Logica della singolarità. Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy

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Tommaso Ariemma

Logica della singolarità Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy

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978–88–548–xxxx–x

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I edizione: aprile 2009

Ai miei genitori

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Indice Introduzione

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Capitolo I - Deleuze: l’eterno ritorno del differente L’immagine dogmatica del pensiero e l’eterno ritorno del differente L’empirismo trascendentale L’eterno ritorno del differente e il platonismo riaccentuato Il segno, l’attuale, il virtuale Senso e iscrizione Deleuze e la logica della singolarità

17 17 26 31 38 47 54

Capitolo II - Derrida: l’iscrizione della singolarità La scrittura e il platonismo La tipografia di Platone L’erranza empirico-trascendentale Chora, superficie, piega Democrazia e immanenza Derrida e la logica della singolarità

57 57 69 74 78 87 91

Capitolo III - Nancy: la condivisione dell’esposizione Il senso dell’esposizione L’insieme singolare Corpus, corpo erotico, corpo senza organi: non c’è “il” toccare Nudità trascendentale e decostruzione del cristianesimo Nancy e la logica della singolarità

93 93 97 106 115 120

Conclusione

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Bibliografia

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Introduzione

Il discorso della singolarità La filosofia è quel sapere interamente determinato dalla singolarità. A differenziare il suo sapere è infatti la philia, ovvero uno sbilanciamento, un’esposizione. Il discorso della filosofia è un discorso singolare perché ogni volta il suo oggetto è qualcosa di singolare: l’idea di Platone, la sostanza di Aristotele, il cogito di Cartesio, lo Spirito di Hegel. Anche quando i termini impiegati sembrano gli stessi (la sostanza di Spinoza, l’idea di Husserl), si tratta sempre di tutt’altre cose. Il discorso della filosofia scava sul bordo del noto fino a creare una giuntura con l’ignoto, producendo così l’effetto (del) singolare: lo sbilanciamento, il legame che slega, e che costringe all’invenzione. Tuttavia, benché la filosofia sia determinata dalla singolarità, essa non avrebbe mai posto con la dovuta radicalità tale senso, almeno fino alla metà del secolo appena passato. Proprio perché la filosofia avrebbe tentato con il suo discorso di deporre il suo senso, essa non si sarebbe mai pienamente realizzata, relegando nell’impensato ciò che la singolarità impone. Ogni volta la filosofia ha affermato un singolare-non-singolare, è il caso tipico del concetto classico. Producendo queste singolarità-nonsingolari (dispositivi singolari che rimuovono la singolarità) essa ha, nello stesso tempo, istituito le categorie fondamentali attraverso le quali il mondo ha potuto essere pensato, e destituito la singolarità stessa che ha generato l’istituzione concettuale.

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Introduzione

Ovviamente la singolarità – ma vedremo che “la” singolarità, a rigore, non si dà – c’è prima della filosofia. Tuttavia la filosofia, e solo la filosofia, può essere discorso della singolarità da parte a parte. Tra il 1967 e il 1969 vedono la luce L’écriture et la différence (1967), De la grammatologie (1967) di Jacques Derrida e Différence et répétition (1968), Logique du sens (1969) di Gilles Deleuze. Per una felice necessità tali opere pongono il problema della differenza, della singolarità, come qualcosa che non ha mai ricevuto adeguato concetto, esprimendo, nello stesso tempo, un ripensamento radicale della filosofia e delle sue istituzioni. La singolarità viene posta all’attenzione del pensiero in modo non marginale1: tali opere, in modo decisivo, caratterizzano ciò che in Francia, dopo lo strutturalismo, si affermerà come pensiero della differenza2. Una ventina d’anni più tardi vedono la luce La communauté désoeuvrée (1986, 1990), L’oubli de la philosophie (1986), L’expérience de la liberté (1988) di Jean-Luc Nancy, che comincerà a meditare ciò che era in gioco nella convergenza tra Deleuze e Derrida, soprattutto in note a margine – e il nostro lavoro non farà che scavare tale margine. La nostra ricerca giunge a questo punto di autocomprensione filosofica della questione della singolarità, per sigillare una triplice elevazione del pensiero in direzione della singolarità. Tuttavia lo sigilla non tanto per consegnarlo a una storia della filosofia, bensì per dischiudere le singolarità concettuali in merito al problema capitale della singolarità. A partire da tale problema, il nostro lavoro si pone un obiettivo preciso: definire le condizioni del pensiero e dell’esperienza attraverso l’esame critico delle filosofie di Deleuze, Derrida, Nancy. 1 Non condividiamo pertanto la lettura di Vattimo, secondo cui Heidegger avanzerebbe un pensiero della differenza in quanto tale. Heidegger è un pensatore dell’essere più che della differenza. Vattimo vede sia Deleuze che Derrida come tramonto di un pensiero della differenza, che, inaugurato da Heidegger, sembra avere con quest’ultimo la sua chiusura. Il che ci pare poco verosimile, come avremo modo di mostrare. Cfr. G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 2001, in particolare pp.151-171. 2 Per una panoramica del pensiero francese della differenza, si vedano in particolare: V. DESCOMBES, Le meme et l’autre, Minuit, Paris 1979; F. LARUELLE, Les philosophies de la differénce, Puf, Paris 1986; C. DESCAMPS, Quarante ans de philosophie en France. La pensée singulière de Sartre à Deleuze, Bordas, Paris 2003; D. TARIZZO, Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Cortina, Milano 2003.

Introduzione

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Apparentemente, una questione di metodo Si tratta dunque di tre pensatori, ma soprattutto di tre percorsi per lo più autonomi e, a loro volta, originali. Come sviluppare, allora, la congiuntura? La soluzione più sobria sembra essere quella di individuare un punto comune: l’antiplatonismo. Come avremo modo di mostrare in ogni capitolo, oltre ad avere una ragione metodica, l’antiplatonismo, per una riabilitazione del problema della singolarità, ha una sua necessità concettuale. Come atteggiamento, l’antiplatonismo non è certo nuovo e iscrive i tre pensatori nel solco – inaggirabile – tracciato da Nietzsche e da Heidegger. Entrambi costituiscono il riferimento privilegiato di Deleuze, Derrida e Nancy proprio per il loro dichiarato antiplatonismo. Un tratto distintivo di tale antiplatonismo consiste non nello scagliarsi semplicemente contro Platone ma, in primo luogo, nel considerare Platone l’istitutore di una tendenza che abbraccia la filosofia nella sua totalità. L’antiplatonismo si riconosce innanzitutto dall’ipotesi di un’estensione, ovvero di qualcosa come il platonismo3. Nietzsche tratteggia una storia di posizioni chiave della metafisica che mantengono un riferimento platonico, relativamente all’istituzione di un mondo soprasensibile in opposizione a un mondo apparente 4. 3 Su questo termine, e sui problemi che può generare, si veda il lavoro, a nostro parere ancora insuperato, di V. DESCOMBES, Le platonisme, P. U. F, Paris 1971. 4 Cfr. F. NIETZSCHE, Werke, vol. VI, t. III, De Gruyter, Berlin 1969, trad. it. a cura di F. Masini, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1997, pp. 46-47: « 1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in se stesso, lui stesso è questo mondo. (La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”). 2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”). Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…). 3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo. (In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica).

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Introduzione

Sono sei gli stadi di ciò che per Nietzsche è la storia di un errore, la favola di un mondo vero, trascendente, che troverà il suo capovolgimento nella sua filosofia, nell’annuncio di Zarathustra. Il riferimento permanente a Platone è testimoniato esplicitamente dalla penultima tappa in cui si parla di Platone “rosso di vergogna”. Il platonismo abbraccia tutta la metafisica, Nietzsche incluso: è questa invece la tesi di Heidegger che include Nietzsche all’interno del platonismo, indicando il suo tentativo di rovesciamento come un gesto che permane nel platonismo, ovvero nel solco di ciò che la filosofia heideggeriana chiama “oblio dell’essere”. Nietzsche eredita, per Heidegger, senza esserne consapevole, il medesimo spirito platonico che crede di rovesciare. Nel corsi universitari che Heidegger dedica tra il 1936 e il 1946 alla filosofia di Nietzsche, i cui materiali confluiranno nel monumentale Nietzsche del 1961, viene espres-samente enunciata e ribadita la tesi che Nietzsche non riesca a svincolarsi dal platonismo, evidenziando Heidegger, dunque, una differenza tra il rovesciamento del platonismo, dichiarato da Nietzsche, e il suo effettivo svincolamento. Nel saggio Oltrepassamento della metafisica Heidegger si esprime in questi termini: «Il rovesciamento del platonismo, in base al quale per Nietzsche il sensibile diventa il mondo vero e il soprasensibile il mondo non vero, rimane completamente interno alla metafisica»5. In modo incisivo, inoltre, ne La dottrina platonica della verità Heidegger dichiara: «[…] Anche Nietzsche è un platonico, ma siccome

4. Il mondo vero – inattingibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?… (Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo). 5. Il «mondo vero» - un’idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi). 6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? … Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombre più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità. INCIPIT ZARATHUSTRA)». 5 M. HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, trad. it. di G. Vattimo, Saggi e di discorsi, Mursia, Milano 1976.

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gli viene meno ogni sapere circa l’origine metafisica del “valore”, egli è il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale»6. Ciò che distingue l’antiplatonismo di Heidegger è l’ intravedere un al di là del platonismo, una possibilità di svincolamento radicale di cui Nietzsche non sarebbe stato capace. Heidegger desidera uno svincolamento dal platonismo e tuttavia proprio questo gesto, lo svincolamento, sarebbe già platonico. Riprendendo in modo affermativo il progetto di Nietzsche di rovesciare il platonismo, l’antiplatonismo di Deleuze, Derrida, Nancy si caratterizza, invece, per l’abitare strategicamente l’eredità inaggirabile di Platone: si tratta di stare nel platonismo senza lasciarsene soggiogare. A tal proposito l’affermazione di Deleuze ci sembra decisiva: [...] non c’è nessuna ragione di fare filosofia come l’ha fatta Platone, non perchè noi superiamo Platone, ma al contrario perchè Platone non è oltrepassabile, e non è di alcun interesse ricominciare quello che lui ha fatto per sempre. Abbiamo solo un’alternativa: o la storia della filosofia oppure degli innesti su Platone per problemi che non sono più platonici7.

Significativa anche l’affermazione di Derrida, che in una delle sue ultime opere afferma: «Non abbiamo ancora lasciato Platone. Lo lasceremo mai?»8.

Antiplatonismo e ontografia: ripetizione, archiscrizione, condivisione Il permanere criticamente nel platonismo è funzionale alla produzione di una certa resistenza al platonismo. Una tale resistenza fa convergere Deleuze, Derrida, Nancy su un medesimo punto, che li distingue da tutti gli altri antiplatonismi che attraversano buona parte della filosofia occidentale e in special modo quella novecentesca. Ciò che 6 M. HEIDEGGER, Wegmarken, GA IX, 1976, trad. it. a cura di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1994, p. 182. 7 G. DELEUZE, Pourparler, Minuit, Paris 1990, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 197-198. 8 J. DERRIDA, Voyous, Galilée, Paris 2003, trad. it a cura di L. Odello, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, p. 195.

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distingue il loro antiplatonismo e nello stesso tempo esprime il criterio che li accomuna è il riferimento implicito o esplicito all’iscrizione come tratto ontologico fondamentale, il che ci permetterà di parlare di un’ontografia come elevazione del fenomeno scrittorio a motivo costitutivo dell’esperienza nel suo insieme. Ogni cosa è firmata, si iscrive in un'altra, lascia tracce. L’iscrizione, come le nostre analisi mostreranno, rivelerà soprattutto la ragione sufficiente della singolarità stessa. Non si dà singolarità se non all’interno di una dinamica scrittoria. Pertanto un pensiero radicale della singolarità, una logica della singolarità, non può che passare per la coppia “antiplatonismo e ontografia” come pure per il trittico “Deleuze, Derrida, Nancy”. Sono tre, a nostro parere, i motivi fondamentali dell’ontografia, che l’esame comparato delle loro teorie dispiega, e che mostreremo attraverso un riesame critico delle loro tesi fondamentali: la ripetizione, l’archiscrizione, la con-divisione che corrispondono rispettivamente alle filosofie di Deleuze, Derrida e di Nancy alle quali ogni capitolo è specificamente dedicato. Prima di iniziare la nostra ricerca è bene fissare il significato di un termine chiave: quello di esposizione. È un termine ambiguo che indica tanto una presentazione, un’offerta, tanto una passività, una vulnerabilità. All’interno del nostro percorso esso assumerà pienamente l’ambiguità come indiscernibilità: l’esposizione indica sempre entrambi gli aspetti e viola le opposizioni classiche della nostra stradizione di pensiero: dentro/fuori, presenza/assenza, proprio/improprio. La logica della singolarità è inseparabile da una logica dell’esposizione.

L’inizio deleuziano, la nostra tesi A prima vista la differenza, ovvero la singolarità, sembra qualcosa di sfuggente e di aporetico, di irriducibile al concetto. A ragione, allora, una logica della singolarità non può che cominciare con il discutere le tesi di Deleuze, unico tra i tre pensatori, che ci proponiamo di analizzare, a manifestare, con un’innocenza senza precedenti, una vocazione verso una “cattiva logica”, come quella che tenta di essere “logica della singolarità”. Deleuze, infatti, vuole dare alla differenza, in-

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nanzitutto, un concetto9, e nella stagione più matura del suo pensiero si farà celebratore di «nozze tra il concetto e la singolarità», al contrario di Derrida e Nancy che nutriranno sempre una certa diffidenza verso l’istanza concettuale. A questo punto, però, è bene enunciare meglio la nostra tesi, o almeno la sua ipotesi fondamentale, fin da subito: lungi dall’essere esaurita da un solo pensatore, una logica della singolarità si mostra nella triplice tessitura che ci proponiamo di analizzare e discutere. Tale tessitura verrà marcata soprattutto a partire da tre passaggi, rappresentati dai paragrafi conclusivi di ogni capitolo dedicato a ciascun pensatore. In pratica, la nostra analisi consiste in un setaccio di quanto è necessario a un concetto non metafisico della singolarità, ma nello stesso tempo il nostro lavoro consisterà anche nel sottolineare quanto in ciascun pensiero, che fedelmente svilupperemo, vi sia di insufficiente e parziale.

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Cfr. Différence et répétition, P.U. F., Paris 1968, trad. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 48.

Capitolo I Deleuze: l’eterno ritorno del differente

L’immagine dogmatica del pensiero e l’eterno ritorno del differente Anche il critico meno attento non potrebbe non notare che nei quattro testi fondamentali di Gilles Deleuze Nietzsche et la philosophie (1962), Marcel Proust et les signes (1964), Différence et répétition (1968), Logique du sens (1969), ci sia un capitolo dedicato a una medesima immagine di pensiero e che questa abbia come suo iniziatore Platone. Ciò che Deleuze chiama propriamente immagine dogmatica del pensiero è un plurisecolare dispositivo di orientamento, un dispositivo che orienta il pensiero verso ciò che non lo sollecita a pensare, distogliendolo dalla differenza in sé, ossia dal nuovo, dalla differenza che non deriva da alcun rapporto tra identità e che sollecita nel pensiero potenze altre dal semplice riconoscimento. Quando tutto ciò che si credeva di riconoscere fa segno verso singolarità irriconoscibili, svincolate da identità costituite, è allora e solo allora, che il pensiero si mette in moto, come qualcosa che in quel momento comincia, a causa di una provocazione. Per Deleuze la differenza in sé non si distingue in alcun modo dalla singolarità e viceversa (come dimostrano in modo esemplare le prime pagine dell’introduzione a Differenza e ripetizione). Tale indicazione ci proietta già, implicitamente, verso una concezione pre-individuale della singolarità (concezione che riprenderemo analiticamente più avanti) che non la riduce all’individuo o al singolo, sottraendola così al numerico, ovvero allo statuto del singolo come unità, fondamento di ogni calcolo.

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Capitolo I

Il singolo non è il singolare: l’essenza del singolo è l’unità, ovvero la sua solitudine. La singolarità è, al contrario, un più d’uno, un incalcolabile, una frattura nel già noto. L’immagine di pensiero, così come viene presentata da Deleuze, funziona allora come un potente presupposto filosofico e con Platone avrebbe inizio l’immagine dogmatica del pensiero, che si caratterizza per la sua impotenza a pensare la differenza in sé, perché questa è colta attraverso il riconoscimento, la rassomiglianza, l’analogia e in generale a partire dall’identico. L’immagine dogmatica non riesce a concettualizzare, oppure vieta al pensiero, ciò che costringe quest’ultimo a pensare, ovvero la sua esposizione - perché non si pensa che in virtù di strappi, buchi, interruzioni. L’immagine dogmatica del pensiero, dunque, sarebbe caratterizzata dal fatto di occultare ciò che costringe il pensiero a pensare. A partire da Platone, il pensiero sarebbe senza alcun motivo predisposto alla verità, in una elettiva amicizia, priva di scontri o violenze. Secondo Deleuze, allora, non si può criticare l’immagine dogmatica senza criticare una philia di stampo platonico. A priori si sa cosa può un pensiero, quali sono le sue potenzialità. Non si tratterà mai di apprendere, quanto di ricordare. In più punti della sua opera Platone è stato, a tal proposito, senza dubbio chiarissimo: […] il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare1. Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni a una unità colta con il pensiero. E questa è una reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima ha visto […]2.

Fino a Nietzsche, secondo Deleuze, l’immagine dogmatica si manterrebbe più o meno costante, soprattutto come una motivazione morale, che, a partire da Platone, pensa lo sconosciuto come il dimenticato, secondo un primato del modello ricognitivo, che non è altro che un modo particolare di pensare la ripetizione. Questa, infatti, viene pensa1

PLATONE, Menone, 81 d6, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 115. PLATONE, Fedro, 249 d9 – e2, a cura di G. Reale, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1998, p. 77. 2

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ta come ripetizione del medesimo, fedele alle nostre attese, sottoposta ad un primato dell’identità che condiziona ogni nostro incontro e ogni risposta all’incontro: “Che cos’è…?” è la formula con la quale la metafisica pone il problema dell’essenza. Tale formula, forse per abitudine, ci sembra ovvia e scontata; ma in realtà ne siamo debitori a Socrate e a Platone. Dobbiamo quindi risalire a Platone per vedere in che misura la domanda “che cos’è…?” presupponga un particolare modo di pensare3.

Il particolare modo di pensare, che riceve con Platone la sua istituzione, consiste nell’anteporre a un apprendimento trascendentale, cioè ineliminabile e sempre necessario, un apprendimento originario, avvenuto in un tempo mitico (cfr. Menone 81c-d). Nel Fedone (72 e8) Socrate afferma esplicitamente che è necessario che si sia appreso in un tempo passato ciò che deve essere ricordato. L’orientamento platonico del pensiero destituisce l’apprendere a favore di un appreso. Una tale destituzione rimuove nell’appreso stesso l’apprendere, perché l’appreso deve mostrarsi come istituzione. Per questo motivo, Menone chiede a Socrate perplesso: « […] in che senso dici che noi apprendiamo, ma che ciò che noi chiamiamo apprendimento è reminiscenza?»4. Attraverso un esperimento maieutico, Socrate, come si sa, fa dimostrare il teorema di Pitagora allo schiavo di Menone, per mostrare la sua fondamentale teoria della reminiscenza. Tuttavia, Socrate dice di averlo intorpidito (82 b-d), attraverso un modo singolare di avanzare delle interrogazioni. A un’analisi attenta, soprattutto dello stile del dialogo, le domande che Socrate rivolge allo schiavo non sono problematiche, ma retoriche. Socrate lo costringe, in fin dei conti, a ripetere un procedimento a lui estraneo. Non si tratta affatto di ricordare, quanto di corrispondere

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G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962, trad. it. di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, p. 113. 4 PLATONE, Menone, 81 e4-6, cit., p. 115. Su questo punto si veda in particolare G. VLASTOS, Anamnesis in the “Meno”, «Dialogue», IV(1965), pp. 143-167; F. ARONADIO, Procedure di verità in Platone, Bibliopolis, Napoli 2002, pp. 55-121.

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Capitolo I

a un ordine, a un apprendimento già avvenuto. Mai figura poteva essere più simbolica di quella di uno schiavo. Ed è quasi grottesco ciò che Socrate dice a Menone, a proposito del suo servo: «SOCRATE – Che cosa ti sembra, o Menone? C’è qualche pensiero da lui espresso che non sia suo? MENONE – No, tutti suoi»5. Lo schiavo non replica, ma avrebbe potuto rispondere, in modo impertinente, di non aver espresso in realtà alcun pensiero e di essersi limitato per lo più ad annuire. Lo schiavo non ha nome ed è preso nel suo essere qualunque, dotato di anima, e pertanto capace di conformarsi all’ordine, nella credenza che questo sia pensare. L’immagine del pensiero che Platone istituisce è di fatto un’immagine negativa del pensiero. La sua figura fondamentale è quella dello schiavo, che non può far altro che confermare e subire. Riconoscere senza conoscere: Così tutta la teoria platonica dell’apprendimento funziona come un pentimento, schiacciato dall’immagine dogmatica nascente, e suscita un senzafondo che è incapace di esplorare. Un Menone moderno direbbe che il sapere non è altro che una figura empirica, un semplice risultato che cade e ricade nell’esperienza, ma che l’apprendere è la vera struttura trascendentale che unisce senza mediarle la differenza alla differenza, la dissomiglianza alla dissomiglianza, e introduce il tempo nel pensiero, come forma pura del tempo vuoto in generale, e non come un passato mitico6.

Nel suo testo su Proust, Marcel Proust et les signes, Deleuze oppone l’apprendistato messo in opera dallo scrittore all’immagine dogmatica del pensiero istituita da Platone, vedendo nella parola costringere il Leitmotiv della sua scrittura. Il romanzo di Proust è un grande “sistema” di incontri che costringono a interpretare, di espressioni e di impressioni che costringono a pensare. Dogma è ciò che viene imposto dal pensiero stesso al proprio avvenire, piuttosto che dalla sua capacità d’incontro, la cui componente fondamentale è l’esperienza del segno, perché, come Deleuze sentenzia, «Quel che ci costringe a pensare è il segno»7. 5

Ivi, p. 133. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 216. 7 G. DELEUZE, Marcel Proust et le signes, P.U.F., Paris 1964, trad. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001, p. 90. Sulla lettura di Deleuze di 6

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La genesi del pensiero è, a ben vedere, una creazione continua stimolata da segni e produttrice di segni. Una creazione fondamentalmente involontaria. Il pensiero costretto a pensare, infatti, appartiene ad un’immagine antivolontaristica e antiricognitiva del pensiero. Proust, secondo Deleuze, pur invocando il termine reminiscenza, si discosta essenzialmente da Platone. Mentre Platone vede la reminiscenza in termini di ricomposizione, Proust la riprende in termini di creazione, ripetizione differente, a partire da un diverso rapporto con il segno, non greco (precisamente, non platonico). Scrive infatti Deleuze: Se una parte vale per se stessa, se un frammento parla in se stesso, se un segno si evidenzia, ciò avviene in due modi diversi: o perché permette di indovinare un tutto da cui è tratto, di ricostituire l’organismo o la statua ai quali appartiene, e di ricercare l’altra parte che si adatta ad esso – oppure inversamente, perché non esiste parte che gli corrisponda, totalità in cui possa essere inserito, unità da cui possa essere estratto, e alla quale possa essere restituito. Il primo modo è quello dei Greci8.

L’altro modo di rapportarsi al segno, ovvero l’altro modo di pensare la ripetizione (perché il segno non è che una ripresentazione, una risonanza), Deleuze lo rintraccia, dunque, nell’opera di Proust, perché in questa (Deleuze ne analizza dei passi decisivi) «non c’è reminiscenza platonica»9. Piuttosto un altro tipo di reminiscenza che fa dire a Deleuze: «Non si tratta più di dire: creare è ricordarsi – ma ricordarsi è creare […]»10. La reminiscenza in Proust indica a Deleuze un sentiero altro dalla presenza metafisica: “la reminiscenza non rimanda semplicemente da un presente attuale a antichi presenti”11. Oltre ad essere portatore di Proust si vedano F. SOSSI, Filosofia di Proust, Unicopli, Milano 1988, pp. 141-144; M. CARBONE, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 49-175. Sul problema del segno e dell’immagine dogmatica del pensiero si veda F. ZOURABICHVILI, Deleuze. Une philosophie de l’événement, P.U.F., Paris 1996, trad. it. di F. Agostini, Deleuze. Una filosofia dell’evento, Ombre corte, Verona 1998, pp. 11-49. 8 Ivi, p.104. 9 Ivi, p.105. 10 Ivi, p.102. 11 G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 114.

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Capitolo I

una concezione moderna e antiplatonica della reminiscenza, Proust annuncia, inoltre, una differente concezione dell’idea, che Deleuze, come vedremo più avanti, svilupperà in modo originale 12. L’idea in Proust, non sarebbe più un “prima” rispetto a un “dopo”, come accade in Platone, ma un vero è proprio evento, che rompe il circolo dell’idea platonica dove questa veniva pensata come un presente altrove. Il tempo platonico è un tempo ricurvo, ciclico e Deleuze non manca di sottolineare come nel «Timeo si trovano delle belle pagine sull’attività del Demiurgo, che piega, arcua, mette in cerchio»13. All’interno di tale discorso sul tempo e sulla reminiscenza, sul prima e su dopo, l’essere del segno, ovvero ciò che costringere a pensare, è proprio ciò che, se pensato radicalmente, dischiude un’altra e più profonda immagine del tempo. L’immagine dogmatica del pensiero vieta, pertanto, al pensiero di accogliere il segno in tutta la sua potenza e ricchezza, ovvero come differenza, singolarità. Il segno indica, suggerisce, eccede ogni volta in modo singolare ciò che è attuale e identico, chiuso in se stesso. Il segno è ciò che, in quanto traccia, non ha potuto cominciare, e che, nello stesso tempo, in quanto porta qualcos’altro con sé, non cessa di divenire: vi è un eterno ritorno che non ha nulla di ciclico, proprio in virtù dell’istanza del segno, che lo costituisce. Per Deleuze, come vedremo più avanti, Nietzsche ha espresso le parole decisive su una temporalità non ciclica e nondimeno intimamente costituita dalla ripetizione. Non a caso, per Deleuze, la filosofia di Nietzsche è anche e soprattutto una filosofia del segno: Un fenomeno non è né un apparire, né un manifestarsi, ma è un segno, un sintomo il cui senso è dato da una forza attuale. L’intera filosofia è sintomatologia e semeiotica […] Al dualismo metafisico di apparenza ed essenza, co-

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Cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., pp. 101-102: «l’essenza, da parte sua, non è più l’essenza stabile, l’idealità vista, che riunisce il mondo in un tutto, e vi introduce la giusta misura. L’essenza secondo Proust […] non è solo la visione di qualcosa, ma una specie di punto di vista superiore. Punto di vista irriducibile, che significa contemporaneamente la nascita del mondo e il carattere originale di un mondo». 13 G. DELEUZE, Lezione del 21 marzo 1978, in www.webdeleuze.com , trad. it. di S. Palazzo, Fuori dai cardini del tempo, Mimesis, Milano 2005, p. 76.

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sì come alla relazione scientifica di causa ed effetto, Nietzsche sostituisce la correlazione tra fenomeno e senso14.

L’immagine dogmatica vieta al pensiero di pensare la ripetizione della differenza, preferendole la ripetizione dell’identico, creando un dispositivo di ricognizioni che vieta di pensare adeguatamente ciò che è insieme fortuito e inevitabile, e che si ripete, differenziandosi. Ciò che è primo per il pensiero, secondo Deleuze, è l’incontro, che non è mai il medesimo, quanto piuttosto ciò che ripete la sua differenza. Attraverso la lettura di Proust, ma a partire soprattutto dalle tesi di Nietzsche, Deleuze propone, allora, un rovesciamento del platonismo: la sua critica si concentra sulla strategia complessiva di Platone. Come magistralmente sottolinea Foucault: Rovesciare, con Deleuze, il platonismo significa spostarsi insidiosamente in esso, scendere di un gradino, giungere fino a quel piccolo gesto – discreto, ma morale – che esclude il simulacro; significa anche abbassarsi leggermente rispetto ad esso, aprire la porta, spalancandola, alla chiacchiera di lato; significa instaurare una serie staccata e divergente; costituire, con questo piccolo salto laterale, un para-platonismo scoronato.15

La teoria delle idee platonica viene analizzata da Deleuze a partire da una strategia profondamente selettiva, e cioè a partire dal metodo della divisione, dalla diairesis 16. 14

G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 6. M. FOUCAULT, Theatrum philosophicum, «Critique», 282, novembre 1970, ora in M. FOUCAULT, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, tr. it. di F. Polidori, Theatrum philosophicum, «aut aut», 277-278, 1997, p. 56. 16 G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., pp. 83-84: «[…] la divisione platonica non si propone affatto di determinare le specie di un genere, o piuttosto se lo propone, ma in modo superficiale e persino ironico, per meglio nascondere sotto codesta maschera il vero segreto. La divisione non è il contrario di una “generalizzazione” né è una specificazione. Non si tratta affatto di un metodo di specificazione, ma di selezione. Non si tratta di dividere un genere determinato in specie definite, ma di dividere una specie confusa in discendenze pure, o di selezionare una discendenza pura a partire da un materiale che non lo è. […] Anche se indivisibile e infima, la specie di Aristotele resta pur sempre una grossa specie. La divisione platonica opera in tutt’altro campo, in quello delle piccole specie o delle discendenze. […] Il senso e lo scopo del metodo di divisione è la selezione dei rivali, la prova dei pretendenti […] (come chiaramente appare nei due esempi principali di Platone: nel Politico, ove il politico è definito come colui che sa “pascere gli uomini”, ma sopravvengono in molti, commercianti, contadini, formai, ginnasti, medici, a dire: il vero pastore degli uomini sono io! E nel Fedro, ove si tratta 15

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L’idea in Platone, dunque, non è ancora, come lo sarà per Aristotele, una nozione generale, un’astrazione: è un potente criterio selettivo, un vero e proprio “modello”. Separare l’immagine dalla cosa stessa, l’originale dalla copia, l’icona dal simulacro, non è che una ripartizione della ripetizione. Nella divisione platonica che assegna posizioni, priorità, egemonie, Deleuze ritrova il più importante e fondamentale dei procedimenti dialettici. Distinguere il buon delirio, il vero amore, escludere chi pretende di essere il vero amante, rientra ancora in una disciplina del segno, ossia dell’incontro, per la costituzione di un modello, di un essere autentico, che possa mettere a riparo da incontri successivi. La scena platonica è un dispositivo di immunizzazione che trae la propria forza, oltre che dal gesto selettivo, dall’uso del mito come ciò che permette di erigere il modello, di creare un’immagine che giustifichi la selezione verso l’egemonia dell’identico e del già noto. Una vera e propria morale come favola agisce nel mito, come l’istituzione stessa dell’immagine dogmatica del pensiero, la fondazione suggestiva e seducente dei suoi presupposti17. Così Platone integra il mito nella dialettica: la divisione lo esige in quanto fondamento capace di fare la differenza, come criterio di selezione dei pretendenti, e a sua volta il mito esige la divisione come operazione che pone lo stato delle differenze, il piano su cui il mito deve agire. Dialettica e mitologia sono inseparabili. La teoria della partecipazione, infine, di stabilire il buon delirio e il vero amante, e ove molti pretendenti affermano di essere gli amanti, l’amore!». 17 Cfr. ivi, p. 86: « Se è vero infatti che il mito e la dialettica sono due forze distinte nel platonismo in generale, questa distinzione cessa di avere valore nel momento in cui la dialettica scopre nella divisione il suo vero metodo. È la divisione che supera la dualità e integra il mito nella dialettica. La struttura del mito che appare chiaramente in Platone, è il circolo, con le sue due funzioni dinamiche, del girare e del tornare, del distribuire o ripartire – la ripartizione delle parti spetta alla ruota che gira come la metempsicosi spetta all’eterno ritorno. Qui non ci interessano le ragioni per cui Platone non è davvero un protagonista dell’eterno ritorno. Nondimeno resta il fatto che il mito, nel Fedro come nel Politico o altrove, costituisce il modello di una circolazione parziale, in cui appare un fondamento atto a fare la differenza, vale a dire a misurare ruoli e pretese. Tale fondamento si trova determinato nel Fedro sotto la forma delle Idee, così come sono contemplate dalle anime che circolano al di sopra della volta celeste; nel Politico, sotto la forma del Dio-pastore che presiede di persona al movimento circolare dell’universo. Centro o motore del circolo, il fondamento è istituito nel mito come principio di una prova o di una selezione, che conferisce tutto il suo senso al metodo della divisione fissando i gradi di una partecipazione elettiva».

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svolge anch’essa un ruolo fondamentale, come ciò secondo cui il mito ripartisce. Essa serve a scovare il simulacro18. Il dispositivo del mito non si disgiunge dal primato di un apprendimento originario, di un primo apprendimento, già sempre al di fuori di ogni nostra esperienza. Perché il mito evoca un’esperienza prima, l’esperienza dei primi. Con un esplicito riferimento alla tradizione orale, il mito della scrittura nel Fedro si apre con l’espressione akoé, “ho sentito dire”19. In quanto momento sorgivo, primo, il mito si identifica con la sua stessa verità: è autofondante. La verità dei primi è fuori discussione: essa sfugge in modo dogmatico alla verifica della sua verità. Il suo dogmatismo si esplica soprattutto nel fatto che esso funziona come un cliché: nel Timeo (26c) si parla di una marchiatura indelebile, quasi una coniazione, a proposito di una storia ascoltata molto tempo prima. Tutti i dialoghi di Platone, secondo Deleuze, fanno ricorso al mito per valutare i pretendenti e scovare il simulacro, tranne uno: il Sofista, in quanto è in questo dialogo che Platone tenta di individuare, senza valutare pretese e conformità ideali, il cattivo pretendente per eccellenza, il sofista, il simulacro che non è solo una falsa copia, ma ciò che mette in discussione le nozioni di copia e di modello, il meccanismo stesso della dialettica. Il simulacro è ciò che non somiglia all’idea, è ciò che s’insinua con violenza prima della copia, costringendo il dialettico a far ricorso al mito, ad un’istituzione morale che predilige il già noto e l’innocuo, al sopravvenuto e al traumatico. 18 Cfr. ivi, pp. 87-88: «Partecipare vuol dire avere parte, avere dopo, avere in secondo grado. Chi possiede in primo grado è il fondamento. Solo la Giustizia è giusta, dice Platone; quanto ai cosiddetti giusti, essi possiedono in secondo, in terzo o in quarto grado.. o in simulacro, la qualità di essere giusti. Che solo la giustizia sia giusta non è una semplice proposizione analitica. È la designazione dell’Idea come fondamento che possiede in primo grado. E il proprio del fondamento è dare in partecipazione, dare in secondo grado. Così ciò che partecipa, e che partecipa più o meno secondo gradi diversi, è necessariamente un pretendente. […] Se il giusto pretendente (il primo fondato, il ben fondato, l’autentico) ha dei rivali che sono come suoi parenti, suoi aiutanti, suoi servitori, che partecipano a diverso titolo alla sua pretesa, egli ha anche i suoi simulacri, le sue contraffazioni rivelati dalla prova: questi è secondo Platone il “sofista”, buffone centauro o satiro, che tutto pretende e, pretendendo tutto, non è mai fondato, ma contraddice tutto e contraddice anche se stesso…» (Il corsivo è nostro). 19 Su questo punto si veda E. LLEDÒ, El surco del tiempo. Meditaciones sobre el mito platonico de la escritura y la memoria. Editorial Critica, Barcelona 1992, trad. it. di M. Carmignani, Il solco del tempo. Il mito platonico della scrittura e della memoria, Laterza, RomaBari 1994, p. 19.

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Ciò che Deleuze evidenzia nel testo platonico è il brulichio dei simulacri, delle copie delle copie, ossia delle ripetizioni differenti, in cui la loro differenza non si oppone ad un modello, né alla sua perfetta imitazione, ma manifesta la loro inadeguatezza. “Far risalire i simulacri” è il motto di un rovesciamento del platonismo altro da quello che Heidegger attribuiva a Nietzsche, consistente non solo nel sovvertimento gerarchico fra “soprasensibile” e “sensibile”, ma in un’assolutizzazione del sensibile20. Il phantasma, il simulacro, invece è la nozione chiave per il rovesciamento deleuziano, che ha certo alla base un’altra lettura di Nietzsche. Simulacro è tutto ciò che intacca il rapporto modello-copia: l’arte, la poesia, la scrittura, il sofista vengono visti come perversioni, lontani talmente dal modello, dall’invocare altri modelli, magari alternativi21. La poesia è lontana dalla verità perché dice spesso cose che non esistono. Un poeta può dire “Teeteto vola” quando Teeteto sta seduto. Ma è qui che si nasconde l’abisso: la poesia avanzerebbe un altro senso della parola, un altro impiego del discorso, diverso da quello della constatazione. Farebbe divenire la parola espressiva o emozionale, mostrando così tutta l’inadeguatezza del modello del discorso platonico fondato sulla referenzialità, sulla rappresentazione, non sull’incontro con l’insolito.

L’ empirismo trascendentale L’apprendimento trascendentale, contrapposto al platonico apprendimento mitico, implica una trasformazione concettuale della nozione classica di trascendentale. L’apprendimento trascendentale implica una differenza costitutiva, svincolata da un Io sintetico che unifica le rappresentazioni dell’esperienza, come pure da ogni differenza analitica propria dell’individuo in generale. Questi ultimi, infatti, presuppongono una differenza impersonale e preindividuale come 20 Cfr. M. HEIDEGGER, Nietzsche, Neske, Pfullingen, 1961, 2 voll., trad. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 205-215. 21 La questione è così posta da Platone nei luoghi che Deleuze non manca di registrare (Teeteto, 176 e; Timeo 28 b).

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l’impercettibile necessario a ogni percezione, e di cui però ogni percettologia non riesce a rendere ragione. Una sfumatura, dunque, o l’essere stesso della sfumatura, che supera ogni dualismo e ogni opposizione. Pertanto, per Deleuze, la differenza, e dunque la singolarità, è sia trascendentale che empirica ed “empirismo trascendentale” è l’espressione paradossale, chiaroscurale e sfumata, che usa per definire la propria filosofia. A partire da Empirisme et subjectivité. Essai sur la nature humaine selon Hume, Deleuze si propone di mettere a fuoco il principio fondamentale dell’empirismo, ossia la ripetizione della differenza come costituente dell’esperienza in generale, al di là della centralità dell’identità come pure della soggettività psicologica. Tuttavia solo con l’avvento del criticismo kantiano, che apre l’orizzonte del trascendentale, l’eredità metafisica che pure gravava su Hume può essere superata. Può essere superato il suo fisicalismo, l’empirismo puro. Così il principio fondamentale dell’empirismo diventa la differenza empirico-trascendentale: fondendo empirismo e criticismo, quest’ultimo perde la centralità a priori della soggettività dominante in Kant. Si tratta di pensare, per Deleuze, l’empirismo trascendentale come un motivo che fonde insieme le intuizioni di Hume e Kant, in una sintesi originale. “Empirismo trascendentale” è l’esplicita formula del superamento di un dualismo e di una gerarchia, quella trascendentale/empirico, dove le condizioni dell’esperienza sono, per Deleuze, troppo larghe per il reale22, ovvero troppo generiche e soprattutto riferite ad un soggettivi-

22 Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p.93. Sul trascendentale in Deleuze si veda l’interessante saggio G. LEBRUN, Le trascendental et son image, in E. ALLIEZ (a cura di), Gilles Deleuze. Une vie philosophique, Insitut Synthélabo pour le progrés de la connaissance, Le Plessis-Robinson 1998, pp. 265-275. Sull’empirismo trascendentale si veda in particolare B. BAUGH, Trascendental empiricism, «Man and the world», 25, 1992; J. -C. MARTIN, Variations. La philosophie de Gilles Deleuze, Payot, Paris 1993, pp. 29-49 ; C. DI MARCO, Deleuze e il pensiero nomade, FrancoAngeli, Milano 1995, pp. 102-112; U. FADINI, Deleuze plurale, Pendragon, Bologna 1998, pp. 47-58; C. IMBERT, Empirisme, ligne de fuite, «Magazine Littéraire», 406, 2002.

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tà trascendentale, come accade sia in Kant che in Husserl23, che àncora tali condizioni a una identità vuota e trascendente, pura. La filosofia finisce così per presupporre, in maniera astratta e disincarnata, ciò che dovrebbe ogni volta spiegare. Secondo Deleuze: Il torto di tutte le determinazioni del trascendentale come coscienza è di concepire il trascendentale a immagine e somiglianza di ciò che si presume fondi. Allora, o ci si dà bell’e fatto ciò che si pretendeva generare con un metodo trascendentale; ce lo si dà bell’e fatto nel senso cosiddetto “originario” che si suppone appartenga alla coscienza costituente. Oppure, in conformità allo stesso Kant, si rinuncia alla genesi o alla costituzione per attenersi a un semplice condizionamento trascendentale; ma non si sfugge nondimeno al circolo vizioso, in base al quale la condizione rinvia al condizionato di cui essa ricalca l’immagine24.

Al di là di ogni soggettività trascendentale, bisogna, per Deleuze, praticare un empirismo superiore, un empirismo, appunto, trascendentale. Come spiega Deleuze: «l’empirismo diviene trascendentale […] quando afferriamo direttamente nel sensibile […] l’essere stesso del sensibile»25 . Fondamentale, affinchè vi sia un empirismo trascendentale, è per Deleuze non ricalcare il trascendentale sulle figure dell’empirico, per non ripetere la strategia platonica, che, nella teoria della reminiscenza, confondeva l’essere del passato con un essere passato, invocando l’antico presente mitico. Il segno, al di là di ogni semiologia tradizionale, diviene l’istanza fondamentale dell’empirismo trascendentale, perché esso esprime la doppia faccia della differenza, a un tempo differimento a priori e cosa differente, principio e dato, che non si esaurisce nella presenza. Il segno esprime, in modo chiaroscurale, empirico-trascendentale, il differente. Il segno racchiude dunque il differimento spazio-temporale e un qualcosa di irriducibile. 23 Cfr. su questo punto le critiche a Husserl e a Sartre in Logica del senso, cit., serie XIV e XV. Per un’analisi dettagliata del confronto tra Deleuze e la Fenomenologia si veda K. ROSSI, L’estetica di Gilles Deleuze. Bergsonismo e fenomenologia a confronto, Pendragon, Bologna 2005, in particolare il capitolo 1. 24 Ivi, p. 98. 25 Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 79.

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Il segno viene sottratto, nel pensiero di Deleuze, ad ogni riduzione alla sfera del mero significante, ad ogni vincolo soggettivo o linguistico che crede di padroneggiare il suo potenziale. Esso non è semplicemente qualcosa che sta per qualcos’altro, non è il mero supporto per la rappresentazione, ma, eminentemente, l’irruzione stessa del fuori, come differenza sensibile che implica un senso. Il segno apre il pensiero, lo espone al suo potenziale, cioè al suo senso, alla sua apertura, implicata in ogni segno. Proprio per questa implicazione, il segno è una differenza in sé che richiede ogni volta una decifrazione del suo senso, come la sua ultima essenza: ogni segno ci costringe ad esplicarla. Tale essenza non è intesa, come abbiamo già avanzato parlando di Proust, in senso platonico, ma come qualità ultima e differenziante, come la sua stessa problematicità e il suo avvenire. Il riferimento, poi, che spesso Deleuze fa ad una geroglificità del segno, come pure al ruolo di egittologo dell’interprete26, possiede un importante rinvio implicito ad un costitutivo carattere scrittorio del segno. In questo senso implicito si rivela tutto l’antiplatonismo di Deleuze, essendo Platone colui che condanna la scrittura (come vedremo in particolare nel capitolo su Derrida) e insegna a disciplinare i segni. Ancora una volta è Proust l’ispiratore dell’attenzione verso l’iscrizione del singolare 27. Significativa è l’affermazione di Deleuze, che, nell’opera dedicata a Proust, chiude il capitolo dedicato all’immagine di pensiero istituita da Platone: «Non c’è Logos, ci sono soltanto geroglifici. […] Dovunque il geroglifico, il cui duplice senso è il caso dell’incontro e la necessità del pensiero: “fortuito e inevitabile”»28. 26

Per un riferimento esemplare cfr. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., p. 6. Leggiamo ne Le Temps retrouvé: «Ricordai con piacere, perché mi provava che a quel tempo ero già lo stesso e che si trattava d’un tratto fondamentale della mia natura, ma anche con tristezza, pensando che da allora non avevo fatto alcun progresso, come già a Combray io fermassi con attenzione davanti alla mente qualche immagine che aveva attratto con forza il mio sguardo, una nube, un triangolo, un campanile, un fiore, un sasso, sentendo che sotto quei segni c’era qualcosa d’affatto diverso che dovevo sforzarmi di scoprire, un pensiero di cui essi erano la traduzione, al modo di quei caratteri geroglifici che sembrano rappresentare soltanto oggetti materiali. Questa decifrazione era difficile, certo; ma era la sola che desse qualche verità da leggere». (M. Proust, Le Temps retrouvé, trad. it. a cura di G. Raboni, Il tempo ritrovato, Mondadori, Milano 1993, p. 229). 28 Ivi, p. 94. 27

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Esprimendo per certi versi un problema che sarà esplicitato e portato avanti da Derrida, come mostreremo nel capitolo successivo, ovvero quello dell’iscrizione, Deleuze aggiunge, sempre a proposto dello scrittore: Proust oppone ovunque il mondo dei segni e dei sintomi al mondo degli attributi, il mondo del pathos a quello del logos, il mondo dei geroglifici e degli ideogrammi al mondo dell’espressione analitica, della scrittura fonetica e del pensiero razionale. Egli rifiuta costantemente i grandi temi ereditati dai Greci: il philos, la sophia, il dialogo, il logos, la phoné29.

L’immagine di pensiero che viene inaugurata da Platone pone il problema dell’incontro, del segno, e nello stesso tempo mira a depotenziarlo, a prevenirlo30. Il pensiero è, come abbiamo già detto, costantemente sollecitato dai segni. Così accade per la madeleine di Proust che sollecita a pensare Combray. E la decifrazione si pone sempre come una ricerca, come uno scoprire, poiché il segno, la sua singolarità, è inanticipabile, il suo ritorno è sempre differente 30. 29

Ivi, p. 100. Così scrive Deleuze a proposito della disciplina platonica: «Platone ci offre un’immagine del pensiero sotto il segno degli incontri e delle violenze. In un testo della Repubblica, Platone distingue nel mondo due specie di cose: quelle che lasciano inattivo il pensiero, o gli danno solo il pretesto di una parvenza di attività; e quelle che fanno pensare, che costringono a pensare. Le prime sono gli oggetti della ricognizione; su questi oggetti, si esercitano tutte le facoltà, ma in esercizio contingente, che ci fa dire «è un dito», è una mela, è una casa…, ecc. Altre cose, invece, ci costringono a pensare: non più oggetti riconoscibili, ma cose che fanno violenza, segni incontrati. […] Il segno sensibile ci fa violenza: mobilita la memoria, mette l’anima in moto; ma, a sua volta, l’anima smuove il pensiero, gli trasmette la costrizione della sensibilità, lo costringe a pensare l’essenza come la sola cosa che deve essere pensata. Ed ecco le facoltà entrare in un esercizio trascendente, dove ognuna affronta e raggiunge il proprio limite: la sensibilità che afferra il segno; l’anima, la memoria che lo interpreta; il pensiero, costretto a pensare l’essenza. […] Ma il demone socratico, l’ironia, sta nel prevedere gli incontri. In Socrate, l’intelligenza ancora li precede; provocandoli, suscitandoli, organizzandoli». (G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, cit., p. 93. Su questo punto si veda anche Differenza e ripetizione, cit., pp. 182-183). 30 Cfr. ivi, pp. 6-7; 23; 17: «Qualcuno invocherà il platonismo di Proust: apprendere è ancora ricordare. Ma per quanto importante sia la sua funzione, la memoria interviene solo come mezzo di un apprendistato che la sorpassa sia negli scopi che nei principi. La Ricerca è rivolta verso il futuro, e non verso il passato. Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettes30

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L’eterno ritorno del differente e il platonismo riaccentuato L’empirismo trascendentale articola lo spessore concettuale di un pensiero della ripetizione della differenza. Tale pensiero è il contrario di un pensiero dell’Uno, in un modo tuttavia singolare. Rovesciando il platonismo, Deleuze oppone all’immagine dogmatica del pensiero la ripetizione affermativa della differenza, a partire dal concetto di eterno ritorno di Nietzsche, che non afferma nessun ritorno dell’identità o dell’uguaglianza: […] nell’eterno ritorno l’identità non indica la natura di ciò che ritorna, ma, al contrario, il ritornare del differente; […] Possiamo perciò comprendere l’eterno ritorno solo in quanto espressione di un principio che sta alla base del riprodursi del differenza, del ripetersi della differenza. Nietzsche presenta tale principio come una delle scoperte più importanti della sua filosofia 31.

Secondo Deleuze, Nietzsche avanza un nuovo pensiero della ripetizione che sfugge alla generalità e al primato dello Stesso. La ripetizione è l’eterno ritorno del differente, è la differenza stessa e Deleuze non esita a chiarire le possibili critiche che possono essere mosse a questa nuova immagine di pensiero: […] l’eterno ritorno è sì il Simile, la ripetizione nell’eterno ritorno è sì l’Identico, ma appunto la somiglianza e l’identità non preesistono al ritorno di ciò che torna, non qualificano innanzitutto ciò che torna, ma si confondono assolutamente con il suo ritorno. Né lo stesso né il simile tornano, ma lo Stesso è il tornare di ciò che torna, vale a dire del Differente: il simile è il tornare di ciò che torna, vale a dire del Dissimile. La ripetizione nell’eterno ritorno è lo stesso, ma in quanto si dice unicamente della differenza e del differente.32

sero segni da decifrare, da interpretare […] nessuna verità si scopre, nulla si apprende se non decifrando e interpretando […] Bisogna provare dapprima l’effetto violento di un segno, in modo che il pensiero sia quasi costretto a cercarne il senso. […] I significati espliciti e convenzionali non sono mai profondi; solo il senso è profondo, così come si trova ravvolto, implicato in un segno esteriore». 31 G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 73-74. 32 G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., pp. 383-384.

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L’eterno ritorno del differente diventa la potenza stessa della differenziazione, in cui l’Uno, lo Stesso, il Simile non possono essere che prodotti momentanei e inadeguati o dirsi propriamente, per Deleuze, solo del processo di differenziazione. Secondo Deleuze, Platone, che incarna il momento aurorale dell’immagine dogmatica, pone invece la differenza al terzo posto, dopo l’identità e la somiglianza, e viene pensata solo attraverso di esse: «Per questo ci sembra che con Platone si sia presa una decisione filosofica della massima importanza: quella di subordinare la differenza al potere dello Stesso e del Simile supposte iniziali, quella di dichiarare la differenza impensabile in sé e di rinviarla con i suoi simulacri all’oceano senza fondo»33. Con Platone comincia l’istituzione morale dell’immagine del pensiero. Ma proprio perché comincia, Platone è nello stesso tempo molto ambiguo: la differenza, costretta per la prima volta, si agita, fa rumore: Ciò che appare allora, allo stato più puro, è una visione morale del mondo, prima che possa dispiegarsi la logica della rappresentazione. Primariamente per ragioni morali il simulacro va esorcizzato, e quindi anche la differenza va subordinata allo stesso e al simile. Ma per tale ragione, poiché Platone prende la decisione, poiché la vittoria non è conquistata come lo sarà nel mondo acquisito della rappresentazione, il nemico si agita, insinuato ovunque nel cosmo platonico, la differenza resiste al suo giogo, Eraclito e i sofisti fanno un chiasso infernale: strano doppio che segue passo passo Socrate, s’insinua persino nello stile di Platone inserendosi nelle ripetizioni e variazioni del suo stile.34

Ci sarebbero allora delle pagine insolite in Platone, un antiplatonismo nel suo stesso seno. Il testo di Platone rivelerebbe una ricchezza difficilmente rintracciabile nei suoi successori. Come non manca di sottolineare Deleuze: La fine del Sofista è la possibilità del trionfo dei simulacri, poiché Socrate si distingue dal sofista, ma il sofista non si distingue da Socrate e mette in dubbio la legittimità di una tale distinzione, segnando così il crepuscolo delle icone. Non è questo il punto in cui l’identità del modello e la somiglianza

33 34

Ivi, p. 165. Ibidem.

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della copia si rivelano come errori, lo stesso e il simile, come illusioni sorte dal funzionamento del simulacro?35.

Deleuze concentra, dunque, la sua attenzione verso ciò che eccede il potere disciplinare platonico 36. Con(tro) Platone Deleuze afferma il clamore dell’essere come differenza. Risulta alquanto strano leggere, pertanto, in un testo di un importante pensatore francese vicino a Deleuze, e cioè Alain Badiou, che in fondo “il deleuzismo non è che un platonismo ri-accentuato”37. Questa affermazione, per quanto possa apparire una forzatura interpretativa alla luce di quanto scritto, è giusta. Ma non per i motivi che crede Badiou. Dopo aver individuato il cuore del pensiero di Deleuze nell’univocità dell’Essere, secondo il quale «Non c’è mai stata che una sola proposizione ontologica: l’Essere è univoco», Badiou crede di vedere in Deleuze un nuovo Heidegger: le differenze di cui parla Deleuze non sarebbero che i meri casi da cui parte il pensiero per giungere all’Uno-Essere che li dissolve. Pertanto il movimento di pensiero di Deleuze sarebbe quello di andare dal più differenziato al meno differenziato. Niente di più lontano dall’immagine di pensiero che effettivamente il filosofo cerca di so35

Ivi, p. 166. Cfr. ivi, p. 93: «Il sofista non è l’essere (o il non-essere) della contraddizione, ma colui che porta le cose tutte allo stato di simulacro, e le porta tutte in questo stato. Non era necessario per Platone spingere l’ironia così avanti, sino a questa parodia? E non era inevitabile che Platone fosse il primo a rovesciare il platonismo, o per lo meno a indicare la direzione di un siffatto rovesciamento? Ricorre alla mente il grandioso finale del Sofista: la differenza è spostata, la divisione si rivolge contro se stessa, funziona alla rovescia e, a forza di approfondire il simulacro (il sogno, l’ombra, il riflesso, la pittura), dimostra l’impossibilità di distinguerlo dall’originale o dal modello. Lo Straniero dà una definizione del sofista che non può più distinguersi dallo stesso Socrate: l’ironico imitatore, che procede per argomenti brevi (domande e problemi)». 37 A. BADIOU, Deleuze, Hachette, Paris 1997, trad. it. di D. Tarizzo, Deleuze, Einaudi, Torino 2004, p. 31. Per una critica alla posizione di Badiou in merito alla questione si vedano in particolare A. VILLANI, Le guêpe et l’orchidée. Essai sur Gilles Deleuze, Belin, Paris 1999, pp. 39-40; V. BERGER, A propos de la formule de Badiou, “Deleuze un platonicien involontarie”, in AA. VV., Gilles Deleuze, Vrin, Paris 1998, pp. 19-30. Una posizione molto simile a quella di Badiou, che vede la filosofia della differenza di Deleuze contraddittoria, proprio in quanto lascia intravedere una sorta di unità, è quella espressa da T. MAY, Reconsidering Difference. Nancy, Derrida, Levinas, and Deleuze, The Pennsylvania State University Press, Pennsylvania 1997, in particolare p. 166. 36

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stenere. E non è un caso che Nietzsche e il problema della ripetizione siano quasi del tutto assenti dall’ambiziosa esegesi di Badiou. Soprattutto, nella sua considerazione dell’univocità deleuziana, Badiou manca di rilevare criticamente il percorso che Deleuze fa attraverso ScotoSpinoza-Nietzsche38, facendovi solo dei rapidi accenni. Il Differire – (dell’)Essere è la condizione in Deleuze della medesima dignità ontologica di tutti gli essenti, in quanto differenze. Questo non accade né in Platone, per il quale c’è un essere autentico (l’idea, il modello), né in Heidegger, secondo il quale tra il pensiero e l’essere vi è una philia, che altro non sarebbe che una nuova versione del pensiero che assegna alla differenza – anche nel caso del pensatore tedesco dove ha un rilievo maggiore rispetto a quello platonico – un ruolo secondario. Come acutamente sottolinea Deleuze a proposito di Heidegger: «[…] la filosofia della Differenza ci pare mal fondata, fintantoché ci si limita a contrapporre, terminologicamente, alla piattezza dell’Identico come uguale a sé, la profondità dello Stesso che si presuma raccolga il differente»39. Se, per Badiou, Deleuze è un filosofo dell’Uno, ciò che abbiamo finora argomentato mostra invece che non c’è Uno in Deleuze se non come effetto, prodotto, illusione momentanea, o al limite, come ciò che si dice della differenza, ma da un punto di vista empirico38

Cfr. ivi, pp. 57-59: «La storia della filosofia distingue tre momenti principali nell’elaborazione dell’univocità dell’essere, il primo dei quali è rappresentato da Duns Scoto. Nell’Opus Oxoniense, il libro più straordinario dell’ontologia pura, l’essere è pensato come univoco. Ma l’essere univoco è pensato come neutro, neuter, indifferente all’infinito e al finito, al singolare e all’universale, al creato e all’increato. […] Nel secondo momento Spinoza compie un notevole passo in avanti: anziché pensare l’essere unico come neutro e indifferente, egli ne fa un oggetto di affermazione pura, e l’essere univoco di confonde con la sostanza unica, universale e infinita, ponendosi come Deus sive Natura. […] Con Spinoza l’essere univoco cessa di essere neutralizzato e diviene espressivo, vera e propria proposizione espressiva affermativa. Ciononostante permane ancora una differenza tra la sostanza e i modi: la sostanza spinoziana appare indipendente dai modi e i modi dipendono dalla sostanza, ma come da altro, mentre occorrerebbe che la sostanza si dicesse dei modi e soltanto dei modi. Una tale condizione non può essere soddisfatta se non con un rovesciamento categorico più generale, secondo cui l’essere si dice del divenire, e l’identità del differente, e l’uno del multiplo, e così via. Il fatto che l’identità non sia prima ed esista come principio, ma come principio secondo, principio divenuto, che essa giri attorno al Differente, indica una rivoluzione copernicana che apre alla differenza la possibilità del suo concetto proprio, invece di mantenerla sotto, invece di mantenerla sotto il dominio di un concetto in generale posto già come identico. Nietzsche non voleva dire altro con l’eterno ritorno.». 39 Ivi, p. 384.

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trascendentale. Quest’ultimo cedimento di Deleuze a proposito dell’Uno può essere inteso come ironico e provocatorio. Spesso Deleuze, nei suoi scritti, invita a considerare le due formule: “soltanto ciò che somiglia differisce” e “soltanto le differenze si somigliano”, spiegando che esse appartengono a due differenti letture del mondo, nella misura in cui la prima ci invita a pensare la differenza a partire da una similitudine o identità preliminari, mentre l’altra ci invita a pensare la similitudine e l’identità come prodotti di una disparità originaria. A questo punto le parole migliori sul senso dell’univocità deleuziana crediamo le abbia scritte solo Foucault: […] l’affermazione che l’essere si dice nello stesso modo di tutte le cose non aveva altro scopo, indubbiamente, se non di mantenere, in ogni istanza, l’unità dell’essere. Immaginiamo invece un’ontologia in cui l’essere si dica, nello stesso modo, di tutte le differenze, e solo delle differenze; allora le cose non sarebbero ricoperte, come in Duns Scoto, dalla grande astrazione monocolore dell’essere, e i modi spinoziani non girerebbero intorno ad un’unità sostanziale; le differenze girerebbero a loro volta, l’essere dicendosi, nello stesso modo, di tutte, in quanto l’essere non è affatto l’unità che le guida e le distribuisce, ma la loro ripetizione come differenze. In Deleuze, l’univocità non categoriale dell’essere non collega direttamente il molteplice all’unità stessa (neutralità universale dell’essere o forza espressiva della sostanza); essa fa giocare l’essere come ciò che si dice ripetitivamente della differenza; l’essere è il rivenire della differenza, senza che ci sia differenza nel modo di dire l’essere40.

Tuttavia l’affermazione dell’essere come differenza si definisce proprio attraverso una ri-accentuazione del platonismo. Non è un caso che Deleuze parli di simulacri e di idea. Ma in un altro senso, con un altro accento che Platone non avrebbe mai dato loro: Il compito della filosofia moderna è stato definito come rovesciamento del platonismo. Ma che tale rovesciamento conservi parecchi caratteri platonici non soltanto è inevitabile, ma auspicabile. È vero che il platonismo rappresenta già la subordinazione della differenza alle potenze dell’Uno, dell’Analogo, del Simile e anche del Negativo. È come l’animale sul punto di essere domato, quando i suoi movimenti, in un ultimo scatto di ribellione, ri-

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M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., p. 68.

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Capitolo I flettono assai più di quanto era libero una natura presto perduta: il mondo eracliteo si agita ancora nel platonismo41.

Deleuze opera una vera e propria guerriglia all’interno dell’opera di Platone, scagliando contro i suoi modelli ciò che egli stesso aveva posto e vietato al pensiero. Alla immunologia platonica che mira a prevenire l’incontro con la singolarità e con il suo infinito ripetersi, Deleuze contrappone, oltre ad un modo differente di pensare il segno e la ripetizione, con Proust e con Nietzsche, un primato dell’affettività, ossia della capacità di un ente di essere affetto, attraverso l’originale lettura di Spinoza e coerentemente con l’apprendimento trascendentale di cui Deleuze intende farsi portavoce. L’affettività è la forza di agire e di patire, di operare o subire variazioni: […] la potenza di patire e la potenza di agire sono due potenze che, mentre la capacità di essere affetti rimane costante, variano in maniera correlativa; la potenza di agire è viva o morta (Spinoza dice: ostacolata o favorita) a seconda degli impedimenti o delle occasioni che incontra dal lato delle affezioni passive. […] Non sappiamo ancora come si possano produrre affezioni attive, e non sappiamo quindi quale sia la nostra potenza di agire. Possiamo però dire che la potenza di agire è l’unica forma reale, positiva e affermativa, della capacità di essere affetti42.

Nella questione dell’affettività si inserisce un motivo etico: se l’affettività non è in grado di produrre espressioni, affermazioni, ossia di superare le affezioni passive, è imperfetta. Ma, al di là del motivo etico, ciò che è da sottolineare è la costante dell’affettività e che questa concorra non solo alla costituzione della variazione, ma alla formazione dell’ente stesso che agisce o patisce: «Un cavallo, un pesce, un uomo, o anche due uomini diversi, paragonati fra di loro, non posseggono la medesima capacità di essere affetti: non sono affetti dalle stesse cose oppure non sono affetti dalle stesse cose allo stesso modo»43.

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G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., pp. 82-83. G. DELEUZE, Spinoza et le problème de l’expression, Minuti, Paris 1968, trad. it di S. Ansaldi, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata 1999, pp. 174-175. 43 Ivi, p. 168 42

Deleuze: l’eterno ritorno del differente

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L’affettività è anche, e soprattutto, la capacità di un soggetto di trovarsi in un punto di vista, in una prospettiva locale, che non è indice di un “relativismo”, ma della verità del relativo, della variazione a partire dall’affettività. Segno e affettività dicono, dunque, rispettivamente, l’implicazione della singolarità di un espresso e la sua esplicazione, essendo la capacità di essere affetti finalizzata, in primis, ad esprimere. Ciò che incontriamo implica la nostra espressione da un certo punto di vista. L’affettività esprime ciò che è implicito nel segno. Segno e affettività vanno pensati indiscernibili: «Un segno, secondo Spinoza, può avere più sensi. Ma è sempre un effetto. Un effetto è prima di tutto la traccia di un corpo in quanto subisce l’azione di un altro corpo: è un’affectio, per esempio l’effetto del sole sul nostro corpo, che “indica” la natura del corpo investito e “implica” solo la natura del corpo che ha prodotto l’affezione»44. Il segno è una contrazione, a sua volta contratto da sintesi passive che agiscono non solo nel pensiero e che rappresentano la dinamica fondamentale di ogni costituzione, organica e non. Ogni cosa contrae45. Il che vuol dire, necessariamente, che ogni cosa, nello stesso tempo, emette ed è costituita da singolarità, poiché per contrarre qualcosa, qualcos’altro deve rilasciarla, emetterla; in quanto emesso da altro, ciò che si contrae è sempre eterogeneo. Se ogni cosa contrae significa che tanto emette quanto assume differenze, che sono sempre segni, a loro volta contrazioni, perché implicano sempre qualcosa. In virtù della contrazione che costituisce il segno, il suo essere differenza in sé, la singolarità assume una natura puntiforme e non personale, individuante e non individuata. Deleuze lo ripete spesso, si danno punti di singolarità, cioè estremità: «Sono punti di ritorno, di inflessione, ecc.; colli, nodi, focolai, centri; punti di fusione, di condensazione, di ebollizione, ecc.; punti di pianto e di gioia, di malattie e di salute, punti detti sensibili. […] la

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G. DELEUZE, Critique et clinique, Minuit, Paris 1993, trad. it. di A. Panaro, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, pp. 179-180. 45 Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit. , p. 99.

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singolarità è essenzialmente preindividuale, non personale, aconcettuale […] il punto singolare si oppone all’ordinario»46. Come non manca di aggiungere in questo contesto, la singolarità, svincolandosi dall’individuale e dal personale, assume per Deleuze, come abbiamo già sottolineato, una radicale valenza trascendentale: Lungi dall’essere individuali o personali, le singolarità presiedono alle genesi degli individui e delle persone; si ripartiscono in un “potenziale” che in sé non comporta né io [moi] né Io [Je] , ma che li produce attualizzandosi, effettuandosi, e le figure di tale attualizzazione non somigliano affatto al potenziale effettuato. Soltanto una teoria di punti singolari è in grado di superare la sintesi della persona e l’analisi dell’individuo, quali essi sono (o si fanno) nella coscienza. Non possiamo accettare l’alternativa che compromette a un tempo la psicologia, la cosmologia e la teologia intere: o singolarità già prese in individui e in persone, o l’abisso indifferenziato. Quando si apre il mondo brulicante delle singolarità anonime e nomadi, impersonali, preindividuali, sfioriamo il campo del trascendentale47.

Tutto ciò che è implicato nella citazione appena riportata è di un’importanza enorme per la riflessione di Deleuze sulla singolarità, innanzitutto sulla sua natura non individuale né indifferenziata, che Deleuze chiama informale48, e in secondo luogo perché fa riferimento a un processo di attualizzazione e alla realtà di un potenziale, indissociabile da un pensiero della singolarità, e, per ciò che fino ad ora abbiamo argomentato, del segno.

Il segno, l’attuale, il virtuale Non sarebbe errato definire il concetto di segno di Deleuze come sinolo di un’immagine di pensiero estranea sia al dualismo ilomorfico di matrice aristotelica sia al dualismo significante/significato dello strutturalismo linguistico.

46 G. DELEUZE, Logique du sens, Minuit, Paris 1969, trad. it. di M. De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 53. 47 Ivi, p. 96. 48 Cfr. ivi, p. 100.

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Il segno, infatti, esprimerebbe l’indiscernibilità e il continuo scambio tra due dimensioni fondamentali del pensiero deleuziano: l’attuale e il virtuale49. L’attuale esprime una realtà individuale, il virtuale una realtà strettamente potenziale. Il virtuale non si confonde in alcun modo con il “possibile”, essendo non una quasi-realtà che attende solo la sua realizzazione, ma un reale complesso problematico, un nodo di tensioni di cui l’attuale sarebbe una soluzione, il prodotto di un’attualizzazione del virtuale. Tra i due, come Deleuze tiene a precisare, non si dà alcuna somiglianza 50. Tra l’attuale e il virtuale vi è una differenza di potenziale ed è questa differenza di potenziale che produce la ripetizione del segno. Differenza che opera, ci pare, come una scrittura: il virtuale si attualizza, l’attuale si virtualizza mediante un processo di scambio esplicitabile, come sarà chiarito più avanti, in termini di iscrizione. È da sottolineare che attuale e virtuale non valgono in sé come autonomi modi d’essere, ma solo nella loro dinamica, una dinamica scrittoria. Il pensiero è chiamato ad esplicare l’attualizzazione attraverso una virtualizzazione, ma è sempre a partire da un sussulto del virtuale che il pensiero opera, ossia da problemi, da nebulose spettrali che inquietano la presenza. L’esplicazione ripone l’attuale nel virtuale e tutto si gioca entro un ambito di individuazione, in cui l’individualità determinata rappresenta un momento critico che deve rimesso ogni volta entro una realtà potenziale. Riprendendo il motivo nietzschiano del 49

Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., pp. 269-274. Sulla nozione di virtuale nel senso indicato da Deleuze si vedano anche M. SERRES, Atlas, Julliard, Paris 1994; P. LÉVY, Qu’est-ce que le virtuel?, La Découverte, Paris 1995, trad. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Il virtuale, Cortina, Milano 1999. 50 Cfr. ivi, pp. 273-274: «[…] il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che il possibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una “realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, possiede di per sé una realtà piena, e il suo processo è l’attualizzazione. […] L’attualizzazione rompe con la somiglianza come processo non meno che con l’identità come principio. I termini attuali non somigliano mai alla virtualità che attualizzano: le qualità e le specie non somigliano ai rapporti differenziali che incarnano, né le parti alle singolarità che incarnano. […] Attualizzarsi, per un potenziale o un virtuale, è sempre creare linee divergenti che corrispondono, senza somiglianza, alla molteplicità virtuale. Il virtuale ha la realtà di un compito da adempiere, come di un problema da risolvere, ed è il problema che orienta, condiziona e genera le soluzioni, ma queste non somigliano alle condizioni del problema».

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gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale e fortemente influenzato dalle teorie di Gilbert Simondon, Deleuze concettualizza un piano di molteplicità, al di là dell’identità e dell’unità. Alla priorità di quest’ultime oppone la priorità della loro genesi all’interno di un processo di individuazione, che è essenzialmente un processo di differenziazione: L’individuante non è il semplice individuale. Occorre mostrare […] come l’individuazione preceda di diritto la forma e la materia, la specie e le parti, e ogni altro elemento dell’individuo costituito. […] Or non è molto, Gilbert Simondon dimostrava che l’individuazione presuppone innanzitutto uno stato metastabile, cioè l’esistenza di una “disparità” […] L’individuazione non presuppone alcuna differenziazione ma la provoca […] L’individuazione come differenza individuante è un ante-Io, un ante-me, non meno di quanto la singolarità come determinazione differenziale non sia preindividuale. Il mondo del SI, o dell’“essi”, è un mondo di individuazioni impersonali e di singolarità preindividuali […]51.

L’individuazione di cui parla Deleuze, seguendo Simondon, è precisamente ciò che il classico “principio di individuazione” ha sempre occultato: essa non può avere alcun principio, né può essere considerata a partire dall’individuo come specie infima. L’individuale non è per Simondon un termine dato, quanto piuttosto un momento critico di un processo di individuazione che non presuppone nessuna realtà individuata. L’individuazione fa tutt’uno con una metastabilità originaria, che l’individuo già fatto non può né rappresentare né esaurire. Si tratta di cogliere ciò che accade tra le individualità, sui loro bordi, e di individuare così nell’individuo una relazione con il pre-individuale che lo costituisce. Come abbiamo già avanzato, il preindividuale non è nulla di indifferenziato o di indistinto, ma una realtà problematica alla quale l’individuo è sempre, inevitabilmente esposto. Deleuze assegna, dunque, all’individuazione come processo, un ruolo centrale per pervenire all’argomento delle singolarità preindividuali e trascendentali, e per questo motivo dedica a Simondon una re-

51

G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit. , pp. 56; 317; 319; 355.

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censione della sua opera più importante L’individu et sa genèse physico-biologique52, sottolineandone l’originale portata filosofica 53. Individuo e individuazione stanno nel pensiero di Deleuze nello stesso rapporto di attuale e virtuale: dicono in modi diversi la stessa cosa. Esprimendo il processo di individuazione una costante problematicità, diviene fondamentale, a questo punto, chiarire il concetto deleuziano di “problematico”. Nella (non)dialettica di Deleuze esso prende il posto del negativo, che invece rientra nel regime dell’identità istituito dalla metafisica classica. Innanzitutto, l’ambito del problematico, per Deleuze, va pensato in modo differente da ciò a cui siamo abituati a pensare: Un problema è determinato […] dai punti singolari che ne esprimono le condizioni […] dobbiamo rompere con una lunga abitudine di pensiero che ci fa considerare il problematico come una categoria soggettiva della nostra conoscenza, un momento empirico che sottolineerebbe soltanto l’imperfezione del nostro procedimento, la triste necessità in cui ci troviamo di non poter sapere in anticipo, e che scomparirebbe nel sapere acquisito.54

Il problematico non è separabile dal senso. Si dà pensiero quando si libera del virtuale, ovvero quando si fa esperienza del senso, e soprattutto quando da una tale esperienza si ricavano dei segni come ulteriori produzioni di senso. Così il filosofo trae dei concetti, l’artista delle 52 Pubblicata in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», CLVI(1966), pp. 115-118, trad. it. di A. Toscano, Più di uno: l’ontologia preindividuale di Gilbert Simondon, «DeriveApprodi», 21, pp. 86-87. 53 Cfr. ibidem: « Il principio di individuazione è rispettato, giudicato venerabile, ma pare che fino a ora la filosofia moderna si sia astenuta dal riproporsi il problema per conto proprio. Le conquiste della fisica, della biologia e della psicologia ci hanno portato a relativizzare o attenuare il principio, ma non a reinterpretarlo. La forza di Gilbert Simondon sta già nel presentare una teoria originale dell’individuazione, una teoria che implica un’intera filosofia. […] L’importanza della tesi di Simondon è manifesta. Scoprendo la condizione preliminare dell’individuazione egli distingue rigorosamente tra singolarità e individualità. Il metastabile, infatti, definito come essere preindividuale è perfettamente provvisto di singolarità, le quali corrispondono all’esistenza e alla distribuzione di potenziali […] Singolare senza essere individuale, tale è lo stato dell’essere preindividuale. Nel pensiero di Simondon la categoria di «problematico» acquista una grande importanza, nel grado in cui è provvista di un significato oggettivo: in effetti essa non indica più un stato provvisorio del nostro pensiero, ma piuttosto un momento dell’essere, il primo momento preindividuale. È così che nella dialettica simondoniana il problematico prende il posto del negativo». 54 G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 54-55.

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opere, lo scienziato delle funzioni. L’esercizio del pensiero non produce certezze, ma segni, soluzioni relative di problemi. Relative non in senso negativo, ma nel senso del mantenimento di una relazione. Ogni segno resta relativo al suo problema, esprime sempre una tensione virtuale. Il pensiero passa continuamente il segno senza mai tuttavia oltrepassarlo. Continuamente nel chiuso, il pensiero dischiude l’aperto, con un’unica intenzione fondamentale: nuocere alla stupidità. Sulla struttura essenzialmente scrittoria dell’ambiguità attuale/virtuale insita nel segno è decisivo il commento di Badiou: […] Deleuze, come Nietzsche, deve simultaneamente segnare negli enti attuali, chiusi e disgiunti, la loro coappartenenza alla grande totalità virtuale; e annullare anche questa marcatura in modo tale che la neutralità dell’essere non si trovi distribuita in categorie. […] Per quanto disgiunti e chiusi possano essere gli enti attuali un sottile stigma, in essi, guida il pensiero verso la via totale che li dispone55.

Non è un caso che Badiou usi il termine stigma per spiegare il rapporto tra attuale e virtuale. Solo se l’attuale e il virtuale sono in un rapporto di reciproca intrusione e contaminazione ha senso parlare, come fa Deleuze, d’indiscernibilità, come pure di attualizzazione del virtuale e di virtualizzazione dell’attuale. Così quando Deleuze afferma che «l’attualizzazione del virtuale è la singolarità»56 si sta riferendo ad un processo di iscrizione nell’attuale. Del resto una singolarità è colta come scarto attuale rispetto ad una molteplicità non attuale, e che non è sfondo inerte: la singolarità non si darebbe secondo una relazione figura/sfondo, ma come scrittura, come aver luogo a partire da un nodo di problemi, da una tensione virtuale, da una differenza di potenziale. 55 A. BADIOU, L’ontologie vitaliste de Deleuze in Court traité d’ontologie transitoire, Seuil, Paris 1998, pp. 61-72 ; trad. it. di M. Bruzzese, L’ontologia vitalista di Deleuze, «L’espressione», 1, 2004, Cronopio, Napoli 2004, pp.138-139. Ora in A. BADIOU, Ontologia Transitoria, Mimesis, Milano 2008. Il corsivo è nostro. Sul rapporto Badiou/Deleuze rimandiamo al dossier che viene dedicato nel numero 43 di «Futur Antérieur» e a E. FORNARI, Multiplo e molteplicità. Immanenza e differenza ontologica in Alain Badiou e Gilles Deleuze, «aut aut», 331, 2006, pp. 161-174. 56 G. DELEUZE, L’attuale e il virtuale, trad, it. di R. Kirchmayr, «aut aut», 276, 1996, p. 27.

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L’iscrizione della singolarità nell’attuale innesca il suo segno entro uno spazio ordinario, costituito essenzialmente da abitudini, che afferma deciso: “è tutto qui”. Implicando un senso, il segno è, a tutti gli effetti, “sensibile”, così come il pensiero che contrae la sua irruzione. Deleuze si muove ancora su binari platonici: il mondo sensibile è infatti per Platone il regno della motilità, del trasporto, proprio nel senso dell’eccitazione erotica (Cfr. Fedro 248 b). Solo che questo trasporto ha in Platone un telos preciso: gli Aspetti-Idee come invarianti nella variazione. Deleuze porta, invece, fino in fondo l’erotica platonica, l’esserefuori-di-sè: non vi è identità alla fine di questa rottura, ma una virtualità che lacera, complica ogni unità fissa. In relazione alla problematica del tempo, la successione degli attuali non rende conto di un’istanza genetica più profonda: la differenza di potenziale, descritta sopra, tra l’attuale e il virtuale, che rende il tempo essenzialmente costituito da differenze. La presenza da sola non spiega il suo passaggio e il passato non è mai solamente “passato”: esso coesiste con il presente come in una scrittura, sempre insieme al futuro57 per cui, di ogni passaggio del tempo cui rivolge lo sguardo, il pensiero non può che porre le domande: che cosa è accaduto, che cosa accadrà? Pensate come un’unica domanda queste interrogazioni ci offrono ancora un’immagine di pensiero totalmente differente da quella avanzata da Platone: al “che cos’è questo?” l’interrogazione deleuziana aggiunge la dimensione dell’evento, conferendo al virtuale realtà, piena dignità ontologica, dove la singolarità è l’ignoto e l’impensato, non l’individuale della percezione. Nell’affermazione del virtuale Deleuze mostra tutta la sua eredità bergsoniana fatta giocare soprattutto in senso antiplatonico: Platone, e sulla sua scia Hegel, non riescono a pensare la differenza poiché ignorano la dimensione del virtuale. Scrive Deleuze «In Bergson, e grazie alla nozione di virtuale, la cosa si differenzia in sé sin da subito, im-

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G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p. 136.

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mediatamente. […] Ciò che si differenzia è innanzitutto ciò che si differenzia in sé, e cioè il virtuale»58. Il pensiero, liberato dalla sua immagine dogmatica, si scopre situato in modo attivo nei processi di virtualizzazione e di attualizzazione: esso scopre così la problematica a cui l’attuale si rapporta, per trarre nuove soluzioni, o per spiegare quelle che lo sono diventate come risposta a un problema preciso. Tutto parte da un’indigenza dell’individualità e dell’identità dell’attuale, indigenza che il pensiero avverte perché patisce una virtualità, avendo accesso ad una realtà che è più che identità, e più che unità, e che rimanda soprattutto a problematiche, a tensioni. Il pensiero non si risolve nella determinazione dell’individuale, ma nel cogliere proprio il presunto individuale, “sul punto di…” all’interno di un orizzonte metastabile, che non arriva mai a saturazione. Per questo, riprendendo Bergson59, Deleuze pensa la differenza come coesistenza del particolare che è e del nuovo che si compie. Dunque, la struttura iterativa della singolarità è la stessa iscrizione del virtuale nell’attuale, che il pensiero restituisce attraverso una virtualizzazione dell’attuale. Solo così è possibile comprendere la singolarità come un pre-individuale, che può essere pensato nella direzione del senso e dell’evento, non intesi come istanze sovrasingolari, ma come l’esplicazione stessa delle singolarità: il loro comunicare, il loro differenziarsi, all’interno di una tensione problematica, con altre singolarità. Questa singolarità di rapporti virtuali costituisce ciò che Deleuze chiama propriamente evento, e che per lui definisce la sola e vera idealità. L’idea è rapporto di differenze, complessità di indefiniti, il problematico stesso, poiché getta la singolarità, solo apparentemente disgiunta da altro, nell’elemento della molteplicità. Così ribadisce: Gli eventi sono le sole idealità; e rovesciare il platonismo implica innanzitutto destituire le essenze per sostituirvi gli eventi come getti di singolarità. […] “Problematico” qualifica precisamente le oggettività ideali. Kant fu senza dubbio il primo a fare del problematico non un’incertezza passeggera, 58 G. DELEUZE, La conception de la differénce chez Bergson, «Les études bergsoniennes», vol. IV, Paris 1956, trad. it. a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, in Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 143;145. 59 Cfr. G. DELEUZE, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. 149.

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bensì l’oggetto proprio dell’Idea, e proprio per questo un orizzonte indispensabile a tutto ciò che accade o appare60.

Idea dice lo stesso della struttura, dell’evento e del senso61: esprime un rapporto teso tra differenze in cerca di una soluzione attuale, di una concrezione, di un’effettuazione. La passione fondamentale del pensiero sta nell’avere idee, nel partecipare a problemi che sono eventi e nel tracciare delle soluzioni. Una logica della singolarità non può fare a meno di una tale riabilitazione dell’idea 62. Una tale concezione dell’idea rientra, pertanto, sempre in un rovesciamento del platonismo, ed è, in Deleuze, anche e soprattutto, il risultato di un’originale interpretazione del pensiero stoico63. Gli stoici, secondo Deleuze, sarebbero i promotori di una diversa immagine di pensiero e della filosofia, contro l’immagine del platonismo, proprio per la loro paradossale teoria del senso-evento-idea. Risale con gli stoici tutta l’idealità possibile, nascosta dalla separazione platonica tra Idea e simulacro. Gli stoici permettono a Deleuze di pensare un empirismo degli eventi, ovvero dei problemi, cui si ispira la sua logica del senso. Il problema dei problemi, o l’Evento in cui tutti gli eventi co60

G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 54-55. Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 240. 62 Cfr. ivi, pp. 229; 236-237: «L’Idea è un universale concreto, in cui l’estensione e la comprensione vanno di pari passo, non soltanto perché l’Idea comprende in sé la varietà o la molteplicità, ma perché comprende la singolarità in ciascuna delle sue varietà. Essa sussume la distribuzione dei punti rilevanti o singolari, e ogni sua distinzione, cioè il distinto come carattere dell’idea, consiste appunto nel ripartire l’ordinario e lo straordinario, il singolare e il regolare, e nel prolungare il singolare su punti regolari portandolo fino in prossimità di un’altra singolarità. […] Le Idee sono molteplicità e ogni Idea è una molteplicità, una varietà. Nell’uso riemanniano del termine “molteplicità” (ripreso da Husserl e anche da Bergson), va attribuita la massima importanza alla forma sostantiva: la molteplicità non deve designare una combinazione di multiplo e di uno, ma viceversa un’organizzazione propria del multiplo in quanto tale, che non ha affatto bisogno dell’unità per formare un sistema». 63 Cfr. G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 14-15. Deleuze rilegge in modo originale il pensiero stoico all’interno di una precisa strategia di recupero di un pensiero minoritario. Attraverso la lettura degli Stoici, di Lucrezio, Spinoza, Hume, Nietzsche, Bergson, Deleuze traccia una vera e propria controstoria della filosofia verso l’elaborazione di un’ontologia positiva in netta opposizione alla dialettica hegeliana e alla filosofia di Heidegger, dove la differenza non è un negativo, funzionale, e gerarchicamente sottomesso, all’egemonia dell’identico, ma pura affermazione non contraddittoria. Su questo punto Cfr. M. HARDT, Deleuze: an apprenticeship in philosophy, University of Minnesota Press, London and Minneapolis 1993. 61

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municano è ciò che Deleuze chiama piano d’immanenza64, pura molteplicità virtuale. Pensare una singolarità, attraverso la disarticolazione dell’identità, posizionandosi dunque sul bordo dell’individualità, significa elevare a potenza, significa costituire il senso su un piano d’immanenza. Un tale piano viene spesso definito campo trascendentale, che possiede una regola fondamentale: non rinviare ad alcun oggetto, non appartenere ad alcun soggetto. Pensare è come entrare in uno stato di trance in cui le identità, i soggetti, sono le soluzioni relative di un divenire-altro, caratteristico del piano d’immanenza. Tutto ciò pone un concetto di trascendentale come esperienza senza soggetto personale, senza coscienza, senza l’anima di matrice platonica come istanze a priori alle quali il piano sarebbe immanente. Per Deleuze l’immanenza è assoluta, non vi è nessuna immanenza a…, riferita ad un’identità trascendente65. Deleuze, insieme a Guattari, fornisce una “breve storia” di tale radicale concetto di immanenza, i cui inizi infelici prendono avvio con Platone, attraversando tre fasi in cui questo concetto rimane impensato: l’Eidetica, la Critica, la Fenomenologia66. 64

Sui concetti di evento e immanenza si veda, in particolare, F. AGOSTINI, Deleuze: evento e immanenza, Mimesis, Milano 2003. 65 Cfr. G. DELEUZE e F. GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991, trad. it. di A. De Lorenzis, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp.48-49. Su questo punto Cfr. G. AGAMBEN, L’immanenza assoluta, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp.377-404; F. LESCE, Un’ontologia materialista. Deleuze e il XXI secolo, Mimesis, 2004, p.28. 66 Cfr. ivi, pp. 35-37: «Si può presentare tutta la storia della filosofia dal punto di vista dell’instaurazione di un piano d’immanenza? Si distinguerebbero allora i fisicalisti che insistono sulla materia dell’Essere e i noologisti, che insistono sull’immagine del pensiero. Ma si rischia immediatamente di far confusione, di derivare cioè l’immanenza da qualcosa come un “dativo”, Materia o Spirito, anziché porre il piano stesso di immanenza come costitutivo della tale materia dell’Essere o della tale immagine di pensiero. Ed è quanto diviene evidente con Platone e i suoi successori […] Ogni volta che si interpreta l’immanenza come immanenza «a» qualcosa […] il piano di immanenza rilascia il trascendente e resta un semplice campo di fenomeni che possiede solo in seconda istanza ciò che viene attribuito anzitutto all’unità trascendente. Con la filosofia cristiana la situazione peggiora. […] A partire da Descartes, e con Kant e Husserl, il cogito permette di trattare il piano di immanenza come un campo di coscienza. Ciò perché si presume che l’immanenza debba essere immanente a una coscienza pura, a un soggetto pensante. Kant chiamerà trascendentale questo soggetto, e non trascendente, proprio perché è il soggetto del campo di immanenza di ogni esperienza possibile al quale non sfugge niente, né l’esterno né l’interno. […] Kant trova una via moderna per salvare la trascendenza: non più la trascendenza di un Qualcosa o di un Uno superiore a ogni cosa (contemplazione), ma quella di un Soggetto al quale viene attribuito un campo di immanenza che

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Il piano d’immanenza è interamente percorso da tratti, da tracciati. Esso è pura superficie in cui tracciati di vita, per silenziosi che siano, si approfondiscono sempre nello spessore di un corpo rumoroso. Gli eventi che percorrono il piano d’immanenza e che ne determinano ogni volta l’incrinatura non sarebbero nulla «fino a quando il corpo non vi è compromesso»67: «la verità eterna dell’evento si coglie soltanto se l’evento s’inscrive anche nella carne»68. Una procedura d’iscrizione diventa decisiva, pertanto, per pensare il rapporto dell’attualizzazione, ossia dell’effettuazione dell’evento, con un punto di vista, che è essenzialmente il luogo di un corpo.

Senso e iscrizione Il corpo è superficie che registra ed emette segni. L’evento è impensabile al di là della frontiera dei corpi, frontiera che non è costituita solo da corpi ma anche dal linguaggio: il senso-evento, infatti, non esiste al di là delle proposizioni che lo esprimono. Quest’ultima considerazione è importante, perché si anniderebbe proprio qui, la specificità umana: nel vedere la tensione virtuale (l’evento), comune ai divenire dell’organico e dell’inorganico, come senso. Per l’uomo si dà senso solo entro la frontiera dei corpi-linguaggio, si dà senso solo all’estremo. Il pensare l’evento-senso esprime nondimeno anche una tensione etica, come l’essere degni di ciò che accade, per trarre dall’eventosenso un segno, capace di oltrepassare l’individuo e la persona e libe-

è quello di un io che si rappresenta necessariamente questo soggetto (riflessione) […] Facciamo ancora un passo in avanti: quando l’immanenza diventa immanente “a” una soggettività trascendentale, in senso al suo proprio campo deve apparire il marchio o la cifra di una trascendenza come atto che rinvia adesso a un altro io, a un’altra coscienza (comunicazione). È ciò che avviene in Husserl e in molti suoi successori che scoprono nell’altro o nella Carne il lavoro da talpa del trascendente nell’immanenza stessa. […] I tre tipi di Universali: contemplazione, riflessione, comunicazione, sono come tre età della filosofia, l’Eidetica, la Critica e la Fenomenologia, che vanno di pari passo con la storia di una lunga illusione». 67 Cfr. Logica del senso, cit., p. 144. 68 Ibidem.

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rare singolarità per altri sensi, altri eventi. Così il pensiero opera quella che Deleuze chiama una contro-effettuazione dell’evento69. L’evento-senso è dunque ideale, incorporeo e illocutivo per il fatto che esso insiste sulla frontiera dei corpi-linguaggio, ma non è posseduto né dai corpi né dalle parole. È immanente proprio perché non è né dentro i corpi o le parole, quasi fosse una loro proprietà, né fuori, in una trascendenza di tipo platonico. Non è negativo, perché il senso non rimuove la frontiera su cui insiste attraverso una procedura come l’Aufhebung hegeliana, dato che esso non esiste che nella relazione con i corpi-linguaggio. Prima di diventare un tema centrale della Logica del senso, la frontiera dei corpi-linguaggio era stata efficacemente posta già nel testo dedicato a Proust: Non esistono né cose né spiriti, ci sono solo dei corpi: corpi astrali, corpi vegetali… La biologia avrebbe ragione se sapesse che i corpi in sé sono già linguaggio, i linguisti avrebbero ragione, se sapessero che il linguaggio è sempre quello dei corpi. Ogni sintomo è parola, ma, prima ancora, tutte le parole sono sintomi70.

Il corpo-linguaggio non si riferisce ad una dualità o a una soluzione di una dualità, ma indica qualcosa di più del corpo, qualcosa di più del linguaggio, un senza nome che indica uno stato di sovrasaturazione, di reciproca esposizione. L’unico nome che Deleuze riesce a dare a questa frontiera è superficie. Il senso è un effetto di superficie. È ciò che affetta un corpo, come pure l’espresso di una proposizione. Quest’ultima viene definita dalle teorie linguistiche secondo tre dimensioni: la designazione, la manifestazione, la significazione 71. 69

Cfr. Logica del senso, cit., p. 136. G. DELEUZE, Marcel Proust e i segni, cit., p. 86. 71 Cfr. G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 19-25: «Molti autori concordano nel riconoscere tre distinti rapporti nella proposizione. Il primo è chiamato designazione o indicazione: è il rapporto tra la proposizione e uno stato di cose esterno (datum). Lo stato di cose è individuato, comporta questo o quel corpo, mescolanze di corpi, qualità e quantità, relazioni. La designazione opera mediante l’associazione delle parole stesse con immagini particolari che devono “rappresentare” lo stato di cose: tra tutte quelle che sono associate alla parola, a questa o a quella parola nella proposizione, bisogna scegliere, selezionare che quelle corrispondono al complesso dato. L’intuizione designatrice si esprime quindi sotto la forma: “è questo”, “non è quello.” […] Un secondo rapporto della proposizione è spesso chiamato manifestazione. Si 70

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Il rapporto che la proposizione ha con il senso, per Deleuze, eccede le dimensioni della designazione, della manifestazione e della significazione relative a individui, soggetti identitari, significati. Il senso viene inferito indirettamente nella proposizione, rinviandoci di nuovo all’originarietà del segno. La logica del senso è la sua paradossale eccedenza da ogni logica, il suo permanere nella radura dell’extra-essere, del non-essere. Ma tale non-essere, precisa Deleuze, non deve essere inteso come negativo, bensì come il problematico dell’essere. Deleuze scrive: ?-essere72. Egli si mostra così ancora (anti)platonico, in quanto il rifiuto del negativo per porvi il problematico nasce esplicitamente da una meditazione radicale sulla dialettica platonica e sulle conclusioni del Sofista: Si ricordi che Platone definisce la dialettica come procedente per “problemi”, attraverso i quali ci si innalza fino al puro principio che fonda, vale a dire che li misura in quanto tali e distribuisce le soluzioni corrispondenti; e il Menone non espone la reminiscenza se non in rapporto con un problema geometrico, che va compreso prima di essere risolto e che deve avere la soluzione che merita secondo il modo in cui il reminiscente lo ha compreso. Ora noi abbiamo ragione di preoccuparci della distinzione che conviene stabilire tra le due istanze del problema e della domanda, ma dobbiamo considerare piuttosto come il loro complesso occupi nella dialettica platonica un ruolo essenziale, pari per importanza a quello che il negativo avrà più tardi, per esempio nella dialettica hegeliana. Ma, per essere precisi, non è il negativo a svolgere questo ruolo in Platone, al punto che bisogna domandarsi se la cele-

tratta del rapporto tra la proposizione e il soggetto che parla e che si esprime. […] Ci sono infatti nella proposizione dei “manifestanti” come particelle speciali: io, tu; domani, sempre; altrove, ovunque, ecc. E come il nome proprio è un indicatore privilegiato, così l’Io è un manifestante di base. […] Dobbiamo riservare il nome di significazione a una terza dimensione della proposizione: si tratta questa volta del rapporto fra la parola e concetti universali e generali e fra i legami sintattici e implicazioni di concetto […] I significanti linguistici sono allora essenzialmente: “implica” e “dunque”. […] Dalla designazione alla manifestazione, poi alla significazione, ma anche dalla significazione alla manifestazione e alla designazione, siamo trascinati in un cerchio che è quello della proposizione. La questione è di sapere se dobbiamo accontentarci di queste tre dimensioni oppure se occorra aggiungerne una quarta che sarebbe il senso, è una questione economica e strategica. […] Il senso è la quarta dimensione della proposizione. Gli stoici l’hanno scoperta con l’evento: il senso è ciò che è espresso della proposizione, quest’incorporeo alla superficie delle cose, entità complessa e irriducibile, evento puro insiste o sussiste nella proposizione». 72 Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p.89

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Capitolo I bre tesi del Sofista, nonostante certi equivoci, non debba essere intesa così: il “non”, nell’espressione “non-essere”, esprime qualcosa d’altro dal negativo73.

Accedere al senso, alla sua problematicità, non è un esercizio che può andare sempre a buon fine, né implica necessariamente la nostra volontà. Il senso (il problematico, l’evento), secondo Deleuze, non può ridursi né al buon senso, come senso unico, né al senso comune, che assegna fisse identità74. Il senso fa parte di un’esperienza limite, perché esperienza dell’incorporeo, del fuori, ed è un’esperienza primaria: Come dice Bergson, non si va dai suoni alle immagini, e dalle immagini al senso: ci si insedia “di colpo” nel senso. Il senso è come la sfera in cui sono già insediato per operare le designazioni possibili, perfino pensarne le condizioni. Il senso è sempre presupposto non appena io comincio a parlare; non potrei cominciare senza tale presupposizione. In altri termini, non dico mai il senso di ciò che dico.75

Accedere al senso significa essere nel senso, nello stesso modo in cui c’è del senso in noi. Esperire il senso significa essere entro una scrittura. Agire, parlare, non sono manifestazioni di cui la causa efficiente sarebbe esclusivamente la nostra volontà, così come il pittore non si trova mai davanti agli occhi realmente, prima di cominciare a dipingere, una tela bianca. Deleuze, nel suo lavoro su Bacon, parlando di una pittura prima della pittura, fornisce, a nostro parere, una straordinaria procedura, analoga a tutti i processi di senso: 73

Ivi, p. 88. Cfr. ivi, pp. 290; 292; 294: «Il buon senso è per natura escatologico, profetizza una compensazione e una uniformazione finali, e giunge per secondo solo perché presuppone la folle distribuzione: la distribuzione nomade, istantanea, l’anarchia incoronata, la differenza. Ma il buon senso, in quanto sedentario e paziente, in quanto dispone del tempo, corregge la differenza, l’introduce in un ambito che porta inevitabilmente all’annullamento delle differenze o alla compensazione delle parti, essendone esso stesso “il centro”. […] Il senso comune è definito soggettivamente mediante l’identità presunta di un Io come unità e fondamento di tutte le facoltà, e oggettivamente mediante l’identità presunta di un oggetto qualsiasi, a cui tutte le facoltà si presume debbano riferirsi. Ma questa duplice identità resta statica. […] Il modo di manifestarsi della filosofia non è il buon senso, ma il paradosso. Il paradosso è il pathos o la passione della filosofia. Per giunta, si danno varie specie di paradossi, che si oppongono alle forma complementari dell’ortodossia, al buon senso e al senso comune». 75 G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p.33 74

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Se infatti il pittore fosse dinanzi a una superficie bianca, potrebbe riprodurvi un oggetto esterno, che quindi fingerebbe da modello. Ma non è così. Il pittore ha molte cose nella testa, attorno a sé o nell’atelier. E tutto ciò che egli ha nella testa, o attorno a sé, è già nella tela, più o meno virtualmente, più o meno attualmente, prima che il pittore cominci il suo lavoro. Tutto questo è presente sulla tela sotto forma di immagini, attuali o virtuali. Sicché il pittore non deve riempire una superficie bianca, semmai dovrebbe svuotare, sgomberare, ripulire. 76

Si dirà, allora, che chi pensa è sempre pre-occupato, come lo è il pittore: è, in primo luogo, egli stesso tela. L’empirismo trascendentale implica qualcosa di continuamente impressionabile a priori, una sorta di tabula, per nulla rasa, una superficie su cui le singolarità si iscrivono, e all’interno della quale vengono ritenute in un certo modo, diventandone i segni. Un volto, una postura, difficilmente indicano se stessi, senza nello stesso tempo rinviare ad altro. È il caso dell’uomo che urla, il cui spavento ci lancia verso le singolarità che ne costituiscono il senso. Il suo volto è una singolarità che fa esplodere un senso, ovvero una com-posizione di singolarità non date nel volto, ma virtuali. La metafora della tela, che esemplifica l’empirismo trascendentale, ci conduce nel cuore di una differente concezione del soggettività. Non si dà soggetto, per Deleuze, se non nella forma dell’inclusione e dell’inflessione. È un soggetto completamente diverso dalla soggettività trascendentale avanzata da Kant o da Husserl. È quello che Badiou chiama un soggetto senza oggetto77. Un soggetto multiplo, una serie, dove si manifestano verità, a seconda del punto di vista che occupa, essendoci per Deleuze identità tra verità e variazione. È sempre nel luogo di un punto di vista che si trova un soggetto, che non presenta mai, nel testo deleuziano, caratteri esclusivamente umani. Piuttosto esso è un’anima 76

G. DELEUZE, Francis Bacon. Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981, trad. it. di S. Verdicchio, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, p. 157. 77 Cfr. A. BADIOU, Gilles Deleuze, Le Pli: Leibniz et le baroque, « Annuaire philosophique 1988-1989 », Seuil, Paris 1990, trad. it. di T. Ariemma, Gilles Deleuze: La Piega, in A. BADIOU, Oltre l’uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze, a cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, ombre corte, Verona 2007, p. 42.

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comune, un fatto comune, nella prospettiva di una rinata filosofia della natura. Con tale cambiamento di statuto del soggetto muta, non scompare come crede Badiou, quello dell’oggetto: Chiamiamo “oggettile” (objectile) questo nuovo oggetto. […] Il nuovo statuto dell’oggetto lo sottrae ad ogni calco spaziale, cioè al rapporto formamateria, per inserirlo invece in una modulazione temporale […] È un oggetto manierista, e non più essenzialista: l’oggetto diventa evento. Se l’oggetto cambia fondamentalmente di statuto, lo stesso accade anche al soggetto78.

L’oggetto diventa l’evento. C’è del soggetto solo in relazione ad un evento, nel luogo in cui si iscrive la sua variazione. Come una monade singolare, il soggetto non è una finestra sul mondo, quanto piuttosto: «una tavola opaca d’informazione sulla quale si inscrive una linea cifrata»79 . Sul soggetto si iscrive l’evento che esso include. Il soggetto è una superficie, non presenta altro che superfici, ma l’evento, e con esso il senso, non presenta che linee virtuali (tendenze, tracciati, percorsi, diramazioni, grovigli) di cui le singolarità sono i punti attuali/virtuali, ovvero i segni. Punti, linee, superfici: è la singolare ontografia che Deleuze mette in gioco. Tale ontografia consiste nel rendere enti geometrici come il punto, la linea, la superficie categorie individuanti della vita. Una curiosa tassonomia di linee prende vita nei testi scritti con Guattari; esse sono, precisamente, le direzioni virtuali lungo le quali un soggetto si sviluppa. Deleuze, radicalizza un motivo già bergsoniano. Bergson, infatti, in un discorso celebrativo dell’opera di Ravaisson, suo predecessore all’Académie des Sciences morales et politique, prende in esame un brano di Leonardo Da Vinci dal Trattato della pittura, che Ravaisson citava spesso: Vi è, nel Trattato della pittura di Leonardo da Vinci, una pagine che Ravaisson amava citare. È quella in cui si dice che l’essere vivente si caratterizza per una linea ondulata o a serpentina, che ogni essere ha la sua maniera propria di snodarsi, e che oggetto dell’arte è di rendere questa ondulazione 78

G. DELEUZE, Le pli, Minuit, Paris 1988, trad. it. di D. Tarizzo, La piega, Einaudi, Torino 2004, pp. 30-31. 79 Ivi, p. 45.

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individuale. “Il segreto dell’arte di disegnare è di scoprire in ogni oggetto la maniera particolare in cui si conduce attraverso tutta la sua estensione, così come un’onda centrale si separa in onde superficiali, una certa linea fluttuante che è come il suo asse generatore”. Questa linea può del resto non essere alcuna delle linee visibili della figura. Essa non è più qui che là, ma costituisce la chiave di tutto.80

In Deleuze la linea di Bergson viene moltiplicata all’infinito. Come significativamente afferma, insieme a Guattari: «siamo fatti di linee»81. Il soggetto (ri)scrive con il suo corpo queste linee, che esprimono il modo in cui gli eventi si danno: come direzioni da seguire o non seguire. Un soggetto si individua attraverso tratti che percorre o meno, che sviluppa o non sviluppa. Le linee degli eventi ci segnano, ci costituiscono. Così l’evento “crescere” si dà sempre lungo traiettorie prima virtuali e che solo successivamente sono addebitabili ad un corpo secondo dei punti singolari. Il soggetto prolunga a suo modo questi punti: è, per Deleuze, la capacità di ordinarli. Ciò che allora occupa un punto di vista è innanzitutto un potenziale d’esplicazione, oltre che d’inclusione. Un soggetto ordina le singolarità delle linee di senso, tracciando soluzioni di percorrimento, serie ordinate, linee di effettuazione. Le singolarità (quelle che assume, quelle che produce) ne definiscono le espressioni. Sono le sue sporgenze ed investono altri soggetti. Una singolarità, dunque, innesca una produzione seriale, una produzione che sottopone i casi successivi alla singolarità che apre su un problema come criterio d’ordine, che procede fino all’irruzione di altri criteri. Il regolare è piegato ogni volta dal singolare. A questo punto la vera cifra del pensiero di Deleuze, a nostro parere, è che tutto venga visto sotto un aspetto ontografico. Nei testi che maggiormente caratterizzano la sua originalità teorica, ovvero Differenza e ripetizione e Logica del senso, punto, linea, superficie sono implicitamente l’assunzione concettuale che niente si sottrae all’iscrizione. 80 H. BERGSON, La pensée et le mouvant, Puf, Paris 1938, trad. it. di F. Sforza, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano 2000, p. 220. 81 Cfr. G. DELEUZE, F. GUATTARI, Mille plateaux, Minuit, 1980, trad. it. di G. Passerone, Mille piani, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 284.

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Si noti: implicitamente, perchè nonostante il pensiero deleuziano – i suoi concetti, i suoi argomenti, l’attenzione che riceve il segno e l’iscrizione in generale («la verità eterna dell’evento si coglie soltanto se l’evento s’iscrive anche nella carne […]»82) – sia indissociabile da una considerazione di procedure di iscrizione per una logica della singolarità, l’iscrizione in quanto tale resta il non detto del suo pensiero che attende un’adeguata tematizzazione. Vale pertanto da indicazione la sua affermazione: « […] una possibilità di vita si valuta in sé, in base ai movimenti che traccia e alle intensità che crea su un piano di immanenza; è respinto ciò che non traccia e non crea83. L’attenzione che egli dedica, soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero, al tracciare, alla varietà dei tratti34, che non esplicita però la struttura della traccia in quanto tale, consegnano dunque l’iscrizione (fondamentale per pensare la singolarità) a un altro pensiero della differenza e della singolarità. Stiamo parlando ovviamente del pensiero di Jacques Derrida.

Deleuze e la logica della singolarità Prima di passare all’analisi del pensiero di Derrida, è necessario evidenziare tuttavia i limiti del pensiero deleuziano, relativi, secondo noi, al non essere stato veramente fedele alle sue premesse teoriche. Uno spettro, infatti, si aggira nell’opera deleuziana. In Differenza e ripetizione, Deleuze enuncia in poche righe tutto il suo programma di pensiero: «Noi vogliamo pensare la differenza in sé e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione, che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo»85. Nella citazione abbiamo marcato l’in e il con: essi sarebbero, infatti, indici di ciò che vincola Deleuze a un’ontologia troppo classica, a quella ontologia cui Deleuze è parso scagliarsi contro. 82

Cfr. G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p. 144. G. DELEUZE, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 64-65. 34 Cfr. Ivi, pp. 43-49; 60-75. 85 G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 2. (corsivo nostro) 83

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A nostro parere il vizio di fondo dell’opera deleuziana è quello di essere dichiaratamente una teoria dell’intensità86. Aderendo a una concezione antiestensionale della differenza, Deleuze resterebbe vittima di una concezione metafisica (cartesiana) dell’estensione e, di conseguenza, di una concezione altrettanto metafisica (bergsoniana) dell’intensità. Deleuze separa la singolarità dall’estensione avanzando piuttosto una concezione intensiva dello spazio. Ma la singolarità è invece proprio ciò che estende e che può essere esteso. Sposando pertanto una concezione esclusiva dell’intensità, Deleuze produrrebbe più di una contraddizione all’interno del suo recupero della singolarità. Il limite di Deleuze è il suo restare dichiaratamente leibniziano87 che gli pregiudica una considerazione non metafisica dell’estensione, nel senso dello squarcio, della frattura, del più d’uno, come avremo modo di vedere nel capitolo dedicato a Jean-Luc Nancy. Privilegiare l’intensivo rispetto all’estensivo significa per Deleuze privilegiare l’implicazione rispetto all’esplicazione88, il che significa paradossalmente ricreare l’opposizione classica tra l’interiore e l’esteriore. Così il senso dell’ “in” nell’espressione “differenza in sé” deve essere inteso nel senso dell’implicazione più che dell’iscrizione che interrompe, che frattura. Privilegiando l’implicazione, inoltre, ogni con, ogni rapporto, resta implicato in un continuo, in una sorta d’Uno. Deleuze non riesce ad uscire da un’immagine continuista della singolarità pur parlando di singolarità in termini di frattura. Badiou coglie acutamente l’ambiguità di Deleuze quando afferma: L’enigma si può esprimere in modo semplice: mentre si intende spesso “evento” come la singolarità di una rottura, Leibniz-Whitehead-Deleuze l’intende come ciò che singolarizza la continuità in ciascuna delle sue pieghe locali. Ma d’altra parte., per Leibniz-Whitehead-Deleuze, “evento” designa malgrado tutto l’origine sempre singolare, o locale, di una verità (di un concetto), o ciò che Deleuze enuncia come “la subordinazione del vero al singo-

86

G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p. 194. Cfr. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 307, nota 12. 88 Cfr., ivi, p. 297. 87

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Capitolo I lare e al rimarchevole”. Così l’evento è allo stesso tempo onnipresente e creatore, strutturale e inaudito89.

Ecco perché Badiou azzarda una lettura di Deleuze come filosofo dell’Uno: perchè, nonostante il suo pensiero sia votato all’evento al molteplice, sopravvive in Deleuze un certo bergsonismo che Derrida metterà bene in luce90. Ne la Piega, vengono enunciati tre significati positivi di singolarità91. Tuttavia, quasi di sfuggita, e in un senso subordinato, Deleuze ne dà un quarto che avrebbe dovuto condurlo verso un pensiero dell’iscrizione e della con-divisione: ovvero quello della singolarità come estremo, contatto con il fuori, interruzione materiale. La singolarità è, innanzitutto, ciò che viola l’opposizione intimo/estremo. La mancata non-tematizzazione dell’iscrizione, e del rapporto di con-divisione tra le singolarità cui essa dà origine, pone dunque diversi dubbi sulla radicalità dell’indagine deleuziana intorno alla singolarità. Deleuze, dunque, risulta insufficiente per una logica non metafisica della singolarità (che cioè la pensi al di là dell’unità e dell’identità), perché solo con un pensiero dell’iscrizione, che ponga quest’ultima come istanza empirico-trascendentale, anche lo spettro continuista di Deleuze si rovescia come un guanto, lasciando pensare un’impossibile continuità dell’interruzione, una continuità superiore.

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A. BADIOU, Gilles Deleuze: La Piega, cit., p.168. J. DERRIDA, Le toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000, trad. it di A. Calzolari, Toccare, Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova 2007, pp. 161-163. 91 Cfr. G. DELEUZE, La piega, cit., p. 149. 90

Capitolo II Derrida: l’iscrizione esponente della singolarità

La scrittura e il platonismo. In una nota di Logique du sens, a proposito dell’affermazione del simulacro come rovesciamento del platonismo, c’è un importante rinvio all’opera di Jacques Derrida La pharmacie de Platon1 e alla sua teoria della scrittura. Abbiamo visto come Deleuze faccia riferimento, in modo implicito, per la sua concezione trascendentale della singolarità, per la sua struttura iterativa, a un orizzonte scrittorio. Derrida si muove in una direzione non semplicemente analoga, ma complementare alle problematiche di Deleuze, esplicitando ciò che nel testo di quest’ultimo troviamo solo accennato, o non tematizzato. Anzi, al di là di ogni analogia, le loro strategie teoriche stanno in un reciproco rapporto di implicazione/esplicazione ai fini del nostro discorso. Se medesimi possono apparire i loro problemi, i loro percorsi mantengono la propria differenza e autonomia. Tuttavia Platone è il loro comune bersaglio, e un ripensamento del segno, che lo sottragga alla piatta logica del significante, appare la loro medesima vocazione: […] è con l’aiuto del concetto di segno che si scuote la metafisica della presenza. Ma […] si dovrebbe […] rifiutare perfino il concetto e il termine di segno. Perché la significazione «segno» è sempre stata compresa e determinata, nel suo senso, come segno-di, significante che rinvia ad un significato, significante che differisce dal suo significato2. 1 G. DELEUZE, Logique du sens, Minuit, Paris 1969, trad. it. di M. De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 226. 2 J. DERRIDA, L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 362.

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Tuttavia bisogna già subito cogliere la portata di un tale pensiero del segno, affinchè non si cada in una certa semiologia o in un certo strutturalismo. Pensare lo scarto cui il segno dà luogo, significa, in generale, decostruire l’intatto. Abbiamo visto come con Deleuze, e con il suo concetto di virtuale, una certa “problematicità” venga in primo piano proprio a partire da una riflessione radicale sul segno e sull’esperienza che il pensiero ne fa. Ciò che ci fa segno è ogni volta un senso che, lungi dall’assicurarci, ci espone. Come una tempesta, molteplice ed enigmatica, che ogni segno porta con sé e che porta alla luce una fondamentale passione attiva del pensare, piuttosto che le sue grandi e progressive volontà. Ripensare il concetto di segno per Derrida significa, inserendosi in questa direzione, pensare in tutte le sue implicazioni la sua natura di traccia e il potere inquietante, differenziante e dislocativo di questa, occultato da tutta una tradizione di pensiero, da Platone fino ad Heidegger, che Derrida definisce metafisica della presenza. La riflessione di Derrida urta un certo senso comune e la quasi totalità delle ricerche di chi ha studiato antropologicamente e linguisticamente il fenomeno della scrittura. Secondo questa visione accreditata, la parola scritta permane, fissa, immobilizza: scripta manent. La parola scritta, ovvero, la parola alfabetica. Invece, nella prospettiva aperta da Derrida, la scrittura va compresa a partire dalla struttura della traccia, ovvero a partire da un resto che non ha nulla a che fare con una permanenza, quanto piuttosto con una ripetizione che espone. La traccia, l’iscrizione, è ciò che mina ogni presenza a sé, ogni sostanza, ogni interiorità. Essa disloca, rinvia nel tempo, dissemina. Attraverso l’interrogazione sulla traccia, Derrida marca la contaminazione dell’altro nel Medesimo, la sua irrimediabile contingenza. Ma ciò a cui rivolge la sua riflessione non è tanto la differenza costituita, quanto il movimento della dif-ferenza al di là di ogni pienezza e di ogni centralità della presenza: l’insaturabile rinvio. Gioco insuperabile di presenza e assenza, «la traccia è la dif-ferenza che apre l’apparire e la significazione. Articolando il vivente sul non vivente in generale, origine di ogni ripetizione, origine dell’idealità, essa non è più ideale

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che reale, più intelligibile che sensibile, più significazione trasparente che energia opaca, e nessun concetto della metafisica può descriverla»3. Come in Deleuze, la traccia fa luce su un passato assoluto, su un passato che coesiste con il presente, e che non può essere compreso nella forma di una presenza modificata; inoltre, altra analogia con Deleuze, la traccia pur rinviando ad un passato non cessa di avere un rapporto con l’avvenire: essa annuncia quanto ricorda4. La traccia indica un paradossale intreccio di eterogeneità temporali, per cui Derrida afferma: «I concetti di presente, di passato e di avvenire, tutto ciò che l’evidenza classica suppone nei concetti di tempo e storia – il concetto metafisico di tempo in generale – non può descrivere adeguatamente la struttura della traccia»5. La traccia rompe l’unità gerarchica di significante e significato e resta al di là del concetto metafisico del segno. Secondo questo concetto, il significato, ideale e puro, non ha bisogno del significante per essere ciò che è, declassando tale realtà a mera empiria. Bisogna, secondo Derrida, decostruire la svalutazione della mediazione del significante, pensando i suoi effetti fino in fondo. Le sue prime ricerche prendono avvio dal trattamento del segno e della scrittura in Husserl, dove il testo La voix et le phénomène6 rappresenta certamente uno degli esiti più maturi. In questo testo Derrida esamina la prima delle Ricerche logiche di Husserl, focalizzando la

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J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, a cura di G. Dalmasso, Della Grammatologia, Jaca Book, Milano 1998, p. 97. 4 Cfr. ivi, p. 98. 5 Ivi, p. 99. 6 J. DERRIDA, La voix et le phénomène, Puf, Paris 1967, tr. it. di V. Costa, La voce e il fenomeno, Jaka Book, Milano 1997. Derrida ha dedicato importanti studi al pensiero di Husserl a partire dall’Introduction a E. HUSSERL, L’origine de la géométrie, PUF, Paris 1962, tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, Jaca book, Milano 1987. Sulla lettura derridiana di Husserl rimandiamo a R. BERNET, La vie du Sujet. Recherches sur l’intreprétation de Husserl dans la phénomenologie, PUF, Paris 1994; V. COSTA, La generazione della forma: la fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida, Jaca Book, Milano 1996; P. MARRATI-GUENON, La genese et la trace: Derrida lecteur de Husserl et Heidegger, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht-Boston-Lancaster 1998; C. DI MARTINO, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 39-111.

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sua attenzione sulle nozioni di espressione e indicazione, come concetti chiave della teoria del segno husserliana. Rilevando all’interno del testo l’opposizione tra indicazione ed espressione, che assegna alla prima un ruolo meramente empiricomondano e alla seconda, invece, l’esplicazione del voler dire ideale, senza alcuna compromissione decisiva con l’elemento materiale, Derrida inscrive la filosofia di Husserl entro un particolare regime epistemico, che assegna al puro significato, presente a sé, senza mediazioni, un valore decisivo e primario. L’indice cade fuori dal contenuto dell’oggettività assolutamente ideale, cioè della verità. […] Che cos’è l’espressione? È un segno dotato di Bedeutung […] Le espressioni sono dei segni che «vogliono dire». [… ] L’espressione è un’esteriorizzazione volontaria, decisa, cosciente da parte a parte, intenzionale. Non v’è espressione senza l’intenzione di un soggetto animante il segno, che gli presta una Geistigkeit. Nell’indicazione, l’animazione ha due limiti: il corpo del segno, che non è un soffio, e l’indicato che è un’esistenza del mondo. Nell’espressione, l’intenzione è assolutamente espressa perché essa anima una voce che resta tutta interiore e perché l’espresso è una Bedeutung, cioè un’idealità che non «esiste» nel mondo.7

Husserl valorizza l’espressione come manifestazione di una piena intenzione significante, svalutando l’indicazione, il segno vero e proprio, il rinvio empirico, la dislocazione, il segno oltre un significato ideale. Ma la lettura di Derrida è volta a denunciare una pura estromissione dell’indicazione come impossibile. Tra l’indice e l’espressione non vi è una vera e propria opposizione, e lo stesso Husserl lo constata. L’espressione funge da indice, quando trasmette un significato. Pertanto quest’ultimo, ogni volta che viene espresso, è sempre contaminato, di fatto, dall’indicazione. Ora, tutta l’analisi di Derrida sembra rivolgersi verso una riabilitazione integrale dell’espressione (in senso antimetafisico e più precisamente antifenomenologico: un’espressione inseparabile dall’indicazione), dell’esposizione a cui essa dà luogo, contro una disarticolazione dell’orizzonte espressivo, che nell’espressione impone op-

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Ivi, pp.60; 63-65.

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posizioni gerarchiche a tutela di motivi metafisici che da sempre ingaggiano contro la contaminazione espressiva le lotte più feroci. Non è un caso, a dimostrazione di un comune intento speculativo, che anche Deleuze si soffermi su questo aspetto del pensiero di Husserl8 senza tuttavia operare la strategia micrologica di Derrida. Il significato husserliano dato all’espressione viene comunque capovolto, poiché Deleuze afferma: «l’espresso non esiste al di fuori della sua espressione»9. L’espressione, e ciò che essa implica, ovvero la contaminazione, la contingenza, l’intorbidimento, è il grande spettro che la filosofia tenta invano di scacciare nei modi più differenti e molto spesso antitetici. Husserl, ad esempio, si scaglia contro l’espressione quando questa minaccia la purezza di un’intenzionalità soggettiva, ma, al contrario, Heidegger lamenta nell’espressione il fatto che essa venga vista come estrinsecazione di un soggetto e che, di conseguenza, il pensiero autentico, non soggettivo, non possa mai adeguatamente manifestarsi nell’espressione. In diversi luoghi Heidegger porta avanti questa tesi, eppure solo in un’occasione sembra farlo con una singolare innocenza. Cita Platone, la condanna della scrittura avanzata nel Fedro, ma, contrariamente agli altri luoghi della riflessione heideggeriana, nessuna critica viene mossa al filosofo greco. Il testo viene citato integralmente e l’unico commento è il seguente: Attraverso il dialogo fra Socrate e il suo giovane amico Fedro parla Platone stesso. Egli, il maestro della parola pensante, parla qui in verità solo della scrittura, ma al tempo stesso allude a ciò che lungo tutto il suo cammino speculativo tornò sempre di nuovo a colpirlo: il fatto che ciò che è pensato nel pensiero non si lascia esprimere.. Sarebbe tuttavia avventato dedurne che il pensato sia indicibile. Piuttosto, Platone sapeva che il compito del pensiero consiste nell’avvicinare al pensiero, mediante un dire, il non detto come la cosa da pensare. Quindi, anche in ciò che Platone ha scritto non è mai direttamente leggibile quello che pensava, benché si tratti di dialoghi scritti: noi però solo di rado possiamo liberarli nel movimento puro di un pensiero raccolto, giacché troppo avidamente, e sbagliando, andiamo alla ricerca di una dottrina10. 8

Cfr. G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p.24. Ivi, p.27. 10 M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vortrge, Klosterman, Frankfurt a.M. 1994, tr. it. di G. Gurisatti, Conferenze di Brema e di Friburgo, Adelphi, Milano 2002, pp.169-170. 9

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Pur criticando aspramente Platone, come ormai è noto agli studiosi, in qualità di rappresentante dell’inizio di ciò che il filosofico tedesco ha definito “oblio dell’essere”, Heidegger è solidale con la critica platonica dell’espressione. Critica, quella avanzata da Platone, che, incisivamente, nella VII Lettera (343 c) scandiva i termini e la posta in gioco nell’espressione: ogni espressione è portatrice di singolarità (essa presenta sia on che poion ti, sia l’essere che la qualità, il tale quale). Heidegger mostra così come un certo platonismo sia silenziosamente condiviso e riveli una tendenza fondamentale della riflessione filosofica, che Derrida non mancherà di registrare. Ma procediamo con ordine, riprendendo la critica derridiana dove l’avevamo interrotta: all’interno del testo husserliano dove ogni parola è creduta de jure sottratta alla comunicazione (e cioè all’esposizione), poiché de facto una tale sottrazione non si rivela mai, neanche in un fantomatico “discorso interiore”, di cui Husserl sembra essere l’ultimo grande sostenitore. La volontà dell’intenzione significante di dominare i segni, l’incarnarsi senza residui del senso nel segno, viene sempre giocata dalla struttura di rinvio di quest’ultimo, che rende la contaminazione, i fraintendimenti, costitutivi della manifestazione del senso come “significato”. Ciò che viene minacciato nel segno è la presenza a sé del senso, così come del soggetto che lo esprime. Ma il motivo che Derrida sottolinea nel testo husserliano è proprio la volontà di ritrovare un voler dire, una pura espressione intenzionale, al di là di ogni compromissione empirica. È questo l’elemento ideale che bisogna ritrovare fuori, nella comunicazione effettiva come il residuo fenomenologico fondamentale. Derrida a questo punto ha buon gioco di mostrare, fin dalla sua introduzione a L’origine de la géométrie del ’62, come l’idealità di un voler-dire sia possibile solo attraverso atti di ripetizione. La pura ripetizione del Senso, del senso non intaccato da alcunché di empirico è impraticabile, perché anche nel monologo interiore, il rinvio, la mediazione tra gli oggetti di un soliloquio appare insopprimibile. È solo all’interno di una ripetizione “dispersiva”, fatta di variazioni, accidentalità, contaminazioni, che è possibile isolare la ripetizione di

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un’identità ideale. Il segno empirico, mondano, acquista tutta la sua importanza, e l’idea sarebbe presa sempre entro una scrittura dell’idea. Ecco allora che, parallelamente a questa constatazione, Derrida rileva la produzione di un’illusione. Se la ripetizione del Senso non si dà senza l’ausilio di un significante, un tale medium, per far apparire un significato come puro, dovrà garantire l’illusione della sua presenza ideale, sopprimendo la sua mediazione. Quello della voce, a tal proposito, si rivela per Derrida essere un significante molto speciale: Questa esperienza della cancellazione del significante nella voce non è un’illusione tra le altre – poiché è la condizione stessa dell’idea di verità […] Questa illusione è la storia stessa della verità: non se ne dissipano tanto in fretta le nebbie. Nella chiusura di quest’esperienza la parola è vissuta come l’unità elementare ed indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza di espressione trasparente11.

La voce diviene voce di un logos, esclusa in quanto cosa sensibile, presa nel suo essere diafana, immediatamente significativa, illusione di puro pensiero. Attraverso il primato della voce, il logos, come puro senso, è sottratto illusoriamente (poiché anche la voce è una traccia) a ogni contaminazione con il segno scritto, avendo eletto l’espressione vocale a segno dell’anima e il segno scritto ad una seconda esteriorità, a segno di segno. Così il privilegio che il fenomenologo accorda alla voce, in realtà, è sempre in vista di una pre-espressione, di un’impossibile espressione pura. Il necessario privilegio della phoné, che è implicato in tutta la storia della metafisica, Husserl lo radicalizzerà sfruttandone tutte le risorse con la più grande raffinatezza critica. Poiché non è alla sostanza sonora o alla voce fisica, al corpo della voce nel mondo che egli riconoscerà un’affinità d’origine con il logos in generale, ma alla voce fenomenologica, alla voce nella sua carne trascendentale, al soffio, all’animazione intenzionale che trasforma il corpo della parola in carne [...] 12 11

J. DERRIDA, Della grammatologia, cit., p. 40. J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., p. 45. Sono diverse le critiche che vengono mosse a Derrida riguardo la questione della voce. La più incisiva è quella di Agamben che afferma: «È qui che si vede il limite del pensiero di Derrida, che identifica la metafisica nella dipendenza della scrittura, del gramma, rispetto alla phoné, alla voce. La metafisica, come 12

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Il primato della voce è, dunque, funzionale alla produzione dell’illusione di un’espressione pura, e motiva la gerarchia espressione/indicazione. Non solo: esso produce, esplicitamente, nello stesso tempo, un primato della scrittura alfabetica. Il fono centrismo, la centralità della voce, fa tutt’uno con il primato della scrittura alfabetica che è asservita al primato del fonetico, e che si caratterizza come scrittura che rimuove se stessa in quanto scrittura, come iscrizione singolare. La scrittura alfabetica, attraverso la fonetizzazione, tenderebbe a costituirsi essenzialmente come supplemento, e a determinare ogni iscrizione come semplice supporto di un’intenzione soggettiva. La scrittura alfabetica, per tutta la tradizione metafisica occidentale, diviene inevitabilmente un modello per tutte le altre scritture13. La riflessione di Derrida nel suo complesso esibisce, invece, contro una tale idea della scrittura decaduta a supplemento, una certa dinamica scrittoria originaria: ogni filosofia – e soprattutto le molte analizzate dal filosofo – avanzerebbe, oltre a una scrittura di fatto rappresentata dai loro testi, una certa omologia dell’esistere con il fenomeno della scrittura. Così per Freud la memoria è omologa ad un notes magico, per Husserl il tempo stesso è costituito da un continuum di impressioni, per Aristotele, l’anima è un tabula. Eppure la scrittura è per lo più mostrano la fonologia e lo strutturalismo, può benissimo fare a meno della supremazia della voce. Anzi, fin dall’inizio, la voce è da essa posta, per così dire, fuori campo. Essenziale al progetto metafisico è che vi sia un logos, un intreccio di sapere e parlare: ma poco importa se questo logos abbia poi il suo luogo nella voce, nella scrittura o in un inconscio» (G. AGAMBEN, La parola e il sapere, «aut aut», 178-180, 1980, p.163). Tuttavia la critica di Agamben non centra il motivo fondamentale della decostruzione della voce avanzata da Derrida, in quanto per quest’ultimo si tratta proprio di recuperare, al di là di ogni phoné semantiké, di ogni voce metafisica, la materialità e l’impurità anche della voce, ossia la sua iscrizione. Concordiamo pertanto con la risposta di S. Petrosino alla critica mossa da Agamben, che così conclude:« l’opera di Derrida, nella sua pretesa di fondo, resta al di fuori della portata della critica di Agamben» (Cfr. S. PETROSINO, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Bok, Milano 1997, p.167, nota 23.). La stessa cosa può dirsi dell’appendice che A. Cavarero dedica a Derrida nel suo testo A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 223-263. In tale appendice si tenta una paradossale decostruzione di Derrida, avanzando la stessa identica tesi di Agamben, ossia che Derrida manchi l’orizzonte relazionale della voce, o comunque antimetafisico. 13 Cfr. J. DERRIDA, Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. it. di M. Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp. 105-152.

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confinata nell’esteriorità, condannata come l’empirico che minaccia la purezza di un’oggettività ideale. Il primato della scrittura fonetica, dunque, è funzionale a un determinato regime, funzionale all’occultamento del problema della scrittura, garante di una metafisica della presenza del senso a se stesso. La strategia teorica di recupero del segno scritto, come traccia, messo in atto da Derrida è dunque complementare a quella di Deleuze: mentre quest’ultimo parte dal segno per arrivare alla singolarità del senso, Derrida decostruisce ogni presunta purezza del Senso, per arrivare al potere disseminante del segno e della scrittura. Ma se molte delle sue letture si rivolgono al trattamento metafisico, ad un non detto, ad una rimozione della scrittura, è solo in Platone che Derrida ritrova e decostruisce un momento “aurorale” della sua estromissione. Del resto in Husserl Derrida ritrova il gesto platonico: Talvolta Husserl l’ammette: è ad un platonismo convenzionale che egli si è sempre opposto. Quando afferma la non-esistenza o la non-realtà dell’idealità, è sempre per riconoscere che l’idealità è secondo un modo che è irriducibile all’esistenza sensibile o alla realtà empirica, anzi alla loro finzione- Determinando l’ontos on come eidos, Platone non faceva altro che questo14.

La fenomenologia di Husserl rappresenta per Derrida la via regia per accedere al mondo greco, e in particolare a Platone, dove ciò che viene messo al bando non è la scrittura, semplicemente, ma un certo potere della scrittura. Ciò che Derrida ritrova in Husserl, come pure nelle sue incursioni all’interno dei testi di Hegel, Freud, Heidegger è una certa fonte greca: Il “platonismo” […] comanda tutta questa storia. Ma il “tutto” di questa storia è allora conflittuale, eterogeneo, non dà luogo che a delle egemonie relativamente stabilizzabili. Non si totalizza dunque mai. In quanto tale, effetto d’egemonia, una filosofia sarebbe da allora, sempre “platonica”. Da qui la necessità di continuare a tentare di pensare ciò che ha luogo in Platone, con Platone, ciò che vi si mostra, ciò che vi si cela, per vincere o per perdere15.

14

J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., pp. 86-87. J. DERRIDA, Chora, Galilée, Paris 1993, trad. it. di F. Garritano, Chora, in Id., Il segreto del nome, Jaca Book, Milano 1997, p. 79. 15

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Proprio a partire da Platone si mostrerebbe il primato della voce che Derrida rileva nella sua analisi decostruttiva del testo husserliano, come gesto aurorale e istitutivo dell’orientamento fonocentrico che governa l’intera metafisica occidentale.: «Tra Platone e Mallarmé […] vi è stata una storia […] La scrittura in generale è interpretata come un’imitazione, un doppio della voce vivente e del logos presente»16. L’antiplatonismo di Derrida non coincide mai con l’essere contro Platone, in modo opposizionale. Al contrario, si tratta per Derrida di essere altrimenti platonici, altrimenti greci17, in quanto ciò che molte delle sue analisi mirano a cogliere è l’inemendabile eredità platonica. Un’eredità spettrale, poiché ciò che conta per Derrida, ciò che agisce di Platone, ovvero della coppia Socrate/Platone è che «non essi, che sono morti, ma il loro fantasma, ritorna di sera a fare i conti a nome loro»18. Notando come i principi del platonismo stiano dietro le tesi di Husserl e Heidegger, come pure di Hegel, Marx e Freud, Derrida rileva il platonismo come il fatto irreparabile di essere davanti a Platone, di averlo in qualche modo sempre dietro le spalle. È la peculiarità di Platone, peculiarità che Derrida descrive ne La carte postale, precisamente nella sezione intitolata Envois, commentando un’immagine che ritrae Socrate che scrive, con Platone alle spalle che suggerisce: «Non mi sono ancora ripreso da questa catastrofe rivelatrice. Platone dietro Socrate. Dietro lo è sempre stato, si pensava, ma non così. L’ho sempre saputo, e anch’essi, loro due intendo dire. Che coppia. Socrate volta le spalle a Platone, che gli fa scrivere quello che voleva facendo finta di riceverlo da lui»19. Per Derrida Platone e il platonismo rappresentano, innanzitutto, la subordinazione morale della traccia, della scrittura 1. Platone svaluta 16

J. DERRIDA, La double séance, in La dissémination, Seuil, Paris 1972, a cura di S. Petrosino, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989, p. 212. 17 Cfr. J. DERRIDA, Nous autres grecs, in B. CASSIN (a cura di) Nos grecs et leurs modernes, Seul, Paris 1992, p. 260. 18 J . DERRIDA, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, Aubier- Flammarion, Paris 1980, p.108. 19 Ivi, cit., p.16. 1 Cfr. J. DERRIDA, La pharmacie de Platon (1968), in Id., La disseminazione, cit., p. 111:« […] il problema della scrittura si apre proprio come un problema morale. La sua posta è veramente la moralità, sia nel senso di opposizione tra bene e male , tra il buono e il cattivo, che

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la scrittura, in primo luogo da un punto di vista morale, poiché nella scrittura, nella sua struttura, è implicita una deriva legata alla sua iterabilità, che non le impedisce in assenza di un suo eventuale “produttore”, o di un determinato lettore, di continuare a funzionare e produrre effetti inattesi: «[…] proprio quello che Platone condanna nel Fedro. […] Il gesto di Platone è, come io credo, il movimento filosofico per eccellenza»21. La possibilità di essere senza padre, di accadere in assenza del mittente, come pure in assenza di un determinato destinatario, ossia la possibilità di rompere (con) tutte le presenze che ne organizzano il contesto, è ciò che definisce lo statuto affermativo di traccia della scrittura e non di mera esteriorità del discorso parlato. Anzi, la sopravvivenza al discorso vivo, come pure la sua mai completa decifrazione, pongono l’irruzione della traccia come una potenza superiore e non inferiore alla sua interiorizzazione. L’esperienza della traccia, del segno scritto, è l’irruzione del fuori, che nel testo platonico, precisamente nel Fedro, porta il nome di pharmakon, espressione dal senso ambiguo, che significa tanto rimedio quanto veleno. Derrida non la traduce mai, per mantenerne l’ambiguità: «Il pharmakon è ciò che, sopraggiungendo sempre dal di fuori, agendo come il fuori stesso, non avrà mai virtù proprie e definibili»22. Platone, per Derrida, non vuole dominare che l’ambiguità, l’indecidibilità del fuori, il suo arrivo, che ha come caratteristica fondamentale l’incisione, l’alterazione, la differenziazione. L’iscrizione nel senso dei costumi, della moralità pubblica e delle convenienze sociali. Si tratta di sapere che cosa si fa e che cosa non si fa. Tale inquietudine morale non è per nulla distinta dal problema della verità, della memoria e della dialettica. Quest’ultimo problema, che sarà presto il problema della scrittura, è associato al tema morale, anzi lo sviluppa per affinità di essenza e non per sovrapposizione». 21 J. DERRIDA, Firma evento contesto, in Margini della filosofia, cit., p. 405 22 J. DERRIDA, La pharmacie de Platon (1968), in Id., La dissémination, cit., p. 136. Sull’interpretazione derridiana di Platone si vedano in particolare C. GAUDIN, L’inscription. Remarques sur la décostruction du platonisme par J. Derrida, «Revue de philosophie ancienne», 1, 1989, pp. 79-99 ; C.G. LAZOS, Les deux répétition ou le coup double du pharmakon, ivi, pp. 101-127. C. H. ZUCKERT, Postmodern Platos: Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Strauss, Derrida, University of Chicago Press, Chicago-London, 1996. Un tentativo interpretativo, insieme di continuazione e di rafforzamento dell’esegesi di Derrida, è rappresentato da R. BRAGUE, En Marge de “La pharmacie de Platon”, «Revue philosophique de Louvain», 12, 1973, pp. 271-277.

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mina ogni separazione netta tra il dentro e il fuori: il sopraggiungere del fuori è, infatti, il suo divenire interno, il suo entrare. Tale potere della scrittura, che non rispetta l’opposizione originaria dentro/fuori non può che essere vista con sospetto da Platone: essa deve divenire, pertanto, oggetto di una disciplina, a partire dalla svalutazione morale rispetto alla parola viva. Il suo essere dentro/fuori fa porre la scrittura nel luogo platonico del simulacro e del sofista: «Il sofista vende dunque i segni e le insegne della scienza: non la memoria stessa (mnème), soltanto i monumenti (hypomnèmata), gli inventari, gli archivi, le citazioni, le copie, i racconti, le liste, le note, i duplicati, le cronache, le genealogie, i riferimenti. Non la memoria ma le memorie»23. La scrittura per Platone è tuttavia necessaria: assegnando alla memoria viva una costitutiva finitezza (ha una vita, e testa e coda come un animale) assegna nello stesso tempo al segno, come supporto della memoria, ipomnesi, un ruolo inemendabile. Ma l’inemendabilità del fuori non lo salva dal fatto che ad esso possa essere assegnato un ruolo ben preciso, secondario, servile, e tuttavia pericoloso: La memoria ha dunque sempre già bisogno di segni per ricordarsi del non-presente col quale necessariamente ha rapporto. Il movimento della dialettica l’attesta. Così la memoria si lascia contaminare dal suo primo fuori, dal suo primo supplente: l’hypomnesis. Ma ciò che sogna Platone è una memoria senza segno. Cioè senza supplemento. […] Perché il supplemento è pericoloso? Non lo è, se così si può dire, in sé, in ciò che in esso potrebbe presentarsi come una cosa, come un ente-presente. Sarebbe allora rassicurante. Il supplemento invece, qui non è, non è un ente (on). Ma non è neanche un semplice non-ente (me on). Il suo scivolare lo sottrae alla semplice alternativa della presenza e dell’assenza. Questo è il pericolo24.

Ciò che il filosofo greco vuole esorcizzare nel segno attraverso la sua svalutazione morale, attraverso le sue riduzioni e dinieghi, è dunque la potenza della scrittura, il fatto che essa, attraverso la sua necessità, attraverso la sua natura fondamentalmente esponente, sia all’origine delle opposizioni (metafisiche, gerarchiche, reattive) proprio/improprio, dentro/fuori, presenza/assenza, originale/copia, sensibile/intelligibile e soprattutto che essa sia, dunque, all’origine della 23 24

Ivi, p. 140. Ivi, p. 142.

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differenziazione in generale. Questo insieme di aspetti costitutivi della scrittura come problema è ciò che più teme Platone perché, in un modo o in un altro, un segno scritto, una traccia, anticipa e nello stesso tempo attende ogni costituirsi della presenza dell’idealità attraverso la memoria, che è irrimediabilmente circondata da tracce molteplici. L’esposizione cui la scrittura ogni volta dà luogo è indispensabile alla costituzione dell’oggettività ideale. La scrittura, il segno, farebbe da supporto alla memoria, a sua volta intesa come supporto per l’idealità dell’eidos, per la ripetizione del medesimo 25. L’anamnesi platonica, la visione delle idee attraverso il ricordo, che ripete il medesimo, sarebbe soggetta in primis a tutt’altra ripetizione, inemendabile. La ripetizione della scrittura, del segno, è la ripetizione del ripetente, la forza stessa della ripetizione che non necessita di alcunché per ripetersi: è la ripetizione assoluta.

La tipografia di Platone L’ideologia platonica, è proprio il caso di dirlo, istituisce, nondimeno, accanto ad una svalutazione morale, un certo dispositivo che mira ad appropriarsi dell’inappropriabile. La difesa platonica dell’oralità non si costituisce per via affermativa, ma per via negativa nei confronti della scrittura: SOCRATE : […] Una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano

25 Cfr. ivi, pp.143-144: «L’opposizione tra mnème e hypòmnesis governerebbe dunque il senso della scrittura. Questa opposizione, lo vedremo, fa sistema con tutte le grandi opposizioni strutturali del platonismo. Ciò che è in gioco al limite tra questo due concetti, è quindi qualcosa come la decisione maggiore della filosofia, quella attraverso cui si istituisce, si mantiene e si contiene il suo fondo avverso. Ora tra mnème e hypòmnesis, tra la memoria e il suo supplemento, il limite è più che sottile, appena percettibile. Dall’una e dall’altra parte di questo limite si tratta di ripetizione. La memoria viva ripete la presenza dell’éidos e la verità è anche la possibilità della ripetizione nel richiamo. La verità svela l’éidos o l’ ontos òn, cioè quello che può essere imitato, riprodotto, ripetuto nella sua identità. Ma nel movimento anamnesico della verità ciò che è ripetuto deve presentarsi come tale, come ciò che è nella ripetizione».

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Capitolo II offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi né di aiutarsi da solo. FEDRO Anche questo che hai detto è giustissimo. SOCRATE E allora? Vogliamo considerare ora un altro discorso, fratello legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo? FEDRO Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca? SOCRATE È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere. FEDRO Intendi dire il discorso di chi sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine. SOCRATE Sì , appunto […]26.

Il passo appena citato mostra in modo chiaro come Platone riesca in un certo senso e con una strategia sorprendente ad appropriarsi e a disfarsi della scrittura. Proprio evidenziando come Socrate stesso diventi un pharmakeus, ossia qualcosa di perturbante che può curare quanto infastidire, danneggiare, Derrida, nella Pharmacie, risolve la contraddizione del Platone scrittore e del Platone che condanna la scrittura. Del resto: «Solo una lettura cieca e grossolana ha potuto infatti lasciar correre la voce che Platone condannasse semplicemente l’attività dello scrittore. […] scrivere non è di per sé un’attività vergognosa, indecente, infamante (aischròn). Ci si disonora soltanto se si scrive in modo disonorante. Ma che cosa significa scrivere in modo disonorante? »27. La scrittura diventa oggetto di un dispositivo di immunizzazione che include escludendo. Come se alla fine ci fossero due scritture ( Derrida lo sottolinea magistralmente, lo vedremo), ovvero una scrittura archetipica, che conia, incide il principio, una buona scrittura, e una scrittura in senso proprio, ovvero, paradossalmente, nel senso dell’improprio. Non a caso, Platone, nel Timeo, parla di typos, di impronta, a proposito della manifestazione dell’idea all’interno della sensibilità, poiché le cose empiriche, che sono imitazioni delle idee, sono sempre «improntate da esse» (50 c4-5)28. 26

Platone, Fedro, 275 e-276 a, cit., pp. 159-161. J. Derrida, La pharmacie de Platon, cit., pp. 105 ;107. 28 Su questo punto cfr. S. Margel, Le tombeau du Dieu artisan, Minuit, Paris 1995, pp. 124-125. 27

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Con un’acutezza senza precedenti, Simondon notava questo carattere scrittorio della “ideofania” platonica: La forma archetipica in Platone è il modello di tutto ciò che è superiore, eterno, unico, secondo una modalità verticale di interazione. L’Archetipo - da arché, l’origine, e da typos, l’impronta -, è il primo modo. Questa parola designa il punzone con cui si possono battere le monete, insomma il conio […] Questo è il modello della teoria delle Idee in Platone: tà eide, le Forme che, come gli Archetipi, permettono di spiegare l’esistenza dei sensibili. […] Platone costruisce un universo metafisico e un sistema epistemologico nei quali la perfezione è contenuta nell’origine29.

Siamo dunque nel cuore dell’ontografia, ovvero nell’impossibilità di uscire da una metafora scritturale in relazione a ogni dinamica sia ontica che ontologica, dove si tratterà di distinguere tra un’ontografia dogmatica e tra un’ontografia trascendentale. Dove, dunque, si danno almeno due scritture: Secondo uno schema che dominerà tutta la filosofia occidentale, una buona scrittura (naturale, viva, sapiente, intelligibile, interiore, parlante) viene opposta ad una cattiva scrittura (artificiosa, moribonda ignorante, sensibile, esteriore, muta). E quella buona non può che essere designata nella metafora di quella cattiva. La metaforicità è la logica della contaminazione e la contaminazione della logica. La cattiva scrittura è, per quella buona, come un modello di designazione linguistica e un simulacro di essenza. E se la rete delle opposizioni di predicati che mettono in rapporto una scrittura con l’altra contiene nelle sue maglie tutte le opposizioni concettuali del “platonismo” – considerato qui come la struttura dominante della storia della metafisica – si potrà dire che la filosofia ha avuto gioco nel gioco di due scritture30.

Lo stesso Foucault, nella sua celebre analisi archeologica delle scienze umane, notava una certa appropriazione della scrittura, nel Rinascimento, per forgiare un Testo Primitivo: 29

G. SIMONDON, L’idividuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989, trad. it. di P. Virno, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2001, pp. 45-46. 30 J. DERRIDA, La farmacia di Platone, cit., p. 177. Su questo punto si vedano anche le pagine di Della grammatologia, cit., pp. 28-38. Cfr. inoltre F. SCARSELLI, L’eredità di Platone nel pensiero di Jacques Derrida, «Parénklisis», 4, 2006, pp. 145-165. In una prospettiva differente dalla nostra si veda comunque F. TRABATTONI, Derrida e le origini greche del logocentrismo, «Iride», 43, 2004, pp.547-568.

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Capitolo II

Il linguaggio del XVI secolo – inteso non come un episodio della lingua, ma come esperienza globale di cultura – si è trovato indubbiamente preso in questo gioco, nell’interstizio tra il testo primo e l’infinito dell’interpretazione. Si parla su uno sfondo di una scrittura che fa tutt’uno col mondo; si parla all’infinito su di essa, e ciascuno dei suoi segni diviene a sua volta scrittura per nuovi discorsi; ma ogni discorso è rivolto a questa prima scrittura della quale promette e proroga a un tempo il ritorno31.

Tuttavia, proprio grazie alla riflessione di Derrida, è possibile non solo retrodatare la costituzione epocale della tesi di un testo primitivo e naturale, ma individuare in Platone, e nel platonismo, l’innesco aurorale di una modalità del conoscere che presuppone una fondazione originaria, resa possibile da una particolare economia scritturale. Assumendola in dosi e in forme controllate, nonché in una precisa modalità - quella del supporto, quella servile - Platone include ed esclude la scrittura al tempo stesso. La sua non è una semplice condanna poiché de facto, piuttosto che de iure, se ne appropria nella modalità dell’eccezione, del prendere mantenendo fuori32. Come fa ben notare Patrice Loraux, molti prologhi dei dialoghi platonici, come quelli del Teeteto, del Parmenide o del Timeo «narrano come, attraverso un buon numero di accidenti, un evento di discorso che ha avuto luogo con i personaggi, tempi e data ben precisi, dopo essere stato fissato, inscritto, rimaneggiato, messo in deposito, ecc., per ragioni multiple si trova ad essere dotato di una versione scritta»33. Quasi come se il conio dell’idealità necessitasse del superamento di una disseminazione dispersiva, minacciosa e nondimeno scrittoria: «il 31 M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, trad. it. di E. Painatescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 2001, p. 56. Continua tale considerazione sulla scrittura applicandola a specifiche procedure della modernità M. DE CERTEAU, L’invention du quotidien. I Arts de faire, trad. it. di M. Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Lavoro, Roma 2006, pp. 195-220. 32 Su questi punti Cfr. A. TAGLIAPIETRA, Il velo di Alcesti, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 179-189; R. ESPOSITO, Immunitas, Einaudi, Torino 2002, p.152. Sulla non esclusione della scrittura, nella prospettiva derridiana, si vedano H. JOLY, Le renversement platonicien. Logos, episteme, polis, Vrin, Paris 1974, in particolare p. 126; M. FERRARIS, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Multipla, Milano 1981, p.58; S. PETROSINO, Il pharmakon di Derrida, in J. DERRIDA, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, pp. 13-31. 33 P. LORAUX, L’arte platonica di aver l’aria di scrivere, M. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 235.

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prologo ci fa assistere in anticipo all’evento di discorso in quanto esso ha già conosciuto tutte le sue versioni, è transitato per tutte le superfici di iscrizione, ha trionfato sulla resistenza, opposta da tutti i supporti, l’essenziale essendo che, prima di esserci dato, il discorso ha già sopportato tutte le minacce di corruzione»34. Si tratta pertanto di considerare precise questioni di sovranità, questioni inerenti anche e soprattutto alla possibilità di una trasmissione storica: «[…] l’arte di Platone, cioè l’arte di fingere di non scrivere. Platone che opera il suo proprio ritrarsi di scrittore, per figurare nella serie come uno degli agenti di trasmissione del logos: semplice fabbricante di supporti per assicurare la conservazione materiale dei logoi socratici»35. La finzione platonica, tutta la sua drammatizzazione dialogica, è il grande fantasma che tenta di eliminare fantasmi e finzioni, così da restare unico e solo, irriconoscibile in quanto tale. L’ultima scrittura, che si cancella in quanto tale per non essere individuata, come se si togliesse la scala di cui ci si è serviti per giungere a un punto ben preciso. Platone ci getta, pertanto, sull’abisso del logico, del discorso integro, inattaccabile, incorruttibile. La singolarità della logica consiste in un prologo che Platone mostra e che al meccanismo nel suo complesso è essenziale per aprire una storia del logos, l’epoca metafisica. L’idealità viene così prodotta in una scrittura. Piegando al logos la scrittura, attingendo da un orizzonte scrittorio molteplice e superandolo, ciò che si mostra è un preciso dispositivo di immunizzazione che, come abbiamo già evidenziato, include escludendo: […] i sofisti sono uomini di scrittura nel momento in cui lo negano. Ma non lo è anche Platone, per un effetto di rovesciamento simmetrico? Non soltanto perché è scrittore […] e perché non può, né di fatto né di diritto, spiegare che cos’è la dialettica senza ricorrere alla scrittura; non soltanto perché giudica che la ripetizione del medesimo sia necessaria all’anamnesi, ma anche perché la giudica indispensabile come iscrizione del tipo. (È notevole che typos si applichi con uguale pertinenza all’impronta grafica e all’éidos come 34 35

Ivi, p. 247. Ivi, p. 241.

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Capitolo II modello. Tra altri esempi, cfr. Repubblica 402 d). Questa necessità appartiene anzitutto all’ordine della legge ed è posta dalle Leggi. In questo caso l’identità immutabile e pietrificata della scrittura non si aggiunge alla legge significata o alla regola prescritta come un simulacro muto e stupido: essa ne assicura la permanenza e l’identità con la vigilanza di un custode. Altro custode delle leggi, la scrittura ci assicura il mezzo di tornare a piacere, tutte le volte che ci sarà bisogno, a questo oggetto ideale che è la legge. […] Il legislatore è uno scrittore36.

In Platone l’unica scrittura autentica è quella della legge. Tuttavia l’ambiguità dell’atteggiamento platonico nei confronti della scrittura, la sua tipografia, mostra come anche l’esclusione e la delegittimazione teorica più tenace non riesca a eliminarne il fatto, la natura costituente della scrittura, e con essa, ossia con la sua struttura, l’irrimediabilità dell’essere iscritto, ovvero dell’essere intaccato, dell’essere esposto all’incrinatura cui la scrittura dà luogo. L’iscrizione appartiene in mondo necessario al dispiegarsi dell’episteme, del sapere, e tuttavia essa non vi appartiene. È la tesi aporetica implicita nella procedura di verità descritta da Platone nella VII lettera. Pazzo è chi affida i propri pensieri alla scrittura, e tuttavia bisognerà, in un modo o nell’altro, pur scrivere.

L’erranza empirico-trascendentale Fino a Nietzsche la filosofia sembra avere una medesima intenzione, a un tempo frenante e assicurante. Il gesto filosofico per eccellen36 Ivi, p. 145. Come acutamente nota Mario Vegetti a proposito di una tale “vicarianza” della scrittura: «La scrittura della legge, rifiutata nel Fedro, appena tollerata nel Politico come rimedio all’assenza del re, trionfa nell’ultimo Platone come regola fondamentale della vita della città, come canone di ogni possibile discorso. E la città delle Leggi è affollata di scrittura: si scrivono, oltre alle leggi e ai loro proemi, le tavolette per l’elezione dei magistrati (V, 753 c), i testamenti (XI, 923 c). È notevole che la scrittura accompagni nelle Leggi proprio momenti della vita sociale ignorati o banditi dalla Repubblica, come i meccanismi elettorali e soprattutto la proprietà patrimoniale dell’oikos. Ma è ancora più notevole che questa scrittura delle Leggi può consumare i suoi fasti soltanto al prezzo di un ritorno alle sue originarie modalità “egizie”: è scrittura del potere e del sacerdozio, conservata sugli altari e nei templi (741c, 753 c, 856 a)» (M. Vegetti, All’ombra di Theuth, in M. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura nella Grecia antica, cit., p. 225).

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za, il gesto platonico, è un gesto che contiene: introduce dentro di sé (come nel caso della scrittura della voce) ciò lo eccede. Secondo la logica di ciò che Hegel chiamerà Aufhebung, si tiene fuori il fuori, trattenendolo. Come se non si potesse non trattenerlo. Cose se l’essere intaccato fosse inevitabile. L’iscrizione espone, e l’esposizione cui dà luogo la scrittura è sempre, come abbiamo già detto, anteriore alle definizioni, alle chiusure, alle ripartizioni dentro/fuori, proprio/improprio, ecc. L’iscrizione è necessaria alla costituzione dell’idealità e dell’identità. Il fatto che la necessità della scrittura sia irrimediabile conduce una riflessione radicale, quale quella decostruttiva, a una concezione elementale della ripetizione scrittoria. Per Derrida, infatti, la scrittura non è solo una tecnica “umana”, limitata alla lettera, ma essa è l’elemento, la condizione della singolarità stessa. La scrittura non si riduce a un’abilità singolare, da svalutare negativamente come una semplice protesi, un prolungamento del discorso parlato. Nella riflessione di Derrida, diventa pura ripetizione: pensata come pharmakon, essa dice l’indecidibile accadere degli eventi, o meglio, l’inanticipabilità della singolarità che si scrive, del supplemento che ripete e nello stesso tempo differenzia. Il riferimento ad una concezione elementale della scrittura come archiscrittura è già presente nel ’67 quando, nell’opera che resterà una delle più importanti, e cioè De la grammatologie afferma: «Ancor prima di essere determinato come umano […] o come a-umano, il gramma – o il grafema – darebbe così il nome all’elemento. Elemento senza semplicità»37. Sulla non semplicità di tale elemento scrittorio Derrida incentrerà la questione della fondamentale conferenza del ’68 non a caso dal titolo La différance. Questa espressione, al di là di ogni correttezza grammaticale, è il nome che il filosofo dà all’elementalità della scrittura. La différance è trascendentale, e tuttavia nello stesso tempo esprime il superamento del trascendentale classico come soggettività trascendentale. Più precisamente essa, la différance, è il concetto chiave 37

J. DERRIDA, Della grammatologia, cit., p. 27.

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per avviare un ampliamento dell’estetica trascendentale al di là delle soluzioni del criticismo kantiano e della fenomenologia di Husserl, verso un pensiero dell’iscrizione originaria come iscrizione trascendentale. Come scrive in De la grammatologie: Una nuova estetica trascendentale dovrebbe lasciarsi guidare non solo dalle idealità matematiche ma dalla stessa possibilità dell’iscrizione in generale, non sopraggiungendo come un accidente contingente ad uno spazio già costituito ma producendo la spazialità dello spazio. Diciamo proprio dell’iscrizione in generale, per mostrare che non si tratta solo della notazione di una parola pronta, che si rappresenta da sola ma dell’iscrizione della parola, e dell’iscrizione come abitazione già da sempre situata. Una tale domanda, nonostante il suo riferimento ad una forma di passività fondamentale, non dovrebbe più chiamarsi estetica trascendentale, né nel senso kantiano, né nel senso husserliano di queste parole […]38.

Derrida parla di quasi-trascendentale39, per sottolineare la contaminazione con l’empirico: elevando qualcosa che ha essenzialmente una natura empirica, come la scrittura, ad archi-scrittura, si eleva l’empirico al trascendentale complicandone la purezza. Derrida lo dice chiaramente: «l’empirico è il trascendentale del trascendentale»40. Pertanto il concetto di différance è riconducibile a ciò che Deleuze ha chiamato “empirismo trascendentale”, che Derrida arriva implicitamente a formulare riferendosi al movimento della différance: «Strategia infine senza finalità, si potrebbe chiamarla tattica cieca, erranza empirica, se il valore dell’empirismo non prendesse esso stesso tutto il suo senso dalla sua opposizione alla responsabilità filosofica»41. 38

Ivi, p. 327. J. DERRIDA, Limited Inc, Galilée, Paris 1990, trad. it. di N. Perullo, Limited Inc, Cortina, Milano 1997, p. 189. Su questo concetto si vedano R. GASCHÉ, The Tain of the Mirror, Harvard University Press, Cambridge and London 1986; G. BENNINGTON, J. DERRIDA, Jacques Derrida, Seuil, Paris 1991, pp. 82-95; D. GIUGLIANO, Senso e differenza, Bulzoni, Roma 1994; nonché i recenti studi: M. GARDINI, Derrida e gli atti linguistici, Clueb, Bologna 2002, pp. 61-97; G. LEGHISSA, Quasi trascendentale, «aut aut», 327(2005), pp. 149-163. 40 G. BENNINGTON, J. DERRIDA, Jacques Derrida, cit. p. 258. 41 J. DERRIDA, La différance (1968), in Id., Margini - della filosofia, cit., p. 33. Ma è precisamente in De la grammatologie che Derrida lega la scrittura, come archi-scrittura, ad una esperienza trascendentale. Cfr. J. DERRIDA, Della grammatologia, cit., pp. 67-69. Sull’archiscrittura come trascendentale si veda J. GREISCH, Hermèneuitique et grammatologie, CNRS, Paris 1977, in particolare p. 149; C. DOVOLICH, Derrida tra differenza e trascen39

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Erranza empirica, ma al di là dell’empirismo filosofico classico, la différance nomina l’assoluto trascendentale, al di là di ogni trascendentalismo di matrice kantiana o husserliana. Essa dice insieme il rinvio, la discontinuità temporale, come pure l’imminenza inanticipabile, lo spaziamento e il temporeggiamento. Così Derrida accenna al suo singolare carattere trascendentale: Ciò che si scrive différance sarà dunque il movimento di gioco che «produce», per mezzo di quello che non è semplicemente un’attività, queste differenze, questi effetti di differenza. Ciò non vuol dire che la différance che produce le differenze sia prima di esse, in un presente semplice e in sé immodificato, in-differente. La différance è l’“origine” non-piena, nonsemplice, l’origine strutturata e differente [différant] delle differenze. Il nome di “origine” non le si confà dunque più42.

Un tale elemento è ciò in cui qualcosa come la coscienza, come presenza a sé, o un soggetto, un’idea, appaiono senza mai dominare l’intero campo, riuscendo solo a produrre l’illusione di un tale dominio o ancor peggio, l’illusione che si diano cose identiche, presenti a se stesse, intatte. Su quest’ultimo punto Derrida fa un importante rinvio all’opera di Deleuze, Nietzsche et la philosophie43, che testimonia il loro comune riferimento a Nietzsche, ma soprattutto una straordinaria affinità tra i loro discorsi. Così Derrida dirà di Deleuze al momento della morte di quest’ultimo: Troppo da dire, sì, sul tempo che con tanti altri della mia ‘generazione’ ho potuto condividere con Deleuze, sulla possibilità di pensare grazie a lui, pensando a lui. Tutti i suoi libri (ma anzitutto il Nietzsche, Differenza e Ripetizione, Logica del senso) sono subito stati per me non solo forti provocazioni dentale, FrancoAngeli, Milano 1995, in particolare 14-65; G. PIANA, Le scene della scrittura nell’opera di Jacques Derrida, Mimesis, Milano 2001, pp. 72-93. 42 Ivi, p. 39. 43 Ivi, p. 45. Su questo punto si veda l’interessante saggio di E. ALLIEZ, Ontologie et logographie. La pharmacie, Platon et le simulacre, in Nos grecs et leurs modernes, cit., pp. 211-213 che mette in relazione in modo convincente Derrida e Deleuze a partire dal rovesciamento del platonismo. Anche se Derrida risponde a tale interpretazione, rivendicando nel saggio già citato Nous autres grecs. la sua distanza proprio in merito alla lettura di Nietzsche, vedremo che, al momento della morte di Deleuze, Derrida indicherà questi come il pensatore a lui più vicino.

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Capitolo II a pensare, è ovvio, ma ogni volta l’esperienza inquietante, così inquietante di una prossimità o di una affinità quasi totale nelle “tesi”, se così si può dire, attraverso le evidentissime distanze in quelli che chiamerei, in mancanza di meglio, il “gesto”, la “strategia”, la “maniera”: di scrivere, di parlare, forse di leggere. Per quanto riguarda le “tesi”, ma la parola non è adeguata – e soprattutto la tesi di una differenza irriducibile alla opposizione dialettica, una differenza “più profonda” di una contraddizione (Differenza e ripetizione), una differenza nell’affermazione gioiosamente ripetuta (“sì, sì”), la presa in considerazione del simulacro – Deleuze resta forse, malgrado tante dissomiglianze, colui che ho sempre ritenuto essermi più vicino tra tutti coloro che appartengono a questa “generazione”44.

Che i testi dei due pensatori si rinviino, e che non vi sia una semplice analogia in questo rinviare ma la produzione di una singolare tessitura, a partire non tanto dall’interpretazione del critico, quanto da indicazioni esplicite e concrete, è questa una delle nostre tesi principali. Ciò che unisce Deleuze a Derrida è il comune allestimento filosofico del piano del differire. Al di là del modo anche opposto di leggere un medesimo autore (Artaud fra tutti), delle rispettive formazioni, dello stile soprattutto, essi fanno luce sulla medesima realtà ontologica45.

Chora, superficie, piega La différance esprime, per Derrida, il movimento dell’iscrizione originaria, e con essa, necessariamente, una superficie d’iscrizione. Proprio in merito al luogo di tale impressione, che non sarebbe un fuori della scrittura, quanto un altro modo per pensarne l’elemento, Derrida ritorna sul testo platonico, e in modo particolare sul Timeo, per interrogare lo statuto sui generis della nozione di chora, definita da Platone in molti modi, come supporto, madre, ricettacolo, nutrice. 44

J. DERRIDA, Je devrai errer tout seul, Liberation., 7 nov. 1995, trad. it. di F. Polidori, Dovrò vagare da solo, «aut aut», 271-272, 1996, p. 9. 45 Su rapporto tra Deleuze e Derrida si veda V. DESCOMBES, Le meme et l’autre, Minuit, Paris 1979, pp.160-195. Sempre da un punto di vista generale V. BELLUCCI, Gli “atleti” della differenza: Derrida e Deleuze, «Isonomia. Rivista filosofica on-line dell’Istituto di Filosofia – Università di Urbino», (2004). Per una comparazione dei due pensatori su un piano filosoficopolitico si veda l’interessante saggio di P. PATTON, Concept and politics in Derrida e Deleuze, «Critical Horizons», 2, vol.4, 2003, pp. 157-175.

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La strategia decostruttiva consiste nel non definire chora, nel sottrarre questo luogo singolare a qualsiasi definizione. Per Derrida chora rappresenta il luogo di una resistenza continua alle gerarchie metafisiche cui dà luogo: ogni volta supporto ed eccedenza del gesto filosofico e soprattutto del gesto filosofico platonicamente orientato. All’interno del Timeo platonico essa riceve una definizione singolare, che Derrida non manca di sottolineare: La chora non è né «sensibile» né «intelligibile», ma appartiene ad un «terzo genere» (triton ghenos, 48e, 52 a). Non si può dire neppure di essa che non è né questo né quello o che è parimenti al tempo stesso questo e quello. Non è sufficiente ricordare che essa al tempo non nomina né questo, né quello o che dice questo e quello. L’imbarazzo dichiarato da Timeo si manifesta diversamente. Talora la chora, sembra non essere né questo né quello; talora al tempo stesso questo e quello.46

Ma l’analisi di Derrida, parallelamente al rilevamento delle strutture della chora, sorprende in primis il luogo in cui essa compare, nel Timeo, all’interno del più grande mito platonico. In prima battuta l’indagine si sofferma sul ruolo del mito in Platone, svelandone le singolarità. Il filosofo greco, come ha già sottolineato Deleuze, include il mito nel discorso, lo usa come supporto o supplemento – paradossalmente come chora. Chora, come supporto, è sempre dentro e fuori l’appropriazione del mito. Al di là dell’inclusione mitica essa rappresenta «il luogo d’iscrizione di tutto ciò che al mondo si marca»47. Per Derrida essa dice l’aver luogo, il dar luogo, che non può mai essere ridotto a un luogo determinato. Essa è un non-luogo, nel senso dell’inanticipabile accadere, che è sempre accadere in un luogo. Nonluogo in senso non opposizionale, dunque. Chora «vuol dire»: posto occupato da qualcuno, paese, luogo abitato, sede marcata, rango, posto, postazione, posizione assegnata, territorio o regione. E di fatto, chora sarà sempre già occupata, investita, persino come luogo generale: allora si distingue da tutto ciò che prende posizione in essa. […] 46

J. DERRIDA, Chora, cit. p. 45. Su questo tema cfr. S. Ragazzoni, Jacques Derrida e la questione di chora, «Rivista di Estetica», 18, n. s. , 2001, 156-178. 47 Ivi, p. 64.

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Capitolo II Chora indica un posto a parte, la spaziatura che conserva un rapporto asimmetrico con tutto ciò che «in essa», a fianco o oltre essa, sembra far coppia con essa. Nella coppia fuori dalla coppia, questa madre strana, che dà luogo senza generare, non possiamo più considerarla come un’origine.48

Chora ci conduce così verso un pensiero dell’iscrizione “originaria”, pensiero già avanzato nella Pharmacie, dove troviamo già un’attenta analisi di chora, nel senso di un’archiscrittura: Il “luogo”, il “posto”, “ciò in cui” le cose appaiono, “ciò su cui” si manifestano, il “ricettacolo”, la “matrice”, la “madre”, la nutrice, tutte queste formule ci fanno pensare allo spazio che contiene le cose. Ma più avanti, si tratta del “porta impronte”, dell’“eccipiente”, della sostanza interamente deodorata, nella quale i profumieri fissano gli odori […]. Ecco il passaggio al di là di tutte le opposizioni del “platonismo”, verso l’aporia dell’iscrizione originaria […]49.

L’analisi della chora platonica rivela la produttività della superficie, come margine inappropriabile e necessario. Superficie scrittoria, essa si ritrova anche in ciò che Artaud chiama soggettile, nozione cui Derrida dedica il testo Forcener le subjectile: […] poiché il soggettile non è altro che la vuota ubicazione (emplacement) del posto (place), una figura della chora se non la chora stessa. […] Il soggettile (chi è?) sopporta (souffre) tutto senza patire (souffrir). Dunque senza lamentarsi. Patisce, ma resta impassibile. Accetta e riceve tutto, come un ricettacolo universale. Visto che raffigura anche il luogo, il posto di tutte le figure, pensiamo alla chora del Timeo50.

Una tale superficie-soggettile-chora esprime per Derrida un resto inconcepibile, anche se dà luogo, nel suo essere luogo, a ogni possibile concezione. Un tale ricettacolo resta eterogeneo a tutto ciò che riceve e produce, in quanto residuo. La residualità del supporto rivela quella “vocazione fenomenologica” che Derrida non ha mai abbandonato, con la differenza che il residuo fenomenologico della decostru48

Ivi, pp. 66-67; 83. J. DERRIDA, La farmacia di Platone, cit., p.186. 50 J. DERRIDA, Forcener le subjectile, Schirmer/Moses, Munich 1986, trad. it. di A. Cariolato, Forsennare il soggettile, Abscondita, Milano 2005, pp. 77; 86. 49

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zione non è la soggettività trascendentale husserliana, ma il luogo limite da cui essa viene generata, un luogo-scrittura tra dimensioni eterogenee della temporalità e non riducibile a una egemonia del presente vivente. Anziché nella sfera del proprio, Derrida ci conduce sul luogo (dell’) inappropriabile. La superficie non è intesa come Boden, suolo duro, ma come l’infinità degli strati, delle tessiture, degli innesti. È su questo punto che Derrida tocca maggiormente Deleuze. Ovvero sul fatto che la superficie esprime necessariamente la singolarità e la sua ripetizione. Pensare la singolarità significa sempre decifrare un’irruzione in superficie, un’iscrizione. Con la sua categoria dell’incontro e del rispettivo apprendimento trascendentale Deleuze non ha detto che questo: l’iscrizione del segno, la singolarità del singolare. In Deleuze c’è una scrittura continua, morfogenetica, costituita da inflessioni, modulazioni temporali, che si oppongono esplicitamente al calco metafisico, ossia all’asservimento dell’iscrizione per sigillare un’identità. Al calco, Deleuze oppone un ricalcare continuo51. Qualcosa come “il soggetto” accade dopo, come punto di vista sulla variazione, come luogo da cui procede l’osservazione, prodotto di una piegatura, come carta su cui si scrive, su cui il soggetto stesso scrive52. Insieme a Guattari, nell’Anti-Edipo, riflettendo sulla produzione desiderante primitiva, interamente sociale, Deleuze rileva un piano d’iscrizione originario sotteso e occultato dalle successive organizzazioni del sociale, come quella capitalistica: […] la società non è innanzitutto un ambiente di scambio ove l’essenziale sarebbe di circolare o di far circolare, ma un socius d’iscrizione dove l’essenziale è marcare ed essere marcati. C’è circolazione solo se l’iscrizione lo esige e lo consente. […] Il segno è posizione di desiderio; ma i primi segni sono i segni territoriali che piantano i loro drappelli sui corpi. E se si vuol chiamare «scrittura» questa iscrizione in piena carne, allora effettivamente bisogna dire che la parola presuppone la scrittura e che proprio questo sistema crudele di segni iscritti rende l’uomo capace di linguaggio, e gli dà una memoria delle parole53. 51

Cfr. G. DELEUZE, La piega, cit., p.31. Cfr. G. DELEUZE, F. GUATTARI, Mille piani, cit., pp. 45-48. 53 G. DELEUZE, F. GUATTARI, L’Anti-Oedipe, Minuit, Paris 1972, trad. it. di A. Fontana, L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, pp. 157; 161. 52

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L’affermazione che la scrittura preceda la parola è chiaramente un’adesione al concetto fondamentale di Derrida, adesione chiaramente esplicitata, anche se con qualche obiezione, in un altro luogo dello stesso testo: «Jacques Derrida ha ragione nel dire che ogni lingua presuppone una scrittura originaria, se intende con questo l’esistenza, e la connessione d’un qualunque grafismo (scrittura in senso lato)»54. Il rifiuto del platonismo come fondazione della metafisica della presenza e dell’egemonia dell’identico conduce, sia Deleuze sia Derrida, a indagare ciò che accade in superficie, tra le parole e le cose, entro un orizzonte scrittorio. È un’originale topologia quella che viene sviluppandosi nelle rispettive riflessioni, soprattutto intorno alle nozioni di piega e incrinatura, altri nomi per intendere l’iscrizione della singolarità. Tali concetti sono strettamente legati a quello di superficie, che li comprende. Nel saggio La double seance55 Derrida fornisce un’esaustiva concettualizzazione della piega e Deleuze, dopo averne accennato in Différence et répétition, vi dedica l’ultima parte del suo Foucault e l’intera opera Le pli. La piega, l’incrinatura, è una singolarità di superficie che non si disgiunge dalla superficie. La domanda circa un’esteriorità o un’interiorità di tale singolarità pone un problema sbagliato, in quanto la singolarità, proprio nel suo essere piega, incrinatura, disarticola l’opposizione interno/esterno. La singolarità è un essere di superficie, è l’essere stesso della superficie, che ne esprime la struttura iterativa, la sua moltiplicazione incalcolabile. Individuata, la singolarità si pone come arresto di una ripetizione, essa fa segno verso questa struttura. La teoria dell’individuo di Deleuze esprime esemplarmente la rilevanza ontologica della piega. L’individuo non è una specie infima e ultima, ma si rivela essere ciò che attualizza singolarità preindividuali, un’entità variamente piegata dagli eventi. Qualcosa dell’individuo giace in superficie e sono proprio le sue singolarità ciò in base a cui si costituisce. L’individuo non è una singolarità, ma ciò che si trova in prossimità delle relative pieghe. Mentre per Heidegger 54 55

Ivi, p. 228. J. DERRIDA, La double séance, in La disseminazione, cit., pp. 200-300.

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o Merleau-Ponty la piega aveva un ruolo di fondamento56, in Deleuze, come in Derrida, essa diviene il principio di una proliferazione di pieghe che minano il raggiungimento di un fondamento ultimo e puro. La piega è il divenire-dentro del Fuori, come pure l’espressione dell’intimo. Alcune delle parole chiave di Deleuze come molteplice, implicazione, esplicazione mantengono il riferimento alla piega nel loro etimo. Allo stesso modo la ricerca dello Stesso, del Semplice, della Rettitudine proprie della morale e della metafisica occidentali manifestano la massima economia della piega. Simplex: ossia piegato una sola volta, una volta per tutte. Studiata all’interno di vari livelli come quello fisico, organico, architettonico, per Deleuze la piega è la Potenza stessa56 e riassume per noi tutte le caratteristiche dell’iscrizione. Del resto è proprio Derrida ad esplicitare una tale comparazione: La piega (si) moltiplica, ma non (è) (una). […] Ogni piega determinata si piega figurando l’altra (dalla foglia al lenzuolo, dal lenzuolo al sudario, dal letto al libro, dal lino alla velina, dall’ala al ventaglio, dal velo alla danzatrice, alla piuma, al foglietto, ecc.), e ri-marcando questa piega sul sé della scrittura. […] Senza piega – o se la piega avesse da qualche parte un limite, diverso da sé come marca (marque), margine (marge), o marka (marche) (soglia, frontiera, limite) – non ci sarebbe testo.57

Nella discussione sulla pantomima di Mallarmé, Derrida, come nel caso del pharmakon, evoca la struttura dell’imene, il cui nome descrive, in francese, sia la membrana che la penetrazione della membrana. La singolarità-(è)-superficie. Questa singolare duplicità rinvia ad una superficie non come suolo ultimo, ma come l’inesauribilità del “tra”, dell’entre, della piega. La piega disaggiusta, dunque, l’opposizione dentro/fuori, invitando a pensare la loro indecidibilità. Tutto accade in superficie, mai oltre di essa. Una superficie continuamente violata e violabile. La superficie, il piano, il tessuto: è il prodotto più importante dell’antiplatonismo. La ripetizione della singolarità è la sua forzatura in superficie. La forzatura dovrebbe ricevere la dignità di concetto filosofico, visto che nien56 Cfr. G. DELEUZE, Foucault, Minuit, Paris 1986, trad. it. di P. A. Rovatti, e F. Sossi, Foucault, Cronopio, Napoli 2002, pp.143-162. 56 G. DELEUZE, La piega, cit. p. 29. 57 J. DERRIDA, La doppia seduta, cit., pp.248; 285.

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te come quest’irruzione descrive il movimento della singolarità. Dire che essa è forza non basta. Bisognerebbe considerare attentamente la frase di Deleuze, «Ciò che è primo nel pensiero è il furto»58, pensando la forzatura come l’inanticipabile che incrina il pensiero, derubandolo del suo sé: da un altrove in superficie lo informa in superficie. La superficie, nel suo essere luogo estremo, l’estremo per eccellenza, dice il piano del differire e dell’iscrizione. Non si dà nulla che non sia superficie. La singolarità non ha mai avuto un concetto adeguato poiché il rispettivo orizzonte era sempre quello della metafisica classica: l’opposizione gerarchica dentro/fuori, il primato della presenza e dell’identità, la dialettica del negativo. Essa doveva apparire come l’accidentale, il senza concetto per eccellenza, o rinchiusa nell’individuale, parola esoterica sinonimo dell’identità. Questo perché la superficie, allo stesso modo, non aveva dignità d’essere. Il “tra” non ha mai avuto consistenza filosofica se non in relazione a un’interiorità o a un’esteriorità. Impersonale, preindividuale, molteplice in se stessa, la singolarità è irrimediabilmente segno e traccia, rinvio a problemi, a molteplicità di multipli, essere di superficie. Un tale rinvio, per Derrida, rivela anche un’altra struttura: quella dell’esemplarità. Come in Deleuze, la singolarità non si dà senza una disarticolazione dell’opposizione singolare/universale accidentale/sostanziale. Così Derrida spesso afferma che la singolarità deve avere la struttura dell’esemplarità. Essa deve poter essere ripetibile, deve poter essere idealizzabile. Ma l’idea non è più l’idea platonica, quanto piuttosto, come in Deleuze, una problematicità, al di là di ogni metafisica dell’esempio, che ne dissolve invece la singolarità. Una tale esemplarità va considerata come eccellenza, come modello sui generis. Ancora Platone contro Platone. L’esemplarità eccede la mimetologia platonica, in quanto mimesis affermativa. Ne La double séance Derrida ha posto in tutta la sua problematicità lo statuto disciplinare che regola la mimesis nell’opera platonica, e che, come ricorda il filosofo francese, forma una specie di

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G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 258

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macchina logica che programma i prototipi dei discorsi di tutta la tradizione occidentale59. Secondo Derrida, Omero, verso il quale Platone moltiplica i segni di rispetto, di riconoscenza e di ammirazione filiale, è cacciato dalla città, come ogni poeta imitatore, con gli onori dovuti ad un essere “sacro e meraviglioso” (“ieron Kai thaumaston”, Repubblica, 398 a); inoltre si esige dal poeta che egli “cancelli” dal proprio testo tutti i passaggi politicamente pericolosi (386 c). Omero, questo vecchio padre cieco, e condannato perché pratica la mimesi (la narrazione mimetica e non semplice). L’altro padre, Parmenide, è condannato perché ignora la mimesi60.

Platone, dunque, non condanna semplicemente la mimesis, ma rileva una buona e una cattiva mimesis. In sé essa è cattiva perché supplementare, eccesso del modello, ma può diventare buona, e addirittura raccomandata (Repubblica 396 c-d), quando essa lo imita perfettamente, ossia quando non vale niente, è solo servile e non altera la ripetizione: Se si riafferrasse la mimesi «prima» della «decisione» filosofica ci si accorgerebbe che Platone, lungi dal legare il destino della poesia e dell’arte alla struttura della mimesi (o piuttosto di tutto ciò che si traduce frequentemente oggi, per rifiutarli, con rap-presentazione (re-présentation), imitazione, espressione, riproduzione, ecc.), squalifica nella mimesi tutto ciò che la «modernità» pone sulla scena: la maschera, la scomparsa dell’autore, il simulacro, l’anonimato, la testualità apocrifa. Lo si può verificare rileggendo il passaggio della Repubblica sulla narrazione semplice e la mimesi (393 a ). Ciò che qui ci interessa è la duplicità «interna» del mimeisthai che Platone vuole tagliare in due, per decidere tra la buona mimesi (quella che riproduce fedelmente e nella verità, anche se si lascia minacciare in se stessa dal semplice fatto della duplicazione) e la cattiva; cattiva mimesi che bisogna dominare come la follia (396 a) e il (cattivo) gioco (396 e)61.

Secondo Platone l’imitato (il modello) viene prima dell’imitante, la mimesis. Essa è dunque sempre in rapporto con un presente passato, come nell’immagine metafisica della scrittura, poiché, non dimenti59

Cfr. J. DERRIDA, La doppia seduta, cit., p. 211, nota 16. Ivi, p. 210, nota 16. 61 Ivi, p. 211, nota 16. 60

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chiamolo, scrittura e mimesis dicono la stessa cosa. Come sottolinea Derrida, «Ciò che risulta difficile da pensare è che un imitato segua il suo imitante, che l’immagine preceda il modello e il doppio preceda il singolo»62. È questa la struttura dell’esemplarità come produzione di un modello sui generis, al di là di ogni imitazione del modello, poiché, se l’imitante precede l’imitato, non si dà più imitazione, e la singolarità diviene rapporto con una virtualità, indecidibile connubio di passato e avvenire. In francese, il termine piega, le pli, indica anche il plico postale, avente pertanto un contenuto inanticipabile (insieme passato e futuro), che può essere esplicato solo attraverso l’esperienza singolare. Viene così restituita potenza e libertà al simulacro, il suo essere in rapporto con l’avvenire. Per Platone, ed è un problema enorme di tutta la filosofia d’ispirazione platonica, non c’è avvenire, un avvenire che sia tale. E si potrebbe ben ipotizzare che l’antiplatonismo in filosofia nasca proprio per dare un futuro alla filosofia, per far sì che essa possa pensare l’evento. Non è un caso che Nietzsche, radicale antiplatonico, parli di una filosofia dell’avvenire e che Heidegger concettualizzi la dimensione dell’evento in termini di priorità ontologica. Per Platone l’idea è un Archetipo, ossia qualcosa di perfetto all’origine, e il suo progetto di città ideale è il progetto di qualcosa che non deve variare. L’esemplarità sottrae la singolarità alla struttura rappresentativa, proprio perché l’esemplarità stessa è colta al di là della mimetologia platonica, e indica una produzione affermativa. Così Mimique di Mallarmé rappresenta per Derrida l’affermazione del non somigliante, dove il movimento del mimo genera dei simulacri privi di un modello a priori. Opponendo tale testo alle posizioni platoniche del Filebo, Derrida sposa la logica dell’après-coup di Mallarmé, mostrando la posteriorità del modello, il suo avvenire effettuato dalla mimesis63. La mimesis è dunque una produzione, tesi centrale anche del saggio Econo62

Ivi, p. 214. Cfr. J. DERRIDA, Après-coup, in S. Mallarmé, Poesie, trad. it. di P.Valdunga, Mondadori, Milano 1991, pp. 215-235. Sulla mimesis in Derrida e in generale sulla sua lettura decostruzionista di Platone, con importanti riferimenti alla lettura di Deleuze, Nietzsche, Heidegger, si veda M. VERGANI, Dell’aporia. Saggio su Derrida, Il poligrafo, Padova 2002, pp. 141193. 63

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mimesis64. In questo testo Derrida evidenza, seguendo la terza critica kantiana, l’unica imitazione possibile: quella di una natura naturans. La mimesis imita l’inimitabilità della natura.

Democrazia e immanenza La produzione mimetica, che è essenzialmente produzione ogni volta singolare di singolarità, sarebbe legata alla reinterpretazione, operata da Derrida, della chora platonica. Reinterpretazione che ha diretto tutto il suo pensiero65 verso un pensiero della democrazia, e della democratizzazione, come la logica stessa della singolarità. Derrida stesso ammette che il suo interesse verso Platone e il mondo greco è stato sempre rivolto in modo non marginale a una riflessione radicale sulla democrazia e alla sua particolare forma di sovranità66. Il rovesciamento del platonismo operato da Derrida è anche e soprattutto un rovesciamento di quella condanna della democrazia che ha accompagnato in vario modo tutta la filosofia politica occidentale. Prima di diventare uno dei temi chiave del suo pensiero, il problema del “democratico” era già emerso nella decostruzione della farmacia platonica, nella riabilitazione ontologica della scrittura: Disponibile per tutti e per ognuno, offerta sui marciapiedi, la scrittura non è forse essenzialmente democratica? Si potrebbe paragonare il processo alla scrittura a quello della democrazia, come viene istruito nella Repubblica. Nella società democratica, non c’è alcuna preoccupazione delle competenze, le responsabilità sono affidate a chiunque.[…] Questo democratico errante come un desiderio o come un significante affrancato dal logos, questo individuo che non è nemmeno regolarmente perverso, che è pronto a tutto, che si presta a tutti, che si dà in ugual misura a tutti i piaceri, a tutte le attività, e perfino anche alla politica e alla filosofia […] questo avventuriero, come quello del Fedro, simula tutto a caso e non è in realtà nulla. Abbandonato a tutte le correnti, è della massa, non ha essenza, né verità, né patronimico, né

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J. DERRIDA, Economimesis, in AA. VV., Mimesis des articulations, AubierFlammarion, Paris 1975, trad. it. di F. Vitale, Economimesis, Jaca Book, Milano 2005. 65 Cfr. J. Derrida, Voyous, Galilée, Paris 2003, trad. it a cura di L. Odello, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, p.14. 66 Cfr. J. Derrida, Nous autres grecs, cit., p.265.

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Capitolo II costituzione propria. Come l’uomo democratico è privo di carattere proprio così la democrazia non è una costituzione67.

Per Derrida, la democrazia e l’ideale stesso della democrazia “si definiscono attraverso questa mancanza del proprio e dello stesso […] non esiste idea assolutamente intelligibile, non esiste eidos, non esiste alcuna idea della democrazia. In fondo, non esiste nemmeno un ideale democratico”68. Essa è legata, come al suo più intimo dispiegarsi, alla différance, al “di volta in volta” della differenza: « […] la democrazia è différantielle, essa è différance, rinvio e spaziamento. È per questo che, lo ripeto, il motivo dello spaziamento, dell’intervallo e dello scarto, della traccia come scarto, del divenire-spazio del tempo e del divenire-tempo dello spazio, gioca un simile ruolo, fin dalla Grammatologia e nel saggio La “différance” »69. La democrazia non è separabile, per Derrida, da un’ospitalità incondizionale, venuta dell’altro oltre ogni teleologia dell’evento. A tal proposito Derrida sottolinea come una tale ospitalità si articoli sempre a partire da una certa scena platonica, da una venuta dell’estraneo che costringe a pensare e rispondere della sua irruzione 70. È all’interno di questa continua donazione, di questa datità singolare, che qualcosa come un “soggetto” può manifestarsi, come responsabilità, testimonianza. La soggettività trascendentale lascia posto a un orizzonte scrittorio, radicalmente democratico, empirico-trascendentale, e ritorna in modo singolare a riappropriarsi della sua natura animale 71. La questione dell’animalità attraversa tutto il pensiero di Derrida proprio in virtù di un rispondere inanticipabile che controeffettua la datità dell’evento.

67

J. DERRIDA, La farmacia di Platone, cit., pp. 172-173. Ivi, pp. 64-65. 69 Ivi, p. 66. 70 Cfr. J. DERRIDA, De l’hospitalité, Calmann-Lévy, Paris 1997, trad. it. di I. Landolfi, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, pp. 40-58. 71 Cfr. J. DERRIDA, L’animal que donc je suis (à suivre), in Aa. Vv., L’animal autobiographique, Galilèe, Paris 1999; trad. it. di G. Motta, L’animale che, dunque, sono.(segue), in «Rivista di Estetica», XXXVIII, 8, 1998, p. 29. Ora in J. DERRIDA, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006. 68

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Abbiamo tentato altrove una dettagliata analisi di questo tema, che avvicina molto Derrida a Deleuze72. Tuttavia per non allontanarci da un discorso ontografico, è opportuno sottolineare come il soggetto, se ce n’è, sia un soggetto dell’evento, sempre iscritto entro un orizzonte dell’evento assoluto, ovvero di eredità inanticipabile. Un soggetto che non è più subjectum, ma, per usare una felice formula di Derrida un surjet, un so(vra)getto, qualcosa che si costituisce a partire da innesti, da avvenimenti, su un piano di iscrizione trascendentale, come effetto di scrittura73. Un soggetto, un “io” è colui che “apprendre à vivre” , un soggetto qualunque che si caratterizza nelle sue espressioni, restando sempre nei paraggi dell’identità, sui suoi bordi, dove accadono le singolarità. Proprio riflettendo su tale datità, Derrida fornisce un’acuta riflessione sui rapporti tra soggettività e singolarità. A partire proprio dalla data, cifra dell’evento, dalla possibilità di datare e di essere datati: In che data ci scriviamo, di quali date ci appropriamo, ora, ma anche, in modo più ambiguo, rivolti verso quali date a venire ci scriviamo, ci trascriviamo? Come se scrivere à une date, in una data, significasse scrivere non solo il giorno tale, alla tal ora, in tal data, ma anche scrivere à la date, alla data indirizzandosi a lei, destinarsi alla data come all’altro, la data passata come la data promessa74.

Nell’attenta lettura della poesia di Celan, Derrida formula delle tesi sul concetto di singolarità per noi preziosissime: la singolarità pura è ogni volta interrotta, esposta, dalla ripetizione delle singolarità. Una singolarità apre su altre singolarità: esprime, secondo una controeffettuazione dell’impressione dell’evento della data: Occorre che questa marca chiamata data si s-marchi in modo singolare, si distacchi da quello che lei data; e che in questo smarcarsi, in questa stessa deportazione diventi leggibile, leggibile come data, precisamente, strappandosi o sottraendosi a se stessa, alla sua aderenza immediata, al qui-ora; eman72

Cfr. T. ARIEMMA, Il nudo e l’animale, Editori Riuniti, Roma 2006, pp. 25-57. Cfr. J. DERRIDA, La disseminazione, in La disseminazione, cit., pp. 361. 74 J. DERRIDA, Schibboleth – pour Paul Celan, Galilée, Paris 1986, trad. it. di G. Scibilia, Schibboleth – per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1991, p. 16. 73

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Capitolo II cipandosi da ciò che tuttavia resta, una data. Occorre che in lei il nonripetibile (unwiederholbar) si ripeta, cancelli in sé la singolarità irriducibile che denota. Bisogna che in un certo modo si divida ripetendosi, e così si cifri o si cripti. Come la physis, una data ama criptarsi75.

Esposto all’evento, e alla sua ripetizione, un soggetto si costituisce, dunque, in una democrazia non intesa come costituzione politica determinata, bensì come orizzonte costituente, accadere di eventi e singolarità, orizzonte che ha non poca prossimità con ciò che Deleuze ha chiamato piano di immanenza o campo trascendentale. Deleuze, infatti, intende per piano di immanenza proprio un orizzonte democratico assoluto che verrebbe occultato da Platone e dalla sua teoria delle idee: […] quel che Platone rimprovera alla democrazia ateniese è il fatto che tutti pretendono qualsiasi cosa; da qui il suo tentativo di ripristinare criteri di selezione fra rivali. Dovrà erigere un nuovo tipo di trascendenza, diversa dalla trascendenza imperiale o mitica (benché Platone si serva del mito attribuendogli una funzione speciale). Dovrà inventare una trascendenza che si esercita e si situa nel campo d’immanenza stesso: questo è il senso della teoria delle Idee. E la filosofia moderna continuerà, a questo riguardo, a seguire Platone: incontrare una trascendenza in seno all’immanente in quanto tale. Il dono avvelenato del platonismo consiste nell’aver introdotto la trascendenza in filosofia, nell’aver dato alla trascendenza un senso filosofico plausibile (trionfo del giudizio di Dio).76

Proprio sul terreno del democratico, come immanente ripetizione di singolarità, i due pensatori convergerebbero in modo inaudito, al contrario di quanto sostiene Agamben, che con uno schema molto sommario e discutibile separa Deleuze da Derrida, inserendo il primo entro il filone dell’immanenza e il secondo in quello della trascendenza77. In entrambi i filosofi emerge un pensiero dell’esposizione: il piano d’immanenza, l’orizzonte della democrazia sono nomi dell’esposizione diffusa. 75

Ivi, p. 27. G. DELEUZE, Critique et clinique, Minuit, Paris 1993, trad. it. A. Panaro, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, p. 178. 77 Cfr. G. AGAMBEN, L’immanenza assoluta, cit., p. 403. 76

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La vita di cui parla Deleuze è una vita esposta78: l’individualità, l’identità, è sempre esposta rispetto alle singolarità che la costituiscono, e che sono i suoi esponenti. Una logica della singolarità coincide con una logica dell’esposizione, in quanto l’iscrizione è ciò che espone. L’empirismo trascendentale è un’esposizione trascendentale. Filosofi dell’irruzione, dunque filosofi dell’esposizione, Deleuze e Derrida avviano un pensiero affermativo dell’esposizione, e non negativo come accade invece nel regime disciplinare platonico. Da sempre la filosofia, e in modo compiuto nel sistema hegeliano, ha considerato l’esposizione come un momento necessario, ma reintegrabile, rimediabile. Si tratta, invece, di pensare l’esposizione come l’insuperabile, come l’orizzonte stesso di ogni esperienza.

Derrida e la logica della singolarità È necessario tuttavia sottolineare, a questo punto, una certa indigenza nell’opera di Derrida, per certi versi analoga a quella riscontrata in Deleuze. La diffidenza di Derrida verso ogni forma di comunità o di essere comune79 in un certo senso gli impedisce di sviluppare la questione dell’essere-con e della con-divisione, che pure la sua indagine implica. In più luoghi della sua opera, infatti, Derrida ha manifestato la necessità di un pensiero della condivisione, anche se in un modo titubante. Esemplare di questa titubanza è la seguente affermazione: «La disidentificazione, la singolarità, la rottura con la solidità identitaria, lo s-legamento [dé-liaison] mi sembrano tanto necessari quanto il contrario»80. 78

Cfr. G. Deleuze, L’immanenza: una vita, cit. p. 6. In diversi momenti della sua opera Derrida è certo chiarissimo: «Non ho mai potuto scrivere la parola “comunità”» (J. DERRIDA, Politiques de l’amitié, Galilée, Paris 1994, trad. it. parz. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p.360); «esiterei a servirmi della parola “comunità”. È un termine al quale ho sempre resistito» (J. DERRIDA, B. Stiegler, Échographies de la télévision, Galilée, Paris 1996, trad. it. di L. Chiesa e G. Piana, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 72.); «Se ho sempre esitato di fronte a questa parola, è che troppo spesso vi risuona il comune, il come-uno» (J. DERRIDA, “Ho il gusto del segreto”, in J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, p.23). Su questa tematica è secondo noi prezioso il lavoro di C. RESTA, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati-Boringhieri 2003. 80 J. DERRIDA, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 74. 79

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Capitolo II

Il discorso di Derrida intorno alla democrazia non implica forse la con-divisione, fosse anche la condivisione paradossale di ciò che non si può condividere? Tutta l’attenzione dedicata all’ospitalità, alla venuta dell’altro implicata nella struttura dell’iscrizione, non pone forse la necessità di una condivisione radicale, che risulti differente da ogni comunione omologante, non comunitarista? Non è forse significativa l’affermazione di Derrida secondo cui «vivere è vivere con»81?. È, paradossalmente, l’apparente spettro dell’aporia a frenare Derrida, avendo sostenuto, in un certo senso diversamente da Deleuze, la necessità e la sovranità della frattura, dell’interruzione, del rinvio piuttosto che il continuum della differenza? La condivisione dell’interruzione è forse la negazione di quest’ultima? La diffidenza di Derrida verso ogni forma di comunità non gli impedisce, tuttavia, di riconoscere in un pensatore come Jean-Luc Nancy uno sviluppo felice della problematica della condivisione, compatibile con il suo pensiero dell’iscrizione: Mi servirò quindi, come ha fatto Jean-Luc Nancy in Le partage des voix, di questa parola condivisione che dice tanto la differenza, la linea di demarcazione o lo spartiacque, la scissione, la cesura, quanto, d’altra parte, la partecipazione, ciò che si divide perché vi si comunica o lo si ha in comune, a titolo di appartenenza.82

Jean-Luc Nancy, lungi dal porsi come una vera e propria sintesi all’interno della nostra ricerca, sembra invece fornire il tassello mancante per una logica della singolarità, che pensi quest’ultima a partire dalla ripetizione, dall’iscrizione originaria e, come vedremo nel prossimo capitolo, dalla con-divisione.

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J. DERRIDA, Politiche dell’amicizia, cit., p. 32. J. DERRIDA, Schibboleth, cit, p. 48.

Capitolo III Nancy: la condivisione dell’esposizione

Il senso dell’esposizione L’iscrizione si è rivelata la struttura stessa dell’esposizione, ovvero la condizione della venuta del singolare. Platone ha colto, prima che pensatori come Deleuze e Derrida ne sviluppassero poi le conseguenze essenziali, l’orizzonte dell’esposizione, della vulnerabilità dell’identico, inseparabile da ogni sua manifestazione. Tuttavia lo ha colto con l’esplicito compito di tentarne una risoluzione, una cura. Melete thanatou, suona l’imperativo fondamentale enunciato da Platone nel Fedone: abbi cura della morte. Non è un caso che alcuni significativi dialoghi platonici parlino di una cura verso chi sta per morire. La scrittura stessa incarna questo stato, del morto-vivo, della vita differita, del fantasma. Bisogna prendere in cura l’iscrizione, e tutto ciò che ha finora implicato, per non lasciare che la morte (che è sempre morte dell’identità, della presenza) prenda il sopravvento. Abbiamo già visto, nel precedente capitolo, come questa cura si esplichi attraverso un’immunizzazione, ovvero in un’incorporazione. Platone coglie che l’esposizione è il problema dei problemi, poiché essa mette a rischio l’identità, e tutto quello che rientra nel dominio della presenza. Come traspare nelle letture di Deleuze e Derrida avanzate nei capitoli precedenti, Platone è un filosofo del segno, ma soprattutto un filosofo del significato, poiché il segno, il buon segno, è tale se indica un presente-passato, ideale, incorruttibile, differente dalla sua copia imperfetta, sensibile. Ecco allora emergere, come abbiamo mostrato nei

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Capitolo III

precedenti capitoli, nelle loro filosofie, una dimensione del senso distinta dal significato. Tuttavia, solo nel pensiero di Jean-Luc Nancy tale nuova dimensione del senso è indiscernibile dalla problematica dell’esposizione esplicitamente posta come tema. Solo con Nancy, infatti, la struttura dell’esposizione, come logica della singolarità, diviene la questione fondamentale. E lo diviene riconnettendosi al motivo profondo, inaugurato da Deleuze e Derrida, di pensare insieme senso, evento e singolarità al di là della significazione, al di là cioè del senso significato, presente a distanza, puro, promosso dal platonismo. Così Nancy sintetizza quanto detto: La realtà planetaria […] ci mostra che siamo un po’ più esposti al limite. Filosofare non significa riattivare i segni e i significati che stanno già consumandosi in questa esposizione. Significa piuttosto pensare l’esposizione stessa. La filosofia si definisce, probabilmente fin dal suo inizio, come desiderio o volontà di significare, ma essa si determina anche, e fin dal suo inizio, secondo l’esigenza di un senso in eccesso sul significato1.

Nancy tiene spesso a ricordare che il recupero di un senso al di là del significato non è in vista di un pienezza, o di un altro tipo di significato. Come ribadisce in una delle sue opere più mature e cioè Le sens du monde: Il rischio dialettico salta agli occhi: trarre dall’annientamento dei significati la risorsa di un significato superiore. La dialettica è sempre il processo di una sovra-significazione. Ma in questo caso, non si tratta di significato. Deve trattarsi del senso in quanto non significa – e non perché si tratterebbe di un significato talmente superiore, sublime, ultimo o rarefatto che nessun significante arriverebbe a presentarlo, ma la contrario perché si tratta del senso in quanto è anteriore a tutti i significati, li pre-viene e li sor-prende tutti, rendendoli possibili, formando l’apertura della significanza generale (o del mondo) nella quale e secondo la quale è dapprincipio possibile che si producano dei significati2.

1 J. -L. NANCY, L’oubli de la philosophie, Galilée, Paris 1986, trad. it. di F. Ferrari, L’oblio della filosofia, Lanfranchi, Milano 1999, p.81. 2 J. -L. NANCY, Le sens du monde, Galilée, Paris 1993, trad. it. a cura di F. Ferrari, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997, p. 21.

Nancy: la con-divisione dell’esposizione

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Secondo Nancy, noi siamo nell’elemento del senso3, dove il senso è fondamentalmente apertura e l’essere al senso una passività. Si è, dunque, nell’elemento(comune a Deleuze e Derrida) dell’iscrizione4. Significativa per noi è la sua affermazione: «io sono una sorta di bastardo tra Deleuze e Derrida, con anche qualche seme di altri»5. In una nota di Le sens du monde6, Nancy riconosce la sua affinità sia con la posizione di Deleuze sia con quella di Derrida in merito al “senso del senso”. È Nancy stesso a descrivere in modo pregnante il pensiero-trittico della singolarità. Il senso è l’essere-a dell’essere, l’extra-essere dell’essere di cui parla Deleuze, la spaziatura e l’irruzione di cui parla Derrida. Nancy vede pertanto connessi questi ultimi sotto un segno epocale, come il diritto e il rovescio di una medesima insistenza. Il senso è sia il molteplice virtuale, sia l’apertura a tale molteplice. Il senso è iscrizione da parte a parte, il che fa dire a Nancy che il senso è strutturato come mondo7: Mondo vuol dire almeno essere-a, vuol dire rapporto, relazione, indirizzo, invio, donazione, presentazione a – non fosse che a degli essenti o esistenti gli uni agli altri. Sappiamo categorizzare l’essere-in, l’essere-per o l’essereattraverso, ma ci resta da pensare l’essere-a o la a dell’essere, il suo tratto caratteristico ontologicamente mondano e mondiale. Così, mondo non è soltanto correlativo di senso: è strutturato come senso. E reciprocamente senso è strutturato come mondo. In definitiva “il senso del mondo” è un’espressione tautologica. 8

Il confronto con Heidegger, ossia con il filosofo che ha posto non solo la questione del senso dell’essere, ma anche quella dell’esserenel-mondo, è imprescindibile e quasi tutte le opere di Nancy contengono un riferimento critico all’opera del pensatore tedesco. Come è 3

J. -L. NANCY, L’oblio della filosofia, cit., p. 98. Cfr. ivi, pp. 111-113. 5 J. -L. NANCY, Dialogo con Jean-Luc Nancy, in Av.Vv, Incontro con Jean-Luc Nancy. Annuario dell’Associazione degli Studenti di Filosofia. Università degli Studi di Milano, Cortina, Milano 2001, p. 34. Ora in Id., Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, a cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, ombre corte, Verona 2008. 6 J. -L. NANCY, Il senso del mondo, cit., p. 237. 7 Ivi, p. 17. 8 Ibidem. Su questi temi Cfr. A. CROSTA, Jean-Luc Nancy: dal problema del senso al problema della libertà, «Quaderni di Acme», 60, 2003, pp. 307-340. 4

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stato giustamente osservato: «Nancy, in un certo senso, radicalizza, o per usare un’espressione di Jürgen Habermas, tenta una sprovincializzazione definitiva del pensiero di Heidegger […] La radicalizzazione del pensiero heideggeriano operata da Nancy (cui non è estranea l’influenza di Hannah Arendt) consisterebbe allora in questo: nello spingere fino in fondo la svolta heideggeriana verso il carattere eventuale dell’essere-al-mondo»9. Svuotato del suo contenuto metafisico – in quanto considerato come apertura, frattura, accesso – il senso è ciò che consente tutti i suoi slittamenti concettuali (senso estetico, semantico, direzionale etc..): è il senso di tutti i sensi, al di là del regime unico che impone la significazione, ovvero la gerarchia tra un sensibile e un intelligibile. Notando come già Hegel nell’Estetica sottolineasse come senso fosse una parola mirabile, poiché indicava sia gli organi dell’apprensione immediata sia il significato della cosa10, Nancy afferma che questi due sensi presentano, in verità, lo stesso senso. Questa singolarità nella lingua svela una dimensione costitutiva dell’esistenza, e cioè, ancora una volta, il suo essere sensata in quanto esposta. Il cammino intrapreso da Nancy, in merito alla questione del senso, sulla scia soprattutto di Derrida, è dichiaratamente antifenomenologico, nel senso husserliano del termine. Per Nancy, infatti, la fenomenologia non apre ciò che, del senso e di conseguenza del mondo, precede infinitamente la coscienza e l’appropriazione significante del senso, cioè non apre a ciò che precede e sorprende il fenomeno del fenomeno stesso, non apre alla sua venuta e al suo sopraggiungere. In un certo senso la fenomenologia non parla d’altro: dell’apparire. Ma poiché ci convoca alla presenza pura dell’apparire e dunque ancora a vederla, malgrado tutto essa non è ancora, o non ancora abbastanza, l’essere o il senso dell’apparire11.

L’essere al senso è, dunque, un fare corpo con il senso, con la sua venuta ogni volta singolare. Non vi è senso se non grazie alle singolarità che lo comunicano, iscrivendolo, iscrivendoci. La questione è 9

B. MORONCINI, Mondo e senso. Heidegger e Celan, Cronopio, Napoli 1998, pp.12; 14. J. -L., NANCY, Hegel. L’inquiétude du négatif, Hachette, Paris 1997, trad. it. di A. Moscati, Hegel. L’inquietudine del negativo, Cronopio, Napoli 1998, p. 65. 11 J. -L. Nancy, Il senso del mondo, cit., p. 28. 10

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dunque quella della singolarità di un con, e del con come essenza della singolarità.

L’insieme singolare Nancy sviluppa tale questione a partire da una lettura decostruttiva dei dialoghi platonici. Del resto è la caratteristica del suo antiplatonismo, che si appropria in maniera decostruttiva di motivi platonici fondamentali. La stessa questione del senso, centrale nel pensiero di Nancy, riprende esplicitamente il motivo platonico dell’epekeina tès ousias12, dell’al di là dell’essenza e dell’essere, motivo spesso fatto proprio anche da Derrida13. Il senso per Nancy è l’agathon greco inteso come eccesso (agan significa troppo, molto), eccellenza. Come Deleuze e Derrida, Nancy sottolinea in Platone ciò che deborda dalla dottrina, come un suo momento costitutivo. Esplicitandolo fin dalle prime pagine del suo testo Le ventriloque, testo dedicato ad una serrata analisi del Sofista platonico, il suo lavoro prende le mosse da Nietzsche e da Derrida, in particolare dall’analisi della farmacia platonica: «Il programma è delineato a partire da Nietzsche […] e da Derrida – cioè, dall’analisi generale della farmacia platonica, che comanda il sofistico e il mimetico, e da quella della mimesis come struttura e funzioni doppie, “saldate” alla dialettica»14. Attraversa tutta la lettura di Nancy del Sofista una riflessione decostruttiva della somiglianza. Il problema di Platone, secondo Nancy, è quello di risolvere la somiglianza, di districarla, o meglio, il problema sarà quello di risolvere ciò che la somiglianza implica. Il sofista somiglia al filosofo, diversi Socrate partecipano all’interno dei dialoghi platonici, convocando così anche la questione dell’omonimia. Vi è certo un tramare, una composizione che deve essere districata. Ma tutto conduce, invece, a un essere-con inestricabile, nonostante il tentativo platonico sia quello di separare, dividere, per giungere al non divisibile, all’individualità individuata. Come acutamente nota Nancy, 12

Ivi., p. 67. Cfr. J. DERRIDA, Nous autres grecs, cit., p. 259. 14 J. -L. NANCY, Le ventriloque, in AA. VV., Mimesis des articulations, AubierFlammarion, Paris 1975, trad. it. di F. Palese, Il ventriloquo, Besa, Lecce 2003, p. 11. 13

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l’ideologia platonica è un’atomistica8. E tuttavia, il sofista sembra resistere a questo setaccio e addirittura trionfare: […] Il sofista trionfa. Non perché ha la tesi più forte, ma perché non c’è tesi sostenibile su di esso, sulla mimesi. L’ “idea inestricabile” di Mimesi risiede nel “luogo inestricabile” […]dove il sofista si è istallato con un’astuzia totale. […] Appena ha luogo, del resto, perché per poco che ci si provi a rispondere al sofista - di cogliere la mimesis- si cade su un intreccio, symplokè, bizzarro, atopico […]15.

Mimesis e symplokè sono i concetti chiave intorno ai quali ruota l’appropriazione decostruttiva del dialogo platonico. In particolare, l’attenzione verso la symplokè mostra come questa lettura del Sofista si ponga esplicitamente sulla scia della lettura derridiana di Platone avanzata nella Farmacia, dove il problema della symplokè appare e scompare nel giro di qualche rigo a proposito della questione del politico16. Sia la mimesis che la symplokè dicono la dimensione costitutiva dell’essere: il con, inestricabile. La diairesis platonica tende a discernere, a disfare, per ricomporre la trama delle individualità. Platone vuole fare della symplokè, dell’intreccio, un organismo, mediante appunto quel processo di autenticazione e divisione che la diairesis impone. Che ci sia dell’indiscernibile: è questa la minaccia che annuncia la mimesis e ciò che la fonda, ovvero la methexis, l’essere-con. Figura emblematica di questo essere-con, della symplokè irriducibile, è quella del ventriloquo, che descrive la singolare economia del Sofista: […] il logos è così esso stesso la symplokè della sua voce e di un’altra voce in sé che dice ciò che si stabilisce qui di lui; in ogni discorso, una voce recita il Sofista. La sua economia è un ventriloquio; […] il ventriloquo è la buona mimesi della potenza propria del logos, ne è l’omologia. Ma egli è ancora di più, o lo è a più di un titolo. Euricle - è il solo nome proprio che si trova nel Sofista, insieme a quelli di Omero e di Parmenide – era un celebre ventriloquo, il cui nome è divenuto in qualche modo il patronimico di questa professione. Aristofane lo nomina nelle Vespe […] Ma Euricle non è un per8

Cfr. ivi, p. 28. Ivi, p. 49. 16 Su ciò si veda l’acuta analisi in S. REGAZZONI, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, Il melangolo, Genova 2006, pp. 170-180. 15

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sonaggio (o un autore) comico. È un indovino e la voce del suo ventre è quella del suo demone […] Come tutti gli indovini […] Euricle rischia di essere un ciarlatano, una parodia ambulante di Delfi. A Delfi, la Pizia riceveva il dio nel suo ventre, qui il ventre imita Apollo. Che cosa è vero, che cosa è falso qui? Chi parla, in qualche modo?17

Euricle il ventriloquo è il paradigma dell’arte mimetica, dell’intreccio non dominabile. Ciò che nel Sofista, secondo Nancy, si troverà costantemente minata sarà la garanzia dell’autenticità, affiancata costantemente da dubbi mimetici. La tesi di Nancy a proposito del Sofista sarà, dunque, l’impossibilità di rendere immune dalla mimesis del sofista, dall’esposizione al falso, all’alterazione, ciò che si vuole identico. L’intrusione nell’altro è irriducibile. Ciò che è primo è il ventriloquio, il rinvio ad altro per essere sé, il differimento come elemento genetico. Chi parla, parla sempre per qualcun altro 18. Ciò che si ripete nel dialogo platonico, e in mondo particolare, come mostra Nancy, nel trittico Teeteto, Sofista, Politico, è qualcosa che sembra lo stesso, se stesso, l’uguale che ritorna: ma ciò che si produce è solo un’illusione. Così Nancy sottolinea un tale gioco, partendo dal Teeteto “nel” Sofista: Ora Teeteto, qui all’incontro, che sta per dare la replica allo Straniero di Elea dopo averla data a Socrate, somiglia a Socrate. È anche su questa somiglianza (quanto alla bruttezza del viso) che si è aperto il primo dialogo, e che si è chiuso (circa il vuoto di scienza). Teeteto all’incontro è quasi la replica di Socrate. Ma sta per riservarsi la possibilità di fare appello, in caso d’aporia, all’omonimo di Socrate, Socrate il Giovane (218 b). Un terzo Socrate dunque, muto come il primo sino al Politico (ma con il quale il secondo Socrate, Teeteto, discuteva alla vigilia: Teeteto 147 c). Questi due giovani sono davanti allo Straniero come Socrate giovane – sta per ricordarlo (217 c) – fu un tempo davanti a Parmenide, al momento dell’incontro di cui Cefalo riferisce altrove (è il Parmenide) il racconto fatto da Antifone.19

17

J. -L. Nancy, Il ventriloquo, cit., pp. 57-59. Cfr. ivi, p. 18. 19 Ivi, p. 19. 18

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I dialoghi platonici comunicano, e l’autonomia del dialogo è già da sempre minacciata. Si ripete solo la differenza, come movimento di differenziazione, come pure l’intreccio. Tutto ciò a cui si perviene è il necessario contagio delle figure, l’impossibilità stessa del proprio. La pretesa della dialettica platonica è di separare ciò che si separa, una pretesa già sempre superata dal suo oggetto, in cui la separazione dice soprattutto il rapporto, il contatto, il differenziarsi, che si origina sempre da un “fuori di sé”. Anche la presenza a sé, nel suo a sé, è già da sempre partenza, divisione. La condivisione è originaria e la dialettica la rincorre inutilmente nel tentativo di agguantarla e di organizzarla. Tutto Le ventriloque può essere visto, infine, come la preparazione alla lettura, compiuta da Nancy, in Le partage des voix, di un altro dialogo platonico: lo Ione. Nell’analisi di Nancy viene discussa la nozione di ermeneutica. Come riprenderà Nancy in una nota di questo testo, Euricle, paradigma della mimesis, è una sorta di ermeneutes20. La questione del singolare insieme è ciò verso cui ci indirizza tale disamina del dialogo platonico che, come candidamente ammette Nancy, «sono pagine, strappate ad un insieme inesistente e nondimeno appena distratte da ciò che dovrebbe essere, per ampiezza, un vero e proprio libro sull’hermeneia»21. Critico dell’ermeneutica nel senso avanzato da Gadamer, il testo si sofferma in primo luogo sulla definizione che prima ne dà Heidegger in In cammino verso il linguaggio, dove il filosofo tedesco cita il dialogo platonico Ione, come luogo in cui compare il termine greco hermeneia, nel senso dell’annuncio e non nel senso di un’interpretazione del significato di un testo. Inevitabilmente, l’analisi di Nancy, da Heidegger passa al dialogo platonico. Discutendo la nozione di hermeneia, così come è impiegata da Platone, Nancy fa luce su una singolare natura del comprendere e dell’interpretazione, nel senso indicato da Heidegger dell’annuncio. Il comprendere diviene così, innanzitutto, un tenere insieme, un com-prendere, e l’interpretazione un’inter-pretazione, un essere-con, 20

J. -L. Nancy, Le partage du voix, Galilée, Paris 1982, tr. it. di A. Folin, La partizione delle voci, Il poligrafo, Padova 1993, p. 79. 21 Ivi, p. 11.

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ogni volta singolare. Nella scena platonica, Ione è un rapsodo che interpreta solo Omero. Socrate non sa perché. Evidentemente per Ione nessuno è come Omero: egli è singolare. Ma ancora di più lo è Ione, perché in modo singolare afferma questa singolarità. Implicitamente, Nancy ci indirizza verso un concetto fondamentale per una logica della singolarità: non vi è mai una sola singolarità. Come affermerà in Le sens du monde: Non c’è solamente una cosa al mondo, ed è così che c’è qualcosa (o alcune cose). Se non ce ne fosse che una, non ci sarebbe che un tempo puro, durata immobile. Ma ce n’è più d’una, il che non significa soltanto che ce ne sono più volte una, ma che ce n’è più d’una – il plurale del singolare che è a sua volta, sempre e di un sol colpo, plurale (singuli, poiché “singulus” non esiste) – il più d’uno è quel più che uno nel presente dell’uno, il suo eccesso che lo distanzia in sé da sé22.

Così una voce, una voce singolare come quella di Ione, porta con sé altre voci. Questa con-divisione che non fonde, ma che dà luogo piuttosto a uno spartito, è ciò che Nancy chiama partage. A dare l’impulso a Ione verso Omero, dice Nancy riprendendo Platone, è una forza divina, una forza magnetica e ipnotica. Come quella della voce del rapsodo, ogni singolarità è fuori di sé, e di conseguenza al di là dell’individuo. Giustamente Nancy tiene a sottolineare, in una nota di uno dei suoi testi fondamentali23, che la singolarità deve essere soprattutto intesa nel senso della sorpresa, della frattura, e dunque dell’incalcolabile. In questa nota egli prolunga le tesi di Deleuze, circa l’impersonalità e la preindividualità della singolarità, proprio marcando il carattere di imprevedibilità e soprattutto di intrusione del singolare: la singolarità è inseparabile dall’essere-con. Ritornando all’abilità di Ione, la sua voce mette in con-divisione, rende il proprio indecidibile, crea il ventriloquio, l’affermare un altrove nel sé, la voce di Omero. Ma la partizione delle voci descrive anche e soprattutto un orizzonte scrittorio. Come afferma Nancy, esplicita22

J. -L. NANCY, Il senso del mondo, cit., p. 86. J. -L. NANCY, L’expérience de la liberté, Galilée, Paris 1988, trad. it. di D. Tarizzo, L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000, p. 59. 23

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mente riferendosi a Derrida, la voce ha una struttura di scrittura «secondo il concetto derridiano della parola»24. Nancy, ovviamente, si sta riferendo a una voce eminentemente corporea, e non alla voce fenomenologica che Derrida ha criticato, che proprio la singolarità sonora ed espressiva della voce mirava a rimuovere. L’intreccio, la con-divisione, il più d’uno della singolarità (della voce in tal caso) esprime così una dinamica scrittoria, ovvero una dinamica di penetrazioni e fuoriuscite indiscernibili, che, in quanto produzione di differenze incalcolabili, descrive anche e soprattutto l’orizzonte dell’esperienza in generale. Come afferma Nancy, in accordo con l’empirismo trascendentale di Deleuze e Derrida : L’esperienza è l’esperienza della differenza in seno all’esperienza stessa. O ancora meglio: l’esperienza è la differenza dell’esperienza, è il pericolo del limite attraversato, che è poi il limite dell’essenza (l’esistenza quindi), il tracciato singolare dell’essere spartito. L’esperienza è dunque anche la propria differanza […] la libertà […] è un’esperienza trascendentale e è il trascendentale dell’esperienza, che l’esperienza stessa è. […] Questa esperienza, benché non sia istruita da un soggetto, non è l’esperienza degli empiristi […] un’esperienza tanto empirica quanto trascendentale. O in cui il trascendentale è l’empirico25.

E ancora, esplicitamente, a proposito di Derrida, connette l’empirismo trascendentale a un orizzonte scrittorio26. Nancy, commentando Derrida, aderisce al concetto di différance, sottolineandone il carattere trascendentale e sviluppandone le implicazioni al livello della relazione. Così ciò che Nancy avanza, soprattutto a partire La communauté désoeuvrée, è una nuova logica del comune, tesa ad esplicitare, per stessa ammissione di Nancy27, ciò che ne Le partage des voix era solo annunciato.

24

Ivi, p. 89, nota 54. Ivi, pp. 90;91;93. 26 J. -L. Nancy, Une pensée finie, Galilée, Paris 1990, p. 271 : «Il y a une seule «expérience transcendentale» de l’ «écriture» : mais cette expérience fait précisémen l’epreuve de la non-identité à soi. Autrement dit, l’expérience de ce dont il n’y a pas d’expérience. L’écriture est la différence». 27 J. -L. NANCY, La communauté désoeuvrée, Burgois, Paris 19902, trad. it. di A. Moscati, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 2003, p. 67, nota 25. 25

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Ciò che Nancy apporta al concetto della singolarità è la sua essenza impropria, ossia la sua comunità, il suo essere in comune 28. Essendo la singolarità scarto, eccedenza, venuta dell’altro, essa non può ridursi alla sfera del proprio, abitandone piuttosto ogni volta il limite: La ‘singolarità’ indica proprio ciò che forma ogni volta un punto di esposizione, ciò che traccia un’intersezione di limiti, sulla quale c’è esposizione […] Essere esposto è essere sul limite, dove ci sono un dentro e un fuori e né dentro né fuori. Non è ancora essere ‘faccia a faccia’, precede lo sguardo insistente, l’attrazione, la cattura della preda o dell’ostaggio. L’esposizione è prima di ogni identificazione, e la singolarità non è un’identità: essa è l’esposizione stessa, la sua attualità puntuale.”29

Non essendo proprietà di un ente, accadendo in superficie, essa è ciò che è più comune. Ma questa comunità si distingue da ogni sostanza, visto che essa è fondamentalmente un ritrarsi dal proprio, ovvero l’esporsi di quest’ultimo. Per questo motivo la singolarità si distingue tanto dall’individualità che dalla comunione. Come evidenza Nancy, essa è la necessità dell’ogni volta una sola volta:

28 Cfr. ivi, pp. 66; 68; 123;128: «La comunità significa, quindi, che non c’è essere singolare senza un altro essere singolare e che esiste dunque ciò che impropriamente si potrebbe chiamare una ‘socialità’ originaria e ontologica, la quale, nel suo principio, va ben oltre il semplice motivo dell’essere-sociale dell’uomo (lo zoon politikon è secondo rispetto alla comunità) […] La finitezza compare, è esposta: tale è l’essenza della comunità. Gli esseri singolari non sono dati che in […] comunicazione. […] La comunicazione è il fatto costitutivo dell’esposizione al fuori che definisce la singolarità. Nel suo essere, come il suo essere stesso, la singolarità è esposta al fuori. In virtù di questa posizione o struttura primordiale, essa è a un tempo distaccata, distinta e comunitaria. […] L’essere in comune significa che gli esseri singolari sono, si presentano, appaiono, soltanto in quanto compaiono, sono esposti, presentati, o offerti gli uni agli altri. […] L’essere singolare appare ad altri esseri singolari, è comunicato loro come singolare. È un contatto, un contagio: un toccare, la trasmissione di un tremito sul bordo dell’essere[…]». Va detto che l’attenzione che Nancy ha dedicato al problema della comunità ha attirato in più luoghi la diffidenza di Derrida, che teme un ripiegamento omologante del comunitario oppure offensivo, come la storia dei primi anni del Novecento ha tristemente testimoniato. La critica che Derrida muove a volte a Nancy è piuttosto sull’uso del termine comunità, anche se ne condivide il senso. Su questo punto cfr. J. DERRIDA, M. FERRARIS, Il gusto del segreto, cit., pp. 22-23. Per una sguardo complessivo e contestualizzato del problema della comunità in Nancy rimandiamo a D. CALABRÒ, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Mimesis, Milano 2006, pp. 101-145. 29 J. -L. NANCY, La comunità inoperosa, cit., pp. 183-184.

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La singolarità – perciò distinta dall’individualità – ha luogo in questa duplice alterità della “volta”, che istaura il rapporto come un venir meno dell’identità e la comunicazione come un venir meno della comunione. Le singolarità non hanno un essere comune, ma com-paiono ogni volta, in comune dinanzi al venir meno del loro essere comune, spaziate tra loro dall’infinità di questo venir meno – per certi versi, senza alcun rapporto tra loro, ma per ciò stesse gettate nel rapporto30.

La singolarità va distinta, pertanto, in modo radicale dall’individualità, così da pensare quest’ultima come intersezione, condensazione singolare di singolarità. Come ribadisce in Etre singulier pluriel, la singolarità «non è l’individualità ma è, ogni volta, la puntualità di un «con» che annoda una certa origine di senso e la connette con un’in-finità di altre origini possibili. Essa è quindi infra- o intra-individuale, ed è allo stesso tempo transindividuale, sempre le due cose assieme. L’individuo è un’intersezione di singolarità, l’esposizione discreta – discontinua e transitoria – della loro simultaneità»31.

La singolarità è, dunque, infra-individuale, interstiziale, è ciò in base a cui gli individui si costituiscono. Non essendo appropriabile, essa è ciò in base a cui le singolarità si differenziano, è il criterio della differenziazione. Tutto questo conduce a una certa centralità del contatto e del contagio. La singolarità è plurale poiché è il bordo dell’individuo, è ciò che gli accade, la possibilità trascendentale del suo toccare altro, del suo essere fuori di sé. La singolarità coincide con l’esposizione, con il suo essere in comune. Ego sum expositus: così Nancy rovescia l’evidenza cartesiana32. L’esposizione della singolarità coincide, come abbiamo già avanzato, con il suo essere-con. Quest’ultimo concetto, di chiara provenienza heideggeriana è, tuttavia, il risultato della decostruzione del Mitsein di Heidegger. In Sein und Zeit, infatti, secondo Nancy, a tale concetto non viene accordata la dovuta centralità:

30

J. -L. NANCY, L’esperienza della libertà, cit., p.70. J. -L. NANCY, Etre singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, trad. it. di D. Tarizzo, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, p. 114. 32 Cfr. J. -L. NANCY, Ego sum, Flammarion, Paris 1979. 31

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Heidegger, pur avendo sentito con forza la necessità dell’originarietà del con (probabilmente è stato il primo, dal tempo del rapporto fra le coscienze che costituisce il soggetto hegeliano, ad aver di mira questo punto in maniera così netta), ha tuttavia cancellato la possibilità che apriva: quella di pensare il con proprio come lui stesso suggeriva, cioè né in maniera esteriore né in maniera interiore. Né massa né soggetto. Né anonimo, né “mio”. Né improprio né proprio. Il limite, il vicolo cieco o la deviazione si sono iscritte proprio nei confronti e in virtù dell’apertura stessa del testo di Essere e tempo33.

Heidegger, per Nancy, non ha saputo essere abbastanza radicale, pur avendo indicato la direzione fondamentale da seguire: L’analitica esistenziale di Essere e tempo è l’impresa in cui ogni pensiero ulteriore resta tributario, che si tratti del pensiero stesso di Heidegger o dei nostri pensieri, quali che essi siano e qualunque sia il rapporto, di conflitto e di oltrepassamento, che vogliono stabilire con lo stesso Heidegger. Quest’affermazione non è affatto una professione di “heideggerismo”, sfugge completamente alle deboli logiche di «scuola». Essa non significa neppure che questa analitica sia definitiva, ma che essa ha semmai registrato, così com’è, la scossa sismica di una frattura decisiva nella costituzione o nella considerazione del senso (analoga, per esempio a quella del “Cogito” o a quella della “Critica”). E d’altronde per questa ragione che essa è rimasta incompiuta e continua a propagare ancora oggi le sue onde di sussulto34.

L’essere-con, che Nancy pone in tutta la sua radicalità, non può che implicare, nella sua prospettiva, la dimensione della corporeità: L’ontologia dell’essere-con è un’ontologia dei corpi, di tutti i corpi, inanimati, animati, sententi, parlanti, pesanti. «Corpo» vuol dire infatti per prima cosa: ciò che è fuori, in quanto fuori, accanto, contro, presso, con un (altro) corpo, nel corpo a corpo, nella dis-posizione. Non soltanto da un «sé» a un altro, ma anzitutto come sé, da sé a sé: in pietra, in legno, in plastica o in carne, un corpo è la spartizione e la partenza da sé, a sé, è il presso-di-sé senza il quale «sé» non sarebbe neppure “a sé stante”35.

Nell’implicazione della corporeità nell’essere-con si cela la distanza più netta dall’indagine heideggeriana, soprattutto per il suo porre 33 J. -L. NANCY, L’etre-avec de l’etre-là, «lieu-dit Revue», 19, 2003, trad. it. di A. Moscati, Il con-essere dell’esserci, in Id., Sull’agire, Cronopio Napoli 2005, p.78. 34 J. -L. NANCY, Essere singolare plurale, cit., p. 125. 35 Ivi., pp. 113-114.

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l’accento sulla corporeità di tutti i corpi, in una prospettiva, lo vedremo, radicalmente antiplatonica. La riflessione di Nancy pone, dunque, l’equazione singolarità = essere-in-comune = corpo. Accanto alla comunità della singolarità, Nancy sviluppa un’ontologia della corporeità che è nello stesso tempo una delle più originali riflessioni sulla scrittura.

Corpus, corpo senza organi, corpo erotico: non c’è “il” toccare In quello straordinario poema filosofico che è Corpus, Nancy delinea una vera e propria ontografia. In quanto esposizione, la singolarità coincide anche con l’espressione del corpo, che, lungi dal presentarsi come una proprietà di un soggetto possidente, diviene un che di inappropriabile, una res nullius. Il corpo non dice che l’essere esponente/esposta della singolarità. Per pensare in questo modo la corporeità ci si deve muovere, secondo Nancy, al di là dell’invenzione occidentale del corpo. Così viene presentata, come situazione esemplare di un nuovo statuto della corporeità, una situazione insolita: il corpo della pietra. Polemizzando con la tesi di Heidegger, secondo cui la pietra è priva di mondo e il suo toccare la terra è del tutto differente dal toccare della lucertola che vi sta sopra per prendere il sole, Nancy decostruisce lo statuto antropocentrico del contatto: Heidegger, indubbiamente, non tiene conto del peso […] della pietra che affiora o ruzzola soltanto sul suolo; del peso, del contatto della pietra con l’altra superficie e per suo mezzo con il mondo in quanto reticolo di superfici. Non coglie la superficie in generale, che non è “prima” della faccia, ma che ogni faccia necessariamente è. Di quella testa sulla quale vuole porre una mano da patriarca Heidegger dimentica prima di tutto che essa è anche la consistenza e, in parte, la natura minerale di una pietra. – Non coglie l’esposizione delle superfici, attraverso le quali, del venire, inesauribile, si esaurisce singolarmente36.

36

J. -L. NANCY, Il senso del mondo, cit., p.79.

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Come risulta evidente dal brano citato, il toccare è strettamente connesso alla superficie, connessione che riassume il senso stesso del corpo, la sua arealità. In base al toccare della pietra si dà dislocazione dei luoghi, si dà partizione, differenza, un mondo di scarti, che è il mondo in cui viviamo. Senza una moltiplicazione differenziata di contatti tangenziali, di esposizioni, non si darebbe mondo. Questo è il senso del mondo, questo è il senso stesso – tatto, contatto. Lo statuto privativo che Heidegger assegna al corpo della pietra richiama un’eredità fondamentale che Nancy non manca di sottolineare, definendo una tale scena «assolutamente platonica nell’accezione più unilaterale e “metafisica” del termine»37. Contro le gerarchie platoniche, Nancy elabora un’ontologia del corpo come corpo di nessuno, come corpo esposto. Esemplare di tale ontologia è proprio il corpo di Jean-Luc Nancy, che ha subito un trapianto cardiaco e che in seguito all’assunzione dei farmaci per impedirne il rigetto si è ammalato di cancro. In un testo toccante come L’intrus, Nancy racconta questa esperienza, dandole dignità filosofica ed esistenziale: quella del trapianto, della malattia, non è un’esperienza eccezionale. Testimonia l’intrusione permanente a cui il corpo è soggetto e che il corpo stesso è. Così «il cuore vive, batte, nel regime dell’esposizione»38. Si tratta sempre, nel corpo, di un corpo a corpo fondamentale: Il corpus sarebbe la registrazione di questa lunga discontinuità delle entrate (o delle uscite: le porte sono sempre a battenti). Sismografo dagli aghi impalpabilmente precisi, letteratura pura dei corpi in effrazione, accessi, eccessi, orifizi, pori e porte di ogni pelle, cicatrici, ombelichi, descrizioni dettagliate, pezzi e campi, corpo per corpo, luogo per luogo, entrata per entrata, uscita per uscita. Il corpo è la topica di tutti i suoi accessi, dei suoi qui/là, fort/da, va-e-vieni, inghiotti-e-sputa, inspira/espira, apri e chiudi39.

Pensando il corpo come esposizione, al di là dell’organico e dell’organismo, Nancy incontra il pensiero di Deleuze. Da premettere 37

Ivi, p. 78. J.-L. Nancy, Une pensée finie, Galilée, Paris 1990, trad. parz. di L. Bonesio e C. Resta, Un pensiero finito, Marcos y Marcos, Milano 1992, p.172. 39 J. -L. NANCY, Corpus, Métailié, Paris 1992, trad. it. di A. Moscati, Corpus, Cronopio, Napoli 2004, p. 47. 38

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è che in più occasioni, e in modo esplicito in un breve testo40, Nancy afferma una distanza da Deleuze, che a suo parere presenterebbe una filosofia senza origine e senza negatività. Ma ciò che qui si cerca di fare non è una sterile comparazione tra filosofi, poiché il nostro lavoro è guidato da un senso ben preciso: catturare un resto platonico sui generis, una logica della singolarità. In questo senso Nancy e Deleuze non sono distanti. Proprio quest’ultimo ha pensato il corpo al di là del vivente, opponendosi a tutta una tradizione fenomenologica, che ha eretto qualcosa come la “carne” in qualità di ultimo feticcio del trattamento metafisico del corpo. La “carne”, così come viene avanzata da Merleau-Ponty, ad esempio ne Il visibile e l’invisibile, è ancora vincolata ad uno psichismo, a una materia “animata”, opposta al suo corrispettivo inanimato: il corpo anatomico, il corpo degli obitori, il corpo senza vita. Opposta, va precisato, ma anche oggetto di una reversibilità: Merleau-Ponty accorda alla carne la possibilità di diventare cosa e alla cosa quella di carne. Per cui, conclude il pensatore francese, tutto è carne, come in una rinnovata versione di un’Anima del mondo, che esprime in verità l’estensione della carne, e del suo primato (ovvero del primato dell’organico, anche se ammorbidito), lasciando nell’oscurità il fatto comune del corpo qualsiasi, ovvero la sua esposizione. Nella sua monumentale monografia dedicata a Nancy, e cioè Le toucher. Jean-Luc Nancy, Derrida dedica un’ampia trattazione alla questione di ciò che chiama la «mondializzazione della carne»41, proprio all’interno del discorso fenomenologico. Il privilegio accordato alla carne è per Derrida un ritornello metafisico. Nel suo studio su Bacon, Logique de la sensation, Deleuze tematizza la viande, la carne fatta a pezzi, come ciò che svela la verità del corpo e della carne. Il suo essere composto da ossa, il suo poter divenire irriconoscibile, il suo poter essere mangiato, presentano il corpo come un essere che fugge da noi, inappropriabile, carico di forze, tale da presentarsi come una serie di soglie e di livelli. Esso riassume il senso di ciò che Deleuze chiama corpo senza organi, che è il corpo senza proprietà, percorso da intensità, agente di concatenamenti e di contaminazioni, luogo di 40 J. -L. NANCY, Pli deleuzien de la pensée, in Gilles Deleuze, Une vie philosophique, cit., trad. it. Piega deleuziana del pensiero, «aut aut», 276, 2002, p. 33 e sgg. Ora in Id., Le differenze parallele, cit. 41 Cfr. J. DERRIDA, Toccare, Jean-Luc Nancy, cit.

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intrusioni. Come un multiplo, come un insieme aperto, in perfetta sintonia con il senso del corpus di Nancy. Come quest’ultimo sottolinea: […] vi è necessariamente un avvicinamento, un incrocio tra alcune cose di Deleuze e il lavoro che io cerco di svolgere con la nozione di corpo. Sia in lui che in me c’è uno scarto rispetto al corpo fenomenologico, vale a dire al corpo proprio […] La questione è: il corpo è una ripresa del fuori come dentro – il che mi sembra più simile alla carne husserliana e merleaupontiana, vale a dire ad una materialità e vitalità della corporeità che sono oggetto di affezione da parte di se stesse e ritornano in sé come dentro - oppure, al contrario, il corpo è il fuori non di un dentro che si raccoglie in se stesso in virtù di questo fuori, ma il fuori in cui un dentro fugge a se stesso – e dunque ciò che amo definire con il termine “esposizione” – […] In questo senso, da un lato il fuori deve giungere […] fino alla viande; dall’altro, non si può che porre la questione del corpo anorganico, o senza organi. Per giungere alla questione del copro inorganico o anorganico, vorrei dire che l’idea di corpo senza organi viene da Artaud e che questo può creare nuovamente un ‘ambiguità: cioè che il corpo senza organi è anche la viande. […] L’altro esempio che mi è caro, sul quale ho già lavorato e continuo a lavorare anche adesso, è il corpo erotico. Un corpo erotico è fatto di zone, dette erogene. Ma le zone erogene non sono degli organi. 42 42

J. -L. NANCY, Dialogo con Jean-Luc Nancy, in Av.Vv, Incontro con Jean-Luc Nancy. Annuario dell’Associazione degli Studenti di Filosofia. Università degli Studi di Milano, cit., pp. 38-40. Non è qui possibile affrontare in modo esaustivo la questione della critica mossa alla svolta “carnale” della fenomenologia, propria di Deleuze, Derrida, Nancy. Ci preme tuttavia contestare una certa linea di lettura di studiosi italiani che vedono in questa critica un fraintendimento della carne, come per dire che si parla della stessa cosa. Ci riferiamo alle posizioni di Mauro Carbone, Roberto Esposito, Daniela Calabrò, che a nostro parere forzano il discorso a favore di Merleau-Ponty, non vedendo la portata decostruttiva del pensiero della singolarità. Carbone, in diversi interventi (in modo particolare a partire dall’articolo “Carne”, in «aut aut», 304, 2001, pp. 99-119; Attualità e non attualità del Leib, «Leitmotiv», 3, 2003, pp.81-91.) tende a marcare un’incomprensione della portata filosofica di Merleau-Ponty senza approfondire ciò che Derrida ne Le toucher analizza, e cioè il motivo cristiano sotteso alla valorizzazione della carne, vittima dunque di un presupposto teologico, che solo con Nancy, lo vedremo, verrà decostruito. Esposito, invece, avvicina la viande di Deleuze alla carne del mondo di Merleau-Ponty (Cfr. Bios, Einaudi, Torino 2004, p.185) manifestando purtroppo così, prima che egli parli di incomprensione del concetto di carne, un’incomprensione del testo di Deleuze, alla luce di quanto finora esposto. Da tale incomprensione del testo deleuziano, muove anche la posizione di Calabrò. Tale posizione fa propria la discutibile equazione di Esposito, peraltro in una lettura di Nancy, mettendo in bocca a Merleau-Ponty parole estranee al suo pensiero. La frase attribuita a Merleau-Ponty è infatti di Deleuze(Cfr. Dis-piegamenti, cit., p.65). Pertanto le posizioni di Carbone, Esposito, Calabrò ci sembrano viziate da diverse incomprensioni di fondo e da un non sempre pertinente riferimento ai testi. Alla carne di Merleau-Ponty, Nancy contrappone il corpo qualsiasi, perchè la carne, secondo il pensatore, è ancora troppo egologica (Cfr. Il senso del mondo, cit, p.184). In quanto traduzione del Leib hus-

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Per Nancy l’esposizione del corpo erotico è emblematica dell’esposizione stessa, ovvero della logica della singolarità. L’analisi del corpo erotico prende avvio dal suo godere, che riprende esplicitamente il non detto dell’erotica platonica, poiché «Qualcosa, che si è aperto e chiuso con il Simposio, come un appuntamento mancato, chiede ancora la sua ripetizione»43. È noto come sia nel Simposio che nel Fedro, Platone parli dell’amore e del bello come esperienza destabilizzante ed estatica. Tuttavia si è rapiti dalla misura, dall’ordine e dalla proporzione, da quello che Platone chiama il più bello dei legami (Timeo, 30 b8 – c7), che è il divenire “uno” dei differenti, il loro non essere più esposti. Un’estasi controllata, dunque, quella platonica, che fa dire a Nancy: Nel Simposio, Platone tocca i limiti, e tutto il suo pensiero vi si mostra in un ritegno che altrove non sempre conosce: tocca il proprio limite, cioè la sua scaturigine, e si fa da parte davanti all’amore (o nell’amore?) che riconosce come la propria verità, e così pensa la propria nascita e il proprio sparire, ma in questo modo pensa, rimettendosi all’amore, al proprio limite, al proprio compito e alla propria destinazione. […] Ma questo accade una volta sola, nell’inaugurazione della filosofia, e anche questa volta non è veramente accaduto fino alla fine. Con tutta la sua generosità, il Simposio esercita anche una padronanza dell’amore, o perlomeno, non si è mancato di leggervi o di dedurne, in base all’ordine e alle scelte del sapere filosofico, una verità dell’amore, che assegna la sua esperienza, gerarchizza le sue istanze, sostituendo al suo gioioso abbandono l’impazienza e il conatus del desiderio. Così, con Platone, il pensiero avrà detto e avrà mancato di dire di essere amore – e quanto questo vuol dire44.

La questione si concentra, per il filosofo francese, sull’erotizzazione, che deve essere analizzata in quanto tale, non come tramite verso ciò che, in un secondo momento, la rimuoverà. Per Nancy l’essere fuori di sé si esprime senza riserve nell’esperienza del godimento: serliano, ovvero il corpo dotato di spirito, la carne è indubbiamente caratterizzata da una carica spiritualistica che Deleuze (Cfr. Che cos’è la filosofia, cit., p. 184-185) e Derrida (Cfr. Le toucher, cit, p.245-272) non mancheranno di sottolineare. 43 J. -L. Nancy, Un pensiero finito, cit., p.175-176. 44 Ivi, p. 165.

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Godere non è più impossibile, come pretendeva Lacan, che possibile, come pretenderebbe il sessuologo. Godere non è un’eventualità che ci si aspetterebbe, che si escluderebbe o si provocherebbe. Godere non è un compimento, e nemmeno un evento (o almeno, non ha l’unità di un evento: ma forse è il paradigma dell’evento). Tuttavia, succede [arrive] e arriva [arrive] come va via, arriva andando via e va via nell’arrivare, con lo stesso battito del cuore. Godere è la traversata dell’altro. L’altro mi attraversa, io lo attraverso. Ognuno è l’altro per l’altro – ma anche per sé. In questo senso, si gode nell’altro per sé: di essere passato all’altro. È la sincope dell’identità nella singolarità 45.

Pensare in questi termini il godimento implica per Nancy anche il ripensamento dell’intimità: non più una separatezza, quasi che l’intimo sia ciò che l’individuo nasconde, la cosa più riparata. Invece l’intimità è l’esposizione che ha luogo intensamente, e il rapporto sessuale, il sessuale stesso diviene il momento in cui il sé viene maggiormente violato: Bisognerà dire allora che quel che accade nel rapporto intimo non è affatto la messa in rapporto di due intimità come due cose date da una parte e dall’altra (come se potessi avere un’intimità per parte mia, cioè a parte dell’altro): è al contrario il rapporto stesso in quanto intimità. Ma l’intimità, a sua volta, deve essere compresa secondo la sua natura propria, che è quella del superlativo: intimus, è il più intus, il più al di dentro. È il dentro rispetto al quale non c’è più dentro, più avanti o più a fondo. 46

Il corpo per Nancy esprime, dunque, l’essere esposto dell’essere47, un’indiscernibilità di iscrizione e di escrizione. Quest’ultimo termine, l’escrizione, designa l’invio, l’essere-a dell’essere, il suo scrivere nell’altro, l’impossibilità di una presenza a sé come identità, poiché l’essere-a è un clinamen, una produzione di una variazione, un’estensione: Il corpo […] viene a noi nudo, soltanto nudo, ed escritto in anticipo da ogni scrittura. L’escrizione del nostro corpo è ciò per cui dobbiamo innanzi45

Ivi, p. 105. J. -L. NANCY, L”il ya” du rapport sexuel, Galilée, Paris 2001, trad. it. di G. Berto, Il «c’è» del rapporto sessuale, «aut aut», 307-308, 2002, p. 81. 47 Cfr. J. -L. NANCY, Corpus, Galilée, Paris 1992, trad. it. di A. Moscati, Corpus, Cronopio, Napoli 2004, p.30. 46

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tutto passare. La sua iscrizione-fuori […] L’escrizione si produce nel gioco di uno spaziamento in-significante: quello che libera le parole dal loro senso, sempre di nuovo, abbandonandole alla loro estensione48.

L’escrizione è precisamente la congiuntura dell’“in” dell’iscrizione e del “con” della condivisione. Essa “estende” l’iscrizione secondo una concezione non metafisica dell’estensione, ovvero nel senso del contatto con il fuori, con il toccare altro. In Nancy l’esposizione è inseparabile da una concezione non metafisica dell’estensione. Ogni corpo è infatti esposto in quanto è esteso, pesante, areale. Con il termine escrizione viene superato esplicitamente ciò che Derrida si impediva di pensare a proposito dell’essere-con. L’essere come iscrizione è l’unica identità che si dà nell’esistenza: «l’ontologia si avvera come scrittura»49. Tuttavia, l’iscrizione, in quanto iscrizione della singolarità, è sempre escrizione, ovvero scrittura di un fuori che fa con-divisione. La scrittura è intesa, come abbiamo già detto, proprio nel senso di Derrida, come pure nel senso di ciò che è implicito in Deleuze: essa pone la centralità della superficie come luogo produttivo, in cui la coppia metafisica per eccellenza, dentro/fuori, diviene totalmente inadeguata a rendere i contatti dei corpi, il loro essere al mondo, la loro scrittura che è insieme iscrizione ed escrizione. Contatto, superficie: sono i termini chiave per questo nuovo pensiero della corporeità. Va sottolineato, a questo punto, come l’attenzione che Nancy dedica al toccare converga con il carattere epidermico del reale di cui parla Deleuze: Tutto avviene alla superficie in un cristallo che si sviluppa soltanto sui bordi. Senza dubbio ciò non vale per un organismo; quest’ultimo non cessa di raccogliersi in uno spazio interno, come pure di espandersi in uno spazio esterno, di assimilare e di esteriorizzare. Ma le membrane non sono in esso meno importanti: portano i potenziali e rigenerano le polarità, mettono preci48

Ivi, pp. 13; 59. Sul problema dell’estensione, che Nancy sviluppa soprattutto a partire da una certa lettura di Freud (Cfr. Corpus, cit., pp. 21-23), si veda F. LEONI, L’inconscio e il mondo. Jean-Luc Nancy legge Sigmund Freud, «Atque», 27-28, 2003-2004, pp. 81-106. Sul problema dell’estensione in generale, pensata non in modo metafisico cfr. parte della seconda edizione accresciuta di Corpus, Métailié, Paris 20022, pp. 107-129, trad. it. di L. Gazziero, Dell'anima, «Teoria», 17, 1997, 1, pp. 5-20. 49 Ivi, p. 18.

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samente in contatto lo spazio interno e lo spazio esterno indipendentemente dalla distanza. L’interno e l’esterno, il profondo e l’alto hanno valore biologico soltanto in virtù di questa superficie topologica di contatto50.

Sia per Deleuze che per Nancy, tutto prende avvio dal toccare, che non è mai un toccare tra individualità, quanto piuttosto un toccare che individua. Questo vale anche per Derrida, che ne Le toucher affronta tematicamente la questione sposando quasi tutte le tesi di Nancy e usandole per decostruire una certa linea di pensatori franco-tedesca che costringono il toccare entro un doppio regime di continuità e individualità. Esemplare la seguente considerazione: Continuità e indivisibilità, ecco due tratti che potrebbero aiutarci a formalizzare tutte le metafisiche del tatto, che spesso sono delle metafisiche espressamente spiritualiste, e talvolta degli “umanesimi”. A me sembra che Nancy rompa come queste metafisiche aptocentriste, o comunque ne prenda le distanze. Il suo discorso sul tatto non è intuizionista, né continuista, né omogenista, né indivisibilista. Richiama prima di tutto la divisione, la partizione, al discontinuità, l’interruzione, la cesura, la sincope. Secondo un “mio corpo” che, fin dall’apertura del gioco, si trova impegnato in una tecne tanto irridicibile alla “natura” quanto allo “spirito”. Secondo un tatto che egli sempre descrive, l’abbiamo già citato, come “locale, modalità, frattale”51.

Il bersaglio polemico per Derrida è dichiaratamente Merleau-Ponty (soprattutto la sua prima produzione), erede di una visione del corpo come corpo proprio, che presuppone dunque una proprietà individuale52. Proprio facendo leva sulle nozioni di esposizione, sincope, interruzione, che rientrano tutte in una nuova immagine della singolarità, Derrida decostruisce ogni assolutizzazione del toccare: non c’è “il toccare”, ma ogni volta si tocca qualcosa, e questo tocco è sempre singolare. Le toucher, in lingua francese, significa sia “il” toccare che toccarlo (lui, Nancy) e dunque riassume ciò che va decostruito, ovvero il toccare come proprietà, e ciò che va rilanciato e ripensato, ovvero

50

G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 96-97. J. DERRIDA, Toccare, Jean-Luc Nancy, cit., p. 201. 52 Cfr. M. MERLEAU -PONTY, Phénoménologie de la peception, cit. in Toccare, Jean-Luc Nancy, cit., p. 188. 51

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l’equazione toccare/singolarità. Non c’è toccare che non sia singolarità da parte a parte. Anche se nell’opera di Derrida non mancano critiche a un’impostazione continuista in Deleuze (in particolare a ciò che insieme a Guattari, in Mille Piani, affermano a proposito dell’aptico53), resta il comune raccogliersi intorno all’inappropriabilità del corpo, che non va pensato a partire dalla carne come interezza vivente – che cosa sarebbe allora una pietra? – quanto piuttosto a partire da penetrabilità e impenetrabilità singolari. Diviene solo ora chiara l’affermazione di Nancy secondo cui il corpo è corpo del senso: la freccia scagliata, l’arco, il suo trafiggere, il trafitto. Tutto questo è senso, tutto questo è corpo, che ha sempre un’area, o, come direbbe ancora Nancy secondo la sua singolare abilità d’inventare concetti, un’arealità.

Nudità trascendentale e decostruzione del cristianesimo A differenza di Deleuze e Derrida, Nancy afferma, tuttavia, il “nuovo corpo” e la centralità del toccare soprattutto attraverso un’originale decostruzione della tradizione del cristianesimo. Il saggio Noli me tangere54 è, a tal proposito, decisamente significativo. Attraverso la strategia decostruttiva, il cristianesimo, con i suoi elementi fondamentali, darebbe accesso, secondo il filosofo, a delle risorse che insieme occulta e custodisce e che svelerebbero verità e orizzonti tutt’altro che religiosi. Ne La déclosion55, l’opera che appare come la prima formulazione sistematica di tale decostruzione, il cristianesimo non è certamente l’epifenomeno della storia dell’essere di cui parlava Heidegger, ma un evento epocale che, portato fino alle sue estreme possibilità di senso, apre inedite possibilità per il pensiero. Inseparabile dal destino 53

Ivi, pp. 142-144. J. -L. NANCY, Noli me tangere, Bayard, Paris 2003, trad. it. di F. Brioschi, Bollati Boringhieri, Torino 2005. 55 J. -L. NANCY, La déclosion. (Déconstruction du christianisme, 1), Galilée, Paris 2005, trad.it di A. Moscati e R. Deval, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo 1, Cronopio, Napoli 2007. 54

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dell’Occidente, la decostruzione del cristianesimo è da intendersi nei due sensi del genitivo, ovvero come decostruzione del suo contesto teologico e come decostruzione messa in atto dalla sua stessa composizione. In diversi luoghi della sua più recente produzione, questo concetto, in relazione al cristianesimo, è costantemente ribadito e pensato nelle sue conseguenze 56. L’originale ricerca di Nancy non è svincolata da una logica della singolarità, anzi. È possibile pensare la moltitudine delle singolarità solo in un regime di assenza del divino e della te(le)ologia che porta con sé. Il politeismo greco e il monoteismo ebraico confluiscono nel cristianesimo, che li compone in un ateismo singolare. La “morte di Dio” è, infatti, per Nancy la logica conseguenza del cristianesimo come decostruzione del monoteismo, procedente dal monoteismo stesso. Dio è morto da molto, a partire già dalla predicazione paolina e in particolare dalla categoria teologica della kenosis, che compromettendo Dio e il mondo nel movimento dell’incarnazione, di fatto desostanzializza, denuda la divinità.

56 Cfr. J. -L. NANCY, La création du monde ou la mondialisation, Galilée, Paris 2002, trad. it. di D. Tarizzo e M. Bruzzese, La creazione del mondo o la mondializzazione, Einaudi, Torino 2003, pp.57-60: « 1) da una parte, il creatore sparisce necessariamente nel suo atto e con questa scomparsa si compie, almeno in potenza, un episodio decisivo del movimento d’insieme che già altre volte di è capitato di chiamare “decostruzione del cristianesimo” e che non è che il movimento più intimo e più proprio del monoteismo come assentarsi integrale di Dio nell’unità che lo riassorbe e in cui si dissolve; 2) dall’altra parte e in modo analogo, l’essere vi si getta interamente, fuori da ogni posizione presupposta e vi si versa integralmente a causa di una transitività per la quale esso è ed è soltanto, in ogni esistenza. […] In questo duplice movimento, mentre il modello di una produzione causale e secondo fini dati è stato dichiaratamente individuato e classificato dal lato dell’oggetto, della rappresentazione, dell’intenzione e della volontà, il non-modello o il senza modello di un essere senza dato - senza universale dato, senza agente dato e senza fine presupposto né mirato […] ha fatto sorgere il suo reale incommensurabile […] iscrivendo indirettamente l’enigma della creazione.[…] La sottrazione di ogni dato costituisce quindi il cuore di un pensiero della creazione. Questo è anche ciò che lo distingue dal mito, per il quale in generale c’è qualcosa di dato, qualcosa di primordiale che precede, che costituisce così la precedenza stessa e la provenienza. Il monoteismo non è più il regime del mito di fondazione, ma quello di una storia di elezione e di destinazione: il dio unico non è affatto la riunione né la sussunzione (né “la spiritualizzazione”) degli dei molteplici sotto un unico principio (molto spesso sullo sfondo del mondo mitico figura di un principio unico)».

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Il cristianesimo compie il venir meno del divino, la sua progressiva dissoluzione. L’ateismo comincia, secondo Nancy, già nella designazione platonica “o theos”, che nomina la divinità al singolare, come se gli dei del mondo greco si fossero d’un tratto assentati, lasciando così pensare la loro assenza in un’unicità che avvia la decostruzione della divinità 57. Si tratta evidentemente di entrare in un regime ateologico liberato dallo schema di un teismo rovesciato e dall’opposizione tra ateismo e teismo. Il solo ateismo attuale diviene, pertanto, quello che riconosce la sua provenienza cristiana. Il monoteismo, e in particolare quello cristiano, per Nancy, non rappresenta la riduzione degli dei molteplici sotto un unico principio. Politeismo e monoteismo non stanno tra di loro come la molteplicità all’unità. Va detto con nettezza: «politeismo» e «monoteismo» non stanno l’uno all’altro come la molteplicità all’unità. Nel primo, ci sono dèi, cioè presenze dell’assenza (poiché la legge assolutamente generale di ogni presenza è la sua molteplicità). Nel secondo, c’è l’ateismo o l’assentarsi della presenza. Gli «dèi» non sono più, in esso, che «luoghi» in cui accade questo assentarsi (nascere, morire, sentire, godere, soffrire, pensare, cominciare e finire). Il monoo-a-teismo è quindi una metamorfosi completa della divinità e della provenienza.58

La creazione del dio unico è il medesimo gesto del suo assentarsi come sostrato. Il dio unico non può precedere la propria creazione e, 57

Cfr. J. -L. NANCY, La déclosion.(Déconstruction du christianisme, 1), Galilée, Paris 2005, trad. it. parz. di M. Bruzzese, Ateismo e monoteismo, « l’espressione », 2-3, 2005, pp. 23; 31 :« Quando, come gli accade, Platone scrive “o theos” questa designazione del “dio” al singolare e senza nome proprio, ci rende la traduzione quasi impossibile perché dobbiamo scegliere se abbandonare il sostantivo e parlare di “divino”, oppure conservarlo e parlare di un “dio” persona unica di cui Platone non ha idea alcuna (è il caso di dirlo in tutti i sensi della parola). Nel theos di Platone si può dire che gli dei spariscano ( per quanto Platone stesso possa nominarli al plurale poche righe dopo il theòs al singolare). […] L’ateismo greco e il monoteismo ebraico si sono incontrati in un punto in cui l’unità del principio e l’unicità del dio si sono, allo stesso tempo, reciprocamente confortate e contrapposte attraverso una stessa contrazione – attrazione e repulsione reciproca – attraverso un doppio e violento movimento i cui effetti non hanno smesso di innervare e irritare la nostra storia. Da un lato, infatti, l’unicità del dio si lasciava con tutta evidenza sussumere o assorbire dall’unità del principio: il cristianesimo divenne così, da sé, umanesimo, ateismo e nichilismo.» 58 J. -L. NANCY, La creazione del mondo o la mondializzazione, cit., p. 60.

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confondendosi con essa, vi si perde, consegnandoci un mondo di singolarità. Necessario al completo dispiegamento di una logica della singolarità è che non vi sia niente da cui essa proceda, perché, come aveva già ribadito «La singolarità non procede forse da niente»59. Ex nihilo: è la formula cristiana della creazione del mondo come composizione, come posizione affermativa di un cum, che non procede da nulla e che complica ogni telos, rimettendo alla contingenza, alla libertà dell’esistenza, alla sua singolarità. Il cristianesimo direbbe, dunque, di una contrazione tra il greco e l’ebreo, e soprattutto di un’estensione: un’esuberanza propria della composizione, un dischiudimento, lo stesso dischiudersi. Un insorgere che non ha niente dietro di sé: il nihil diventa il suo proprio principio come assenza di ogni principio, come trascendentale apertura, estranea alla sfera religiosa e coincidente con la trasformazione della divinità cui il cristianesimo dà accesso: Ex nihilo, c’èst-à-dire : rien au principe, un rien de principe, rien que cela qui est, rien que cela qui croît (creo, cresco) sans principe de croissance, même pas (sourtout pas) le principe autonome d’une «nature» [...] D’emblée, pourrait-on dire, le nihil est posé. C’est peut-être la seule manière de sortir sérieusement du nihilisme. «Nihilisme», en effet, veut dire : faire principe du rien. Mais ex nihilo veut dire : défaire tout principe, y compris celui du rien. Cela veut dire : vider rien (rem, la chose) de toute principialité : c’est la création.60

Divino e sacro nominano il gesto che inaugura, il dischiudersi delle singolarità del mondo che accade e che costituisce il rovescio del nichilismo. Che le cose coesistano, e che in questa coesistenza inevitabilmente si tocchino poiché tra di loro aperte, dischiuse: questo è divino, la déclosion stessa. «La déclosion: démontage et désassemblage des clos, des enclos, des clôtures. Déconstruction de la propriété, celle de l’homme et celle du monde» 61. La divinità si assenta come principio del mondo eziologico e teleologico. Il cristianesimo cela, dunque, nella sua concezione della creazione del mondo ex nihilo, lo scarto incolmabile della creazione.

59

J. -L. NANCY, La comunità inoperosa, cit., p. 67. J. -L. NANCY, La déclosion.(Déconstruction du christianisme, 1), cit., p. 39. 61 Ivi, p. 230. 60

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Ritornando all’opera che all’inizio di questo paragrafo ci prefiggevamo di analizzare, e cioè Noli me tangere, Nancy interroga, in quest’opera non solo il racconto del cristianesimo (le sue scene, i suoi concetti) ma la sua fondamentale trasposizione in pittura. Così l’analisi cade sulle opere di Rembrandt, Pontormo, Dürer, Tiziano e molti altri che raffigurano una singolare situazione: l’episodio biblico in cui Gesù risorto allontana Maria Maddalena dicendole, secondo le parole del Vangelo di Giovanni, “Noli me tangere”, “non toccarmi”. Non è questo il primo lavoro dedicato alla pittura cristiana. In modo esplicito già in Visitation (de la peinture chrétienne), Nancy ha sottolineato l’incontro decisivo tra pittura e cristianesimo. La pittura cristiana, secondo Nancy, rende visibile ciò che non è dato alla visione: ciò che precede la nascita, ciò che accade alla morte. In linea con i principi del cristianesimo, essa dipinge ciò che non si può dipingere, dà corpo allo spirito, ritrae una presenza che non è mai presente. Non è vero che il cristianesimo avrebbe sviluppato le immagini come una Bibbia illustrata a uso del popolo illetterato, bensì l’immagine cristiana – unita al rifiuto non meno cristiano dell’immagine, lacerazione e sutura interna del cristianesimo come del triplo monoteismo – porta ogni intensità dell’accesso al divino senza accesso: al dio senza nome, all’altissimo senza altitudine, al presente senza presenza, all’immagine senza rassomiglianza e alla somiglianza o al comparire senza immagine […] Nulla di meno, in verità, della posta in gioco del cristianesimo in quanto si decostruisce esso stesso, vale a dire in quanto si libera della religione, della sua leggenda e della sua credenza, per essere l’agitazione di un’immemoria della presenza: gli dei ritirati hanno riturato con loro la presenza stessa. La verità del monoteismo è l’ateismo di questo ritiro. La «presenza reale» diviene la presenza che per eccellenza non è presente: quella che non è qui. […] Questa pittura proferisce: questo è il mio corpo. Questa è l’esposizione della pelle o del velo sotto i quali nessuna presenza si nasconde e nessun dio attende se non il luogo stesso, qui, e il tocco singolare della nostra esposizione: godimento e sofferenza di essere al mondo, esattamente qui e in nessun’altra parte.62

La pittura cristiana sarebbe dunque una pittura dell’esposizione. L’espressione Noli me tangere e la sua rappresentazione pittorica e62

J. -L. NANCY, Visitation (de la peinture chrétienne), Galilée, Paris 2001, trad. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Visitazione (della pittura cristiana), Abscondita, Milano 2002, pp. 4243.

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vocano un singolare divieto di contatto, un ritrarsi impaurito e pudico che non ha nulla di religioso o di sacro63. La frase enuncia qualcosa intorno al toccare in generale: il sottrarsi di Gesù, infatti, rivela il carattere profondamente indisponibile di ogni presenza, di ogni contatto, il levarsi stesso del corpo, che la morte massimamente testimonia. Il corpo non è propriamente che la sua improprietà, una presenza che presenta sempre il proprio congedo. Il corpo come certezza sconvolta: si dà, ma per sottrarsi. Un motivo dominante percorre, allora, tutte le pagine di questa singolare riflessione: l’avversione, già incontrata, per ogni teoria del “corpo proprio”, avversione che ben si sposa con il non detto del cristianesimo. Il corpo di Cristo è, infatti, ciò che è offerto da mangiare e da bere ai fedeli e nello stesso tempo è ciò che nell’episodio-tema del saggio si mostra come qualcosa di intoccabile. Noli me tangere è l’espressione complementare a Hoc est corpus meum, la verità stessa della presentazione, dell’offerta del corpo, che non offre altro che la sua partenza, il suo congedo. Il corpo di Cristo, per quanto venga così offerto ai fedeli è sempre un corpo che, pur inghiottito, risulta inappropriabile. L’intero lavoro ha come debito esplicito l’opera di Derrida Le Toucher, Jean-luc Nancy, all’interno della quale è del resto menzionato l’episodio del Noli me tangere in riferimento ad una concezione cristologica del toccare, concezione da cui Derrida prende una certa distanza64. Esplicitandolo in una nota, Nancy dichiara che questo piccolo saggio è volto proprio a ridurre questa distanza, mostrando l’esemplarità che un tale episodio biblico, soprattutto trasposto in pittura, ha per una teoria decostruttiva e non religiosa del contatto. È nel quadro, infatti, che il carattere religioso del Noli me tangere viene decostruito in modo notevole. Il fatto del toccare, la logica del contatto, decostruisce il livello narrativo, aprendo la scena evangelica, la sua rappresentazione. È in pittura che il meccanismo rappresentativo si apre e si smaglia, perché non si ripresenta semplicemente qualcosa che è accaduto in qualche luogo, ma viene presentata - firman-

63 64

Cfr. J. -L. NANCY, Noli me tangere, cit., p. 23 Cfr. Ivi, p. 24-25, nota 4.

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Capitolo III

dola - la soglia stessa dell’esistere, ciò che non si dà mai a vedere, ciò che in modo paradossale Nancy chiama l’intoccabile. Ciò che Nancy sembra felicemente portare alla luce è, dunque, un ateismo propriamente pittorico: il quadro annulla ogni trascendenza radicando l’altro mondo in questo mondo, in una ferita irreparabile di un unico mondo costituito dalla condivisione delle singolarità.

Nancy e la logica della singolarità L’analisi delle opere di Nancy, e in generale del suo pensiero, ha mostrato come non si possa cogliere la portata originale del suo pensiero se non attraverso una precomprensione delle filosofie di Deleuze e di Derrida. Nancy non si differenzia da Heidegger, ad esempio, se non grazie a questa doppia eredità, che lo spinge verso un’originale riflessione sulla corporeità e sull’essere-in-comune. Tale riflessione non sarebbe stata possibile se una vera svolta non fosse avvenuta nella filosofia contemporanea e un motivo come quello dell’iscrizione non fosse divenuto un fattore determinante. Il pensiero di Nancy non è, dunque, comprensibile senza le filosofie di Derrida e di Deleuze per sua stessa ammissione: «Sulla tradizione del pensiero dell’uno, del ciascuno e del singolare, a prescindere dalle nostre rispettive differenze […] i testi ai quali bisognerebbe risalire sono in primo luogo quelli di Deleuze, con quelli di Derrida (e questo con richiederebbe un commento a parte)»65. Nancy parla di un commento a parte a proposito di un lavoro che cerchi di pensare Deleuze e Derrida. Riteniamo che in queste parole Nancy abbia offerto un pensiero-guida di una logica della singolarità, a cui noi siamo stati fedeli fin dall’inizio deleuziano. In un breve articolo, inoltre, dal titolo Les differénces parallèles. Deleuze et Derrida66, Nancy tenta un primo commento, tuttavia mettendo gli autori “in parallelo”, come se non potessero incontrarsi, o come se il solo modo di incontrarsi fosse quello dell’azione a distanza. 65

J. -L. NANCY, Essere singolare pluralcite, cit., pp. 43-44, nota 1. pubblicato in Deleuze épars, Hermann, Paris 2005, trad. it. a cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, cit., pp. 75-94. 66

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Come se i due percorsi di pensiero a un certo punto potessero formare una sorta di diapason e risuonare. Deleuze e Derrida, del resto, non hanno fatto altro che parlare della risonanza e del risuonare. Tuttavia, il nostro tentativo, a differenza di Nancy, è stato quello di “mettere in serie” i loro pensieri, includendo anche il pensiero dello stesso Nancy. La nostra tesi, confermata dalle analisi finora svolte, è che solo in un esame critico delle teorie di Deleuze, Derrida e Nancy può venire alla luce una logica della singolarità più completa, che pensi la singolarità, il suo concetto, secondo dei differenziali, ovvero secondo delle categorie proprie della singolarità: ripetizione, iscrizione, condivisione. Al di là dell’individuo e della persona, essendo la singolarità ciò che li estende e li eccede. Lungi dall’essere una sintesi di Deleuze e Derrida, Nancy fornisce allora la tematizzazione della con-divisione che caratterizza le singolarità, come pure dell’orizzonte dell’esposizione in quanto tale. Tradisce a nostro parere, tuttavia, una filosofia dell’esposizione e una logica della singolarità proprio il motivo teologico della creazione ex nihilo, che Nancy riprende attraverso la sua decostruzione del cristianesimo, come abbiamo mostrato nel paragrafo precedente. Lungi dal venir decostruito, il motivo della creazione ex nihilo porta con sé, nell’elaborazione concettuale dell’esposizione, un “nulla” trascendente che inserisce degli aspetti teologici che dovrebbero essere estranei a una filosofia dell’esposizione67. Il nulla sarebbe un intoccabile che mal si addice a una logica della singolarità. Quest’ultima è sempre il contrario del niente.

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Su questo punto rinviamo al nostro Dell’esposizione. Contro l’integralismo, in A.a.V.v., Nudità, Punto Rosso, Alessandria 2009.

Conclusione

Il singolo e il singolare La logica della singolarità, che viene dispiegandosi attraverso un esame critico delle filosofie di Deleuze, Derrida e Nancy, in rapporto alle istituzioni concettuali cui la filosofia di Platone dà luogo, collega, l’abbiamo visto, la singolarità a fenomeni problematici come la ripetizione, la scrittura, la condivisione. Fenomeni che ad una prima e distratta riflessione cozzano con ciò che il senso comune dice essere il singolare: ossia l’unico, l’irripetibile, l’indivisibile. Se da un lato tale posizione fondamentale si scontra con il senso comune, ossia con la sedimentazione dell’eredità del pensiero della tradizione, dall’altro lato non sorprende più di tanto i luoghi più sottili e corazzati della metafisica occidentale. Un esame anche sommario della filosofia di Guglielmo di Ockham, ad esempio, potrebbe mostrare che il filosofo medievale abbia pensato la singolarità proprio in rapporto alla ripetizione, al segno, alla molteplicità. Scrive Alferi, in uno dei più acuti interventi sulla filosofia di Ockham, a proposito delle sue tre tesi intorno alla singolarità: La première définition, nominale, est celle de l’unité numerique du singulier. Comme celles qui suivront, elle porte en même temps sur ce qu’Ockham considère comme un synonyme de «singulier»: «individu». « «Singulier» et «individu» s’entendent de trois manières : premièrment, on dit singulier ce qui est une seule chose en nombre et non plusieurs choses». [...] Est singulier non pas ce qui diffère, ce qui ne ressemble pas à un autre sous tel ou tel rapport (comme lorsqu’on dit : «c’est un homme très singulier»), ma ce qui est seul hors de tout rapport : singulus significie à l’origine solus . [...] la seconde déffinition donnée par Ockham, ontologique et concrète, du singulier:

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Conclusione

«deuxièmement, on dit singulière la chose hors de l’eprit qui est une et non plusieurs et nìest pas signe d’une autre». [...]la dernière définition du singulier: troisièmement, on dit singulier le signe propre à un seul, qui est appelé terme discret».1

Centrali sono per Ockham la serie, il segno. Non bisogna confondere, però, secondo il filosofo, il segno singolarizzante con l’ente singolo. Il segno “Socrate” e Socrate. Linguaggio e cosa. In Ockham viene affermata la capacità semiotica, significante, che la parola, in quanto segno, possa riferirsi all’ente singolare. Una particolare struttura e ordine della significazione sta avendo qui luogo: l’eminenza segnica della parola e la riduzione del singolare all’individuale, che non può far segno, in quanto ciò equivarrebbe a dividersi, equivarrebbe a essere conteso da altre cose a loro volta contese. Più che una logica della singolarità, quella di Ockham è prima di tutto una logica, ovvero un discorso sull’articolazione del discorso stesso. Invece, ciò che con Deleuze, Derrida, Nancy ha luogo è proprio una logica della singolarità in senso forte. Ockham pensa ad una relazione tra singolarità e ripetizione, segno, molteplicità, ma è una relazione che presuppone e antepone la singolarità, intesa come individualità, a queste tre nozioni. Invece la nostra indagine, contrariamente a tutta la tradizione occidentale pensata nel suo insieme e cioè essenzialmente platonica, ha fatto emergere la con-divisione, l’iscrizione e la ripetizione come categorie della singolarità, ciò senza cui la singolarità non può essere pensata, o pensata a torto come individualità. Così si manca sia una comprensione genuina della singolarità sia quella della individualità. La singolarità non può essere personale né individuale, ovvero essa non può essere racchiusa da un Io, o da una specifica identità. Piuttosto, essa accade sui loro bordi e presiede alla loro genesi. L’empirismo trascendentale, questa curiosa e originale sfumatura della coppia classica trascendentale/empirico che i tre pensatori condividono, impone di pensare la singolarità – la sua ripetizione differente, la sua cesura, la relazione che crea ogni volta – come dischiudente un campo trascendentale differente dal ricalco di figure empiriche, che hanno sempre 1

P. ALFERI, Guillaume D’Ockham. Le singulier, Minuit, Paris 1989, pp. 17; 20-21; 23. I corsivi si riferiscono al testo di Ockham.

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limitato l’orizzonte del trascendentale, e non hanno fatto emergere il ruolo empirico-trascendentale giocato dalla differenza. L’io empirico somiglia troppo all’Io trascendentale, la carne del corpo somiglia troppo alla carne del mondo, essi necessitano infatti di una differenza per essere tali. Per essere io, me stesso, deve esservi una differenza costitutiva che mi distingua da ogni Io trascendentale, qualcosa di non classicamente empirico, né puramente trascendentale. Ogni volta qualcosa come l’Io e la carne presuppongono, nella loro costituzione, le singolarità e i loro eventi, ovvero un orizzonte trascendentale differente. La singolarità non è l’essenza del singolo, ma del singolare che costituisce il singolo. Quando si dice “quel singolo” si sta appunto parlando del singolo, ma non del singolare, oppure si sta parlando del singolare nella misura in cui quel singolo manifesta delle singolarità, che giacciono ai suoi bordi e che sono i suoi eventi, ovvero delle differenze dagli altri singoli. La lingua italiana ci offre una inedita ricchezza che facilita la distinzione fondamentale tra il singolo e il singolare, ovvero tra l’individuo e la singolarità. Al contrario del singolo, il singolare convoca una molteplicità, è segno, supplemento dell’evento che fa differenza.

Senso ed esposizione Pensare le categorie della singolarità (ripetizione, archiscrizione, con-divisione) non significa limitarsi alla loro contemplazione, ma innanzitutto svilupparne le conseguenze, tra cui la centralità che un fenomeno quale quello dell’esposizione viene a rivestire, come ciò che le categorie fondamentali esprimono: l’abbiamo visto in modo particolare con Nancy, che ci indica la strada per pensare l’esposizione come senso complessivo delle categorie della singolarità. Il corpo, lo statuto stesso del corpo, riceve di conseguenza una ridefinizione in termini di fatto comune dell’esistenza, come l’essere esposto dell’essere stesso. Né carne spiritualizzata, né organismo. Né morto né vivo, ma il fatto comune ad ognuno di questi modi di esistere: il senso del corpo, discendente da una logica della singolarità, si mostra come la superficie

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Conclusione

stessa dell’esposizione. La stessa sorte accade al soggetto: vi è un soggetto dell’evento, né personale né individuale, anch’esso superficie di espressione, e in verità la stessa cosa del corpo. In una logica della singolarità, centrale per il pensiero diviene, dunque, l’irruzione ogni volta singolare del senso, come continuità superiore dell’esposizione, il che presuppone che si diano come motivi trascendentali ancora la ripetizione della singolarità, l’iscrizione, la molteplicità, la sua con-divisione.

Risultati dell’indagine – triplice determinazione del concetto della singolarità Deleuze, Derrida, Nancy: un autore ci è parso dare maggiore attenzione ora a un motivo, ora a un altro, ma ogni motivo implica gli altri due motivi, in modo cooriginario. Ogni autore sembra essersi ritagliato esclusivamente un aspetto della triplice determinazione del concetto di singolarità. Già i titoli delle loro opere più rappresentative sono indicativi: Differenza e ripetizione, La scrittura e la differenza, La comunità inoperosa. Riferite a un solo autore, le loro ricerche, per una logica della singolarità, risultano tuttavia insufficienti. Dunque il risultato più importante della nostra ricerca è stato quello di evidenziare come ogni pensiero, fra quelli presi in esame, in realtà risulti parziale e tuttavia necessario al dispiegamento di una logica della singolarità. Ogni pensiero risulta parziale perché cela un impensato al suo interno. Così abbiamo mostrato come per Deleuze il segno rivesta per lui un ruolo fondamentale, e tuttavia manca all’interno del suo pensiero una riflessione sull’iscrizione come costitutiva della singolarità. Anche se pensatore della singolarità come ripetizione e iscrizione, per Derrida, così come per Deleuze, la dimensione della con-divisione è centrale per pensare il rapporto tra il differente e il differente, eppure il privilegio dell’intensivo in Deleuze e la diffidenza di Derrida verso il comune relegano di fatto la condivisione nell’impensato. Nancy ci pare solo indicare (solo in una nota addirittura e in un breve articolo), insieme a una riflessione radicale della con-divisione,

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come costitutiva della singolarità, la necessità di pensare insieme le filosofie di Deleuze e di Derrida secondo una tessitura necessaria. Tale tessitura trova nel nostro lavoro, dunque, una riesposizione critica, ovvero la sua manifestazione nel pensiero, come concetto della singolarità triplicemente caratterizzato, al di là dell’individuale e del personale. Tale concetto, in quanto anche e soprattutto critico della tradizione (e in questo senso risulta decisivo il manifestato antiplatonismo), è un concetto che libera gli autori discussi da un certo alone di eccentricità negativa che è sempre gravato sulla loro originalità, dovuto forse al loro stile, a una certa maniera del discorso. Una logica della singolarità ci permette di misurare anche il loro gesto iperfilosofico, la serietà dei loro concetti.

Bibliografia Generale

In questa bibliografia, anche per orientare meglio il lettore della nostra ricerca, abbiamo inserito solo i testi risultati davvero essenziali al nostro lavoro, che corrispondono ai testi citati nel libro. Trattandosi di un lavoro tematico e per lo più comparativo, abbiamo ritenuto opportuno non riportare la vastissima bibliografia relativa ai tre autori, sia primaria che secondaria, che avrebbe rappresentato più di un volume a sé.

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su www.aracneeditrice.it

Finito di stampare nel mese di aprile del 2009 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma CARTE: Copertina: Patinata opaca Bravomatt 300 g/m2 plastificata opaca; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2 ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura Stampa realizzata in collaborazione con la Finsol S.r.l. su tecnologia Canon Image Press