avenue Matignon. Ha appuntamento quattro giorni dopo con Trepper, davanti alla chiesa della Trinité per comunicargli l'ora che doveva essere indicata da Chertok. E se il Gran Capo fosse già in arresto? Se è tuttora in libertà, lo sarà ancora la sera del 21? E alla Trinité verrà lui o la Gestapo? Spaak rimugina le sue angosce per quattro giorni. Il silenzio dell'interlocutore telefonico gli sembra di cattivo auspicio. La frase precipitosa di Claude Spaak ha stupefatto Chertok; preso alla sprovvista, ha riagganciato meccanicamente. «Che nessuno si muova!»... Ma lui non ha la possibilità di avvertire l'emissario del Partito – che è Kovalski in persona – entro il 22! Il capo del MOI, il responsabile dei gruppi di combattimento stranieri in Francia, si getterà in bocca al lupo! E la sua cattura sarà un disastro per la Resistenza.

Che fare? *** La sera di quel 17 ottobre, Georgie è rientrata dalla solita passeggiata. Sfaccendata, sola, ammazza il tempo con lunghe camminate per i viottoli della Beauce. La tavola è apparecchiata nella cucina della fattoria; Georgie vi si siede tra i due contadini che la ospitano. Il Kriminalrat Pannwitz è in agguato dietro la finestra della cucina. I suoi uomini, armati fino ai denti, attendono il segnale in cortile. La fattoria è circondata da agenti tedeschi: Pannwitz, prudente, ha portato con sé 50 uomini. Con il cuore in tumulto, l'occhio fisso sui tre seduti a tavola, non si decide a dare il segnale dell'attacco. La sua speranza? Che un quarto convitato su unisca ai tre: il Gran Capo. Quando Georgie affonda il cucchiaio nella minestra, comprende che la speranza è vana. Racconta Georgie de Winter: La cucina è stata invasa di colpo. Erano in 9, Pannwitz e Berg in testa. «Documenti! Come si chiama?». Ho mostrato i miei documenti falsi e loro li hanno esaminati sogghignando. I due vecchi contadini tremavano come foglie. «Maud? Lei si chiamaMaud? E di dov'è?». Una valanga di domande. Ho cercato di tenere duro. Per guadagnare tempo, li costringevo a ripetere ogni frase dicendo: «Come?». Pannwitz, furibondo, ha finito con il gridarmi: «Ah! Basta con i suoi trucchetti! E poi sappiamo chi è. Vada a prendere la sua roba!».

Prendevo i pasti alla fattoria, ecco, ma la camera l'avevo da una vicina. Una buffa stanza, sa? Con una ghirlanda di fiori di arancio sopra il caminetto e un letto così alto che per salirci ci voleva lo sgabello. Allora mi hanno accompagnata dalla vicina, che vedendomi tra due poliziotti, me ne ha dette di tutti i colori. Ovviamente, aveva paura. Continuava a gemere: «Ah! Se avessi saputo di affittare la mia stanza ad una persona simile», eccetera. Dopo mi hanno trascinata verso una Citroën. Ne avevo uno alla mia sinistra, l'altro alla destra, e mi trattenevano per le braccia. Io tremavo per l'emozione ma non volevo che se ne accorgessero. Loro invece se ne sono resi conto e mi hanno detto: «Deve avere un po' di freddo». Per non farmi vergognare, capisce... In macchina, ero seduta a fianco di Pannwitz. Ha subito attaccato discorso: «Allora, Otto [Trepper] è scappato lasciandoci nella peste...». Eddy [Trepper] mi aveva insegnato che cosa dovevo rispondere nel caso che mi arrestassero. Così ho risposto: «Ma no, neanche per sogno! È andato a sistemare la faccenda». È stato in quel momento che ho buttato lì la famosa frase su Bismarck. Eddy mi aveva insegnato: «Gli dirai: “è andato a preparare la pace negoziata, perché per quanto concerne i rapporti tra la Russia e la Germania, la pensa esattamente come Bismarck». Sa, Bismarck è sempre stato del parere di accordarsi con la Russia. Allora sì che Pannwitz ha sorriso! È diventato allegro come un fringuello e abbiamo chiacchierato lungo tutto il tragitto. Io avevo una paura tremenda che mi trovassero addosso la lettera per il dottor de Joncker.

Si fermano a Chartres, nella villa dove ha sede il Kommando locale della Gestapo. Georgie chiede il permesso di andare al gabinetto. Pannwitz: Se non si fosse mostrata così distesa, così allegra, con tutta probabilità la avrei lasciata andare da sola. Ma quella sua allegria mi aveva reso diffidente. Ho chiesto ad un'ausiliaria tedesca di perquisirla da cima a fondo.

L'ausiliaria scopre tra le vesti di Georgie i 100.000 franchi consegnatigli da Trepper e, nella parte più intima, la lettera di Antonia Lyon-Smith. Colmo di imprudenza: nella lettera sono indicati nome ed indirizzo del medico. Prosegue Georgie: Dopodiché, siamo andati a mangiare tutti assieme in un ristorante di Chartres. Il proprietario ci ha sistemati in una saletta riservata. Lo si sarebbe detto un vero banchetto, tale era l'allegria che vi regnava. Io mi trovavo al posto d'onore, alla destra di Pannwitz. Mi ha confessato, ridendo: «Le corriamo appresso da tre settimane, non abbiamo neppure avuto il tempo di mangiare e di dormire». Anche gli altri erano molto gentili con me, quasi paterni. Mi chiamavano “Mädchen”1.

Un'unica nota falsa: quando Georgie chiede di potersi isolare di nuovo, Pannwitz ordina ad uno dei suoi uomini di accompagnarla. Georgia fa osservare al suo guardiano che è già stata perquisita, ma lui risponde alzando le spalle: «È una faccenda seria, potrebbe cercare di suicidarsi saltando dalla finestra...». 1 In tedesco, “ragazza”.

Al levare delle mense, il convoglio riprende la strada per Parigi. Georgie passa la prima notte di prigionia su un divano di Rue des Saussaies – lo stesso, forse, dove suo figlio aveva dormito assieme alla signora Queyrie. *** Il Kriminalrat esulta. Ha finalmente l'impressione di avere ripreso in pugno la situazione. Certo, Trepper è sempre uccel di bosco, ma che cosa importa, se si dà da fare per organizzare negoziati tra Mosca e Berlino? È chiaro che Georgie non ha il cervello di una politicante; è incapace di avere attribuito al Gran Capo dichiarazioni inventate di sana pianta. Soprattutto significativa è la frase su Bismarck. Fatta questa riflessione, non sembra sorprendente a Pannwitz che il suo ex-prigioniero si serva della libertà per portare a termine l'opera intrapresa in cattività. Secondo il Kriminalrat, Trepper è costretto a rigare dritto anche dopo l'evasione: la Gestapo possiede nei suoi archivi la prova dei suoi molteplici tradimenti (Maximovitch, Katz, Robinson, fatti arrestare da lui). Se non vuole che Mosca sia avvertita del suo comportamento, se non vuole essere ucciso da coloro presso i quali ha cercato rifugio, deve continuare ad obbedire ai voleri del Kommando. Certo, ripone tutte le sue speranze di riabilitazione in una felice conclusione del “Grande Gioco”, confidando che Mosca non si mostrerà severa riguardo al passato nei confronti dell'uomo che le avrà procurato la pace con la Germania. Ma allora, perché quello stupido lascia Pannwitz senza notizie? Perché non lo tiene informato dei suoi movimenti? Perché

prestarsi ad una interminabile caccia all'uomo in cui tutti consumano i nervi e il tempo? Grazie alla cattura di Georgie, si rimetterà ordine nelle cose. *** Due giorni dopo, il 21 ottobre, è il giorno fissato per l'incontro fra Trepper e Spaak davanti alla chiesa della Trinité. I vagabondaggi del Gran Capo durano ormai da sette giorni. Mangia poco e male, dorme in rifugi di fortuna; insomma, conduce l'esistenza logorante della selvaggina braccata, cosa che è ormai diventato. Gli ufficiali della Todt non riconoscerebbero certo in lui l'uomo d'affari danaroso, ben vestito e ben nutrito al mercato nero, che concludeva con loro affari di parecchi milioni di franchi e li invitava a tracannare champagne nei locali notturni... L'incontro alla Trinité è previsto per le 9 di sera. Ma Trepper è senza notizie di Spaak dal 15 ottobre. Verrà all'appuntamento? Oppure al posto suo verrà la Gestapo? *** Paris-Soir viene distribuito nel pomeriggio. Ecco un numero banale come ne appaiono ogni giorno della settimana, salvo la domenica, da tre anni. In prima pagina, tre titoloni: PARIGINI, TUTTE LE VOSTRE RAZIONI DI CARNE SARANNO ASSICURATE FINO ALLA FINE DEL MESE, COSÌ HA DECISO IL PRESIDENTE LAVAL.

I BOLSCEVICHI ARRUOLANO ALTRE RISERVE DE BRINON SFUGGE MIRACOLOSAMENTE AD UN ATTENTATO TERRORISTICO

Ancora in prima pagina, un lungo articolo che reca il seguente titolo: Farina al cioccolato di castagne d'India e marmellata di “grattaculo”: ecco gli ultimi prodotti ufficiali derivati dall'ammasso di frutti selvatici. Svelando che il «grattaculo» è il frutto del rosaio di macchia, l'articolo conclude con giovialità: «Ebbene! Una volta pestati, amalgamati, zuccherati e cotti a puntino, questi cynorrhodon (tale è il loro nome scientifico) danno una deliziosa marmellata, molto ricca di vitamina C». Anche le inserzioni a pagina 2 recano il suggello del tempo. Alla rubrica “Occasioni varie”: Break tiro a uno o a due cavalli, decapottabile, marca Griffaut, in ottimo stato, e vari finimenti leggeri vendonsi, occasione eccezionale. Ho quattro buoi da lavoro da ritirare a Lieux (HauteVienne). Cerco subito autocarro munito autorizzazione trasporto per ritorno Rambouillet – Tavel, 146, ChampsÉlysées, Parigi, Ély. 31-34.

Ma vi sono almeno due testi nel giornale che devono aver creato una certa perplessità nei lettori. Consistevano in due frasi identiche, inserite in piena pagina 2, l'una sotto il cruciverba, l'altra sotto un'offerta di scambio di francobolli.

«EDGAR! Perché non telefoni? – Georgie». Era il richiamo immaginato da Pannwitz per scongiurare il Gran Capo di uscire dall'ombra. *** Racconta Claude Spaak: La sera del 21, ho lasciato il nascondiglio dell'Avenue Matignon in preda ai più cupi presentimenti. Avevo deciso di arrivare un po' in anticipo per fare una piccola ricognizione. Erano le 9 meno un quarto quando sono giunto alla Trinité. Con il black-out, il buio era completo – appena costellato qua e là dalle piccole luci azzurrate. Ma in tutto quel nero si stagliava una luna tonda e gialla: l'orologio della chiesa, rimasto stranamente illuminato. Ho fatto il giro della piazza. Dietro la chiesa, in Rue de la Trinité, c'era uno stabile occupato dai tedeschi; sembravano in grande agitazione, in pieno trambusto, e ciò ha portato al culmine la mia ansia. Continuavo a domandarmi: «Lo avranno arrestato? Se lo hanno arrestato, avrà parlato?». Avevo il presentimento di stare per gettarmi in bocca al lupo. D'altro canto, bisognava assolutamente informarlo che l'appuntamento a Bourg-laReine era stato annullato – era di importanza capitale. Avanti, confessiamolo: ero in un bagno di sudore! L'orologio batte nove colpi. In preda ai convulsi della paura, vado a piazzarmi davanti al portico della chiesa, proprio al centro del piccolo cerchio di luce proiettato dall'orologio. E vedo Trepper emergere dalle tenebre, avanzare verso di me. Cadiamo l'uno nelle braccia del-

l'altro. Fu constatando tremasse che mi sono reso conto a mia volta del mio tremito. Tenendoci stretti come due annegati, risaliamo la Rue de Clichy.

I due si separano in Place Clichy. Spaak ha annunciato la partenza dei suoi per il Belgio e l'annullamento dell'incontro di Bourg-la-Reine, mentre Trepper gli raccontava le sue peregrinazioni da una settimana a quella parte, concludendo: «Ora è tutto a posto, ho trovato un asilo». Pia menzogna: il Gran Capo ritiene con tutta probabilità che la famiglia Spaak abbia fatto abbastanza per lui; non vuole continuare ad essere un peso per Claude Spaak. Ma non ha un rifugio. E, dopo il congedo, guarda il suo compagno affrettarsi verso il suo nascondiglio, chiedendosi una volta di più dove passerà la notte lui. Fa cenno ad un velo-taxi e chiede al ciclista di condurlo alla stazione di Montparnasse. Niente lo chiama laggiù; desidera soltanto sedersi per qualche minuto. Al pari di Spaak, ha dovuto vincere una paura spaventosa per recarsi alla Trinité. Il logorio dei nervi, aggravato dalle cattive condizioni fisiche, lo ha portato sull'orlo della depressione. Nella cabina sobbalzante soffre di vertigini, di allucinazioni. E sempre quella domanda lancinante: dove passare la notte? Ora sono arrivati alla stazione. Trepper si estrae a fatica dalla cabina, tende una banconota al ciclista. Questi, un vecchio spossato, si commuove alla vista della brutta cera del suo cliente. Trepper finisce con il confessargli che non sa dove andare. L'altro esita, poi mormora: «Le proporrei di venire da me, ma devo fare ancora una corsa prima di concludere la giornata». «Se vuo-

le, le pago l'ultima corsa e lei mi porta a casa sua», risponde Trepper. Ne esce alle 4 di mattina, un po' più riposato, con la prospettiva di venti ore di vagabondaggio sul selciato parigino, al termine delle quali si porrà di nuovo il problema di trovare un asilo per la notte. *** All'alba di quel 22 ottobre, il dottor Chertok e Charles Ledermann si svegliano in preda alla stessa ansia che il giorno prima attanagliava Trepper e Claude Spaak. Hanno anch'essi il presentimento di stare per gettarsi in una trappola. Siccome non sono riusciti ad avvertire Kovalski, tenteranno di intercettarlo sul posto, a Bourg-la-Reine. È un tentativo pazzesco. È probabile che la Gestapo abbia montato un dispositivo di sorveglianza in cui rischiano di precipitarsi a capofitto; i documenti falsi di cui sono in possesso non resisterebbero ad un esame serio. Inoltre, Chertok è senza notizie di Spaak, e quindi di Trepper, da più giorni. Se li hanno presi e torturati, se hanno svelato la data e il luogo dell'appuntamento, una trappola attende inevitabilmente i due compagni. *** In mattinata, Trepper telefona a casa di Spaak, in Rue de Beaujolais. Semplice curiosità. Gli risponde una voce femminile: «Parla la segretaria del signor Spaak, dica...». Trepper sa che lo

scrittore non ha una segretaria. «Gli vuol dire, per favore, che il suo amico passerà da lui alle 2?». Semplice divertimento. Pannwitz, informato, spedisce qualcuno a casa di Spaak. *** A mezzogiorno, Chertok pranza in un ristorante di Rue Laromiguière con una compagna della Resistenza, Charlotte. Il filetto di manzo di quel giorno resterà per lui un ricordo imperituro. Al dolce, porge a Charlotte un mazzo di chiavi e una cartella gonfia di documenti: «Tienimi questa roba. Tornerò fra tre ore o mai. In quest'ultimo caso, sparisci...». Va da Ledermann; insieme, prendono la sotterranea alla stazione del Lussemburgo. Uno studio minuzioso della piazza di Bourg-la-Reine ha dimostrato loro che Kovalski poteva arrivare all'appuntamento da parecchie strade: l'unico modo per intercettarlo con certezza consiste quindi nell'abbordarlo nelle vicinanze immediate – ciò che moltiplica i rischi. Smontano dalla sotterranea a Bourg-la-Reine. La stazione è deserta. Raggiungono la provinciale per Parigi e si separano; Ledermann si dirige verso sud, Chertok verso nord, verso Parigi. Niente blocchi stradali in vista. Ma ogni automobile di passaggio procura loro una stretta al cuore: non frenerà bruscamente sul ciglio della strada per scaricare un gruppo di poliziotti? Improvvisamente, Chertok riconosce la figura di Kovalski che cammina davanti a lui nella sua stessa direzione. Accelera il passo, lo raggiunge, borbotta tra i denti: «Scappa! Scappa!». L'uno dietro l'altro, in silenzio, tesi, i due uomini camminano fino a Cachan.

*** L'edizione di quel giorno di Paris-Soir lancia a tre riprese l'appello: «EDGAR! Perché non telefoni? – Georgie». *** Il 22 ottobre è il compleanno di Claude Spaak. Euforizzato dall'aver messo al sicuro i suoi e dalla felice conclusione dell'appuntamento alla Trinité, decide di fare un salto in Rue de Beaujolais a prendere una bottiglia di buon vino. La sua amica Ruth Peters, sgomenta, lo supplica di non commettere pazzie, ma lui vuole assolutamente festeggiare il compleanno. Ruth riesce appena a convincerlo di fare almeno una telefonata. Spaak ha concordato con la sua domestica, la signora Mélandes, un sistema di allarme. Se gli dice per telefono: «Caro signore», significa che può andare a ritirare la posta; «Signore», significherà che c'è pericolo. La domestica dice a più riprese «Signore» e alla fine lancia questa inquietante domanda: «Devo dirgli altro?». Spaak tronca la comunicazione. Il compleanno sarà festeggiato con l'acqua. La signora Mélandes era circondata da 14 tedeschi armati di fucili mitragliatori. Dopo l'interruzione della telefonata, uno dei tedeschi esplode in un torrente di imprecazioni, di minacce: perché ha pronunciato quell'ultima frase che darà l'allarme a Spaak? Lei risponde: «Ma voi siete matti! Lui credeva semplicemente che parlassi con la portinaia!». I poliziotti ammettono di avere perso il controllo troppo in fretta.

*** Cala la sera. Trepper, stanchissimo, si rassegna ad un'imprudenza tipica. Ai tempi della Simex – è passato un secolo, gli sembra! –, il suo medico personale gli aveva ordinato una serie di iniezioni e lui aveva avuto da Alfred Corbin l'indirizzo di un'infermiera, Lucie, una persona simpatica e servizievole. Perché non chiedere asilo a lei? Per tre ragioni. La prima risiede nel precedente Maleplate. Può darsi che i Corbin abbiano fornito il nome dell'infermiera, oltre a quello del dentista, ed è certo che il Kommando, dopo l'evasione, esercita una sorveglianza attenta su tutti i sospetti. La seconda ragione consiste nel seguente particolare: l'infermiera abita nello stesso edificio in cui ha sede il quartier generale del collaborazionista Marcel Déat, capo del filonazista Rassemblement National Populaire. Nel vestibolo vigila in permanenza una guardia armata. Infine, l'edificio in questione si trova in Rue de Surène, vale a dire in una strada che sbocca in Rue des Saussaies. Ma ormai il Gran Capo è giunto al punto di cercare rifugio a meno di cento metri dal Kommando. Giunge allo stabile senza fare cattivi incontri, penetra nell'atrio, supera il cordone delle guardie di Déat e suona all'uscio di Lucie. La donna gli apre e lo fa entrare. Lui dice: «Ecco, non lo sapeva: sono ebreo. I tedeschi mi hanno arrestato e chiuso in un campo di concentramento da cui sono riuscito ad evadere. Può nascondermi per qualche giorno, malgrado i rischi che ciò le farà correre?». Con sua grande sorpresa, e sua enorme contrarietà, Lucie scoppia in lacrime. Ma

finisce per rispondere con voce rotta dai singhiozzi: «Come osa farmi una domanda simile? Ma certo che la nascondo!». Trepper tira il fiato. Ora che si trova lì, due degli inconvenienti del posto si volgono a suo vantaggio: il Kommando non lo cercherà così vicino e, soprattutto, non in una casa sorvegliata dagli uomini di Déat. Un po' più tardi suona il campanello. Lucie va ad aprire. Torna subito a rassicurare Trepper: «Non si preoccupi: è un capo della Resistenza; passerà la notte qui». Trepper ha un sobbalzo e dice precipitosamente: «No, la cosa non va, le garantisco che uno di noi due deve andarsene!». Lucie lo presenta al capo della lotta clandestina; questi, dopo un breve conciliabolo, se ne va: dispone di un altro nascondiglio... Dalle finestre dell'appartamento, Trepper vede passare le Citroën nere del Kommando, di cui ha accuratamente annotato i numeri di targa durante i mesi di cattività. *** All'indomani dell'arresto, Georgie de Winter viene portata a Neuilly. L'automobile gira ore ed ore per Parigi e la periferia prima di puntare sulla palazzina; probabilmente per impedire alla prigioniera di localizzare la casa. Georgie è accolta «da un pezzo d'uomo impressionante, proprio del tipo Eric von Stroheim». È papà Boemelburg, con tanto di benda nera sull'occhio, perché di recente si è graffiato la cornea con un foglio di carta. Sforzandosi di essere galante, domanda a Georgie: «Vuole essere mia ospite?». Ma poi riprende il sopravvento la sua vera natura, e il

tedesco brontola: «Attenta! Ci sono degli altri prigionieri! Se tenta di mettersi in contatto con loro, la sbatto a Fresnes!». Katz non figura tra gli “ospiti”. L'evasione del Gran Capo lo ha privato di qualsiasi interesse agli occhi del Kommando. Forse è a Fresnes, forse in Germania, a meno che non sia già stato giustiziato – non lo sappiamo. Georgie viene sistemata nella stanza occupata dal suo amico sei settimane prima. Ogni giorno, un'automobile la porta in Rue des Saussaies per un interrogatorio. Racconta Georgie: Mi hanno fatto raccontare la mia vita, ma volevano soprattutto sapere dov'era Eddy, in casa di chi poteva nascondersi. Pannwitz mi ha mostrato un grande album pieno di fotografie dei membri della rete. Siccome Eddy mi aveva indicato quelli che erano già in arresto, ho identificato i prigionieri e ho detto che gli altri non li conoscevo. C'era una fotografia che gli interessava molto. Mi hanno domandato: «Lo conosce?». «Ma certo!». Hanno fatto un salto di gioia! «Chi è?». «François Périer, no?». Era una fotografia di Claude Spaak e dell'attore, uno accanto all'altro. Siccome non la smettevano di farmi domande sugli amici di Eddy, ho finito con l'inventare un personaggio: Paul. Ogni giorno, ecco, fornivo particolari supplementari ed era faticoso, perché dovevo stare attenta a non contraddirmi. Lo hanno fatto ricercare da un capo all'altro della Francia. Berg era il più eccitato; urlava di continuo: «Aber wo ist Paul?»2. E continuavano a parlare della storia della pace separata. C'è perfino stato un capo della Gestapo che mi ha interrogata per ore dopo avermi annunciato: «Sono venuto 2 «Ma dov'è Paul'».

apposta da Berlino per parlare con lei di questa faccenda». Sembrava che avesse un'importanza capitale per loro. Ah, ho dimenticato una cosa... Eddy mi aveva chiesto di raccontare loro una storia: che dopo l'evasione era arrivato a Le Vésinet con parecchi uomini, che questi lo avevano subito portato via con loro, poi lo avevano riportato due giorni dopo. Ho raccontato tutto ciò a Pannwitz, senza però sapere a che cosa mirava3.

Gli interrogatori si svolgono nel modo più piacevole. I tedeschi continuano a chiamare Georgie «Mädchen», le offrono il tè e, quando riparte per Neuilly, le infilano in tasca un sacchetto di caramelle. È chiaro che Pannwitz e i suoi accoliti considerano la compagna del Gran Capo una bella figliola del tutto inoffensiva. Sentiamo lei, invece: Ho sempre avuto la certezza di tenerli in pugno. Bevevano tutto quello che raccontavo loro. Quel famoso “Paul”, per esempio, si sarebbero fatti tagliare la testa che esisteva davvero. Per la pace separata, era la stessa cosa. Avevo detto a Pannwitz che Eddy contava di tornare non appena avesse combinato la faccenda. La cosa lo aveva reso beato e lo aspettava come il Messia. Solo che trovava un po' troppo lunga l'attesa...

Lunghissima. Di qui gli appelli pubblicati in Paris-Soir. Ma saranno notati dall'interessato? Si dà il caso che Pannwitz ne dubiti, perché gli è già accaduto di gridare nel deserto. Dopo l'incur3 Si trattava, evidentemente, di ovviare alle eventuali confessioni delle sorelle di Saint-Germain e spiegar,e bene o male, come mai la prima lettera del fuggiasco era stata impostata a Besançon.

sione a Corrèze, ha fatto domandare dalla stampa parigina: «Georgie! Perché non vieni? Patrick è dagli zii». L'invito è passato inosservato. Se anche non telefona, il Gran Capo continua a scrivere. Pannwitz riceve una terza missiva4. La lettera riprende in tono più vivace i rimproveri espressi nella seconda: Non avete rilasciato nessuno, anzi persistete nel moltiplicare gli arresti. Tutto ciò prova che non siete seri e che è impossibile lavorare onestamente con voi. Capirete che non bisogna assolutamente dare l'allarme al controspionaggio. Del resto, le persone che avete arrestato non hanno nulla a che vedere con la faccenda, e lo sapete bene. Se non li rilasciate, troncherò personalmente il vostro Grande Gioco.

Liberare i prigionieri? Pannwitz acconsentirebbe volentieri se il Gran Capo, anziché opprimerlo di minacce, gli facesse un rapporto relativo ai passi intrapresi presso Mosca. Però, non li rilascerà prima di essere sicuro della buona fede del fuggiasco: sono i suoi ostaggi, soprattutto Georgie. In definitiva, conserva la speranza, sempre più tenue, è vero, di riacchiappare Trepper. Per il momento, la caccia continua. Charles Spaak, fratello di Claude e celebre sceneggiatore cinematografico, viene arrestato a Parigi; con lui è catturata anche la sua compagna, ma Pannwitz la rilascia quasi subito: è incinta5. In Belgio, la Gestapo arresta gli altri membri della famiglia. Dopodiché, i tedeschi procedono al consueto ricatto: saranno tutti 4 La lettera è stata scritta in casa di Lucie. 5 Di quella che diventerà l'attrice cinematografica Catherine Spaak.

fucilati se non consegnano Suzanne. Qualcuno cede, comunica l'indirizzo richiesto. Suzanne Spaak viene arrestata l'8 novembre. *** Pannwitz ignora di avere in mano, con lei, la chiave che apre le porte di una mezza dozzina di organizzazioni clandestine di varia osservanza. Ritiene di avere arrestato un personaggio importante, ma assai poco realistico, che si è lasciato compromettere dal Gran Capo esattamente come le sorelle di Saint-Germain, le signore di Bourg-la-Reine, la vecchia signora May, la brava signora Queyrie... Quando saprà dall'autore, molto tempo dopo, quale parte effettivamente svolse Suzanne Spaak nelle file della Resistenza, esclamerà digrignando i denti: «Ah! Mi ha menato per il naso, quella là, con quelle sue arie da persona per bene! E pensare che non la smetteva di parlarmi delle sue opere pie!...». Ma se il Kriminalrat allora avesse saputo l'importanza della sua prigioniera, l'avrebbe sottoposta alla tortura per strapparle una confessione? Niente di più dubbio. Il terzo fratello Spaak, PaulHenri, è ministro degli Esteri del governo belga in esilio a Londra. Tale circostanza, e la piega preoccupante presa dalla guerra, inducono alla prudenza: Pannwitz è così sensibile alla cosa che chiede a due amici, corrispondenti di guerra della Wehrmacht, di assistere a tutti gli interrogatori di Suzanne Spaak perché possano eventualmente testimoniare della correttezza di cui ha dato prova. Si tratta di una flagrante violazione del segreto cui è tenuto il Kommando, ma il suo capo ritiene cosa ragionevole mettere le mani avanti.

Ovviamente, Pannwitz non è più quello di Praga. *** La sua pazienza è infine premiata: Trepper telefona. Georgie ne ha notizia dalle sue labbra, durante un interrogatorio. Il Kriminalrat le appare amareggiato, deluso. Georgie domanda: «Che cosa ha detto?». «Oh», mormora Pannwitz con voce stanca, «è stato molto evasivo». “Evasivo” era la parola esatta.

Il 17 novembre, tutte le forze di polizia francesi ricevono il seguente dispaccio: Ricercare Jean Gilbert. Si è infiltrato nell'organizzazione poliziesca per conto della Resistenza. È fuggito portando con sé documenti. Catturarlo con tutti i mezzi. Riferire a Lafont.

Seguono i dati segnaletici ed una fotografia di Trepper, alias “Jean Gilbert”. È posta una taglia sul suo capo. L'offerta originale sarà aumentata a tre riprese nel corso dei mesi successivi. I termini del dispaccio sono stati accuratamente soppesati: nessuna allusione alla Gestapo; anzitutto, lascia credere ai destinatari che si tratti di una faccenda intestina della polizia francese: un provocatore si è intrufolato nelle sue fila, ha rubato dei documenti. Anche il riferimento a Lafont ha per fine di sollecitare

lo zelo dei poliziotti: il capo della banda è associato con l'ispettore Bony, una delle grandi figure della Sûreté d'anteguerra; si calcola sulle amicizie che deve aver conservato tra i suoi compagni di un tempo6. Del pari, tutti i comandi e sottocomandi della Gestapo, tutte le sezioni e sottosezioni dell'Abwehr, tutti gli organismi militari, amministrativi o economici dell'occupante – tutto ciò che in Francia e in Belgio è tedesco, insomma –, riceve un avviso ornato del ritratto del Gran Capo e recante la seguente scritta: «Spia pericolosissima. Ricercato». Così, due mesi dopo l'evasione, Pannwitz sguinzaglia alle calcagna del fuggiasco le polizie francese e tedesca... Dopo aver condotto un gioco sottile, in cui si alternavano il ricorso alla forza e quello alla persuasione, la tortura per Katz e il tè per Georgie, le trappole tese dal Kommando e i benevoli inviti di Paris-Soir; dopo aver disposto i fili di una ragnatela abbastanza ampia perché l'evaso ci cascasse, abbastanza elastica perché non temesse di restarci invischiato – in fondo, gli si chiedeva soltanto di mettersi in contatto; dopo aver tessuto per otto settimane tale delicata trama, ecco che la distrugge con un colpo di spada netto... Il fatto è che ormai dispera di mettere in chiaro le intenzioni del Gran Capo. Questi ha tradito il Kommando, oppure continua a tradire Mosca? Nessuno lo sa. E l'incertezza durerà fin tanto che Trepper si limiterà a spedire lettere vaghe e a fare telefonate “evasive”. Egli può a suo piacimento rilanciare il “Grande Gioco”, oppure bloccarlo, a seconda se deciderà di mostrarsi rassicurante o inquietante. L'iniziativa è passata in mano sua: ecco ciò che 6 Sapendo quale disprezzo gli votavano costoro, sembra che la manovra non avesse grandi fondamenti psicologici.

Pannwitz non può acconsentire. I suoi piani non possono dipendere dal capriccio di un prigioniero evaso, anche se si tratta del Gran Capo. E poi, ha 32 anni, l'età in cui si preferisce recidere il nodo gordiano, anziché tentare di scioglierlo. Il fatto di abbandonare Trepper a tutte le polizie di Francia e di Germania non è privo di conseguenze. Tutte quelle migliaia di manifesti appesi alle pareti degli uffici, i bollettini di ricerca spediti in gran copia, evidentemente daranno l'allarme all'avversario, anche se il “controspionaggio” tanto vantato è solo un mito: ci vuole molto meno per mettere in allarme l'apparato di sicurezza del Partito comunista. Pur sapendo ciò, Pannwitz pone in atto l'operazione. Crea la difficoltà in piena cognizione di causa. La cattura del Gran Capo gli interessa dunque a tal punto? Certo, ma non sarebbe bastata a decidere il Kriminalrat, perché malgrado tutto rimane aleatoria. Il suo piano ha per obiettivo non già una cattura dubbia, bensì una neutralizzazione sicura. L'emittente di Kent è rimasta nel sud della Francia (è installata nella villa della sarta Coco Chanel, la cui cantina ben fornita rende beati i radiotelegrafisti tedeschi). Occorreva che l'apparecchio restasse lì se si voleva usarlo per il Funkspiel, dato che Mosca poteva procedere ad una verifica tecnica mediante localizzazione del luogo di origine del fascio di onde. Pannwitz è naturalmente convinto che il Direttore ignori la presenza di Kent a Parigi: per il Centro, il Piccolo Capo è sempre nel sud, accanto alla sua emittente. Heinz Pannwitz giocherà sul malinteso. Trasmette al Centro un messaggio a firma di Kent mediante il quale questi chiede l'autorizzazione di recarsi a Parigi: ha l'impressione che la rete funzioni male e vorrebbe accertarne i motivi. Autorizzazione accordata. Pannwitz, allora, spedisce un mes-

saggio in cui Kent esprime il proprio stupore: «Che succede a Trepper? Vedo dappertutto avvisi di ricerca che lo riguardano! Sarebbe scappato da un carcere tedesco». Risposta del Centro: «Evitate Trepper. Che il Partito non gli dia nemmeno un tozzo di pane. Per noi, è un traditore». Pannwitz ha raggiunto il suo scopo: togliere l'iniziativa dalle mani del Gran Capo. Questi non potrà più minacciarlo di denunciare il Funkspiel: checché dica o faccia, Mosca non gli crederà. Il colpo di audacia del Kriminalrat lo ha eliminato pari pari dal gioco: è neutralizzato. Operazione interessante, ma le sue conseguenze sono enormi: perché il telegramma di Kent rivela a Mosca che Trepper era, da mesi, in mano alla Gestapo e che tutti i messaggi radio del Gran Capo rientravano, da mesi, in un tentativo di intossicazione tedesco! Le fondamenta del Funkspiel sono distrutte di colpo; l'indispensabile fiducia del Centro, così pazientemente conquistata da Giering, è annientata dal suo successore. Su quale base Pannwitz conta ora di costruire la sua opera? Spera davvero che, dopo un tale rivolgimento, Mosca continuerà ad accordare serena fiducia ai messaggi provenienti dalla Francia? Non si rende conto che il suo colpo di audacia è solo una follia e che, volendo eliminare Trepper ad ogni costo, schiaccia sotto la zampa dell'orso il “Grande Gioco”, in una con il suo avversario? *** C'è in ciò uno stupefacente mistero, e poiché l'autore ha impiegato tre anni a scoprirne la chiave, il lettore forse accetterà di attendere la rivelazione ancora per qualche pagina...

IL CENTRO

XXXIV. MÄDCHEN E MAMY

L'anno 1943 volge alla fine. L'avvicinarsi del Natale bastava per mettere in agitazione i “topi grigi” di Saint-Germain, ma l'improvviso annuncio della visita del maresciallo Goering porta al culmine la loro eccitazione. In preda ad una frenesia casalinga, lustrano ogni centimetro quadrato dell'enorme edificio. «Non c'era niente da ridire», ammette la signora Quayrie. «Per essere tirato a pomice, lo era». Goering passa tutto in ispezione, accorda un bonario sorriso a Patrick e se ne va verso altri piaceri. Con tutta probabilità, sarebbe rimasto molto sorpreso se qualcuno gli avesse svelato che quel biondino dallo sguardo vivace era il figlio adottivo del capo dell'Orchestra Rossa. Secondo la tradizione tedesca, feste e banchetti cominciano la quarta domenica precedente il Natale. Ben nutrita, riposata, la signora Quayrie non si preoccupa troppo di sua madre e suo marito: Schneider gliene dà notizie soddisfacenti con regolarità. Il 24 dicembre, sontuoso cenone e champagne a fiumi. La signori Quayrie sede alla destra del comandante del centro. Come tutti, l'ufficiale adora Patrick: non si stanca di infilargli in testa il suo berretto e di sollevarlo a braccia tese urlando : «Tu, soldato!». Ma

l'8 gennaio, tra la costernazione generale, riceve l'ordine di rimettere in libertà i due ospiti. Piangendo a calde lacrime, Grete e Margarete accompagnano i loro protetti alla stazione di SaintGermain. La separazione è oltremodo commovente. Una triste sorpresa attende la signora Queyrie a Suresnes: la sua villetta è in uno stato disgustoso. Pannwitz vi aveva insediato a mo' di trappola alcuni dei beceri di Lafont; costoro si sono abbandonati alle loro consuete facezie: escrementi nei cassetti, eccetera. Al momento di andarsene, hanno lasciato aperti i rubinetti di casa, sicché un rivolo d'acqua cola fino in strada. La signora Queyrie si mette al lavoro. *** Anche tutti i sospetti arrestati dal Kommando vengono rilasciati. Erano di impiccio. E Pannwitz può permettersi il lusso di fornire questa soddisfazione al Gran Capo, ora che ha ripreso in mano l'iniziativa. Anche Trepper non gode più della fiducia del Centro, meglio che stia zitto riguardo al “Grande Gioco”. Dopo la liberazione di Patrick, Pannwitz fa pubblicare sulla stampa parigina il seguente annuncio: «Il bambino sta bene. È tornato a casa». Una quarta lettera del fuggiasco subito conferma al Kriminalrat la giustezza del suo ragionamento. La lettera ha un tono stanco e deluso: Sono stanco, ne ho abbastanza e preferisco rinunciare alla partita. Potete continuare il “Grande Gioco” senza preoccupazioni, a patto che non ricominciate ad arresta-

re la gente. A queste condizioni, vi prometto di non interferire.

Il Gran Capo non è più a casa di Lucie. Si è trasferito in Avenue du Maine da uno scapolo che adora il bel sesso e che gli cede una stanza. Il padrone di casa crede di offrire ospitalità ad un profugo della Francia settentrionale che ha perso tutti i familiari sotto un bombardamento. In fondo, la lettera è sincera: Trepper è fuori gioco. Ha potuto finalmente incontrasi con Kovalski, fare avvertire Mosca che il “Grande Gioco” continuava. Però continuerà senza di lui. È il caso di stupirsi se i mesi successivi saranno più duri da sopportare degli anni febbrili che hanno preceduto l'arresto, dei mesi angosciosi che lo hanno seguito? La brusca interruzione della tensione lo lascia perplesso, smarrito. Un'elementare prudenza vieta al Partito di impiegarlo in altri compiti: braccato da tutte le polizie operanti in Francia, Trepper è fuggito come la peste. Ci si limita a mantenerlo versandogli dei sussidi. Le banconote sono nuove di zecca, troppo nuove, e il Gran Capo ammazza il tempo cincischiandole tra le dita. Di rado, un'ondata viene a sconvolgere quel mare di noia. Mentre passeggia per Rue de Vaugirard, Trepper incrocia Willy Berg. Il tedesco non lo riconosce: è molto dimagrito e si è lasciato crescere un bel paio di baffi da aristocratico polacco. Un'altra volta si arrischia ad andare a recuperare una valigia di indumenti da una maestra di scuola che abita a Pigalle. La donna lo accoglie spaventata: di recente, Kent è venuto a chiederle se lo aveva visto; le ha mostrato una lettera del maresciallo Pétain nella quale Trepper era denunciato come «cattivo

francese», cui tutti i «bravi francesi» dovevano impedire di nuocere, consegnandolo alla polizia 1. Alla risposta negativa dell'insegnante, Kent le ha raccomandato di trattenere Trepper il più a lungo possibile, nel caso si fosse fatto vivo, e di chiamare un certo numero telefonico. Perché no? È domenica. Il Kommando sarà andato in vacanza come al solito e avrà lasciato in Rue des Saussaies soltanto un uomo di guardia. «Avanti! Gli telefoni subito! Vedrà che se la prenderanno calma...». Tre ore dopo, due automobili frenano davanti alla casa. *** Alla fine di gennaio, la signora Queyrie vede a sua volta due Citroën davanti al cancello. Il Kommando, Pannwitz in testa, fa irruzione nella villetta e fruga in tutte le stanze. Al termine dell'inutile perquisizione, un tedesco annuncia alla signora Queyrie: «Il capo le fa i suoi complimenti: ha una delle case più pulite di Francia». Pur essendo meno complimentoso, Schneider resta più efficiente. Viene regolarmente a Suresnes a recare notizie dei prigionieri di Fresnes e porta sempre un regalo per Patrick: qualche uovo fresco, frutta, eccetera. Poi si incarica di consegnare dei pacchi ai detenuti («Per far loro capire che glieli mandavo io», spiega la signora Queyrie, «li avvolgevo in carta che trovavo in casa»). Infine, acconsente a trasmettere loro delle lettere. Contrariamente a tali pratiche clandestine, le visite di Gerogie hanno un carattere ufficiale. La signora Queyrie e Patrick si 1 Ovviamente, un falso del Kommando.

recano in Rue des Saussaies, da dove Schneider li accompagna in macchina a Neuilly. Siccome il tedesco assiste ai colloqui, Georgie, che non lo conosce, preferisce parlare con la visitatrice in un ermetico gergo. La precauzione sembra superflua alla signora Queyrie, tanto più che l'atmosfera a Neuilly è tutt'altro che drammatica: «Le giuro che aveva l'aria di trovarsi perfettamente a suo agio. E di essere trattata bene. Si figuri che aveva una camera tutta per lei e dei domestici che la servivano». *** La camera è chiusa a chiave e i domestici sono guardie slovacche, ma è vero che la cattività sarebbe dolce senza la noia profonda che grava sulla prigioniera. Ha ottenuto che qualcuno andasse a Le Vésinet a prenderle il tutù e le scarpette da ballo; fa esercizi sulle punte per ore con grande piacere degli slovacchi ammassati davanti al buco della serratura, ma certo non si può ballare da mattina a sera. Un giorno, Pannwitz entra nella stanza, vede il tavolo tirato al centro, una sedia sopra il tavolo, un'altra sedia sopra la prima, e poi ancora uno sgabello, e in cima, vicino al soffitto, Georgie che gli fa le boccacce. Ma non si può mostrare la lingua a Pannwitz da mattina a sera. Improvvisamente, tutto cambia. Racconta Georgie: Passavo ore ed ore alla finestra, al primo piano. La finestra dava sul retro della palazzina e vedevo i prigionieri passeggiare attorno all'orticello coltivato dal portinaio Proudhomme. Si scambiavamo dei segni, ci sorridevamo,

capisce. E allora, ecco, un prigioniero – quello che portava le fasce mollettiere – ha approfittato del fatto che la mia finestra era aperta per consegnarmi un foglio contenente una caramella. Si trattava di una lettera che iniziava con le parole «Ad una giovane prigioniera», come la poesia di Chénier, sa. Era davvero carina, bellissima. Non saprei descriverne lo stile... Molto poetico e molto militare insieme. Del resto, era firmata «Generale Dumazel». Alla fine diceva: «Spero che mi risponderà. Infili il suo biglietto nel tubetto di aspirina nascosto sotto il cespuglio». Naturalmente ho risposto e così ha avuto inizio un vero epistolario. Dopo, c'è stato un altro militare, il generale Delmotte. Ho tenuto una corrispondenza anche con lui. Delmotte era già più audace, mentre il generale Dumazel è sempre rimasto molto discreto, molto poetico, nello stile Chénier. Delmotte, invece, mi ha confessato che si era innamorato di me. Ma il più forte di tutti era Dungler. Ah! Quello non lo fermava niente! Aveva notato che il finestrino dei gabinetti era attiguo alla finestra del mio spogliatoio. Mi ha teso una lunga lettera nella quale esordiva presentandosi. Mi diceva che era uno dei capi della Resistenza in Alsazia. Dopo, non ha fatto che chiedermi di andare al gabinetto. Sa, era una cosa abbastanza complicata: bisognava suonare il campanello perché una guardia venisse ad aprire la porta e accompagnasse il prigioniero al gabinetto restando fuori ad aspettarlo. Ci scambiavamo le lettere attraverso il finestrino. Ma Dungler ha fatto ben altro: ha corrotto una guardia, Hans, un piccolo tedesco bruno e molto gentile. Lo spediva alla “Brasserie Alsacienne” del Fauburg Montmartre, il cui padrone era suo amico, e

Hans gli riportava cibarie e bottiglie di vino. Io ricevevo tutto attraverso il finestrino. Bisognava restituire la bottiglia il giorno dopo; allora, capisce, la bevevo la sera e siccome era Borgogna, dopo averla vuotata ero tutta allegra. In seguito, Dungler è riuscito ad ottenere da Hans un doppione della chiave della sua stanza. Ciò gli ha permesso di uscirne nottetempo, ed è venuto a prendere l'impronta della mia serratura con la mollica di pane. Hans ha fatto fabbricare un altro doppione. È stato così che abbiamo potuto vederci. Ma che cosa emozionante! Il corridoio era coperto da uno spesso tappeto che attutiva il rumore dei passi, sicché avevamo paura di vedere entrare qualcuno da un momento all'altro. E una volta è successo; Dungler ha fatto appena in tempo a nascondersi nello spogliatoio. Mi è balenata l'idea di approfittare della chiave per scappare. Una notte sono arrivata fino alle scale, con il cuore in tumulto, ma non ho osato spingermi oltre e sono rientrata in camera mia in fretta e furia. Di sotto c'erano le guardie. E poi mi avevano detto che, se tentavo di scappare, l'avrebbero fatta pagare a Patrick. I miei tre innamorati mi rubavano quasi tutto il tempo: passavo ore a scrivere e loro a rispondermi. Quando non avevamo carta, strappavamo i risvolti dei libri che ci davano da leggere: una collezione completa della Pléiade. Ne ho perfino aprofittato per leggere tutto Balzac.

*** Una prigione di lusso, dolce al corpo, non troppo penosa all'animo, ma dalla quale si può essere tratti da un momento all'altro per finire sul patibolo; e, in quella prigione all'ombra della ghi-

gliottina, amori lievi e teneri perché anche il cuore vuole la sua parte; la frivolezza dei bigliettini amorosi, le promesse «per tutta la vita» fatte con facilità, quando la vita può avere fine all'alba successiva; il cuore offerto a ciascuno fin tanto che continua a battere; i fuochi di paglia cui si accendono gli amori che non si avrà il tempo di vivere – abbiamo già conosciuto qualcosa del genere, ma certo, è la «Maison Belhomme» della Rivoluzione francese, la celebre casa di salute dove si rifugiavano, dietro congruo compenso e grazie alle loro conoscenze, gli accusati più privilegiati del tribunale rivoluzionario, e dove anche costoro intrecciavano, in attesa di esaurire il loro gruzzolo, uno strano balletto amoroso che aveva per coreografo un boia... Ah, cara Georgie, non me ne voglia troppo se confesso che ascoltandola raccontare le sue schermaglie amorose con gli exgenerali, non potevo fare a meno di pensare all'eroina di romanzo che il capriccio dello scrittore introduce nella «Maison Belhomme» (la sua era, in un certo qual modo, la «Maison Proudhomme») e che si chiama Caroline Chérie... Lei ne possiede la bellezza, il fascino, il dono della leggerezza quando i tempi sono spietati, e soprattutto l'insolente capacità di passare attraverso gli eventi senza esserne toccata. Ma il paragone non regge, lo so: Caroline aveva molti amori, e lei ne aveva uno solo. Era davvero graziosa la sua prigione di un tempo, il giorno in cui sono andato a visitarla. Tutt'attorno erano sorti grandi edifici nuovi, ma a rompere il loro rigoroso allineamento ecco la palazzina, anacronistica, un tantino logora e in stato di completo abbandono: si sarebbe detto che nessuno vi fosse entrato da quando se n'erano andate le guardie slovacche. C'erano liane sui rami degli alberi, erbacce che giungevano alla scalinata di ingresso, la felce

regnava sovrana. Con la casa dalle imposte chiuse, i muri crepati, tutto faceva pensare al feudo di un qualche Grand Meaulnes. Le porte erano sprangate e il campanello non funzionava più. I vicini non ne sapevano nulla. Allora, nell'impossibilità di entrare in quel luogo dal quale tante creature umane avevano desiderato uscire, sono rimasto un'ora, o due, non lo so, piazzato davanti alla cancellata arrugginita, e vedevo il Gran Capo girare attorno al prato, Boemelburg incespicare sui gradini di ingresso; vedevo Dungler passarle la bottiglia di Borgogna attraverso il finestrino e la sua mano, Georgie, tendergli un biglietto scritto sulla carta velina della Pléiade, e Pannwitz che va e viene con il suo passetto da gallo frettoloso, e Margarete che prende il sole, e Kent che la osserva da una finestra. Ah, quel giorno, vi vedevo tutti come se fossi stato uno dei vostri! Un anno dopo, sono tornato a Neuilly a scattare qualche fotografia: c'era soltanto un enorme cratere sormontato da un cartello che annunciava la costruzione di un condominio di lusso. Ne fui toccato come se avessero abbattuto qualcosa che aveva fatto parte della mia vita, poi deluso per motivi pratici: le fotografie. Ma non si può fotografare un sogno – ed era irreale come un sogno (non è vero?), quel tempo di Neuilly in cui, in piena guerra mondiale, in un asilo della Gestapo, la sua apparizione, Georgie, alla finestra toccava il cuore di generali dai capelli grigi, e li induceva ad irrigidire il polpaccio avvolto nelle fasce mollettiere, mentre giravano attorno ai legumi del portinaio Proudhomme... ***

Ai primi di maggio del 1944, Georgie viene condotta nell'edificio dove sono stati giudicati, un anno prima, Alfred Corbin, Keller e gli altri. La fanno accomodare in una saletta di attesa. Improvvisamente, fa il suo ingresso un uomo pallido come un morto. Guarda Georgie, sembra riconoscerla ed articola con voce roca: «Mi hanno condannato a morte». Lei esclama: «Ma è spaventoso!». Una guardia impedisce loro di continuare. Georgie cerca di ricordarsi dove ha visto quell'uomo. Sì, nell'albo di Pannwitz; il Kriminalrat le ha mostrato la sua fotografia. Lei è certa che si tratti del dottor de Jonker, che doveva farla passare in Svizzera2. Ora tocca a Georgie. Viene introdotta in aula. Boemelburg fa parte della corte. Sono presenti anche Pannwitz e Berg ma, al cospetto dei giudici, ostentano freddezza nei confronti della loro Mädchen. Georgie non compare in veste di imputata, bensì come testimone, e deve rispondere ad un interrogatorio serrato riguardante soprattutto Grossvogel. Si sforza di dire il meno possibile. Siccome la fatica le fa incurvare le spalle, Berg la sprona rudemente: «Ma stia dritta!». La riportano a Neuilly, spossata. Quell'udienza, in cui ogni sua frase rischiava di portare un uomo alla morte, rimarrà uno dei suoi ricordi più orribili. Una mattina dello stesso mese, la signora Queyrie è tirata giù dal letto da un agente del Kommando, che le ordina di consegnare Patrick a certi vicini di casa e di seguirlo. La brava signora Queyrie entra nella sala di attesa del tribunale alle 7,30 del mattino, e qui viene raggiunta da due donne che si presentano 2 Ma si inganna. Il dottor de Jonker fu effettivamente molestato dalla Gestapo, ma riuscì a discolparsi malgrado l'elemento schiacciante costituito dalla lettera che gli aveva indirizzato Antonia Lyon-Smith. Noi non sappiamo chi fu l'uomo che fece tanta impressione a Georgie de Winter.

così: «Siamo le signore di Bourg-la-Reine». La signora Queyrie domanda: «Sapete che cosa ci faranno?». E quelle rispondono: «Ma, signora, ci processano!». Le signore aspettano la sentenza con perfetta serenità, convinte che la loro innocenza sarà riconosciuta. Si sbagliano. La signora Parrend, direttrice della “Maison Blanche”, condannata alla deportazione, tornerà dalla Germania, ma solo per morire qualche anno dopo dei postumi di una malattia contratta in campo di concentramento; ignoriamo la sorte della sua collega. Le sorelle di Saint-Germain saranno deportate; ne tornerà una sola. Antonia Lyon-Smith riesce ad avere salva la vita, aiutata forse dal fatto che un membro del Kommando si era innamorato pazzamente di lei. La signora May è condannata a morte, ma sarà graziata dal maresciallo Goering. Anche Suzanne Spaak è condannata a morte. Poco dopo, sua suocera, la signora Spaak, riceve da lei una lunga lettera scritta a Fresnes. Suzanne le racconta la sua vita di prigioniera (con due stuzzicadenti, a mo' di ferri da calza, ha fabbricato una cravatta per suo figlio; è riuscita a far sbocciare nella scanalatura della finestra un fiorellino che infila nella busta perché sia consegnato a sua figlia), ma soprattutto annuncia di essere stata condannata a morte e chiede alla signora Spaak di trasmettere a Claude una proposta della Gestapo: se accetta di costituirsi, sua moglie sarà graziata e rimessa in libertà. Quanto a lui, non avrà fastidi; si limiteranno a fargli qualche domanda, dopo di che sarà assegnato al domicilio coatto con il solo obbligo di presentarsi ad intervalli regolari al commissariato di polizia del suo quartiere. Suzanne conclude scongiurando il marito di costituirsi, per amore suo e dei bambini.

La signora Queyrie è introdotta in aula solo alla fine del pomeriggio. Ha scorto il marito, il viso gonfio e il colorito giallastro. Ha anche avuto un colloquio con il suo avvocato, un ufficiale tedesco abbastanza comprensivo che parla perfettamente il francese. Al cospetto della corte, si attiene alle deposizioni rese in precedenza: è vero che è la governante del figlio del Gran Capo (per la Gestapo, infatti, non esistono dubbi circa la parentela; molto più tardi, Pannwitz non demorderà: «Le dico che è suo figlio! La somiglianza non può ingannare!»); è del pari vero che ha dato ospitalità a Trepper per una settimana, ma era all'oscuro delle sue attività. La assolvono. Si ritrova sul marciapiede di Rue du Faubourg-Saint-Honoré per scoprire che era uscita di casa senza un soldo in tasca. Il suo avvocato esce a sua volta dallo stabile, la vede smarrita e le dà alcuni biglietti della metropolitana e dell'autobus. Siccome lei si preoccupa di come potrà rimborsarlo, lui le dice con un sorriso: «Lasci perdere! E che questo le porti fortuna...». Alla fine del mese, sua madre esce da Fresnes dopo 8 mesi di detenzione, senza essere stata sottoposta a giudizio. Riferisce che a Fresnes c'è una donna straordinaria che tiene alto il morale delle detenute: Suzanne Spaak. In giugno, anche il signor Queyrie torna a Suresnes; era stato condannato a 8 mesi di carcere. Un prigioniero compassionevole gli aveva fatto consegnare un paio di calzerotti: Leon Grossvogel, che quanto prima sarà giustiziato3. *** 3 Assieme, crediamo, a Vassili ed Anna de Maximovitch.

Margarete Barcza, il 21 aprile, è stata colta dalle doglie del parto. Pannwitz la fa entrare in una clinica privata di Neuilly senza neppure specificare che si tratta di una prigioniera. Qui dà alla luce un bambino che decide con Kent di chiamare Michel. Il suo amante va a trovarla tutti i giorni, accompagnato da tre membri del Kommando. Il 2 maggio, un'automobile viene a prendere madre e bambino. Ma, anziché portarli “a casa”, vengono condotti in Rue de Courcelles, a Parigi, in un palazzo infinitamente più sontuoso di quello di Neuilly: la residenza del miliardario Veil-Picard, grande collezionista di quadri. La Wehrmacht ha requisito gli alloggi di servizio già nel 1940; l'occupazione si limita ad alcuni anziani soldati incaricati di riparare autocarri e di riverniciarli. Poi, i saccheggiatori specializzati del maresciallo Goering sono venuti a razziare quadri e mobili. Infine, nell'aprile del 1944, Pannwitz decide di insediarvi il suo Kommando. Il signor Veil-Picard figlio spiega: Non eravamo considerati né come ebrei, né come ariani. Una situazione un po' ambigua. Avevamo abbandonato il palazzo, ma mio padre ci andava una o due volte alla settimana. Quando si sono insediati quei nuovi signori, mi ha mandato a spiegare loro che non ne avevano il diritto, dato che non eravamo ebrei puri, eccetera. Mi hanno fatto entrare in una stanza... Rivedo ancora oggi quei tedeschi grandi e grossi – erano in due – con quegli occhi grigi e freddi e l'impermeabile fino alla caviglia. Ho cominciato a raccontare loro la mia storia, ma uno dei due ha alzato la mano su di me e ho capito che era meglio non insistere. Me la sono data a gambe, glielo assicuro...

Il timore ossessivo di un colpo di mano della Resistenza induce Pannwitz a prendere precauzioni straordinarie. Fa correre voce nel vicinato che il suo Kommando dipende dalla Gendarmeria militare e non dalla Gestapo. Poi, mette il palazzo in condizione di poter sostenere un assedio. La porticina che si apre per mezzo di un impulso elettrico azionato dalla guardiola del portinaio rimane sbloccata, ma Pannwitz fa barricare il grande portone con due enormi travi (si possono vedere ancora oggi gli anelli che le trattenevano). Una mitragliatrice, piazzata sulla scalinata di ingresso, è puntata sul cortile; nel vestibolo un intero arsenale a portata di mano. A sinistra del palazzo si stende un'area edificabile che funge da parco-macchine della Wehrmacht. Pannwitz fa aprire una breccia nel muro di limitazione, all'altezza del palazzo. In tal modo l'andirivieni delle sue Citroën non attireranno l'attenzione dei curiosi, i quali crederanno che vadano a posteggiare nel parco-macchine. I prigionieri smontano, varcano la breccia e si infilano nella porta che si apre proprio di fronte, su un fianco del palazzo. La porta conduce alla cantina, e anche qui Pannwitz opera grossi cambiamenti; due stanzini vengono trasformati in celle con giacigli a castello. L'installazione di una pesante porta blindata e di due catenacci rende impossibile qualsiasi tentativo di evasione. Infine, al secondo piano del palazzo, una camera di servizio viene trasformata in “cella di lusso”: sbarre alla finestra e catenacci sul lato esterno della porta. Il mobilio razziato da Goering viene sostituito con mobili scovati un po' ovunque. In particolare, Pannwitz fa trasferire in Rue

de Courcelles il mobilio completo della casa di campagna degli Spaak, a Choiseul; si serve anche di quello di Rue de Beaujolais. *** Margarete racconta: Avevano organizzato una grande festa in occasione del mio ritorno; mi hanno detto: «È per celebrare il suo matrimonio con Kent». Effettivamente, sembrava proprio un banchetto di nozze. Alla fine del banchetto, mi hanno offerto dei regali: una culla ed una carrozzina davvero magnifiche per Michel. Pannwitz mi ha chiesto che ci teneva ad essere il padrino e mi ha dato dei consigli: «Se di notte piange, non lo tolga dalla culla: gli darebbe il vizio. E non si preoccupi se ci sveglia, non importa». Da quel giorno mi hanno chiamata tutti “Mamy”.

Pannwitz ha fatto preparare per la coppia e il bambino un appartamento privato di due locali; in un armadione è sistemato uno spogliatoio per signora, completo di tutti gli accessori. Il Kommando viene in visita spesso e volentieri, e non perde occasioni per sfogarsi in grembo a “Mamy”: dopo aver ucciso un uomo al momento dell'arresto – il suo primo morto –, Karl Ball verrà a piangere sulla spalla per un'intera notte; sempre con lei, altri evocheranno a lungo la sorte crudele che si è abbattuta su Eric Jung. «Non ne poteva più», dice Margarete, «era proprio stufo, e beveva molto: era destino che finisse male». Una sera, Jung rientrò ubriaco fradicio; a quell'epoca aveva una camera al terzo piano di

un albergo requisito. Un ufficiale di sua conoscenza prese l'ascensore con lui e lo spinse gentilmente fuori quando arrivarono al terzo piano, nonostante le urla di Jung che pretendeva di salire più su. Pazzo di collera, la SS sfoderò la pistola, scalò due piani e vuotò il caricatore sull'ufficiale nel momento in cui usciva dalla cabina. Condannato a 10 anni di lavori forzati, Jung interpose appello per sentirsi condannare alla pena di morte. Alla fine sarà aggregato ad un battaglione di disciplina in servizio sul fronte russo, dove scomparirà. Le porte del suo appartamento restano sempre sbarrate, ma ogni pomeriggio, ad un'ora fissa, Margarete può portare a passeggio Michel in giardino; dà il cambio al prigioniero chiuso nella “cella di lusso”, che altri non è se non l'ucraino Yefremov. Ha del pari il permesso di uscire il giovedì pomeriggio per andare a trovare suo figlio René, e assiste perfino alla cerimonia della sua prima comunione in compagnia di Kent e di tre tedeschi. Costoro le permettono di pranzare con René, tornano a prenderla al dolce, la riportano in Rue de Courcelles perché allatti Michel; dopodiché Margarete mette il piccolo in carrozzina e va tranquillamente a trovare René, cui ha dato appuntamento per le 6; passano la serata assieme. «Avrei potuto evadere cento volte, naturalmente, ma sapevo che avrebbero ucciso Kent...». Non è sicuro. Il russo è diventato troppo prezioso. Oltre alla sua collaborazione al “Grande Gioco”, sta per attuare una mistificazione magistrale a spese della Resistenza. *** Tutto ha avuto inizio con un messaggio del Direttore:

Lavorava un tempo per noi Ozols Waldemar, alias “Solja” stop ripeto Ozols Waldemar ex-generale lettone stop preso parte alla guerra nelle file repubblicane spagnole stop fornito informazioni su spostamenti truppe tedesche stop aveva una rete stop abbiamo consegnato un'emittente stop “Solja” vissuto a Parigi indirizzo sconosciuto stop vissuto presso un dentista stop ha anche una famiglia stop diteci se conoscete esistenza “Solja” e natura della sua attività stop siate prudente stop i Verdi 4 interessati subito attività “Solja”.

Questo messaggio è trasmesso a Kent il 14 marzo 1943, quattro mesi dopo l'arresto di Trepper. Giering, che è ancora alla tesa del Kommando, vi scorge la possibilità di mettere le mani su una nuova rete sovietica: la Gestapo riceve l'ordine di cercare Ozols. Nel luglio successivo scopre il suo nascondiglio parigina: Villa Molitor 24. Subito Kent informa il Centro che ha trovato Ozols. Il Direttore gli ordina di mettersi in contatto con lui, spedendogli una lettera firmata “Z”. Kent propone per iscritto a Ozols di incontrarsi con lui il 1° aprile 1943 al caffè “Dupont”, in Place des Ternes. Il generale si presenta all'appuntamento. Non ha motivo alcuno di diffidare del suo interlocutore, dal momento che questi ha firmato la lettera “Z”, segno di riconoscimento stabilito dal Centro per un'eventuale ripresa dei contatti. Del resto, se ancora ce ne fosse bisogno, poche frasi basterebbero a rassicurarlo; Kent, come tutti quelli della sua generazione, parla il russo “moderno”. In ragione delle mescolanze etniche intervenute dopo il 4 Nomignolo preferito del Direttore per designare i tedeschi.

1918, dell'influenza della radio e della generale proletarizzazione, tra il russo parlato prima della Rivoluzione e il russo “moderno” c'è altrettanta differenza che tra l'inglese e l'americano. Ozols è quindi perfettamente convinto di avere a che fare con un giovane ufficiale sovietico, e non con un figlio di emigrati al servizio della Germania. Gli racconta la sua storia. Ex-combattente delle Brigate Internazionali, dopo la disfatta repubblicana si è rifugiato in Francia. Nel 1940, l'addetto militare aeronautico dell'ambasciata sovietica a Parigi lo ha incaricato di creare una rete di spionaggio. Ozols ha reclutato una decina di agenti e ha cominciato a spedire rapporti. Quando i diplomatici sovietici hanno lasciato Parigi, l'addetto militare gli ha affidato un'emittente, ma Ozols non è riuscito a trovare un pianista esperto e i suoi tentativi di collegarsi con Mosca sono risultati vani. Presentendo, poco dopo, di avere alle calcagna la Gestapo (due suoi agenti sono stati arrestati), è andato a nascondersi in Normandia, aspettando fino al 1943 prima di tornare a Parigi. Ora è disponibile, pronto a riprendere il lavoro. Ozols accenna al fatto di essere stato in contatto con il Gran Capo nel 1940? La cosa deve sembrargli priva di interesse. Ignora questo particolare essenziale: il Centro aveva raccomandato a Trepper di osservare un'estrema prudenza nei suoi rapporti con Ozols, perché questi era sospettato di lavorare contemporaneamente per Mosca, per il Deuxième Bureau e per la Gestapo! Kent gli ordina di raccogliere i resti della sua rete e di rimpolparli reclutando tecnici e ufficiali francesi in grado di fornire informazioni di ordine politico, economico e militare. Gli versa

un anticipo di 10.000 franchi. Il suo stipendio mensile sarà di 12.000 franchi. Quattro mesi dopo, nel dicembre del 1943, Ozols viene messo in contatto da un'amica comune con Paul Legendre, un capitano della riserva di 65 anni. Questi è stato per tre anni il capo della rete Mithridate per la zona di Marsiglia; Mithridate è una delle più importanti organizzazioni di resistenza francesi. Nella primavera del 1943, un'offensiva della Gestapo ha costretto Legendre alla fuga; si è rifugiato a Parigi, ma ha perso il contatto con i suoi capi; nessuno più gli dà il cambio alla sua “cassetta delle lettere”. Anche egli è disponibile e pronto a lavorare. Ozols gli rivela la propria appartenenza ai servizi sovietici: Legendre accetta di entrarne a fare parte? «Sì, a patto che l'obiettivo principale sia la lotta contro i tedeschi». Il generale lettone, allora, gli annuncia pomposamente che sarà iscritto con il numero di matricola 305 nella rete B del servizio di spionaggio russo. Riceverà 6.000 franchi al mese. Nel gennaio del 1944, Ozols organizza un incontro tra Legendre e Kent, capo della rete B. Durante il colloquio, Legendre accenna al fatto che sua moglie è stata arrestata e deportata. L'altro esprime la propria compassione e promette di occuparsi della sventurata. Probabilmente lì per lì Legendre crede ad una semplice vanteria piuttosto di cattivo gusto, ma qualche settimana dopo è raggiunto dalla moglie rimessa in libertà. Dopo di che, pieno di ammirazione per la potenza dei servizi russi, il capitano Legendre è dedito anima e corpo a Kent. Gli consegna la lista completa dei suoi antichi agenti di Marsiglia, cosa che permetterà alla Gestapo di infiltrare Mithridate e di risalire fino ai suoi capi; ma si consacra, soprattutto, all'ope-

ra consistente nel gettare le basi di una nuova organizzazione clandestina. D'accordo con Kent, la Francia viene suddivisa in 8 zone militari; Legendre dirigerà le zone di Marsiglia e di Parigi. Il suo stipendio è portato a 12.000 franchi, più 50.000 franchi al mese per gli agenti. Nel sud della Francia, le sue truppe sono già appostate; nella regione parigina il reclutamento e l'inquadramento sono perseguiti attivamente. Legendre arruola in particolare Maurice Viollette, ex-ministro della Terza Repubblica, sindaco di Dreux, che si trova in tal modo imbarcato su una galera della Gestapo, pur credendo in perfetta buona fede di remare per gli Alleati... In partenza, si trattava soltanto di una classica operazione di infiltrazione e di manipolazione della Resistenza. Ma con la primavera del 1944, e le voci sempre più precise circa l'imminenza dello sbarco alleato, un progetto di stupefacente audacia prende forma nella mente fantasiosa del Kriminalrat Pannwitz: perché non servirsi dei gruppi di Legendre per trasmettere alla Gestapo dopo lo sbarco, e dalle retrovie stesse del fronte alleato, le informazioni di cui necessiterà il quartier generale tedesco per montare la sua controffensiva? È proprio a questa degna operazione che viene adibito Kent dopo la nascita del figlio. Ci vuole astuzia e anche tatto perché, a priori, quei bravi tipi della rete B potrebbero stupirsi che si chiedesse loro di continuare il lavoro dopo la liberazione. Kent esige che Legendre gli presenti ad uno ad uno tutti i suoi radiotelegrafisti. E a ciascuno tiene questo discorsetto: Londra e Washington non informano Mosca dei loro piani militari, ed è un vero peccato, perché ciò impedisce la

messa a punto di una strategia comune. Non si sa neppure se il prossimo sbarco sarà un semplice colpo di mano, come a Dieppe, oppure un'operazione di grande portata. Informandoci sul numero e la natura delle forze sbarcate, permetterete allo Stato Maggiore sovietico di farsi un'idea più precisa e di armonizzare la sua strategia di conseguenza, cosa che affretterà la sconfitta della Germania.

Certi pianisti ribattono che è una storia che non sta in piedi, ma altri sono sensibili al ragionamento di Kent e accettano il suo suggerimento. *** Andirivieni di Citroën nere, passeggiate di Margarete, sortite di Kent, trasferimenti di prigionieri, passi di Pannwitz e dei suoi uomini: tutto è accuratamente seguito e notato da discreti osservatori agli ordini di Trepper. Ci voleva solo una nuova ragione di agire per far uscire il fuggiasco dal marasma in cui lo aveva piombato l'isolamento; non appena si è assegnato questo obiettivo – spiare il Kommando, essere nei suoi confronti «quale una tigre alla sua preda avvinta» –, la sua vitalità si ridesta. Ha organizzato un gruppo di sorveglianza con l'aiuto di un vecchio compagno, Alex Lesovoy, il quale ha assunto al suo fianco il ruolo di “capo di Stato Maggiore”, un tempo di Grossvogel. I suoi uomini fotografano ogni automobile, ogni pedone, che entra o esce dal palazzo di Rue de Courcelles. Come il portinaio Proudhomme a Neuilly, anche i portinai dei Veil-Picard sono rimasti sul posto, e chiacchierano. Tra gli uomini di fatica che Pannwitz impiega nel

parco-macchine, c'è un detenuto ebreo che fornisce informazioni sull'attività del Kommando. Questo lavoro di osservazione è destinato a preparare l'azione. Pannwitz non è il solo a presentire che lo sbarco è imminente. E anche il Gran Capo ha concepito un progetto di notevole audacia...

XXXV. UNA BELGA, UN FRANCESE

A Neuilly, dove si trovava tuttora Georgie, il nervosismo andava impadronendosi dei tedeschi, degli slovacchi e perfino dei prigionieri. Una notte, questi ultimi sono strappati al sonno dalle urla dei guardiani e da raffiche di mitragliatori: tentativo di evasione. L'uomo riesce a fuggire, ma era stato ferito, come testimoniano tracce di sangue ai piedi della cancellata. Quelle giornate di maggio del 1944 erano splendide ed il cielo di Parigi era quasi quotidianamente solcato dalle bianche strie delle “fortezze volanti” americane. Al primo urlo delle sirene, i prigionieri venivano riuniti nella cantina della villa. Georgie poté così conversare con i suoi tre D (Dumazel, Dungler, Delmotte); ebbe anche la sorpresa di reincontrarvi il principe Michele del Montenegro, al quale era stata presentata giovanissima, quando il principe viveva in esilio a Bruxelles 1. Georgie disponeva in camera sua di un apparecchio radio in pessime condizioni. L'unica stazione che riuscisse a captare era la BBC. Ascoltava i bollettini di informazione con l'orecchio incol1 Mussolini gli aveva offerto di rimetterlo sul trono dei suoi avi, ma il principe Michele, poco incline ad assumersi il ruolo di un Quisling, anche se regale, aveva respinto la proposta. Allora, la Gestapo lo aveva arrestato. Come François-Poncet nei suoi Carnets d'un captif, il principe evoca il suo soggiorno nella «sinistra villa» di Neuilly nei Souvenirs d'un roi sans couronne.

lato sull'ebanite, pronta a girare la manopola se arrivava una guardia. Una mattina, perse il notiziario. Poco dopo, osservando il generale Delmotte girare attorno all'orticello, lo vide abbandonarsi a gesti frenetici che non erano nel suo stile. Vivente semaforo, le fece capire che lo sbarco aveva avuto luogo all'alba di quel 6 giugno. L'evento influì sul Kommando. Quando andavano a prendere Georgie per interrogarla, le dicevano con aria cupa: «Ach, Mädchen, oggi la sua testa non è tanto sicura sulle spalle...». Un simile ritornello non poteva che spegnere il suo buonumore e infonderle angoscia: Georgie cominciò a temere per la propria vita. Un giorno la portarono in Avenue de la Grande-Armée e le ordinarono di risalire il marciapiede di destra in direzione dell'Étoile. Due agenti del Kommando la sorvegliavano a distanza, l'uno dietro, l'altro sulla sinistra. Provò allora una paura così profonda che, all'angolo di Rue Pergolèse, fu presa da una voglia quasi irresistibile di mettere le gambe in spalla e tentare la fuga; solo il pensiero di Patrick riuscì a trattenerla. Non seppe mai lo scopo di quella passeggiata. Alla fine di giugno, le annunciarono che sarebbe stata trasferita a Fresnes, con il pretesto che a Neuilly non potevano più garantire la sua sicurezza. Stranamente, la notizia la confortò. Quel regime di “prigioniera eccezionale” le sembrava più pericoloso che invidiabile. Aspirava a perdersi nell'anonimato, e Fresnes glielo avrebbe permesso. Fu posta in segregazione in una cella al pianterreno, ma ben presto riuscì ad adattarsi a quella nuova situazione e a mettersi in comunicazione con le detenute del piano superiore; una di

queste le passò perfino attraverso il finestrino un pezzo di stoffa per fare un giubbetto; esperta in lavori di cucito, Georgie eseguì il lavoro. Sorpresa in flagrante conversazione, fu in seguito spedita in una segreta, una cella buia con un tavolaccio per dormire. Qui apprese che Suzanne Spaak si trovava a Fresnes. Non appena uscita dalla segreta, le fece giungere un messaggio verbale e ne ricevette una risposta affettuosa e confortante. Qualche giorno dopo, durante l'aria, il caso le fece incontrare Suzanne Spaak. Le disse: «Sono desolata, è per colpa nostra che l'hanno arrestata». La signora Spaak rispose sorridendo: «Non si preoccupi, non ha importanza». Raggiante generosità ed ottimismo, Suzanne era il sole della prigione e tutte le suo compagne si scaldavano al suo entusiasmo. In seguito, fece pervenire a Georgie un messaggio verbale in cui le diceva che andava tutto bene e che bisognava avere fiducia. Anche nel mondo singolare di Fresnes, Georgie possedeva una particolarità eccezionale che la distingueva dal gregge: la sua nazionalità americana. Con il passare dei giorni, la guardiana tedesca addetta al suo gruppo di celle perse un po' della sua severità per assumere un atteggiamento di deferente benevolenza. Portava alla prigioniera libri e giunse al punto di farle dono di un maglione e ripeteva di continuo: «Quando arriveranno i suoi compatrioti, conto su di lei perché gli dica che l'ho trattata bene...». In Normandia, il fronte tedesco crollava sotto i colpi di ariete del generale Patton. ***

Il 9 agosto, Pannwitz sollecita da Margarete il favore di una partita a ping-pong. Giocando, le spiega che l'avanzata alleata lo costringe a certe misure di sicurezza: Kent e René resteranno a Parigi con lui, ma Margarete e Michel devono partire per la Germania. Margarete reagisce nel consueto modo drammatico di quando è in ballo il suo amore: se vogliono separarli, Kent e lei, tanto vale che li uccidano subito. Il Kriminalrat moltiplica le frasi tranquillizzanti e finisce con l'averla vinta. Padrino premuroso, anche se ufficioso, fa comprare per Michel un mucchio di giocattoli e varie cose difficili da trovare in Germania: poppatoi, indumenti, eccetera. Il 10 agosto, Georgie viene fatta uscire dalla cella e accompagnata all'Ufficio matricola del carcere, dove la attende un agente del Kommando: «Ach, Mädchen, lei lascia Fresnes»!. Alla prigioniera vengono restituiti i gioielli e la borsetta. Il tedesco scoppia in una risata vedendo Georgie estrarre dal giubbetto un anello che è riuscita a sottrarre alla perquisizione. Fuori è in attesa un'automobile. «Dove andiamo?». «È estate, Mädchen, bisogna andare a passeggio!». La giornata, infatti, è splendida. Ma, anziché puntare in direzione della campagna, la macchina si dirige verso Parigi. Si ferma alla Gare du l'Est. Il tedesco accompagna Georgie ad un marciapiede dove sono riuniti Pannwitz ed i suoi uomini. Attorno a loro, il panico: anziani soldati malati e “topi grigi” circondati da bambini prendono d'assalto il treno in attesa sul binario. Gli Alleati avanzano a marce forzate verso Parigi. Pannwitz trascina in disparte Georgie e le dice in tono gentile: «Va in Germania. Non mi è possibile trattenerla qui: sarebbe in pericolo. Del resto, non tarderò a raggiungerla, ed una volta là

è probabile che avremo notizie di Trepper». «E Patrick? Che ha intenzione di farne?». «Se lei scappa, lo spedisco nella Foresta Nera e non lo rivedrà mai più. Se non tenterà di scappare, le prometto che andrà tutto bene». Nonostante la promessa, Georgie è inquieta. Che ne sarà di suo figlio? Ricorda la sua prima visita a Neuilly: impressionato dalle guardie, colpito dall'atmosfera strana della casa, Patrick ha avuto una specie di crisi di nervi; si è aggrappato alla brava signora Queyrie urlando: «Andiamo via, andiamo via! Voglio andarmene!». L'indomani mattina, Georgie si è scoperta nella chioma color ebano il primo capello bianco. Scorge Kent in fondo al marciapiede, si precipita verso di lui e lo implora: «Signore, so che lei è nella stessa mia situazione, che anche lei ha un bambino piccolo! La supplico di vegliare su Patrick... Che non gli facciano del male...». Kent posa su di lei uno sguardo indifferente e le volta le spalle. La fanno salire in uno scompartimento, dove è raggiunta da Margarete e Michel. Sono della compagnia anche le due segretarie del Kommando, Ella Kempka e una collega più giovane. Il treno parte. Margarete estrae un lavoro a maglia; Georgie si occupa del piccolo; le due tedesche chiacchierano. Il convoglio si arresta più volte in piena campagna: allarme aereo. Sarebbe facile evadere, ma Patrick? La sera, tappa a Metz. Le quattro donne e Michel passano la notte presso la sede locale della Gestapo. Poi di nuovo in viaggio. Due giorni dopo aver lasciato Parigi, il treno arriva finalmente a Karlsruhe, dove abita Ella Kempka. Il suo alloggio non è vasto, ma bene o male offre ospitalità a tutte. Margarete, naturalmente, è trattata in maniera camerate-

sca; quanto a Georgie, in pratica può uscire a suo piacimento, accompagnata dalla giovane segretaria. Questa la porta dal parrucchiere, ve la lascia, torna a prenderla due ore dopo; prendono il tè insieme, eccetera. Qualche giorno dopo l'arrivo, Georgie è convocata alla sede della Gestapo. La riceve un poliziotto massiccio e duro: è Reiser, l'ex-braccio destro di Giering, trasferito a Karlsruhe da un anno. Reiser le chiede se ritiene che Trepper si deciderà a farsi vivo con il Kommando. Alla risposta affermativa di Georgie, borbotta in tono di vaga minaccia: «Sarà meglio per lei, altrimenti la sua posizione rischia di aggravarsi...». Questa frase ridesta l'ansia di Georgie. Le sembra terribilmente pericoloso l'essere coinvolta in quella enorme faccenda di pace separata che ha la facoltà di mettere in agitazione tutti. *** Trepper è invece convinto che il “Grande Gioco” stia per concludersi. Il crollo delle armate tedesche di Occidente fa presagire un'imminente conclusione della guerra. Nulla quindi si oppone all'attuazione del suo progetto: attaccare il Kommando, bloccarne la fuga e farlo prigioniero. Sarebbe piacevole per lui finire la partita catturando coloro che lo braccano da tanti anni e che gli hanno preso tanti dei suoi. Con l'aiuto di Kovalski, ha creato un gruppo di combattimento forte di 30 uomini bene armati. Il piano di attacco è stato predisposto da Alex Lesovoy. Questi ha garantito il successo dell'impresa: «L'unico modo per loro di sfuggirci, sarebbe di suicidarsi».

Il Gran Capo ha ribattuto ridendo: «Non temere! Quanto a questo, possiamo fidarci: non si suicideranno!». Naturalmente, bisognava avvertire Mosca. È stato trasmesso un messaggio per sollecitare l'approvazione del piano. Si attende la risposta. *** Poiché i reparti corazzati di Leclerc puntavano su Parigi, Pannwitz ed i suoi uomini prepararono le valigie. Certo, il loro umore doveva essere alquanto malinconico: avevano lavorato molto, avevano subito delusioni e sconfitte, si erano logorati i nervi a dare la caccia e, nel caso di alcuni, a torturare; ma a conti fatti, quei tre anni erano stati positivi. Nessuno di loro era morto a Parigi: a Parigi si moriva meno facilmente che a Stalingrado o a Tobruk. Anche Willy Berg, che avrebbe dovuto essere fucilato secondo la giustizia militare, per avere lasciato scappare il Gran Capo, anche il vecchio Berg era là, con gli altri, a stipare ricordi nelle giberne. Berlino non aveva saputo nulla. Berlino sapeva sempre soltanto ciò che le si voleva dire. Quanto alle autorità tedesche in Francia, erano impotenti nei confronti del Kommando: per tre anni, c'era stata una compagnia di amici che facevano la loro piccola guerra ai margini di quella grande. Un tempo poliziotti da nulla, si erano ritrovati potenti signori, senza padroni nelle immediate vicinanze, con una delle più belle città del mondo per feudo. Si erano scarrozzati, avevano alloggiato in casa di miliardari, avevano mangiato al mercato nero e si erano, accidenti, ubriacati come tanti Bacco. E donne a profusione. E denaro in abbondanza, soprattutto dopo che lo scaltro Pannwitz ebbe

creato una sua Simex: la Société Helvétia, con sede sociale a Montecarlo per ragioni fiscali, succursali a Parigi e a Madrid, traffici di tutti i generi, ma specializzazione in chinino, volframio, materiali strategici. E ora bisognava abbandonare tutto... La partenza ha luogo il 26 agosto in piena Parigi insorta. Autoblinde scortano le macchine del Kommando, a loro volta piene di armi. Il convoglio aggira le strade interrotte da barricate, attraversa la periferia senza difficoltà, raggiunge il flusso dell'esercito in rotta e fila verso est, verso la Germania. Poiché la risposta di Mosca non era arrivata, Trepper aveva riposto in un cassetto il suo piano di attacco e rimesso a disposizione di Kovalski i suoi 30 franchi tiratori. Quel 26 agosto, lascia il suo rifugio dell'Avenue du Maine e, accompagnato da Alex Lesovoy, tenta di raggiungere Rue de Rivoli dove Lesovoy deve insegnare a certi FFI come si fa a togliere la sicura e a lanciare bombe a mano. Prendono perfino parte ad uno scontro nei pressi dell'alberto “Majestic”, sede del quartier generale tedesco, dove si era recato così spesso Vassili de Maximovitch; il Gran Capo si diverte allegramente con le bombe a mano e scopre che, pur essendo meno sottili di quelle del sabotaggio, le gioie dell'azione diretta non per questo sono meno inebrianti. Alla Concorde, i due compagni sono bloccati per un lungo istante nella battaglia in corso attorno all'albergo “Crillon”. Arrivano finalmente in Rue de Courcelles due ore dopo la partenza del Kommando. Il portinaio e sua moglie li accolgono tremando di paura; al momento di salire in macchina, Kent ha gridato loro: «State bene attenti e non crediate che sia finita: torneremo!».

*** Lo stesso giorno, alle 2 del pomeriggio, Claude Spaak e Ruth Peters mettono piede nell'appartamento di Rue de Beaujolais. Al saccheggio sono sfuggiti soltanto i mobili ingombranti, la libreria e i quadri. Al centro della scrivania, un ammasso di carte e libri in disordine testimoniano della minuzia della perquisizione. Mentre passano dall'una all'altra delle stanze devastate, bussa all'uscio Pauline, la cameriera della scrittrice Colette. Viene a porgere loro le scuse della vicina, che non può spostarsi ma che li invita ad andarla a trovare. La prima frase di Colette è la prova del suo realismo: «Ha bisogno di denaro?». Spaak ringrazia e declina la generosa offerta; comunque, se ne va in possesso di una saponetta. Dopo un po', si presenta un uomo: «Mi occupo di traslochi. Nello scorso marzo, i tedeschi mi hanno ordinato di venire in casa sua. Ho trasportato un carico in un palazzo di Rue de Courcelles». Claude Spaak ci va. Viene introdotto in un'immensa sala dalle sontuose boiseries, ma il cui arredamento si limita ad un tavolo, due sedie ed una stufa. Chino presso la stufa, infagottato nel cappotto, cappello in testa, un vecchietto freddoloso: il signor Veil-Picard padre. Affida Spaak alla governante. Questa lo accompagna al secondo piano, dove sono ammucchiati alla rinfusa i mobili e gli dice, con un ampio gesto della mano: «Avanti, si serva e non esiti: i proprietari sono morti». Spaak recupera qualche mobile razziato a Choiseul e in Rue de Beaujolais, ma rifiuta energicamente, con grande stupore della governante, di prendersi un magnifico tappeto orientale che non gli appartiene. Quanto

alla vasca da bagno di Choiseul, scovata in cantina, la riprende soltanto dopo aver controllato che non sia “servita”... La governante gli fa visitare la galleria vetrata dove prima della guerra era esposta una splendida collezione di quadri del XVIII secolo. Le pareti ed il pavimento sono imbrattati di sangue: il Kommando l'aveva trasformata in sala di tortura. Di sua moglie non ha notizie. *** Fu a questo punto del racconto che Claude Spaak cessò di essere quale mi era apparso fino a quel momento: padrone di sé, dei suoi sentimenti e della loro espressione... Ci trovavamo nel suo studio di Choiseul dove tutto era ordine e armonia e lo ascoltavo parlare da ore, naturalmente con la passione che si può immaginare, ma anche con un'ammirazione tutta professionale per il suo senso della narrazione, la sua padronanza, la sicurezza nella scelta del particolare evocatore. Allorché giunse a quelle settimane successive alla Liberazione – quando Parigi, per gli altri, era davvero una festa –, fu come se perdesse il controllo, come se un'ondata di emozione lo avesse di colpo sommerso lasciandolo smarrito. Il suo viso, fino allora impassibile, era percorso da fuggevoli tremiti. Lo sguardo dei suoi occhi appannati mi aveva abbandonato. Quello che diceva con voce roca, sentivo che non lo raccontava più per me, ma per se stesso. Mi erano giunte delle voci a proposito di una fucilazione avvenuta a Fresnes, qualche giorno prima della Liberazione, ma niente di preciso. Dicevano che c'era stata una

rivolta dei detenuti di diritto comune: la cosa non riguardava Suzanne. Si poteva ancora sperare. E poi ho ricevuto una lettera. La sua ultima lettera. Le avevano annunciato che sarebbe morta. La lettera terminava con questa frase: «Ripenso a Myra». C'era anche qualche parola per i bambini. Suzanne aveva affidato le lettere al cappellano della prigione. Ignoro a chi il sacerdote le abbia consegnate: a me sono giunte attraverso il Ministero degli Esteri. Nella busta c'era anche un certificato di inumazione al cimitero di Bagneux. Laggiù abbiamo trovato due tombe scavate di fresco. Avevano portato i cadaveri senza dire di chi si trattava. Sulle croci c'era scritto semplicemente: “Una belga”, “Un francese”. Non eravamo certi che fosse Suzanne. Si dovette procedere all'esumazione. Io non ho voluto entrare all'obitorio. C'è andato il dottor Chertok in possesso del calco dentario di Suzanne. Era proprio lei. L'abbiamo lasciata a Bagneux. Sa, io sono un libero pensatore e non ho il culto dei morti. Il vero cimitero è il cuore. Ma un giorno, ho comunque voluto vedere la sua tomba. Una cosa sconvolgente... Un'immensa necropoli dove sono sepolti tremila soldati... fiori dappertutto... e fra tutti quegli uomini, Suzanne e una compagna... sono le uniche donne... Qualche tempo dopo la Liberazione, una ex-detenuta di Fresnes era venuta a trovarmi. Mi aveva raccontato la parte svolta laggiù da mia moglie, di cui era vicina di cella, e quanto fosse stata degna di ammirazione. Mi aveva anche detto che Suzanne aveva espresso il desiderio che andassi a visitare la sua cella, nel caso non fosse tornata. Mi sono dunque recato a Fresnes – eravamo nel gennaio del 1945. Ho chiesto al direttore l'autorizzazione di visi-

tare la cella, di cui la donna che era venuta a trovarmi mi aveva indicato il numero. Il direttore mi ha risposto in modo straordinariamente burocratico: «Non ne vale la pena. Abbiamo trascritto su un registro tutte le iscrizioni tracciate dai detenuti membri della Resistenza». Ho compulsato il registro. Non c'era nulla. Neppure una frase attribuita a Suzanne. Ho insistito perché mi lasciassero visitare la cella, malgrado tutto. Il direttore mi ha risposto che non era cosa facile – a quel tempo, la prigione era stipata di collaborazionisti –, ma che avrebbe visto che cosa si poteva fare. E tornò annunciandomi che la visita era possibile: la cella era stata trasformata in deposito di coperte. Sulle pareti c'erano più di 300 iscrizioni di pugno di Suzanne. Non ricordo quanto tempo sono rimasto. Singhiozzando andavo da una parte all'altra e ricopiavo tutte quelle iscrizioni su fogli di carta dell'amministrazione carceraria datimi dal direttore. C'erano pensieri, poesie e anche una specie di diario che Suzanne aveva tenuto negli ultimi giorni. Annotava con speranza che i carri armati americani erano segnalati a Chartres. E si stupiva di trovarsi tuttora a Fresnes, mentre quasi tutte le sue compagne erano state evacuate. Ma legga lei stesso...

Piangeva e mi tendeva con mano tremante alcuni foglietti tratti da un cassetto. Li scorsi e glieli restituii in fretta, troppo in fretta, ma ero oppresso dalla sensazione di essere la causa dell'insopportabile sofferenza che gli contraeva il viso. Se avessi saputo di dover far rivivere un simile dolore, sarei venuto? C'era: «Sola con i miei pensieri, è ancora la libertà». E la frase di Socrate: «I miei nemici possono uccidermi, ma non possono nuocermi».

E questa, di Kipling: «Là dove sono i figli, devono essere anche le madri a vegliare su di loro». Mi porse anche la lettera scritta da Suzanne Spaak dopo la condanna a morte. La destinataria, la madre di Claude Spaak, l'aveva ricevuta in Belgio, ma non aveva potuto trasmetterla al figlio, di cui ignorava il nascondiglio parigino. Gliela consegnò dopo la Liberazione. Era la lettera con cui Suzanne avvertiva il marito della proposta della Gestapo: si costituisse e la avrebbero graziata e rimessa in libertà. E dopo aver scritto ciò, firmò a lettere cubitali: «SUZANNE». Ecco, è morta a 39 anni ed io ignoro come. È certo che è stata preavvertita dell'esecuzione, dal momento che le hanno lasciato il tempo di scrivere le ultime lettere. Ma mi sono informato: alla metà di agosto, non avvenivano più fucilazioni a Fresnes, né al monte Valérien. Così, non so. Ma c'è una cosa che non riesco a dimenticare: la grossa chiazza bruna che ho visto sull'impiantito della sua cella...

*** Era finita. Si alzò in piedi, il volto inondato di lacrime. Riaccompagnandomi all'uscio, si fermò in salotto davanti ad un quadro di Magritte raffigurante un libro aperto. Sulla pagina di destra, nubi bianche sullo sfondo del cielo azzurro; su quella di sinistra, il ritratto di Suzanne Spaak: naso diritto, capelli bruni e bande lisce, sguardo vivo. Disse: «Quando questo ritratto è stato dipinto, alla famiglia non è piaciuto. Ci sembrava che invecchias-

se Suzanne. Ma ora, siamo noi che invecchiamo, e lei resta giovane». Sulla soglia, ci stringemmo la mano senza riuscire a spiccicare parola. La sua commozione era quasi intollerabile. Vidi nello specchietto retrovisore che se ne restava là, immobile, miserando, spezzato. Poi una curva lo sottrasse al mio sguardo; restai solo con il ricordo di Suzanne Spaak, una donna di cui qualche ora prima non sapevo nulla e che non avrei più dimenticata. Correndo tra le villette della valle di Chevreuse, così bene attrezzate per i tetri piaceri con cui cerchiamo di ingannare la noia, così perfettamente conformi alla nostra rappresentazione della felicità, così simbolici, insomma, del nostro tempo preda delle cose, pensai che vivere davvero equivaleva forse a morire come Suzanne Spaak. “Una belga”, “Un francese”. Il francese era Fernand Pauriol, alias “Duval”, il quale fino all'ultimo non aveva parlato. Li avevano abbattuti nello stesso momento. Lui veniva da Marsiglia, lei da Bruxelles; avevano percorso un tratto di strada ciascuno per ritrovarsi a Fresnes e morire fianco a fianco. Lei proveniva da una ricca famiglia borghese; lui era un comunista: la stessa battaglia li aveva uniti fino alla morte. Questa è l'Orchestra Rossa. “Una belga”, “Un francese”. L'epitaffio, pur essendo involontario, era bello.

XXXVI. IL RITORNO DELL'EROE

Nell'ottobre del 1944, due mesi dopo la Liberazione, una missione militare sovietica arrivò a Parigi e si insediò dapprima nei locali dell'ex-ambasciata di Lituania, poi in quelli dell'ambasciata di Estonia, in Boulevard Lannes. Era diretta dal tenente colonnello Novikov. Il Gran Capo si mise subito in contatto con lui e restarono intesi che sarebbe partito per Mosca con il primo mezzo di trasporto disponibile. L'attesa rischiava di essere lunga. Dopo la sfrenata galoppata attraverso la Francia, la Wehrmacht si era attestata sul Reno e bloccava l'avanzata alleata. La pace intravista per l'autunno era rimandata alla primavera successiva. Tali circostanze non lasciavano prevedere un pronto ristabilimento delle comunicazioni tra Parigi e Mosca. Trepper occupò il tempo a cercare i superstiti della sua rete e a tentare di scoprire la sorte toccata a quelli che erano stati presi. Ritrovò al castello di Billeron, presso la signora de Maximovitch, la moglie e i figli di Katz. Raichman era andato a trovarli, e anche Willy Berg, ma il Kommando li aveva lasciati in pace, preferendo tenerli sul posto a mo' di esca, piuttosto che addossarsene la responsabilità. In compagnia della signora Katz, Trepper

trascorse la giornata del 29 settembre presso i Queyrie: era il compleanno di Patrick; nel pomeriggio, portarono il bambino al circo “Médrano”. Si recò spesso da Claude Spaak e lo aiutò nella sua funebre ricerca. Ritrovò anche Emmanuel Mignon, incontrato per caso in Place Saint-Michel, e bevvero un bicchiere insieme evocando i bei giorni della Simex. Nessuna notizia di Georgie, naturalmente. Affidò alla signora Queyrie due bauli pieni di indumenti nuovi e di regali, pregandola di consegnarli alla sua amica se il destino voleva che un giorno tornasse. Alla fine di novembre, Novikov gli annunciò che l'aereo personale di Stalin era atterrato al Bourget: riportava in patria Maurice Thorez, che aveva trascorso a Mosca gli ultimi quattro anni. Fece dunque la valigie e aspettò di essere convocato al Bourget. L'attesa durò più di un mese. I tre colonnelli componenti l'equipaggio non erano insensibili alle dolcezze della vita parigina, ed una serie di disgraziate avarie teneva l'aereo inchiodato al suolo. Finalmente, un telegramma imperativo del Cremlino rimise i motori in funzione e il Gran Capo decollò per Mosca il 6 gennaio, alle 9 del mattino. L'aereo avrebbe dovuto riportare in Russia dei prigionieri di guerra sovietici, ma di 8 passeggeri uno solo rispondeva a tale qualifica; gli altri erano vuoi diplomatici, vuoi agenti del Centro che tornavano all'ovile; c'era anche un vecchio rivoluzionario russo in esilio da vent'anni cui Stalin aveva appena accordato il suo perdono1. 1 Uno dei compagni di viaggio del Gran Capo ebbe in seguito a descriverlo così: «Il certificato di rimpatrio n. 4 apparteneva ad un certo Ivanusky, agente sovietico di nazionalità non specificata. Parlava correntemente russo e francese ed era in grado di cavarsela in inglese. Appresi che aveva passato gran parte della guerra in un nascondiglio; era un simpatico compagno di viaggio, non so altro di lui» (A. Foote, Handbook for spies, London Museum Press).

La guerra costringeva a fare una lunga deviazione. L'aereo fece scalo a Marsiglia, Castel-Benito, Il Cairo, Teheran e Baku. Infine, il 14 gennaio, alle 4 del pomeriggio, si posava su un piccolo aeroporto nei pressi di Mosca. Sei anni erano trascorsi da quando il Gran Capo aveva lasciato la Russia l'ultima volta. Sei anni ricchi di gioia e di angosce, di lutti e di trionfi. Sei anni di lotta. Rientrava non gonfio di orgoglio, ma fiero del lavoro svolto. Un'automobile lo attendeva all'aeroporto. Lo portò al Centro, in Via Znamenski. Fu immediatamente introdotto nell'ufficio del Direttore. Il loro dialogo fu breve: «Quali sono i vostri progetti per l'avvenire?», domandò il Direttore. «Prima di parlare dell'avvenire, si potrebbe forse parlare del passato! Perché non mi avete creduto fin da principio? Come avete potuto sbagliarvi tanto gravemente? Forse che non vi avevo avvertito?». «Siete dunque tornato per una resa dei conti?». «E perché no?». «In tal caso, non li regoleremo nel mio ufficio». Il Gran Capo fu immediatamente incarcerato alla Lubianka. Ci sarebbe rimasto 10 anni.

XXXVII. «LA VITTORIA CANTANDO...»

Parigi è appena liberata quando Reiser convoca nuovamente Georgie per annunciarle: «La situazione si aggrava. È possibile che qualcuno cerchi di farla evadere, per cui capirà che sono costretto a chiuderla in prigione». Georgie ignora se ignoti amici preparino la sua evasione, ma sta di fatto che lei stessa pensava di scappare (le rappresaglie del Kommando non possono più abbattersi su Patrick). Reiser, con quella sua prudente decisione, gliene toglie la speranza. Georgie, del resto, non si faceva illusioni circa la difficoltà di raggiungere la frontiera francese attraverso un paese ostile di cui conosce poco la lingua. In definitiva, la prospettiva di tornare in cella non la dispera, anzi; come a Neuilly, preferisce il carcere al suo stato ambiguo di semiprigioniera. Passa quindi da Ella Kempka a prendere la sua roba e se ne va con passo leggero a farsi chiudere nel carcere cittadino. Ebbe così inizio un calvario le cui tappe furono Francoforte sul Meno, Lipsia, Ravensbrück, Francoforte sull'Oder, Oranienburg, Sachsenhausen. Georgie le affrontò protetta dalla triplice corazza della bellezza, della sua vitalità e e della sua nazionalità, ma giunse alla meta sana e salva grazie ad una dote più essenziale ancora, benché difficile da definire. Come tutti, dovette sentirsi umiliata,

minacciata nel suo intimo, e toccare a volte il fondo della disperazione, ma parla sempre e soltanto dell'umiliazione, della sofferenza, della disperazione delle sue compagne. Oblio di sé? Interessamento per il prossimo? Sì, a patto di scorgervi una conseguenza della suddetta dote, non già la dote in sé e per sé. A sentirla parlare, si intuisce che, per tutta la durata di quell'incubo, fu accompagnata da un sentimento di sovrana invulnerabilità. Gli eventi continuavano a scivolare su di lei senza segnarla («senza mordere», come dice lei). Non sarebbe morta, non si sarebbe avvilita, non si sarebbe imbruttita. «Gente come te e me passa attraverso tutto». Lei ci credeva. Era il suo talismano. Nella cella di Karlsruhe subisce bombardamenti terrificanti che facevano tremare la porta sempre sbarrata. Ma il suo ricordo di Karlsruhe è costituito dal francese – un ragazzo giovanissimo, quasi un bambino – che una notte spezzò il silenzio del carcere con questo unico grido: «Domani mi fucilano!». Georgie non sapeva che una voce umana potesse esprimere tanta straziante disperazione. Reiser andò a trovarla e le dichiarò che temevano un colpo di mano allo scopo di farla evadere. L'avrebbero trasferita altrove. A Francoforte sul Meno. Il carcere era sovraffollato al punto che la vita era impossibile. Le prigioniere si sollevarono. Furono domate. Poi Lipsia. Una piccola baracca in cui si ammassavano venti donne russe. Bisognava dormire per terra, strette le une alle altre. Ogni notte, il bugliolo traboccava le detenute si svegliavano in mezzo agli escrementi. Ma c'era una panca, e le russe pretesero che Georgie vi dormisse. Al suo arrivo le avevano accarezzato il viso e sfiorato i ricchi abiti con ammirazione sconfinata.

La prigione di Lipsia fu evacuata. Un gruppo di SS portarono il miserando gregge alla stazione. Per le strade della città i passanti urlavano insulti e i bambini scagliavano sassi. I vagoni furono stipati al massimo e il treno si mise in moto. C'era da morire di soffocamento; il bugliolo traboccava di continuo; il viaggio fu un supplizio. Poi, finalmente, ebbe termine e cominciò Ravensbrück. A Georgie non furono rasati i capelli, i guardiani osservavano con curiosità il suo contrassegno “americana”, non fu percossa mai individualmente, soltanto in occasione di punizioni collettive. Strinse amicizia con una certa signorina de Fourcroy e con sua cognata Nicole, tutte e due di Bruxelles. Vide per la prima volta morire un essere umano: durante il lavoro, una guardiana tedesca si scagliò sulla prigioniera che scavava accanto a lei e le spaccò il cranio con un colpo di badile. Dice che vi fu un momento «in cui non andava proprio bene» (aveva 41° di febbre e delirava). Ma Ravensbrück, nel suo ricordo, è per sempre la zingara, in coda davanti alla baracca dove avveniva la selezione per la morte, che teneva stretto fra le braccia il suo piccolo, un bambino di 15 giorni al massimo, completamente nudo nel freddo glaciale. Poi Ravensbrück fu evacuato e la trasferirono in un campo nei pressi di Berlino. Le detenute lavoravano in una fabbrica di gomma sintetica e fabbricavano cavi per telefoni da campo. Vi prosperava il sabotaggio. Dopo di ciò, andò a scavare trincee anticarro davanti a Francoforte sull'Oder; le zappe rimbalzavano sul terreno gelato. Infine, siccome i russi continuavano ad avanzare, la ciurma nazista riunì il suo gregge e lo sospinse lungo le strade di ciò che ancora restava della Germania. Fu la tristemente celebre “marcia della morte”: migliaia di donne inebetite

che giravano in tondo tra il fronte orientale e quello occidentale, sospinte a colpi di sferza dalle SS, in cui la paura esasperava l'odio. Spesso, una donna usciva dalla colonna – usciva dalla vita – e si metteva sul ciglio della strada aspettando passivamente la pallottola alla nuca che avrebbe posto fine a quell'inferno. Per cibo, una zuppa inghiottita ai bordi della strada. Una sera, nella coda che si allungava davanti alla cucina da campo, vi fu un momento di scompiglio: la prigioniera che precedeva Georgie incespicò contro il calderone. Una SS sovrintendeva alla distribuzione della zuppa: Sfoderò la pistola come si cava di tasca un fazzoletto e la abbatté senza battere ciglio, come se si trattasse di una cosa senza importanza. Avevo così fame che ho fatto un passo avanti e ho teso la mia gavetta mentre l'altra moriva ai miei piedi artigliando la terra con le unghie con movimenti sempre più lenti.

Per dormire c'erano soltanto fienili troppo angusti; le deportate si impegnavano in cruente battaglie davanti alle porte, perché quelle che restavano fuori venivano ritrovate all'alba contratte dal gelo, spolverate di brina; il freddo le aveva uccise. «Io mi arrampicavo per le travi del fienile e dormivo sulla trave più alta, in cima, sopra tutte le altre». Ma le prigioniere marciavano sempre più in fretta, mangiavano sempre meno, morivano sempre più numerose, e Georgie comprese che sarebbe crollata da un momento all'altro. Con le sue amiche di Bruxelles, decise che era meglio morire durante un tentativo di evasione, piuttosto che essere abbattute freddamente con una pallottola alla nuca. Il momento più propizio era

dopo la calata del buio, quando la colonna famelica avanzava alla cieca nel frastuono delle gavette e dei coperchi che le deportate recavano appese agli stracci – sinistro strepito precursore di miseria e di morte, come il sonaglio dei lebbrosi di un tempo. La prima scelse una curva della strada per balzare fuori dalla colonna e tuffarsi in una siepe. Georgie e l'altra aspettarono il villaggio successivo. Il cancello di un giardinetto era aperto; le due vi si precipitarono nascondendosi dietro il muro. Lì accanto, un cane si mise ad abbaiare furiosamente. Le SS non ne furono allarmate. Le due donne ascoltarono, tremanti di paura, il frastuono delle gavette diminuire in lontananza, poi uscirono dal giardino e andarono a cercare la compagna, che continuava a starsene accovacciata nella siepe. Passarono la notte in una spingarda piena di fieno in riva ad uno stagno; furono destate dal rombo del cannone. Venne a trovarle un piccolo russo, un lavoratore deportato, il quale lasciò loro tre fiammiferi. Poterono così cuocere qualche radice. «Dopo, ci siamo spogliate e abbiamo fatto il bagno. Ah! È stato meraviglioso!...». Le radici non avevano placato la loro fame; il bagno la decuplicò. Decisero che Georgie sarebbe andata a cercare un po' di cibo. Attraversò i campi. Il cannone tuonava sempre più vicino; era come un rombo ininterrotto che faceva tremare la terra e annodava le viscere. Georgie giunse ad una fattoria. Nella stanza principale, un gruppo di contadini seduti attorno al tavolo sul quale erano disseminati i resti di un sontuoso banchetto. Vestiti con gli abiti della festa, gravi e silenziosi, attendevano i russi. Georgie chiese se poteva mangiare. Il padrone acconsentì con un cenno del capo. Mentre si rimpinzava sotto i loro occhi indiffe-

renti, un cosacco con il colbacco di pelliccia entrò nella sala e pretese dello schnaps. Il padrone disse che non ne aveva. Il cosacco spiegò con calma che se non gli davano lo schnaps li avrebbe ammazzati tutti. E puntò il fucile mitragliatore. Fu in quel preciso istante che Georgie provò la più grande paura della sua vita. Il cosacco ebbe lo schnaps, bevve e se ne andò tutto soddisfatto. *** Georgie fu rimpatriata il 15 maggio 1945. Quando suonò all'uscio della villetta di Suresnes, la signora Queyrie e Patrick erano in visita nella casa di fronte. Patrick riconobbe la madre di spalle, divenne pallidissimo e pianse per l'emozione. La signora Queyrie ospitò la reduce per diciotto mesi e le sue cure non tardarono a «rimetterla in sesto e farla rifiorire». Non le disse quello che ci confesserà molto tempo dopo: Ovviamente, non è una bella cosa, ma volevo così bene a quel bambino che in cuor mio a volte speravo che Georgie non tornasse: così avrei potuto adottarlo e tenerlo per sempre con me...

Patrick aveva avuto decisamente molta fortuna. Promesso in via di principio alla solitudine, precipitato poi nelle vicissitudini della vita, nascosto qui, prigioniero là, così fragile che un colpo di vento avrebbe potuto portarselo via da un momento all'altro, si era trovato a passare, per così dire, da un braccio all'altro e grazie a tale caritatevole catena – di cui alcune maglie portavano

nomi tedeschi –, grazie soprattutto all'amore della buona signora Queyrie, sbarcava incolume sulle rive della pace. Diciotto mesi dopo, Georgie ritrovava a Bruxelles il vecchio barone Jaspar, tornato da Mauthausen. Al campo di concentramento, la sua pittoresca figura mandava in estasi i compagni di prigionia: gli avevano infilato una giacca azzurra ed un paio di calzoni rossi da ufficiale di cavalleria jugoslavo; erano i colori del suo morale. Tutto, perfino Mauthausen, sembrava costituire per lui una fontana di Giovinezza. Ma la signora Jaspar era morta. Il comandante del suo campo aveva annunciato un giorno la creazione di un centro speciale per vecchi e ammalati. Nonostante le suppliche delle compagne, si era offerta volontaria. Il campo speciale era Auschwitz con le sue camere a gas. Georgie de Winter, vedova del suo amore, unì la propria solitudine a quella di Jules Jaspar. Vissero insieme nelle Cévennes fino alla morte del vecchio signore. Due anni dopo, Georgie sposava un nobile polacco, colonnello della Guardia, eroe della Resistenza e luogotenente del generale Bor durante l'insurrezione di Varsavia, il quale aveva a sua volta deciso di concludere una vita tumultuosa nell'austerità delle Cévennes. Il colonnello è morto il 18 maggio 1966 lasciando Georgie sola nella vecchia casa – fortezza ancorata al fianco della montagna. Strano destino, quello di questa donna, così poco fatta per la guerra segreta, la prigione, la solitudine, e che invece visse tutto ciò perché, un certo giorno del 1939, aveva lasciato cadere i guanti in una pasticceria di Bruxelles... ***

I liberatori giunsero al campo di Mauthausen troppo tardi per salvare Henri de Ryck, azionista della Simexco belga; e Rauch, l'uomo dell'Intelligence Service; e Charles Drailly, della Simexco (suo fratello Nazarin era morto a sua volta a Dachau di peste bubbonica). «Io», proclama il cantante comico Robert Christen, ex- proprietario del “Florida”, «sono sopravvissuto grazie alle mie smorfie». Ogni domenica aveva luogo – suprema derisione – uno «spettacolo ricreativo»: detenuti acrobati o giocolieri presentavano i loro numeri davanti ad una platea di spettri viventi. Christen fu candidato ad un'audizione. Non sapeva né saltare, né fare giochi di prestigio; quanto al cantare strofette comiche, neanche a parlarne, fosse pure in esperanto. Quando gli domandarono che cosa sapeva fare, rispose: «Smorfie». Le smorfie ebbero la facoltà di rallegrare le SS e Christen fu ingaggiato. Non che mangiasse più degli altri, ma faticava molto meno, essendo dispensato dal lavoro. Tale regime di favore durò fino al trasferimento a Gusen I, campo satellite di Mauthausen, un campo di sterminio. Niente più «spettacoli ricreativi» e addio smorfie. Ma una fisarmonica e un forno. Il capo del forno crematorio possedeva infatti una fisarmonica, che però non sapeva suonare; chiese a Christen di dargli lezione. D'altro canto, certi detenuti di Gusen I non erano Nacht und Nebel1 e ricevevano dei pacchi. Affidarono le loro gavette a Christen perché gliele facesse scaldare, dietro compenso di qualche centesimo. Ogni sera, Christen disponeva le gavette nel forno crematorio, frammezzo alle ossa incandescenti,

1 “Notte e nebbia”: termine nazista per indicare i deportati la cui sorte doveva restare ignota ai famigliari.

poi prendeva la fisarmonica e suonava dei valzer per il capo del crematorio mentre la zuppa si scaldava. Robert Corbin era stato adibito alla sartoria del campo. I cenci che gli davano da rappezzare non avevano davvero nulla in comune con il tweed inglese che un tempo vendeva da “Creed”, in Rue Royale, ma era un lavoro poco faticoso, al riparo dal freddo, e gli permise di sopravvivere. La sorte più dura era toccata, fortunatamente, a Jean Passelecq: con quelle sue spalle da scaricatore di porto, la fenomenale vitalità, era tipo da superare prove che avrebbero spezzato chiunque altro. La fantasia burocratica tedesca lo gettò in una specie di turismo concentrazionario: in due anni passò per 10 diversi campi, fatto che costituisce probabilmente un primato nella specialità. Ogni trasferimento era disastroso, perché al momento della partenza gli venivano sottratti i minuscoli tesori che era riuscito a raccogliere e gli erano dati i panni più vecchi e meno caldi; all'arrivo, sconosciuto a tutti, veniva immancabilmente adibito al Kommando di lavoro più pesante, assegnato alla peggiore baracca, posto alle dipendenze del kapò più malvagio. Non appena si era adattato, non appena era riuscito a tessere una rete di amicizie senza la quale non si sopravviveva, si vedeva costretto a fare fagotto un'altra volta e a ripartire da zero in un altro inferno. Tali tribolazioni gli scolpirono un volto da vecchio lupo di mare che avesse doppiato dieci volte il Capo Horn sulle galere naziste; le quali non lo abbatterono. Liberati, rimpatriati, quelli della Simex e della Simexco tornarono portando alle stelle il nome di Bill Hoorickx, che avevano lasciato al campo. Il destino segue i suoi capricci: c'era voluta la deportazione perché il pittore potesse dare prova delle sue quali-

tà; Mauthausen era la scena predestinata sulla quale dovevano manifestarsi le sue doti. Fu di un'audacia e di una dedizione sorprendenti. In seguito ad un qualche errore amministrativo contenuto nella sua pratica, il comandante del campo credette che fosse medico; lui non lo smentì. Le sue cognizioni mediche si limitavano ai ricordi ormai sbiaditi di un corso accelerato di medicina coloniale che aveva seguito quando voleva farsi missionario; a rigor di termini, avrebbe potuto essere un bravo aiuto-infermiere; le SS lo nominarono medico-capo e misero ai suoi ordini un certo numero di medici deportati; costoro non scoprirono la sopercheria – è vero che la medicina concentrazionaria restava per forza di cose di portata piuttosto ristretta. In mancanza di mezzi materiali, non riuscì a guarire i corpi quanto avrebbe voluto, ma aveva in sé sufficiente generosità e abnegazione per confortare i cuori, ravvivare l'energia, lottare contro il contagio della disperazione. Salvò molti compagni destinati alla camera a gas facendoli entrare clandestinamente nella baracca dei malati contagiosi, dove le SS non mettevano mai piede. Poi, quando il campo fu liberato, rifiutò di essere rimpatriato prima dei suoi ammalati. Lasciò Mauthausen per ultimo, portando con sé per tutto ricordo un fascio di lettere nelle quali i medici alle sue dipendenze esaltavano la sua azione benefica e riuscivano quasi a nascondere la loro confusione per non aver intuito che egli non era esattamente quell'«eminente collega» di cui aveva svolto le funzioni con tanta abilità. Se avessero potuto, lo avrebbero probabilmente nominato dottore honoris causa della facoltà di Mauthausen... ***

Vladimir Keller, della Simex parigina, aveva lasciato la sua cella della Lehrterstrasse due mesi dopo l'esecuzione di Alfred Corbin. Lo avevano incarcerato nella prigione civile di Tegel, dove lavorava alla tipografia. In particolare, fabbricò 6000 biglietti da visita per Himmler. Restò molto impressionato dall'abbondanza di titoli onorifici del Reichsführer. La tappa successiva lo portò in un carcere cecoslovacco, dove soffrì crudelmente il freddo e la fame. Più di una volta pensò a quell'uscio dei gabinetti della stazione di Lilla che gli sarebbe bastato socchiudere per non subire simili tormenti. Infine, l'8 maggio 1945, l'Armata Rossa liberatrice si manifestò sotto forma di un ufficiale isolato in groppa ad un cavallo caracollante. Dagli stivali bucati facevano capolino gli alluci. Implacabilmente svizzero, Keller gli fece notare quella stranezza. Il russo rispose ridendo: «Niente di grave; l'importante è vincere la guerra!». *** Il tedesco Ludwig Kainz, detto “Toporagno”, era sopravvissuto anche lui, al pari della signorina Ponsaint e di Henri Seghers, della rete belga. Ma gli altri, tutti gli altri che erano giunti in Germania con il triste convoglio dell'aprile 1943, vi restavano per sempre, giustiziati o morti di sfinimento. *** Tranne forse il tenente Makarov, alias “Carlos Alamo”. Nel febbraio 1943, la corte marziale presieduta dal «segugio di Hi ler», Manfred Roeder, lo aveva condannato alla pena capitale; poi

era stato aggregato al convoglio di Berlino e, come si ricorderà, durante il viaggio Hoorickx aveva potuto scambiare qualche parola con lui. A Berlino se ne perdono le tracce. Nessun superstite della rete lo ha mai più visto. Ma, alla fine della guerra, quando si trovava nelle mani degli americani, Manfred Roeder raccontò al giudice istruttore una strana storia, che del resto doveva ripetere a noi più tardi. Stando alle sue dichiarazioni, aveva scoperto nel fascicolo riguardante Makarov che il russo era nipote di Molotov, ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica2. Tale parentela investiva naturalmente il condannato di una particolare importanza; la sua esecuzione avrebbe assunto un significato politico. Ora, tutte le sentenze della corte marziale erano subordinate alla ratifica di Hitler; nel caso specifico di Makarov, come in qualche altro, il Führer aveva delegato i poteri a Goering. Sottoponendo a quest'ultimo il verdetto emesso contro Makarov, Manfred Roeder pose in risalto la parentela del condannato e suggerì che sarebbe stato forse opportuno tenerlo in vita, sia in vista di uno scambio con i russi, sia perché il suo cadavere non finisse con il mettere i bastoni fra le ruote ad eventuali negoziati con Mosca – e quindi con suo zio Molotov. Secondo Roeder, Goering si arrese a tale ragionamento e ordinò di chiudere il russo in un campo di concentramento. Vi fu registrato con il nome di Kokorin; lo liberarono gli americani e tornò in Russia. Sta di fatto che il New York Times, nel maggio del 1945, riferì della liberazione di un gruppo di «prigionieri eccezionali» e

2 La moglie del Gran Capo, Luba Trepper, che frequentò a Mosca la famiglia Molotov, conferma che Makarov apparteneva a questa famiglia.

menzionò tra questi il suddetto Kokorin, ma noi abbiamo la certezza che non può in alcun caso trattarsi di Makarov. C'è un uomo che ha conosciuto bene Kokorin durante la prigionia: il capitano Payne-Best, dell'Intelligence Service, uno dei due ufficiali di cui abbiamo ricordato il rapimento perpetrato a Venlo, alla frontiera olandese, dalle SS Schellenberg e Naujocks. Dopo la cattura, Payne-Best era stato chiuso nel bunker del campo di Sachsenhausen, dove la Gestapo inviava i suoi prigionieri più importanti. Agli inizi del 1943, l'inglese vide arrivare il famoso Kokorin. Questi giungeva dalla sezione del campo riservata ai prigionieri di guerra; aveva avuto per compagno di detenzione il figlio di Stalin, aviatore caduto dietro le linee tedesche; assieme avevano tentato di evadere, ma il tentativo era fallito. Kokorin raccontò a Payne-Best che era stato paracadutato sulle retrovie del fronte tedesco per assumere il comando di un gruppo di partigiani. Braccato dai tedeschi, i piedi congelati, aveva dovuto arrendersi. Quando Payne-Best lo vide, portava ancora l'uniforme dell'Armata Rossa e aveva avuto le dita dei piedi amputati in seguito a congelamento, cosa che sembra dare credito in modo convincente al suo racconto. Aveva 22 anni, quindi era sensibilmente più giovane del nostro uomo. Contrariamente a Makarov, portava gli occhiali, dal momento che aveva tentato di suicidarsi, dopo il fallimento del tentativo di evasione, tagliandosi le vene con una delle lenti. Contrariamente ancora a Makarov, non parlava inglese, dal momento che conversava con Payne-Best in cattivo tedesco – e per dire cose di questo tipo: «Stalin gran bell'uomo... Ama enormemente mia madre... Lei va a trovarlo ogni giorno dopo mangiato... Stalin molto pigro, detesta il lavoro... ama il buon cibo, i buoni vini e le belle ragazze... Stalin

magnifico tipo... mai preoccupato, lui piace molto ridere», eccetera3. Possiamo ammettere che Makarov sia stato un sempliciotto, ma non fino a questo punto. Notiamo ancora un'inesattezza nella tesi di Roeder. Al contrario di quanto afferma, Kokorin non tornò mai in Russia. Il gruppo di «prigionieri eccezionali» di cui faceva parte, era stato trasferito all'albergo “Prags Wildbad”, nelle vicinanze di Niederdorf, cittadina del Tirolo. Qui fu liberato da un distaccamento americano. Qualche giorno più tardi, Kokorin spariva tra le montagne. Il freddo gli provocò una recrudescenza del congelamento, le piaghe si riaprirono, sopravvenne la cancrena che lo portò alla morte. Aveva confidato a Payne-Best la sua decisione di non lasciarsi rimpatriare in Russia, dove lo attendeva una sorte che presentiva incresciosa4. Kokorin, quindi, non è Makarov. Posto ciò, il problema consiste nel decidere se Roeder si sbaglia oppure mente. Non si riesce a capire che interesse avrebbe a mentire. Atteggiarsi a salvatore del nipote di Molotov? Non ha mai preteso di aver agito per un umanitarismo che del resto giudicherebbe fuori luogo; il suggerimento dato a Goering aveva per unico movente un beninteso interesse per il Terzo Reich. E poi, se quest'uomo assume un certo atteggiamento, non è di sicuro quello del russofilo, anzi – e più che mai – quello del nemico a oltranza dei bolscevichi. Infine, una menzogna che il più elementare controllo basta a smascherare, sarebbe del tutto inutile. È quindi probabile che si sbagli. In che misura? Che abbia suggerito a Goering di graziare Maka3 Payne-Best, The Venlo Incident, Londra, 1950. 4 Si sa che i prigionieri russi, al ritorno in patria, ebbero effettivamente un'accoglienza tutt'altro che festosa. Furono trattati con severità per essersi lasciati catturare. Dieci anni dopo la fine della guerra, l'essere stati prigionieri comportava ancora vessazioni e misure discriminatorie.

rov, che il Maresciallo del Reich abbia deciso di chiudere il russo in un campo di concentramento, possiamo darlo per scontato: Roeder ha scritto di persona il suggerimento e ha ricevuto la risposta di Goering. La sorte ulteriore del prigioniero, invece, non era più di sua competenza; Roeder non era neppure tenuto a conoscerla. Si può quindi supporre che, apprendendo nel dopoguerra l'esistenza di un nipote di Molotov a nome “Kokorin”, e le sue peripezie, ne abbia dedotto a torto che si trattava di Makarov. Secondo questa ipotesi, Alamo sarebbe stato un altro nipote di Molotov, sarebbe stato effettivamente graziato e incarcerato in condizioni che noi ignoriamo, ma che gli lasciavano serie probabilità di sopravvivere. Una singolare coincidenza rafforza in Manfred Roeder la certezza che Makarov sia tuttora vivo – o che lo fosse nel 1948. A quel tempo, Roeder era detenuto nel carcere di Norimberga. Ora, in ottobre, il controspionaggio americano in Germania arrestò un cecoslovacco, tale Frantizcek Klecka, che aveva ripreso servizio nelle file dello spionaggio sovietico dopo aver fatto parte, durante la guerra, della rete cecoslovacca collegata con l'Orchestra Rossa. Il caso malizioso volle che l'ex-membro dell'Orchestra Rossa fosse chiuso nella stessa cella in cui si trovava l'uomo che aveva spedito tanto suoi compagni sul patibolo o davanti al plotone di esecuzione. Dopo le reticenze iniziali, la noia ebbe il sopravvento e i due parlarono del buon tempo andato. «Quel Klecka», racconta Roeder, «mi ha portato i saluti di Makarov e mi ha invitato ad andare a trovarlo a Berlino». L'autore ha la prova che un “capitano Makarov” era in servizio a Berlino Est nel 1948. Vi dirigeva il “Gruppo I” del MGB – sigla indicante a quel tempo i servizi sovietici. Il nostro Alamo

avrebbe dunque perseverato nella specialità che lo tediava tanto a Bruxelles? È possibile. Il Centro lo avrebbe conservato nonostante il cattivo ricordo lasciato dal suo debutto? È del pari possibile: può darsi che si sia ritenuto che gli anni di tribolazione lo avessero scaltrito. Ma è tutto incerto., dal momento che il nome “Makarov” è piuttosto comune in Russia, non si può scartare l'ipotesi che il capitano del MGB sia soltanto un omonimo di quello dell'Orchestra Rossa. *** Poco dopo che Reiser ebbe fatto chiudere Georgie nel carcere di Karlsruhe, Margarete vide arrivare a bordo dei furgoni del Kommando il suo amante Kent e il figlio René5. Kent ripartì quasi subito con Pannwitz per Hornberg, nella Foresta Nera, dove aveva sede la sezione occidentale dei servizi di spionaggio delle SS. Qui, Pannwitz ricevette da Reiser la notizia che Berlino esigeva che si bruciassero, senza frapporre indugi, tutti gli incartamenti del Kommando. I documenti erano stati trasportati nella valle del Tauber, nelle vicinanze di Würzburg. Pannwitz e Reiser procedettero assieme all'incenerimento. Margarete ed i suoi figli lasciarono a loro volta Karlsruhe verso la metà di settembre; la città crollava sotto le bombe. Pannwitz li fece accompagnare presso una pensione di Friedrich-Roda, dove erano già internati la principessa italiana Ruspoli, i familiari del generale Giraud e qualche altra personalità dello stesso rango e del tutto inoffensiva. Tanto che la casa non era 5 Yefremov faceva parte di quel viaggio. Non sappiamo cosa gli sia capitato dopo. Secondo certe voci, avrebbe potuto essersi rifugiato in America del Sud alla fine della guerra, grazie a documenti falsi forniti dal Kommando.

neppure sorvegliata e ciascuno disponeva della più completa libertà di movimenti: del resto, si sapeva che donne accompagnate da bambini non sarebbero comunque riuscite ad andare molto lontano. In ottobre, Michel contrasse una polmonite bilaterale. Suo padre venne al suo capezzale il 22 e vi rimase qualche giorno. Tornò ancora il 13 dicembre senza istruzioni precise per il futuro; Margarete credette che le loro continue separazioni fossero ormai finite e che avrebbero potuto aspettare assieme la fine della guerra, il ritorno alla tranquillità, la possibilità dopo cinque anni di vagabondaggi di vivere un amore pacifico. Ma, alla metà di febbraio, si presentò Pannwitz e, nonostante le urla isteriche di Margarete in preda ad una crisi di nervi, si porto appresso Kent. Friedrich-Roda fu liberata dagli americani, poi consegnata all'Armata Rossa in ragione della sua inclusione nella zona di occupazione sovietica. Felice di quel passaggio di sovranità, Margarete fece visita alla Kommandantura russa e si presentò all'ufficiale di guardia come la moglie di un agente sovietico il cui pseudonimo era “Kent”. L'ufficiale sobbalzò esclamando: «Cosa? Kent? Ma lo stiamo cercando dappertutto! È un traditore!». Vedendo l'emozione di Margarete, soggiunse: «Beninteso, lei non è responsabile degli errori di suoi marito...». In giugno – Margarete era tuttora a Friedrich-Roda – la posta riprese a funzionare; per poco la donna non svenne quando il portalettere le consegnò una busta sulla quale l'indirizzo era di pugno di Kent. Aveva scritto la lettera in aprile e l'aveva impostata a Stoccarda. Il testo era alquanto laconico: «Quando leggerai questa mia, sarò morto. Apri la nostra piccola cassaforte. Al caso, forzala». Le aveva lasciato lo scrigno al momento di andar-

sene con Pannwitz. Margarete fece saltare la serratura e dentro trovò una lettera dattiloscritta che iniziava con questa frase: «Ho tradito il mio paese». Poi Kent confessava alla sua amante – ed era la prima volta – di essere un agente dello spionaggio sovietico; sosteneva di non essere ebreo con un'inspiegabile veemenza, si sarebbe detto che fosse una cosa essenziale per lui; indicava casualmente l'inesattezza della sua data di nascita “ufficiale” (3 luglio 1911): era nato nel 1912; concludeva dandole tutta una serie di consigli per lei e per i bambini. Un medico, compagno di detenzione di Margarete, le suggerì, dando prova di buon senso, che sarebbe stato più prudente far sparire la lettera; Margarete la bruciò. Nel settembre 1945, finalmente, sbrigate le formalità burocratiche del rimpatrio, Margarete poté lasciare Friedrich-Roda, dove più nulla la tratteneva dato che Kent era sparito. Aveva deciso di tornare in Francia. Alla frontiera fu fatta scendere dal treno con i bambini, posta in stato di arresto e interrogata spietatamente su Kent, senza che riuscisse a capire se i poliziotti francesi del controspionaggio ce l'avessero con l'agente sovietico o con il collaborazionista troppo zelante del Kommando. La scoperta di una pipa in tasca alla donna mise in agitazione i poliziotti: erano convinti che Kent avesse preso il treno con l'amante, ma che ne fosse sceso prima di giungere al confine. In realtà, l'originale Margarete suppliva alla mancanza di sigarette fumando mozziconi di una vecchia pipa di Kent. Dopo interminabili interrogatori, fu chiusa assieme a René e a Michel in un campo di internamento dove erano raccolte alcune centinaia di individui sospetti di collaborazionismo. Il regime in vigore nel campo era duro, senza paragone alcuno con Neuilly,

con Rue de Courcelles o Friedrich-Roda. Vi patì la fame e il freddo, e per soprammercato soffrì per il fatto di non capire perché la sfortuna continuasse a perseguitarla. I tedeschi l'avevano tenuta prigioniera per più di due anni, ed ecco che anche i francesi la internavano... Le pareva che il mondo fosse impazzito, che il suo destino fosse di finire dietro un reticolato, che sarebbe morta senza neppure sapere quale delitto avesse commesso. Se il delitto era stato il suo amore per Kent, luce della sua vita, perché non la smettevano di tormentarla, ora che lui era morto? L'ordine di rimetterla in libertà fu firmato alla fine dell'anno, ma Michel era così malato che Margarete dovette aspettare che si ristabilisse prima di lasciare il campo. Se ne andò solo sei mesi dopo, il 18 maggio 1946. I poliziotti le avevano fatto firmare una dichiarazione in cui si impegnava ad avvertirli se avesse avuto notizie di Kent. Aveva due figli a carico, uno di 14 anni, l'altro di 3. Era senza denaro e senza un mestiere, con la salute seriamente compromessa. Ora che ovunque cominciava la lenta ma, irresistibile ascesa verso le dolcezze del vivere, le si aprivano davanti dieci anni di malattie e di miseria. *** Quella sera di dicembre del 1965 in cui trascinai mia moglie al “Moulin Rouge” di Place de Brouckhere, a Bruxelles, lei sapeva in anticipo che non sarebbe stata una serata allegra. Erano due anni che compivamo assieme i nostri pellegrinaggi, e aveva fatto l'abitudine alle mie meditazioni sui luoghi deputati: uno di questi era il “Moulin Rouge”. Ci assegnarono un tavolino ai bordi

della pista e, gravi e silenziosi come eravamo, suppongo che abbiamo offerto lo spettacolo, capelli bianchi in meno, di una vecchia coppia afflitta venuta lì a celebrare il trentesimo anniversario di matrimonio. Ero ormai rotto al funzionamento della mia macchina per risalire a ritroso nel tempo e il gioco delle trasposizioni mi era divenuto istintivo. Quel cliente biondo seduto di fronte a noi era Kent – veniva spesso al “Moulin Rouge”. Se un cameriere si chinava su di lui, certo era per sussurrargli all'orecchio che la gelosa Margarete lo chiamava al telefono. Al posto delle ballerine spagnole che eseguivano il loro numero, vedevo il balletto del “French-Cancan” del 1940: «Composto per intero da ragazze ebree, signore! Prima facevano dei numeri, ma i loro compagni di lavoro, che non erano ebrei, le avevano abbandonate, e le ragazze si erano messe assieme». Robert Christen, sì, era là, sul palcoscenico, e cantava le sue strofette comiche senza sospettare che lontano, verso est, si stava raccogliendo per lui un pubblico di tutt'altro tipo. Le luci si spensero e fu annunciata l'entrata in scena del prestidigitatore. Inutile, ormai, la macchina per risalire a ritroso nel tempo, inutile il gioco delle sostituzioni: quel ragazzo dai gesti scattanti, aggraziati, pieno di fuoco e di vita, era Michel, il figlio di Kent, che dava la sua rappresentazione nello stesso locale in cui suo padre era stato assiduo spettatore al tempo in cui si chiamava “Sierra”. *** Fino al 1961 vive nella scia tormentata di sua madre. A 15 anni viene assunto in qualità di fattorino da un'agenzia fotogra-

fica di stampa, dove impara di nascosto a sviluppare. Un giorno, un grave incidente stradale ha luogo proprio sotto le finestre dell'agenzia. Non c'è neppure un fotografo. Lui afferra un apparecchio, si precipita per le scale, scatta parecchie foto, le sviluppa, porta le copie nelle redazioni di Bruxelles e le foto sono tutte pubblicate. Viene inserito nella squadra dei fotografi. Il giorno delle nozze di re Baldovino è in prima fila tra la folla. Il passaggio della carrozza crea lo scompiglio – tutti vogliono vedere. Il servizio d'ordine si innervosisce. Un poliziotto prende a manganellate Michel, che crolla a terra con la frattura del cranio. All'ospedale, qualcuno gli regala del materiale da illusionista. Siccome non ha niente da fare, se ne serve per passare il tempo; una volta guarito, decide di guadagnarsi il pane così. Gli inizi sono duri, solo qualche briciola. Poi, il successo e le tournées attraverso il mondo: Germania, Canada, Stati Uniti, Medio Oriente, Giappone. Non la ricchezza, ma l'agiatezza. Risparmia – quando la madre è cicala, il figlio si fa formica. Conta di abbandonare la prestidigitazione fra dieci anni, dopo la trentina, sazio di viaggi e di esperienze. E poi? Non lo sa ancora. Ma con quella sua maturità, quella serietà, quella lucidità, dovunque decida di andare scommettiamo che andrà lontano. Dal punto di vista fisico, è un Kent in versione migliorata. Le labbra meglio disegnate, il viso più fine, le orecchie meno a sventola, l'espressione più aperta. Margarete non gli ha dato niente, ma ha saputo smussare la bruttezza dell'altro. Nella sua professione, a quanto pare, bisogna scrivere molto: agli impresari, ai direttori di music-hall, di locali notturni, eccetera. Michel ha un archivio, uno schedario ed una scrivania alla quale stare seduto più ore al giorno. Sulla scrivania ha posato il

ritratto di suo padre, scomparso quando aveva 2 anni. Così lavora a pochi centimetri da lui, sotto il suo sguardo. Venera Kent. Lo ama. Ah, Michel, pensavo a lei e la mia penna si inciampava al momento di scrivere degli abbandoni di suo padre, delle sue viltà, dei suoi tradimenti... Aggraziato illusionista che maneggia con tanta destrezza fazzoletti e colombe, ho cavato dal mio calamaio un'immagine desolante che lei non potrà far sparire. Che ci posso fare? Che ci possiamo fare, tutti e due? Lui non era fatto per certe imprese. Si può avere i nervi abbastanza saldi per restare impassibili in un sommergibile in avaria, e non abbastanza saldi da riuscire a tenere duro nei confronti di una Gestapo – non è necessariamente la stessa cosa. Si può essere stato un brillante ufficiale delle Brigate Internazionali e crollare alla vista della Citroën nera. Michel, non spetta a noi giudicarlo, né a lei né a me; ne hanno diritto soltanto coloro che non hanno parlato. Neppure per consolarla dirò che Kent era la regola. Ma non era l'eccezione. So di episodi simili: si sono visti padri tradire il figlio; figli tradire la madre. Lui, così giovane, così fragile, lo avevano mandato a battersi a tremila chilometri dalla sua patria, al fianco di stranieri. Un unico essere occupò il suo cuore; il destino volle che riuscisse a salvarlo solo a patto di diventare un traditore; se la salvezza di Margarete fosse coincisa con l'eroismo, sarebbe stato eroico e certo sarebbe salito altrettanto in alto di quanto è caduto in basso. Il Gran Capo dice: «Non sarebbe accaduto nulla se non avesse incontrato quella donna. E quando lei gli ha dato un figlio, ha perso completamente la testa». Ciò non vuole essere una soluzione per nessuno – tranne per lei, poiché quella donna è sua madre, poiché quel figlio è lei.

E poi, la commedia non è ancora finita! Lasciamo il “Moulin Rouge” (noti, per inciso, che a forza di moltiplicare le coincidenze, stasera il caso è come un attore che forzi troppo la sua parte: sopra l'ingresso del locale notturno c'è un'insegna luminosa che reclamizza le sigarette “Kent”, a destra un manifesto che vanta i televisori “Siera”), lasciamo assieme Bruxelles e raggiungiamo Kent nello châlet austriaco dove si svolgerà il penultimo atto... *** A Bludenz, ad una decina di chilometri dalla frontiera Svizzera, c'era uno châlet isolato dove si erano rifugiati Pannwitz, Kent e alcuni uomini del Kommando. Per raggiungere quell'angolo meridionale del Reich avevano dovuto percorrere 300 chilometri attraverso le unità tedesche in ritirata, lungo strade sbarrate da posti di blocco della polizia o delle SS pronte a fucilare chi voltava le spalle alla linea del fuoco. Ma il Kriminalrat era in possesso di un documento, firmato congiuntamente da Himmler e dal generale Jodl, che lo autorizzava a circolare liberamente e gli conferiva potere di requisizione su civili e militari. Appiattiti nel loro châlet, ascoltarono la battaglia avvicinarsi. Arrivarono i francesi della Prima Armata. Un giorno eccoli lì, a Bludenz: dallo châlet si udiva il rombo sordo dei loro carri armati. Pannwitz ed i suoi uomini bruciarono propri documenti di identità; nervosi, tesi, aspettarono la conclusione. L'attesa si fece eterna. Avevano previsto tutte le ipotesi, tranne quella: che non venissero a cercarli. Le settimane passavano e loro continuavano a girare in tondo nello châlet, tra i prati in fiore e il canto primaverile degli uccelli. Ogni sera, Kent si collegava con Mosca. Giù

in basso, a Bludenz, si procedeva ad una pacifica occupazione. Era una cosa sconcertante. Perché si occupassero di loro, fu necessario che un loro compatriota, un profugo berlinese, li denunciasse ai francesi. Una mattina, videro un gruppo di soldati prendere posizione attorno allo châlet e puntare un cannone da 37. Veniva loro offerta l'occasione di una fine gloriosa. Ma il Kriminalrat Pannwitz decisamente era troppo scaltro per morire per una causa persa. Agitò uno straccio bianco e i suoi uomini alzarono le braccia. Si fece avanti un giovane tenente francese, pistola in pugno e, senza degnarli di uno sguardo, si precipitò su una fotografia del Führer che ornava la parete; la afferrò e la strappò mentre le SS contemplavano con occhio torvo la Croce di Ferro che si era appeso alla cintura in modo che gli battesse sulle natiche. Pannwitz guardò Kent. Questi fece un passo avanti e disse: «Appartengo ai servizi di spionaggio sovietici; ho il grado di maggiore dell'Armata Rossa. Questi signori fanno parte di un movimento di resistenza tedesco e lavorano con me da molto tempo». Siccome il tenente, attonito, si mostrava incredulo, Kent gli fece vedere gli ultimi dispacci ricevuti dal Centro. E concluse: «Naturalmente, questi signori restano sotto la mia protezione: ho bisogno di loro. Quanto a questo materiale», e indicò l'emittente e l'ornamento personale delle SS, «è di proprietà dell'Armata Rossa e la prego di non toccarlo». I dispacci del Centro avevano convinto il tenente. Salutò e se ne andò con la Croce di Ferro ballonzolante sulle natiche. Ma una settimana dopo il suo gruppo ricevette il cambio. Il suo sostituto si presentò allo châlet, inarcò le sopracciglia al racconto di Kent, fiutò comunque la possibilità di un incidente diplomatico e giudicò prudente sbarazzarsi al più presto di quel maggiore del-

l'Armata Rossa e di quei signori della Resistenza tedesca; li fece portare al quartier generale di Lindau. Pannwitz e Kent furono ricevuti da un colonnello pieno di lavoro fin sopra i capelli. Tra una telefonata e l'altra, domandò loro se non avevano sentito parlare di un gruppo della Gestapo dal bizzarro nome di “Kommando Orchestra Rossa”. Pannwitz si agitò sulla sedia e cercò di fare sì che l'altro fosse più preciso. Il colonnello gli porse un telegramma, spedito dal quartier generale americano più vicino, in cui veniva segnalata ai francesi la presenza nella zona del “Kommando Orchestra Rossa”, il cui capo era un certo Heinz Pannwitz, e veniva chiesto loro di fare di tutto per catturarlo: stando a certe informazioni, aveva il compito di uccidere il generale Patton. Kent si affrettò a cambiare discorso. Declinò le proprie generalità, il suo grado e fornì al colonnello certi particolari che accreditavano la sua appartenenza ai servizi russi. Pannwitz esibì a sua volta dei documenti falsi, moltiplicando le professioni di fede anti-hitleriane. Probabilmente colpito, pur senza essere convinto del tutto, il colonnello decise che un bicchiere non avrebbe fatto male a nessuno: così, brindarono allegramente alla vittoria alleata. Dopodiché, il colonnello si affrettò a stendere un rapporto per il generale de Lattre de Tassigny. Le SS e Kent passarono la notte in una camerata del quartier generale, tra alcuni soldati francesi assolutamente indifferenti. Giunta l'ora del consueto collegamento radio con Mosca, Pannwitz vide con stupore Kent passare discretamente la radio ad una SS. L'apparecchio, catturato ad un agente inglese, era per quei tempi un vero prodigio tecnico: le due pile stavano in una scatola di fiammiferi e minuscolo era il microfono. Quando ebbe inizio l'emissione, i soldati

francesi si limitarono a scoccare un'occhiata distratta a quel loro ospite che, la mano sull'orecchio, il volto chino, gli occhi chiusi, si mise a mormorare nel sonno. In realtà, la SS – un radiotelegrafista esperto – si era nascosto il microfono nel palmo della mano e dettava il testo del dispaccio; Kent trascriveva in margine ad un libro che fingeva di annotare. Era una prodezza gratuita, ma per lo meno ebbe il vantaggio di stendere i nervi. L'indomani mattina, Pannwitz e Kent appresero che li spedivano a Parigi, avendo il generale de Lattre deciso di addossare la responsabilità di mettere in chiaro la faccenda al Ministero della Guerra. Così tornarono a Parigi, accompagnati da un ufficiale di de Lattre, dieci mesi dopo esserne fuggiti a precipizio, incalzati dagli uomini di Leclerc. Avevano con loro 10 valigie piene di effetti personali; Pannwitz era sempre armato della sua pistola; nessuno gli aveva chiesto di aprire la cartella colma di documenti da cui non si separava mai. Imbarazzato, il Ministero preso contatto con la delegazione sovietica insediata all'ex-ambasciata di Estonia. Il tenente colonnello Novikov dichiarò che avrebbe accolto ben volentieri il maggiore dell'Armata Rossa: la sua missione a Parigi consisteva proprio nell'organizzare il rimpatrio dei cittadini sovietici. Quanto a quei poveri signori della Resistenza tedesca, avrebbe visto che cosa si poteva fare. Il 6 giugno 1945, un'automobile della missione portò Pannwitz e Kent al Bourget dove li attendeva un aereo. Decollarono per Mosca con le loro 10 valigie e la cartella di documenti. Novikov aveva trattenuto soltanto la pistola del Kriminalrat. Non erano mancate le occasioni. Non parliamo della frontiera Svizzera: a due ore di marcia, è vero, ma molto sorvegliata,

quasi impossibile da varcare. Il Tirolo, vicinissimo, offriva maggiori probabilità, con le sue fitte foreste, le sue valli recondite. Tutti i canali di evasione nazisti passavano di là, per raggiungere l'Italia e Genova, porta aperta sull'America del Sud. Mentre Pannwitz dormiva nel suo châlet, i suoi colleghi, a decine, ansimavano al seguito delle guide su per i sentieri di montagna. Non lo sapeva? Kriminalrat, a capo di un Kommando, ignorava quel prezioso particolare? Ammettiamolo. Ma la Germania di quella primavera del 1945 è come spazzata da un ciclone che travolge orde innumerevoli. I deportati, i lavoratori stranieri, i prigionieri di tutte le nazionalità tornano in patria; le famiglie sfollate in campagna rientrano in città; quelli dell'Est sono fuggiti davanti all'Armata Rossa a centinaia di migliaia; un milione di tedeschi dei Sudeti si sono ammassati sulle strade per sottrarsi alle rappresaglie cecoslovacche; la Wehrmacht forma lunghe colonne di prigionieri... Con il controllo alleato ancora incerto, regna ovunque il disordine, un caos quale l'Europa non conobbe probabilmente dal tempo delle grandi invasioni barbariche... Pannwitz è in possesso di documenti falsi, di denari, è dotato di un fisico banale. Non si muove. Non si tuffa in quel vortice di uomini in cui potrebbe sparire. Aspetta che vengano a cercarlo nel suo châlet. Per Kent, è ancora più semplice: è russo. Un alleato. Basta che scende a Bludenz, trecento metri più sotto, e diventerebbe subito, a scelta, un prigioniero dell'Armata Rossa evaso oppure un deportato liberato; i francesi lo accoglierebbero a braccia aperte; si incaricherebbero di rimpatriarlo, certo, ma con minore diligenza di quanta ne metterebbero per un maggiore dell'Armata Rossa, ufficiale dei servizi segreti. Piccolo operaio russo depor-

tato o internato di terzo ordine appena liberato, dovrebbe attendere per mesi il rimpatrio, e nel frattempo potrebbero presentarsi mille occasioni. In ogni caso, e quali che siano le incertezze del futuro, al momento si impone un imperativo: non lasciarsi prendere assieme alle SS. Kent dovrebbe sloggiare al più presto dallo châlet, abbandonare al loro destino i pericolosi inquilini, mettere la maggiore distanza possibile tra sé e loro. E invece no. Non si muove. Come Pannwitz, aspetta che vengano a cercarlo. Ammettiamolo. Vengono a cercarli. Hanno la fortuna di cadere nelle mani degli Occidentali, ciò che allora è il sogno di milioni di tedeschi. Il più oscuro caporale della Wehrmacht, colpevole soltanto di essersi battuto sei anni al fronte, attraverserebbe il suo paese in ginocchio pur di sfuggire ai russi e finire prigioniero degli Occidentali. Ma non Pannwitz. Al contrario, fa di tutto per raggiungere la Russia. Questo perché, dal momento in cui Kent rivela la propria qualità di ufficiale russo al tenente francese, la loro destinazione finale è ovviamente Mosca. Kriminalrat della Gestapo, Hauptsturmführer delle SS, fa vela verso Oriente – ed è già strano. Direttore del “Grande Gioco”, dedito da due anni alla mistificazione del Centro, si precipita verso coloro che sono stati i suoi zimbelli – ed è stupefacente. A causa delle sue funzioni, Pannwitz conosce meglio di chiunque altro i motivi di attrito esistenti tra gli Alleati; da parte dei suoi colleghi c'era perfino la tendenza a esagerarne smisuratamente l'importanza. Dovrebbe essergli chiaro che gli Occidentali non avranno il cuore straziato apprendendo la notizia che ha ingannato l'alleato russo; potrebbe perfino darsi che i loro servizi segreti si interessassero discreta-

mente alla cosa. Ma, anziché rifugiarsi tra le loro braccia rassicuranti, va a gettarsi in quelle del suo peggior nemico: il Direttore. Quanto a Kent, è semplicissimo: corre al patibolo. Tra Bludenz e Lindau, tra Lindau e Parigi, potrebbe evadere dieci volte: nessuno li scorta, semplicemente sono accompagnati. Un passo di fianco e scomparirebbe. Invece, prosegue dritto davanti a lui, dritto verso la morte. Incomprensibile? Forse no.

XXXVIII. UN PICCOLO GIOCO

Gestapo-Müller. Citiamo come promemoria la descrizione del capitano PayneBest, il rapito di Venlo: «Un ometto per benino»1. Il nobile gentleman ha un'irresistibile inclinazione a giudicare tutto ciò che non è britannico, piccolo di statura e intellettualmente sprovvisto dei mezzi che gli permetterebbero di lottare ad armi pari con i membri dell'Intelligence Service. Ma è vero che Heinrich Müller non era alto. Scrive Schellenberg: Piccolo e tozzo, con il cranio squadrato del contadino e la fronte sporgente, aveva labbra sottili e penetranti occhi bruni, velati da palpebre pesanti agitate da fremiti nervosi. Le mani dalle dita a spatola, erano larghe e massicce2.

Entra nelle file della polizia bavarese assai prima dell'avvento al potere del Führer. Funzionario della Repubblica di Weimar, lotta contro i nazisti in marcia verso il potere e infligge loro duri colpi, poi diventa loro ausiliario non appena hanno trionfato. 1 «A very decent little man» (Payne-Best, The Venlo Incident, Londra, 1950, p. 44). 2 Schellenberg, op. cit.

Non che abbia voltato gabbana: la sua gabbana ha una volta per tutte i colori dello Stato, quale che sia. Devoto servitore della Repubblica di Weimar, non meno devoto servitore del Terzo Reich, servitore del re di Prussia se tornasse sul trono, è della stessa pasta di Giering e Berg. Ma mentre questi passano attraverso tutti i colori con un'indifferenza da camaleonte, ogni vicissitudine deve consentire a Müller di sfogare in modo più completo la sua passione per l'ordine, l'autorità – lo Stato. Wilhelm Hoettl, Obersturmführer dei servizi di informazione delle SS: «Riconosceva per unica legge l'onnipotenza dello Stato e considerava nemico ogni individuo sospetto anche di semplice resistenza intellettuale. Suo modello era la polizia segreta sovietica e certo riuscì a creare un'organizzazione degna di quell'ideale» 3. Reitlinger: «Fu per dieci anni la personificazione del capo di polizia freddo, privo di passioni, sempre sulla breccia» 4. Edward Crankshaw: «Era il perfetto prototipo del funzionario senza opinioni politiche, avido di potere personale e dedito al servizio dell'autorità, dello Stato»5. Così poco nazista, in verità, e afflitto da tali precedenti, che il Partito oppone un tenace rifiuto alle sue domande di iscrizione. Non che Müller sia consumato dal desiderio di ottenere una tessera, ma il suo superiore Heydrich ritiene sconveniente che il capo della Gestapo non sia membro del Partito, quando perfino il più oscuro funzionario tedesco si affretta ad aderirvi. La situazione, in effetti, è singolare. Ma ci vorranno anni di sforzi, e tutta la potenza di Heydrich, perché la Cancelleria nazista rinunci al

3 W. Hoettl, The Secret Front, Widenfeld, 1953, p. 58. 4 Reitlinger, The S.S., Heinemann, 1956, p. 39. 5 E. Crankshaw, Gestapo, Putnam, 1956, p. 96.

suo ostracismo: Müller è accettato soltanto nel 1939, alla vigilia della guerra. La Cancelleria è diretta fin dalla creazione da Rudolf Hess. Uno dei più vecchi compagni di Hitler (gli dà del “tu”), successore designato in seconda linea (dopo Goering), si dedica con sfrenata passione all'astrologia e alle pratiche magiche. Il 10 maggio 1941, mentre lo Stato Maggiore tedesco dà gli ultimi tocchi ai preparativi dell'“Operazione Barbarossa”, le chimere di Hess lo inducono a mettersi ai comandi di un Messerschmitt e a decollare verso la Scozia, animato dall'insensata aspirazione di concludere da solo la pace separata tra la Germania e la Gran Bretagna. Il suo vice si chiama Bormann. Martin Bormann. Ex-amministratore di una tenuta del Meclemburgo, sabotatore nella Ruhr ai tempi dell'occupazione francese del 1923, condannato nel 1924 da un tribunale tedesco per omicidio politico, liberato nel 1925, iscritto della prima ora al Partito nazista, «era», scrive Schellenberg, un uomo tozzo, dalle spalle quadrate, il collo taurino. La testa, china in avanti, era sempre leggermente piegata di lato; aveva gli occhi di un pugile che guardi l'avversario. Le dita corte, nodose, erano coperte di peli neri6.

Vice di Hess alla Cancelleria del Partito, era riuscito, già prima della fuga in Scozia, a raggiungere posizioni-chiave sulla strada del potere. Hitler lo aveva nominato suo consigliere privato e suo amministratore finanziario: tali funzioni gli assicurava6 Schellenberg, op. cit., p. 396.

no necessariamente l'intimità del Führer7. Nel maggio del 1941, era abbastanza saldamente piazzato per non dover temere di subire le conseguenze del gesto di Hess. I principali collaboratori di questi furono arrestati o caddero in disgrazia, ma non Bormann, il quale anzi continuò a rafforzare il proprio potere fino a possedere, come scrive Trevor-Roper, «un'incontestata supremazia, quale non era mai esistita prima tra gli stretti collaboratori del capo». Raggiunse tale posizione senza sbalzi, senza scosse, mediante la perseveranza e una sorta di modesta tenacia. Una segretaria di Hitler: «Organizzatore forsennato e vero e proprio Ercole delle scartoffie, Bormann preparava la pappa fatta a Hitler e lo sbarazzava di tutti i problemi noiosi»8. Rosenberg, ministro nazista dei Territori Orientali: Quale che fosse l'argomento di conversazione a tavola, Bormann cavava di tasca il fazzoletto e prendeva nota. Il Führer si irritava per una frase, un provvedimento, un film? Bormann prendeva nota. Quando una qualsiasi faccenda appariva oscura, Bormann si alzava, poi tornava: aveva dato ordine al suo ufficio di fare immediatamente ricerche, di telefonare, di telegrafare, di scrivere... e capitava che Bormann riuscisse a fornire chiarimenti prima della fine del pasto9.

E ancora: «Indispensabile, infaticabile, dotato del dono dell'ubiquità, fu ormai», conclude Trevor-Roper, «l'unico depositario 7 Era stato Bormann che aveva fatto costruire il Berghof, lo châlet di montagna dove Hitler tanto amava riposarsi; sempre lui aveva acquistato i quadri per decorarlo, eccetera. Cfr. Trevor-Roper, Les Derniers Jours de Hitler, Calmann-Lévy, 1964, p. 69. 8 Zoller, Douze ans après de Hitler, Fayard, 1949, p. 31. 9 S. Lang e E. von Schenck, Trestament nazi, Trois Collines, 1948, p. 191.

dei segreti di Hitler, l'unico intermediario dei suoi ordini, l'unico mezzo per avvicinare il dittatore sempre più inaccessibile» 10. *** Müller, beninteso, conosce Bormann da lunga data, ma il suo primo vero contatto con lui si situa esattamente dopo la fuga di Hess. Gestapo-Müller è stato incaricato di ripulire la Cancelleria nazista, divenuta agli occhi di Hitler le stalle di Augia del Terzo Reich. Per Bormann, questa è l'occasione per sfogare certi suoi vecchi rancori nei confronti dei colleghi e soprattutto di eliminare eventuali concorrenti. Müller, che ha deciso di aggiogare il suo carro alla stella in ascesa di Bormann, presta orecchio compiacente ai suoi suggerimenti: fa piazza pulita; anche quei dignitari della Cancelleria che non erano affatto compromessi dalla fuga di Hess si trovano ingiustamente puniti. Scrive Schellenberg: Müller aveva compreso che Bormann sarebbe succeduto ad Hess e che era una personalità infinitamente più dinamica. Così, pur fingendo di fronte a Himmler ed Heydrich di essere contro Bormann, Müller si sforzò di stringere con lui ottimi rapporti personali11.

Le loro affinità erano troppo grandi perché fallissero il bersaglio. Due uccelli rapaci, che avevano in comune gli stessi fini e si servivano degli stessi mezzi; posseduto l'uno e l'altro da un'identica passione per il potere considerato come fine in sé, e non come la possibilità di porre in atto una certa ideologia o una cer10 Trevor-Roper, op. cit., p. 96. 11 Schellenberg, op. cit., p. 217.

ta politica; quale, infine, fu Joseph Fouché, forse il più notevole dei discepoli di Machiavelli, che, servendo di volta in volta la repubblica, l'imperatore e il re, servì sempre e soltanto il potere che ne otteneva; due uomini dell'apparato (apparatchiki, come dicono i russi) capaci di assicurarsi il controllo delle leve di comando nel modo meno spettacolare e più efficace (i suoi concorrenti nazisti definivano Bormann «il Mefistofele di Hitler», «quell'Eminenza bruna, sempre appiattita nell'ombra»); assetati di potere, ma soprattutto tecnici del potere che sapevano distinguere le realtà di fatto dalle vuote vanità. Goebbels, Ribbentrop, perfino Goering, avranno diritto fino all'ultimo alle luci del proscenio, ma è Bormann che, dietro le quinte, regola i riflettori e calcola l'illuminazione. La sua ascesa era irresistibile perché invisibile. All'improvviso eccolo lì, ed è tutto, mentre fa di tutto per sembrare nulla, cosa difficile alla natura umana. Al pari di lui, GestapoMüller non perseguirà mai la vanità del potere. Wilhelm Hoettl: La sua grande ambizione era quella di mettere a punto uno schedario centrale con una scheda individuale per ogni tedesco vivente, sulla quale naturalmente fosse riportato ogni “episodio dubbio”, anche il più banale 12.

Questo è il vero potere. È significativo che gli storici si servano di immagini quasi identiche per descriverli. Trevor-Roper dice di Bormann che possedeva la natura della talpa, la quale evita accuratamente la luce del giorno e della pubblicità, e sottolinea il fatto che si possiedono di lui solo pochissime fotografie. Serge Lang ed Ernst von Schenk: 12 W. Hoettl, op. cit., p. 58.

Martin Bormann, la potenza invisibile [...] il cui nome apparve raramente nei giornali tedeschi nei cinque anni di guerra, la cui fotografia non era quasi mai pubblicata e la cui attività era sempre evocata con la massima discrezione dall'apparato propagandistico di Goebbels [...], quest'uomo di cui è già molto se un tedesco oggi vivente sa se era alto o basso, magro o grasso...13.

Edward Crankshaw, a proposito di Müller: Lavorava in modo anonimo e non si lasciava alle spalle praticamente alcuna traccia. Troviamo la sua firma su ordini che autorizzavano le azioni più atroci. Lo sorprendiamo un paio di volte in azione e ci meravigliamo di scoprire che quest'uomo senza ombra, questo mezze maniche, poteva sfoderare e usare una pistola. Ma non sappiamo nulla di lui, né da da dove venisse, né dove andò...14.

Erano fatti per intendersi. Capo della Gestapo, Heinrich Müller assume dall'inizio alla fine la responsabilità tecnica del “Grande Gioco”. La direzione politica della partita, invece, passa per parecchie mani. Spetta dapprima a Himmler, il quale lancia l'operazione con il fine segreto descritto da Schellenberg: distruggere l'alleanza nemica per giungere ad una pace di compromesso con l'Occidente. Ma il Reichsführer, per alimentare un Funkspiel di tale portata, deve ottenere dai Ministeri tedeschi, e in particolare dagli Esteri, un 13 Lang e Schenk, op. cit., p. 190. 14 Crankshaw, op. cit., p. 96.

materiale di primo ordine. Ne risultano incessanti conflitti che solo l'autorità del Führer è in grado di dirimere. Hitler, che trabocca di avversione per le faccende dello spionaggio, monopolizzato dalla direzione delle operazioni militari, scarica su Bormann la responsabilità di garantire un arbitraggio che lo infastidisce. Da questo punto, l'iniziativa sfugge a Himmler. Bormann, padrone del materiale necessario all'intossicazione, diventa l'ispiratore del “Grande Gioco”. Per ordine del Fühurer, se ne occupa personalmente, senza l'aiuto di alcun collaboratore, di alcuna segretaria. A parte i capi della Gestapo, gli unici al corrente sono Ribbentrop e un gruppo di esperti scelti con somma cura. Le pratiche restano chiuse in un'enorme cassaforte; recano l'etichetta: «Operazione Orso». *** Nella primavera del 1943, una banale riunione di lavoro vede raccolti Schellenberg e Gestapo-Müller. Il primo riferisce nelle sue Memorie: Müller, con il quale ero sempre più su un piede di aperta inimicizia, quella sera si era mostrato particolarmente corretto e cortese. Cominciò con il parlarmi dell'Orchestra Rossa. Si era occupato di certi casi di tradimento, dei loro moventi e dell'ambiente intellettuale nel quale si erano verificati. Disse: «Ritengo che in base alle sue esperienze personali giudicherà al pari di me che l'influenza sovietica nell'Europa occidentale non si fa sentire unicamente nelle classi lavoratrici, ma prende piede allo stesso modo nei ceti colti.

A mio modo di vedere, si tratta di un'evoluzione inevitabile, storica, tipica della nostra era, soprattutto se si considera l'anarchia spirituale della nostra cultura occidentale, ivi compresa l'ideologia del Terzo Reich. In tale deserto spirituale, il nazionalsocialismo altro non è che una sorta di letamaio! Ciascuno può invece vedere che in Russia si sta sviluppando una forza spirituale e biologica realmente pura. La Rivoluzione spirituale e materiale verso la quale tende il comunismo contrappone una sorta di carica di elettricità positiva al nostro negativismo occidentale». Ero seduto di fronte a Müller, perso nei miei pensieri. Tale era l'uomo che aveva condotto, in tutte le forme, la lotta più spietata, più brutale contro il comunismo, l'uomo che, nella sua inchiesta sull'Orchestra Rossa, non aveva lasciato inesplorato neppure un palmo di terreno nella speranza di scoprire fin le minime ramificazioni di una cospirazione. Che voltafaccia!... Continuava a parlare: «Vede, Schellenberg, tutte queste storie tra noi, è troppo stupido. Da principio pensavo che ci saremmo intesi, nel lavoro come in privato, e invece non ha funzionato! Lei ha certi vantaggi su di me. I miei genitori erano poveri e io mi sono fatto da solo. Ero un agente di polizia... Vengo dalla gavetta... Lei è un uomo istruito, un giurista, con una solida base culturale, e ha viaggiato. In una parola, lei è invischiato nell'ottimismo pietrificato della tradizione conservatrice. Prenda ad esempio qualcuno che lei conosce

dell'Orchestra

Rossa:

Schulze-Boysen,

o

Harnack... Anche loro degli intellettuali, ma di tutt'altro genere – dei puri –, dei rivoluzionari progressisti, sempre alla ricerca di una soluzione definitiva, mai fermi alle mezze misure. E sono morti continuando a credere

in tale soluzione defintiva. Il nazionalsocialismo è troppo pieno di compromessi per offrire una simile fede: il comunismo spirituale può farlo... Devo dire che attualmente vedo Stalin sotto tutt'altra luce. È infinitamente superiore a tutti i dirigenti delle nazioni occidentali, e se potessi dare un consiglio, sarebbe quello di accordarsi con lui il più presto possibile. Sarebbe un colpo dal quale l'Occidente, malgrado la sua dannata ipocrisia, non si solleverebbe mai più. Vede, con i russi, si sa sempre a che partito tenersi – ti tagliano la testa o ti abbracciano. In questa specie di pattumiera che è l'Occidente, non si fa che parlare del buon Dio e di un mucchio di cose vaghe, ma se ritengono di poterne trarre profitto, l'asceranno crepare di fame un intero paese! La Germania sarebbe al comando se il Führer avesse davvero preso le cose come bisognava. Ma da noi si comincia tutto e non si finisce niente, e se non stiamo attenti, per noi sarà la fine! Himmler possiede una certa energia, ma soltanto quando si sente spalleggiato dal Führer. Altrimenti, non sa decidere. Heydrich gli era superiore di molto. Il Führer aveva ragione quando lo chiamava “l'uomo dal cuore d'acciaio”. Quanto a Bormann, sa quel che vuole, ma non ha la stoffa dello statista. E lo guardi con Himmler, due serpi che si battono! Himmler avrà il suo da fare a venirne a capo». Ascoltavo stupefatto. Avevo sempre sentito Müller trattare Bormann da criminale. Che brusco cambiamento di atteggiamento! Mi sentivo sempre più nervoso; dove voleva andare a parare? Era una trappola? Ingollava un bicchierino dietro l'altro e, in dialetto bavarese, continuava a blaterare contro l'Occidente decadente e contro tutti i nostri dirigenti: Goering, Goebbels, Ribbentrop e Ley, cui dovevano fischiare le orecchie. Siccome Müller

era un vero e proprio schedario ambulante, al corrente dei più intimi particolari, la cosa si stava facendo abbastanza divertente. Ciò nondimeno, ero piuttosto preoccupato. Che cosa voleva quell'uomo, pieno di odio e di amarezza e diventato tutt'a un tratto loquace? Mai Müller si era mostrato così! Finalmente, per dare alla conversazione un tono più leggero, dissi: «Perfetto, compagno Müller. Avanti... Gridiamo tutti sieme: “Heil, Stalin!... e il piccolo padre Müller diventerà il grande papa del NKVD!». Mi guardò con una luce cattiva in fondo agli occhi: «E non sarebbe niente male», disse sprezzante, con il suo pesante accento bavarese. «E lei sarebbe buono per il gran salto, lei e i suoi maledetti amici borghesi!». Uscii da quel singolare colloquio senza sapere esattamente dove Müller volesse andare a parare... Ma lo capii qualche mese dopo15.

*** Al tempo in cui ha luogo questo colloquio, davvero singolare, i capi della Resistenza tedesca concepiscono l'idea ancora più singolare di arruolare Himmler nelle loro file. Abbiamo riferito più sopra dell'udienza accordata dal Reichsführer ad uno dei congiurati, del suo tacito assenso al suggerimento di intavolare negoziati di pace con l'Occidente, della successiva partenza di Langbehn per la Svizzera per andare a portare la buona notizia ai suoi corrispondenti occidentali. Abbiamo anche detto che il tentativo era fallito a seguito dell'intercettazione di un messaggio

15 Schellenberg, op. cit., p. 397.

nel quale uno degli interlocutori di Langbehn riassumeva, a beneficio dei suoi capi, le proposte ricevute. Quale servizio tedesco ha intercettato il messaggio? Nessun documento di archivio a noi noto lo dice, ma non è difficile dedurlo dalla sorte riservata alla scoperta. Se si tratta dell'Abwehr di Canaris, la faccenda non avrà alcun seguito: l'Abwehr, scudo e ferro di lancia della Resistenza tedesca, ovviamente non metterà i bastoni tra le ruote ad un'iniziativa presa dalla Resistenza stessa. Se si tratta del Servizio informazioni delle SS, lo scandalo verrà del pari soffocato, perché il messaggio compromette il suo capo, Walter Schellenberg; questi nota nelle sue memorie: «Vi si faceva cenno al fatto che Langbehn avesse intrapreso tali iniziative ufficiose con il mio consenso». Se si tratta di un servizio di ascolto della Gestapo, la faccenda non dovrebbe avere egualmente seguito, poiché pone Himmler in una posizione delicata. A patto che Müller, capo della Gestapo, sia devoto al suo Reichsführer. Il dispaccio intercettato viene sottoposto, nel più breve lasso di tempo, all'attenzione di Hitler. In flagrante violazione delle norme gerarchiche, Gestapo-Müller confida la sua scoperta a Bormann perché ne faccia buon uso. Peggio ancora: omette di avvertire Himmler. Il Reichsführer, nell'ignoranza in cui è tenuto, riceve Langbehn al ritorno dalla Svizzera e ascolta il suo rapporto, finendo così per compromettersi totalmente. Riuscirà a scongiurare il pericolo perché, nel 1943, è ancora abbastanza potente da tenere in scacco Bormann, ma sarà costretto ad arrestare Langbehn e a rinunciare a sfruttare le proprie relazioni occidentali16. 16 L'operazione Müller-Bormann è condotta con tanto rigore e tanta decisione da indurci a chiederci se non si trattasse, fin dall'inizio, di un colpo montato. L'intercettazione del messaggio è, infatti, tuttora circondata di mistero. Allen Dulles, che a quel

Ricordiamo che Bormann e Müller, i quali hanno fatto fallire così abilmente il tentativo di intavolare negoziati, sono gli ispiratori di un Funkspiel il cui scopo consisteva inizialmente nell'intossicare Mosca per facilitare la conclusione di una pace separata con gli Occidentali. Secondo ogni apparenza, non hanno lo stesso obiettivo. Ma ciò non deve sorprendere Himmler. Quando Schellenberg lo ha scongiurato per la prima volta, nell'agosto del 1942, di intavolare negoziati, il Reichsführer ha concluso il colloquio con questo avvertimento: «Non dobbiamo mai permettere che Bormann abbia sentore dei nostri progetti. Scompiglierebbe tutti i nostri piani, ovvero li scombussolerebbe per cavarne un compromesso con Stalin. E non dobbiamo consentire che accada una cosa del genere». Nell'aprile del 1943, durante il secondo colloquio: «[Bormann] è responsabile di molte decisioni sbagliate del Führer. In effetti, non solo ha approvato il suo atteggiamento inflessibile, ma lo ha reso ancora più ostinato»17. Bloccare ogni tentativo di apertura verso l'Occidente, rafforzare il Führer nel rifiuto di una soluzione diversa dalla vittoria finale, equivale a rendere a Stalin il più prezioso servigio. A partire dalla conferenza di Teheran, dove ha ricevuto da Churchill e da Roosevelt soddisfazione alle sue richieste, il capo del Cremli-

tempo era il rappresentante dei servizi americani in Svizzera, afferma nel modo più categorico che l'intercettazione non fu opera sua, né dei servizi britannici. Di chi, allora? Non si può concepire l'idea che Langbehn abbia un abboccamento, nel 1943, con rappresentanti della Francia Libera o del governo belga profugo a Londra o di qualsiasi altro governo in esilio, il cui peso sulla decisione alleata sarebbe stato praticamente nullo. Non è impossibile che Müller sia stato avvertito della missione di Langbehn dai suoi informatori (di tutte le Resistenze, quella tedesca fu senza dubbio una delle più loquaci). Avrebbe allora deciso di sottoporre il caso all'attenzione di Hitler nella forma particolarmente accusatrice di un cosiddetto dispaccio intercettato dai suoi servizi, ma di fatto inventato di sana pianta... 17 Schellenberg, op. cit., p. 388.

no vive nell'ossessione di una pace separata tra i suoi alleati e la Germania, pace che lo priverebbe dei frutti della vittoria. *** Paul Leverkuehn, uno dei collaboratori dell'ammiraglio Canaris, spiega che il disgusto del suo capo per il nazismo era superato soltanto dalla sua avversione per il comunismo; l'unica qualità che Canaris riconoscesse al primo, era il fatto che fosse il nemico più spietato del secondo. Ma tale antagonismo ben presto gli parve venire meno in ragione delle segrete inclinazioni di certe personalità del regime. Scrive Leverkuehn: In piena guerra, considerò con la massima preoccupazione la situazione rivelata dalla scoperta dell'Orchestra Rossa, l'organizzazione dello spionaggio sovietico che aveva infiltrato il Ministero dell'Aviazione; credeva fermamente che le file di tale organizzazione si estendessero fin nel quartier generale di Hitler, e fino al suo più stretto collaboratore, Martin Bormann18.

Il capo dell'Abwehr chiamava Bormann «il bolscevico bruno»19. Walter Schellenberg: Nel 1945, avendo una visione chiarissima della situazione generale e perfettamente cosciente del pericolo che

18 Leverkuehn, op. cit., p. 197. 19 «Eminenza bruna», «bolscevico bruno»: il colore deriva ovviamente da quello della camicia dell'uniforme nazista, che era appunto bruna.

correva, [Bormann] fu uno dei primi a tentare di passare in campo orientale20.

Ancora Schellenberg, dopo aver udito i sorprendenti discorsi di Gestapo-Müller: La conversazione aveva avuto luogo nel momento in cui Müller attuava il suo voltafaccia intellettuale. Non credeva più nella vittoria della Germania e riteneva che una pace con la Russia costituisse la migliore soluzione. Cosa che, del resto, concordava con i suoi metodi. A giudicare dalle sue azioni, la sua concezione dei rapporti tra lo Stato e l'individuo non era mai tedesca, né nazionalsocialista, ma puramente comunista. Quanti proseliti aveva fatto e sospinto nel campo delle potenze orientali?

E Schellenberg conclude: La sua inimicizia mi costò cara in fatto di preoccupazioni e dispendio di energie... soprattutto dopo che ebbi scoperto, alla fine del 1943, che era in contatto con i servizi segreti russi21.

Con una lieve variante sulla data. Wilhelm Hoettl, dei Servizi di informazione delle SS, rinnova e sviluppa l'accusa di Schellenberg: Fin dal 1944, Schellenberg aveva sospettato che Müller si servisse delle emittenti assimilate per entrare autenticamente e sinceramente in contatto con i russi. Sosten20 Schellenberg, op. cit., p. 397. 21 Schellenberg, op. cit., p. 400 (il corsivo è nostro).

ne di averne avuto la prova dopo aver posto sotto sorveglianza parecchie emittenti. Comunque dichiarò a Kaltenbrunner [il successore di Heydrich] che era pronto a fornire le prove della sua accusa. Kaltenbrunner non prese la cosa sul serio e addebitò le accuse di Schellenberg alla gelosia professionale. Ciò nondimeno, Schellenberg insistette e dichiarò che se Kaltenbrunner non agiva, avrebbe conservato le prove per dimostrare negli anni a venire che il capo della Gestapo aveva lavorato per i russi22.

*** Aprile 1945. Il Terzo Reich crolla. Larmata rossa accerchia Berlino. Quasi tutti i capi nazisti sono fuggiti dalla capitale minacciata, ma Bormann e Müller non si sono mossi. Nel bunker della Cancelleria si svolgono scene demenziali 23. I fedeli si suici22 W. Hoettl, op. cit., p. 302. 23 Una di tali scene è significativa della distanza posta da Müller tra sé e la gerarchia SS. Hitler è appena stato informato dei negoziati intavolati da Himmler con il conte Bernadotte allo scopo di firmare un armistizio con gli Occidentali. Il suo furore è pari soltanto allo stupore (il «fedele Heinrich» lo tradisce!). «Si dimenava come un pazzo», racconta un testimone. «Si era fatto scarlatto e il suo viso quasi irriconoscibile» (Trevor-Roper, op. cit., p. 254). Tutto ciò che è SS assume di colpo il colore del tradimento, appare corrotto dalla prevaricazione, passibile di morte. Ma Himmler ed i suoi sono lontani, fuori dalla portata del Führer – non potrà dunque sfogare la sua rabbia? Per fortuna c'è un capro espiatorio: Fegelein, ex-fantino diventato generale delle SS e rappresentante personale di Himmler presso il Führer. Avendo sposato la sorella di Eva Braun, è in un certo qual modo “cognato” di Hitler. Questi non si ferma davanti a simili considerazioni di ordine familiare: nella persona di Fegelein intende punire tutte le SS. Ma chi viene incaricato di interrogare Fegelein e di fargli confessare il tradimento? Heinrich Müller, anch'egli generale delle SS, collaboratore di Himmler! Tale scelta dimostra a sufficienza che Hitler non lo giudicava di stretta osservanza SS e che gli era ben noto il suo distacco da Himmler. TrevorRoper scrive (op. cit., p. 255): «Müller aveva in pugno in quel momento una situazione quasi del tutto indipendente da costui [Himmler] e gli altri collaboratori di Himmler non ebbero mai fiducia in lui». Edward Crankshaw (op. cit., p. 98): «Il fatto che non sia stato compromesso dal tradimento del suo capo è caratteristico di tutto ciò che sappiamo di Müller».

dano. Goebbels muore assieme a sua moglie e ai suoi cinque figli. Hitler ed Eva Braun mettono fine ai loro giorni. Ma «c'era almeno un uomo, nel rifugio, il quale pensava solo a vivere: Martin Bormann», scrive Trevor-Roper. Sembra immunizzato contro l'isterismo collettivo; calmo, impavido in mezzo ai pazzi, come se quel “crepuscolo degli dèi” non lo riguardasse, come se l'alba dovesse sempre levarsi per lui, che tesse fino all'ultimo le sue trame24... Poi sparisce. *** Gestapo-Müller non risiede nel bunker della Cancelleria. Vi si reca regolarmente a rapporto, ma subito fa ritorno allo stabile della Kurfürstenstrasse dove la Gestapo si era trasferita dopo la distruzione, da parte dei bombardieri alleati, del suo quartier generale di Prinz-Albrechtstrasse. Il rifugio sotterraneo è altrettanto invulnerabile alle bombe di quello di Hitler e presenta alcuni vantaggi supplementari non trascurabili. Vi sono infatti dei locali segreti, cui si accede per porte ingegnosamente dissimulate, perfettamente attrezzati per un soggiorno prolungato: elettricità, acqua corrente, provviste di viveri e di medicinali. Ne partono parecchie gallerie, la più lunga delle quali misura un chilome24 È perfino capace di un certo humour nero, come attesta la sua conversazione con certi giovani ufficiali di Stato Maggiore assegnati al bunker: «Si mise a parlarci delle truppe di Wenck e dell'imminente liberazione di Berlino. Poi, nel suo consueto modo enfatico, soggiunse: “Quanto a voi che, fedeli al nostro Führer, avrete vissuto con lui le ore più gravi, riceverete altissime funzioni in seno allo Stato quando questa battaglia quanto prima si concluderà vittoriosamente, nonché terre nobiliari in ricompensa dei vostri leali servigi”. Dopo di che, ci sorrise graziosamente e si allontanò in tutta tranquillità». Questo colloquio scherzoso risale al 27 aprile, tre giorni prima del suicidio di Hitler (cfr. G. Boldt, La fin de Hitler, Éditions J'ai Lu, p. 141).

tro e mezzo, che raggiungono uscite di sicurezza che sboccano in mezzo alle macerie. Adolf Eichmann ha battezzato quel rifugio sotterraneo la «tana della volpe». Müller vi ha eletto il suo domicilio da quando Berlino è accerchiata. Con lui c'è il fedele luogotenente Scholz, il quale assicurava, agli ordini di Müller, il funzionamento tecnico del Funkspiel. Wilhelm Hoettl: Schellenberg affermò che Müller aveva continuato a tenersi in contatto radio con i russi dopo essersi insediato nella “tana della volpe” della Kurfürstenstrasse. Se Müller ha davvero proseguito le sue emissioni dall'interno della “tana della volpe”, il fatto confermerebbe in modo tangibile le accuse di Schellenberg. Quale uomo provvisto di buon senso – e Müller era un realista piuttosto freddo – continuerebbe infatti, negli ultimi giorni precedenti il crollo finale, ad usare un complicato sistema destinato a fuorviare il nemico, quando questo stesso nemico trionfante dista ormai solo un paio di chilometri? Sicché, se Müller ha realmente usato la sua emittente, è probabilissimo che fosse, come proclama Schellenberg, in sincero contatto con i servizi segreti russi25.

L'ipotesi che Müller abbia continuato a trasmettere praticamente sotto i cingoli dei carri armati russi, non può in alcun caso apparirci chimerica e neppure semplicemente azzardata: non abbiamo forse visto il Kriminalrat Pannwitz, subordinato di Müller, trasmettere a trecento metri di distanza dai carri armati francesi? E se l'ostinazione di Müller giustificherebbe in effetti le accuse portate contro di lui da Schellenberg, che dire della te25 W. Hoettl, op. cit., p. 303.

stardaggine di Pannwitz che resta in contatto con il Centro parecchie settimane dopo la fine della guerra... *** È nota la polemica, aperta fin dal 1945, in merito alla sorte di Bormann dopo la fuga dal bunker della Cancelleria. Si sa anche che gli organismi specializzati nella caccia ai criminali di guerra hanno la certezza che egli viva oggi in Sudamerica 26. Quanto a Müller, scomparso assieme al suo luogotenente Scholz, si ritrovò una tomba a suo nome tra le macerie di Berlino e l'amministrazione lo considerò ufficialmente morto. Ma quando fu deciso di aprire la tomba per identificare il cadavere, vi furono rinvenuti i resti di tre uomini, tutti più giovani di lui all'epoca della morte... Schellenberg: «Nel 1945 si unì ai comunisti e nel 1950 un ufficiale tedesco che era stato prigioniero di guerra in Russia mi disse di aver visto Müller a Mosca, nel 1948, e che poco dopo era morto»27. Ma Jacques Delarue, membro di un'organizzazione internazionale che si interessa da vicino ai nazisti tuttora a piede libero: «Un'informazione molto più recente segnala che Müller si troverebbe attualmente in Cile assieme a Bormann»28. *** Hanno dunque, sì o no, usato le emittenti dell'Orchestra Rossa per entrare in sincero contatto con il Centro? La risposta si 26 Eichmann lo ha confermato dopo la cattura da parte di agenti israeliani. 27 Schellenberg, op. cit., p. 401. 28 J. Delarue, Histoire de la Gestapo, Parigi, 1962, p. 444.

trova nelle centinaia di dispacci scambiati con Mosca, ma noi non li possediamo... In mancanza di meglio, affidiamoci al buon senso. L'accusa di Canaris circa i legami di Bormann, «il bolscevico bruno», con l'Orchestra Rossa? Dicerie di seconda mano; nel migliore dei casi, un'affermazione non provata. La conversazione tra Schellenberg e Müller? Sospetta, come l'insieme delle memorie di Schellenberg, cui si sa che hanno messo mano dei giornalisti. Notiamo subito che Schellenberg ricostruisce il dialogo perché, scrivendo il racconto parecchi anni dopo gli avvenimenti, non può pretendere di avere conservato il ricordo preciso di ogni frase di Müller. Ne restituisce almeno la sostanza? Concesso. Ma se si vuole provare, attraverso una conversazione, che il capo della polizia tedesca era al servizio del nemico, ogni frase è preziosa, ogni parola conta – ci vorrebbero perfino le intonazioni della voce. E poi, Müller, così prudente, così segreto, che si confida a quel modo con un rivale, è perlomeno strano... Insomma, lo pone tranquillamente sulle proprie tracce... Lo invita quasi a fare sorvegliare le emittenti assimilate... Le emittenti, soltanto queste? Ebbene, noi non abbiamo la fortuna di Kaltenbrunner: Schellenberg non ci ha offerto la prova che gli altri erano in sincero contatto con il Centro. Il fatto che non abbia pubblicato la prova dopo la guerra, come ne aveva minacciato Kaltenbrunner, non significa del resto che non l'abbia mai posseduta. Prigioniero degli inglesi, Schellenberg si è salvato la vita raccontando all'Intelligence Service tutto quello che sapeva 29. La sua prova giace forse in una cassaforte londinese. Ma fin tanto che vi resterà, noi non

29 Liberato nel 1951, morì l'anno successivo.

potremo tenerne conto30. Hoettl? Si limita a riportare, ampliandole, le accuse del suo capo, senza d'altronde pretendere di poter provare alcunché. È interessante solo nella misura in cui dimostra che un “caso Müller” esisteva e che la requisitoria di Schellenberg non è stata inventata dopo la guerra allo scopo di mettere un po' di pepe nelle sue memorie. Il caso Langbehn? È vero che Müller e Bormann hanno manovrato mirabilmente. Ma a che fine? Per troncare sul nascere un tentativo di negoziati con l'Occidente, o semplicemente per consentire a Bormann di segnare un punto a proprio favore nella lotta personale contro Himmler, ovvero per le due cose insieme? È probabile che non lo sapremo mai. Ma finché sussiste la possibilità che abbiano agito un funzione unicamente unicamente delle loro ambizioni – il sabotaggio della missione Langbehn essendo solo una conseguenza, e non lo scopo principale –, non è possibile dedurre dall'episodio il doppio gioco dei due compari. E, del resto, anche se avessero voluto impedire i negoziati con l'Occidente, che male ci sarebbe, secondo i criteri nazisti? Rispondevano ai voti di Stalin? Obbedivano soprattutto agli ordini del loro Führer, murato nel fanatico rifiuto di una transazione. Himmler tradiva, cercando di ottenere una pace di compromesso, non Bormann, impedendolo. Hanno sterilizzato il “Grande Gioco” riducendolo semplicemente ad un dardo con cui stuzzicare gli Alleati, mentre Himmler aveva pensato di farne la leva di una nuova diplomazia? È vero. Il “Grande Gioco” poteva ottenere certi risultati solo in prospettiva dinamica: bisognava, aveva preconizzato Schellenberg, prendere contatto con Mosca e in pari tempo intavolare trattati30 E, se esiste, è probabile che ci resti un'eternità...

ve con l'Occidente, in modo da accelerare il processo di disintegrazione dell'alleanza. Se le brecce aperte nel fronte alleato non venivano utilizzate per un'offensiva-lampo, a che pro darsi la pena di aprirle? Il messaggio che fu all'origine dell'articolo pubblicato dalla Pravda nel gennaio del 1944, poteva creare la confusione tra gli Alleati, ma in mancanza di un'iniziativa diplomatica tedesca, intesa a sfruttare tale confusione, il malinteso non era forse destinato ad essere chiarito rapidamente? Vero anche questo. Ma sta di fatto che l'immobilismo era voluto da Hitler. Sopravvalutando gli attriti in seno al campo avversario, era persuaso che prima o poi avrebbero fatto saltare in aria la coalizione. Ammetteva che il “Grande Gioco” servisse ad accelerare l'esplosione, ma non che sfociasse in trattative. Da cui la riflessione disincanta di un ex-funzionario degli Esteri, che fece parte del gruppo di esperti incaricati dell'“Operazione Orso”. «Hitler non era desideroso, o era incapace, di trasformare il gioco in una realtà diplomatica. E a Berlino non esisteva il Talleyrand che se ne assumesse la responsabilità». Che Bormann non abbia saputo essere Talleyrand non significa che fosse un traditore 31. Bormann e Müller (Bormann o Müller) si sono infine serviti del Funkspiel per ipotecare l'avvenire passando al Centro infor31 Del resto, anche supponendo che Himmler avesse conservato la direzione del “Grande Gioco” con l'obiettivo che era il suo, o che Hitler fosse stato desideroso e capace di giocare una partita diplomatica, o che Bormann fosse stato il Talleyrand suscettibile di assumersene la responsabilità, si sarebbero scontrati tutti e tre con il rifiuto definitivo di ciascuno degli Alleati a trattare separatamente con loro. Mirabile strumento diplomatico in potenza, il “Grande Gioco” era condannato a non portare ad alcun risultato concreto per la semplicissima ragione che nessuno dei quattro capi di Stato interessati desideravano negoziare una pace di compromesso (Churchill e Roosevelt per tutta la durata della guerra; Hitler dopo i primi rovesci in Russia, che lo mettevano in posizione di inferiorità; Stalin, comunque dopo la conferenza di Teheran, nel novembre 1943). Ma questo gli attori del “Grande Gioco” (Trepper, Bormann, Müller, il Direttore, eccetera) a quel tempo non erano in grado di saperlo, in quanto perfino i Tre Grandi ignoravano la reale saldezza della loro alleanza!

mazioni autentiche – pietre preziose nascoste nella ganga grossolana e inutile del materiale diplomatico? Hanno giocato un piccolo gioco personale nell'ambito del “Grande Gioco”? Ancora una volta, si potrebbe saperlo soltanto facendo lo spoglio degli archivi del Centro che non sono di dominio pubblico. È assodato che Bormann alimentò sontuosamente il Funkspiel, con grande scandalo dei Ministeri interessati, i quali erano sconcertati constatando che venivano trasmesse al nemico informazioni di primo ordine. È un indizio, non una prova. È del pari assodato che l'attentato del 20 luglio 1944 diede carta bianca a Gestapo-Müller: Hitler, la cui diffidenza era esasperata, pose termine all'“Operazione Orso”; il gruppo di esperti si sciolse; la Gestapo continuò il Funkspiel per conto suo, senza dover riferire in alto loco circa i dispacci trasmessi a Mosca: per il suo capo, significava la possibilità di creare con minore rischio un contatto sincero con il Centro. Ma l'esistenza di tale possibilità non prova che Müller l'abbia sfruttata. *** Così, neppure un particolare dell'affresco è pienamente convincente. Esaminato da vicino, diventa fluido, soggetto ad interpretazioni diverse, a volte contraddittorie. Perché stupirsene? Se Bormann e Müller sono riusciti a tradire senza essere smascherati dai loro compatrioti, salvo forse da Schellenberg, ci vorrà molta fortuna da parte degli storici per scoprire la prova di tale tradimento. Abili a muoversi nell'ombra, quei due sapevano anche confondere le proprie tracce. Dobbiamo assolverli per insufficienza di prove?

L'affresco, considerato nel suo insieme, lascia comunque pensierosi. Due uomini dell'apparato, sensibili alle qualità della macchina loro affidata, ma pronti a smontarla se si inceppa (questo non si chiama “tradire”; si tradisce un'idea, un paese, un partito, un uomo, non una macchina); affascinati sia l'uno che l'altro della Russia staliniana, Müller identificando il suo ideale poliziesco con la GPU e Bormann ispirando, nel 1944, la creazione in seno alla Wehrmacht di un corpo di «ufficiali nazionalsocialisti di direzione» sul modello dei commissari politici dell'Armata Rossa; unici, assolutamente unici, della cricca dirigente nazista ad essere sospettati di servire Mosca, e da due uomini diversi come Canaris e Schellenberg, le cui fonti di informazione non erano le stesse; posti entrambi abbastanza in alto per vedere incombere già nel 1943 l'inevitabile disfatta; abbastanza chiaroveggenti da rendersene conto, perché privi, a differenza di tanti altri, del paraocchi del fanatismo; avendo, Dio lo sa, molto da temere da tale disfatta, ma disponendo fortunatamente dello strumento per stringere un contatto precoce con il più realista dei suoi avversari; scegliendo di rimanere nella Berlino quando il Führer ha autorizzato i suoi collaboratori a fuggire verso le montagne del Sud e quando tutti i documenti falsi desiderabili, tutti i canali di evasione organizzati da lunga data erano a disposizione del capo della Gestapo; tenendosi aggrappati ad una capitale condannata assieme all'ultimo drappello dei fanatici e dei romantici, loro che non sono né l'una cosa né l'altra; poi, scomparendo all'ultimo momento per non essere mai più ritrovati, unici della specie – tutti gli altri dirigenti del Terzo Reich sono stati presi oppure, se morti, ne è rinvenuto il cadavere; e non è, forse, un puro caso se gli unici due grandi capi nazisti che siano sfuggiti al castigo sono

stati, per più di due anni, associati nella direzione del”Grande Gioco”... Allora? Allora, partiamo per Stoccarda, dove ci aspetta l'ex-Kriminalrat Heinz Pannwitz.

XXXIX. LA TERZA PUNTATA DEL KRIMINALRAT PANNWITZ

Bruxelles, Francoforte, Varsavia, Stoccarda, Napoli, Berlino Ovest, Monaco: altrettante tappe per le quali sono passato e ripassato, senza parlare dei continui viaggi da un capo all'altro della Francia. Questa inchiesta sarà quello che doveva essere; una maratona. Noi altri, cui a volte viene attribuito con indulgenza il titolo di «storici del periodo contemporaneo», noi in verità siamo soltanto l'avanguardia degli storici, i loro battitori, i loro fornitori. Tempo verrà in cui sarà possibile esaminare il nostro bottino con sufficiente distacco; per il momento, il nostro compito consiste nel battere febbrilmente le grandi strade e raccogliere le testimonianze degli attori, prima che siano per sempre muti. Modestia? Essere modesti significa saper scegliere le proprie vanità: i miei ottomila chilometri al volante in meno di tre settimane, interviste comprese, del giugno 1966, uno stupido e uno storico non li avrebbero fatti... Mi ero messo in moto brandendo la stilografica, nella scia del mio editore Constantin Melnik; pensavamo di portare a termine l'impresa in sei mesi. Ma avevamo proceduto assieme molto più

a lungo, proseguendo instancabilmente un dialogo tra sordi («Caro Perrault, il suo candore mi affascina: con l'Orchestra Rossa lei è come un adolescente che viva il suo primo amore». «Caro Melnik, il suo cinismo mi piace, ma perché in lei l'amore evoca necessariamente le malattie veneree?». «La manipolazione degli agenti comporta il ricatto, la corruzione, lo sfruttamento dei vizi e delle debolezze psicologiche. “Spia, ti insegnerò il disprezzo degli uomini”». «Osservo l'Orchestra Rossa e cerco in buona fede il ricatto, la corruzione, lo sfruttamento dei vizi...». «Non ce li troverà. Trepper le ha parlato soltanto della Resistenza. È la grande era, la bella era, la sacra unione – tutto quel che vuole. Dopodiché, e prima, si è visto di che erano capaci i servizi russi. Una volta agganciate le “anime belle”, il Centro ha saputo farle marciare a bacchetta, volenti o nolenti, sacra unione o meno». «È possibile, ma non mi riguarda: io mi interesso soltanto all'Orchestra Rossa». «Dalla sua descrizione parziale, i lettori purtroppo trarranno conclusioni sulla bellezza idilliaca dell'affresco nel suo complesso!», eccetera). Tra noi non ci fu una rottura, credo che ci siamo un po' alla volta allontanati l'uno dall'altro per non essere più frastornati da un discorso sentito cento volte. Un giorno mi scoprii solo senza neppure avere visto il mio compagno di viaggio allontanarsi. Solo, avevo quindi bussato a decine di porte; generalmente avevano creduto ad una nuova visita della polizia e mi avevano invitato ad entrare con un tetro: «Ancora voi!», troppo raramente corretto poi da un: «Mi pareva che non ne avesse l'aria». E per centinaia di ore avevo ascoltato parlare i superstiti. Alla fine, ricco dei loro racconti, sapendo su tutti ciof loro più di quanto nessuno ne sapesse in particolare, ero diventato il po-

stino dell'Orchestra Rossa e i miei viaggi avevano per scopo di fornire notizie, più ancora che ricevere informazioni. Non avevano infatti alcun contatto tra loro, ciascuno rintanandosi nel suo buco e guardandosi bene dal tentare di riannodare i rapporti, fosse pure per parlare semplicemente del passato, in modo da non fornire neppure una parvenza di giustificazione ai sospetti della polizia. La mia borsa conteneva spesso partecipazioni funebri, ma a volte c'erano anche delle buste rosa (la gioia di Bill Hoorickx quando seppe che Makarov-Alamo era con tutta probabilità vivo; la felicità della signora Queyrie alla notizia del matrimonio avvenuto a New York del suo Patrick, futuro professore di Storia dell'arte, di cui non sapeva nulla da 18 anni; l'emozione di tutti quando appresero che il Gran Capo era sopravvissuto; il viso indimenticabile di Michel quando gli dissi che Kent, che da sempre credeva sepolto in una qualche tomba sperduta, che Kent viveva a Leningrado: ciò che passò su quel viso di un figlio che si vedeva restituire il padre, sì, ciò valeva già da solo tante fatiche). Ma le confidenze e le emozioni smorzavano in me il desiderio divorante di conoscere la verità. Tale desiderio mi aveva fatto spiare, in occasione di ogni nuovo racconto, un'ulteriore prova del tradimento di Trepper e dei suoi quando ancora credevo al tradimento in base ai rapporti della Gestapo. Allora prestavo orecchio sinceramente compassionevole alla narrazione delle loro disgrazie, avevo lo sguardo sinceramente intenerito, ma la mia mano aspettava soltanto l'occasione per compilare l'atto di accusa. Poi, con l'accumularsi e il corroborarsi delle testimonianze, l'inimmaginabile divenne possibile: tutti quelli che avevano fino a quel momento scritto in proposito, dotti professori o semplici giornalisti, si erano ingannati affermando che la Gestapo in definitiva

aveva trionfato sull'Orchestra Rossa e ridotto i suoi capi al rango di servi tuttofare. Dipese forse dalla mia perseveranza, dalla mia fortuna e da alcune altre doti subalterne, se la Waterloo dell'Orchestra Rossa si rivelò una trionfante Austerlitz. Di rado storico, o apprendista storico, ha trovato sulla sua strada un simile quadrifoglio: essere investito del potere di designare il vincitore di una battaglia combattuta 25 anni prima. Da quel momento, la mia passione (curiosità? La parola è debole, a meno che la curiosità non possa diventare furia), la mia passione non conobbe limiti. Mi aveva indotto a prendere il tè in compagnia di Manfred Roeder e dei suoi simili, ad ascoltare le divagazioni antisemite del dottor Darquier, a scrivere alla SS Koppkow che le sue nobili gesta meritavano di essere registrate a beneficio dei posteri. Mi tenne compagnia lungo il viaggio per Stoccarda. Andai laggiù come si va ad un combattimento in cui ogni colpo è permesso. Ero, letteralmente, disposto a tutto pur di far parlare Pannwitz. Un'aria molto giovanile. È vero che aveva soltanto 32 anni quando lo misero a capo del Kommando; però, ci si aspetterebbe di leggergli sul viso la traccia delle prove subite. Invece, non lo hanno neppure scalfito. Il volto è tondo e liscio, privo di ossatura si direbbe. Una carnagione da fanciulla. I capelli, pepe e sale. Lo sguardo, vivacissimo dietro le lenti. Di bassa statura, piuttostosnello. Straordinariamente febbrile. Sorride molto, parla instancabilmente saltando di palo in frasca. Una strana giovialità: comincia un aneddoto, scoppia a ridere di cuore, l'interlocutore ride assieme a lui; poi, un po' alla volta, si scalda. Lancia urla rauche, lo sguardo gli si fa duro, cala il pugno sul tavolo e l'interlocutore si dice: «Be'...».

Sua moglie doveva essere, vent'anni fa, uno splendido esemplare della «razza dei signori»: alta, le spalle quadrate, la voce sonora, un'opulenta chioma bionda da valchiria. Non si è mai data pace di aver dovuto lasciare Praga e i suoi splendori, nel 1945, senza portarsi appresso neppure una valigia e costretta a prendere posto assieme ai figli sulla piattaforma di un carromerci. Parla dei cecoslovacchi come di una sorta di tribù primitiva, ma si occupa dei suoi due cani con dedizione straordinaria. Hanno tre figli. Un ragazzo che farà il giardiniere, una ragazza che si prepara a diventare assistente sociale, e un terzo figlio che si è mantenuto nel vago. Pannwitz riscuote una pensione dal governo di Bonn. Lavora in una banca specializzata in mutui all'edilizia, ma di recente un infarto lo ha costretto a rallentare l'attività. Possiede una Mercedes di modello già sorpassato. L'appartamento è piccolo, ben arredato e confortevole. Non navigano nell'oro, ma conducono un'esistenza abbastanza agiata da piccoli borghesi. La sua prima domanda fu per chiedermi quale servizio di informazioni mi aveva mandato da lui; era incerto tra la CIA americana e il SDECE francese. La mia risposta non lo convinse; borbottò: «Se è vero, se è venuto di sua spontanea volontà, le spetta una corona di alloro, perché è il primo». Quando i russi lo rimisero in libertà, dopo averlo tenuto prigioniero per più di 10 anni, passò per le mani dei Servizi tedeschi, americani e britannici, che si sforzarono di fargli confessare i motivi della sua partenza per Mosca. Fu sottoposto alla prova del “siero della verità”, dalla quale uscì vittorioso1. Dopodiché, e per anni, ricevette la vi1 Secondo Pannwitz, la tecnica del “siero della verità” lascia molto a desiderare. Vengono, per esempio, poste al paziente domande oltremodo audaci sulle sue fantasticherie sessuali. Un soggetto disinibito le accoglie con la massima tranquillità, men-

sita di ex-colleghi traboccanti simpatia, i quali gli battevano fraternamente sulla spalla prima di domandargli: «Dica un po', tra noi, e quel viaggio a Mosca?...». Uno dei più assidui fu Reiser, che abita a Stoccarda anche lui. Non mancava mai di portare un bellissimo regalo per la signora Pannwitz: «Troppo bello», precisa il Kriminalrat. «Mi sono reso conto che non poteva comprarseli di tasca sua e ho smesso di frequentarlo». Inoltre, vari emissari dei servizi occidentali tentarono di farlo parlare. Sostiene che il suo telefono è sotto controllo, la sua posta aperta; perfino i suoi ospiti sarebbero spiati dai servizi tedeschi del generale Gehlen. Mitomania? Dal tono non si direbbe: afferma queste cose come se spiegasse che la portinaia ce l'ha con lui. In effetti, lo avevo scovato senza l'aiuto di un qualche servizio, ma con quello di un personaggio che aveva servito, al pari di lui, il Terzo Reich rivestendo una carica di notevole responsabilità. Le trattative con Pannwitz si erano svolte per il suo tramite; quasi subito si erano rivelate delicate. Pannwitz non rifiutava un incontro, ma lasciava intendere che avrebbe posto certe condizioni? Quali? C'erano voluti parecchi mesi per strappare al pudore e alla timidezza del Kriminalrat la confessione che tali condizioni sarebbero state di ordine finanziario. Non vedendo inconvenienti nel fatto di versargli i denari di Giuda per udire dalla sua bocca la confessione del suo tradimento, gli avevo fatto proporre una ricompensa di 500 marchi: significava rimanere nei limiti dei “trenta denari”. Lui non aveva accettato ufficialmente, ma siccome mi aveva invitato ad andarlo a trovare, ne avevo concluso che l'invito equivaleva ad un implicito consenso. tre un brav'uomo che non ha mai immaginato simili eccentricità perde il sangue freddo: gli si inumidiscono le mani, il cuore accelera i battiti, e se ne conclude che mente, ciò che invece non è.

Per cui, la sua reticenza a rispondere alle mie domande mi parve sorprendente. Eludeva l'interrogatorio, moltiplicando gli aneddoti slegati senza mai organizzare veramente il racconto. Mi sembrava perfino si seccasse vedendo che prendevo appunti: perché? Dove voleva andare a parare? *** Esiste comunque un argomento in merito al quale parla senza difficoltà: la morte della signora Spaak. Ogni volta che pronuncia questo nome, un lampo di angoscia gli passa negli occhi; lui, che è già così nervoso di carattere, diventa allora come un individuo braccato che ripeta in anticipo le giustificazioni che fornirà alla giustizia. Ossessionato dallo spettro dell'assassinata ed evocandolo di continuo per esorcizzarne i poteri vendicatori, abbozza, parlando, il gesto meccanico di chi si lava le mani: Ponzio Pilato o Lady Macbeth? Dice, grida, giura che non ha fatto niente. Ripete instancabilmente: «A Mosca, il Gran Capo mi ha accusato di essere responsabile della sua morte. Ma se i russi lo avessero creduto, se ne avessero avuto la prova, non sarei mai tornato vivo da là». E ancora: «Se sono partito per Mosca, è proprio perché ero pulito. Gli agenti dell'Orchestra Rossa giustiziati mentre io ero a capo del Kommando, erano stati condannati a morte prima del mio arrivo. Potevo presentarmi al cospetto dei russi con le mani pulite». E ancora: «Mi ero premunito di chiedere a due corrispondenti di guerra di assistere agli interrogatori: le pare che chi si mette così con le spalle al coperto, possa poi commettere la pazzia di macchiarsi di sangue?». Infine domandò: «E perché l'avrei fatta uccidere?».

Trepper risponde: «Per non lasciarsi alle spalle qualcuno che era perfettamente al corrente del “Grande Gioco”. Pauriol e la signora Spaak avrebbero potuto raccontare ai loro liberatori che il Kommando si dedicava al Funkspiel con Mosca». L'argomentazione non è priva di fondamento. È vero che Pannwitz non poteva correre il rischio di vedere gli americani o i francesi al corrente dei suoi contatti radio con Mosca: si sarebbero affrettati ad avvertire il Centro che era oggetto di una mistificazione. Ma se i contatti di Pannwitz erano autentici, «sinceri», come dice Hoettl, che importanza aveva? E poi, il Kriminalrat non aveva bisogno di mandare a morte Suzanne Spaak e Fernand Pauriol per chiudere loro la bocca: poteva portarli in Germania assieme a Kent e Yefremov. Il giorno dell'esecuzione, l'insurrezione non aveva ancora fatto spuntare le barricate dal selciato parigino; era facile andare a rilevare i due prigionieri a Fresnes. Per scrupolo umanitario? Ovviamente no, e Pannwitz non tenta neppure di farlo credere. Anche in questo caso, le sue azioni sarebbero state ispirate dalla prudenza. Il fatto che abbia dato ordine di uccidere Pauriol, militante comunista, non ci stupirebbe. Ma Suzanne Spaak era cognata di un uomo politico che aveva una parte di primo piano nel campo vittorioso degli Alleati... Pannwitz lo sapeva così bene che dalla Germania scrisse una lettera a Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri del Belgio. Gli diceva: «Sua cognata sta bene. Siamo stati costretti a portarla con noi, ma può essere certo che non le accadrà nulla di grave». Il ministro ricevette queste notizie a Londra e partì immediatamente per Parigi per comunicarle al fratello Claude; ma questi aveva già la certezza che Suzanne era morta.

Per il Gran Capo, la lettera in questione è una prova a carico di Pannwitz. Monumento di ipocrisia (il Kriminalrat sapeva perfettamente di non aver portato con sé la prigioniera), la lettera aveva per scopo di confondere definitivamente le tracce. Già, i tedeschi si erano guardati bene dallo scrivere i nomi dei due martiri sulla tomba, in modo da rendere impossibile l'identificazione. La lettera avrebbe fornito agli Spaak la conferma che Suzanne era ancora viva e in seguito Pannwitz avrebbe potuto pretendere che fosse sparita nel caos della disfatta senza che lui c'entrasse in qualche modo. È possibile. È del pari possibile che il Kriminalrat abbia creduto sinceramente che Suzanne Spaak fosse stata deportata in Germania con gli altri prigionieri di Fresnes. Certo, la mancanza di nomi sulle croci lascia supporre qualsiasi cosa, ma se si voleva eliminare ogni traccia dell'esecuzione, perché non perseguire fino in fondo l'anonimato, scrivere “Una belga”, “Un francese”, che era già un indizio? Infine, e soprattutto, perché consentire a Suzanne Spaak di scrivere l'ultima lettera in cui annunciava personalmente al marito l'esecuzione imminente? L'esistenza di tale lettera, e il fatto che il Kriminalrat la ignorasse (e la ignorava necessariamente, altrimenti non si sarebbe preso la briga di scrivere a Paul-Henri Spaak), fanno pensare che non abbia avuto mano nella tragedia di Fresnes. Abbiamo detto che il Pannwitz di Parigi non era più quello di Praga. A partire dal gennaio 1944, le prigioni francesi si aprirono a visitatori patibolari. Costoro si presentavano sempre in tre ed esibivano documenti francesi e tedeschi che li autorizzavano a disporre liberamente dei detenuti. Erano i carnefici della Milizia francese. A volte conferivano un tono formale alle loro imprese,

dato che una legge di Vichy consentiva loro di erigersi a corte marziale e pronunciare sentenze inappellabili, che diventavano immediatamente esecutive. In tal caso, arrivavano accompagnati da un plotone di esecuzione e con tanto di bare. Il membro della Resistenza Jacques Delarue, detenuto alla Santé, non vide tali corti marziali in funzione (chi le vedeva, non tornava), ma udì spesso, dal fondo della sua cella, il macabro cerimoniale che presiedeva al loro funzionamento, dall'ingresso nel cortile dell'autocarro che portava le bare vuote fino ai colpi di martello sul coperchio delle bare piene2. Talvolta, i carnefici si presentavano senza i plotoni di esecuzione e si incaricavano personalmente della bisogna. Dominique Ponchardier, che ne uccise qualcuno, scrive nei suoi ricordi: Si recavano a caso in un certo posto per farsi consegnare, in base a documenti veri o falsi, oppure più semplicemente a ordini di missione, gruppetti di prigionieri clandestini scelti a caso. Li portavano in una località isolata e, senza che i collaborazionisti di Vichy o i tedeschi ne fossero al corrente, li mitragliavano tranquillamente sul ciglio di un sentiero3.

Fu forse così che morirono Suzanne Spaak e Fernand Pauriol, per mano francese4. Tentai inutilmente di strappare a Pannwitz il segreto del suo viaggio a Mosca. Ad ogni mia domanda, rispondeva con un'altra domanda, sempre la stessa: «Quale servizio la manda?». In tre 2 J. Delarue, Histoire de la Gestapo, Parigi, 1962, p. 397. 3 D. Ponchardier, Les Pavés de l'Enfer, Parigi, p. 225. 4 La signora Pauriol, tuttavia, è certa che suo marito sia stato giustiziato dai tedeschi.

giorni di colloquio quasi ininterrotto, riuscii a fargli abbassare la guardia soltanto tre volte. Siccome mi congratulavo con lui per il coraggio dimostrato andando a gettarsi in bocca al lupo, mi rispose sogghignando: Non faccia lo stupido! Gli inglesi e gli americani non cessavano di proclamare alla radio la sorte che riservavano alla gente come me. Non mi facevo illusioni. Partendo per Mosca andavo direttamente all'inferno, questo è vero. Ma là, perlomeno, potevo contribuire a creare confusione.

Mi disse anche che la sua decisione era stata ponderata a lungo: disponendo, nel 1945, di un canale sicuro per raggiungere la Spagna, aveva preferito fare vela per Mosca. Come faceva a sapere che non lo avrebbero fucilato al momento stesso dell'arrivo? Senta, una macchina mi aspettava all'aeroporto e mi ha portato al Ministero della Sicurezza. Abakumov, il ministro, mi ha ricevuto immediatamente e abbiamo parlato per due ore. Questo dovrebbe bastare a farle capire che c'era stata qualche cosetta prima che partissi e che non mi buttavo alla cieca...

Per quanto vaghe fossero, queste tre indicazioni confermavano la dichiarazione resa da un membro del Kommando, Otto Schwab, ai poliziotti francesi che lo avevano interrogato nel 1947 nel carcere del Cherche-Midi:

Il Kriminalrat Pannwitz mi aveva confidato che se la Germania avesse perso la guerra, non sarebbe rimasto con gli americani, ma si sarebbe invece rifugiato presso i russi, dove si proponeva di mettersi al loro servizio.

Il terzo giorno, mi domandò all'improvviso: «Allora, su che base lavoreremo e come organizzeremo questo lavoro?». Stupefatto, risposi: «Ma... stiamo già lavorando, no?». Lui aggrottò la fronte, parve esitare, poi si buttò: La sua offerta di 500 marchi, ovviamente, non è una cosa seria. È uno scherzo! Sa che una casa cinematografica americana mi ha proposto 100.000 dollari in cambio dei miei ricordi? E neppure i miei ricordi: mi chiedevano solo di garantire l'autenticità del film. Ci sarebbe stato un annuncio di questo genere: «Il signor Pannwitz, exKriminalrat, eccetera, assicura che la trama che presentiamo è perfettamente conforme alla verità storica». Ma gli americani si riservarono di infilare nella sceneggiatura ciò che sarebbe loro parso e piaciuto. Ho esaminato la proposta assieme ad alcuni amici. Ne abbiamo concluso che con il denaro che mi sarebbe rimasto detratte le imposte, non avrei potuto comprarmi l'isola deserta indispensabile per stotrarmi ai colpi dei miei ex-colleghi! Per cui, ho rifiutato. Da dieci anni gli editori tedeschi mi assediano perché scriva le mie memorie. Ho rifiutato anche questo. L'attuale situazione politica non si presta. È possibile che mi decida a trattare con lei, ma certonon per 500 marchi!

Risposi che, se avessi avuto la possibilità di spendere 100.000 dollari per un'inchiesta, probabilmente non avrei affatto

condotto l'inchiesta e sarei andato a vivere anch'io su di un'assolata isola deserta. Tutto ciò che potevo offrire erano 500 marchi. Se riteneva la somma insufficiente, non restava che separarci. Ed effettivamente ero convinto che tutto si sarebbe fermato lì. Ma Pannwitz si affrettò ad avanzare una proposta che riteneva tale da sistemare ogni cosa: avremmo diviso tra noi i diritti d'autore, e in vista di ciò lui mi avrebbe raccontato i suoi ricordi del Kommando e perfino consentito di apporre al mio libro il suggello dell'autenticità: «Il signor Pannwitz, ex-Kriminalrat, eccetera». La ridarella che mi prese lo lasciò perplesso e Pannwitz mi guardò sconcertato. Se avevo acconsentito a versare a Giuda i suoi “trenta denari”, non mi ero certo immaginato che potesse propormi di farli fruttare in società e di spartire gli interessi... Quando riuscii a soffocare l'accesso di risa in cui mi aveva piombato la prospettiva di diventare il collaboratore letterario, il negro, insomma, dell'ex-Hauptsturmführer delle SS Pannwitz, exKriminalrat, eccetera, gli dissi che la sua proposta mi rendeva felicissimo, come poteva constatare, ma che l'unica cosa che mi interessasse da parte sua era l'esposizione sincera dei motivi del suo viaggio a Mosca. Per la prima volta tralasciò di domandarmi quale servizio di informazioni provvedesse alla mia sussistenza. Comunque, fece una smorfia e mi propose un compromesso: Due sono le ipotesi. Posso essere andato laggiù perché credevo di poter essere utile un'ultima volta alla Germania. Posso essere andato laggiù anche perché ero in contatto sincero con loro da tempo. A mio modo di vedere, sarebbe meglio non chiarire la faccenda. Bisognerebbe limitarsi a presentare le due ipotesi al lettore, lasciando che sia lui a trarre le conclusioni. Non sarebbe male, non

trova? Introdurrebbe nel racconto un elemento di mistero... Conferirebbe una certa suspence...

Ammisi che, effettivamente, si sarebbe potuto parlare di suspence, ma soggiunsi che ero venuto a Stoccarda proprio perché di suspence ce ne fosse un po' meno. Dal canto suo, Pannwitz mi invitò a considerare il carattere esplosivo che avrebbero potuto assumere le sue rivelazioni, e le gravi conseguenze che rischiavano di comportare per lui. Infine, mi annunciò che i nostri tre giorni di colloquio avevano avuto un carattere esplorativo: voleva sapere con chi aveva a che fare. L'impressione era soddisfacente, per cui aveva chiesto ad un suo amico, Thomas Lieven, di venirci a raggiungere. Lieven era in qualche modo il suo consulente riguardo alla faccenda; il suo parere sarebbe stato determinante. Ma sapevo almeno chi era Thomas Lieven? Non lo sapevo. La cosa gli parve inconcepibile. Fui informato che lo scrittore tedesco Mario Simmel, suo compatriota, aveva scritto, in base ai suoi ricordi, un best-seller internazionale: Es muss nicht immer Kaviar sein. Un milione di copie vendute in Germania, tirature vertiginose in tutto il mondo, due volte ridotto per lo schermo! La successiva lettura del libro mi fece capire che il successo dipendeva dalla natura eccezionale del protagonista. Lieven combinava armoniosamente in sé le doti di James Bond per quanto riguarda l'azione, di Robin Hood per il cuore, di un Rothschild per la finanza, di Casanova per il sesso, di Curnonski, principe dei gastronomi, per la gola; insomma, nulla di ciò che è umano gli era estraneo, bellissimo, vivacissimo, ricchissimo, era passato attraverso l'ultima guerra, una donna all'occhiello, facendosi beffe di tutti i servizi segreti, compresi quelli del suo paese, accordan-

do ai loro meschini tranelli la commiserazione divertita che si meritavano e riservando il suo corruccio unicamente agli sbirri della Gestapo. Thomas Lieven non amava la Gestapo e glielo aveva fatto capire. Sempre avido degli incontri che ci innalzano al di sopra di noi stessi, dichiarai a Pannwitz che ero felicissimo di poter incontrare Thomas Lieven. *** Mentre lo aspettavamo, parlammo del generale Ozols, del membro della Resistenza francese Legendre, del loro arruolamento sotto la bandiera del Kommando. Pannwitz mi confermò la cecità dei due uomini, convinti fino all'ultimo di lavorare per i servizi sovietici. Il 16 agosto, Kent si era congedato da Ozols, annunciandogli

che

partiva

per

«compiere

una

missione

pericolosa»; gli aveva dato 30.000 franchi e lo aveva esortato a continuare il lavoro. Secondo Pannwitz, la splendida mistificazione delle emittenti installate in Normandia riuscì a meraviglia: alcune settimane dopo lo sbarco trasmettevano ancora dalle retrovie del fronte alleato le informazioni che ci si aspettava da loro. Il Kriminalrat ignorava la sorte toccata ai suoi due zimbelli, ma io ne ero al corrente fin dall'inizio dell'inchiesta, e la cosa mi aveva piombato nella più cupa perplessità. Ozols e Legendre furono arrestati il 17 novembre 1944 dalle autorità francesi per collaborazionismo con il nemico. Parecchi agenti tedeschi, infiltrati dalla Gestapo nella rete Mithridate, avevano denunciato la parte svolta da Legendre: consegnando al nemico un elenco dei

membri dell'organizzazione, gli aveva permesso di infiltrarla e di smantellarla parzialmente. Con tutta probabilità, sarebbe stato difficilissimo per Legendre spiegare la propria condotta ad un tribunale francese e indurre i suoi giudici a credere che aveva avuto la sincera convinzione di lavorare per la causa alleata; così come Ozols avrebbe avuto gravi difficoltà a dimostrare che ignorava che Kent fosse un agente della Gestapo. Ma i due uomini non furono sottoposti a giudizio. Il tenente colonnello Novikov, capo della missione sovietica a Parigi, intervenne in loro favore presso le autorità francesi. Si portò garante per loro e ne ottenne il rilascio. Legendre non fu mai più disturbato, con grande stupore dei suoi ex-compagni della rete Mithridate; Ozols fu rimpatriato in Russia. Se l'intervento di Novikov già dà da pensare, la faccenda delle emittenti installate in Normandia è forse ancora più significativa. Per l'Alto Comando tedesco, era di capitale importanza sapere al più presto se lo sbarco anglo-americano costituiva un'operazione di grande portata, ovvero si limitava ad un'avventura senza domani. Lo era anche per Stalin, irritato dai ritardi frapposti all'apertura del secondo fronte, che sospettava i suoi alleati di voler limitare il loro sforzo ad una semplice riedizione del colpo di Dieppe. Già nel luglio del 1942, quando appena si comincia a parlare di un secondo fronte, il Centro invia al Gran Capo il seguente messaggio: Tentate con tutti i mezzi di installare un'emittente in ogni punto strategico in cui possa avere luogo lo sbarco degli anglo-americani e fate in modo che possiamo rice-

vere a giorni alterni un rapporto esatto e particolareggiato sulle forze sbarcate e sul loro obiettivo.

Con due anni di ritardo, al posto di Trepper impossibilitato ad agire, e badando bene a salvare le apparenze di fedele servitore del suo paese, Heinz Pannwitz aveva forse eseguito le istruzioni del Centro. *** Parlammo anche della rete svizzera. Esisteva infatti una rete sovietica anche sul lontano pianeta che era la Svizzera rispetto all'Europa in guerra. I suoi membri compivano lo stesso lavoro svolto da Trepper, Schulze-Boysen, Harnack, tutti gli altri, e lo facevano nello stesso momento, ma la distanza del pianeta Svizzera (parecchi anni-luce) crea uno scarto che ci rende difficile l'amalgama. Tra loro esiste tutta la differenza che separa un piccolo paese pacifico da un continente messo a ferro e fuoco. Mentre gli uni sapevano di essere destinati a finire, se venivano presi, sul patibolo davanti al plotone di esecuzione, gli altri erano esposti, se cadevano in mano alla polizia Svizzera – celebre in tutto il mondo per la sua buona educazione –, soltanto ad una severa ramanzina da parte dei magistrati elvetici, nel peggiore dei casi a qualche mese di prigione5. Evidentemente, non è stato a causa di queste diversità e dei cali di tono che avrebbero comportato, che abbiamo ritenuto opportuno escludere la rete Svizzera da questo racconto. E neppure 5 La più grave pena subita da un membro del gruppo svizzero fu di 10 mesi di carcere. Vi furono alcune assoluzioni. Alcuni arrestati vennero rilasciati senza neppure essere stati sottoposti a giudizio.

lo abbiamo fatto in ragione della mediocrità del lavoro svolto, perché anzi diede risultati che hanno del prodigioso. Grigia, senza rilievo, noiosa quanto si vorrà, ma equivalente da sola, sul piano dell'efficienza, all'intera Orchestra Rossa. Lo storico americano Dallin scrive: «Il suo contributo alla vittoria sovietica fu di importanza capitale»6. Uno dei suoi membri, l'inglese Alexander Foote, si spinge ancora più in là: Alla fine, Mosca basò in larghissima misura la propria strategia sulle informazioni fornite da “Lucy” [uno degli informatori della rete], come avrebbe fatto un qualsiasi Alto Comando che avesse ricevuto informazioni autentiche provenienti in flusso costante dal quartier generale nemico7.

Due autori francesi ampliano l'elogio fino a scrivere, grazie alla rete svizzera, «la guerra è stata vinta in Svizzera» 8. La formula è indubbiamente eccessiva, ma non del tutto priva di fondamento. Se non abbiamo trattato della rete svizzera, è perché essa ha costituito un'entità a parte che funzionava indipendentemente nell'ambito della sacca neutrale elvetica, mentre l'egemonia nazista aveva riunito in un unico corpo i gruppi tedesco, belga, olandese e francese dell'Orchestra Rossa, i quali lottarono in condizioni identiche contro la stessa polizia. Tanto che questa polizia non inglobò mai il gruppo svizzero nella generica definizione 6 D. Dallin, op. cit., p. 182. 7 A. Foote, op. cit. 8 P. Accoce e P. Quet, La Guerre a été gagnée en Suisse, Parigi, 1966.

“Orchestra Rossa”: le attribuì un nome in codice particolare, “i Tre Rossi” – si serviva, infatti, di tre emittenti. Il nomignolo chiariva la realtà di fatto, perché l'importanza del gruppo svizzero derivava essenzialmente dalle sue tre emittenti. Più che una vera e propria rete, esso fu una stazione tecnica di emissione, una sorta di “cassetta delle lettere” in cui si facevano scivolare le informazioni perché le trasmettesse a Mosca. La ricerca delle “fonti” (il gruppo non aveva il compito di spiare la Svizzera neutrale, bensì la Germania), tale ricerca dunque, che assorbe il più evidente degli sforzi di una rete, non rappresentò mai un problema: gli informatori furono dei volontari. Si trattava perlopiù di profughi tedeschi ferocemente antinazisti. Il più prezioso fu Rudolf Rössler, alias “Lucy”, il quale disponeva di agenti in seno ad importantissimi organismi del Terzo Reich, in particolare al Quartier Generale. Alexander Rado, capo della rete, non conobbe mai l'identità delle “fonti” di Rössler. Il Centro lo pretese invano. Ancora oggi, è ignorata, checché si sia potuto scrivere in merito, e sappiamo che i servizi occidentali si sforzano tuttora di scoprirlo9. 9 È stata a volte avanzata l'ipotesi che tra le “fonti” di Rössler ci fossero Schulze-Boysen e i suoi amici. Non è mai stata fornita alcuna prova in merito, e i fatti noti a tutt'oggi smentiscono tale ipotesi. Le informazioni fornite dal gruppo berlinese e dagli agenti di Rössler non erano dello stesso tipo. Schulze-Boysen aveva accesso a settori in prevalenza economici, che restarono estranei a Rössler, il quale invece sembra essere stato informato in modo assai più minuzioso in campo strettamente militare. D'altra parte, se Schulze-Boysen avesse potuto far trasmettere le sue informazioni ai Tre Rossi, è probabile che l'inesperienza dei suoi pianisti non avrebbe costituito il grande handicap che sappiamo, e che il Centro non gli avrebbe mandato in rinforzo Kent in condizioni tanto drammaticamente improvvisate. È del pari significativo che la scomparsa del gruppo berlinese, durante l'estate del 1942, non abbia né ridotto né modificato il materiale trasmesso da Rössler ai Tre Rossi, come sarebbe necessariamente accaduto se fosse stato informato dai suoi membri (i servizi di ascolto dell'Abwehr hanno invece constatato che, dopo il forzato silenzio dell'emittente fantasma berlinese, nel novembre 1941, l'attività del PTX di Bruxelles si era accresciuta nell'esatta proporzione di quello che era stato il materiale trasmesso dalla sua equivalente berlinese: si era quindi assunto il compito di smaltire l'intero traffico

Il proseguimento dell'inchiesta tanto tempo dopo la fine della guerra lascia immaginare quale fu il suo accanimento nelle ore calde in cui ogni messaggio dei Tre Rossi era una pugnalata alla schiena della Wehrmacht. La macchina poliziesca impiegata contro i pianisti di Trepper fu posta in azione anche contro quelli di Rado: localizzazione radiogoniometrica di tre emittenti a lunga, poi a breve distanza. Si viene a sapere quasi subito che una è installata a Losanna, le altre due a Ginevra. I loro dispacci, debitamente registrati, sono affidati agli “interpreti” di Kludow. Come per l'Orchestra Rossa, si scopre con smarrimento e terrore che i segreti del Reich sono trasmessi al nemico con ritmo accelerato. Ma, contrariamente a quelli dell'Orchestra Rossa, i pianisti dei Tre Rossi non sono a portata dell'Abwehr e della Gestapo; li protegge la frontiera svizzera. Non potendo agire con la forza, bisogna ricorrere all'astuzia: infiltrarsi nella rete Svizzera per scoprire le “fonti” tedesche e disintegrarla dall'interno. I prigionieri dell'Orchestra Rossa possono portare ai Tre Rossi. Se infatti i due gruppi hanno strutture indipendenti, e se la piega presa dalla guerra ha ancora più accentuato la loro autonomia di lavoro, è ovvio che non hanno mai cessato di essere in contatto. Malvina Gruber, amante del “calzolaio” di Bruxelles, Rairadio). Infine, un dato preciso dimostra che Schulze-Boysen non disponeva di alcun tramite organizzato in direzione della Svizzera. Nel 1942, Horst Heilmann lo informò che l'Abwehr aveva appena decifrato un codice inglese. Schulze-Boysen, preoccupato di avvertire i britannici, cercò il mezzo per mettersi in contatto con i loro rappresentanti in Svizzera. Avvicinò un certo Marcel Melliand, un simpatizzante della rete, il quale pretendeva di avere la possibilità di recarsi a Basilea. Melliand accettò di avvertire l'ambasciata britannica della scoperta del codice, nonché di comunicarle il piano di attacco della Luftwaffe contro un convoglio alleato che si preparava a lasciare i porti dell'Islanda con destinazione Murmansk. Ma, in definitiva, non riuscì ad ottenere il visto e la cosa finì lì. È evidente che, se Schulze-Boysen fosse stato una delle fonti di Rössler, si sarebbe affrettato a trasmettergli le due informazioni in questione perché le passasse agli inglesi – e ciò sarebbe puntualmente avvenuto, perché Rössler lavorava nello stesso tempo per i servizi sovietici, svizzeri e occidentali...

chman, proclama di aver varcato spessissimo la frontiera francoelvetica tra il 1940 e il 1942. Kent ammette di essersi recato in Svizzera a due riprese, nel marzo e nel dicembre del 1940, e di avervi incontrato il capo della rete. Al domicilio di Robinson, l'exdirigente del Komintern, sono stati rinvenuti parecchi passaporti costellati di timbri attestanti che ha passato più volte il confine svizzero. Tali sono le carte di cui dispone Giering. Qual è la più valida? Malvina Gruber, al pari del suo compagno Raichman, è stata impiegata troppo dal Kommando a Parigi, e soprattutto a Lione, per non essere “bruciata”; impossibile mandarla in Svizzera. Kent? I suoi ultimi contatti risalgono al 1940. Robinson, invece, presenta il duplice vantaggio di essere un agente importante e di avere avuto contatti recenti con i membri del gruppo svizzero. Giering decide di giocare l'asso Robinson. Per servirsene, è innanzitutto necessario distruggere l'uomo e farne un docile strumento. Di tutti i prigionieri dell'Orchestra Rossa, Robinson fu uno dei più torturati, le peggiori sevizie non riuscirono a farlo parlare dei suoi contatti con la rete svizzera. Il Kommando fa allora ricorso al procedimento tradizionale: il ricatto. Franz Schneider, marito dell'amante di Wenzel, ha fornito il nome e l'indirizzo di una tedesca che manteneva il collegamento tra Berlino e Bruxelles. Si tratta di Clara Schabbel, residente a Hennigsdorf. Secondo Schneider, è la moglie di Robinson. In effetti, è stata sua compagna verso il 1920, al tempo in cui il giovane Robinson lottava armi in pugno per l'instaurazione di un regime comunista in Germania. Hanno avuto un figlio. La Gestapo arresta Clara Schabbel e scopre che il figlio, mobilitato nella Wehrmacht, fe-

rito sul fronte russo, è convalescente presso un ospedale berlinese. Heinz Köhnen, paracadutato in Prussia Orientale il 22 ottobre 1942, confessa che è stato incaricato di mettersi in contatto con il ferito. Doveva ordinargli di non lasciarsi riformare, ma di cercare di farsi aggregare ad uno Stato Maggiore, dove avrebbe potuto ottenere interessanti informazioni. La Gestapo organizza un confronto fra padre e figlio. Robinson è sconvolto. Ignorava che il figlio si fosse di recente unito al gruppo berlinese e comprende che il ragazzo è stato influenzato dal suo impegno politico. È un po' per colpa sua, di Robinson, che il malcapitato si è gettato nelle grinfie della Gestapo. La quale propone il consueto mercato: la vita del ragazzo (ha 21 anni) in cambio delle rivelazioni del padre. Robinson tace. Sottoposto di nuovo a tortura, continua a tacere. Viene allora giudicato da Manfred Roeder, che lo condanna a morte10. Poiché l'asso Robinson appare impossibile a giocarsi, il capo del Kommando cala la carta Kent. Questi suggerisce di utilizzare Vera Ackermann, alias “la Nera”. Belga, reduce dalla guerra di Spagna, dove suo marito è caduto combattendo nelle file delle Brigate Internazionali, bella e attraente, la Nera è stata reclutata da Trepper a Bruxelles, dove faceva la modella per i pittori. 10 Clara Schabbel morì sul patibolo il 5 agosto 1943 assieme a 14 membri del gruppo berlinese. Ma Robinson fu giustiziato? Roeder, Reiser, Fortner e Pannwitz sostengono di essere stati informati da Berlino della sua esecuzione. Eppure, negli archivi tedeschi non c'è traccia di tale esecuzione. Peggio ancora: mentre i rapporti della Gestapo e le dichiarazioni di Reiser, Fortner e Pannwitz, in coro unanime, attestano il suo eroismo, voci discordanti si levano in campo avverso. Afferma il Gran Capo: «Arrestato, quell'individuo ha fatto molte cose per salvare la pelle. La Gestapo ha trovato nella sua stanza di albergo un mucchio di documenti e la copia di tutti i suoi rapporti. Perché conservava le sue carte venendo meno alla regola? Per venderli a chi?». Così, il mistero si infittisce attorno a questo personaggio romanzesco, la cui vita fu tutta ombre, equivoci, segreti, e di cui perfino la morte è incerta. Ma i dubbi che possiamo avere su di lui lasciano intatta questa realtà: non mise Giering sulle tracce della rete svizzera.

Dopo il 1940, Trepper l'ha chiamata a Parigi perché assicurasse i suoi contatti con Robinson e Maximovitch, ma si è dato anche il caso che l'abbia mandata in Svizzera a sistemare certe faccende urgenti. Giering giubila: ha un agente provocatore. O, perlomeno, quasi ce l'ha: dov'è la Nera? Kent lo ignora, ma sostiene che Trepper conosce il suo indirizzo. Trepper, interrogato in proposito, nega sdegnato. «Benone», conclude Giering dopo qualche vana ricerca, «Non ho bisogno della vostra Nera: mi basta mandare in Svizzera una donna che si farà passare per lei». E chiede al Gran Capo di redigere un messaggio per annunciare al Direttore che ha deciso di aggregare la Nera alla rete Svizzera. «Alla rete Svizzera?», esclama Trepper. «Ah, non funziona proprio! Non posso dirle con esattezza dove si nasconda, ma con tutta probabilità si trova proprio in Svizzera. Se ci manda una falsa Vera Ackermann, c'è il rischio che sia accolta piuttosto freddamente, e così avrebbe dato l'allarme per nulla...». Giering riconosce che l'azione sarebbe imprudente e rinuncia al progetto Ackermann – vera o falsa che sia11. Ma non rinuncia ad infiltrare la rete svizzera. Come potrebbe abbandonare la partita se quest'ultimo bastione dello spionaggio sovietico in Occidente è l'obiettivo numero uno di tutte le polizie tedesche? Perché non dovrebbe tentare l'impossibile per ridurre al silenzio i Tre Rossi? Kent gli suggerisce un secondo consiglio. Scrive Alexander Foote, uno dei dirigenti della rete Svizzera:

11 Trepper ha spedito la Nera a nascondersi nei pressi di Clermont-Ferrand dopo i primi arresti in Belgio, dove era conosciuta da parecchi membri della rete. La donna resterà nel suo nascondiglio dell'Alvernia fino alla fine della guerra.

Agli inizi del giugno 1943, il Centro mi incaricò di mettermi in contatto con un messaggero giunto dalla Francia e di consegnargli una certa somma di denaro destinata alla rete francese. Mi furono fissati quattro giorni e due luoghi diversi per l'incontro [...]. Vidi arrivare l'interessato solo il quarto giorno. Ci scambiammo le parole d'ordine e gli consegnai il denaro. Il Direttore mi aveva ordinato di non intavolare alcun discorso con il messaggero, ma questi mi porse a sua volta un grosso libro foderato di carta arancione, dicendomi che tra due pagine avrei trovato tre messaggi cifrati che avrei dovuto trasmettere urgentemente al Centro via radio. Mi avvertì anche che era in possesso di altre informazioni importanti e propose un nuovo incontro, non appena possibile, in una località della Svizzera, nei pressi della frontiera francese. Ebbi gravi sospetti, perché la sua loquacità era proprio il contrario dei severi ordini ricevuti, e una simile infrazione della disciplina era molto strana da parte di un agente sovietico. Mi venne l'idea che il vero corriere magari fosse stato arrestato e che il suo posto fosse stato preso da un agente dell'Abwehr. La copertina arancione del libro doveva servire da segno di facile riconoscimento per una controspia che avesse cercato di pedinarmi fino al mio domicilio. Un punto di incontro così vicino alla frontiera mi faceva temere un rapimento che sarebbe rientrato perfettamente nelle tradizioni della Gestapo 12. Quanto ai messaggi cifrati, se erano falsi avrebbero costituito splendidi strumenti di localizzazione per i servizi che cercassero di individuare la mia emittente. Ero persuaso che i tedeschi fossero all'ascolto da tempo: se riconoscevano i loro messaggi nel bel mezzo dei miei, avrebbero almeno saputo come identificare il mio apparecchio 12 Chiara allusione all'“incidente di Venlo”.

in futuro. Mi sforzai di dissimulare al massimo la diffidenza. Dissi al corriere che avrei avuto molto da fare per tutta la settimana. Infine, accettai un appuntamento a distanza di otto giorni13.

L'intuzione di Foote non lo inganna: l'emissario è un agente di Giering. Dietro suggerimento di Kent, il capo del Kommando ha semplicemente chiesto al Centro di organizzare l'incontro e il Direttore è caduto in trappola. È un colpo da maestro all'attivo della SS, anche se il suo sfruttamento pecca per eccesso di zelo (la carta arancione, le chiacchiere, i falsi messaggi, l'incontro alla frontiera: basta di meno per destare i sospetti di un agente esperto). Foote non si presenterà al secondo appuntamento. Giering, consapevole del granchio preso, ha comunque aperto una breccia notevole nel bastione svizzero. Dia prova di un po' di pazienza, lasci passare qualche settimana o qualche mese, e con tutta probabilità il Centro non vedrà alcun inconveniente nel fatto di fissare un secondo appuntamento, al quale Foote, rassicurato dalla mancanza di gravi conseguenze del primo, non avrà motivo di non presentarsi... Ma il cancro sta avendo ragione di Giering e tocca a Pannwitz continuare la partita. Che cosa farà? Nulla. Mi disse: Non appena arrivato a Parigi, Kent mi ha rivelato che aveva portato il suo codice di trasmissione al capo della rete Svizzera. Credo che fosse attorno al 1940. Il codice si basava su un libro edito a Kiev e stampato in pochissi13

mi esemplari. Ma io non ho voluto continuare in quella direzione. Lavorare contro la rete Svizzera non mi interessava affatto e mi sono guardato bene dal tentare di organizzare un secondo appuntamento. Perché? Per due ragioni. In primo luogo, avevo già abbastanza lavoro anche così! Se Berlino avesse saputo che potevo agire contro la rete Svizzera, non mi avrebbero più mollato... E poi, ci tenevo a non trasformare Kent in un traditore in assoluto. Bisognava salvargli la faccia, capisce... Lasciargli qualcosa che non aveva rivelato...

Sentito questo, Kriminalrat Pannwitz, mi chiesi se era proprio necessario aspettare Thomas Lieven. Mi aveva già detto abbastanza lei. Non sfruttare tutti i mezzi in suo possesso per distruggere il gruppo svizzero, era già alto tradimento. Lei conosceva le funzioni dei Tre Rossi, la loro tremenda efficienza, e sapeva che ogni loro messaggio abbatteva sul fronte orientale una coorte di soldati tedeschi. Pieno di lavoro fin sopra i capelli? Troppo occupato? Non al punto di rinunciare ai viaggi in Spagna dove trattava, per conto della sua ditta “Helvétia”, redditizie operazioni riguardanti il wolframio e il chinino. Ma ancora più rivelatrice era la sua allusione a Kent. Non trasformarlo in un traditore in assoluto. Salvargli la faccia. Sì, certo, lei era abbastanza chiaroveggente per sapere che la Germania aveva perso la guerra, e che Kent avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni. E sul cammino difficoltoso del suo ritorno a Mosca, lei ha voluto drizzargli questo notevole Arco di Trionfo: la preservazione della rete svizzera. Ma perché? Per altruismo? Un gesto generoso nei confronti del suo prigioniero? Via! Eravate come due complici! Lei salvava la faccia a lui, perché lui la salvasse a lei! Lui sareb-

be stato l'uomo che non aveva tradito la rete svizzera, e lei sarebbe stato quello che non glielo aveva chiesto...14. *** Thomas Lieven fu una delusione. Alto e magro, sui 65 anni, lo sguardo bieco, la bocca molle, un non so che di fiacco e furtivo nei modi, un cinismo forzato da uomo che conosce la vita in tutti i suoi aspetti, disse con voce beffarda: «Io ho lavorato per tutti, ho tradito tutti, ma non ho mai fatto il nome di un amico». Oltre alla sicurezza finanziaria, il best-seller di Simmel gli avrà assicurato anche una piacevole vecchiaia: ormai ha cominciato a credere al suo personaggio; è persuaso che in lui coesistano un Robin Hood, un James Bond, un Rothschild, un Casanova, un Curnonski; è felice di poter esibire tutto quel piccolo mondo; non si stanca mai dello spettacolo permanente nel quale, ricamando sui temi dell'autore Simmel, egli è in pari tempo, regista, cinque volte attore e spettatore ammirato. Era spesso costernante, talvolta commovente, vederlo, povero vecchio burattinaio, affannarsi a manovrare tutti i suoi pupazzi... Dopo qualche preambolo, si china verso di me e, le palpebre semichiuse sugli occhi dallo sguardo becero, un'espressione di complicità sul volto dai tratti smorti (si ha sempre l'impressione che stia per chiederti di accompagnarlo a seppellire un cadavere), gorgoglia: «Avanti, avrò fiducia in lei. Il mio vero 14 Coincidenza? Gli ex-appartenenti alla Funkabwher accusano gestapo-Müller di aver sabotato il loro lavoro contro la rete svizzera (si veda, in particolare, W.F. Flicke, Agenten Funken nach Moskau, Verlag Welsermühl Wels). Müller infilava i loro rapporti in un cassetto senza mai trasmetterli in alto loco, e senza mai applicare i provvedimenti che consigliavano. Quando il generale Fellgebiel, capo del Corpo Trasmissioni della Wehrmacht, si decise a mettere in chiaro personalmente la faccenda, i documenti riguardanti la rete Svizzera sparirono misteriosamente...

nome non è Thomas Lieven. Guardi questo libro». Il libro è intitolato La Guerre secrète de Joséphine Baker. Non ci mancava che lei. L'autore è un certo maggiore Abtey, ex-ufficiale del Deuxième Bureau. Dedica un capitolo a Lieven nello stile «l'uomo più straordinario che abbia mai conosciuto». Dopotutto, forse Lieven era un personaggio, al tempo in cui Abtey lo ha conosciuto... Non lo chiama Lieven, ma Mussig. Con l'orgoglio idiota del primo della classe che sa la lezione a memoria, blatero: «Ah! Hans Mussig, alias “Jean Varon”! La sua amica si chiamava Georgette Duboi, alias “Patricia Delage”, alias “Anne-Marie Rendière”!». Nella stanza passa un intero stormo di angeli. Grava un silenzio di piombo. Poi Mussig mormora: «Be'... È inutile che finga di non appartenere ad un servizio segreto: solo un agente ben informato può sapere quello che ha detto lei». Spiego i miei anni di ricerche, le notti insonni passate su documenti ingialliti, l'ossessione che fissa nella mia memoria la data di nascita del meno importante dei miei personaggi, quando sono incapace di ricordare quella di mia figlia... Sono così gentili da credermi. L'emozione si placa, Lieven si rasserena. Hans Mussig! Bisogna proprio che il suo biografo (lui dice «il mio ghost-writer») sia dotato di molta fantasia per avere immaginato un eroe così brillante basandosi su un modello tanto meschino! Nazista della prima ora, dirigente della Hitlerjugend, Mussig si trasferisce in Francia per ragioni non chiare 15 e si pone al servizio del Deuxième Bureau. Dopo il crollo della Francia, Pannwitz lo toglie dalla cella per farne il suo interprete (parla 15 Stando ad una recente opera del maggiore Abtey, Mussig si sarebbe «vendicato della sua delusione politica sulla cassa della Hitlerjugend locale» (J. Abtey, Deuxième Bureau contre Abwehr, Parigi, 1967, p. 147).

correntemente il francese). Dal 1943 alla fine dell'occupazione, quindi, Mussig appartiene al Kommando, mentre la sua biografia romanzata non si stanca di insistere sull'odio feroce di Lieven per la Gestapo. È esatto che non ha tradito i suoi capi del Deuxième Bureau (da cui le lodi del maggiore Abtey), ma denunciandoli, non avrebbe denunciato anche se stesso? Delusione? Sì e no. Per quanto mi riguarda, preferisco avere a che fare con un Hans Mussig, piuttosto che con un Thomas Lieven. Evidentemente, è al corrente del progetto di “collaborazione letteraria”. Quando gli spiego che le reticenze verbali del Kriminalrat non sono tali da ottenere la mia approvazione, spazza via l'obiezione in tono mellifluo: «Su, su, se non gliela racconta tutta lui la storia, gliela racconterò io». Pannwitz, pudicamente, invoca un appuntamento in città e scompare. Mussig incrocia le mani sul ventre, allunga le gambe, assume la sua espressione da sensale di cavalli, poi butta lì a mezza voce: «Vediamo un po', lei è stupido o recita con noi la commedia?». «Che commedia?». «Fare finta di non sapere quello che è accaduto. I suoi contatti con i russi. Eppure, la faccenda è chiara, no?». «Non abbastanza per i miei gusti». Mussig continua: Lei è uno strano tipo. Davvero crede che nel 1945 sia corso dai russi così, senza avere preso le sue precauzioni... Non lo conosce! Poi, può credermi: in quei giorni, non erano molti i tedeschi che sarebbero partiti per Mosca! E tanto meno quelli della Gestapo! Sa, non pretendo di avere capito tutto fin dall'inizio: non era possibile.

Quando mi ha fatto uscire da Fresnes, abbiamo subito simpatizzato. Lui era circondato da poliziotti ottusi, noiosi, e gli ha fatto piacere trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno un po' alla mano, insomma... Malgrado tutto, c'era sempre la differenza gerarchica che gli impediva di confidarsi. Io intuivo qualcosa di losco, ero persuaso che ci fosse sotto qualcosa – ma cosa? Lui non me lo diceva. Quello che invece diceva apertamente era che la Germania era fregata! Già, glielo posso assicurare: quando è arrivato a Parigi, Pannwitz era convinto che la guerra era persa. Ed è un piccolo particolare che conta nella storia. La storia, dunque, non l'ho capita allora – fiutata, solo fiutata –, ma lui me l'ha raccontata al ritorno dalla Russia. Del resto, è una storia semplicissima, del tutto logica, come potrà constatare... Si metta nei suoi panni. Ecco un uomo che si è compromesso fino al collo a Praga. Lei è al corrente dell'attentato contro Heydrich? La repressione? Bene! Non hanno avuto la mano leggera. È corso parecchio sangue! Bene, ecco il mio Pannwitz con qualche grave precedente. Non si fa illusioni, sia ben chiaro: Radio Londra lo tratta da criminale di guerra, gli promette la forca, eccetera. A Berlino, poi vede i suoi capi in piena confusione, i più scaltri tutti presi a procurarsi garanzie per il futuro a destra e a manca. Nella maggior parte dei casi, le cercano ad Occidente. Lo spediscono a Parigi a fare che cosa? Del Funkspiel con i russi! Allora, tenterà di mettersi d'accordo con loro. Non soltanto per via delle facilitazioni tecniche a sua disposizione: si diceva che i russi erano dei realisti, che non avrebbero versato lacrime da coccodrillo sui poveri cecoslovacchi e che si sarebbero interessati unicamente ai risultati pratici. Mentre con gli Occidentali era un altro paio di maniche! Bisognava ascolta-

re Radio Londra per credere! Pannwitz era persuaso che lo avrebbero consegnato senza battere ciglio ai cecoslovacchi, e secondo me aveva ragione... La cosa più buffa, o più triste, se preferisce, è che alla fine era persuaso di avere fatto molto di più che salvare la pelle. Era convinto che i russi lo avrebbero accolto come un eroe! Pensi che portava loro nella cartella un ultimo regalo: la documentazione completa dei dispacci diplomatici scambiati tra Londra, Washington e Parigi da mesi. Erano stati intercettati dai nostri servizi di ascolto. Bene. Era qualcosa, no? Sapeva che la cosa interessava moltissimo a Mosca. Vede, progettava di stabilirsi in Russia, di chiamarvi la moglie e i figli e di organizzarsi una piccola vita tranquilla. Come lei sa, le cose non sono andate esattamente così. I russi sono stati davvero scortesi con lui. Te lo tengono quasi 10 anni in prigione, e poi lo mettono alla porta come un sudicio mendicante. Qui, in Germania, quelli di Gehlen e gli americani credono che sia stato assimilato, che torni per fare la spia, e lo sottopongono al siero della verità! Consideri l'ironia della cosa: lui, che credeva di essere stato il più furbo degli altri, al ritorno si fa torchiare da ex-colleghi che hanno ripreso servizio nelle file di Gehlen o degli americani. Si è detto che aveva davvero perso su tutti i fronti... E adesso? Adesso si dice che c'è una fortuna da intascare, se racconta la sua storia. Ma non osa buttarsi. Ha paura. Non si è accorto che è un uomo che ha paura? Capisce, vive soprattutto con la pensione di Kriminalrat. Sì, è normale che gliela diano: la Repubblica di Bonn è l'erede giuridica del Terzo Reich, deve pagare le pensioni. Ma se racconta del suo tradimento, che succede? La Repubblica dice: «Attenzione! Io non devo pagare un tipo che ha tradito il Reich! Il Reich lo avrebbe fatto fucilare:

io, erede giuridica, non ho l'obbligo di mantenerlo! Ho il dovere di pagare la pensione ad un Kriminalrat, ma non ad un Kriminalrat rinnegato!». Mi segua: la pensione salta. Lui è malato, è un padre di famiglia... Ma quello che lo preoccupa ancora di più della pensione è una riapertura sempre possibile del suo caso. Una storia come la sua rischia di compromettere altre persone. Ecco perché finora ha respinto tutte le offerte. E a questo punto ti vede arrivare un piccolo francese come lei. Lei capita giusto giusto, capisce? Intanto è giovane, quindi non è compromesso nelle storie dell'ultima guerra, la cosa non le fa né caldo né freddo. E poi è francese, e questo è molto importante. Lui non vuole che sia un tedesco a raccontare la sua storia. Non sarebbe possibile. Uno straniero è sempre uno straniero: si può sempre sconfessarlo. E inoltre, be'... se ci sarà troppo trambusto, potrà sempre filare in Svizzera con il grano: nessuno andrà a rompergli le scatole là... Ecco tutta la storia... È soddisfatto?

*** Avevo la nausea. Poi, tutto procedette molto in fretta. Pannwitz tornò con l'aria insieme contrita e sollevata di un penitente che si sia accostato al confessionale per interposta persona. Gli domandai se sperava di entrare nella Storia come il più straordinario doppiogiochista dell'ultima guerra. Rispose: Sarebbe inesatto. Non ho mai tenuto le fila. Non sono stato io a prendere l'iniziativa dei contatti sinceri con i russi. Che cosa sono stato, in definitiva? Un semplice agente di collegamento tra un gruppo di Berlino e Mo-

sca. Non mi sarei mai lanciato in una simile avventura, se non avessi avuto le spalle coperte. Del resto, quando le spiegherò come era organizzato il Funkspiel, capirà che non mi sarebbe stato possibile buttarmici da solo. Era a Berlino che si decideva quali messaggi trasmettere.

Espresse anche il desiderio che al suo tradimento fosse conferita una certa sfumatura ideologica. Disse che certi congiurati del 20 luglio avevano delle simpatie per Mosca, e che sarebbe stato opportuno assimilarlo a quei gentiluomini. Per saperne di più, per ottenere chiarimenti circa la parte avuta da Bormann e da Müller, per conoscere la risposta ad ogni interrogativo, sarebbe stato necessario accettare un mercato che non era il caso di affrontare e fare il doppio gioco con lui, maestro del doppio gioco. Probabilmente, non fu lo scrupolo di mentire che mi fece abbandonare la partita: Pannwitz mi dimostrava abbastanza chiaramente che aveva tutta l'intenzione di servirsi di me purché io non esitassi a servirmi di lui. E poi, un Kriminalrat della Gestapo, un Hauptsturmführer delle SS, un traditore, era giusto che toccasse a lui essere tradito: si poteva considerare la cosa allegramente! Eppure, non ne fui capace. Mi ero sbagliato, credendo di andare a Stoccarda pronto a tutto. Provavo per quell'uomo una ripugnanza quasi fisica. Il Gran Capo dice: «Giering era un duro, i contatti con lui erano difficili, ma era un avversario. Pannwitz era vischioso. Al suo contatto, si aveva l'impressione di insudiciarsi». Era proprio così: Pannwitz era davvero troppo sudicio. Qualche settimana dopo, ricevetti una lettera con la quale mi si invitava ad un incontro con un editore svizzero. Non risposi.

*** Forse un giorno si saprà tutta la verità sul “Grande Gioco”, ma si rischia di aspettarla a lungo e, con tutta probabilità, non verrà da Mosca. Il Cremlino manterrà il silenzio per ragioni politiche. Le autorità della Germania Orientale tacciono il vero ruolo di Schulze-Boysen e dei suoi amici, nel timore di resuscitare la leggenda della “pugnalata alle spalle” con cui i nazionalisti tedeschi tentavano di spiegare la sconfitta del 1918. Rendere di pubblico dominio il tradimento di un Bormann o di un Müller consentirebbe ai neonazisti il lancio di una campagna dello stesso tipo. Né l'uno, né l'altro ha fatto parte dei “capi storici” del Terzo Reich; la popolazione li ignorava e coloro che li conoscevano nutrivano per loro soltanto odio e disprezzo. Per i nostalgici del nazismo sarebbe quindi una tentazione farne i capri espiatori della sconfitta e proclamare che, senza quei due maledetti, i “puri” avrebbero guidato il Reich alla vittoria. Se trovassero un seguito, ciò implicherebbe una singolare mancanza di maturità politica da parte dei loro compatrioti. La cosa importante, infatti, non è che Bormann e Müller abbiano o non abbiano tradito, che il loro tradimento abbia o non abbia contribuito alla sconfitta tedesca; la cosa importante è che il nazismo era il regime in cui uomini come Bormann o Müller potevano accedere a cariche di importanza vitale. Se quei due restavano avvolti nel mistero, il gioco del Kriminalrat Pannwitz appare chiaro. Dopo la morte di Heydrich, aveva tentato di passare dalla parte dei suoi avversari; era stato il suo primo fallimento e lo aveva espiato con qualche mese di vita

dura sulle rive del Lago Ladoga. Allora raddoppiò la posta e puntò su Mosca; fu il suo secondo fallimento e pagò passando 10 anni alla Lubianka e nel campo di Vorkuta. Il terzo tentativo era la proposta che mi fece: battere moneta del suo tradimento, a rischio di scatenare contro di sé furori diversi e possenti. E di tentativi ve ne saranno altri. Il Kriminalrat è un giocatore inveterato e non si fermerà qui.

XL. «A VOLTE I TRENI ARRIVANO IN RITARDO»

L'8 maggio 1945, “Giorno della Vittoria” in Europa, l'inchiesta sull'Orchestra Rossa prese un secondo avvio. Il controspionaggio tedesco aveva inferto all'organizzazione colpi severi, ma disordinati. I servizi inglesi, americani, francesi, belgi, olandesi, diedero loro il cambio con mezzi più massicci e soprattutto infondendo nelle loro ricerche pazienza e perseveranza. Il loro primo obiettivo, un obiettivo giusto, salutare, era di individuare i superstiti dell'Orchestra Rossa e determinare se erano rientrati in servizio. Per questo i belgi della Simexco, i francesi della Simex, Claude Spaak, Goergie de Winter e tutti gli altri furono sottoposti a sorveglianza. Lo scoppio della Guerra fredda fece qualcosa di più che perpetuare il sospetto: lo esasperò a tal punto che certi ex-membri della rete giunsero a chiedersi se le autorità non rimproverassero loro l'attività di un tempo allo stesso modo in cui li sospettavano di continuarla, a chiedersi addirittura se il fatto di avere aiutato i sovietici a vincere a Stalingrado non fosse diventato un delitto. Siccome la maggior parte di essi non aveva capito granché dei grandi eventi di cui erano stati protagonisti (è la caratteristica di una rete ben organizzata: soltanto i capi devono avere una visione globale), tale imprevisto capovolgimento finì

per convincerli della follia del mondo (conobbero anche la sua ingratitudine, dato che venne loro rifiutata la qualifica di membri della Resistenza). Non esiste esempio migliore di tale confusione generale degli spiriti, del processo di Abraham Raichman. Nel giugno del 1944, dopo essersi tanto servito di lui, per tutto ringraziamento il Kommando lo aveva gettato in una prigione di Bruxelles. Il 2 settembre, appena prima dell'arrivo delle truppe alleate, Riachman fece parte, assieme ad altri detenuti, di un convoglio che aveva per destinazione la Germania. Il convoglio passò ai posteri con il nome di “Treno fortunato”: la Resistenza belga ne impedì la partenza e liberò i prigionieri. Raichman fu giudicato dopo la fine delle ostilità da un Consiglio di Guerra insediato a Bruxelles. Il procuratore gli imputò tre capi di accusa: gli rimproverò di avere lavorato per i servizi sovietici fino al 10 maggio 1940 (questo, sì, significava avere buona memoria), di essersi posto al servizio della Gestapo dopo l'arresto (e sembra che il Consiglio di Guerra se ne sia interessato meno che al resto), ma gli imputò anche le attività spionistiche svolte dal 10 maggio 1940, giorno dell'entrata in guerra del Belgio, al 22 maggio 1941, vale a dire alla data dell'“Operazione Barbarossa” – data in cui la Russia diventava alleata del governo belga in esilio. Tale alleanza legittimava, agli occhi dell'ottimo procuratore, il lavoro compiuto successivamente contro l'occupante tedesco dall'agente sovietico Raichman, che però doveva essere punito per ciò che aveva fatto prima che l'alleanza entrasse in vigore. Nel momento stesso in cui i comunisti venivano violentemente accusati di essersi gettati nella lotta solo dopo l'“Operazione Barbarossa”, Raichman fu condannato in parte per avere combattuto la Germania fin dal

1940... In verità, sembrava che il semplice fatto di essere appartenuti all'Orchestra Rossa predisponesse ad un destino paradossale1. L'interesse pratico dei servizi occidentali nei confronti dell'Orchestra Rossa fu immediato, ma perse di vivacità dopo che ogni indagine ebbe dimostrato il carattere innocuo dei superstiti. L'interesse teorico che le testimoniarono fu del pari precoce, e anzi si rafforzò con il passare del tempo (lo studio della rete è oggi una specie di esercizio scolastico che fa parte dei programmi di tutte le “università” dello spionaggio). Occorreva sapere come aveva funzionato l'organizzazione che superava tutto ciò che era noto fino a quel momento, sia dal punto di vista degli effettivi e dell'area geografica interessata, sia da quello dei risultati ottenuti; che usava tecniche assolutamente inedite in materia di isolamento; che si serviva con abilità delle “coperture commerciali”; che reclutava le sue “fonti” al vertice del dispositivo nemico; che, infine, aveva saputo combinare le virtù di una rete di Resistenza e le qualità abituali di professionisti, amalgama dal quale era nato un capolavoro dello spionaggio. Non potendo interrogare i dirigenti dell'Orchestra Rossa, morti o scomparsi, si tentò di ottenere le risposte dalla bocca dei loro avversari. La caccia ai membri del Kommando cominciò assai prima della fine delle ostilità e i servizi occidentali si sforza1 Il Consiglio di Guerra condannò Raichman a 12 anni di reclusione. La sua compagna, Malvina Gruber, passò in prigione 4 anni. Nel 1948, mentre erano entrambi detenuti, il controspionaggio americano in Germania Occidentale arrestò Eugène Gruber, figlio di Malvina, il quale fabbricava passaporti falsi per conto dei servizi sovietici. Gruber, a quell'epoca troppo giovane, non aveva lavorato per il Gran Capo. Fu soltanto nel dopoguerra che si dedicò alla “calzoleria”, a sua volta influenzato dalla vocazione familiare. Frantizcek Klecka (il compagno di cella di Manfred Roeder) costituisce l'unico esempio a tutt'oggi di un agente dell'Orchestra Rossa che abbia continuato l'attività spionistica dopo l'8 maggio 1945.

rono di mettere le mani sul maggior numero possibile di agenti dell'Abwehr o della Gestapo che avessero lavorato contro la rete. I francesi fecero la parte del leone con Reiser, Schwab, Ball, Richter, eccetera. I belgi si presero Fortner e la Gestapo di Bruxelles. Gli inglesi si portarono Koppkow a Edimburgo. Gli americani disposero soltanto di Roeder per farsi raccontare come erano andate le cose, ma ciò non aveva importanza, perché non era lontano il tempo in cui i servizi dell'Europa occidentale non avrebbero avuto più segreti per il loro grande fratello americano 2. Così, per anni, in tutte le prigioni d'Europa si parlò dell'Orchestra Rossa, ma in nessun luogo tanto quanto alla Lubianka, dove era raccolto un gruppo senza pari: Trepper, Pannwitz, Kent, Wenzel e Ozols. Che cosa aveva dunque da chiedere loro il Direttore? *** Sarebbe soddisfacente per lo spirito, se non per il cuore, e conforme ad una certa moda attuale 3, che il Centro avesse visto 2 L'interprete Siegfried Schneider si sottrasse alle ricerche e nessuno sa che ne è stato di lui; e, se per caso leggerà queste righe, sappia che il suo ricordo è sempre vivo nel cuore di coloro nei cui confronti si mostrò tanto caritatevole. La loro gratitudine non si riferisce soltanto ai piccoli servigi materiali da lui resi: egli fu un raggio di sole nel bio, la prova che non bisognava disperare dell'uomo e che la bontà poteva essere perfino nell'universo implacabile della Gestapo. Stando a certe informazioni, Willy Berg fu fedele alla sua professione di fede: dopo la guerra, entrò a far parte della polizia della Germania Orientale. Così avrà servito via via il Kaiser, la Repubblica di Weimar, Hitler e non Thaelmann, sparito in un campo di concentramento nazista, ma il suo successore Ulbricht. Secondo gli ex-colleghi di Berg, le sue ultime vicissitudini proverebbero che lasciò scappare volontariamente il Gran Capo. A noi sembra che, se ciò fosse vero, Trepper lo saprebbe. Secondo uno psicanalista, il comportamento di Berg è un esempio perfetto di ciò che viene definito un «atto mancato». Inconsciamente, voleva aiutare Trepper e desiderava la sua evasione, ma tale desiderio latente restava bloccato al livello della coscienza, e Berg è riuscito a sostenere in perfetta buona fede che non era complice del prigioniero evaso: ne aveva reso possibile l'evasione senza neppure rendersene conto. 3 Alludiamo a La spia che venne dal freddo e ai romanzi della stessa scuola.

chiaro fin dal principio nel “Grande Gioco”, e che tale chiaroveggenza lo avesse indotto a mostrarsi spietato nei confronti degli uomini dell'Orchestra Rossa. In base a questa ipotesi, tutto è semplice. Il Direttore, subito convinto del tradimento dei pianisti Wenzel, Yefremov e Winterink, subodora la spiegazione che Giering fornirà a Trepper dopo l'arresto: la distruzione della rete e la cattura dei suoi capi non sono più dei fini, ma dei mezzi. In vista di quale manovra? Il Direttore lo ignora, ma arde dal desiderio di scoprirlo, perché deve essere davvero straordinaria e di importanza davvero vitale perché la si prepari a costo di tante spese. Aspetta. E, naturalmente, respinge con sdegno gli avvertimenti di Trepper, gli ordina di non infastidirlo con i suoi vani allarmi, ostenta un incrollabile senso di sicurezza: i suoi dispacci possono essere intercettati (e molti lo sono), oppure il Gran Capo può essere arrestato (e lo sarà), ed è necessario che la Gestapo non apprenda dai dispacci stessi o dal Gran Capo che Mosca vede chiaro nel suo gioco: ciò farebbe fallire la manovra da cui il Direttore è sicuro di trarre il suo tornaconto, perché sa che una manovra esiste. Atteggiamento implacabile, che getta nell'angoscia Trepper e la sua Vecchia Guardia, che gli fa credere che i loro sacrifici sono vani e che moriranno inutilmente, ma atteggiamento giustificato dal superiore interesse del servizio. Una tendenza molto diffusa induce in tal modo ad attribuire alle più flagranti cantonate dei servizi segreti giustificazioni magistrali, quando invece spesso la loro causa è semplicemente un'idiozia molto reale. I professionisti, dal canto loro, puntano con tutte le loro forze su tale interpretazione, preferendo di gran lunga passare per spietati, piuttosto che essere presi per ingenui.

L'ecatombe dei soldati di un generale che ha fallito un'offensiva lo convince di incapacità senza possibilità di appello; mentre, se indicate ad un capo di servizio segreto le sue reti cadute in mano al nemico come frutti maturi, vi strizza l'occhio e vi sussurra all'orecchio con aria baldanzosa: «Eh, già, ho dovuto sacrificarli: intossicazione!». Voi restate di stucco, affascinati e orripilati insieme, di fronte al machiavellico personaggio, sollecitati dalla pietà per il romanzesco signore, per metà carnefice, per metà vittima, cui gli dèi crudeli hanno imposto un simile sacrificio – e se invece fosse soltanto un brav'uomo che si sforza a posteriori di apparire come l'organizzatore di eventi che lo hanno superato?... Lo spionaggio è, a volte, conforme alla sua leggenda: un dramma. Molto spesso, è una tragicommedia nella quale il tragico è rappresentato dall'avversario, mentre la parte comica è impersonata dalla Centrale. Si veda la faccenda dei security-checks del SOE, un servizio britannico. Il security-check è un errore convenuto in anticipo che i radiotelegrafisti devono inserire in tutti i loro messaggi e la cui assenza rivelerà a Londra che trasmettono sotto costrizione. Se ne valuti bene l'importanza: per la Centrale britannica è l'unico mezzo per essere avvertita di un'eventuale assimilazione. Estrema raccomandazione degli istruttori ai radiotelegrafisti: «Se siete presi, dedicatevi pure al Funkspiel, ma attenti al security-check!». Un pianista cade nelle mani del controspionaggio tedesco, il quale naturalmente esige che trasmetta sotto controllo. Lui finge di accettare, ma tralascia accuratamente di includere il security-check nel suo messaggio. Missione compiuta. Figuratevi ora lo stupore del povero diavolo allorché riceve, sotto gli occhi dei tedeschi, la seguente risposta da Londra: «Faccia attenzione, vecchio mio, lei è distratto: ha dimenticato il

suo security-check». L'episodio è autentico. L'autore potrebbe citarne una decina di altri. Ma non si finirebbe più di compilare l'inventario delle stupefacenti negligenze e delle gravi cantonate prese dai servizi segreti di qualsiasi osservanza4. *** È vero che il compito non è semplice. Il posto di comando del capo di un servizio segreto si trova sempre su un remoto pianeta. Egli non conosce il campo di battaglia, le forze del nemico, i mezzi di cui è in possesso. Londra impiega mesi per scoprire che i tedeschi registrano sistematicamente tutti i messaggi scambiati con le sue reti, enorme fatica che permette loro, una volta decifrato il codice, di leggere nei testi conservati in archivio la storia di ogni rete e di conoscerne le circostanze e i particolari. Se il Direttore ordina ai pianisti dell'Orchestra Rossa di trasmettere fino a cinque ore di seguito, ciò avviene in parte perché ignora i progressi compiuti dalla Funkabwher in fatto di rilevamento; non crede alla possibilità di una rapida localizzazione delle emittenti (continua a non crederci nel 1945, e di tale incredulità il sedere del Kriminalrat Pannwitz non tarderà a subire le dure conseguenze – ci arriviamo tra poco). Un anno di guerra e 30 chilometri del passo di Calais bastano a fare della Francia una contrada misteriosa dove perfino i servizi britannici incontrano qualche difficoltà a riconoscersi: ci si immagina la confusione dei 4 Negligenze e cantonate strettamente tecniche. Non vogliamo rimproverare ai servizi l'incredibile sciupo che presiede allo sfruttamento delle informazioni. Non è colpa del Centro, ma di Stalin, se le grida di allarme lanciate da Sorge, Trepper, Rado, eccetera, alla vigilia dell'“Operazione Barbarossa”, non sono state ascoltate. Non è colpa del Deuxième Bureau, bensì dello Stato Maggiore francese, se non si è tenuto conto dei rapporti che indicavano chiaramente dove la Wehrmacht avrebbe scatenato l'offensiva del maggio 1940.

giovani burocrati insediati al Centro dopo le purghe e di cui la maggior parte non ha mai varcato la frontiera sovietica... I paesi europei sono loro altrettanto sconosciuti della Terra del Fuoco. Interrogato da uno di loro alla Lubianka, Pannwitz gli racconta: «Dunque, ho preso ad Amburgo il treno per Monaco...». E l'altro, pignolo, lo interrompe subito: «Sia preciso. Prima ha fatto vistare dalla polizia il suo passaporto interno». Il Kriminalrat fa tanto d'occhi, pensa ad uno scherzo, finisce per capire che il russo ritiene che in Germania fossa necessario, come lo è in Russia, ottenere un permesso di polizia per recarsi da una città all'altra... Le difficoltà delle distanze geografiche sono ancora poca cosa in confronto ai malintesi causati dalla distanza psicologica che separa la Centrale dalle sue truppe. Il lavoro solitario, prima o poi, induce il Capo di una rete a credersi l'ombelico del mondo. Tratta la Centrale come un servizio di vettovagliamento e soffre del fatto di essere a sua volta trattato come una pedina spostata di continuo sulla scacchiera. I suoi compagni di lotta sono la sua carne e il suo sangue: muoverebbe le montagne per salvarli; visti dalla Centrale, i membri della rete sono soldati anonimi. La morte di Katz e di Grossvogel, sconvolgente per Trepper, si inscrive per il Direttore nella statistica generale delle perdite sovietiche: una media di 5-6000 uomini al giorno. Con l'aggiunta di tale fondamentale divario ai malintesi pratici descritti più sopra, il capo della rete finisce ben presto per ritenersi abbandonato, se non tradito. Le sue reticenze, le sue accuse, inducono il capo della Centrale a concepire a sua volta dei dubbi in merito alla diligenza del suo subordinato, se non addirittura sulla sua lealtà. Né l'uno né l'altro sono realmente responsabili del peggioramento dei loro rapporti. Da un lato c'è un uomo braccato che vive gli av-

venimenti giorno per giorno; dall'altro, un ufficiale di Stato Maggiore recluso nel suo isolato universo burocratico. Secondo noi, fu questo il caso del Direttore e di Trepper. *** Per il Gran Capo, la scoperta della centrale di Rue des Atrébates da parte di Fortner costituisce una grave sconfitta, annunciatrice di peripezie ancora più disastrose; concede alle sue truppe di Bruxelles una licenza di sei mesi. Il Direttore non capisce come una scaramuccia persa possa comportare simili misure di sicurezza nel momento in cui la Russia lotta per la propria esistenza. I generali sovietici non concedono licenze alle loro truppe in rotta; le rilanciano all'attacco. Trepper ribatte che, trovandosi sul posto, è miglior giudice del comportamento da tenere. È vero che il Direttore non è sul posto. È del pari vero che non ha il dovere di esserci, così come un comandante in capo non deve trovarsi in prima linea: la sua visione della battaglia ne scapiterebbe in ampiezza. Ma poco importano tali dispute tattiche: vi c'è un contrasto di principio tra il Direttore da un lato, che sacrifica allegramente il gruppo berlinese, vuoi per eccesso di fiducia nell'ermetismo dei suoi codici, vuoi perché ritiene chela situazione generale giustifichi un simile sacrificio, e il capo di una rete, dall'altro, per il quale nessuna misura di sicurezza è superflua quando si tratta di salvare i suoi uomini. Tale prudenza, al Centro viene definita pusillanimità, e si comincia a chiedersi se il Gran Capo non manchi di sangue freddo. Una risposta affermativa sembra imporsi dopo l'annuncio dell'arresto dei pianisti e del loro preteso tradimento. Un Funk-

spiel? Il termine e la sostanza oggi ci sono familiari, ma bisogna sapere che nel 1941 rappresentavano una novità; il Funkspiel sarà la grande innovazione dell'ultima guerra in materia di spionaggio. Un Funkspiel? Il Direttore forse ci crederebbe se le emittenti cosiddette “assimilate” gli distillassero enormi menzogne, ma non è così. E allora? Si vuole fargli ammettere che la Gestapo si prende la briga di distruggere una rete per coi continuarne l'opera? Trepper insiste; instancabile Cassandra, afferma che tutto va male, quando i pianisti del Belgio assicurano che va tutto bene. Poi protesta e minaccia; arreca al Centro l'oltraggio di una slealtà – no, di un vero e proprio tradimento! – passando i suoi messaggi più importanti alla trasmittente del Partito, la cui linea giunge nell'ufficio di Dimitrov e non in quello del Direttore – e che messaggi... Messaggi che gettano sospetti! Che seminano il panico! «Può darsi che qualche traditore si sia infiltrato nei nostri servizi»: ecco ciò che dichiara il Gran Capo, per il tramite di Dimitrov, al potente Comitato Centrale del Partito comunista russo! Ah, basterebbe meno perché il Direttore soccombesse al vizio congenito dei servizi russi: la diffidenza. Al Centro, tutti sono sempre sospetti. Di che! C'è solo l'imbarazzo della scelta: di deviazionismo di sinistra, di deviazionismo di destra, di un'eccessiva inclinazione per le donne, di non essere indifferenti agli uomini, di avere una debolezza per il denaro, di trotzkismo, di appartenere all'Intelligence Service... Il capo di una rete cui vadano male le cose, è sospettato di sabotaggio; se le cose vanno bene, diffidare, diffidare: deve essere uno sbirro camuffato, perché non è normale che non abbia grane... Trepper? Dallo scoppio della guerra, lamentele, piagnistei, recriminazioni. Una prudenza da serpe, allorché si vorrebbe che possedesse la l'audacia del leone.

Sempre lì a lagnarsi della penuria di emittenti. Un traditore? Forse no, anche se è stato imprudente metterlo in contatto con un Robinson, probabile agente del Deuxième Bureau, oppure con un Ozols, possibile agente della Gestapo... No, forse non ancora un traditore, ma certo un capo che non è all'altezza dei suoi compiti. Il Direttore lo tiene d'occhio. Lo perde di vista nel novembre del 1942. Sa soltanto che è stato arrestato? Non è certo. Tre mesi dopo, arriva al Centro il messaggio trilingue. Enorme stupore! Insondabile perplessità. Come ha fatto? Un rapporto redatto in barba alla Gestapo, trasmesso sotto il suo naso? Incredibile. Roba da favole! A Mosca, come a Londra, come a Washington, ci si fa una certa idea dell'avversario. La Gestapo non è Giering che si cura il cancro con il cognac, né le puntate notturne nel locale di Suzy Solidor: la Gestapo rappresenta la macchina poliziesca per eccellenza, un meccanismo senza pecche concepito per azzannare e stritolare – un mito. E tale Gestapo permetterebbe ai suoi prigionieri di scrivere a loro piacimento? Li porterebbe a spasso per le strade di Parigi? E consentirebbe loro la possibilità di passare messaggi di soppiatto? Ipotesi: Trepper, agente del nemico, non è riuscito a scuotere la fiducia che il Direttore continuava a nutrire nei confronti dei pianisti di Bruxelles; il messaggio trilingue costituisce forse un nuovo tentativo, una provocazione, il cui scopo consiste nel perdere, agli occhi di Mosca, l'unica parte rimasta sana della rete: il gruppo di Bruxelles... D'altro lato, la trasmissione del messaggio da parte di Jacques Duclos è di per sé una garanzia di autenticità. Duclos non avrebbe accettato un documento di dubbia origine. Ha preso le sue informazioni e ha agito in piena co-

gnizione di causa. E poi, il “Grande Gioco” di cui parla Trepper... Inquietante! *** Secondo Reiser, l'inquietudine del Direttore durò tre mesi: nel maggio del 1943, i messaggi ricevuti dal Kommando presero un tono meno di riserva e di diffidenza; il Centro si mostrava avaro di precisazioni, aveva alzato la guardia. Secondo il Gran Capo, il Centro impiegò quattro mesi a verificare il suo rapporto: nel giugno del 1943 era ormai convinto della sua veridicità. Noi riteniamo di poter fissare alla seconda settimana di giugno il momento esatto in cui il Direttore si formò una convinzione precisa. Si ricordi che, all'inizio dello stesso mese, aveva ordinato ad uno dei capi della rete Svizzera, Alexander Foote, di incontrarsi con un emissario della rete francese. Aveva precisato a Foote che non avrebbe dovuto «intavolare alcun discorso con il messaggero». Era una semplice misura di prudenza dettata dall'avvertimento di Trepper? È lecito pensare che il Direttore avesse deciso di fare di quell'incontro una specie di test: se il messaggero veniva meno alla consegna del silenzio, si sarebbe dovuto concludere in favore di un tentativo di infiltrazione, e ciò avrebbe confermato il rapporto del Gran Capo. Come si è visto, il test fu dei più convincenti: i discorsi a non finire, il libro foderato di carta arancione, i messaggi cifrati da trasmettere, l'insistenza per ottenere un secondo appuntamento... Foote racconta:

Dopo aver lasciato quell'inquietante personaggio, feci del mio meglio per nascondere il libro sotto il cappotto e tornai a casa facendo lunghi giri viziosi per far perdere le mie tracce. Una volta a casa, compilai un resoconto completo per il Direttore, il quale mi diede ragione e decise che non mi sarei recato al nuovo appuntamento. Quanto ai messaggi cifrati, li trovai fra due pagine del libro incollate assieme; erano in un codice che non conoscevo. Il Centro mi chiese di trasmetterglieli, ma di renderli prima irriconoscibili inserendovi dei gruppi cifrati scelti arbitrariamente e di ricifrarli nel mio codice personale: questo perché i posti di ascolto non potessero riconoscerli e i messaggi stessi non potessero più servire da guida agli specialisti crittografi per la ricerca del nostro codice. 15 giorni dopo, ebbe conferma dei miei sospetti; il Centro mi fece sapere che il messaggero era un agente tedesco5. 5 A. Foote, op. cit., p. 121. Più sopra, abbiamo ricordato gli incontri avvenuti a Stoccolma tra il tedesco Peter Kleist e l'agente sovietico Clauss (cfr. [cap. XXVII]). Il secondo di tali incontri, e il più importante, ebbe luogo il 18 giugno del 1943, vale a dire nel momento in cui il Centro, prestando finalmente fede al rapporto trilingue, annunciava a Foote che il suo interlocutore era un emissario del nemico. È possibile che la piega imprevista presa dai negoziati di Stoccolma si spieghi alla luce del “Grande Gioco”. Al suo ritorno a Berlino, Kleist, che aveva agito di sua iniziativa e nel massimo segreto, ebbe la spiacevole sorpresa di essere arrestato appena sceso dall'aereo. Seppe poi le ragioni di una simile accoglienza: «Clauss, chiedendosi se avrei trasmesso correttamente l'offerta di Alexandrov, era andato a fare visita all'addetto militare tedesco a Stoccolma, e gli aveva consegnato un messaggio. L'addetto militare aveva telegrafato al suo capo, l'ammiraglio Canaris, e questi aveva informato Hitler. Il telegramma diceva: “L'ebreo Clauss dichiara che l'ebreo Alexandrov si trova a Stoccolma per attendere l'arrivo di un negoziatore tedesco. Se quest'ultimo non si sarà presentato entro quattro giorni, Alexandrov proseguirà il suo viaggio per Londra per definire la collaborazione del Cremlino con le potenze occidentali» (P. Kleist, op. cit.). Un simile termine non poteva ovviamente che suscitare le ire del Führer, il quale vi scorse una «impudente provocazione giudaica». La sconsiderata visita all'ambasciata tedesca stupisce da parte di Clauss, il quale sembra sia stato un agente di primo ordine, abile, prudente ed esperto, per di più manipolato dalla famosa ambasciatrice sovietica in Svezia, la signorina Kollontai. Che si sia abbandonato ad un gesto così spettacolare, e per consegnare all'addetto militare tedesco un invito in forma di ultimatum, dipende forse dal fatto che il Cremlino, finalmente illuminato circa il “Grande Gioco”, ne aveva dedotto logicamente che Berlino

L'episodio di Foote segna qui la fine delle incertezze del Direttore, ma avrà impiegato un anno per credere ai tradimenti annunciati dal Gran Capo. Stupidità? Sì e no. Il Centro ha soprattutto avuto la sfortuna, in un tempo in cui tali procedimenti non erano ancora entrati a fare parte del costume dello spionaggio, di servire da cavia al Funkspiel più straordinario che si conosca a tutt'oggi, un Funkspiel che superava di gran lunga le manovre classiche di intossicazione tra un servizio e l'altro, dato che il suo obiettivo non era tecnico ma politico, e che l'importanza della posta in gioco aveva indotto i suoi ispiratori a trasmettere in un primo tempo soltanto informazioni autentiche che non consentivano al Direttore di accorgersi che era lo zimbello del Kommando. La rivelazione contenuta nel messaggio trilingue permise al Centro alcune facezie tanto più notevoli in quant i servizi sovietici, generalmente, davano prova di una desolante mancanza di umorismo. Abbiamo visto che l'incontro organizzato con Foote aveva per scopo la consegna di fondi destinati alla rete francese: per Giering e la sua squadra non esistono piccoli guadagni; come tutti gli uomini dei servizi di informazione, sono colti da una sfrenata allegria quando possono intascare il denaro dell'avveraspirava a negoziare e che, quindi, si poteva trattare la faccenda apertamente. Aggiungiamo che, stando agli storici tedeschi, le trattative di Stoccolma furono iniziate da Stalin con l'unico scopo di esercitare delle pressioni sugli Occidentali agitando lo spauracchio di una pace separata tra la Russia e la Germania; non sarebbero state, insomma, che un “Grande Gioco” di marca sovietica... (si veda, in particolare, B. Meissner, Die Sowjetische-Deutschland Politik, Europ Archiv, 1951). Sottolineiamo altresì il fatto che la pubblicazione nella Pravda del 17 gennaio 1944 dell'articolo in cui si accusavano i britannici di essersi incontrati con Ribbentrop in Spagna, non è in contraddizione con il fatto che Mosca conosceva da mesi la verità sul “Grande Gioco”. Stalin, ossessionato dal timore di essere tradito dai suoi alleati, probabilmente temeva che il messaggio di Kent segnasse il punto di partenza di un'offensiva diplomatica tedesca in grande stile; l'articolo della Pravda, destinato ad avere risonanza mondiale, costituiva un mezzo eccellente per troncarla sul nascere.

sario. Così, riservando Parigi al Funkspiel serio, impiegano spesso e volentieri le tre emittenti belghe e olandesi perla raccolta fondi. Prima dell'evasione di Wenzel, nel gennaio 1943, gli avevano fatto richiedere dei sussidi da Mosca. Dalla Bulgaria era arrivata una misteriosa scatola di conserva piena di fagioli, in mezzo ai quali erano nascoste 100 sterline – una miseria. Dopo l'arrivo a Mosca del messaggio trilingue, il Kommando torna a bussare a quattrini. Risposta del Centro: «Rivolgetevi a Bodhen Cervinka, ingegnere, residente in Rue Edison, a Bruxelles: vi darà 5000 dollari». Viene spedito un agente a casa di Cervinka, il quale lo mette alla porta con la massima brutalità. La sua buona fede è così evidente che il Kommando rinuncia a dargli noia. Ma non a spremere soldi dal Centro. Nuovo tentativo attraverso l'emittente dell'olandese Winterink. Mosca, dapprima evasiva, chiese a quale indirizzo dovrebbe far pervenire il denaro. Il Kommando fornisce quello di un ex-membro del Partito comunista olandese. Al che il Centro osserva perfidamente: «Siamo stupiti. I contatti di questo individuo con la Gestapo ci sono ben noti». Terzo tentativo con l'emittente di Yefremov. Il Centro: «Andare da X, commerciante di monumenti funebri a Charleroi: ha un conto aperto di 50.000 franchi belgi a Mosca». Interrogato in merito ai 50.000 franchi, il commerciante in questione spiega tutto soddisfatto che l'affare è ormai sistemato: una compagnia di assicurazione italiana gli ha rimborsato il denaro. Rimborsato? Era dunque creditore, e non debitore? Esatto: era Mosca che gli doveva 50.000 franchi! Lo scherzo pone fine alle sollecitazioni del Kom-

mando e rallegra doppiamente il Centro, che è molto attaccato ai rubli6. Ma se il messaggio trilingue consente al Cremlino di vedere chiaro nel “Grande Gioco”, e al Centro di divertirsi a spese del Kommando, non ha più la facoltà di tenere vivi ancora per molto i rapporti cordiali tra il suo autore e il Direttore. Cinque mesi dopo l'episodio-Foote, Trepper evade. La notizia getta il Centro nella costernazione. La sua fuga mette in pericolo il “Grande Gioco” e i vantaggi che Mosca contava di trarne, perché al Kommando deve essere evidente che prima preoccupazione del fuggiasco sarà stata quella di rivelare la mistificazione ai suoi capi. La fuga suscita altresì nuovi sospetti sulla lealtà del Gran Capo. Ad ogni evasione, il Centro reagisce immancabilmente con profonda diffidenza: tradizione che risale alla lotta contro la polizia zarista, la quale cerca di infiltrare degli agenti provocatori tra i combattenti clandestini simulandone l'evasione. Un comunista scappa soltanto dopo aver chiesto e ottenuto l'autorizzazione dei suoi capi7. Se viene meno a tale norma, diventa sospetto, o perlomeno è tenuto in disparte. Ora, Trepper non è un comunista qualsiasi, né la Gestapo una polizia qualsiasi: come è possibile ammettere che abbia commesso l'errore di lasciare scappare un simile detenuto? Certo, il messaggio trilingue costituiva la prova della fedeltà del Gran Capo, ma ormai risale a 6 Non sarà privo di interesse notare che dopo Wenzel, evaso nel gennaio 1943, nel dicembre dello stesso anno evadono anche Jojo e Michel, i due radiotelegrafisti francesi arrestati e assimilati. Infine, nel marzo del 1944, Winterink fugge e scompare dopo aver ricevuto da Mosca, sull'emittente controllata dai tedeschi, l'ordine di unirsi ad un gruppo di azione comunista. Una specie di epidemia... Si può considerarlo il risultato della familiarità instauratasi tra guardiani e prigionieri assimilati. È anche il caso di chiedersi se Pannwitz non abbia avuto mano in tali evasioni in serie al fine di fornire a Mosca un ulteriore pegno... 7 In parecchi casi, certi prigionieri evasi senza previa autorizzazione ricevettero l'ordine di costituirsi alla polizia e tornare in carcere. E lo fecero.

otto mesi prima. Che è accaduto nel frattempo? Il Kommando è forse riuscito a far crollare il suo prigioniero? Questa volta l'ha davvero agganciato?... Un malinteso esaspera la diffidenza del Centro. Trepper, non appena ripresi i contatti, suggerisce al direttore di mandare a Parigi un emissario con il compito di esaminare la situazione, di controllare le sue affermazioni, di procedere insomma ad un'ispezione in loco. E chi propone per tale missione? Sua moglie Luba! Per il Gran Capo, non esiste testimonianza più valida della sua buona fede di una tale proposta che, se accettata, farebbe correre i rischi peggiori a sua moglie. Ma noi sappiamo che il Direttore la interpreta diversamente: la considera un tentativo di Trepper di recuperare Luba e “mollare” assieme a lei, vale a dire abbandonare il lavoro, farla finita con il Centro, che abbia tradito o che sia semplicemente stanco, scoraggiato dalla lunga, dura incomprensione manifestatagli. Evasione autentica che blocca troppo presto il “Grande Gioco”? Evasione inscenata dalla Gestapo con uno scopo ancora misterioso? È probabile che il Centro esiti a scegliere tra le due ipotesi. Alcune settimane dopo, il grottesco messaggio con il quale Pannwitz tenta di rilanciare il “Grande Gioco” («Che succede a Trepper? Vedo dappertutto annuncia di ricerca che lo riguardano», eccetera) getta definitivamente il Direttore nella più profonda perplessità. Ritiene inverosimile che il Kriminalrat abbia così scarsa stima di lui da sperare di trarlo in inganno con quel trucco grossolano. Annunciare l'evasione del Gran Capo, infatti, significa ammettere che tutti i suoi dispacci, da mesi, erano trasmessi sotto controllo tedesco, significa rivelare la presenza del Funkspiel, significa suscitare al Centro una diffidenza tale per

cui non sarà più possibile mistificazione di sorta... Pur avendo perso il filo, il Direttore fornisce egualmente la replica attesa da Pannwitz: «Per noi, Trepper è un traditore. Che il Partito non gli dia neppure un tozzo di pane». E resta in attesa. E non tarda a comprendere, in base ai messaggi successivi, che il Kriminalrat si preoccupava ben poco di apparire incoerente: sopra ogni cosa voleva mantenere i contatti con Mosca, fidando nel fatto che il carattere particolarissimo, del tutto “sincero”, che intendeva conferire a tali contatti sarebbe bastato a placare le inquietudini del Centro. Il Direttore, il quale si aspettava di dover affrontare un gioco assai più sottile con l'avversario, vede quest'ultimo precipitarsi nelle sue braccia accoglienti: tutto è bene quel che finisce bene. Salvo per ciò che riguarda il Gran Capo. Questo perché, se l'atteggiamento assunto da Pannwitz si spiega con l'avvicinarsi della sconfitta tedesca e il desiderio del Kriminalrat di salvarsi la pelle, non rende più comprensibili i misteri precedenti. Ed ecco che Trepper aggrava il proprio caso proponendo il rapimento del Kommando al momento della partenza da Parigi! A che scopo? Per fare sparire quali documenti, quali testimoni? Non è il caso di permetterglielo. A Kent, che si domandava se doveva aspettare a Parigi l'imminente arrivo degli Alleati, il Direttore ha risposto testualmente: «Ritiratevi con i vostri amici tedeschi. Non separatevi dalle persone con le quali siete in rapporti tanto cordiali e che vi forniscono informazioni tanto preziose. Potranno esserci utilissime in seguito». Sarebbe stato divertente vedere Trepper mettere le mani sull'allegro gruppetto per essere, in fin dei conti, costretto a consegnarlo alle autorità francesi! Il Direttore rifiuta di impartire l'ordine di “via libera”. Pannwitz e Kent

devono poter continuare il loro lavoro fino alla fine della guerra. E poi, sanno troppe cose per esporli al rischio di morire di una pallottola vagante – o troppo ben centrata. *** Scommetteremmo che fu un avido piacere che il Direttore vide arrivare a Mosca Trepper, poi Kent e Pannwitz, poi Ozols, poi Wenzel. Li aveva tutti sottomano. Finalmente avrebbe saputo come erano andate veramente le cose... Dieci anni per ottenere dal Partito comunista francese e dal MOI di Kovalski la conferma delle circostanze in cui era avvenuta la consegna a Juliette del messaggio trilingue? Dieci anni per accertarsi che l'evasione era stata autentica (e con Willy Berg a Pankow?). Dieci anni per riconoscere che il Gran Capo aveva conservato tutta la sua lucidità quando la situazione era confusa, era rimasto incrollabile nonostante la tenace incomprensione manifestata dai suoi capi, coraggioso nel pericoloso, astuto nell'avversità? Le indagini del Centro pure non godono fama di lentezza come i processi di beatificazione... Sei mesi erano trascorsi tra la liberazione di Parigi e la partenza per Mosca del Gran Capo. Non era un periodo sufficiente per risolvere tutti gli enigmi dell'Orchestra Rossa, ma bastava perché il Direttore facesse verificare in Francia il succo delle affermazioni di Trepper. Quando quest'ultimo si presento in Via Znamenski, rimanevano ancora molte domande da porgli, ma la sua lealtà di fondo non poteva più essere contestata. Tanto che la prima frase del Direttore fu significativa: «Quali sono i vostri progetti per il futuro?». Trepper aveva ancora un futuro al Centro, ma dietro la domanda

si nascondeva un avvertimento: non bisognava parlare del passato – a nessun costo! La risposta del Gran Capo decise la sua sorte. Lungi dall'accettare di tirare un pudico velo sugli ultimi quattro anni, tornava colmo di indignazione, l'invettiva sulle labbra, ben deciso a fare i conti. Significava condannarsi alla Lubianka. Il Direttore, infatti, non poteva lasciare circolare per Mosca un individuo inacidito che avrebbe proclamato ai quattro venti di avere avvertito invano, ben tre volte, Stalin dell'imminente attacco tedesco e di essersi in seguito ingegnato per anni a correggere gli errori del Centro. Anche Sorge sarebbe finito alla Lubianka se i giapponesi non lo avessero impiccato e fosse tornato a Mosca nelle stesse disposizioni di spirito di Trepper. *** Dieci anni per placare il Gran Capo e insegnargli la virtù della rassegnazione? Non ci voleva tanto. Ma dopo averlo messo alla Lubianka con questo scopo, ve lo tennero per altre ragioni. Fu come un naufrago, sommerso da ondate successive. La prima ondata furono i suoi colleghi, capi di rete e agenti che rientravano a loro volta a Mosca dopo aver lavorato cinque anni all'estero. Il Direttore non li riconobbe: glieli avevano cambiati. In cinque anni di guerra, abbandonati a se stessi, avevano dovuto inventare le nuove regole richieste da una situazione imprevista; loro maestro era stato l'evento, non il Centro. Disseminati nei paesi europei per esercitarvi lo spionaggio, la lotta contro l'occupante nazista aveva conferito loro una specie di brevetto di naturalizzazione; si erano uniti ai gruppi di resistenza nazionali; erano diventati fratelli d'armi di uomini di osservanza di-

versa dalla loro, e insieme avevano combattuto fianco a fianco. Dice Trepper: «Sapevo che Ozols aveva mantenuto i contatti con certi ex-ufficiali del Deuxième Bureau. La cosa non mi dava affatto fastidio: forse che non combattevamo la stessa guerra?». Così Rémy, uomo di destra, scriverà a proposito dell'appoggio da lui fornito ai “franchi tiratori” comunisti: «Nel 1942, nella lotta comune, eravamo destinati a conoscere soltanto dei volontari animati dalla stessa volontà di scacciare l'invasore, senza preoccuparci dell'appartenenza politica degli uni e degli altri» 8. Così Schulze-Boysen aveva cercato di avvertire Londra che la Funkabwher aveva decifrato un codice dell'Intelligence Service. Il Centro lo avrebbe rimproverato se lo avesse saputo. Nel 1942, Alexander Rado, capo della rete svizzera, entrò in possesso di certi documenti di importanza capitale per gli inglesi. Propose al Direttore di trasmetterli loro attraverso un corriere fidato che era in contatto con l'ambasciata britannica a Berna. Il Direttore si rifiutò e impartì l'ordine di bruciare i documenti. Nel 1943, quando la polizia svizzera prese a smantellare la sua organizzazione, Rado spiegò al Centro che l'unica soluzione consisteva nel rifugiarsi nei locali di un'ambasciata: protetto dall'immunità diplomatica, avrebbe potuto continuare il suo lavoro. Siccome l'URSS non aveva un'ambasciata a Berna 9, suggeriva di chiedere aiuto agli inglesi i quali, essendo alleati dei russi, non avrebbero rifiutato di aiutarli. La reazione del Direttore fu esplosiva: preferì lasciar distruggere la rete svizzera e privarsi del suo apporto straordinariamente prezioso, piuttosto che dare retta a Rado. Questi, sospettato di essere un agente dell'Intelligence Service, 8 Rémy, op. cit., vol. 2, p. 53. 9 La Svizzera stabilì relazioni diplomatiche con l'URSS soltanto dopo l'ultima guerra.

si reca egualmente a Parigi dopo la Liberazione e si presenta alla missione di Novikov. Il 6 gennaio 1945, prende l'aereo per Mosca con Trepper. Ma, allo scalo del Cairo, i nervi lo tradiscono e scompare. L'aereo riparte senza di lui. Mosca lo denuncia alle autorità inglesi come ufficiale disertore. Ripreso, viene consegnato ai russi: pagherà con 10 anni di carcere l'ingenua convinzione che la lotta contro il nazismo veniva prima della vecchia guerra con l'Intelligence Service. I suoi colleghi all'estero ne condividevano i sentimenti, anche se non avevano avuto l'occasione di farlo capire al Centro. Avevano bevuto alla coppa della sacra unione e non lo avrebbero mai più dimenticato. In loro assenza, una nuova generazione di giovani funzionari si era insediata alle leve del comando del Centro. I burocrati della cospirazione videro con arcigno disprezzo tornare i romantici della Rivoluzione, i vecchi comunisti sopravvissuti miracolosamente alle purghe – sospetti; gli ex-combattenti della guerra di Spagna – sospetti; i compagni d'armi di tutte le resistenze, di destra o di sinistra – sospetti; appiccicarono loro una duplice etichetta: «romantici», «cosmopoliti», ed emisero un verdetto inappellabile: «irrecuperabili». Uno di questi «irrecuperabili» ci dirà: Il peggio è che avevano ragione. Eravamo diventati obiettivamente inutilizzabili. Soprattutto per un servizio normale, un servizio in tempo di pace, con il ricorso al ricatto, tutti i bassi espedienti... Non era più possibile dopo ciò che avevamo conosciuto. E avevano anche ragione di tacciarci di “cosmopolitismo”... Conosciuto troppa gente... Frequentato troppi ambienti diversi... Avevamo vissuto per cinque anni con la mano nella mano di coloro

che erano destinati a ridiventare i nostri avversari... Vede, ho spesso pensato, poi, che sarebbe stato meglio cadere sotto le pallottole tedesche, piuttosto di sopravvivere per essere ripudiati dai nostri, pensando che era una cosa obiettivamente fondata e che avevano ragione.

Che il Gran Capo facesse parte degli «irrecuperabili» non sarebbe certo bastato a farlo chiudere in prigione, ma c'era un motivo possente perché ve lo lasciassero a marcire. L'uomo che veniva dichiarato inabile al servizio era stato uno dei grandi capi dello spionaggio sovietico. Il Direttore, sapendo ciò che Trepper sapeva, preferiva tenerlo chiuso in cella, piuttosto che lasciarlo circolare per le strade, alla mercé di un colpo basso o di una tentazione... *** La seconda ondata affogò il Direttore. Venne dal Canada, nel settembre del 1945, con la scoperta da parte della polizia locale della rete sovietica diretta da un colonnello del Centro e l'arresto, tra gli altri, della spia atomica Allan Nunn May. Era una grave sconfitta. Il KGB, eterno rivale del Centro, colse l'occasione per regolare certi conti. Il Direttore e i suoi più stretti collaboratori furono allontanati. Una nuova epurazione scavò cupi vuoti tra le file dell'Armata Rossa, di cui tutti i membri, vecchi o nuovi, caddero in disgrazia. Fu dopo lo scandalo canadese che Abakumov, ministro della Sicurezza fedele di Beria, rinfacciò a Trepper, stella caduta di un Centro ripudiato: «E dire che, se avesse lavorato con noi anziché lavorare per quei porci dello Stato Mag-

giore, adesso avreste il petto coperto di decorazioni!». E, indicandogli con un sorriso la Piazza Rossa sulla quale davano le finestre del suo ufficio: «Guardate, laggiù vi avremmo nominato Eroe dell'Unione Sovietica!». Le due prime ondate erano state quasi concomitanti. La terza si infranse tre anni dopo, nel 1948, e fu un'ondata di antisemitismo. È cosa troppo nota perché sia necessario ricordarne la forza e la durata. Una volta di più, Trepper fu fatto uscire dalla sua cella e condotto, lungo il passaggio sotterraneo che collegava la Lubianka con il Ministero della Sicurezza, nell'ufficio di Abakumov. Questi domando: «Perché vi siete circondato di traditori? Spiegatemi con quale scopo avete ritenuto opportuno assegnare dei traditori a tutti i posti importanti della vostra rete». «Dei traditori? Che traditori?», replicò Trepper. «Katz, Grossvogel, Springer, Raichman, Schneider, eccetera: tutti ebrei, quindi traditori!...». A Mosca, i dirigenti del “Comitato Ebraico Antifascista” furono arrestati. Trepper contava tra loro i più vecchi compagni, dal tempo lontano (il 1935) in cui collaborava al giornale ebraico La Verità. Quasi tutti “confessarono” e furono giustiziati. *** “Cosmopolita”, “irrecuperabile”, ex-appartenente al Centro, ebreo: bastava meno nella Russia di Stalin per rimanere chiuso alla Lubianka. Ma anche nella Russia di Stalin l'ingiustizia veniva rivestita di una toga giuridica. Una “trojka” amministrativa giudicò l'uomo che aveva creato e guidato nella lotta la più gran-

de rete europea, un'organizzazione che nello stesso momento tutti i servizi occidentali studiavano con timore e ammirazione. L'unico capo di accusa che erano riusciti a formulare contro di lui, dopo aver passato al setaccio i suoi cinque anni di attività alla testa dell'Orchestra Rossa, era che si fosse prestato al “Grande Gioco” senza previa autorizzazione del Direttore. Il Gran Capo rammentò allora l'avvertimento di Giering: «... Sarà comunque considerato un traditore. Le diranno che all'inizio non sapeva se sarebbe riuscito ad avvertirli e la accuseranno di essersi schierato dalla nostra parte unicamente per salvarsi la pelle». È vero, ignorava se avrebbe avuto la possibilità di avvertire il Centro. Ma era meglio non fare nulla, assistere con le braccia conserte al disastro? Dice ai suoi giudici: «Insomma, mi trovavo in una casa in fiamme e voi mi rimproverate di avere fatto il pompiere!». Ma sa perfettamente che ogni protesta è vana. La “trojka” di Stalin conferma il pronostico del capo del Kommando: 15 anni di carcere. *** Per Pannwitz, e soprattutto per Kent, la presenza del Gran Capo a Mosca era stata una sorpresa terrificante. Dopo l'evasione, il Direttore non aveva cessato di chiedere sue notizie a Kent a intervalli regolari: «Sapete dov'è? Perché non riprende i contatti?». Poi, quando i due compari si erano ritirati in Germania, era stato loro annunciato: «Trepper ha mollato. Ha rifiutato di tornare a Mosca». Significava lasciar capire che nessuno avrebbe potuto smentire la difesa pro domo sua di Kent, e che poteva tornare all'ovile senza paura. Non solo: l'“agganciamento” del Kriminal-

rat gli sarebbe stato accreditato come titolo di merito, ma gli sarebbe stato anche facile imputare i propri precedenti ambigui al Gran Capo. Kent era caduto ad occhi chiusi nel tranello. Aiutato dal compiacente Pannwitz, aveva fabbricato una documentazione su misura dalla quale emergeva candido come la neve, mentre Trepper vi assumeva le sembianze del perfetto rinnegato. Il fatto che il personaggio in questione si trovasse a Mosca, evidentemente, rendeva più difficile accreditarne la caricatura; Kent non ci riuscì. Ma gli furono grati di aver guidato Pannwitz sui sentieri del tradimento, e tale gratitudine gli salvò la vita. Con Pannwitz, il Centro non lesinò gli interrogatori. Fu interrogato per un anno e mezzo, poi lo lasciarono riposarsi quattro mesi, poi ricominciarono daccapo, come se niente fosse, e anche la seconda tornata durò un anno e mezzo. Significava avere la mano pesante. Stando al Kriminalrat, gli interrogatori si svolsero in un'atmosfera distesa. In breve imparò abbastanza il russo per capire il senso delle domande postegli, il che gli consentiva di preparare la risposta mentre l'interprete traduceva. L'ignoranza in cui versavano i russi riguardo alle condizioni di vita in Occidente, ne facevano invece, come abbiamo accennato, degli interlocutori pignoli. Non appena si delineava un particolare non conforme al costume sovietico, l'ufficiale del Centro aggrottava la fronte e ci volevano tesori di pazienza e di eloquenza per placarne i sospetti. Pannwitz aveva l'impressione di essere un esploratore che dissertasse sui costumi di una popolazione selvaggia davanti ad un uditorio attonito e vagamente incredulo. Sarebbe stato divertente se la conferenza non fosse durata tre anni... Le cose si guastarono con il «complesso M» (“M” per Mosca). Dogma dei servizi sovietici: «A Mosca non ci sono spie». Se so-

pravviene un dubbio, se il carattere sacro ed inviolabile della capitale russa è contestato, il Centro cade in balìa del «complesso M» e cerca freneticamente il colpevole. Ora, il Direttore era persuaso che la radiogoniometria non avesse potuto da sola far risalire così rapidamente i tedeschi alle emittenti dell'Orchestra Rossa. Riteneva che a porli sulle tracce doveva essere stato un traditore, e non escludeva che il traditore in questione si trovasse a Mosca. Interrogato in proposito, il Kriminalrat smentì l'ipotesi senza riuscire a convincere i suoi interlocutori della propria sincerità. Un giorno – era l'anniversario del matrimonio di Pannwitz –, un colonnello del Centro gli annunciò in tono afflitto che aveva avuto ordine di picchiarlo se non parlava. Pannwitz chiese di vedere l'ordine e il colonnello gli porse un documento, firmato da Abakumov, con il quale il ministro della Sicrezza autorizzava una «procedura eccezionale». Il colonnello trasse da un cassetto un manganello di gomma. Lo mostrò al Kriminalrat facendogli constatare che era di fabbricazione tedesca e non russa. Poi al prigioniero furono calati i calzoni e fu fatto distendere bocconi. Il colonnello colpiva a scariche di dieci colpi alla volta. Dopo ogni scarica, un medico del Centro esaminava Pannwitz, quindi dava il segnale di continuare. Pannwitz svenne. Fu rianimato e la punizione riprese. Finalmente, il medico disse: «Ora basta». Il colonnello ripose il manganello borbottando con aria disgustata: «Vedete, siamo una polizia democratica: da noi sono i colonnelli che vengono incaricati di queste sporche faccende...». Precisa Pannwitz: «Comunque, sono stati corretti. Mi hanno percosso solo sulle natiche e sulle cosce. In altri posti avrebbero potuto fare dei danni». È un esperto che parla.

La seduta pose fine alla faccenda del traditore. Pannwitz si sentì dire che era fortunato; perché era rarissimo che un prigioniero se la cavasse quando entrava in ballo il «complesso M».10. *** Il regime alimentare alla Lubianka era decisamente frugale: pane nero e vischioso, cavoli, pesce salato. Pannwitz se ne lagnò con la dottoressa del carcere. Lei ribatté: «In materia di alimentazione carceraria, abbiamo un'esperienza di tre secoli, potete stare assolutamente tranquillo: da noi nessun detenuto si è mai ammalato di denutrizione». Pannwitz constatò il fondamento della categorica affermazione in base al fatto che certi detenuti, entrati in carcere affetti da ulcere o mali di stomaco, erano guariti in seguito al regime in vigore nella prigione. Egli stesso fu sempre in ottima forma fisica11. Il regolamento carcerario veniva scrupolosamente rispettato. Pannwitz era pesato ad intervalli re-

10 Ancora oggi, il Gran Capo ritiene che l'emittente di Rue des Atrébates sia stata scoperta in seguito ad una denuncia. Secondo lui, trasmetteva da troppo poco tempo perché la Funkabwher abbia potuto localizzarla già il 13 dicembre 1941, quali che fossero la qualità della sua attrezzatura e l'abilità del famoso specialista di Fortner. Dopo l'irruzione, il “gruppo di controspionaggio” indicò a Trepper che la casa di Rue des Atrébates era stata segnalata alla polizia da una famiglia fiamminga del vicinato – non che la famiglia in questione avesse minimamente sospettato che gli inquilini si dedicassero allo spionaggio: era semplicemente indignata dal numero di visitatori di sesso maschile ricevuti da Rita Arnould e Sophie Poznanska. Fortner sostiene che la scoperta della centrale di Rue des Atrébates è dipesa unicamente dai mezzi tecnici della Funkabwher. Ma riconosce anche lui che nel 1941 ci volevano circa tre settimane per localizzare esattamente un'emittente; ora, quella di Rue des Atrébates era in funzione da meno di una settimana al momento della cattura. È possibile che Fortner, nel caso specifico, cerchi di proteggere i suoi informatori, anche se è passato tanto tempo. Rientrerebbe perfettamente nel suo modo di agire, e va a tutto suo onore. 11 Paradossalmente, fu dopo il ritorno in Germania che la sua salute si guastò. Gli fu assai difficile abituarsi all'abbondanza.

golari e se accadeva che dimagrisse, gli veniva subito aumentata la razione. Non rivide mai Trepper, né Kent. A volte gli venivano lette le loro dichiarazioni, ma il Centro non ricorse a confronti. Alla Lubianka, gli spostamenti erano regolati in modo tale che i detenuti implicati in uno stesso caso non potessero entrare in contatto tra loro, né vedersi. Pannwitz, però, sapeva che si trovavano anch'essi nel carcere e pensò più di una volta che era davvero un divertente paradosso che in identiche celle della stessa prigione moscovita, a qualche metro di distanza, fossero chiusi il capo del Kommando e il capo dell'Orchestra Rossa... Quando ebbero concluso gli interrogatori, lo spedirono al campo siberiano di Vorkuta, nelle vicinanze del mare Artico. Dice: Era duro, e può immaginarsi il freddo che faceva, ma la gentilezza dei guardiani migliorava la situazione. Il regime comunista è quello che è, ma dell'uomo russo non se ne vanterà mai abbastanza la bontà, l'umanità. Un carattere d'oro! Ciò naturalmente non impediva loro di applicare il regolamento. Se avessero impartito ad un guardiano l'ordine di uccidere un detenuto, lui lo avrebbe fatto senza esitare, ma con le lacrime agli occhi. E la stessa cosa accadeva alla Lubianka12. 12 Il lettore è certo sorpreso del resoconto quasi idilliaco che il Kriminalrat fa della propria esperienza carceraria; riferendone le impressioni senza modifiche, l'autore ha l'imbarazzante impressione di redigere un testo pubblicitario che vanti il “Club Mare Artico” e la felicità dei suoi “Gentili membri”: vero è che la vita a Vorkuta doveva sembrare ben dolce ad una SS i cui colleghi avevano al loro attivo imprese quali Treblinka, Auschwitz e Buchenwald. È anche certo che gli ex-detenuti dei campi sovietici insistono sull'umanità dei guardiani, anche quando dipingono tutto il resto con i colori più foschi. L'universo concentrazionario è sempre e ovunque infame. Ma esiste il sistema ed esistono gli uomini. In Germania, il sistema, già infinitamente più spaventoso che in Russia, era ancora peggiorato dalle atrocità individuali di

Infine, nel 1955, gli altoparlanti del campo annunciarono la firma a Mosca dell'“Accordo Adenauer”. Il vecchio cancelliere aveva ottenuto il rimpatrio di tutti i suoi. I guardiani balzarono immediatamente dalle loro torrette e, precipitandosi sui prigionieri tedeschi, li abbracciarono urlando: «È finita! Più niente ci separa! Siamo tutti fratelli», eccetera. Erano passati dieci anni dall'arrivo a Mosca di un Kriminalrat gonfio di importanza che si stringeva al petto una cartella piena di segreti diplomatici, persuaso che gli si spalancasse davanti un avvenire dorato. I suoi sogni non si erano avverati, ma aveva avuto salva la vita: era la cosa essenziale. Felice di poter tornare a casa, se ne andò a passo leggero verso il “siero della verità” dei suoi compatrioti... *** Fin dalla prima notte trascorsa alla Lubianka, il Gran Capo si era prefissato uno scopo: sopravvivere, fosse pure solo per un'ora, a «quella gente». Era salvo. I mesi si aggiunsero ai mesi, gli anni agli anni, e pareva che non dovesse mai finire, ma lui continuava ad essere ossessionato dalla sua idea fissa: sopravvivere loro. Era la roccia alla quale si aggrappava; nessuna ondata riuscì a fargli mollare la presa. Vide attorno a sé i compagni di miseria abbandonarsi alla disperazione e rifiutare il cibo: lui si costrinse a mangiare. Ne vide alcuni letteralmente consunti dall'ingiustizia di cui erano vittime: lui rifiutò la collera, che stanca, per riservare le proprie energie all'impresa di sopravvivere. Altri guardiani sadici. Tale eccesso di sofferenza (l'uomo accetta più facilmente di essere maciullato da un sistema che di essere martoriato e umiliato da suo fratello) fu perlomeno risparmiato ai detenuti dei campi sovietici.

elusero i rigori del presente rifugiandosi nel passato, fino a smarrirvi la nozione del tempo e la ragione: lui era tutto teso verso il futuro. In quarant'anni di vita avventurosa aveva affrontato e vinto molte battaglie, ma quella fu la più dura, quella che impegnò contro chi era dalla sua stessa parte. Non fu maltrattato. Una volta, comunque, a titolo di avvertimento, gettarono nella sua cella un detenuto che aveva subito la “procedura eccezionale”. Seppe anche per sentito dire che Wenzel era stato torturato. Ma, al pari di Pannwitz, non vide neppure una volta Kent, Ozols, Wenzel o qualcun altro dei suoi subordinati di un tempo, che forse si trovavano alla Lubianka senza che egli lo sapesse. Tra i suoi compagni di cattività figurarono il costruttore aeronautico Tupolev, celebri capi comunisti, generali, di cui molti avevano fatto parte dello Stato Maggiore del generale Zukov: pareva che alla Lubianka fosse raccolto il fior fiore della Russia. Abakumov lo mandava a chiamare di tanto in tanto per esercitare su di lui il suo cinismo. Quando fu scoperta la rete di spionaggio sovietico in Canada, gli mostrò alcuni ritagli di giornali occidentali in cui si insinuava che, con tutta probabilità, il capo dell'Orchestra Rossa non era estraneo alla faccenda. E Abakumov esclamò ridendo: «Lamentatevi! Tutte le polizie del mondo vi cercano e voi siete qui sano e salvo con noi, al sicuro! Non è magnifico?». L'unico a capirlo fu il giudice istruttore. Questi si mostrava amichevole, offriva spesso sigarette che il prigioniero rifiutava con un cenno del capo. Una sera, dopo un interminabile interrogatorio, gli disse: «Avete deciso di durare più di noi, vero? È questo che vi dà la forza di resistere?». Siccome Trepper taceva, ri-

prese: «Devo annunciarvi una cosa: rinuncio alla vostra pratica. Non contiene nulla. Sono convinto che vi tengano in carcere per motivi che non hanno nulla a che vedere con questa faccenda. Ignoro quali saranno le conseguenze per me, ma mi rifiuto di continuare. Mi è impossibile essere partecipe di una tale situazione». Trepper si protese in avanti, afferrò il pacchetto di sigarette sulla scrivania e ne sfilò una. Il giudice istruttore sorrise e disse, accendendogli la sigaretta: «Ora so che vincerete. Un fumatore che è capace di rifiutare una sigaretta, non è un uomo comune!»13. Sua moglie Luba ignorava che si trovasse a Mosca. Il Direttore le aveva notificato che aveva «mollato» e che non doveva più aspettarlo. Sola, priva di risorse, si guadagnò da vivere per sé e per i due bambini facendo la fotografa ambulante. Evitò probabilmente la prigione o la deportazione in Siberia per il semplice motivo che i viaggiatori provenienti dalla Francia, e in particolare Jacques Duclos, non mancavano mai di chiedere notizie del Gran Capo. Si sentivano rispondere che si trovava in missione speciale all'estero, ma in caso di necessità si preferiva poter loro mostrare sua moglie e i suoi figli. Così, Luba divise un'esistenza miserabile fra il tugurio che le serviva da alloggio e gli interminabili vagabondaggi da un villaggio all'altro, la grossa macchina fotografica in spalla, mentre il suo compagno, anziché percorrere come lei la steppa, girava in tondo nella sua cella come fanno tutti i detenuti del mondo... E questo durò 10 anni. 10 anni. 13 Uscito di prigione, Trepper incontrò per caso il giudice a Mosca, ad un angolo di strada. La rinuncia al suo caso gli aveva valso l'allontanamento dalla carica, ma dopo la morte di Stalin era stato riabilitato.

*** Il 5 marzo 1953, il panico si impadronì improvvisamente della Lubianka. I guardiani correvano per i corridoi; i detenuti furono sottoposti a misure di sicurezza eccezionali; fu soppressa l'ora d'aria. I prigionieri credettero che fosse scoppiata la Terza guerra mondiale e furono presi dall'angoscia. Ma era solo un falso allarme. Il carcere tornò ben presto alla calma, al tran tran di sempre, e i detenuti continuarono a chiedersi quali potevano essere state le cause di quell'improvviso accesso febbrile. Qualche mese dopo, il Gran Capo imboccò una volta di più, sotto la sorveglianza di un guardiano, la galleria che portava al Ministero della Sicurezza. Anziché essere condotto nell'ufficio di Abakumov, fu accompagnato in una stanza dove lo attendeva un vecchissimo generale baffuto che appariva in strano contrasto con i giovani funzionari del Centro: sembrava uscito da una litografia della Rivoluzione d'Ottobre. Fissò il prigioniero e gli domandò: «Come va?». La sorpresa impedì a Trepper di rispondere: erano quasi 10 anni che nessuno si curava delle sue condizioni. Allora, aprendo un cassetto della scrivania, il generale ne tolse una copia della Pravda che tese al prigioniero. Era un numero già vecchio. L'articolo di prima pagina era dedicato al «Complotto dei camici bianchi»: vi si spiegava come un gruppetto di medici ebrei avesse tentato di uccidere Stalin. «Che ne pensate?», domandò il generale. Dopo aver letto due volte l'articolo, Trepper rispose: «Sciocchezze. Non regge. Se si vuole assassinare Stalin, ci sono degli specialisti. Non ci si rivolgerebbe a dei medici». «Sicché credete che facciamo delle sciocchezze?». «A volte capita». Il

generale scosse la testa pensoso ed esibì un altro numero della Pravda: «Ecco, leggete...». I medici erano riabilitati. Trepper scorse l'articolo senza fare commenti. Il vecchio signore gli allungò un terzo giornale in cui era annunciata a lettere cubitali la morte di Stalin, il 5 marzo precedente. Il Gran Capo stette zitto. Pensava: «Stalin è morto, ma la sua banda ha in pugno l'esercito e la polizia. Sono sempre al comando». Il generale aveva un quarto numero della Pravda nel cassetto. Era del dicembre 1953. Lo passò al prigioniero e questi lesse l'articolo dedicato alla liquidazione di Beria. Allora il Gran Capo sorrise. Aveva vinto. Era sopravvissuto loro. Sorrise e prese a dire: «Compagno». Si interruppe di colpo. «Scusatemi...». I detenuti della Lubianka non avevano diritto di usare il termine “compagno”. Se capitava loro di servirsene inavvertitamente, i guardiani gridavano: «I tuoi compagni corrono nella steppa!» (i lupi). Il generale abbozzò un gesto di impazienza con la mano e disse: «Sentite, una volta ho lavorato con Dzerzhinsky14. Noialtri della vecchia Ceka abbiamo indubbiamente commesso degli errori, ma le nostre intenzioni erano pure. È più di vent'anni che ho smesso questo lavoro. Oggi mi si chiede di tornare a sistemare qualche faccenda importante. Comincio con voi, perché considero che il vostro caso sia uno dei più importanti». La Lubianka divenne allora «una specie di albergo di lusso». Poi cominciarono i rilasci. Trepper ritrovò la moglie e i figli dopo 15 anni di separazione. Furono sistemati in un bell'appartamen14 Creatore della CEKA, dopo la Rivoluzione d'Ottobre. La Ceka era insieme polizia interna e servizio di informazione.

to in attesa del rimpatrio in Polonia. Anche Ozols e Rado furono rilasciati. Wenzel, non si sa. Kent fu a sua volta rimesso in libertà15. Ma fu semplicemente amnistiato, mentre la massima istanza giudiziaria sovietica cassò la condanna del Gran Capo come «destituita di ogni fondamento» e gli decretò un certificato di solenne riabilitazione. *** Entrato alla Lubianka quando la Seconda guerra mondiale non era ancora finita, ne usciva alla fine della Guerra fredda. L'ultima volta che aveva visto i suoi due bambini, uno aveva 9 anni e l'altro 4; ritrovava un uomo di 23 anni e un ragazzo di 18: gli avevano rubato la loro infanzia e la loro adolescenza. Luba era stata trattata come la moglie della SS Koppkow, alto dignitario della Gestapo, e vedeva risorgere dal nulla il compagno che aveva creduto perso. Peggio: alla moglie della SS avevano detto semplicemente che suo marito era morto, mentre a Luba era stato dichiarato che il suo l'aveva abbandonata e aveva tradito. Al capo dell'Orchestra Rossa era stata imposta l'umiliazione di essere chiuso nello stesso carcere con il Kriminalrat Pannwitz. Gli avevano sottratto 10 anni di vita che nessun certificato avrebbe mai potuto restituirgli. Era stato posto in condizioni di conoscere 15 Era stato deportato a Vorkuta, come Pannwitz. Nel 1956, il Kriminalrat lesse un libro, Slave 1 E-241 (Devin-Adair, New York), in cui l'autore, John Noble, ex-detenuto di Vorkuta, racconta in particolare la famosa rivolta scoppiata in certi settori del campo nel luglio 1953. Uno dei capi del movimento si chiamava Gurević – il vero nome di Kent. La descrizione del personaggio e delle sue caratteristiche (era, ad esempio, un accanito fumatore di pipa) non lascia dubbi al Kriminalrat: si tratta proprio di Kent. Secondo Noble, Gurević, in occasione della rivolta, avrebbe dato prova di straordinarie doti di coraggio e sangue freddo. Non c'è stato possibile verificare se quel Gurević è il nostro; sappiamo soltanto che Kent oggi vive a Leningrado.

la morte disperata di coloro che hanno sacrificato tutto per ottenere in cambio solo ingratitudine e ingiustizia. Chi mai vorrebbe cambiare la propria vita con la sua? Nelle ore dell'entusiasmo si può dire a se stessi: «Avrei voluto, avrei saputo essere Sokol muto sotto la tortura, Suzanne Spaak morta recitando Socrate, Schulze-Boysen impassibile sul patibolo». Ma Trepper, lo guardiamo uscire dalla Lubianka con un rispetto terrificato. Lui non vorrebbe che lo lasciassimo così, sulla porta della prigione, il suo fagotto sotto braccio, invecchiato, stanco, vittima esemplare degli eccessi staliniani. Dice: «Lo stalinismo? Era una malattia. Bisognava aspettare che passasse». Dice ancora: «Il viaggio Parigi-Varsavia è come se fosse durato 11 anni, ma a volte i treni arrivano in ritardo». Esce dalla Lubianka quale vi è entrato: comunista. E a noi che non siamo comunisti, a noi piace che lo sia rimasto, perché la sconfitta di un uomo che le vicissitudini, anche se orribili, inducono a ripudiare le proprie convinzioni come un fardello troppo pesante, è una sconfitta per tutti gli uomini. Quale immagine trattenere di lui? L'insorto di Dombrova? Il militante in Palestina? Certo, sono cari al nostro cuore, ma non abbiamo conosciuto quei lontani predecessori del Gran Capo. Questo libro non è il loro. Essi appartengono ad un romanzo di André Malraux. Lasciamoglieli: ci scapiterebbero al cambio. L'apprendista-spia della rete Fantômas? Ah! Non gli andrebbe affatto a genio! Rinnegato, bandito, precipitato nelle tenebre circostanti, il piccolo agente di Fantômas! Lacerata, l'imbarazzante immagine! Non ha mai fatto parte di quella rete. Non ha mai seguito le lezioni di spionaggio dell'Accademia dell'Armata

Rossa. Davvero? Sicché sarebbe calato da una nuvola nel 1939 come un profeta armato, per guidare l'Orchestra Rossa alla crociata antifascista? Non abbiamo percorso tanta strada assieme per abbandonarlo su un'oleografia. Ripeschiamo la fotografia strappata nel cestino della carta straccia. Ovviamente, non siamo più nell'atmosfera di un romanzo di Malraux ed è necessario fare uno sforzo per interessarsi al duello tra Fantômas e il commissario Faux-Pas-Bidet. Faccio lo sforzo. Lo guardo agire, il piccolo agente di Fantômas che spia i miei arsenali nazionali. Ma tengo anche d'occhio la guerra che si avvicina, già odo il rombo del cannone. Allora, capitemi, se il galoppino di Fantômas lavorasse per la Germania, presto! Un plotone di esecuzione! Ma lavora per la Russia e già penso a Stalingrado. Benissimo, impari pure la lezione in casa nostra, dal momento che quanto prima trarremo profitto dalla sua esperienza. Comunque, malgrado tutto, sarebbe stato meglio che andasse a impararla altrove, e anche se certi reati cadono in prescrizione, anche se esiste una prescrizione del cuore, non ho voglia di inquadrare quell'immagine. L'uomo che ha fatto fronte al “Grande Gioco” delle SS? Se anche gli storici riuscissero a dimostrare che impedì al Cremlino di soggiacere, tra il giugno 1943 e la conferenza di Teheran, ad un'intossicazione di incalcolabile portata, noi non sceglieremmo di congedarci da lui in tale importante circostanza. Il “Grande Gioco” fu fatto di astuzie, simulacri, cautele, artifici. È una bella cosa che si sia rivelato il più astuto, ma noi amiamo in lui altre qualità. Il capo dell'Orchestra Rossa? Sì, saremmo tentati di scegliere questa immagine. Forse l'abbiamo un tantino dimenticata da quando il “Grande Gioco” è spuntato sulla nostra storia come un

parassita. Rammentate: dal 1940 alla fine del 1942 – a Stalingrado, è quasi simbolico –, le centinaia di messaggi che dicevano a Mosca dove il nemico si apprestava a colpire e dove era più vulnerabile, l'intero potenziale economico-militare tedesco messo a nudo, lo Stato Maggiore sovietico in grado di condurre le operazioni avendo sotto gli occhi le carte dello Stato Maggiore nemico... Fermiamoci qui: stavamo per scrivere che la guerra è stata vinta un po' grazie a lui, e questo non gli piacerebbe. Dice: «Nessuna battaglia, nessuna guerra, è mai stata vinta da una rete di spionaggio. Le battaglie, le guerre, si vincono cadendo in battaglia. Sono stati i soldati che hanno accettato di morire tra le sue macerie che hanno salvato Stalingrado. Nessun altro». Probabilmente preferirebbe andarsene in punta di piedi, lasciandoci questo semplice biglietto da visita: «Leiba Domb-Editore». La letteratura classica ebraica: la sua professione di oggi, la sua passione di sempre, una vocazione a lungo contrastata. Ricordo le nostre serate a Varsavia. Faceva già fresco. Lui mi accompagnava all'albergo, io lo riaccompagnavo a casa, non finivamo mai di accompagnarci a vicenda. Teneva le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile e portava un basco un po' stinto calato fino alle orecchie. Non era il Gran Capo quello che trotterellava al mio fianco, il naso arrossato, gli occhi accesi: era il piccolo padre Domb, editore di classici ebraici. E, ascoltandolo entusiasmarsi per testi i cui splendori restavano per me ermetici, mi chiedevo se si trattava davvero dello stesso uomo che aveva fatto tremare la Gestapo. Di tanto in tanto, una frase buttata lì a caso aveva il potere di riportarlo al passato («Che idea quella di travestirsi da venditore di conigli per andare in Rue des Atrébates!». «Io? Venditore di conigli? Chi gliel'ha raccontata?». «Fortner...».

«Quel Fortner! Ma no! Ho fatto loro credere che avevo un appuntamento presso un garage requisito proprio lì accanto, e il lasciapassare della Todt ha avuto buon gioco...»). Simili colpi di fortuna erano rari. Di solito, ci voleva un'infinità di esorcismi e di domande per resuscitare il Gran Capo ad un angolo di strada. Ma allora ridiventava quello che doveva essere stato una volta, quando fissava i suoi rischiosi appuntamenti sui marciapiedi di Parigi o di Bruxelles. Si fermava, inarcando le reni, e mi diceva con quella voce dolce: «Esaminiamo tutte le ipotesi possibili a partire da questa situazione». Accecante fuoco d'artificio, improvviso zampillare di ingegnose speculazioni, considerazioni in merito a «quelle povere creature» (le SS), poi conclusione e riapparizione di Leiba Domb, editore, che non ci appartiene, che appartiene a Luba, ai suoi figli, ai suoi autori... *** No. l'immagine che conserveremo di lui è la più recente di tutte. È datata 11 aprile 1965, dieci anni dopo la sua riabilitazione, vent'anni dopo il ritorno a Mosca. Delegazioni giunte da ogni dove celebrano ad Auschwitz il ventesimo anniversario della liberazione del campo, alla presenza del presidente del Consiglio polacco. C'è anche il generale sovietico che ha aperto i cancelli di Auschwitz nel 1945. Davanti a lui, Leiba Domb, presidente della Comunità ebraica di Polonia. Si alza, parla alle 80.000 persone radunate davanti alla tribuna. Ascoltatelo: attraverso di lui, sono tutti i morti dell'Orchestra Rossa che parlano ai morti di Auschwitz e ai vivi del mondo intero, sono il tedesco Adam Kuckhoff, il francese Pauriol, la belga Suzanne Spaak, l'olandese

Kruyt, il russo Danilov, l'americana Mildred Harnack; quelli che hanno avuto il coraggio di tacere e quelli che hanno parlato; gli impiccati, i fucilati, i decapitati. Ascoltatelo: è bello che parlino con la sua voce, non perché era il loro capo, ma perché fu di tutti loro quello che pagò il prezzo più alto, quello che fu ferito dai suoi compagni, mentre gli altri erano stati uccisi dal nemico. Ascoltatelo: è bello che la sua parola risuoni su questo campo di Auschwitz dove fu perpetrato l'indicibile, dove fu sterminato un popolo; perché proprio per impedire questo si erano battuti ed erano morti quelli dell'Orchestra Rossa; erano gente di tutti i paesi, di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le opinioni politiche, ma questo li ha uniti nella lotta per l'eternità. Ascoltatelo: è bello che in questo luogo dove furono condotti al macello tante donne, bambini e vecchi inermi, tanti uomini ebrei cui erano stati rifiutati i mezzi della lotta, sì, è bello che si levi la voce di quello tra gli ebrei che con tutta probabilità ha inferto al nazismo i colpi più letali.

SULLE FONTI

Tra un certo numero di opere di carattere generale relative alla Seconda guerra mondiale e allo spionaggio, l'autore ha consultato in modo particolare i libri citati nella bibliografia riportata più sotto. Ha avuto modo di consultare i rapporti della Gestapo e dell'Abwehr riguardanti l'Orchestra Rossa, nonché il testo di parecchi verdetti emessi dalla corte marziale del Reich. Sono del pari giunti a sua conoscenza certi altri documenti, ma non gli è lecito indicarne l'origine e gli estremi; il lettore vorrà scusarlo. L'autore ha poi ottenuto un certo numero di interviste di cui è inutile riportare l'elenco, dal momento che il lettore le ha già lette. Desidera comunque esprimere i suoi ringraziamenti a tutti coloro che ha importunato così spesso e a lungo, e che gli hanno sempre riservato un'accoglienza tanto cordiale, anche se le sue interminabili domande riaprivano in loro crudeli ferite. Desidera infine esprimere la sua particolare gratitudine a Constantin Melnik, senza il quale questo libro, che egli disapprova per molti aspetti, non sarebbe stato scritto. ACCOCE PIERRE e QUET PIERRE, La Guerre a été gagnée en Suisse, Librairie Académique Perrin 1966.

BOEHM ÉRIC, We Survived, Yale University Press, 1949. BOLDT GERHARD, La Fin de Hitler, Corrêa, 1949. BOVEN MARGARET, Treason in the twentieth century, Putnam's Sons, 1963. BURGESS ALAN, Sept hommes à l'aube, Albin Michel, 1962. BUSCMANN HUGO, De la résistance au défaitisme, Les Temps Modernes, 1949. CARELL PAUL, Opération Barbarossa, Laffont, 1964. CHATEL NICOLE e GUÉRIN ALAIN, Camarade Sorge, Julliard, 1965. CRANKSHAW EDWARD, Gestapo, Putnam, 1956. DALLIN DAVID, Soviet Espionage, Yale University Press, 1955. DELARUE JACQUES, Histoire de la Gestapo, Fayard, 1962. DEPELSENAIRE BETTY, Symphonie fraternelle, Éditions Lumen, Bruxelles. DOURLEIN PIETER, Inside North Pole, William Kimber. DULLES ALLEN, Germany's Underground, New York, 1947. FLICKE W.F., Spionagegruppe Rote Kapelle, Verlag Welsermühl Wels, 1957. FOOTE ALEXANDER, Handbook for spies, London, Museum Press. GANIER-RAYMOND PHILIPPE, Le Réseau étranglé, Fayard 1967. GISKES H.J., Londres appelle Pôle-Nord, Plon, 1958. HASSEL ULRICH VON, D'une autre Allemagne, Éditions de la Baconnière, 1948. HITLER ADOLF, Libres Propos, Flammarion, 1954.

HŒTTL WILHELM, The Secret front, Weidenfeld, 1953. KLEIST PETER, Entre Hitler et Staline, Plon, 1953. LANG SERGE e VON SCHENCK ERNST, Testament nazi. Mémoires d'Alfred Rosenberg, Les Trois Collines, 1948. LEHMANN KLAUS, Widerstand im Dritten Reich, V.V.N. Verlag, 1948. LEVERKUEHN PAUL, German Military Intelligence, Præger, 1954. MANVELL ROGER e FRAENKEL HEINRICH, Heinrich Himmler, Heinemann, 1965. ORLOV, Handbook of Intelligence, Michigan University Press, 1964. OVEN WILFRED VON, Mit Gœbbels bis zum Ende, Buenos Aires, 1949. PAYNE-BEST, The Venlo Incident, Londres, 1950. POELCHAU HARALD, Die Letzten Stunden, Magdeburg, 1949. PONCHARDIER DOMINIQUE, Les Pavés de l'enfer, Gallimard, 1950. REITLINGER GERARD, The S.S., Heinemann, 1956. RÉMY, Mémoires d'un agent secret de la France Libre, France-Empire, 1960. RIBBENTROP JOACHIM VON, De Londres à Moscou, Grasset, 1948. SALOMON ERNST VON, Le Questionnaire, Gallimard. SCHELLENBERG WALTER, Le Chef du contre-espionnage nazi parle, Julliard, 1957. TILLON CHARLES, Les F.T.P., Julliard, 1962.

TREVOR-ROPER H.R., Les Derniers Jours de Hitler, Calmann-Lévy, 1964. WEISENBORN GÜNTHER, Der lautlose Aufstand, Hambourg 1953. WHEELER-BENNETT, The Nemesis of power, Mac Millan, 1953. ZOLLER ALBERT, Douze ans auprès de Hitler, Fayard, 1949.