Lo stomaco della Repubblica 8830418218, 9788830418219

In principio era la fame, ovvero la politica a tavola dall'immediato dopoguerra a oggi. Dalla frugalità dei padri f

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Italian Pages 384 [388] Year 2000

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Lo stomaco della Repubblica
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Filippo Ceccarelli

LO STOMACO DELLA . REPUBBLICA Cibo e potere in Italia dal 1945 al 2000

Longanesi & C.

«Questa storia nella storia parte dall'immediato dopoguerra e arriva a ridosso del presente... Dalla pallida minestrina servita ai membri della Consulta alle fastose degustazioni presidenziali a cura di Vissani corre mezzo secolo di gastronomia che s'intreccia alle vicende di un paese che il benessere ha reso ormai del tutto irriconoscibile.»

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In principio era la fame, ovvero la poli­ tica a tavola dall'immediato dopoguer­ ra a oggi: una storia, come dice l'auto­ re, «varia e maestosa, ma in fondo sco­ nosciuta». L'obiettivo di partenza è stato quello di assumere il cibo - quello della classe dirigente italiana di volta in volta balzata agli onori (e ai disonori) delle cronache - come il filo rosso utile per ricostruire un itinerario, il senso di un'evoluzione. Chi ha i capelli grigi vi ritroverà, con le sue inesorabili stru­ mentalizzazioni e i suoi compromessi mortificanti, la fame avita di un paese in ginocchio ma ansioso di riscatto. Chi è più giovane si farà un'idea di quanto contavano i vincoli ideologici nell'Italia del miracolo economico: con una certa chiarezza è possibile ri­ conoscervi l'appartenenza alle diverse «parrocchie» elettorali e alimentari. Tutto questo mentre il filo conduttore del cibo si stringe attorno a episodi più o meno nobili, aggrovigliandone lo svolgimento in modo non di rado im­ prevedibile, fra torvi avvelenamenti e digiuni di ascetico fervore. Mangiare, però, mangiano tutti: brigatisti e seque­ strati, mafiosi e poliziotti, faccendieri, magistrati e agenti dei servizi segreti. E poi ministri, deputati, famigli, ruffia­ ni, cortigiane, autisti, guardaspalle, portaborse, portavoce e portatori di de­ lizie gastronomiche: la galassia dei convitati (nessuno dei quali è di pietra) non conosce gerarchie. A un certo pun­ to, negli anni '80, le vecchie tribù ap­ paiono quasi estinte. Ma altri clan, in realtà, stanno per affermarsi. Tangento­ poli, infine, ingoia in un sol boccone una classe dirigente insieme sazia e go­ losa, l'abbatte con l'energia cieca di un Segue .l'ul/'altro risvolto

In copertina: illustrazione da Pinocchio di Lo­

renzo Matlotli

GRAFICA STUDIO DARONI

Questo volume appartiene alla collezione »Il CAMMEO" 363

castigo. Chi sopravvive celebra le noz­ ze tra cibo e comando coi lustrini della televisione. Tentazioni e privilegi con­ viviali procedono di pari passo con una politica sempre più commestibile, estranea a se stessa. La fame dei nonni e dei padri sembra, più che lontana, di­ spersa nella memoria, mentre quella degli immigrati appare così vicina da rendere visibili a tutti gli orizzonti (e i limiti) di una modernità in bilico tra gli splendori della biotecnologia e le mise­ rie di un'etica biodegradata. Un libro sapido, divertente, che più di molti altri aiuta a capire come e quanto siano cambiati la politica e il costume negli ultimi cinquant'anni e passa del Belpaese, dove un piatto di minestra, nelle cucine del potere, non si nega (quasi) a nessuno. nato a Roma nel 1955, per diversi anni si è occupato di storia, attualità politica e costume per Panorama. Dal 1990 lavora alla reda­ zione romana de la Stampa, dove dal 1991 cura la rubrica settimanale « Il Pa­ lazzo». Con Longanesi ha pubblicato Il FILIPPO CECCARELLI,

lei/o e il potere. Storia sessuale della Prima Repubblica (1994).

L. 30.000 (i.i.) € 15,49 (i.i.)

Il nostro indirizzo internet è: www. longonesi.it

LO STOMACO DELLA REPUBBLICA Cibo e potere in Italia dal 1945 al 2000

di

FILIPPO

CECCARELLI

LONGANESI MILANO

&

C.

PROPRIETÀ

LETTERARIA

RISERVATA

Longonesi & C. © 2000 - 20112 Milano. corso Italia. 13 Il nostro indirizzo inlemet è: www.longanesi.it

ISBN 88-304-1821-8

LO STOMACO DELLA REPUBBLICA

« Tutto ciò che viene mangiato è oggetto di potere. » . ELIAS CANETII

Indice

Antichi proverbi e nuovi orizzonti: mezzo secolo di potere commestibile I. In principio la fame

I. 2.

3. 4. 5. 6. 7. 8.

Pasta e stracci. L'Italia albanese del dopoguerra Due polpette per De Gasperi: la frugalità dei padri fondatori L'America madre e nutrice 18 aprile, il ricatto dello sfilatino La guerra ideologica alla Coca-Cola Forche, forchette e forchettoni Achille Lauro e il suo PMP (Pasta Maccheroni Pomodoro) La cottura veloce del Partito della Bistecca

li. La fabbrica del'appetito

I. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

I O.

Boom democristiano: il ruggito vien mangiando Italia alle vongole e anti-italiani a tavola La falce, il martello e il tortello Anche i comunisti ingrassano Pane e nostalgia: il rancio neofascista Ascesi, porchetta e Nuova Destra La tavola dell'esilio Granchi, i tartufi e la distinzione presidenziale Il centrosinistra dal «Pescatore» e la topografia conviviale Un brindisi per Saragat, presidente alla cacciatora

13 15 22 30 36 43 49 60 67 73 · 75 84 89 97 105 111 115 117 122 130

139 Gli Affari Riservati e lo spionaggio gastronomico 141 147 Scandali, schizzi, cappucci e tovaglioli 153 Latte e miele: la precettistica di Licio Gelli 157 Il caffè di Pisciotta

Ili. Le cucine del diavolo

I. 2. 3. 4.

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Lo stomaco della Repubblica

5. 6. 7. 8. 9.

Il caffè di Sindona Altri possibili e impossibili caffè Dolce mafia e cassate d'avvicinamento Il supermercato di Cosa Nostra Vampiri e cannibali della camorra

IV. Digiuno e rivoluzione

1.

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Danilo Dolci, lo sciopero della fame contro la fame I pani, i pesci, i processi Strategie e calorie nel digiuno pannelliano La minestrina di Fortebraccio I polli del Parco Lambro e il diritto al caviale Bologna 1977, assalto al «Cantunzein» « Macondo», ristorante da sballo I vassoi nelle prigioni del popolo

V. L'ultima abboffata

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Spadolini e la fenomenologia dei ciccioni La «scarpetta» ancestrale di Re Bettino Ciarrapico, er catering e la disfida gastro-andreottiana Mangiare lumbard: dal dolce «durone» al «made in Padania » Gli ultimi pasti di Pompei Indigestioni e frigoriferi di fine regime I dimagriti di Tangentopoli

VI. Verso la gastrocrazia

1.

2. 3. 4. 5. 6.

Il cibo spettacolo: populismo al prosciutto e risotto promozionale Il senso dell'aglio nella signoria berlusconiana Mortadella e Nutella a Palazzo Chigi Il salotto fondante e la crostata costituente L'apoteosi di Vissani, cuoco e testimonial di Stato L'evoluzione della politica e la salvezza del lardo

Ringraziamenti Indice dei nomi

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Antichi proverbi e nuovi orizzonti: mezzo secolo di potere commestibile

Chi la vuole cotta e chi la vuole cruda... Quante volte sarà capitato di ascoltare queste parole, pronun­ ciate ora con rabbia, ora con rassegnazione, ora con indulgente superiorità e ora con sottile malizia. Nella vita di qualsiasi comunità c'è sempre chi la vuole in un ceno modo; e chi invece la richiede, o astutamente la pretende, o è addirittura disposto a ricorrere alla forza per ottenerla in altro modo, rendendo cosi ancora più infallibile questa specie di pro­ verbio senza morale, né conclusione definitiva. Chi la vuole cotta, dunque, e chi la vuole cruda. Eppure è proprio nel bel mezzo di tale indeterminata provvisorietà che di solito arriva qualcuno a decidere come questa cosa debba es­ sere mangiata; o se eventualmente solo per alcuni debba essere cotta e per altri lasciata cruda. Ammesso, e non concesso, che a tutti sia riconosciuto il diritto di metterla sotto i denti e nello stomaco. Insomma: per farsi un'idea dei gravosi e fantastici rapponi che intercorrono tra il cibo e il potere basta osservare il pasto di una famiglia. Chi sborsa i soldi per la spesa? Chi va a comprare la roba? Chi stabilisce l'ora dei pasti? Chi si mette ai fornelli? Chi decide il menu? Chi fa le porzioni? Chi sparecchia e, nel ca­ so, lava i piatti? Il punto è che dietro la titolarità, la distribuzione e l'adempi­ mento dei compiti domestici (con i dovuti sospetti pronti a esplo­ dere, magari a tavola) si intravede su scala ridotta ciò che con inevitabile semplicismo ci ostiniamo a chiamare: politica. Un altro proverbio molto politico dice: chi mangia da solo, si strozza. Ora, giusto per integrarlo alla luce della storia, varrà la pena di notare che chi mangia « da solo►>, cioè chi esclude troppa gente dalla mensa del potere, viene più frequentemente strozzato, ghigliottinato, messo al bando, spedito in carcere o in esilio;

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lo stomaco della Rep11bblica

mentre nelle società occidentali, una volta sconfitto alle elezioni, dovrebbe tornarsene a casa. Nelle democrazie mature e tendenzialmente obese, d'altra par­ te, il cibo è ormai anche altro: è compensazione, piacere, status, moda, mercato, sogno, audience. È poi anche uno straordinario simbolo, come dimostra il fatto che il rinnovato antagonismo so­ ciale dà l'assalto ai McDonald's, dopo tutto identificando in una polpetta il nuovo detestabile potere globalitario. E quando non è il Big Mac, a ridestare la guerriglia, con le sue bastonate e le sue vetrine in frantumi, è il pane transgenico a mobilitare le coscien­ ze, è la carne agli ormoni, la fettina di mucca avvelenata, il po­ modoro ibridato, il cibo-Frankenstein d'inizio secolo. Tutto questo finisce per riannodarsi in Italia a una storia varia e maestosa, ma in fondo sconosciuta. Che sarebbe appunto l'argo­ mento di questo libro. L'obiettivo di partenza, l'originario vagheggiamento che ha ispirato e condizionato le ricerche sullo stomaco della Repubbli­ ca era quello di assumere il mangiare - il mangiare della classe dirigente italiana e comunque delle persone di volta in volta bal­ zate agli onori e ai disonori delle cronache - come il classico filo rosso utile per tracciare dei confini, ricostruire un itinerario, se possibile offrire il senso di un'evoluzione. Questa storia nella storia parte dall'immediato dopoguerra e arri­ va a ridosso del presente con lo sfolgorio di una traiettoria inequi­ vocabile. Dalla pallida minestrina servita ai membri della Con­ sulta alle fastose degustazioni presidenziali a cura di Vissani cor­ re mezzo secolo di gastronomia che s'intreccia alle vicende di un paese che il benessere ha reso ormai del tutto irriconoscibile. Chi ha più di sessant'anni vi ritroverà la fame, con le sue inesorabili strumentalizzazioni, i suoi scambi mortificanti e le sue stralunate avventure elettorali. Poi, in qualche modo, la fame s'attenua. Ma sempre attraverso il cibo chi è giovane avrà modo di farsi un'idea di quanto pesa­ vano i vincoli ideologici e le appartenenze di partito - di tribù nell'Italia degli anni '50 e '60. Comunisti, cattolici, laici, neofa­ scisti: con una certa chiarezza addirittura si riescono a distinguere e a documentare le rispettive e perfino inconciliabili sub-culture alimentari e conviviali.

Antichi proverbi e nuovi on-izzonti

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Tutto questo mentre il filo conduttore del cibo si stringe attor­ no a episodi più o meno nobili, aggrovigliandone lo svolgimento in modo non di rado imprevedibile: torvi avvelenamenti e digiuni di ascetico fervore; assalti al forno tipo Promessi sposi e mobili­ tazioni per nutrire moltitudini altrimenti minacciose. Mangiare, oltretutto, mangiano tutti. Brigatisti e sequestrati, mafiosi e poliziotti, faccendieri e magistrati, ex studenti sballati e agenti dei servizi segreti. E poi ministri, deputati, famigli, ruf­ fiani, cortigiane, autisti, guardaspalle, portaborse, portavoce e portatori di delizie gastronomiche, queste ultime rientrando a pie­ no titolo tra le più ragguardevoli e compromettenti male arti del potere. Sopraggiunti gli anni '80, le vecchie tribù appaiono quasi estinte, non mangiano più come una volta. Ma altri clan, in realtà, stanno per affermarsi. Tangentopoli a quel punto rovina addosso a una classe dirigente oltremodo sazia e ingolosita con l'energia cieca di un castigo. I ristoranti politici vanno in crisi; gli accusati perdono, insieme con il peso del corpo, la legittimità del loro po­ tere. E subito i nuovi giustizieri sono illustrati dal sistema dei me­ dia come mangiatori vigorosi e inesauribili, novelli« re papponi» nel cui appetito si riflette la salvezza della comunità. Gli ultimi anni, che poi sono questi anni, illuminano l'incrocio tra cibo e comando attraverso i bagliori e i lustrini dello spettaco­ lo televisivo. Menu barocchi, tentazioni regali e privilegi convi­ viali procedono di pari passo con una politica sempre più inac­ cessibile, spudorata e sgangherata. La fame di un tempo, la fame dei nonni e dei padri sembra vertiginosamente lontana, più che dispersa nella memoria. La fa­ me dei profughi della guerra dei Balcani, o la magrezza degli im­ migrati giunti in Italia da paesi lontanissimi, appaiono al contra­ rio cosi vicine da rendere drammaticamente visibili gli orizzonti della modernità mondializzata. Per ricostruire le vicende, nell'arco di oltre mezzo secolo, si sono privilegiate fonti scritte con l'intento di afferrare ciò che di solito il cibo trasmette quando non viene soltanto mangiato, ma diventa esso stesso evocatore di immagini, veicolo di comprensione e certificato di identità. Per quel che riguarda l'interpretazione, più le storie sono lon­ tane e più sembra di comprenderle. Con qualche pacificata cer-

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Lo stomaco della Repubblica

tezza ne consegue che nel racconto del passato prossimo e nella descrizione dell'attualità è presente una certa quota di azzardo. Di questo azzardo, come di altri inevitabili errori, si chiede qui preventivamente scusa, senza che questo comporti una minore o meno convinta responsabilità.

I IN PRINCIPIO

LA FAME

« Non vi è nulla di umano nella voce della fame. È una voce che nasce da una zona misteriosa della natura dell'uomo, dove ha radice quel senso profondo della vita che è la vita stessa, la nostra vita più segreta e più viva.» CURZIO MALAPARTE

1. Pasta e stracci. L'Italia albanese del dopoguerra

Piatto di carta e tozzo di pane, braccia protese e occhi che chie­ dono: all'ora dei telegiornali i profughi del Kosovo proiettano la fame nelle case degli italiani. Chi se la ricordava più? Quanti l'hanno mai conosciuta? Sacchi di farina e cucine da campo nei Balcani. E code senza fine, donne gravide chine sulla gavetta, adolescenti spettinati con due pagnotte sotto il braccio come un trofeo, minestroni d'incerto colore e dubbia consistenza, zuffe nel fango, pugni, calci e spin­ toni per un barattolo di carne in scatola lanciato da un camion mi­ litare ... Nei più anziani sono scene che ridestano antiche memorie, riaccendono lontanissime suggestioni, comprensibilmente dimen­ ticate. Ma i più giovani telespettatori, la maggioranza ormai degli italiani, non si rendono conto che è stato così anche da noi. La fame era di casa nel 1945, e anche nel '46, e nel '47, e nel '48, e anche dopo, per un bel po'. Sembra incredibile, adesso, ma era più o meno come fanno ve­ dere i TG. Solo che la televisione non c'era e i profughi si chia­ mavano «sfollati». In fondo la guerra si limita a cambiare alcune parole; e il benessere a cancellarne altre, ad esempio « morti di fame». Non si trattava di veri defunti; voleva dire che centinaia di migliaia di italiani, a un certo punto della loro storia recente, non avevano nulla da mangiare. Poi, nel corso del tempo, l'e­ spressione si caricò di disprezzo, e a lungo funzionò come insul­ to. Quindi cadde in disuso, si esauri, quasi scomparve. Nella primavera del 1999 l'allora ministro dell'Interno Rosa Rus­ so Jervolino, in visita al campo di Kukes, viene informata dal col­ lega albanese che le scorte alimentari stanno per finire, che già non c'è più latte per i bambini, che manca il pane. « Grave è il pro­ blema del pane», annota nei suoi diari il vicepresidente del Con­ siglio Pietro Nenni nella primavera del 1946. Alla data 21 maggio ha scritto: « Le scorte si esauriscono e gli alleati non mantengono

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le loro promesse. Diventerà probabilmente inevitabile ridurre ulte­ riormente la razione del pane».' Sei mesi dopo, il 28 novembre, non è che vada molto meglio: «Abbiamo grano al massimo fino a gennaio (in diverse province mancherà a dicembre) e gli arrivi dell 'UNRRA si fanno aspettare. Si dovrebbe ridurre la razione del pane ma ce ne manca il coraggio».2 Insomma: la fame italiana di allora è un po' la fame albanese e kosovara di oggi. Sono navi militari italiane, in compenso, quelle che scaricano latte in polvere al porto di Durazzo, con piccole cerimonie. Così come sono italiani i soldati che all'aeroporto di Skopje - chissà quanto consapevoli di ripetere sia pure in piccolo un gesto che segnò per sempre l'arrivo degli alleati a Roma - distribuiscono dolci ai profughi: marrnellatine e cioccolato.' Appena arrivata per conto delle Nazioni Unite in un villaggio macedone, Paola Biocca, la giovane donna che alcuni mesi dopo incontrerà il suo sfortunato destino da quelle parti, resta colpita da una visione antica e insieme moderna: «Dietro a un filo spi­ nato c'era un uomo con un grande cartello scritto a mano: HELP! e faceva cenno di cibo alla bocca», annota nel suo diario. «Noi siamo dall'altra parte di quel filo spinato e ciò che abbiamo è pronto a entrare in quella bocca e in tutte le altre bocche che ci stanno accanto oggi e per i prossimi giorni. »4 La guerra e la fame tendono sempre a innescare cortocircuiti nel­ la memoria. Però stavolta pare di cogliere un inconfessabile sgo­ mento ancestrale, familiare, autobiografico. A Comiso, dove sono arrivati gli «sfollati» albanesi, i volon­ tari della «gloriosa mensa di Lametia Terme» - cosi l'hanno de­ finita le autorità di governo - indossano il cappelletto americano con la visiera, un grembiule di plastica verde e guanti di gomma da chirurgo o da poliziotto. Incantati dalle seduzioni del cibo­ spettacolo, i quotidiani riportano addirittura la ricetta della «Zup­ pa Arcobaleno»: pasta, paprika, salsa rosa, carne e verdure.' Chissà com'erano vestiti i volontari del Vaticano o della So­ cietà Immobiliare che nella Roma del dopoguerra distribuivano la «minestra del popolo». E chissà che sapore aveva. «Pasta e stracci» la chiamavano. Ma doveva già essere di conforto per una popolazione che nel giro di pochi mesi aveva visto sparire gatti• e piccioni, e aveva da tempo cominciato a sbizzarrirsi con la cicoria dei campi, le patate secche, le carrube lesse, le bue-

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ce di fave, la vegetina, la torta di barbabietole, la pizza di ghian­ de, la cicerchia tostata. E il pane, per carità, quello che il governo non aveva il corag­ gio di diminuire: un impasto mostruoso di frumento, granturco, ceci, scorze d'olmo e foglie secche di gelso. Cambiava colore, ol­ tretutto, da un giorno all'altro diventava bianco, poi nero, per tor­ nare quindi a un« accettabile grigiore».7 Pietro Ingrao, una volta, vide in una vetrina di viale Regina Margherita « una di quelle co­ se informi nominata pane. Sapevo benissimo che non era nulla di simile al pane. Ma ho detto: lo mangio lo stesso. Appena ho dato il primo morso, l'ho sputato».8 Sputare, assaggiare, masticare, mettere comunque in bocca. « Non c'è forse in tutta la storia italiana moderna», ha scritto En­ zo Forcella,« un esempio così clamoroso di regressione collettiva alla fase orale.»• La fame sul serio, senza vergogna, come oggi a Tirana, a Duraz­ zo, a Valona. Ci furono a Roma, nell'immediato dopoguerra, al­ meno due imponenti « marce della fame». Nella prima, nel di­ cembre del 1944, le rivendicazioni erano 300 grammi di pane s'è detta la qualità - un etto di pasta, un litro d'olio al mese e provvedimenti per il ribasso dei prezzi. Il più animoso dei mani­ festanti, a nome Carmelo Micciché, autoproclamatosi « capo del popolo affamato», arrivò fin sulla porta della stanza del capo del governo Bonomi. 10 La seconda marcia, nel settembre del 1947, organizzata dalla CGIL anche contro il carovita si svolse pochi giorni dopo la ce­ rimonia di consegna di 9200 tonnellate di grano dalla motonave americana Victory. In modo piuttosto sobrio Alcide De Gasperi manifestò all'ambasciatore Dunn la gratitudine del popolo ita­ liano.'' A differenza dei giornalisti, gli studiosi dicono giustamente che la storia non si ripete mai. Ma i morsi della fame sono gli stessi: sempre e dovunque. « La fame morde>>, dice Nenni alla Camera nel settembre 1947,« e anche le cartuccere dei carabinie­ ri per mantenere l'ordine pubblico non possono bastare contro i ventri vuoti. » 12 Nenni non parla a caso. Nella primavera le forze dell'ordine hanno dovuto usare le armi da fuoco per contenere tumulti a En­ na, Agrigento, Comiso, Serradifalco, Teramo. Due civili uccisi nel corso di uno sciopero del dazio a Messina; due braccianti uc-

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cisi a Petilia Policastro, in Calabria, dove l'unico panificio ha ne­ gato ai contadini la razione d'orzo; altri due morti a Potenza per l'abolizione degli ammassi e la libertà di macinare." Sembra l'Albania del 1995. Anche qui in Italia c'erano allora troppe armi in giro; anche qui un po' dappertutto, specie nel Sud, erano segnalate «schiere di giovani disoccupati, avviliti, sovente affamati, che errano di villaggio in villaggio, spinti dal bisogno e da un certo gusto dell'avventura, che è anch'esso un postumo della guerra». 14 A Roma bande del genere, assimilabili ai clan schipetari, e quindi come questi collocate a mezza strada fra la politica e la malavita, sfondano forni, derubano negozi, assaltano treni e camion per impossessarsi degli aiuti alimentari e rimetterli sul mercato. Tra il gobbo del Quarticciolo e il gangster albanese Zani, in altre parole, non c'è poi troppa differenza." Eppure, si tratta di analogie per lo più fastidiose. Si tende a ignorare o a cancellare un passato che può far saltare parecchi parametri di riferimento. Una storia da cui, al di là di ogni pietismo e schizzinosa estranei­ tà, può prendere sostanza una rivelazione per certi versi addirit­ tura sconvolgente: gli albanesi sono quello che siamo stati. E che felicemente ci siamo dimenticati di essere stati. La fame e il cibo, in questo, sono indicatori infallibili, anche della cattiva o scomoda coscienza. «Paletti», scrivevano sbriga­ tivamente sui muri, rivolti al capo dell'amministrazione militare alleata, «meno ciance e più spaghetti.» Ma quando, nell'estate del 1999, viene saccheggiato il Campo delle Regioni a Valona, non e'è nessuno che tenti di ridimensionare il clamore che l 'as­ salto ha prodotto in Italia ricordando l'epopea malandrina e per­ fino letteraria o cinematografica - da La peste a Paisà - della Na­ poli del 1944: intere navi, e autocarri, e carrarmati che si volati­ lizzavano; soldati neri maneggiati come risorse viventi, perciò comprati, venduti, derubati, messi momentaneamente da parte. Quando nei primi mesi del 2000 scoppia lo scandalo Arcobale­ no-Protezione civile non c'è nessuno che ricordi il costante trafu­ gamento di generi alimentari dai magazzini del comando alleato al Porto Fluviale di Roma; 16 o il gigantesco mercato clandestino che per anni funzionò nella pineta di Tombolo. 17 Chi, dall'Italia, arriva a Tirana nella primavera del 1999 resta sbalordito dalla fiorentissima borsa nera, dagli aiuti - ndihmat, in albanese - che rispuntano sulle bancarelle. Ma anche qui sue-

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cedeva esattamente lo stesso. « Ogni italiano>►, calcolava Meuc­ cio Ruini nel dicembre del 1945, « ha bisogno di 2500 calorie al giorno, ne riceve per tesseramento solo 900 e il rimanente deve cercarlo, se può, alla borsa nera. » '• Altra grande rimozione, questa, nonostante canzoncine e poesiole:

L 'americani de giorno e li negri poi de sera se venneno l'America tutta a la borsa nera. 19 Americani e neri, in realtà, nel mercato illegale svolgevano un ruolo del tutto secondario. Gli spaghetti sollecitati al colonnello Paletti gli italiani avevano trovato il modo di procurarseli per conto loro. « Tutti sono occupati a comprare e a vendere>►, così il Manchester Guardian, « e naturalmente il furto ha raggiunto proporzioni inaudite. »' 0 Proporzioni balcaniche, diremmo oggi con sospetta autoindul­ genza. Quando a Roma, a Milano, a Napoli e un po' dappertutto nel dopoguerra la spregiudicatezza dei traffici clandestini contri­ buì addirittura a creare, secondo chi ha studiato il particolare rap­ porto tra gli italiani e il cibo in quel periodo, addirittura « nuove gerarchie nella scala dei valori sociali >►. 21 La borsa nera italiana fu così un gigantesco e selvaggio pullulare di scambi tipo mors tua vita mea che si dispiegò sotto il segno della crisi dell'economia militarizzata e del sistema calmiere-ammasso-razionamento.22 C'erano gli accaparratori, i bollini e le tessere annonarie, vere e false, le borsare nere che simulavano gravidanze per trasportare sotto le vesti, da un capo ali' altro delle città, abbacchi, polli o pacchi di caffè. Intanto i prezzi salivano, e i tafferugli alle banca­ relle divenivano una questione di ordine pubblico. 23 « Mentre i bambini diventano sempre più gracili e mancano gli alimenti ne­ cessari - si legge in uno dei manifestini contro la borsa nera mi­ racolosamente scampato alle agevoli lusinghe dell'oblio - le pa­ sticcerie vendono pasticcini. Questo è un insulto per chi ha fame! Madri romane, protestate contro questa vendita: non permettete che degli incoscienti si arricchiscano speculando sulla fame dei vostri figli! »24 Ma anche i padri, tra il 1945 e il 194 7, e le madri, e i nonni, e gli zii, insomma tutti avevano fame. « Chi ha l'età per ricordare quei mesi durissimi>►, ha scritto Lucio Villari, « non dimentica fa-

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cilmente la folla di gente magra, affilata, che si incontrava per le strade, sui treni (spesso vagoni merci adibiti a vetture viaggiato­ ri), nelle file dei negozi. »25 Chi allora non c'era ha la sensazione di aver visto quei corpi e quei volti in televisione, all'ora dei telegiornali, durante la guerra del Kosovo. A mezzo secolo di distanza il cibo congiunge carne e pensieri: il soffio stesso, in fondo, della vita.

NOTE 1 Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, Su­ garco, Milano, 1981, p. 220. 2 lvi, pp. 304-305. 3 Francesco Grignetti, «L'Italia? Non so dov'è, conosco sol­ tanto Baggio», La Stampa, 9 maggio 1999. • Paola Biocca, « Ci accolgono come vincitori. Ma noi cosa abbiamo vinto?», Corriere della Sera, 13 novembre 1999. 5 Mariella Regoli, « Noi, ex tossici, regaliamo la speranza», li Messaggero, IO maggio 1999. 6 Sui gatti di Roma al tempo della guerra ha scritto anche Giu­ lio Andreotti, « Repubblica italiana fondata sui gatti», La Stam­ pa, 20 aprile 1998. « Alcuni di questi felini», racconta Andreotti, « finirono con l'essere catturati per conto di trattorie poco scrupo­ lose che li sacrificarono alla fame dei romani ribattezzandoli co­ nigli.» 7 Ugo Zatterin, Al Viminale con il morto, Baldini & Castoldi, Milano, 1996, p. 43. Su quanta attenzione - anche comparativa si prestasse al pane in quegli anni, oltre naturalmente a Miriam Mafai, Pane nero, Mondadori, Milano, 1987, vale la pena di se­ gnalare Domenico Bartoli, « Pane giallo, mancano i dollari», La Stampa, 8 agosto 1947: «Tornando in Francia dopo un'assenza di due mesi ho trovato il pane giallo, rinsecchito, più cattivo del no­ stro. Era buono un anno fa, discreto nella primavera scorsa; poi è peggiorato fino a diventare una crosta scura di fuori e colore del­ ) 'oro dentro[...] Dando un'occhiata in un negozio di fornaio o su un tavolo di ristorante si possono capire molte cose: come è stato il raccolto, come vanno i rifornimenti americani, a che punto è giunta la scarsità di divise. Quando il pane peggiora vuol dire che il raccolto non è stato buono, che i contadini imboscano la

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farina e soprattutto che non ci sono crediti americani per assicu­ rare adeguati rifornimenti». • Pietro lngrao, Le cose impossibili, a cura di Nicola Tranfa­ glia, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 36. 9 Enzo Forcella, Celebrazione di un trentennio, Mondadori, Milano, 1974, pp. I 03-104. 0 ' Riccardo Mariani, Borsari neri a Roma città aperta, Nuova Editrice Spada, Roma, 1989, p. 127. 11 «G rano per l'Italia», La Stampa, IO settembre 1947. 12 « I discorsi di Nenni e Togliatti contro la politica del gover­ no», La Stampa, 27 settembre 1947. 13 Annibale Paloscia, / segreti del Viminate, Newton Comp­ ton, Roma, 1989, p. 116. 14 Sandro Setta, L'Uomo Qualunque, Laterza, Bari-Roma, 1975, p. 54. 15 Sul gobbo del Quarticciolo e gli intrecci fra politica, gang­ sterismo e altro ancora: Silverio Corvisieri, Il re, Togliatti e il gobbo, Odradek, Roma, I 998. 16 Riccardo Mariani, Borsari neri a Roma..., cit., pp. 117-134. 17 A proposito dell'enorme mercato clandestino, per lo più di merci americane, sviluppatosi alla metà degli anni '40 presso Li­ vorno, cfr. Aldo Santini, Tombolo, Rizzoli, Milano, 1990. 18 Silvio Lanaro, Storia del/'Italia repubblicana, Marsilio, Padova, 1992, p. 16. 19 Riccardo Mariani, Borsari neri a Roma... , cit., p. 151. 20 lvi, p. 128. 21 Paolo Sorcinelli, Gli italiani e il cibo, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 140-141. 22 Silvio Lanaro, Storia del/ 'Italia repubblicana, cit., p. 16. 23 Luigi Ceccarelli, Roma alleata, Rendina, Roma, 1994, pp. 14-16. « La borsa nera di Roma Alleata si differenzia molto da quella già attiva prima e durante l'occupazione tedesca; non ri­ corre più alla campagna o alle regioni intorno alla città ma si ap­ provvigiona quasi del tutto con le inesauribili scorte degli alleati. Meno furbi contadini che s'improvvisano commercianti, più lo­ schi cittadini che si trasformano in vampiri. » 24 Riproduzione fotografica in Francesco Etnasi, 2 giugno 1946, Dies, Roma, 1966. 25 Lucio Villari, « Dopoguerra: con lo spettro della fame», in Storia di una Repubblica. Enciclopedia del/'lta/ia dal 1946 al 1980, Editoriale L'Espresso, Roma, 1982.

2. Due polpette per De Gasperi: la frugalità dei padri fondatori

Quando la Repubblica entra nella ex reggia del Quirinale le di­ spense sono desolatamente vuote e per pagare i debiti occorre im­ pegnare l'intero raccolto di pinoli della tenuta di San Rossore.' O meglio, prima di partire, la corte di Umberto ha lasciato ai nuovi inquilini del Palazzo solo un pacchetto:« È un'ottima mi­ scela di caffè Moka-San Domingo, che fu acquistato alla borsa nera esclusivamente per Sua Maestà. Ecco, Vostra Eccellenza può consumarlo, se crede, alla salute del sovrano... » Così, con insinuante soavità, un impiegato si rivolge a Pietro Baratono, nuovo commissario governativo preposto all'ex Real Casa e ai Beni già in dotazione alla Corona. Esasperato e nauseato, come tutti allora, dai più ignobili surrogati di caffè, le leggendarie « ciofeche» di quella stagione, Baratono cede dunque alle lusin­ ghe del macinato.' Tra i mille impicci che si aggrovigliano in quei giorni di pas­ saggio, gliene tocca uno da sbrogliare p_anicolarmente delicato. Per ordine di De Gasperi ha il compito di far sloggiare la duches­ sa d'Aosta madre, Elena di Francia, che nonostante l'esito del re­ ferendum seguita a comportarsi da padrona nella reggia di Capo­ dimonte; e che in nome di un retaggio feudale - tanto più insop­ portabile in periodo di indigenza - pretende di cogliere le verdure negli orti di guerra coltivati dagli impiegati nel parco.J La Repubblica italiana, infatti, è pur sempre una repubblica. Ma le istituzioni sono drasticamente a dieta, e il potere stesso è privo di orpelli, di lustri, di comodità. Certe sere, a Palazzo Giustiniani, sede provvisoria della Presi­ denza della Repubblica, Enrico De Nicola arriva al punto di cu­ cinarsi da solo un paio di uova al tegamino, come l'ultimo dei

travet.•

A Montecitorio, dove in attesa delle elezioni si riunisce la Consulta, un ristorante non è neppure immaginabile. I consultori sono alloggiati per la massima parte ali 'hotel « De la Ville», al

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prezzo di cento lire per notte e altrettante per un pasto proporzio­ nato alla mitezza del prezzo: una minestrina, carne o uova con contorno e per frutta una melina rugosa.' Il massimo del lusso - e dell'invidia istituzionale - tocca a Pa­ lazzo Chigi, sede del ministero degli Esteri, per via di certe son­ tuose coppe di gelato di « Ronzi & Singer» che compaiono tal­ volta durante le riunioni. Al Viminale, cioè alla Presidenza del Consiglio, De Gasperi offre anche di notte acqua e vermut.6 Ed è già un progresso. Il presidente del Consiglio democristia­ no non è certo il tipo da far caso a questo genere di limitazioni. Basti pensare che a Salerno, ai tempi del gabinetto Bonomi, quando l'intero governo si riuniva per cena nella villa dell'amba­ sciatore Guariglia a Vietri, nell'atto di servire le polpette il ca­ meriere in livrea si abbassava all'orecchio di ciascuno e con ri­ spetto, ma con altrettanta fermezza, suggeriva: « Due, signor mi­ nistro».' A questo punto viene da chiedersi se, e quanto, e in che modo, nel miracolo della democrazia italiana e poi della ricostruzione, ab­ bia contato il fatto di avere come Padri Fondatori personaggi che erano oggettivamente affamati, ma al tempo stesso costretti dalle circostanze ad essere frugali, misurati e disposti al sacrificio an­ che dal punto di vista dei bisogni primari. Come tutti gli italiani, del resto. Ed è forse proprio in questa mirabile corrispondenza, in questa mai così perfetta e simultanea comunanza di disagi e spe­ ranze tra classe politica e popolazione, la risposta a quell'interro­ gativo. È comunque un dato, questa specie di pudore a tavola, questo ap­ petito stoicamente subordinato agli ideali, che unifica il ceto di­ rigente della neonata Repubblica. Da Saragat, che solo un paio d'anni prima, in carcere, intratteneva i compagni di cella indu­ giando nella preparazione virtuale di varie pietanze;8 a don Stur­ zo che vive in convento, non beve né vino né caffè, e mangia - lo dice lui stesso - « come un uccellino».• Fino a Maurizio Ferrara, che a mezzo secolo di distanza ha confessato: « Di quel periodo di semicarestia m'è rimasto qualche riflesso condizionato. Vede­ re sprecare il pane, o gettarlo via, mi dà un sussulto. C'è stato un tempo in cui ripescavo le molliche ovunque si trovassero e le mangiavo. Per anni e anni non ho sopportato che i miei figli la­ sciassero nel piatto bucce di formaggio alte un dito. Le prendevo,

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le tagliavo riducendo la parte esterna a un velo, e mangiavo il for­ maggio residuo». ' 0 Un comune marchio di appartenenza, qualcosa destinato a ri­ manere impresso nei futuri governanti, cosi come nei futuri oppo­ sitori. Ha ricordato Andreoni che la scelta repubblicana della DC venne compiuta nella casa di campagna di Pietro Campilli, «tra la divertente protesta del vecchio padre contadino che non vedeva di buon occhio il raduno di questa ventina di persone, molto sensibili al ben di Dio che vi era nella dispensa e nelle can­ tine». Per «noi subnutriti», aggiunge, «sembra un paradiso ter­ restre prima della guerra delle mele». 11 Se non denutriti, certo tenuti a stecchetto erano «i professori­ ni» democristiani Dossetti, Fanfani, Glisenti, La Pira, Lazzati che per un certo periodo vissero insieme, in dimensione comuni­ taria, a piazza della Chiesa Nuova dalle signorine Portoghesi. Sulla temperanza alimentare del «conventino» non esistono dub­ bi: abbondantissime minestre, poca carne, molte patate. Cucinava una cuoca con una gamba di legno e un ragazzo con una triste storia familiare faceva la spesa. 12 Per dare l'idea dell'atmosfera - e un po' anche del languore permanente - basti sapere che un bel giorno si presentò a pranzo, non previsto, Vittorino Veronese con un porcellino farcito. E tale fu la gioia che venne fondato l'ordine del porcellino. E in seguito, anche con poesie e iscrizioni, il rubicondo suino divorato dai «professorini» divenne il totem della comunità." Anche i quadri comunisti, d'altro canto, risultano forgiati dalla più penosa sotto-alimentazione. Al quarto piano della prima sede del partito, a via Nazionale, la mensa serve inesorabilmente una minestra di farina di piselli e qualche volta, per secondo, carne in scatola. 14 Sotto Natale, al posto della tredicesima, in piccole ce­ rimonie politiche e familiari, vengono distribuiti pacchi di viveri: olio e vino toscano, lenticchie, zamponi, torroni e cioccolato." I figli dei capi comunisti, ha scritto Miriam Mafai, erano«o troppo magri per le sofferenze patite, o troppo grassi perché le madri, dopo le sofferenze patite, li rimpinzavano di cibo». 1• Ma il documento che a distanza di oltre mezzo secolo fa più impressione è il verbale di un incontro avvenuto nel dicembre del 1947 fra Stalin e Pietro Secchia, giunto a Mosca per ottenere un finanziamento. Il colloquio riguarda l'appetito di Togliatti, uno

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degli ultimi punti ali 'ordine del giorno, prima che Secchia, otte­ nuti i 600.000 dollari richiesti, ritorni a Roma. La questione è che il segretario del partito italiano si trascura dal punto di vista del mangiare: il che, effettivamente, risulta an­ che da testimonianze giornalistiche« borghesi» di quell'epoca. A mezzogiorno si porta a casa un cartoccio di pane e mozzarella e nemmeno apparecchia la tavola; la sera va in qualche modesta pizzeria, mangia filetti di baccalà e beve il vinaccio dei castelli. 17 Ebbene, dal verbale si capisce benissimo che Stalin non solo disapprova questo tenore di vita, ma con la dovuta complicità di Secchia, attraverso il cibo, tende a esercitare un potere apparen­ temente protettivo, in realtà primario, dispotico, assoluto. E dunque: « Il compagno Stalin domanda come va la salute del compagno Togliatti, se si nutre a sufficienza e se dorme molto. Il compagno Secchia risponde che il compagno Togliatti si sente bene, ma che bisogna tenerlo d'occhio di continuo. Se rimane senza sorveglianza, mangia poco, donne pochissimo e lavora troppo. Il compagno Stalin dice che bisogna badare a che il com­ pagno Togliatti mangi 3-4 volte al giorno e dorma di più. Il Co­ mitato centrale del Partito comunista italiano deve adottare una risoluzione per tener d'occhio la salute del compagno Togliatti. Il compagno Stalin chiede di trasmettere al compagno Togliatti la sua preghiera di riguardarsi e di non strapazzarsi. Il compagno Stalin ripete che anche il Comitato centrale del PCI deve occu­ parsene, altrimenti il compagno Togliatti si rovinerà e questo non serve a nessuno. Non è il caso che il compagno Togliatti si comporti come un asceta. Il compagno Secchia assicura che sa­ rà fatto tutto il possibile per badare che il compagno Togliatti conservi la salute». 1• Anche i fascisti sconfitti, com'è ovvio, fanno la fame, in questo senza troppe distinzioni rispetto ai vittoriosi antifascisti. « Fui salvato da una delle ultime disposizioni del governo del­ la Repubblica Sociale che, anticipando di molto i calmieri demo­ cratici, trasformò autoritariamente, dalla sera al mattino di un giorno di febbraio o del marzo 1945, i ristoranti in mense del po­ polo, a prezzo fisso e naturalmente con un menu non precisamen­ te pantagruelico»: così si legge nell'autobiografia di Giorgio Al­ mirante, che poco più di un anno dopo, anche lui sempre piutto­ sto indigente, avrebbe fondato il Movimento sociale italiano. Do­ po la Liberazione, ricorda con orgoglio Almirante, quelle provvi-

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de mense del popolo restarono in piedi, consentendo a « un pove­ ro diavolo come me di mettere qualcosa in corpo una volta al giomo». 19 Anche per il leader storico del neofascismo italiano quei pove­ ri pasti restano un ricordo indelebile, da scandire a distanza di an­ ni, tra ironia e nostalgia: « Una minestra con qualche vagante ti lo di pasta o chicco di riso; un quarto - ho detto un quarto - di uovo sodo con una foglia - ho detto una foglia - di insalata e un panino costituivano il pasto; al prezzo di lire 18. Un panino supplemen­ tare costava lire 3. Quando potevo acquistarlo me lo conservavo gelosamente per la sera. E la cena era costituita da quel panino e da un etto di frutta. Nei giorni felici la mia grande gioia era co­ stituita da un bel pezzo di castagnaccio, di cui ero sempre andato ghiotto, e che mi era caro anche perché mi ricordava i tempi di scuola, nella mia vecchia Torino». 20 Quando, nel 1948, sale al Quirinale Luigi Einaudi, il primo cuoco di palazzo, cavalier Bonanni, teme che il nuovo presidente voglia chiudere il servizio delle cucine e che il suo personale destino sia quello di essere licenziato. Ma non è così, e dopo aver baciato la mano a donna Ida Einaudi si mette a disposizione. 21 Einaudi, in realtà, sembra più che altro interessato al vino e su­ bito manifesta il desiderio che a tavola siano servite bottiglie delle sue cantine piemontesi, il che suscita pettegolezzi. Questtultimi si vanno ad aggiungere ad alcune critiche - tanto aspre quanto ecces­ sive - su un supposto eccesso di lusso e di privilegi rivoltegli da Francesco Saverio Nitti, con cui c'è una vecchia ruggine. Nel giugno del 1950, sul Candido di Guareschi, è pubblicata una vignetta di Carletto Manzoni. Il titolo è « Al Quirinale»; la didascalia in basso recita: « I corazzieri». Nel disegno le guardie presidenziali sono in realtà rappresentate da due lunghe file di bottiglie di Nebiolo. In fondo, si intravede la sagoma di un omino un po' sbilenco, con il bastone. Oggi non avrebbe fatto molto ef­ fetto, ma allora Guareschi venne denunciato e poi condannato per vilipendio del presidente della Repubblica e di un corpo armato dello Stato.22 E tuttavia, soprattutto alla luce di quello che si vedrà nel corso dei seguenti cinquant'anni, Einaudi resta un modello del tutto in linea con lo stile austero e sorvegliato, pure nella sua aneddo­ tica parsimonia, di quei primi anni repubblicani.

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Una volta invita a pranzo alcuni giornalisti e intellettuali, tra cui Flaiano. Giunti alla frutta, « il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi i napoletani dipin­ gevano due secoli fa: c'era di tutto eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti delle pere molto grandi. Einaudi guardò un po' sor­ preso tanta botanica, poi sospirò: 'Io, disse, prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c'è nessuno che vuole dividerne una con me?'». Il presidente, cioè, si preoccupava di sprecare mezza pera. Che cos'è mezza pera nel bilancio della Presidenza e, in fondo, dello Stato? Il maggiordomo si fece rosso, non gli era mai accaduto. Flaiano, come tutti, ebbe un attimo di sgomento. Poi alzando la mano («per farmi vedere, come a scuola»), accolse l'invito ed ebbe servita l'altra mezza pera. « Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi», scrive Flaiano, ma la conclusione vale l'intero racconto: « Qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l'Italia la repubblica delle pere indivise». 23 Sempre Einaudi, due volte l'anno, apre il palazzo e dà da mangia­ re ai poveri, con tanto di corazzieri in alta uniforme, valletti in polpe e camerieri in guanti bianchi. Un pranzo è destinato agli adulti, e si presentano circa 300 di­ sgraziati in pullman. Sono ciechi in giubbe di cuoio e scarponi, sciancati in casacche militari, disoccupati in tuta, sedicenti vedove di prefetti con logori scialletti o pelliccette di coniglio spelacchia­ to. Venti staffieri nel salone degli specchi servono le tagliatelle, la carne di daino, la frutta e il vino. Nessuno ruba nulla, ma tutti si portano a casa il panettone e gli avanzi in un fagottello. 24 Lo stesso prezioso involucro, più una stecca di torrone, un sac­ chetto di caramelle e gianduiotti, un pacco di biscotti, un'arancia e un mandarino, riportano a casa al termine di un altro pranzo offer­ to sotto le feste trecento bambini delle borgate più povere di Ro­ ma. « Quando entrò il presidente», si legge in una cronaca, « il piccolo Mario Cesari salì in piedi su una sedia e declamò qualche frase d'augurio. A metà si confuse, com'era previsto, e finì con un'improvvisazione meno d'accordo con l'etichetta, ma certamen­ te più sincera. Gridò: 'Viva il presidente e sua moglie!' E ricevette in cambio un abbraccio affettuoso da donna Ida. »2s

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NOTE 1 Matteo Mureddu, Il Quirinale dei presidenti, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 27. 2 lvi, p. 26. 3 lvi, p. 29. • Luigi Cavicchioli, «Una conversazione con Einaudi a Ischia», Oggi, 12 maggio 1960. ' Gianni Corbi, L 'awenturosa nascita della Repubblica, Riz­ zoli, Milano, 1989, p. 82. • lvi, p. 99. 7 Maria Romana Cani De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, Milano, 1964, p. 193. 8 Enzo Forcella, Celebrazione di un trentennio, cit., p. I 04. 9 Indro Montanelli, Gli incontri, Rizzoli, Milano, 1961, p. 159. 10 Giampiero Mughini, Ferrara con furore, Leonardo, Mila­ no, 1990, p. 67. Sempre sulla fame di quegli anni, racconta Mau­ rizio Ferrara: «Una volta andai a mangiare dai Forges, dove, a un certo punto della cena, apparve una piccola caciotta. li padre e la madre si servirono, poi toccò a me. Invece di tagliarmene una fet­ ta, era tale la fame che mi misi la caciotta davanti e la mangiai tutta, continuando a chiacchierare. I miei ospiti mi guardavano, senza dire nulla. Mi resi conto di quello che avevo fatto solo quand'ero già per le scale». 11 Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, Mi­ lano, 1986, p. 179. 12 Piero Ottone, Fanfani, Longanesi, Milano, 1966, pp. 76-77. 13 Giuseppe Trotta, Giuseppe Dossetti, Camunia, Firenze, 1996, p. 80. Sulle ragioni che portarono a identificare l'apparta­ mento in cui vivevano Dosseni e gli altri alla Chiesa Nuova come la « Comunità del porcellino», oltre a quella gastronomica, ripor­ tata da Lazzati, esistono in realtà altre versioni. Una, menzionata da Ottone, farebbe risalire il nome all'abitudine di chi aveva re­ perito la casa, e quindi della professoressa Bianchini, di dare con bonaria ironia del «porco»: «quel porco di...», «quel porco del...» Sta di fatto che quando Fanfani divenne ministro regalò alla Bianchini un porcellino intagliato in un asse, sul quale aveva scritto: « Lazzati, Dossetti, Gotelli, Bianchini / furono a Roma... da porcellini. I In eterna memoria di loro I eresse ... il ministro del Lavoro».

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14 Miriam Mafai, Botteghe Oscure, addio, Mondadori, Milano, 1996, p. 12. " lvi, p. 18. 16 lvi, p. 97. 17 Vittorio Gorresio, / carissimi nemici, Bompiani, Milano, 1977, p. 117. A proposito del vino dei Castelli bevuto da Togliat­ ti, aggiunge il piemontese Gorresio: quello« pesante, che sembra abbia sedimenti di gesso». '" « Compagno Togliatti devi mangiare di più, è Stalin che lo ordina», /'Unità, 20 aprile 1998. '" Giorgio Almirante, Alllobiografia di unfucilatore, Edizioni del Borghese, Milano, 1973, p. 134. 20 lvi. 21 Matteo Mureddu, Il Quirinale dei presidenti, cit., p. 55. 22 lvi, p. 100. 23 lvi, pp. 69-70. All'episodio della pera di Einaudi ha fatto spesso riferimento Indro Montanelli. 24 lvi, pp. 89-90. 25 « Trecento bimbi al Quirinale a un pranzo offerto da Einau­ di», la Stampa, 28 dicembre 1948. Cronaca siglata« u.z. » (Ugo Zatterin).

3. L'America madre e nutrice

Il cibo è il primo reale bisogno fisiologico e il primo naturale og­ getto di desiderio di un bambino, ma anche di un popolo. A par­ tire dal cibo si costituisce l'insieme delle relazioni affettive e di potere. La madre usa il suo stesso corpo per nutrire; chi nutre co­ manda; chi viene nutrito, in genere, obbedisce. La ragione, la passione, l'impulso e la concentrazione di so­ vranità su una creatura così piccola quale può essere un neona­ to - così come su un popolo sconfitto e consapevolmente umilia­ to dalla sua stessa indigenza - procura alla madre un senso di pre­ dominio difficilmente superabile nel corso degli altri normali rapporti tra gli uomini.' Di riflessi del genere vivono le relazioni fra i popoli, le nazioni e i loro governi. Fuor di metafora, e con l'azzardata risolutezza delle analogie: all'indomani di Yalta e della divisione del mondo, l'America di­ venne la madre dell'Italia, con tutto quello che ne consegue. Dall'inizio dell'ERP (European Recovery Program), inaugurato negli Stati Uniti nel giugno del 1947, fino al 30 giugno del 1951, ali' Italia vennero assegnati 1.306 milioni di dollari, cui si devono aggiungere 17 milioni del programma di emergenza inte­ rim-aid assegnati in attesa che entrasse in funzione l'ERP. Tali assegnazioni rappresentarono l' 11 per cento del totale attribuito ai paesi partecipanti.2 Si può, e anzi con il senno di poi si deve essere grati ali'Ame­ rica di aver adottato e quindi dato da mangiare ali'Italia ( e non solo all'Italia, per la verità). Madre sul serio, non madrina, né matrigna, tanto più se si considera che il cibo arrivato con il piano Marshall fu probabilmente uno dei fattori determinanti che il 18 aprile del 1948 consentirono al nostro paese di restare in occidente. E tuttavia, quel che qui interessa sono le modalità politiche, organizzative e necessariamente spettacolari di quel nutrimento. Gli aiuti americani coprivano infatti l'intero orizzonte alimentare della penisola, « dalle macchine», come si disse, « ai macchero-

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ni».3 L'ambasciatore a Roma, James Dunn, fece in modo che« il massiccio intervento non passasse inosservato all'opinione pub­ blica italiana. L'arrivo di ogni centesima nave che portava cibo - ha scritto Paul Ginsborg - costituì l'occasione di particolari fe­ steggiamenti. Ogni volta il porto d'arrivo era diverso: Civitavec­ chia, Bari, Genova, Napoli, e ogni volta il discorso di Dunn si fa­ ceva sempre più esplicitamente politico».4 In realtà, la raffigurazione cinematografica del binomio fame­ generosità era cominciata per tempo negli Stati Uniti, come di­ mostrano indimenticabili film-giornali che documentano anche per il pubblico italiano gli sforzi del giornalista Drew Pearson, cui venne in pratica affidata con grande successo la campagna degli aiuti. Sono le immagini - quante volte viste nei repertori televisivi dei« treni dell'amicizia» che da Barkesfield raccolgono « in se­ gno di simpatia» farina, latte, burro, marmellata, cioccolata e an­ che sigarette« per gli amici italiani». A Fresno, California, si ve­ de un cow-boy con cappello, cavallo, pistola e cinturone che guarda passare i vagoni con scritte variopinte: « Per i bambini e gli amici affamati d'oltreoceano». Oppure c'è, fuori della sede di una banca di provincia, la mucca pezzata« Pazzarella» che re­ ca con sé un canestro pieno di dollari che serviranno, assicura lo speaker, a comprare latte, pane e carne per l'ltalia.5 « Questa impostazione», ha scritto poi con palese rammarico lo storico comunista Ernesto Ragionieri, « doveva rivelarsi partico­ larmente efficace nei confronti di un popolo secolarmente sottoa­ limentato e che durante la guerra aveva toccato il punto più basso della curva dei propri consumi.»• Ma non c'era solo questo. Die­ tro la mucca « Pazzarella», il cow-boy, il treno e lo stesso Pear­ son c'era in realtà la moderna comunicazione, l'arma totale della persuasione a distanza. Ragionieri ne aveva appena intuito la su­ periorità, ma era troppo tardi. Ci voleva ben altro che battutine delle sinistre sugli « erpivori», e cioè sugli immancabili profitta­ tori degli aiuti ERP, per tenerle testa.7 A stomaco vuoto, poi, era ancora più difficile. Come tutte le più grandiose trovate, quella della propaganda americana era al tempo stesso molto semplice, ma piena di impli­ cazioni simboliche. li cibo che arrivava bisognava farlo vedere; la nutrizione andava messa in scena; la distribuzione degli aiuti do­ veva farsi strada con la potenza sacrale di un rito di affiliazione.

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Nel dicembre del 1947, sul molo di Napoli imbandierato a fe­ sta, attracca l'Exiria, un enorme piroscafo nero, irto di gru che affondano nei boccaporti. L'intera prua è occupata da un'imma­ gine grandiosa del presidente Roosevelt. Dietro i cancelli mi­ gliaia di napoletani, con bandierine di carta, che da due giorni, anche con qualche protesta, sollecitano l'agognata distribuzione." Un altissimo palco eretto di fronte all'Exiria accoglie le auto­ rità civili e religiose. C'è la banda che attacca Stars and strtjJes, ci sono i carabinieri in alta uniforme e servizio d'onore, i rappre­ sentanti dei mutilati. L'ambasciatore Dunn celebra quella che a distanza di mezzo secolo sembra un'autentica liturgia. Con solen­ nità consegna un chicco di grano nelle mani di De Gasperi. poi del cardinale, poi di un portuale. Assegna quindi un sacchetto di farina e due cassette di scatolame a un bambino, uno sciuscià rimasto orfano durante i bombardamenti, che ringrazia al micro­ fono! Quando viene dato il via alle operazioni di scarico. la macchi­ na emotiva e rappresentativa è al culmine. Cinque centurie di fac­ chini sollevano balle e casse di ogni genere con grano, scarpe, gomme, spaghetti, scatolette, legumi secchi, medicinali. Cento autocarri fanno la spola con i magazzini... Questa sequenza, questo film si ripete in decine di porti e viene poi proiettato in mille e mille sale cinematografiche del paese pro­ fondo e affamato. Per non smentire l'impostazione materna 1 · ap­ parato simbolico prevede la costante presenza di bambini. Le te­ lecamere non mancano mai. Così, altre immagini mostrano una lunga colonna di jeep in sosta davanti a un edificio dalle mura fa­ tiscenti alla periferia di Roma. I soldati americani sono venuti a portare latte caldo - liquido materno per eccellenza - e ciambelle ai bambini, visibilmente denutriti. Religiosi italiani collaborano nella distribuzione di pane, galline e uova di giornata. Nella men­ sa, attorno a un gran tavolo, un gruppo di bimbi sorseggia dalle scodelle il latte. Hanno espressioni appagate, quasi non riescono a prendere il fiato tra un sorso e l'altro. Il rappresentante degli aiu­ ti americani allunga una carezza sulle piccole teste. ' 0 I numeri, intanto, rimbombano. Le cifre di questo straordinario intervento di aiuti alimentari che vincolerà a lungo le relazioni tra Italia e Stati Uniti hanno la forza tipica dell'accrescimento ce­ rimoniale. Quando a Taranto, a due settimane dalle elezioni, giunge la cinquecentesima nave, Dunn si permette un riepilogo

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della quantità di cibo che ha varcato l'oceano: otto milioni di quintali di grano, che è più della metà del pane che si mangia nel paese; e poi oltre 18.000 quintali di pasta, 69.000 di grassi, 115.000 di legumi secchi. Prima di consegnarlo, un facchino ba­ cia il mazzo di rose che la moglie del prefetto di Taranto sta per offrire alla moglie dell'ambasciatore. 11 Appena tre mesi prima di incassare la fiducia del suo governo senza più sinistre, Alcide De Gasperi aveva detto alla Camera: « La prima necessità, oggi, è quella di garantire il pane ai lavora­ tori. Fa presto l'onorevole Nenni a dirci che non dobbiamo accet­ tare i prestiti americani. li grano gli Stati Uniti ce lo regalano e coi miliardi che ricaviamo dalla vendita di esso all'interno, finan­ ziamo le nostre opere di assistenza. Il piano Marshall è una que­ stione di vita o di morte. Io assumo la responsabilità di dirvi che o esso riesce oppure non riusciremo a salvare l'esistenza del po­ polo italiano nei prossimi anni». ' 2 È difficile pensare che per spirito d'indipendenza o furore ideologico, così com'era ridotto, il popolo italiano potesse accet­ tare di morire in un colossale sciopero della fame rifiutando il ci­ bo che gli offriva l'America. Il 16 aprile 1948 lenzuoli di carta svolazzanti per le città ita­ liane riportano la dichiarazione di George Marshall secondo cui gli aiuti previsti non giungeranno all'Italia nel caso il comunismo risultasse vincitore alle elezioni, dopodomani." Sulla duplicità, l'ambivalenza, la sostanziale e a volte anche mi­ nacciosa doppiezza della figura materna si sono spesi fiumi di pa­ role. Pare qui giusto richiamare il senso ultimo, e rovesciato, del­ !'assunto iniziale. Chi nutre comanda e proibisce. 14 Sembra incredibile, ma il cibo non è fatto solo per essere man­ giato.

NOTE 1 Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981, pp. 265-266. 2 Elena Aga Rossi, « Piano Marshall: il generale vince anco­ ra », in Storia di una Repubblica. Enciclopedia del'Italia dal 1946 al 1980, cit.

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3 Silvio Lanaro, Storia de/l'Italia repubblicana, cit., p. 467. Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einau­ di, Torino, 1989, p. 152. 5 Queste immagini comparvero nel 1977 in Forza Italia, film di montaggio, fatto cioè esclusivamente con spezzoni di docu­ mentari provenienti da varie cineteche, ideato da Roberto Faenza e realizzato da Marco Bocca e Marco T. Giordana. La sceneggia­ tura, di Antonio Padellaro e Carlo Rossella, venne pubblicata dal­ la Cooperativa scrittori, Roma, nel I 978 (cfr. pp. I 9-20). 6 Ernesto Ragionieri, « Lo scontro del Quarantotto. Perché la sinistra perse», in Storia della Prima Repubblica, a cura di Sil­ verio Novelli e Gianandrea Turi, I libri dell 'Altritalia, 1994, p. 25. 7 lvi, p. 79. La definizione di « erpivori», intesi come profit­ tatori di aiuti ERP, è attribuita a Riccardo Lombardi, discorso alla Camera del 5 giugno 1948. Da un punto di osservazione non di sinistra, ma sempre critico su certi abusi, si segnala la definizione di Leo Longanesi: « Uno di quei visi che hanno gustato gli aiuti ERP», La sua signora, Rizzoli, Milano, 1957, p. 232. 8 Ugo Zatterin, « La nave dell'amicizia sbarca i suoi doni a Napoli», La Stampa, 30 dicembre 1947. 9 Antonio Padellaro - Carlo Rossella, Forza Italia, cit., pp. 30-31. All'inventiva poetica di Carlo Rossella si deve la poesia fatta recitare nel film allo scugnizzo napoletano: « Dal lontano continente I è arrivata la farina. / Ce la porta la marina / di un paese assai potente. / Burro, latte, marmellata / per i bimbi e gli ammalati: / siamo tanto fortunati, / ci son uova di covata./ Benedetti dal Signore I questi aiuti mai finiti, I vengon dagli Stati Uniti/ sono il dono dell'amore». 10 lvi, p. 31. 11 « La 500esima nave americana», La Stampa, 4 aprile 1948. Cronaca siglata « v.g.» (Vittorio Gorresio). 12 « Il quinto ministero De Gasperi ottiene 185 voti di maggio­ ranza», La Stampa, 20 dicembre 1947. 13 Ugo Zatterin, « Girandola finale di uomini e idee con musi­ che, film, sirene e aeroplani», La Stampa, 16 aprile 1948. 1• Guido Ferrarlo, « Senso e passione», in A I sangue o ben cotto, Meltemi, Roma, 1998, p. 30. Sul possibile e accennato nes­ so tra offerta di nutrimento e proibizione, e sulle possibili proie­ zioni su un piano geopolitico, vale forse la pena di riportare: « Compete tipicamente al ruolo della mamma quello di nasconde4

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re la Nutella, in modo da renderla, per quanto possibile, introva­ bile. Il processo agisce tanto a livello di consumo quanto a livello simbolico: quindi anche nel senso di una cancellazione, una sot­ trazione alla vista, da intendere come sottrazione degli spazi di accesso e di consumo. Ci si potrebbe anzi, volendo, soffermare sul rilievo semantico che spetta alla dislocazione del barattolo di Nutella in uno spazio non facilmente accessibile: armadi inu­ suali, collocamento dietro a prodotti 'leciti', piani alti, superiori a quelli in cui sono collocati gli alimenti fruibili, addirittura uno spostamento in ambienti o luoghi non concettualmente relati al1 'alimentazione... »

4. 18 aprile, il ricatto dello sfilatino

E d'altra parte: che potevano fare, cosa potevano rispondere le sinistre a un'offensiva alimentare così poderosa? I democristiani, felici di poter vivere con gli aiuti americani, scrivevano sui muri « pane pasta e lavoro», e non c'era nemmeno bisogno di aggiungere « vota DC». Hai voglia a intonare strofet­ te, oltretutto sul motivo di Bandiera rossa: Signor De Gasperi, adesso basta, noi vinceremo senza la pasta!

Il punto era proprio questo: che senza la pasta, e senza il pane, per le sinistre non c'era dubbio che le elezioni si sarebbero perse. Quella del Fronte popolare fu dunque una campagna tutta di­ fensiva e pure con qualche variazione tra il grottesco e il patetico. Il viaggio della motonave sovietica Baku, ad esempio, che nel febbraio del 1948 aveva scaricato alcune migliaia di quintali di cereali nel porto di Londra, fu vissuto e copiosamente illustrato dai militanti comunisti come una specie di sfida ai piroscafi che recavano gli aiuti americani. C'era solo questo piccolo pro­ blema: che il grano sovietico si fermava in Inghilterra, e in Italia perciò non se ne vedeva neppure l'ombra.' «L'URSS ci darebbe grano e lavoro in quantità», assicurava­ no i più rozzi agit-prop del PCI, « ma De Gasperi e Sforza non li vogliono.» E rinforzavano questa balla propagandistica, appunto, con un'altra frottola, ancora meno documentabile, secondo cui i preti incollavano le etichette made in USA sugli aiuti mandati dal compagno Stalin.2 Gli italiani, in realtà, erano grati agli americani e al di là di qualsiasi valutazione sull'indipendenza nazionale vedevano, giu­ stamente, il piano Marshall come una salvezza. II comunista Maurizio Ferrara se ne accorse andando in giro per comizi, su un camioncino traballante, nella campagna roma-

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na: «Parlavamo a turno denunciando la pericolosa criminalità degli aiuti americani. Urlavo che gli americani si volevano com­ prare l'Italia a suon di dollari, che questo non doveva accade­ re». Un giorno, mentre Ferrara comiziava, passò lì nei pressi un carretto tirato da un somaro, con a bordo un vecchietto che si aggiunse al piccolo uditorio fermandosi ad ascoltare. «A un certo punto lo udii gridare, mentre sventolava la mano con dentro una specie di foglietto. Captai la sua domanda: 'Ma voi ce li date /i dollari?' e intanto sventolava la banconota che aveva in mano. 'No!!' gridai indignato. 'E allora andate af­ fangulo ! ! ' gridò di rimando il vecchietto, frustando il somaro e sparendo dalla scena. Restammo allibiti. E capimmo che in quella campagna contro il piano Marshall c'era qualcosa che non funzionava. »-' Non funzionava, no. E c'era poco da fare. Giuseppe Dosseni, che pure allora stava dall'altra parte, ha serino che il 18 aprile «hanno giocato circostanze tra le più fortuite o le più passiva­ mente subite, comunque tra le meno dominate o riscattate da una coscienza matura e libera». E ancora: «Hanno giocato» in quella storica vittoria e in quell'altrettanto storica sconfitta «stati d'animo e sentimenti tra i meno disinteressati e costruttivi; hanno giocato iniziative e metodi tra i più informi e i meno edu­ cativi». Alla fine la questione del piano Marshall era apparsa equivalente « al dilemma pane o fame, vita o morte della nostra economia».• Tutto insomma si riduceva all'essenziale. E la fame è assoluto naturale. Nella sua propaganda, la DC colse questo assoluto na­ turale costituito dal cibo. Il pane come un archetipo, qualcosa di così profondo cui le parole da sole non sempre riescono ad at­ tingere. Così, un manifesto murale mostrava appunto uno sfila­ tino diviso in due: « Il pane che noi mangiamo: 40 per cento produzione nazionale, 60 per cento inviato gratuitamente dall' A­ merica».� Invano, dopo la sconfina, risuonò l'invettiva di Giancarlo Pa­ jena: « Il piano Marshall serve a perpetuare la politica ricattatoria dell'America che si serve degli sfilatini di pane per il suo impe­ rialismo».6 Già, ma di che cosa si doveva servire? Non è il pane da secoli inesorabile instrumentum regni?

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Lo stesso Togliatti se n'era accorto, qualche tempo prima. Alla fine di aprile del 194 7 aveva scritto per /·Unità un articolo vio­ lentemente antiamericano. « Gli americani sono cretini», così co­ minciava, « prima di tutto perché sono ancora nell'animo dei ne­ grieri: un tempo commercìavano con gli schiavi, ora vorrebbero mettersi a commerciare con paesi e popoli interi come fossero balle di cotone in ribasso.» L'articolo di fondo fu pubblicato con il titolo « Come sono cretini». Cretini o no che fossero - non lo erano affatto, in realtà -, gli americani si arrabbiarono da pazzi. E minacciarono di sospendere i primi aiuti alimentari. Qualche giorno dopo De Gasperi e To­ gliatti si videro al Viminate e proprio in quell'incontro il leader democristiano colse l'occasione per annunciare a quello comuni­ sta che il prossimo governo avrebbe fatto a meno del PCI. Infilandosi nell'ascensore, Togliatti disse quasi più rivolto a se stesso che a chi l'aveva accompagnato: « Usciremo dal governo. Si tratta di un allontanamento temporaneo. Altrimenti gli ameri­ cani ci negano il pane e i primi centosette milioni di dollari del piano Marshall». 7 Questo per dire il valore epocale degli sfilatini nella vita col­ lettiva: « Non sarà mai detto», confidò più tardi con solennità lo stesso Togliatti, « che sarò stato io a impedire l'afflusso di aiuti dall'America al popolo italiano».• Non era, quest'ultimo, un retropensiero da poco. Per quanto la­ tente, o dato per scontato, comunque rallentava, impicciava e im­ brogliava la campagna del Fronte contro il piano Marshall. «Ma vi rendete conto dell'impopolarità del vostro rifiuto?»: davanti alla solita pizza, ai consueti filetti di baccalà e al vinaccio gessoso dei Castelli servito da «Romualdo», lo chiese sempre a Togliatti uno dei pochi americani che questi non riteneva cretini, e cioè Orson Welles, che giusto allora stava girando un film in Italia. Il «Migliore» rispose in modo troppo complicato per risultare convincente. In ultima analisi, spiegò, il piano Marshall sarebbe stato dan­ noso per la stessa economia che si proponeva di aiutare. Aiutando l'Europa in modo gratuito, gli Stati Uniti le avrebbero impedito di sviluppare una propria industria capace di tener testa a quella americana e di reggersi da sola quando il programma fosse venu­ to a cessare.9 Welles rimase perplesso, tutt'altro che persuaso.

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L'ambiguità dell'impostazione comunista, oltretutto, era ma­ scherata da motivazioni di principio. «Nessuno mette in dub­ bio», scriveva Rinascita, «la necessità di aiuti né quella di un 'a­ zione coordinata e neppure di una collaborazione per ottenerli e distribuirli.» Quel che si metteva in dubbio era che due, o tre, o quattro potenze si attribuissero, con il pretesto degli aiuti e della collaborazione, il diritto di determinare lo sviluppo della produ­ zione degli altri stati europei, e quindi in pratica di dirigere la lo­ ro economia. ' 0 Bene. «Con i discorsi :li Togliatti non si condisce la pasta­ sciutta», incalzava la più concreta propaganda murale democri­ stiana. «Perciò le persone intelligenti votano per De Gasperi che ha ottenuto gratis dall'America la farina per gli spaghetti e anche il condimento.»" Erano semmai gli amministratori social­ comunisti che sabotavano la campagna del grano all'ammasso per riservarlo ai «compagni» o addirittura, come accusavano i democristiani, per spedirlo all'Est. 12 Senza essere troppo irrispettosi: il I 8 aprile l'elettorato italiano non solo comprese in larga maggioranza che il primo piatto era a rischio, ma anche che quella stessa pietanza, con mirabile sem­ plificazione, finiva per coincidere con la libertà. Per chi non l'avesse capito, in tempo per il voto arrivò dall' A­ merica, oltre alla farina, una valanga epistolare. Si trattava di let­ tere personalizzate, sebbene con schemi uguali per tutti. «Carissimo», e qui andava il nome dei destinatari, « i manife­ sti che i comunisti affiggono alle mura delle città italiane accu­ sando l'America di voler asservire l'Italia a mezzo dei viveri e del vestiario che dona alle popolazioni più bisognose sono una menzogna e un'infamia. Gli echi delle manifestazioni antiameri­ cane - pure essendo inscenate da facinorosi - hanno qui un effet­ to sinistro: fanno tacere la voce della pietà e dell'assistenza e fan­ no invece nascere in cuore il pentimento d'un bene fatto non ap­ prezzato.» Oppure: «Cari... , ricordatevi che una vittoria comunista alle urne sarebbe un disastro nazionale più grave ancora della guerra perduta. Le porte dell'America sarebbero inesorabilmente chiuse all'Italia. Il popolo italiano non solo non riceverà più aiuti dal go­ verno americano, come é stato esplicitamente annunciato dal Di­ partimento di Stato, ma non riceverà alcun aiuto dalle organizza-

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zioni di assistenza che sinora hanno svolto in Italia la loro uma­ nitaria azione a favore della nazione». Alcune lettere erano anche firmate da italo-americani di rilie­ vo e l'elemento cibo non mancava mai.«Gli americani», assicu­ rava Heruy Salvatori,«sono un popolo buono, generoso, dal cuo­ re aperto. Ho visto personalmente innumerevoli cittadini ameri­ cani felici di contribuire con cibi, vestiario, denaro ad aiutare l'I­ talia. » «Caro... è la domenica di Pasqua e le campane suonano gioiosamente»: Victor Anfuso partiva in maniera quasi lirica, ma poi andava al sodo: «Gli Stati Uniti hanno dimostrato la loro amicizia per l'Italia in maniera inconfutabile, hanno inviato navi cariche di roba da mangiare. Per il vostro bene e per coloro che vogliono vivere in pace, scacciate la minaccia del Comuni­ smo». 13 La potenza epistolare di quelle recriminazioni preventive era tanto umiliante quanto giustificata dalla posta in gioco. Ma il gioco era cattivo, indubbiamente, e per le sinistre non servì a nulla fare il proverbiale buon viso. Vi fu comunque chi provò a rispondere alle lettere d'oltreoceano in maniera persino educata: «Carissimi», si poté leggere sull'Unità, «abbiamo rice­ vuto le vostre lettere e vi siamo grati per le preoccupazioni che vi prendete per noi e l'interesse che dimostrate per le cose d'Italia. Vi siamo anche riconoscenti per gli aiuti che ci inviate e che, ne siamo sicuri, nelle vostre intenzioni dovrebbero servire ad aiutare gli italiani più bisognosi. Purtroppo però non si può dire che i vo­ stri aiuti vengano utilizzati secondo le vostre intenzioni». E qui, esaurita la formale cortesia, ripartiva la politica, con stringenti implicazioni di ordine alimentare: «Voi dite di man­ darci lo zucchero e il governo e gli speculatori ce lo fanno pagare 300 lire al chilo. Voi dite di mandarci il grano, però il governo ci fa mangiare il pane nero e ce Io fa pagare 65 lire al chilo. Voi dite di mandarci la pasta e il governo ce la fa pagare 200 lire al chilo. Di tutti i pacchi che ci mandate solo una minima parte ci arriva e quei pochi che ci arrivano sono aperti e con più della metà della roba rubata». 14 Non era vero. Ma anche se così fosse stato, dopo tutto era sem­ pre meglio di niente. Pochi giorni prima del voto comparvero finti e beffardi avvisi murali firmati Fronte popolare. Avvisavano che presso le sedi unitarie, a titolo di assistenza, sarebbero state distribuite le opere di Marx e di Engels: «Nel centenario del Manifesto dei comunisti

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il Fronte ne fornisce la vostra tavola. Cibatevene. Buon appeti­ to»."

NOTE 1 « Il cardine della lotta elettorale: i rifornimenti americani e le relazioni con la Russia», la Stampa, 23 febbraio 1948. « Se alla motonave sovietica Baku», prevedeva l'anonimo commenta­ tore del quotidiano, « nel percorso dall'oriente all'occidente se­ guissero altre centinaia di navi, cariche di grano, di minerali, di petrolio, di materie di scambio, ogni polemica sul piano Marshall cadrebbe. Né l'Europa né l'Italia avrebbero ragione di preferire frumento del Minnesota a frumento dei kolkhoz ucraini.» 2 Ugo Zatterin, Al Viminale con il morto, cit., p. 202. 1 Giampiero Mughini, Ferrara con furore, cit., p. 67. • Giuseppe Trotta, Giuseppe Dossetti, cit., pp. 236-237. ' Silvio Bertoldi, Dopoguerra, Rizzali, Milano, 1993, p. 76. 6 « Incidenti alla Camera per i discorsi delle sinistre», La Stampa, 6 giugno 1948. 7 Massimo Caprara, Ritratti in rosso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1989, pp. 75-77. L'autore, allora segretario di Togliatti, racconta che dopo l'articolo « Come sono cretini» il segretario del PCI al momento di incontrare De Gasperi al Viminale disse: « Se vuoi I iquidare l'incidente provocato dal mio articolo che avrebbe offeso l'amministrazione americana, come tu dici, ho preparato una dichiarazione». Che non venne mai diffusa. • Vittorio Gorresio, / carissimi nemici, cit., p. 108. Gorresio ambienta l'incontro fra De Gasperi e Togliatti alla Consulta e vi fa partecipare anche il ministro degli Esteri Sforza. • Corrado Pallemberg, « Togliatti e Orson Welles a cena», La Stampa, 16 dicembre 1947. 10 Gianni Corbi, L 'avventurosa storia della Repubblica, cit., p. 147. 11 Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 155. 12 Giampaolo Fissore, « Vota anche se piove. Il mondo cattolico negli anni della guerra fredda», in La politica sui muri 1946-/992, a cura di Chiara Ottaviano e Paolo Soddu, Consiglio regionale del Piemonte, Neos, Rosemberg & Sellier, Torino, 2000, p. 29.

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13 Santi Fedele, Fronte popolare, Bompiani, Milano, pp. 202206. 1• lvi, p. 207. 15 « Pesci d'aprile nella lotta elettorale►>, La Stampa, 2 aprile 1948. Articolo siglato « v.g. » (Vittorio Gorresio ).

5. La guerra ideologica alla Coca-Cola

« Boicottiamo i prodotti USA», propone nel febbraio del 1999 il militante leghista alla Padania. E fra i tanti sceglie naturalmente la Coca-Cola, « che contiene caffeina e chissà cos'altro». 1 E già, ancora una volta: cos'altro contiene veramente la Coca­ Cola? Quale schifezza si nasconde dietro la dannatissima formula « 7X »? Cinquant'anni fa qualche rozzo tesserato del PCI, o qual­ che nostalgico fascista, o anche qualche prete preoccupato per la saldezza dei costumi avrebbe potuto rispondere all'odierno leghi­ sta che nella bevanda americana per eccellenza c'erano le ossa dei morti. Forse anche per questo la Coca-Cola faceva diventare i ca­ pelli bianchi. E in ogni caso scioglieva qualsiasi sostanza: si metta, ad esempio, un pezzo di ferro in un bicchiere di Coca-Cola... Bene. In Egitto i mullah proto-fondamentalisti avrebbero ri­ sposto al sospettoso leghista che c'era il sangue dei maiali; nelle Filippine che faceva perdere i denti; in Giappone che rendeva ste­ rili le donne; e in Brasile impotenti gli uomini. Né si può ignora­ re, nell'abbondanza di dicerie sulla bevanda gassosa di Atlanta, che secondo alcuni negli stabilimenti della Coca-Cola si fabbri­ cava la bomba atomica; né che secondo altri, appena un po' più evoluti, dietro la rete di distribuzione c'era lo spionaggio, ov­ viamente americano.2 In Francia, comunque, anche grazie al Partito comunista, e a varie forze nazionaliste che difendevano gli interessi dei viticol­ tori, tra il 1948 e il 1952 la campagna contro la Coca-Cola prese davvero una brutta piega. La gente cominciò a rovesciare gli autocarri rompendo e calpestando le odiate bottigliette. Un tor­ rente scuro, effervescente e appiccicoso si rovesciò per le strade di Parigi.1 In Italia l'avversione fu più contenuta, sia pure secondo i ca­ noni di allora. Nessun rovesciamento di camion, ma una sorda diffidenza e un implicito boicottaggio per un prodotto che appa­ riva, in eccezionale simultaneità per quei tempi, bibita di facili costumi, antinazionale e prediletta dall'imperialismo.

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Durante il dibattito parlamentare sul Patto Atlantico, rispon­ dendo alle continue interruzioni di un deputato democristiano di cui erano note le debolezze etiliche, Togliatti se ne uscì: « Onorevole Tonengo», così si chiamava, « si auguri che assieme alla NATO non venga approvata qualche clausola segreta con cui s'imponga persino a lei di bere Coca-Cola anziché il vino dei col­ li dell'Astigiano».4 I leghisti italiani - o italiani padani, se si vuole - arrivavano dun­ que con un buon mezzo secolo di ritardo ali' appuntamento ideo­ logico contro la Coca-Cola. E senza saperlo, probabilmente, sta­ vano riempiendo un vuoto. Erano più o meno i giorni della guerra della NATO contro la Serbia. Bossi stava con Milosevié. « Coca-Cola? Mai più un sor­ so», titolavano i giornalisti della Padania. « Ogni lattina bevuta al bar, con gli amici, al lavoro o in pizzeria è una piccola grande str...» scriveva Andrea F. da Treviso.'« Per quanto mi riguarda», prometteva Marcello T. da Padova, « da accanito consumatore di Coca-Cola fino a ieri, andrò fino in fondo. Vogliamo fare la rivo­ luzione e ci fermiamo per una bibita?»• I giornalisti della Lega parevano incoraggiare: « E guai al primo padano che si farà bec­ care da McDonald's con l'hamburger in mano».' La polpetta industriale, in effetti, rappresentava il necessario complemento e l'adeguato aggiornamento dell'antico furore po­ litico anti Coca-Cola. Sempre durante la guerra del Kosovo, secondo logiche e sche­ mi del tutto estranei alla Lega, il pacifismo più aggressivo, in pra­ tica il meno pacifico, aveva scelto McDonald's come bersaglio per incursioni e devastazioni." Sull'elevazione a simbolo di un panino o di una bevanda testi­ moniavano così le vetrine rotte, le insegne incendiate, la schiuma degli estintori nelle cucine e, dopo ulteriori allarrni, un curioso e inedito presidio di polizia là dove di solito si va a mangiare, e a volte ai bimbi danno pure un palloncino. Nel frattempo un fantomatico, ma sintomatico « Comitato di liberazione nazionale» provvedeva concretamente ad avvelenare la Coca-Cola, per quanto in modo così episodico da rasentare l'a­ zione dimostrativa (anche se una signora finì in ospedale). All'i­ nizio di maggio del 1999 vennero segnalati tre o quattro casi di bottiglie con verrni (lombrichi) e bigliettini « Morte agli USA>>. La Procura della Repubblica apri un'indagine; i Nuclei Antisofi-

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sticazioni ispezionarono lo stabilimento dell'Aquila; la Coca-Co­ la Italia valutò la possibilità di costituirsi parte civile.• Presagi del marketing, in realtà, e scherzi del destino. Padani e «pacifisti» non immaginavano che di lì a poco il loro emblema­ tico nemico, e cioè la Coca-Cola, l'arma più «intelligente» che l'America avesse mai messo in campo per conquistare il mondo, la bibita che aveva attirato e condensato su di sé i peggiori so­ spetti, stava andando incontro da sola a un clamoroso disastro commerciale e di immagine per via dell'auto-sofisticazione, in Belgio. L' intossicamento di massa in mezza Europa era un'occasione unica per vendicare mezzo secolo di consumismo e colonizzazio­ ne a stelle e strisce; ci si poteva finalmente rivalere di milioni di manifesti e spot che avevano accompagnato nel segno del consu­ mo antiche festività - si pensi al Natale bibitaro con canti sacri e candeline - e spazzato via dal mercato aranciate, spume, gassose e chinotti d'italiana fragranza... E invece no, niente. La vera sorpresa, a suo modo rivelatrice di un avvenuto passaggio storico, stava piuttosto nell'indifferenza, nell'oblio e nel silenzio, rispetto alla catastrofe commerciale del­ la Coca-Cola, di quelle che fino a qualche anno fa si potevano tranquillamente ritenere le tre grandi culture politiche italiane di questo secolo: la cattolica, la fascista e la comunista. Fino a quando, nel febbraio 2000, Silvio Berlusconi non espose di nuo­ vo la fatidica bibita sulle insegne del suo movimento: « La Coca­ Cola è stata un grande simbolo di libertà». 10 La Coca-Cola, in effetti, era arrivata e aveva messo radici con gli alleati. Perciò i democristiani - e le gerarchie ecclesiastiche che allora ne sorvegliavano occhiutamente il retroterra - non poteva­ no contestarla con troppa veemenza. Ma in fondo diffidavano di quella bottiglietta, che oltretutto sembrava ricalcare i fianchi femminili, e del suo contenuto esotico, frizzante, gioioso e al li­ mite pericoloso, come il boogie-woogie. Siccome erano già a quei tempi classe di governo, gli uomini dello scudo crociato integrarono l'istintiva sfiducia con una buo­ na dose di pragmatismo, provando a frenare il processo di ame­ ricanizzazione dei consumi e dei costumi. Stabilirono perciò che la Coca-Cola era lesiva degli interessi dei produttori di vino. An­ cora nel 1953 il fondatore della Coldiretti Paolo Bonomi attribui-

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va la crisi del settore vinicolo alla Coca-Cola. 11 E con queste inappuntabili motivazioni la tassarono senza pietà. 12 Per i fascisti l'avversione era molto più intensa e politicamente impegnativa. Vista con gli occhi degli sconfitti, la Coca-Cola era arrivata sulle baionette dei vincitori e aveva corrotto l'animo italiano, come dimostrava la smodata passione che alla bibita avevano subito riservato sciuscià e segnorine. l neofascisti di­ sprezzavano gli impiegati dello Stato che andavano al lavoro con il chewing gum in bocca, e arrivarono a proporsi di boicottare la Coca-Cola - e di difendere l'aranciata San Pellegrino - contro la cultura impregnata di « giudaismo psicoanalitico». 13 Tale è l'odio ideologico contro la Coca-Cola che nelle sue me­ morie di immediato dopoguerra, intitolate appunto Fascisti dopo Mussolini, Mario Tedeschi si rifiuta addirittura di nominarla: « La marchesa ci offri una bibita detestabile». Menziona invece i« mezzi maritozzi con la panna» che la generosa nobildonna of­ friva agli ingrati seppur affamati giovani reduci della RSI. E in­ fatti: « Bevemmo poco e cercammo di mangiare quanto più ci fosse possibile». 1• Allo stesso modo, per paura di farle pubblicità, la Coca-Cola non viene nominata nemmeno nel mondo comunista. Nel 1949, su Vie Nuove, Antonello Trombadori solleva la que­ stione con una lettera in cui protesta per le reclames che, anche in forma strisciante, comparivano sulla stampa, anche comunista. Gli risponde il vicedirettore, Michele Pellicani, che « come mar­ xisti combattiamo la società capitalista, ma fino a quando questa è la società nella quale viviamo non possiamo ignorare le sue leg­ gi, i suoi costumi e certe esigenze che ne conseguono». Ed esem­ plificando va a parare - guarda caso - sull'innominabile scirop­ po: « Possiamo ignorare», si domanda Pellicani, « che anche gli operai bevono la bibita Zeta Zeta?»" Qualche anno dopo, c'è da dire, Pellicani uscì dal PCI. E nel partito restarono i più intransigenti e settari nemici della Zeta Zeta. Al punto che quando Sandro Curzi, di ritorno da un festival inter­ nazionale, si presentò alle Botteghe Oscure con un montgomery color sabbia tipicamente americano, completo di alamari e cappuc­ cio, i compagni romani lo accolsero con salaci commenti di disap­ provazione: «Ahò! Qui se va avanti così, finisce che qualcuno ar­ riva pure con la Coca-Cola...» 16 O Zeta Zeta che fosse.

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NOTE «Non compriamo prodotti USA!», La Padania, 26 febbraio 1999. L'indicazione del mittente reca: «lettera firmata», Ge­ nova. 2 Mark Pedergrast, La vera storia della Coca-Co/a, Piemme, Casale Monferrato, 1993, pp. 319-322. ' Ivi. Per quel che riguarda l'avversione dei francesi alla Co­ ca-Cola, Paul Boulet, deputato sindaco di Montpellier e portavo­ ce dei viticoltori, presentò e fece approvare nel 1950 una legge che rendeva l'industria americana passibile di denuncia per ven­ dita di prodotti farmaceutici senza etichetta. Un altro deputato, Gérard Duprat, guidò per sette ore l'ostruzionismo all'Assem­ blea. Le Monde denunciò i pericoli che la bibita rappresentava per la salute e la civiltà della Francia. Anche Raymond Aron pro­ fetizzò la distruzione della cultura francese «con la Coca-Cola al posto del vino». 4 Palmiro Togliatti, Discorsi parlamentari, Camera dei depu­ tati, Roma, 1984, p. 425. Sull'onorevole DC Matteo Tonengo, «anziano contadino di Chivasso, noto soprattutto per le sue licen­ ze alcoliche e per il caso creato ai questori di Montecitorio con la pretesa di servirsi gratuitamente delle case di tolleranza esibendo il tesserino da deputato», ha scritto Ugo Zatterin: Al Viminale con il morto, cit., p. 268. Proprio in occasione del lungo dibattito, anche in seduta notturna, sul Patto Atlantico, racconta Zatterin che nel buio fitto della Sala della Lupa, «già brillo» e alla ricerca di un luogo dove riposare tra un turno e l'altro in aula, l'onore­ vole Tonengo finì per sdraiarsi su una deputata comunista geno­ vese, «il cui urlo selvaggio fa pensare per un momento a peggio che un equivoco». s «Coca-Cola, è 'roba' loro...», La Padania, 3 aprile 1999. 6 «Coca-Cola? Mai più un sorso», La Padania, 6 aprile 1999. 7 «Non compriamo», cit. • « Molotov contro McDonald's: è il quarto attentato in un an­ no», Il Messaggero, 28 marzo 1999; «Assalto da McDonald's, raid anti-USA a Trastevere», la Repubblica, 7 aprile 1999; « Lo­ cali a 'stelle e strisce', cresce la sorveglianza», Il Messaggero, 8 aprile 1999; Luca Bussi-Cristiana Mangani, « Attentati contro i colossi americani», // Messaggero, 22 aprile 1999. Incursioni «pacifiste» si verificarono anche in locali romani della catena, sempre americana, Planet Hollywood. 1

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9 « Se la Coca-Cola non è più un nemico», La Stampa, 21 giu­ gno 1999. 10 « Il bipolarismo divide Nutella e Coca-Cola», Il Messagge­ ro, 9 febbraio 2000. 11 « Sagra della demagogia all'adunata sul Palatino», l'Unità, 23 marzo 1953. 12 Pier Paolo D'Atterre, « Sogno americano e mito sovietico nell'Italia contemporanea», in Nemici per la pelle, a cura di Pier Paolo D'Attorre, Franco Angeli, Milano, I 991, p. 31. 13 Marta Boneschi, Poveri ma belli, Mondadori, Milano, 1995, p. 19. Dell'avversione neofascista per la bibita made in USA resta traccia nello sprezzante commento di Pino Rauti da­ vanti a una pubblicità nella Repubblica popolare cinese: « Avete fatto una lunga marcia con così tanti morti per arrivare alla Coca­ Cola?» Cfr. « Quando le bevande irrompono in politica», li Tem­ po, 9 febbraio 2000. 1 • Mario Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini, L'Arnia, Roma, 1950. Ora su Internet: www.ilborghese.com/libri/fdm/frame/ fdm_f.htm. " Stephen Gundle, « Cultura di massa e modernizzazione», in Nemici, cit., pp. 242-243. 16 Miriam Mafai, Botteghe Oscure, addio, cit., p. 50. Sandro Curzi trasformò poi il contestato montgomery in un normale giaccone. Per quel che riguarda la polemica anti-Coca-Cola della sinistra extraparlamentare negli anni '70, si segnala il testo - in­ vero piuttosto colpevolizzante - del cantautore Franco Trincale: « Per ogni Coca-Cola che tu bevi / un proiettile ali' America hai pagato / e se il marine la mira non fallisce / un compagno vietna­ mita è assassinato». In: « Coca-Cola dal Viet Nam a Silvio», Corriere della Sera, 9 febbraio 2000.

6. Forche, forchette e forchettoni

Chiave di volta dei rapporti sociali e politici, alle elezioni del 7 giugno 1953 - elezioni che bloccando la cosiddetta «legge truf­ fa» ridimensionarono in modo drastico la volontà stabilizzatrice della DC - il cibo funzionò anche come straordinaria arma con­ tundente. I simboli, le passioni e la realtà stessa di un paese arretrato e affamato si condensarono in un'immagine destinata a restare im­ pressa nella memoria collettiva proprio perché investiva sul man­ giare. Qualcosa di più che una fortunata metafora, piuttosto un'i­ dea anche visiva di contagiosissima potenza sonora, una traccia semantica, diremmo oggi, un indizio fulminante che indicava con la dovuta precisione come il partito di maggioranza e di go­ verno avesse escluso un pezzo di paese dalla propria mensa.

È difficile stabilire esattamente quando venne usato la prima vol­ ta il termine «forchettoni». A sfogliare l'Unità s'incontra prima la parola «forchetta», e anzi per la verità la si trova al plurale: «forchette». Riguardo a uno scandalo invero di modesta entità, scoppiato intorno all'ENAL. Erano stati arrestati alcuni dirigenti democristiani che appro­ fittando delle loro mansioni si erano appropriati dei viveri delle mense per rivenderli. «Quanti altri fatti e marachelle restano an­ cora sconosciuti all'opinione pubblica?» si chiedeva il quotidia­ no del PCI. «Quante altre 'forchette' si nascondono ancora sotto l'insegna di questo ente di diritto pubblico?»' Era il 7 aprile 1953. In quello stesso giorno, sulle stesse pagine dell'Unità, si poteva leggere una «strofetta» nonostante tutto scanzonata: O/è, olè, o/è, con De Gasperi non si mangia. O/è, o/è, o/è, il governo mangia per te. 2

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Due giorni dopo, il 9, era apparsa una vignetta in cui si vedeva De Gasperi, appunto, trascinare uno scudo con due forchette in­ crociate. Al posto di « Libertas» si leggeva « Pastas». In seguito l'artefatta dizione si assestò su« Pappatas». Il 13 aprile un mani­ festo che faceva il verso alla cartellonistica cinematografica an­ nunciava: « La 'Forchettoni Associated Films' ha prodotto un film dal titolo originale L'ultima truffa. I protagonisti sono Ga­ mella, Saramat, Spaccardi e Pigliabruna, più la celebre ballerina Rolita. Il regista è Aspide De Capperi ».3 A quei tempi, evidente­ mente, funzionava. Il 17 aprile venne rilanciata per la Democrazia cristiana la defi­ nizione di« partito della greppia» e comparve un'altra vignetta dal titolo« Fachiri DC» che rappresentava un onorevole sotto una teca di vetro.« È formidabile, digiuna già da due ore», diceva uno spet­ tatore. « E che c'è di strano», ribatteva un altro, « il fachiro Bur­ mah digiunò per 67 giorni.»« Già, ma questo è un deputato DC!» Il 20 aprile - ed è ormai un punto di non ritorno - l'Unità reca addirittura un inserto satirico propagandistico che ha come testata « Il Forchettone del lunedì». In apenura c'è una poesia intitolata Forchettate:

La forchetta è un arnese, ossia un aggeggio, che s'usa normalmente per mangiare: i clericali, conquistato il seggio, l'usano invece per amministrare... La Camera essi scambiano, è palese, per la sala da pranzo del Paese.•

E pensare che la più riuscita invenzione polemica del PCI era un'appropriazione per certi versi indebita. I comunisti italiani si guardarono bene dal ricordarlo, ma a introdurre la forchetta in politica, sei anni prima, era stato il fondatore dell'Uomo Qualun­ que, Guglielmo Giannini. Lui per primo, nell'agosto del 1947, aveva fatto riferimento al « partito della forchetta», ovvero a chi faceva politica « per camparci sopra» e per fare solo i propri interessi. « Forchettisti» l'ex commediografo Giannini chiamò tutti indistintamente gli uomini politici.' Ma il cambio di desinen­ za in « oni» e l'attribuzione della qualifica ai soli DC erano già, nel 1953, piuttosto indicativi. Dietro la campagna apparentemente rozza dei comunisti c'era in realtà l'estro propagandistico e la meticolosa orchestrazione di Giancarlo Pajetta, innovatore degli schemi elettorali. Ai lunghi te-

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sti ampollosi, Pajetta preferiva le foto, le immagini, i montaggi e i dettagli fulminei che sintetizzavano un'intera e complessa realtà. Sul piano della grafica si ispirava all'esperienza milanese di Veronesi e Steiner, ma dietro a certe trovate imposte alla direzio­ ne del partito si sentiva l'impostazione «alta» della propaganda: Rodcenko, Klutsis e Heartfield, lo scenografo tedesco che rivolu­ zionò l'arte del manifesto politico nel dopoguerra.• In particolare, nell'immagine dei forchettoni pareva di cogliere l'influenza di Grosz. Un suo grasso capitalista intento a tagliare un pollo finì non a caso pubblicato sul«Forchettone del lunedì» come«dise­ gno di grande attualità».' Il pezzo forte di quella campagna fu comunque ispirato da una pubblicità della Sambonet, allora la più rinomata azienda produttrice di posate. Al posto dei tre nanetti che portavano sulle spalle una forchetta, un cucchiaio e un coltello, gli strateghi delle Botteghe Oscure misero De Gasperi, Gonella e Scelba. Sul bava­ glino di ciascuno, per maggior sicurezza, venne apposta la scritta «DC»." Le enormi posate erano dunque in marcia... E tuttavia, a proposito di stoviglie, varrà la pena di ricordare che la legge maggioritaria o «truffa» - altro mirabile copyright di Pajetta - era stata dibattuta al Senato, prima e durante lo spaven­ toso scontro finale della domenica delle Palme, con una colonna sonora che neanche a farlo apposta evocava il cibo e, ancora di più, la sua scarsezza. Per un giorno e una notte, attorno a Palazzo Madama, c'erano stati circa duecento grandi invalidi che per protesta contro i man­ cati aumenti di pensione avevano battuto ritmicamente sul selcia­ to le ciotole metalliche con cui a intervalli consumavano - ha scritto Andreotti - le loro «piccole refezioni». 9 Il rumore delle gavette richiamava una realtà ancora minaccio­ samente segnata dall'indigenza. Ancora i politici, nei comizi, parlavano del pane e del suo prezzo. « Scopriamo che un chilo di pane costava 93 lire nel 1948 e costa 107 oggi - questo è To­ gliatti -. Ci hanno almeno guadagnato i contadini da questo au­ mento? No.»' 0 E giù gli applausi. I consumi alimentari delle classi lavoratrici apparivano davve­ ro poveri. Gli italiani mangiavano un quarto dello zucchero degli irlandesi; quanto a carne se la combattevano con i turchi; frutta e verdura 98,3 chili pro capite contro i 135 della Francia. Le stati­ stiche, concludeva l'Unità,«confermano quello che ogni lavora-

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tore della penisola sa, purtroppo, per sua amara e quotidiana esperienza: l'operaio e il contadino italiano mangiano poco e mangiano male». 11 In questa atmosfera, senza indulgere al piagnisteo, anzi, il PCI seppe trovare il tono giusto. Dopo tutto, i forchettoni gli permet­ tevano di tenere assieme lotta elettorale e buon umore. Il risultato sembra oggi quasi rablaisiano, una sorta di epopea satirica e gio­ cosa con Gargantua e Pantagruel nella parte dei cattivi. E comunque: afferrata l'idea, i comunisti se la giocarono in tutti i modi possibili, parole, musica, oggetti e passatempi. Il« Forchettone del lunedì», ad esempio, offre davvero un'ab­ bondanza di motivetti musicali di quell'epoca o precedenti ria­ dattati al tema. Sull'aria di Ma l'amore no, era previsto un coro di aspiranti onorevoli DC che cantava: Al mio forchetton io ci ho molta affezion... 12

Come pure, invece di Papaveri e papere, e con un occhio ad altri scandali di marca DC: Si sa che voi papaveri magnate a tutto spiano e digerite facile la crusca e il metano. Ma il popolo ha lo stomaco piuttosto delicato non vi può digerire e ve la farà finir. 13

Non manca, com'è ovvio, l'inno democristiano Biancofiore: O bianco fiore grazie di cuore con te ci scappa un po' di pappa. 14

L'intento parodistico è prevalente anche nella seguente « petroli­ nata », sempre in tema: La forchetta è quella cosa che il selvaggio ne fa senza noi I 'usiam con impazienza

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perché siamo assai civil.

Parapapunzi punzi pi.

È lo struzzo quella cosa che ha uno stomaco abissale, ma non batte il clericale che ce l'ha più grande ancor.

Parapapunzi punzi po."

Nella varietà dei generi - scendendo - c'era anche l'osteria: Osteria della forchetta,

e 'è Vanoni che progetta

nuove tasse e imposizioni per sfamare i suoi mangioni... Osteria dei Comitati, sono Civici chiamati oh, che comodi ed economici Comitati gastronomici... Osteria democristiana, c'è l'Italia al'amatriciana: se rivincono le elezioni se la pappano i forchettoni ... 16

Che si potesse e dovesse scongiurare con il sorriso sulle labbra l'ipotesi di una vittoria democristiana, peraltro avvalorata dal mutato sistema elettorale, era un'intuizione felice, per quanto ri­ velasse anche stati d'animo non proprio pacifici. Vista con gli occhi di oggi, la campagna sui forchettoni risulta tanto più efficace quanto più in grado di colpevolizzare i demo­ cristiani. La raffigurazione del nemico era doverosamente enfati­ ca, e spesso pacificamente e genericamente caricaturale come in questo stornello romanesco: Ar deputato della maggioranza che l'antra sera s'è sentito male j 'hanno tròvo un brillante ne la panza eh 'ha prezzo 'n te so dì quello che vale... Ner levajelo er dottore dice: - È proprio de valore... Se meravija, co' quello che se magnano in famija! 17

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E tuttavia, anche all'interno di una satira apparentemente gioco­ sa, passavano attacchi personali addirittura ossessivi. Nelle « for­ chette incrociate» - 1 orizzontale, IO lettere - si chiede il nome del « campione italiano dei forchettoni». È soprattutto il senatore Teresio Guglielmone il democristiano che per la propaganda del PCI incarna il prototipo negativo della grottesca e detestabile fi­ gura. Perché Guglielmone? Perché aveva in effetti un sacco di cari­ che (16 ne avevano calcolate) in enti e consigli d'amministrazio­ ne, e come tale funzionava come« recordman dell 'accaparramen­ to di prebende», « primatista della corsa al cadreghino». '" Ma forse era stato scelto anche per la sonorità del cognome: Stanotte a mezzanotte s'intese un gran rumore era Guglielmone senatore forchettone. 19

Soprattutto lui si evocava nelle vignette, compariva nel bel mez­ zo di poesie, era reso protagonista di tante strofette. « Sentendo parlare di pappatoria il senatore Guglielmone si fa vivo contemporaneamente da una ventina di ristoranti.» E can­ tava: Questo o quello per me pari sono e quant'altri d'intorno mi vedo ogni piatto al DC sembra buono purché possa tranquillo pappar.

Al che il coro gli rispondeva: Pappando con zelo e passion sulla nazion, o Gug/ie/mon, tu passi con gran devozion dal cande/on al forchetton... 20

II povero Guglielmone, in realtà, di cui qui non è neanche il caso di valutare se fosse o non fosse un forchettone, era stato scelto come archetipo dell'insaziabilità democristiana e dell'ingiustizia sociale che si misurava prima di tutto a tavola, a dispetto di ogni ignobile partecipazione a processioni e manifestazioni religiose (« il candelon»).

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Guglielmone inoltre faceva rima con Polpettone, che era un immaginario democristiano che naturalmente mangiava alle spal­ le dei suoi poveri dipendenti, ma soprattutto non era mai sazio. In segno di massimo dispregio delle regole del vivere civile, Polpet­ tone era preda di un'autentica bramosia famelica, di un delirio bulimico che gli imponeva di rendere sempre più breve, fino a renderlo inesistente, lo spazio di tempo tra un pasto e l'altro. 21 Va da sé che la defonnazione del nemico raggiunse in quella campagna elettorale vette da allora invalicabili. La grassezza de­ mocristiana divenne un marchio di malvagità. Perfino Togliatti, che pure aveva di nonna un'oratoria piutto­ sto sorvegliata - e già allora appariva fisicamente un po' roton­ detto - parve assecondare questa raffigurazione spregevole dei democristiani: «Noi gridiamo il nostro obbrobrio», disse chiu­ dendo la campagna elettorale a Napoli, «al panciuto gerarca cle­ ricale». 22 Dietro a tutta la girandola di gioiose invenzioni, c'era forse anche un po' di paura. La paura più primordiale e inconfessabile: quella di essere così affamati da poter venire mangiati da altri affamati, e più forti fantasmi divoratori. L'attenzione ai denti e in generale all'apparato masticatorio dei forchettoni DC appare in questo senso quantomeno sospetta. DC, si disse, stava per«Denti Coraz­ zati». Era tutto un arrotarsi di molari e incisivi. Il dizionario della greppia e la galleria dei forchettoni si chiu­ deva con«Zanna ossidrica»: che non aveva un nome e un cogno­ me, ma era presentato come fantastica entità: «Colui che è stato capace di masticare e deglutire un'intera corazzata con contorno di cacciatorpediniere». 23 Insomma: un mostro. Il che, per un partito che sulla base di quanto poteva essere accaduto in URSS durante alcune carestie veniva allora accusato di «mangiare bambini», be', ecco, suona­ va non si sa bene se come una vendetta preventiva o come una nemesi crudele. Comunque c'entrava - si sarà capito - il cibo. Molto più, ari­ leggersi i giornali, della legge elettorale maggioritaria con premio di maggioranza per i partiti «apparentati». I democristiani reagirono con sdegnosa indifferenza, dapprima. Poi si resero conto che qualcosa dovevano pur rispondere. Trop­ po sottile e professorale, invano Guido Gonella si provò a repli-

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care che la vera « filosofia della forchetta» era semmai il mate­ rialismo storico, riempirsi la pancia senza nulla concedere allo spirito. Insorse Pajetta, a nome di un partito « i cui quadri usarono per tanti anni solo la forchetta di legno del penitenziario; quella for­ chetta - aggiunse rabbioso e solenne - che si adoperava una volta alla settimana, essendo per tutti gli altri giorni sufficiente il cuc­ chiaio di legno per l'unica minestra quotidiana». Il 7 giugno gli italiani avrebbero fatto abbassare le anni ai DC. Perciò: « Giù le forchette», concludeva. « Riposo! »24 Forchetta dopo forchetta, il tono irridente costrinse dunque i democristiani a ricorrere all'arma estrema, che peraltro usavano con una certa frequenza. E alle forchette contrapposero quindi le forche che nei paesi dell'Est, a regime comunista, in quegli anni contribuivano a risolvere tante controversie, politiche e religiose. Non era un'idea nemmeno cattiva. Le impiccagioni di preti e dissidenti erano laggiù, se non all'ordine del giorno, certo un fat­ to abbastanza normale. Fu preparato un manifesto, come da ma­ nuale parecchio ansiogeno, con capestro e tutto il necessario. I Comitati civici prepararono fantocci, sagome d'impiccati inno­ centi, da appendersi ai lampioni e ai fili dei tranvai. Il tema del mangiare - anche qui una risposta indiretta - si coglieva an­ che nel poster mobile di un gigantesco Malenkov piegato su un piatto pieno di ossa su cui erano scritti i nomi dei paesi satelliti dell'URSS." I comunisti neanche risposero, un po' perché ci erano abituati e un altro po' perché anche loro avevano da tempo preso a con­ fezionare forchette portatili che venivano lasciate volar via nel cielo, con dei palloncini, durante i comizi dei candidati democri­ stiani. La polizia ne ordinava spesso il sequestro. 26 Ciò nonostan­ te, a Catania, in una notte, venne costruito addirittura il monu­ mento ai forchettoni. Si trattava di una forchetta alta diversi me­ tri, montata su un largo piedistallo piramidale a piazza Stesicoro. L'epigrafe recitava: « A ricordo di cinque anni instancabilmente operosi, memori et non sazi, pronti a ricominciare, i forchettoni posero, 18 aprile 1948-7 giugno 1953 ». I vigili comunali, protetti da decine di agenti della Celere, demolirono il monumento la mattina seguente.27 Forchette furono segnalate anche a Ceprano, in Ciociaria, durante il comizio del giovane Andreotti. Si poteva leggere infatti sull' U-

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nità che quel «distinto democristiano in doppiopetto blu che por­ geva il braccio a donna Ida Einaudi» per le elezioni si trasforma­ va in un «selvaggio cacciatore di voti». A Sora, denunciavano i comunisti, Andreotti aveva non solo fatto affiggere un manifesto promettendo a chi fosse intervenuto al suo comizio « pagnottelle gratuite e birra a metà prezzo», ma soprattutto si era portato dietro Silvana Pampanini, « accompa­ gnata da uno stuolo di avvenenti ballerine». L'entusiasmo della folla era stato tale che l'attrice si era dovuta difendere «con le unghie e con i denti». Senza la Pampanini, a Monte San Giovanni Campano il sotto­ segretario di De Gasperi si era trovato di fronte a candidati mo­ narchici che regalavano «buatte» di conserva e pacchi di pasta. Secondo /"Unirà, per battere la concorrenza Andreotti s'era affac­ ciato dal palazzo dei conti d'Aquino «lanciando a piene mani qualche centinaia di pagnottelle e divertendosi un mondo alla f scena della gente che si azzuf ava per cogliere al volo gli sfilatini che cadevano dall'alto ».2• Sembra un po' la scena di un film di Totò. Ma la cultura del pacco alimentare ed elettorale proprio in quegli anni stava cele­ brando i suoi fasti.

NOTE « Le forchette clericali 'lavorano' sull'ENAL», l'Unità, 7 aprile 1953. 2 Il Diavolo zoppo, «Strofetta», l'Unità, 7 aprile 1953. La canzoncina o «strofetta>> era già stata notata a Napoli nella cam­ pagna elettorale del 18 aprile 1948. Cfr. Ugo Zatterin, « Elezioni a Napoli», La Srampa, 4 marzo 1948. Il giornalista aveva descrit­ to le «processioni di ragazzi, ragazze, lazzari e gente dei bassi con il fazzoletto rosso al collo, gli stendardi rossi infiorati e osan­ nanti, le fotografie dell'onorevole Togliatti sul cuore e le cantile­ ne lente come melopea sacra: 'Olè! Olè! Olè! Con De Gasperi non se magna...' » 3 «Osservatorio elettorale», l'Unità, 13 aprile 1953. • «Forchettate», «Il Forchettone del lunedì», l'Unità, 20 aprile 1953. 5 « Le parole di quegli anni», in Storia della Prima Repubbli1

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·ca, a cura di Silverio Novelli e Gianandrea Turi, Avvenimenti, 1994, p. 26. • Massimo Caprara, Quando le Botteghe erano oscure, Il Sag­ giatore, Milano, 1997, pp. 129-130. 7 «Il Forchettone del lunedì», l'Unità, 27 aprile I 953. 8 Massimo Caprara, Quando le Botteghe... , cit., p. 130. Il di­ segno dei tre nanetti della Sambonet fu poi imitato nel 1974 in un manifesto di Lotta continua raffigurante, alla lontana, Kissinger, Fanfani e Rumor. Cfr. Marco Scavino, « 'Agnelli ha paura e chia­ ma la questura': il '68 e i movimenti di estrema sinistra», in La politica sui muri... , cit., pp. 97-98. Cfr. anche Laura Garau, «Strategie narrative e argomentative nei manifesti politici dalla guerra fredda a oggi», ivi, p. 172. 9 Giulio Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Mondadori, Milano, 1956, p. 249. 10 «Rivelazioni di Togliatti sul Vaticano e la pace», l'Unità, 18 maggio 1953. 11 Giuseppe Boffa, «L'Italia è tra i paesi d'Europa dove l'ali­ mentazione è più povera», l'Unità, 6 aprile 1953. 12 «Canzoni di mezzo secolo», in «Il Forchettone del lune­ dì», l'Unità, 27 aprile I 953. 11 lvi, 11 maggio 1953. 14 «Coro di candidati DC», in «Il Forchettone del lunedì», l'Unità, 4 maggio I 953. 1' «Canzoni di mezzo secolo», in «Il Forchettone del lune­ dì», l'Unità, 27 aprile 1953. 16 «Osteria», in «Il Forchettone del lunedì», l'Unità, 4 mag­ gio 1953. 17 «Stornelli», in «Il Forchettone dell'aldiquà», l'Unità, 18 maggio I 953. La testata satirica mutò nome, in quella settimana, dopo che il quotidiano comunista scoprì che una mostra propa­ gandistica organizzata dalla Democrazia cristiana sui crimini «dell'Aldilà», cioè avvenuti nei paesi oltre cortina, esponeva in realtà smaccati falsi. 18 «La galleria dei forchettoni», in «Il Forchettone del lune­ dì», l'Unità, 27 aprile 1953. 19 Il Diavolo zoppo, «Sor Capanna I 953», l'Unità, 17 aprile 1953. 20 «Canzoni di mezzo secolo», in «Il Forchettone del lune­ dì», l'Unità, 20 aprile 1953. 21 « Diario di Polpettone», in «Il Forchettone del lunedì», 20

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aprile 1953. Esempio: « Ore 10,30. Non ho neanche il tempo di consumare la mia frugale colazione. Avevo appena mangiato le due uova al prosciutto, i toast al burro, il succo di quattro arance, quando ho dovuto perdere un quarto d'ora per parlare con il mi­ nistro [... ] Ore 11. Devo mettere assolutamente qualcosa nello stomaco, altrimenti muoio [ ... ] Ore 12. Lo sapevo, quelli della Commissione interna mi hanno bloccato la digestione di quelle tre o quattro salsicce che avevo buttato giù in fretta [ ... ] Ore 13. Ho una gran fame da lupo. Ho invitato il ministro a casa. A casa non sono troppo contenti quando invito i ministri, dicono che gli fa senso vederli mangiare in quel modo...» E così via. Sul cibo e la frenesia maniacale monosintomatica: Caterina Schia­ von,« La parola al cibo», in Al sangue o ben cotto, Meltemi, Ro­ ma, 1998, p. 59. 22 « Discorso di Togliatti a Napoli», l'Unità, 3 giugno 1953. 2 J « La galleria dei forchettoni», in« Il Forchettone dell'aldi­ quà», l'Unità, 18 maggio 1953. 24 Giancarlo Pajetta, « I forchettoni di Gonella», l'Unità, 21 maggio 1953. " « Vino e tagliatelle per sedurre gli emiliani», La Stampa, 30 maggio 1953. 2 • « Discorso a Roma», l'Unità, 6 giugno 1953. Sul sequestro delle forchette Togliatti disse nel comizio di chiusura della cam­ pagna elettorale: « Nostri compagni hanno pensato dì mettere in mostra anch'essi qualcosa, e non hanno presentato una grottesca caricatura del presidente del Consiglio, bensì delle forchette, del­ le grandi forchette in libertà. Allora sono intervenute le autorità. Nessun vilipendio delle forchette, per carità. Le forchette sono qualcosa di sacro in regime clericale. E sono state ritirate dalla circolazione. Mi hanno detto, ma non so quanto ci sia di vero, che il ritiro delle forchette sia dovuto a un'iniziativa di De Gaspe­ ri e Gonella i quali hanno dichiarato che data la misura stragrande di queste forchette volevano servirsene per dar da mangiare ai membri della loro famiglia». 27 « Il monumento ai forchettoni demolito dalla PS a Cata­ nia», 1 'Unità, 31 maggio 1953. 28 Plutarco, « Andrcotti uno e due», l'Unità, 24 maggio 1953. Su Andreotti e la Pampanini a Sora durante la campagna eletto­ rale, cfr. anche Massimo Franco, Andreotti visto da vicino, Mon­ dadori, Milano, 1989, pp. 65-66.

7. Achille Lauro e il suo PMP (Pasta Maccheroni Pomodoro)

« Un voto del Sud», scriveva nel 1953 Enzo Forcella, in una cro­ naca elettorale da Napoli, « vale quanto un voto del Nord, ma le arti che qui occorrono per conquistarlo sono, al tempo stesso, in­ finitamente più elementari e più complicate. Bisogna spendere te­ sori di fantasia, di pazienza, di spregiudicatezza e, ora che Lauro ha reso purtroppo usuali certi metodi, anche di denaro.»' Denaro per comprare voti in cambio di cibo, pasta soprattutto. Achille Lauro, « il Comandante», sindaco della città e candidato per i monarchici, raggiunse tali livelli di distribuzione da impres­ sionare il New York Times e la Washington Post. 2 Si disse a Napoli, con amaro sarcasmo, che nelle elezioni del 1953 lavorarono più i mulini che le tipografie. Alla fine, anche sui maccheroni, lo scontro si fece rovente e sanguinoso. A tre giorni dal voto, come accadeva da circa un me­ se, l'intera famiglia Vacca era intenta a distribuire pasta per la propaganda laurina. Ne ricevette in abbondanza un 'altra famiglia di vicini di casa, sempre nello stabile numero 209 di Capodichi­ no. Ma dopo averla consumata a pranzo, questi vicini di cui i giornali non rendono noto il cognome uscirono dallo stabile per fare propaganda al PCI. I Vacca se ne accorsero. Ne nacque un diverbio, poi proseguito in modo drammatico a rasoiate. Quattro persone - la signora Nunzia Vacca e tre figli, Gennaro, Anna e Alfredo - rimasero gravemente ferite.' Questo per dare l'idea delle conseguenze selvagge che tale pratica a volte poteva comportare nella Napoli laurina del 1953. Non solo, ma l'aspetto più degradante della distribuzione di cibo come forma di propaganda era che spingeva tutti ad adeguarvisi o - in mancanza di mezzi - ad incarognirsi sempre di più contro chi ricorreva a questi sistemi, pure antichi quanto le stesse elezioni. L'elettorato più povero e indifeso, del resto, non rifiutava quella carità pelosa. Pacchi alimentari democristiani si segnala­ vano un po' dovunque in prossimità del voto. Pacchi di partito

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e pacchi di beneficienza. A Roma, ad esempio, le dame di San Vincenzo gestivano un asilo per i figli dei baraccati del campo Parioli. « Il che significa», denunciava l'Unità, « che esse ammi­ nistrano latte, maritozzi, cioccolata, marmellata. Esse possono sa­ ziare la fame di un bambino 'buono' o lasciare a bocca asciutta un bambino 'cattivo'. » Già questo destava sospetti, potendosi commutare bontà e cattiveria alle idee politiche e alle preferenze elettorali della famiglia. Sotto elezioni le dame si preoccuparono anche dei genitori. Nei pacchi c'erano due litri d'olio, riso, zucchero, pasta e lardo. « Quel giorno bollirono molto più allegramente le pentole in mol­ te baracche del Campo Parioli», prosegue con un certo lirismo il quotidiano del PCI, « e dalle padelle si sprigionò un soave odore di lardo che certo andò dritto fino al cielo ...» I mariti comunisti provarono ad arrabbiarsi con le mogli che avevano accettato il pacco. Ma quelle avevano un buon argomento: « E poi non è det­ to che il 7 giugno gli dobbiamo dare il voto per forza. Le dame di San Vincenzo dentro la cabina non ci stanno».• Achille Lauro conosceva benissimo questo pietoso espediente. « Prendete la pasta e poi votate per noi», era stato il passaparola di comunisti e socialisti in precedenti consultazioni.5 Ma essendo più furbo dei miserabili, aveva escogitato il sistema della scarpa spaiata e della banconota tagliata in due. Sui maccheroni, tuttavia, quella leggendaria e torva incompiu­ tezza era più difficile da applicare; per cui dovette intensificare gli sforzi e ingigantire le donazioni. Davvero non poteva fame a meno. Nulla più del cibo riduce in­ fatti la complessità del discorso politico e lega con maggiore for­ za simbolica il potente ai suoi sudditi. Grazie anche al cibo - pasta, zucchero, olio, pomodoro-, l'an­ no prima Lauro era riuscito a sfondare nella plebe napoletana di­ ventando il primo cittadino di quella città che aveva promesso di trasformare nella « perla del Mediterraneo».6 Stavolta non dove­ va nemmeno temere il PCI, con cui s'era stabilita una tacita tre­ gua, avendo entrambi interesse a far fallire la « legge truffa». Si presentava nel collegio di Santa Maria Capua Vetere, ma nel Partito monarchico erano candidati la sorella Amelia, il nipo­ te Guido Grimaldi, proprietario di una flotta messa su con i dena-­ ri dello zio, poi i soci Cafiero e Fiorentino, oltre agli industriali e armatori cointeressati Amato, Grilli, Tucci e Muscariello.

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Al centro di un autentico partito-famiglia e di una ragguarde­ vole concentrazione d'interessi, nel 1953 il«Comandante» era al massimo del suo potere personale. Come presidente del Napoli­ calcio aveva appena comprato per 105 milioni il centravanti Jep­ pson. Prima dell'ultima partita del campionato, e del ricco spet­ tacolo pirotecnico, Lauro aveva fatto un giro augurale - sportivo, ma anche elettorale - del campo del San Paolo. I « lazzari » lo adoravano come si adora un sovrano africano, fino al punto cioè di celebrarne pubblicamente il vigore sessuale: « Cummandà», gli gridavano da sopra gli spalti o da sotto i palchi, « voi non do­ vete morire mai, vui tenite o· pescione! »' A tre mesi dalle elezioni la Democrazia cristiana, tramite il mini­ stro del Lavoro Leopoldo Rubinacci, fece arrivare a Napoli circa 14.000«pacchi-dono», da distribuirsi in città a cura del comitato provinciale e del comitato civico.• Lauro rispose da par suo. E dall'offerta della pasta cruda passò a quella della pasta calda, con secondo piatto. L '8 aprile 1953 fu dunque inaugurata, al Mercatino dei fiori, una mensa capace di approntare circa mille pasti l'ora. Tutti potevano mangiare gratui­ tamente, purché muniti di una tessera monarchica o dei « buoni­ famiglia » distribuiti nelle sezioni del partito laurino. Altre mense e spacci più alla buona furono impiantati al Pallonetto, a Mater Dei, a Pelli no e a Mezzocannone.• Durante la cerimonia inaugurale, dopo aver abbracciato il «Comandante», prese la parola il parroco del rione: « Ogni azio­ ne si comincia in nome di Dio e il Partito nazionale monarchico ha iniziato in nome del signore: Dio, Patria, Re. Pronuncio queste parole con coscienza d'italiano e di monarchico. Il nostro simbo­ lo è il tricolore d'Italia con la corona del Re. In nome di Dio vi impartisco la benedizione: viva la Patria, viva il Re». ' 0 Ora, rispetto al simbolo richiamato nell'impegnativa benedi­ zione del sacerdote, va pur detto che di lì a qualche tempo Lauro abbandonò il Partito nazionale monarchico (PNM), per fondare il Partito monarchico popolare (PMP), subito ribattezzato Pasta Maccheroni Pomodoro. Contro la mensa e il parroco insorse Gaetano Salvemini: «Chi conosce la psicologia professionale di certa gente», scrisse il grande vecchio del meridionalismo democratico, « può essere si­ curo che quel parroco, prima di parlare così, era andato a doman­ dare il parere ai superiori». Il !aurismo, secondo Salvemini, era

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« la cloaca massima» in cui convergevano tutti i relitti delle clientele più «fetenti», un movimento «nullo intellettualmente» e «abietto moralmente». Il vero rischio - concludeva - era di so­ pravvalutarne il fondatore e i suoi chili di pasta: « Pulcinella mi­ liardario non è più serio di Pulcinella proletario». 11

Il guaio vero, però, stava tutto o quasi nella circostanza che Pul­ cinella era ancora disperatamente affamato. Un altro meridionalista democratico di vaglia come Francesco «Chinchino» Compagna scrisse sulla rivista Nord e Sud che Lauro era «un demagogo plebeo e levantino» postosi a capo di «una massa zingaresca di voti» e di «una insurrezione separati­ sta velleitaria e primitiva». 12 Lo storico di tradizione repubblica­ na Giuseppe Galasso giudicò anni dopo il )aurismo come «un fe­ nomeno a mezza strada tra il vecchio notabilato e la macchina politica moderna». 13 Ma le fortune elettorali del «Comandante» e dei suoi dipen­ devano innanzitutto dalla capacità di usare lo stesso linguaggio del popolino che come primo problema - come «assoluto neces­ sario» - aveva appunto quello di combinare il pranzo con la ce­ na. La plebe napoletana si riconosceva nel )aurismo perché vi ri­ trovava collaudati modelli di vita, basati da un lato sul rispetto delle tradizionali gerarchie sociali, dall'altro sul sistema della be­ neficienza: elemosina, sussidi, assistenza e pastasciutta gratuita. 14 «Lauro», scriveva del resto proprio in quegli anni Indro Mon­ tanelli, «è il solo sindaco che sia riuscito a mettere un minimo d'ordine a Napoli con il consenso dei napoletani dando loro con una mano uno scappellotto e con un'altra un pacco di pa­ sta. » u Nella distribuzione del cibo, in effetti, nel maccherone eletto­ rale laurino s'intrecciavano a pieno titolo, e in una forma che più compiuta non si poteva, paternalismo e parassitismo. Rassegnata e deferente, l'antica plebe dei bassi si metteva in fila per ottenere un vantaggio immediato, e nulla a quei tempi era più immediata­ mente vantaggioso di una scodella di pasta. Dal canto suo, Lauro «faceva del bene», che è un elemento fondamentale della tradi­ zione politica meridionale, dove l'aiuto è positivo in sé e ogni critica ai suoi prezzi appare irrilevante, e anzi «dimostra anche ingratitudine». 16 In questo scambio non confessato, né onestamente troppo confessabile, il «Comandante» esercitava un ruolo di grande pa-

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trono, legittimato cioè per ricchezza e destrezza a dispensare sta­ bilmente dei favori. Nutrire il popolino era per lui un 'esigenza che probabilmente andava al di là del puro dato elettorale, rien­ trando nell'esercizio del patronage come qualcosa che gli con­ sentiva di muoversi senza bisogno di manipolare relazioni o co­ dici morali. 17 Durante la campagna elettorale Lauro fece anche dei comizi fuori Napoli, dove non era affatto riconosciuto come patrono, e i suoi metodi erano visti come prova di degrado e corruzione. li 23 maggio parlò a Bologna, ma durante il comizio Piazza Maggiore fu invasa da centinaia e centinaia di volantini che dicevano: « Qui in Emilia la pasta napoletana non attacca: preferiamo le tagliatel­ le fatte in casa». Erano i comunisti locali, che m surreale spregio antisabaudo aggiungevano: « I savoiardi n01 li usiamo per la zup­ pa inglese», invitando i «lavoratori buongustai» ad assaggiare semmai le «crescentine», specie di schiacciate d1 farina fritte nello strutto di cui i bolognesi sono particolarmente ghiotti. Non lontano le massaie del PCI avevano attrezzato una cucina da campo. 18 Maggiore fortuna, o consenso, l'ormai leader del PMP ebbe quattro anni dopo alle elezioni regionali in Sardegna. Nella pri­ mavera inoltrata del 1957 al molo principale di Cagliari attraccò un traghetto della flotta Lauro da cui uscirono decine di automo­ bili con le cromature luccicanti, il muso lungo e bombato, i fari sporgenti, tutte munite di altoparlante, scudo sabaudo con leoni rampanti. Dietro le auto, due grandi roulottes - i pullman e i cam­ per che Lauro utilizzava per lavorare e ricevere - e ancora dietro, in fila indiana, una ventina di autocarri necessari a quanto occor­ reva per impiantare sezioni laurine nell'isola. Naturalmente, nella dotazione politica dei camion, oltre ai ritratti del «Comandante» e ai biliardini, c'erano anche pacchi di pasta." Per la verità c'era anche una colossale partita di saponette, con tanto di corona e leone impressi. 20 Non si pensò allora che potes­ se essere interpretato come un invito a lavarsi. Solo alcuni, a Ro­ ma, conoscendo la furia elettoralistico-nutritiva del personaggio, si riservarono una sottile ironia, con un'espressione allora molto in voga: « Chi vota Lauro», dicevano, « va a magnà er sapone».

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NOTE 1 Enzo Forcella, « Pastasciutta calda con contorno nuova arma 'segreta' di Lauro», La Stampa, 16 maggio 1953. 2 Pietro Zullino, li Comandante, Sugarco, Milano, 1976, pp. 65-69. È riportata la corrispondenza di Leo Wollemborg per la Washington Post. 1 « Nuovi incidenti a Napoli per le violenze dei monarchici», La Stampa, 5 giugno 1953. 4 Arminio Savioli, « Ricompaiono pasta e olio nella campagna elettorale DC», I "Unità, 30 aprile 1953. 5 Mino Guerrini, « Elezioni: trionfano i persuasori occulti», in

Storia di una Repubblica. Enciclopedia de/1"/talia dal 1946 al

1980, cit. • Serena Romano, Don Achille o' Comandante, Sperling & Kupfer, Milano, 1992, p. 117. Nel 1952 Lauro si era candidato a sindaco in nome dell'Unione delle Destre, che vedeva il PNM alleato all"MSI. L'Unione ottenne 157.000 voti e Lauro 117.000 preferenze. 7 Pietro Zullino, Il Comandante, cit., p. 94. • Riccardo Vigilante, « Politica, sentimenti e soldi. La campa­ gna elettorale del 1953», in li silenzio della ragione. Politica e cultura a Napoli negli anni Cinquanta, a cura di Gloria Chianese, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1994, p. 62. 9 Enzo Forcella, « Pastasciutta calda...», cit. 10 Gaetano Salvemini, Italia scombinata, Einaudi, Torino, 1959, p. 90. 11 lvi. 12 Franr.esco Compagna, Lauro e la Democrazia cristiana, Opera Nuova, Roma, 1960, p. 7. 13 Giuseppe Galasso, lntervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari-Roma, 1978, p. 272. 1 • Francesco Soverina, « Tra società e Stato. I consiglieri co­ munali laurini», in li silenzio della ragione... , cit., p. 57. 15 Serena Romano, Don Achille... , cit., p. 125. 16 Percy Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Ei­ naudi, Torino, 1975, pp. 132-133. Ancora nel 1963 il 20 per cen­ to del campione statistico CISER attribuiva il successo di Lauro alle spese elettorali e ali' ignoranza della gente. 17 Luigi Musella, « Il sistema politico napoletano tra notabili e mediatori», in li silenzio della ragione... , cit., p. 122.

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18 « Vino e tagliatelle per sedurre gli emiliani», La Stampa, 30 maggio 1953. 19 Serena Romano, Don Achille... , cit., p. 121. Nel 1958, alle elezioni regionali in Sardegna, il Partito popolare monarchico di Lauro ottenne 65.000 voti, pari al 9 per cento circa del totale. 20 P ietro Zullino, Il Comandante, cit., p. l 06.

8. La cottura veloce del Partito della Bistecca

Sempre in quella fatidica prova del 1953, tra forchettoni e mac­ cheroni, ha il tempo di bruciarsi sul barbecue elettorale il Partito della Bistecca. Si trattava di una formazione politica che affidava tutta la sua immagine e identificava l'intero suo target, diremmo oggi, nella promessa di « grammi 450 di bistecca a testa assicurati al popo­ lo», più « frutta, dolce e caffè>>. Disponeva infatti lo statuto del partito, all'articolo 4: « È l'ora di finirla con le limitazioni». 1 Contro ogni possibile fraintendimento, chiariva il fondatore Corrado Tedeschi, « per essere veramente tale la bistecca deve pesare almeno 450 grammi. Se pesa un chilo, tanto meglio. Ma non meno di 450 grammi, perché altrimenti diventa cotoletta e allora il mio non sarebbe più il Partito della Bistecca».2 Bistecca fiorentina di vacca chianina, considerato che il partito nacque a Firenze, dove viveva il suo eccentrico promotore. Molto si è scritto, anche dal punto di vista delle implicazioni so­ ciali, sulla voglia di carne dei popoli.' In questo caso, la bistecca era vista e vissuta come la più classica panacea. All'articolo 12 dello statuto si leggeva: « Abolizione delle prigioni. Quando tutti. avranno 450 grammi di carne assicurata non ci sarà più bisogno di rubare e ammazzare».• L'emblema del partito era, doverosa­ mente, una vitella. « La vita è una vitella», gridava nei comizi il fondatore.5 E a un certo punto - quasi mezzo secolo prima della Mucca Ercolina portata in giro dagli allevatori in guerra con le quote latte - comparve effettivamente una vitella nelle manifesta­ zioni del Partito della Bistecca. Il quale partito, alla fine, ebbe un numero davvero trascurabile di voti, non più di duemila nelle quattro circoscrizioni in cui s'era presentato.• E tuttavia, se non lo si trascura come piccolo fenomeno poli­ tico, è perché il sogno dei « bistecchisti» conferma a suo modo l'intreccio tra cibo e politica, sia pure in un'accezione pittoresca, bizzarra e pulviscolare. Insomma, abbastanza moderna.

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Come succede quasi sempre nella lunga storia micro-politica italiana, l'avventura di questo bizzarro raggruppamento è legata in maniera indissolubile alla figura del fondatore, anch ·egli piut­ tosto stravagante, per quanto genialoide. Corrado Tedeschi si presentava come un signore con i baffi. pic­ coletto e scattante, molto sportivo. Era nato nel 1899 da una fa­ miglia israelita di Firenze. Sulla cinquantina, quando gli venne in testa l'idea del partito, aveva già fatto un sacco di esperienze sin­ golari. Tanto per cominciare era giornalista e matematico, poi aveva a lungo viaggiato per mari lontanissimi, in estremo oriente, impossessandosi di idee e credenze. Dalla Cina. aveva spedito corrispondenze alla Stampa; quindi aveva fano naufragio: era sta­ to salvato da alcuni pirati, che con sua grande sorpresa erano esperti di cruciverba. Anche lui coltivava da tempo la passione iniziatica e sottile dell'enigmistica. Non poteva essere fascista, e infatti non lo fu: tanto da essere spedito al confino. Durante la guerra collaborò con gli alleati e in particolare con il servizio segreto britannico, e in seguito fu ac­ ceso sostenitore del sionismo. Il successo economico gli venne dall'invenzione di un giornale enigmistico, la NET, che voleva dire appunto Nuova Enigmistica Tascabile e che divenne casa editrice e per un certo periodo anche discografica. Curioso e vi­ vace, fu Tedeschi a «scoprire>> e a diffondere il primo 45 giri di Mina, che allora si chiamava Baby Gate. 7 Quando, nel 1951, non si capisce bene se per fede o per pubbli­ cità, decise di fondare il Partito della Bistecca, viveva in una splen­ dida casa con parco - da lui denominata« Villagio NET» - sulle colline di Firenze. C'era anche un trenino interno e una grande piscina in mezzo alla quale, remando con la stanga su una specie di zattera, all'uso dei renaioli toscani, Tedeschi dettava alla se­ gretaria i suoi articoli e comunicati. Adorava la pioggia, il camping, i cigni (particolarmente) e i pavoni. Non di rado si vestiva di giallo o di rosa, e talvolta rice­ veva i conoscenti e i collaboratori in tenuta da schermidore. Sulla base dei suoi studi matematici e dei suoi viaggi aveva concepito una forma di « Repubblica Universale» e serino un co­ spicuo volume, ovviamente intitolato lo Stato ideale. Il program­ ma del medesimo si basava su postulati parascientifici di base che, se formalizzati o trascritti in un disegno con angoloide,

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avrebbero spiegato il segreto delle leggi umane e soprannaturali che regolano non solo il mondo, ma anche l'universo.• Lungo questo orizzonte aveva tratto l'ispirazione della carne di vitella: «Meglio una bistecca oggi», diceva, «che un impero domani». L'altro punto qualificante del partito era: meno lavoro e - «dato che la vita è così corta e ne sappiamo così poco» - più gioco. Una volta al potere, il «nettismo» avrebbe favorito qual­ siasi spettacolo, ballo, tombole e lotterie. Erano previsti anche pagliacci di Stato. Insieme all'abolizione di tutte le tasse.9 Gli intellettuali laici e democratici del Ponte, che a Tedeschi e al suo partito dedicarono un grazioso studio, sottolinearono molti punti in comune con il qualunquismo, anche se analogie più spic­ cate si potevano riscontrare con I'«illesionismo». Era questo un movimento fondato a Bologna da un certo Zan­ noni, che affermava di avere scovato il sistema per togliere dal mondo i suoi molteplici fattori «lesivi» (di qui l'«illesioni­ smo»). Altre somiglianze vennero rinvenute con le teorie di tale Daniele Femè, sempre di Bologna, secondo cui si potevano divi­ dere le sostanze mondiali fra tutti gli abitanti della terra, ottenen­ do una cifra di 200.000 al mese a testa. Tale idea gli era stata ispirata direttamente dalla Madonna, apparsagli una mattina men­ tre si faceva la barba. 10 In quegli anni, d'altra parte, sorgevano spesso - e ancora sorgo­ no, per la verità - partiti-burla. Il partito della pagnotta, ad esem­ pio, per restare al cibo; o quell'altro che aveva come motto «Grassi e Giustizia».'' Ma ciò che rendeva davvero diversi i «bistecchisti» era la struttura propagandistica e organizzativa, che non sarà stata il massimo, per quegli anni, ma c'era. Tedeschi vantava decine di migliaia di aderenti (detti «agi­ net» e «passatempisti» ), probabilmente scambiandoli con i let­ tori della NET, molti dei quali venivano ritratti in posa sul gior­ nale, le donne pure in costume da bagno. Il direttore-fondatore li incoraggiava a fare cose un po' strane, un po' futuriste, un po' dada: « Rurali nettisti - ad esempio - inneggiate al vostro partito scrivendo 'viva la NET' sulle pance dei vostri animali! » Un prete di Castellammare scrisse anche l'inno: Avanza con impeto e inonda la terra il partito nettista

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ignaro di freno e di sponda trascina, travolge, conquista. Simpatico il nostro partito di Sfinge sacrato ai misteri. Con l'arte e la scienza ha bandito destini di popoli interi.

L'adesione prevedeva medaglie (a pagamento) e onorificenze. La massima decorazione consentita era il Gran Collare: chi ne era insignito diventava automaticamente cugino di Tedeschi. L'unico risultò un operatore cinematografico di Castelfiorentino che, in quanto gobbo, riceveva uno stipendio per portare fortuna al mo­ vimento.12 Insomma: tutto sembrava anche una presa in giro, per quanto dentro vi si possano trovare diversi spunti « a venire», dal parti­ to-azienda a certe trovate degli indiani-metropolitani o della Lega di Bossi. All'apertura della campagna elettorale, che coincideva con l'ultimo sabato di Carnevale, Tedeschi presentò il suo partito al Villagio NET con una cerimonia nella quale vennero arrostite in presenza degli invitati 25 gigantesche bistecche, poi servite da camerieri in giacca e guanti bianchi. Quindi un tenore cantò una romanza e si passò all'elezione, meglio alla nomina, di Miss Bistecca. La prescelta, figlia e futura biografa di Tedeschi, disse alcune parole al microfono, dando finalmente inizio alle danze. 11 Il 23 aprile del 1953, a Massa, Tedeschi venne arrestato insie­ me ad altre sei persone con l'accusa di aver comprato le firme necessarie per la presentazione della lista elettorale. 14 Pur essen­ do convinto di aver subito una enorme ingiustizia, il leader netti­ sta la prese molto sportivamente. Disse infatti: « Se anche non avessimo un grande successo elettorale, che conta?» Non lo eb­ bero, appunto, e pazienza. Emulo ed imitatore del bistecchismo - sia pure mutando il cibo di riferimento e di culto nella cioccolata - fu all'inzio degli anni '60 l'ex campione di lascia o raddoppia? Gianluigi Marianini che in modo un po' automatico, per la verità, e soprattutto senza la fan­ tasia di Tedeschi, fondò il « marianinismo». Apartitico e interclassista, il movimento nasceva con l'intento di « procurare le pensioni e una tazza di cioccolata a tutti indistin­ tamente gli italiani». Come simbolo aveva i due vecchi che sta-

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vano sui pacchi di cacao della Perugina.15 L'intento pubblicitario era così spudorato da meritarsi la massima indifferenza. Tra il partito che prometteva la bistecca, comunque, e quello che reclamizzava la cioccolata ci sono sette anni decisivi. Una vertigine di cambiamenti che investiva i desideri e i bisogni degli italiani.

NOTE 1 Anna Tedeschi, Corrado Tedeschi mio padre, Corrado Te­ deschi Editore, Firenze, 1991, p. 69. 2 Paolo Mocci, « Il partito della bistecca», Tempo, 11 aprile 1953. 3 In particolare, sulla « fame di carne»: Marvin Harris, Buono da mangiare, Einaudi, Torino, 1990, pp. 9-38. L'autore si soffer­ ma sui problemi di approvvigionamento di carne che nel 1981 minacciarono la stabilità del sistema in Polonia. Sulla bistecca e la politica italiana: Stefano Bartezzaghi, « Segni particolari», Comix, giugno 1996. 4 Anna Tedeschi, Corrado Tedeschi mio padre, cit. 5 « Colazione e vacanze pagate: ecco lo Stato del re degli enigmisti», La Settimana lncom, 7 maggio 1953. 6 Il Partito nettista italiano si presentò nelle circoscrizioni di Roma, Milano (1201 voti), Firenze (347) e Verona. 7 Anna Tedeschi, Corrado Tedeschi mio padre, cit., p. 80. Il primo disco uscito con la NET fu appunto quello di Mina (Baby Gate) che cantava Passion Flower, canzone tratta da una roman­ za di Beethoven. 8 « Il Partito nettista», in Il Ponte, maggio 1953. • Anna Tedeschi, Corrado Tedeschi mio padre, cit., p. 69. 0 « Il Partito nettista», cit. A detta del Fernè, la Madonna gli ' avrebbe anche consigliato di promuovere il ponte aereo con Ber­ lino. Egli scrisse a Truman suggerendogli questa iniziativa mili­ tare. « In effetti», scrive l'anonimo estensore della nota sulla ri­ vista di Salvemini, « gli americani misero in atto tali propositi.» Sulle possibilità elettorali del Partito della Bistecca è riportato il commento di un avvocato fiorentino: « Purtroppo in Italia si tro­ veranno sempre sessantamila incoscienti che permetteranno al Tedeschi di divenire deputato al prossimo parlamento».

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11 Giovanni Cavallotti, Gli anni cinquanta, Editoriale Nuova, Milano, 1979, p. 137. 12 « Il Partito nettista », cit. 13 Ivi. 14 « Arrestato a Massa il capo del 'partito della bistecca'», La Stampa, 24 aprile 1953. is « Il marianinismo», Oggi, 28 luglio 1960. « Il movimento>►, si legge, « sembra sia finanziato da una casa produttrice di cioc­ colata.»

II LA FABBRICA DELL'APPETITO

« Pranza o Spagna purché se magna. » ANONIMO DEL XVI SECOLO

1. Boom democristiano: il ruggito vien mangiando

E la frutta? Dov'è la frutta? L'intero gabinetto è smarrito, non comprende. Fanfani, appena insediato, chiarisce solennemente: « Che ministro dell'Agricoltura può essere quello che non è in grado di offrire ai suoi visitatori i prodotti della nostra terra? Ne voglio un grande vassoio tutte le mattine, qui sul mio tavo­ lo». 1 E per sempre vassoio sarà. Si diverte Mino Maccari: Non dirlo al doroteo che se ne adira quant'è buono il Fanjàni con la Pira. 2 In nessuno come in Fanfani la grande energia, la vitalità perfino esplosiva si combina con un particolarissimo appetito: « Voial­ tri», così affronta baldanzosamente Indro Montanelli, « vi siete creati nella fantasia un tipo di democristiano che non sempre cor­ risponde al vero: anemico, scivoloso, evasivo, avido e lumaco0 ne». È la premessa di un invito a pranzo. Il giornalista descriverà Fanfani mentre « attacca per intanto un petto di pollo», « ingoia l'ultimo boccone di pollo arrosto», « mastica la sua banana sempre sullo stesso ritmo placido e lento, poi beve, poi si pulisce la bocca col tovagliolo». Quindi, prima di andare al nocciolo del discorso, « si punta con ambedue le mani sul tavolo».1 All'inizio degli anni '60, da presidente del Consiglio, visita la Calabria. È un viaggio per certi versi trionfale. A Monasterace gli riempiono la macchina di fave e piselli. Gli hanno offerto, pare, anche dei salumi, delle soppressate. Commento raccolto dai gior­ nalisti tra la folla: « Chissà quanta roba si porterannno a Roma, sacchi intieri ... Chi sta in alto vuol mangiare, si sa; lo si è sempre saputo, quaggiù è sempre stato così ».4 Lungo le strade calabresi Fanfani incontra sospette « mucche migratorie». Così gli avver­ sari della DC hanno ribattezzato quelle mandrie di bovini che l'Opera Valorizzazione Sila avrebbe trasportato da un comune al­ l'altro, lungo il tragitto compiuto dal capo del governo, in modo

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che il visitatore avesse lieta impressione di un ricco patrimonio zootecnico.' Dal Sud al Nord, in realtà, il partito di governo sta superando, anzi si sta rapidamente scrollando di dosso il complesso dei for­ chettoni. Sono gli anni che segnano la fine dell'alternativa fra denutri­ zione e iper-nutrizione: sta avvicinandosi il miracolo economico. 6 Lo testimonia il menu in rima che i democristiani della Valse­ sia, sul modello degli esercizi encomiastici per ottenere la bene­ volenza del signore, hanno ingenuamente composto in vista del­ ! 'incontro con il «loro» ministro, Giulio Pastore:

Un antipasto misto, in anteprima aguzza /'appetito, lo sapete! Se poi fornito dalla ridente rima maggionnente ancor lo gusterete. Carcoforo, di tutti i paesini il più piccolo della valle del Sermenza, pastina in brodo offre, e fegatini a questa altezza bisogna aver prudenza! L'arrosto di vitello più fragrante Boccio/etto con La Torre ve lo dona: una pietanza da principe regnante che nel piatto nessun mai abbandona... E via di seguito. Per cui Ferrate offre la verdura e «il dolce aro­ ma della sua insalata»; Vallarino fornisce il « pollo arrosto pro­ fumato»; Rima San Giuseppe un'« abbondanza di succosa frut­ ta»(«si raccomanda di mangiarla tutta/ ché è roba vitaminizza­ ta»). I formaggi vengono dalla Svizzera; il vino («amabile e cor­ diale») è quello di Rimasco. Quindi:

Il n·mato menu ecco compito non resta che augurar: buon appetito!' Buon appetito, non c'è dubbio. Alla faccia di tante ironie e pun­ zecchiature. « Al Savini», annota Leo Longanesi, «entra un gruppo di si­ gnore democristiane, seguite dai rispettivi mariti, deputati, mini­ stri, pezzi grossi. Tanto sorridenti, tutti, da destare sospetto. È il sorriso di chi, finalmente, gode i primi piaceri del lusso conqui­ stato con i voti delle parrocchie. »8

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Una sera, forse mosso dalla necessità di dimostrare che anche dal punto di vista dei costumi e della mondanità il nuovo stile de­ mocristiano nulla aveva da invidiare ai laici, un innominato mi­ nistro dello scudo crociato - forse Andreotti, forse Scelba - offre a Vittorio Gorresio uno speciale cocktail inventato in occasione di un congresso: « 'Mi permetta di offrirle la novità dei nostri tempi.' Quindi chiamò Nello Petroni, che era il bravo barman dell'hotel Danieli di Venezia, ordinandogli anche per me una be­ vanda composta naturalmente di liquori solo bianchi: mezza dose di gin, un quarto di Cointreau e un quarto di Kirsch. Mi parve quasi una porcheria perché troppo dolciastro e addirittura untuoso per l'eccessiva proporzione degli ingi-edienti zuccherini. Ma io finsi di nulla e lo trangugiai, perché tanto non era il cocktail de­ mocristiano inventato dal barman del Danieli che poteva cambia­ re in qualche modo le cose».• La libertà tende all'obesità, recita un altro motto longanesiano. E in effetti, a sfogliare le fotografie del Palazzo in quegli anni tra i cinquanta e i sessanta, specie la serie dei « Nuovi Fusti>► pubbli­ cata settimana dopo settimana sul Borghese, si resta colpiti dal compiuto assestamento del tipo fisico democristiano. Sembra si siano estinte le forme affilate alla De Gasperi e i pallori ascetici dossettiani. Abbondano invece incarnati rubizzi e rotondeggianti, bocche aperte, doppi menti, masticazioni assorte, palpebre calate nella digestione. Nelle cospicue pancette dei ministri si rispec­ chia il raggiunto successo personale e il crescente consenso del partitone bianco. Il contesto iconogi-afico, a base di calici alzati e cucchiai sol­ levati a mo' di scettro, confermano un'impressione di ottimismo e fiducia nel futuro. Pastore, appunto, guarda sorridente in pento­ la; Petrilli e Bo a mani giunte di fronte a una torta; Silvio Gava adocchia una coppa di gelato; Segni bacia la mano al cardinal Tisserant scavalcando un vassoio di tartine, sullo sfondo un'im­ magine della Madonna; Andreotti, in giacca bianca, con una fetta di cocomero in mano... Da questa metamorfosi sembra escluso solo Emilio Colombo: «L'unico>►, riconoscono gli stessi giornalisti del Borghese, « che non si sia rimpannucciato del gi-asso che decora le collottole, le possenti mascelle, le turgide pappagorge, le imponenti epe >► dei suoi colleghi di partito.10

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In realtà, per questa che Enzo Forcella chiamerà una «nuova raz­ za di conquistatori» 11 il problema non è più da tempo quello di mangiare, ma di «come» mangiare bene e di farlo sapere. I leader democristiani si piccano ormai di essere « buongu­ stai», «intenditori», gourmet. Scoprono la Francia e competono con quella gloriosa tradizione culinaria. Il sindaco di Roma. Ur­ bano Cioccetti, coglie l'occasione del gemellaggio con Parigi per andarsene al ristorante di grido «La Grande Severine » e comu­ nicarlo alla France Press. 12 Il ministro degli Esteri Attilio Piccio­ ni, che disdegna la cucina istituzionale di Villa Madama, porta il suo omologo d'oltralpe in uno dei migliori ristoranti di Roma e qui discetta con lui delle differenze tra il carciofo romanesco e il parigino coeur d 'artichaut di Allard." Di Fernando Tambroni, appena nominato presidente del Con­ siglio, si scrive su un rotocalco popolare come Oggi: « Quel che, soprattutto, si può dire di lui è che è un uomo raffinato. Al 'Fa­ giano', dove consumava i suoi pasti quando non aveva ancora una casa a Roma, lo ricordano come un buongustaio. A Parigi, dove è stato di recente in missione, egli ha saputo distinguere esattamente la qualità dei vini». 14 E se anche Fanfani si diletta a cucinare, 15 l'hobby pubblico e rinomato di Paolo Emilio Taviani è proprio la gastronomia. Nei ritagli di tempo «studia» nuovi piatti; aspira ad essere accolto come socio effettivo nell'accademia lionese di arte della cucina. Ha scritto, sotto pseudonimo, un trattatello sui ravioli, 16 ma poi è uscito allo scoperto inaugurando una pietanza speciale che ha poi battezzato «rito mediterraneo», un risottino condito con una grande varietà di erbe che il ministro raccoglie nei suoi viaggi e fa poi essiccare. 17 Sotto Natale, Antonio Segni regala agli amici politici cosciotti di cinghiale sardo accompagnati da un mazzo di fiori per le si­ gnore e busta con le istruzioni per la cottura del pezzo di carne, da macerare nel vino.'" Lo stesso Segni che da ministro dell'A­ gricoltura si batte come un leone contro gli Stati Uniti per rimuo­ vere l'embargo del pecorino sardo, da lui considerato, come scri­ ve Andreotti, come un personale «oltraggio caseario». 1• Poco dopo, un altro illustre ministro dell'Agricoltura democri­ stiano, Mariano Rumor, inaugura a Roma il «Bar bianco». Al banco, cioè, munito di tutti gli accessori tradizionali, non si con­ sumano né caffè, né tè, né qualsivoglia bevanda alcolica. Vi si trovano in compenso oltre 40 tipi di aperitivi, digestivi, dissetan-

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ti, energetici, confezionati esclusivamente a base di latte e succhi di frutta. Il « Bar bianco» funzionerà per alcuni mesi nella capi­ tale, dopodiché farà il giro delle mostre agricole e delle fiere campionarie di tutta Italia, allo scopo di incoraggiare il pubblico a cnsumare una maggiore quantità di latte. 20 E la campagna, del resto, che ispira a Federico Fellini l'episo­ dio di Boccaccio 70, con Peppino De Filippo nella parte del ses­ suofobo dottor Mazzuolo, ossessionato da un cartellone pubblici­ tario in cui una gigantesca e scollata Ekberg invita appunto a con­ sumare « più latte». Il motivetto fa: Bevete pitÌ falle, il falle fa hene, il latte conviene a tutte le età! Resta da dire che talvolta questa nuova energia democristiana, questo fresco ottimismo, questo appetito fiducioso nelle magnifi­ che sorti e progressive incespica e finisce grottescamente fuori registro. Il pretesto o l'occasione - anche allora! - sulle sofisticazioni alimentari. Nel 1959, i primi dibattiti in Parlamento. A Palazzo Madama il senatore comunista Luca De Luca all'attacco: le sta­ tistiche sull'aumento della mortalità, dice, sono da mettere in re­ lazione con le frodi. Gli risponde il ministro della Sanità Camillo Giardina con un elogio trionfale ai progressi tecnologici nel cam­ po dell'alimentazione. Ma poi, in un empito di entusiasmo, l'in­ cauto Giardina collega la questione del cibo alla conquista dello spazio, andando a parare là dove mai avrebbe dovuto: «L'uomo del futuro volo spaziale», sillaba nell'aula del Senato, « sarà scientificamente nutrito dei propri escrementi trasformati in ali­ menti scientificamente puri»." Non sia mai, scatta l'opposizione. Il riciclaggio alimentare della cacca suscita un ripugnante, ma indubbio successo satirico. La Francia fa scoppiare la bomba atomica nel Sahara per essere ammessa al dinner-power e l'Italia scopre le virtù salvifiche della merda: « Quante prospettive», scrive L'Espresso, « offre alla po­ litica estera italiana il discorso del ministro Giardina. Non ci se­ diamo più solo alla tavola apparecchiata per i rapidi pranzi diplo­ matici che ogni tanto i nostri alleati ci concedono. Ormai abbia­ mo altre aspirazioni. Siamo un popolo di cinquanta milioni di aspiranti esploratori spaziali».22

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È tutto un ovvio fiorire di vignette. In una si vede Giardina se­ duto mestamente a una tavola apparecchiata, ma deserta: «Non capisco proprio perché nessuno accetta più i miei inviti a pran­ zo». In un'altra un signore gli chiede con comprensibile imbaraz­ zo prima di sedersi a tavola: « Signor ministro, mi garantisce che non siano cibi scientificamente progrediti?» Ben altro, comunque, ci voleva per intaccare la vitalità democri­ stiana. Con supremo disincanto i suoi uomini superavano remore perfino religiose, sorvolando sulle ironie laiche a proposito di certe temerarie iniziative a sfondo alimentare e confessionale. Ti­ po l'affare combinato da certo signor Bonanni con «L'Opera Pia di Terra Santa in Italia» per importare, in apposite anfore di por­ cellana, l'acqua del fiume Giordano da utilizzare per i battesimi. Accordo poi andato in frantumi, tra delicatissime controversie giudiziarie e naturali sghignazzi anticlericali. 23 Ma impiantare un «regime», in fondo, significava anche co­ prire o fregarsene di vicende del genere. Da sempre piuttosto flessibili e a quei tempi nemmeno troppo cinici, i democristiani facevano in modo che la società italiana, con i suoi prodotti, si rispecchiasse in una felice ambiguità. Lasciavano così che circo­ lasse la pubblicità degli stabilimenti vinicoli di Calamia-Marsala: «Ili.mo signore, ci onoriamo di offrirle il nostro famoso vino bianco per Ss. Messa. Col nostro vino bianco i nostri stabilimenti hanno reso un grande servizio alla nostra Santa Religione ed in­ vero noi lo prepariamo solo in periodo di vendemmia e sotto il rigido controllo della Santa Chiesa». 24 E al tempo stesso difendevano il sacro nome del Marsala, «ca­ posaldo dell'industria siciliana», dal film in cui un attore ne spu­ tava un sorso dicendo «che schifo! »2s In fondo i democristiani avevano assimilato da tempo la sag­ gia adattabilità e la cultura gastronomica della chiesa cattolica. 26 In un grande pranzo apparecchiato a Rovigo con il ministro Al­ disio, per l'anniversario della rotta del Po, si accorsero troppo tar­ di che era di venerdì. Ma ci pensò il vescovo di Rovigo, monsi­ gnor Piasentini, a risolvere la situazione: «Data la particolare ce­ rimonia e commemorazione della tragica ricorrenza, siete dispen­ sati tutti dall'astinenza. Io quindi vi dico: mangiate in piena liber­ tà e con la coscienza tranquilla ».27 Ego te baptizo piscem, come nel Medioevo. Con la stessa lungimirante elasticità, nel 1961, viene risolta la

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questione delle carni e dei salumi il venerdì alla buvette di Mon­ tecitorio. Secondo i deputati DC che intendono mantenere il pre­ cetto, i colleghi laici non solo mangiano tranquillamente carne, ma alcuni, anzi, lo fanno con beffarda ostentazione. L'onorevole questore Sandro Buffè risolve la contesa con sagace buonsenso a sfondo teologico. I democristiani che protestano, infatti, sono quasi tutti residenti fuori Roma. Quindi si invoca e si ottiene per loro la dispensa prevista per i fedeli in itinere. 28 E così, ancora una volta: buon appetito.

NOTE Renato Filizzola, Amintore Fanfani, quaresime e resurrezio­ ni, Editalia, Roma, 1988, p. 21. 2 Mino Maccari, Con irriverenza parlando, Il Mulino, Bolo­ 1

gna, 1991, p. 88. 3 Indro Montanelii, Gli incontri, cit., pp. 774-776. • Bruno Malatesta, « Fanfani e San Giuseppe», Il Mondo, 23 maggio 1961. 5 «Le mucche migratorie», L'Europeo, 30 aprile 1961. 6 Albeno Capatti - Albeno De Bernardi - Angelo Vami, « In­ troduzione» a L'alimentazione, Annali 13, Storia d'Italia, Einau­ di, Torino, 1998, p. XXXIII. 7 Gianna Preda, // fazioso. Almanacco del Borghese, Le Edi­ zioni del Borghese, Milano, 1960, pp. 277-278. Sulle dediche e gli omaggi in poesia, cfr. Albeno Capatti - Massimo Montanari, La cucina italiana, Laterza, Bari-Roma, 1999, p. 197. 8 Leo Longanesi, La sua signora, Rizzoli, Milano, 1975, p. 164. Così proseguiva l'annotazione sulle mogli democristiane: « A ben osservarle, le scollature delle signore sono castigate, ma i loro sguardi divorano la biondona dalle spalle nude che siede al nostro tavolo. Domani, forse, i loro mariti, per vendetta, andran­ no un po' più a sinistra». 9 Vittorio Gorresio, in Trent'anni dopo, Bompiani, Milano, 1976, p. 36. 10 Il « Chi è» del Borghese, a cura di Gianna Preda, Le Edi­ zioni del Borghese, Milano, 1961, p. 122. Anche per i radicali de L'Espresso, c'è da dire, « con la sua aria di eterno studente lucano frequentatore di trattorie a prezzo fisso», Colombo faceva ecce-

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zione. Cfr. « Signor presidente li faccia i conti», L'Espresso, 29 novembre 1959. 11 Enzo Forcella, Celebrazione di un trentennio, cit., p. 24. 12 « Buona forchena», Il Mondo, 7 marzo 1961. 13 Federico Umberto D'Amato, Menù e dossier, Rizzali, Mi­ lano, 1984, pp. 82-83. 14 « Ha avuto il coraggio di formare il governo», Oggi, 7 apri­ le 1960. 15 L'attitudine culinaria di Fanfani arrivò anche alle orecchie di Mino Pecorelli, che su OP settimanale gli fece dedicare addi­ rittura un fumeno, con didascalie in rima e rumori di degustazio­ ne e digestione tipo slurp e burp: « Torna a casa Fanfanino / con un certo languorino/ si dà subito da fare/ e prepara da mangiare. / Alla cara mogliettina fa una cena sopraffina. / Han finito di ce­ nare I e incomincia a sparecchiare/ sale su di uno sgabello, / lava i piani nel lavello» (a firma Miguel Rivera, « Di ritorno dal ve­ glione», OP, 26 dicembre I 978). 16 Federico U. D'Amato, Menù e dossier, cit., p. 140. Il ga­ stronomo, tra le varie creazioni tavianee, indica anche « certi straordinari tordi alle olive nere coni in un tegame d'argilla senza grassi». 17 «L'hobby del ministro», L'Europeo, 7 maggio 1961. A onor del vero, il risonino di « rito mediterraneo» parve al sindaco di Bardineto e collaboratore di Taviani Secondo Olimpio buono come colla per anaccare i manifesti. 18 Il« Chi è»... , cit., p. 478. Nel biglieno Segni specificava in ogni caso di non aver materialmente ucciso il cinghiale. 19 Giulio Andreotti, Gli USA visti da vicino, Rizzoli, Milano, 1989, p. 46. Sul pecorino vietato, scrive Andreotti, « Segni non si dava pace. Studiava e minacciava ritorsioni, metteva in croce il ministro delle Finanze perché intervenisse sull'ambasciatore Zel­ lerbach. La vicenda ebbe poi un accomodamento parziale, anche se Segni se la ritrovò anche da presidente della Repubblica». 20 « Il Bar bianco», Oggi, I dicembre 1960. 21 Gianni Corbi - Livio Zanetti, « Non lasciamoci distrarre dall'olio», L'Espresso, 20 dicembre 1959. 22 « No, lo sterco no», L'Espresso, 20 dicembre 1959. 23 Il « Chi è»..., cit., pp. 61-63. 24 Ivi, pp. 89-90. 25 L'onorevole Ernesto Del Giudic� presentò un'interrogazio­ ne parlamentare contro il film Adua e le compagne, rimarcando

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l'offesa « alla dignità di un prodotto che ha trovato larghi consen­ si sui mercati nazionali ed esteri». Cfr. « L'uovo questo scono­ sciuto», L 'Europeo, 12 febbraio I 96 I. 26 Sulla storica vocazione degli ecclesiastici per la buona cu­ cina valga qui giusto il richiamo, appena un po' minatorio, di Giuseppe Gioachino Belli: « E la gola incazzisce li tre ceti I de Cardinali, Vescovi e Prelati». Là dove « incazzisce» sta per « rende stupidi». Il sonetto è li sette peccati mortali, nell 'edizio­ ne classica a cura di Giorgio Vigolo, Mondadori, Milano, I 952, p. 1258. 27 Gianna Preda - Mario Tedeschi, li ventennio della pacchia, Le Edizioni del Borghese, Milano, I 97 I, p. 91. 28 « Il pranzo del venerdì », L 'Europeo, 15 gennaio I 961.

2. Italia alle vongole e anti-italiani a tavola

e< Di solito longilinei, di solito benestanti»: così Eugenio Scalfari indica la genia del Mondo. E già la definizione si connota per contrasto alla ciccia democristiana e alle origini popolari di chi, una volta al potere, avverte l'irresistibile richiamo del piatto raffinato o dell'abboffata autorisarcitoria. Erano gentiluomini dai capelli argentati che fumavano la pipa, indossavano giacche di tweed o flanelle delicatissime:

L'abito ali 'inglese e la battuta francese, il giudizio tanto più duro quanto più liberale. Così Pier Paolo Pasolini descriveva questo piccolo mondo di mi­ noranza.' I leader politici del gruppo, unanimente riconosciuti, si chia­ mavano Niccolò Carandini e Leone Cattani. « Il carandinismo », continua Scalfari, «aveva addirittura caratteristiche fisiche. Nel1 'Italia di Peppone e di don Camillo, i carandiniani erano poco meno che un'etnia.»2 Questo piccolo popolo stentava a riconoscersi nel paese in cui viveva. Ma quel che qui più interessa è che tale rivendicata estra­ neità si condensava in una formula di vivido impatto, alimentare o gastronomico che fosse. Erano infatti, questi signori, o si sen­ tivano, «stranieri» rispetto ali'« Italia alle vongole ». 3 L'espressione era appunto di un intellettuale del Mondo, Vit­ torio De Capraris, che in tal modo intendeva un'Italia sbracata e facilona pronta ad afflosciarsi, appena possibile, in trattoria. L'I­ talia, la interpretò anni dopo Beniamino Placido individuandone il modello universale e la longevità, « mangiona e pasticciona, approssimativa e compiaciuta delle grandi scorpacciate (gastro­ nomiche e ideologiche) e delle digestioni sonnolente».• Questa Italia alle vongole era tanto più insidiosa quanto più finiva per svolgere una funzione consolatoria rispetto ai visibilissimi guai nazionali: « Però in compenso ci siamo noi italiani. Con il nostro carattere, la nostra inventiva, la nostra generosa umanità. C'è il

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sole e c'è il mare. Ci sono le vongole», insisteva Placido. « Ve­ raci. Che altri non hanno. Poveretti. Ma come faranno? »5 Ogni tanto, neanche a farlo apposta, questo paese pastasciuttaro si manifestava agli occhi dei « visi pallidi» del Mondo sotto le sembianze di qualche democristiano. Quando ad esempio, molti anni dopo l'invenzione di Capraris, il presidente della Repubblica Leone, personaggio peraltro tra i meno amati dagli anti-italiani, si recò in visita di Stato a Parigi - portandosi appresso porcellane e vasellame del Quirinale: dieci milioni all'epoca di spese assicu­ rative con una compagnia tedesca - ebbene, cosa mai pretese fos­ se servito alla cena ufficiale all'ambasciata italiana? Spaghetti con le vongole.• Leone, c'è anche da dire, non perdeva occasione per irritare certe corde snob, se è vero che qualche tempo dopo l'exploit pa­ rigino del 1973, visitando le rovine di Persepoli, in Iran, davanti alla statua dell'imperatore Ciro il Grande, sospirò rivolto ai di­ gnitari del seguito: « Eh, pure noi a Napoli teniamo il nostro Ci­ ro», disse, « Ciro a Mergellina... »7 Contro questa Italia di ristoranti e spaghetti quelli del Mondo si ponevano con il rigore austero e l'elegante superbia dell'azioni­ smo. « Pazzi malinconici» li chiamava Gaetano Salvemini. Eredi ed epigoni di « una scuola di carattere», secondo Giorgio Bocca, « una scuola negletta e disprezzata dall'Italia clericale e del Fran­ cia o Spagna purché se magna»." Un circuito di uomini e relazio­ ni che, sempre sul piano delle metafore pressoché alimentari, si collocava agli antipodi del « ventre molle del paese» secondo lo storico dell'azionismo Giovanni De Luna.• Più che una scelta politica, la polemica contro l'Italia alle von­ gole rivelava in realtà un'avversione viscerale, un dato estetico, un impulso antropologico, forse anche una necessità per autode­ finirsi rispetto a qualcuno, a qualcosa. Nulla comunque che potesse richiamare l'aspra campagna contro i « forchettoni» scatenata anni prima dai comunisti. Era uno stato d'animo più sottile e meno definitivo, un misto di altero distacco, ma pure di altezzosa curiosità. Sembra di coglierne qualche traccia più recente nella magi­ strale descrizione scalfariana di un pasto a casa di Ciriaco De Mi­ ta, a Nusco. « Poi andammo a tavola dove le orecchiette ai broc­ coli attendevano fumanti. La tavola era rettangolare e la disposi-

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zione dei posti bizzarra, con i due coniugi seduti uno accanto al1'altro nel lato stretto, l'ospite di 'riguardo' nel lato lungo alla de­ stra della padrona di casa, e gli altri in sequenza digradante verso il grado di parentela o di intimità. [ ... ) Si parlò di cucina. d1 piatti tradizionali dei quali si magnificò la bontà, arrivarono capocolli e provole, un vino del luogo un po' aspro ma che fu giocoforza be­ re e lodare ripetutamente, dolci di mandorle e miele [ ... ) li sole era al tramonto quando rimontammo tutti in macchina. la scorta riprese occasionalmente il suo ruolo, e con grandi movimenti di forme di cacio e bottiglie che venivano stipate nel portabagaglio come se si dovesse fronteggiare di lì a poco un lungo assedio, la carovana partì per Roma. » 10 Sempre che la faccenda abbia un senso. agli spaghetti con le von­ gole i laici credettero di poter contrapporre un ingrediente che pure non è affatto estraneo alla riuscita di quel piatto: il peperon­ cino. E tuttavia, nell'accezione polemica che negli anni delle ideologie e delle appartenenze non risparmiava i cibi. il rosso pi­ mento chiamato anche « diavolino » si offriva orgogliosamente come un «antidoto» ai pigri e viscidi accomodamenti di quei molluschi e latticini che tanto piacevano ai democristiani. Scriveva sempre Beniamino Placido che, assunto qui nel suo valore simbolico, il peperoncino era « un condimento aspro. abra­ sivo: stimola la digestione, tien desto l'intelletto». Saremo « vi­ sipallidi, ma stiamo meglio in salute dell'italiano qualunquista, pasciuto e pletorico». 11 Ma forse non c'era solo questo. Del peperoncino, infatti. era più che appassionato Raffaele Mattioli, il grande banchiere-lette­ rato amico del Partito d'Azione. Per un certo tempo il suo barbie­ re personale, un pugliese a nome Onofrio, l'aveva rifornito di «diavolino», eccelso antisettico e stimolante afrodisiaco di cui don Raffaele, cultore della virilità mediterranea, era ossessionata­ mente ghiotto. Sul curioso rapporto tra Mattioli e il peperoncino prende corpo un'autentica leggenda, prima coltivata e poi diffusa con garbo e arguzia da Gaetano Afeltra, che fin dall'immediato dopoguerra entrò in amicizia con don Raffaele: «Ne teneva sempre due o tre a portata di mano da spezzare e aggiungere, perché come lui diceva, 'questo è fonte di salute; fa bene alla mente, pulisce il fegato, è il più forte disinfettante intestinale e contiene tutte le vitamine'».

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Secondo A feltra, Mattioli avrebbe «iniziato» al peperoncino anche Piero Sraffa, che dopo l'esperimento abbandonò entusiasta la dieta a base di bistecca ai ferri, insalata e pillole. Così come, sempre attraverso il peperoncino, rafforzò l'amicizia con Nelson Rockfeller, quand'era governatore di New York e poi alla Casa Bianca a fianco di Gerald Ford. Poiché la dogana americana era estremamente severa nell'importazione di ogni sorta di generi ali­ mentari, Mattioli ne teneva un'abbondante scorta all'hotel Pierre, in un barattolo di vetro a chiusura ermetica. Per l'uso quotidiano li metteva nella valigia. ben sistemati in confezioni di medicinali. Ne consumava in tale quantità da aver organizzato con la com­ plicità di Afeltra una sistematica produzione sulla costiera di Amalfi, affidata a una contadina, Giulinella, alla quale assicurava un regolare compenso, e che di tanto in tanto andava a trovare, in occasione delle frequenti visite a Napoli per accudire all'Istituto Italiano di Studi Storici, onde assicurarsi del buon andamento delle coltivazioni." Sul valore radicale, anzi rivoluzionario del peperoncino sarà opportuno segnalare che Mao Tsedong, figlio d'un contadino del­ la regione cinese meridionale dell' Hunan, aveva conservato I' ai­ la - l'amore per il pepe - tipico della sua gente. Sosteneva che i popoli che mangiano piccante sono potenzialmente rivoluzionari mentre quelli che mangiano sciapo non hanno spirito combattivo; e cantava volentieri una canzoncina popolare usata per esaltare le avanguardie insurrezionali e intitolata appunto li peperoncino rosso. ' 3 Ma più che liberal, Mao era un comunista. E anche in Italia, in quegli anni, i comunisti avevano sviluppato una sub-cultura ali­ mentare che, anche senza opporsi pregiudizialmente agli spaghet­ ti alle vongole, non solo aveva una sua identità, ma era anche de­ stinata a modificarsi e addirittura a subire«strappi» nel corso del tempo.

NOTE 1 Pier Paolo Pasolini, la religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1961, p. 115. 2 Eugenio Scalfari, La sera andavamo a via Veneto, Monda­ dori, Milano, 1986, p. 16.

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3 Eugenio Scalfari, «Straniero in patria», la Repubblica, 10 giugno 1984. 4 Beniamino Placido, «Quattro gatti in libertà», la Repubbli­ ca, 2 agosto 1984. 5 Beniamino Placido, «Dopo cena da Costanzo c'è l'Italia alle vongole», la Repubblica, 8 agosto 199 I. • Camilla Cedema, Leone, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 28-29. 7 Guido Quaranta, Ritratto di presidenti con signora, SEI, To­ rino, 1978, p. 123. 8 Giorgio Bocca,«La scuola dell'azionismo», la Repubblica, I 5 maggio 1999. 9 Simonetta Fiori, «Imbroglio a destra», la Repubblica, 7 marzo 1995. 10 Eugenio Scalfari, La sera andavamo in via Veneto, cii., p. 362. 11 Beniamino Placido, « Quattro gatti in libertà», cii. 12 Giancarlo Galli, Mal/io/i, Rizzoli, Milano, 199 I. pp. I O 1102. Sulla figura di Giulinella, «che era un'affascinante mora giunonica con otto figli», A feltra sostiene che «circolò qualche pettegolezzo, legittimato dal fatto che Mattioli era bello, prestan­ te ed estroverso». 13 Roberto Ciuni, «Il peperoncino», in In mezzo il mare, a cu­ ra delle Relazioni Esterne di Finmeccanica, edizione fuori com­ mercio, 1997, p. 89. Secondo Edgar Snow, che ne scrive in Stella rossa sulla Cina, la canzoncina prediletta del presidente Mao aveva come protagonista il fiero peperoncino che, rifiutata una piatta esistenza tra le verdure arrendevoli al palato, arringa e or­ ganizza i compagni vegetali, guidando infine la rivoluzione pro­ letaria dell'orto contro la dittatura del gusto.

3. La falce, il martello e il tortello

Gioia, sacrificio e militanza, ecco il cibo «rosso». All'ingolosi­ mento dei governanti democristiani e agli aristocratici snobismi dei laici, il Partito comunista ha da subito la forza di opporre un mangiare primitivo, egualitario, comunitario e orgoglioso di sé. È il popolo volontario degli arrostitori di bistecche e di salsic­ ce a dimostrare, nell'arco di mezzo secolo, prima all'aperto e poi negli stand delle feste dell'Unità, che l'Idea si fa carico di tutti gli aspetti dell'uomo. Intere famiglie, perciò, ai fornelli, poi ai tavoli e infine a lavare le stoviglie: allegramente, in ogni paesino d'Ita­ lia, il volto ridente e festoso della lotta. Uomini e donne che met­ tono a disposizione del partito il loro lavoro, anche in cucina, il loro tempo, la loro passione. Uno sforzo collettivo e disinteressa­ to tanto più significativo quanto più raro in una società dominata da chiusure di classe e poi da rincorse individualistiche. E dopo la cena si continuava a bere, e si ballava. Giova ricordarlo soprattutto ora che quel popolo, e con esso la scuola gloriosa della rosticceria comunista, è in via di estinzione o di commercializzazione, che è quasi lo stesso. Venti, trenta, quarant'anni fa era tutto un po' alla buona: gri­ gliate di cuoio e fumo all'imbrunire, nuvolaglie ardenti e odorose di friggitoria, bistecche, salsicce - « salamelle» nella tradizione del partito emiliano -, torte fatte in casa e tortellini, soprattutto. Sembrava già moltissimo. A paragone, il ricordo della prima Festa dell'Unità, a Mariano Comense, nel settembre del 1945, suona addirittura struggente. Era una specie di poverissima festa campestre organizzata da Willy Schiapparelli, un tecnico della cospirazione, sul modello dei raduni dell 'H11manité tenuti negli anni '30 nella banlie11 parigina. Pochi tavoli sui prati, tubi Inno­ centi presi in prestito dalle fabbriche dei dintorni, vino e polenta. « Sotto la tenda comando», ha ricordato Schiapparelli, « aveva­ mo i mitra. Ne succedevano tante ...»' La mutazione antropologica - la ripulsa inevitabile di quello

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stile proletario - è un processo lungo e complicato, lungo un asse che con qualche fantastica spregiudicatezza stabilisce un rapporto fra la perdita d'identità e il trionfo del gigantismo commerciale e l'industrializzazione del mangiare alle feste dell'Unità. Questo processo culmina in questi ultimi anni. Il punto termi­ nale si deve al dirigente non solo più comunista di tutti. un auten­ tico figlio del partito, ma anche più attento alle suggestioni ga­ stronomiche. Massimo D' Alema si era già segnalato per una specie di ana­ tema scagliato al tempo dello scisma di Rifondazione. «Con voi», questo l'anatema scagliato contro i dirigenti che stavano avviandosi verso la scissione dell'ex PCI, nel 1991, «verranno quelli che cuocevano le bistecche alle feste dell'Unità.»' Bene, chiudendo gli Stati Generali del PDS-DS a Firenze, nel febbraio del 1998, dopo le bistecche quello stesso D' Alema sco­ municò il tortellino, espungendolo dall'orizzonte del nuovo par­ tito. Disse dunque il segretario dei Democratici di smistra. di li a poco destinato ad andare a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio, che guai a rimpiangere una sinistra «confusionaria e pronta ad emozionarsi». E passi. Una sinistra « fatta di militanti generosi, capaci di distribuire i volantini, attaccare i manifesti, organizzare i cortei e» - attenzione - « preparare i tortellini». Ma che, in quanto tale, non aspirava a « guidare il paese». Ag­ giunse poi: «Tutte queste virtù vanno mantenute, dunque anche i tortellini», però...3 Però D' Alema, in quel momento, tagliava una storia. Prova ne fu che i dirigenti, i militanti e le massaie dell'Emilia rossa si of­ fesero.• Dal mitico sindaco Dozza in poi, il potente partito bolognese ri­ vendicava presso le Botteghe Oscure una solida fama di buongo­ verno, oltre che di grassa e gaudente convivialità. Tuttora la leg­ genda felsinea attribuisce a tale fama virtù elettorali risolutive, se non addirittura tawnaturgiche. Quando Dozza, nel 1956, si scontrò con Dossetti, il duello parve estendersi su un terreno alimentare; e così il mesto riso in bianco democristiano ebbe la peggio rispetto alle rosse tagliatelle al ragù che il sindaco comunista mangiava al ristorante « La Spiga». Dossetti si vantava di poter mangiare con 50 lire; Dozza invece non badava a spese e ai camerieri plateal­ mente ordinava: «Dal tag/idèl», delle tagliatelle.5

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La scomunica di D' Alema fece impressione anche fuori del mon­ do ex comunista. Ne derivò anche una polemica con Indro Mon­ tanelli, che sulla prima pagina del Corriere della Sera si oppose al preciso rapporto stabilito dal leader della Quercia tra il tortel­ lino e le sconfitte della sinistra.• D' Alema rispose, per la verità con qualche egocentrica civetteria (« Non è un segreto dire che apprezzo la buona cucina, la tradizionale come la creativa»), in­ troducendo una possibile riflessione sull'eventuale «differenza fra un tortellino di governo e un tortellino di lotta». Riflessione che peraltro Montanelli lo supplicò di non aprire, pur accettando l'invito a colazione rivoltogli dal leader dei DS, purché non alla Festa dell'Unità! L'incontro ci fu, qualche tempo dopo, e anche rilevante perché sanzionava la rappacificazione tra D'Alema e il direttore del Cor­ riere Ferruccio de Bortoli, dopo le polemiche e le denunce anche giudiziarie dei mesi precedenti. Ma in realtà, e al di là di tutto, lo «strappo» dalemiano con­ fermava quel certo valore simbolico che talvolta finiscono per as­ sumere i cibi, assunti o ripudiati che siano. Quando tutto sembrava concluso, intervenne l'amico-cuoco del segretario, Gianfranco Vissani, grazie al quale la denigrazio­ ne del tortellino emiliano fu al tempo stesso sottile, definitiva e, in linea con i tempi, personalizzata. Rivelava infatti il principe dei cuochi italiani che D' Alema amava solo quelli che faceva lui, di tortellini: che però, francamente, non erano più tortellini. Si trattava di manicaretti con molti meno grassi, impastati in mo­ do più fine: la carne non veniva fatta cuocere per otto ore - «che poi perde sapore» - e al suo posto c'erano dei ripieni crudi. In ogni caso a D' Alema lui li cucinava così. «E gli piacciono mol­ to», concludeva Vissani con l'abituale modestia: «lo li faccio piccoli come un mignolo di bambino e li accoppio ali'astice».8 E pensare che in periodi di fame il PCI poteva intimare ai mili­ tanti il rifiuto dei pacchi-dono alimentari. C'è un racconto di Guareschi, riportato dallo storico Silvio Lanaro, che vorrebbe di­ mostrare la spietatezza di un funzionario comunista, ma che letto alla rovescia dimostra l'orgogliosa serietà morale di quel partito. Senza più cibo per i suoi figli, il compagno Straziami, il più po­ vero della banda di Peppone, accetta un pacco da don Camillo. Prontamente informato, gli arriva a casa un «commissario» della federazione e in pratica strappa il piatto di pastasciutta sotto il

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mento di un bambino smunto e addirittura lo getta via, insieme con altre cibarie, dalla finestra, al grido: « Il comunismo è disci­ plina, compagno. Chi non lo capisce se ne vada ». 9 Questo era dunque il mondo su cui s'impiantarono le feste del­ l'Unità. La prima manifestazione a prevedere un qualche variegato corredo alimentare è il festeggiamento al Foro Italico di Roma per il ritorno di Togliatti dopo l'attentato del luglio 1948. In/ ca­ rissimi nemici, Vittorio Gorresio la descrive in questi termini: « Furono invasi i prati e i piazzali marmorei, il bianco e il verde fu coperto dalla massa strillante che solo i venditori di frittelle, di gazzose, di palloncini e di opuscoli propagandistici riuscivano ad aprire... I marinai del Lido, su un carro rappresentante una paran­ za, cuocevano la zuppa di pesce e la mangiavano, alternando Bandiera rossa a forti evviva. Intanto gli ospiti arrivavano sfilan­ do tra bancarelle di venditori di uva e di poponi, di aranciate, ge­ lati e maritozzi e si premevano, sudati e clamorosi, sui gradini dello stadio».1 0 Dell'anno seguente, 1949, è la prima vera e propria Festa del­ l'Unità, a Bologna. È Gianni Rodari, con l'ingenua passione del giornalismo militante, a sottolinearne sul quotidiano del partito gli aspetti ludici e gastronomici. I giovani della FGCI hanno co­ struito una specie di città indipendente nella festa, « Pattugliopo­ li» (dal nome del loro giornale, Pattuglia): « La libera repubblica batterà moneta. All'ingresso della città dovrete cambiare le lire italiane in buoni speciali emessi dalla Banca di Pattugliopoli de­ nominati 'cocuzze'... La brigata femminile 'Katiuscia' si occupa del forno e delle frittelle ...» 11 Nel 1951 si hanno le prime testimonianze - anche polemiche da parte degli avversari - di quanto baldanzosamente fosse cre­ sciuta nel frattempo la ristorazione politica dei comunisti. Ecco, ad esempio, un annuncio di compagni della provincia di Panna: « Ore 12: apertura della festa, gran ballo e colazione. Impeccabile cucina con anitre arrosto, pastasciutta, trippa, coniglio, dolce e vini a piacere. Ore 16: comizio, oratore il compagno Rago. Tema: il governo della fame». 12 Ma sono eccezioni, e non a caso si registrano in Emilia. Quello comunista rimane a lungo un universo chiuso, disciplinato, auste­ ro. Di rado il cibo è considerato un piacere autonomo dal nutri­ mento. Partito di origine operaia si riconosce nelle « pietanzie-

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re», o «gavettine», o «gamelle», o « schiscette», insomma i re­ cipienti di latta che le maestranze si portano in fabbrica da casa, con i cibi inevitabilmente schiacciati l'uno sugli altri, come nella canzone: Polenta di stamane, spaghetti di iersera patate di ier l'altro sapore di casa... 13

Altri dirigenti come Giuseppe Di Vittorio sono stati allevati con il vitto poverissimo dei braccianti. Altri ancora come i fratelli Pa­ jetta hanno lungamente rimestato nelle ciotole delle galere fasci­ ste. Alla guida del partito ci sono esponenti che non sanno nem­ meno troppo stare a tavola. Luigi Longo, per dire, è un autentico disastro. A qualunque pranzo si trovi, non aspetta nessuno, si siede, si annoda il tova­ gliolo al collo e parte, spesso creando un vortice di risucchi e schizzi. Quando si accorge che lo stanno tutti a guardare, alza la bocca dal piatto e: «Perché non mangiate? Non mi pare il caso di fare complimenti». 14 I dirigenti non solo disprezzano i piaceri borghesi, ma non possono nemmeno permetterseli economicamente. Al punto che «un pranzo offerto», ricorderà l'ex segretario di Togliatti Massi­ mo Caprara, «era sempre gradito a un funzionario di Botteghe Oscure». 15 Così, i gourmets comunisti sono una specie rara. Uno che ha gu­ sti raffinati («alla Baudelaire», dice lui) è Eugenio Reale. Nel 1946, membro della delegazione italiana alla Conferenza di Pace di Parigi, fa scoprire al giovane Caprara le delizie della rinascen­ te gastronomia parigina. È una specie di trasgressione antiprole­ taria il giro che i due compiono, da Monsieur Hermé, capo pa­ sticciere di Fauchon, o da Petrosian, alla ricerca di caviale del mar Caspio, foie gras e salmone affumicato; alla Maison du Chocolat, o da Rihart che aveva ripreso a confezionare ciocco­ latini speziati e soprattutto quelle glaces panachées, i gelati mi­ sti, «che ci servivano per alleviare l'afa di quella multicolore e speranzosa estate». 16 Un altro personaggio che annette al cibo una certa importanza è Giorgio Amendola. Nel suo Lettere a Milano, resoconto del pe­ riodo clandestino e della lotta di Liberazione, abbondano i ricordi

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di mangiate, pietanze, ristoranti, trattorie e tavole imbandite. Ogni occasione, si può dire, anche la più temeraria, era buona: dal pesce pescato da Gilio Pontecorvo a Saint-Tropez nell'estate del 1942 17 all'indimenticabile pranzo dell'estate 1944 lungo un viaggio da Milano a Bologna: « Dopo Lodi occorreva fare un giro per prendere un traghetto che toccava un'isola sul Po. La colonna sostò a lungo sull'isola perché si era fatto giorno. Il viaggio di­ ventava una gita campestre. Una trattoria ci fornì un coniglio alla cacciatora, una bella insalata e soprattutto un buon gorgonzola, così gustoso come mai da allora ho mangiato, con vermi lucidi e grassi che venivano fuori sul piatto». 1• A proposito di gorgonzola. Pur se braccato da fascisti e nazisti, Arnendola ebbe la sua porzione e poté mangiare in pace. Ben al­ tre memorie suscita, nella tradizione alimentare comunista, que­ sto formaggio. Sempre Massimo Caprara racconta la triste storia del compagno Andrea Bertazzoni, socialista di Mantova, riparato in URSS nel 1932 per sfuggire alla condanna di vent'anni intlit­ tagli per atti di indisciplina dal tribunale militare. Segretario delle cooperative agricole di San Benedetto Po, esperto di allevamenti e latterie, Bertazzoni era stato destinato nella regione di Rostov, dove era riuscito a installare una fabbrica di formaggi. La dirige­ va con entusiasmo, felice di « poter dare il suo contributo da uo­ mo libero alla costruzione del socialismo». Il formaggio prodotto laggiù era appunto il gorgonzola. Sco­ nosciuto ai russi, con il suo caratteristico odore e le sue striature verdastre, nel 1936, all'epoca delle grandi purghe, il gorgonzola suscitò i sospetti di un funzionario della GPU della regione, Yik­ tor Harm, che subito denunziò l'intraprendente compagno Ber­ tazzoni come «avvelenatore». «Sabotaggio social-fascista. Una congiura trotzkista avvelena il formaggio», asseri Harm minacciando l'arresto del povero an­ tifascista mantovano. Per salvarlo ci volle l'intervento del com­ missario del popolo all'industria alimentare, Anastas Mikojan, membro del partito dal I 9 I 5, che fonunatamente si trovava da quelle parti. «Niente sabotaggio, quel formaggio ha un gusto pre­ libato per gli occidentali», sentenziò Mikojan dopo averlo annu­ sato, «e assomiglia al Roquefort francese. » L'esperto caseario del Commissariato del popolo, professor Slepkov, confermò per telegramma, anche se Bertazzoni, ormai in disgrazia, fu spedito nel 1942 nell'impervio Uzbekistan, «a lavorare di piccone e ba-

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dile nell'inclemente sterro del canale di Ferghanà, costretto ari­ siedere in un caravanserraglio promiscuo musulmano sunnita». 19

NOTE 1 Claudio Bernieri, L'albero in piazza, Mazzotta, Milano, 1977, pp. 13-14. 2 Fabio Manini, «La nuova sinistra? Ciampi», La Stampa, 25 agosto 1998. «Sì», confermò anni dopo al giornalista il primo se­ gretario di Rifondazione comunista Sergio Garavini, «D' Alema disse anche questo, e fu una cosa molto offensiva per molti com­ pagni.» 3 Fabio Manini, «D'Alema: noi e l'Ulivo per governare», La Stampa, 15 febbraio 1998. 4 «Era buon governo efficiente», // Foglio, 29 giugno 1999. L'ex sindaco comunista di Bologna Guido Fanti pose la questio­ ne ricordando che le militanti emiliane avevano reagito allo «strappo» di D'Alema accusandolo in questo modo: «Se non avessimo cucinato i tortellini, tu non saresti lì». Sempre sull'in­ fluenza del tortellino nelle vicende politiche, dopo il benservito dalemiano c'è da segnalare un tentativo di riappropriazione da pane del primo sindaco di centrodestra di Bologna, Giorgio Guazzaloca: «La prevalenza del tortellino, Guazzaloca si annette il simbolo dell'identità bolognese», La Stampa, I 8 settembre 1999. Tonellini, infine, sono stati polemicamente distribuiti da­ vanti a McDonald's dai centri sociali durante la riunione del­ l'OCSE a Bologna. Vedi Maria Laura Rodotà, «La strategia delle brigate tortellino», La Stampa, 14 giugno 2000. 5 Fabio Manini, «La Quercia cerca i colpevoli», La Stampa, 29 giugno 1999. 6 Indro Montanelli, «La Cosa due e i tortellini», Corriere del­ la Sera, I 8 febbraio 1998. 7 «D' Alema e Montanelli, tortellini di lotta o di governo?», Corriere della Sera, 20 febbraio I 998. 8 Enrico Caiano, «Vissani: D'Alema ama i tortellini, ma non quelli emiliani», Corriere della Sera, I 9 febbraio I 998. 9 Silvio Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, cit., p. 116. 10 Vittorio Gorresio, I carissimi nemici, cit., pp. 236-237. 11 Claudio Bernieri, L'albero in piazza, cit., p. 28.

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Gianna Preda - Mario Tedeschi, Il ventennio della pacchia, cit., p. 79. 13 La canzone s'intitola: Lode alla pietanziera (testo di Emilio Jona, musica di Sergio Liberovici). Ai modelli dell'alimentazione operaia e popolare nel periodo precedente e successivo alla se­ conda guerra mondiale, la fondazione « Vera Nocentini» e l'as­ sociazione« Il Nutrimento» hanno organizzato un incontro, « Sul filo dei ricordi: il baracchino degli operai», al Salone del libro di Torino, maggio 1998. 14 Carlo Galluzzi, La svolta, Sperling & Kupfer, Milano, 1983, p. 85. Il pranzo con Longo cui fa riferimento l'autore si svolge a Varsavia, presso l'ambasciatore italiano Aillaud. 15 Massimo Caprara, Quando le Botteghe... , cit., p. 4 I. 16 lvi, pp. 33-34. 17 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Ro­ ma, 1976, p. 69. 18 lvi, p. 354. 19 Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvati­ co, Bietti, Milano, 1999, pp. 13-14. 12

4. Anche i comunisti ingrassano

Alla fine degli anni '50, comunque, pure per i comunisti arrivò la gogna gastro-fotografica del Borghese. Ecco dunque la lotti, sor­ ridente e ben pasciuta; ecco Longo che mastica intensamente; ec­ co il sindacalista Agostino Novella a un ricevimento, con il suo bel piatto in mano, insieme al sindacalista del PSI, « uniti nella pappata»... La solita storia. Il cibo come arma di dileggio: quando vuoi attaccare qualcuno prendilo con il boccone in bocca. E magari inaugura, come fece allora il settimanale di destra, una rubrica in­ titolata: « I comunisti ingrassano». In realtà, più semplicemente, i comunisti stavano cambiando. E da un certo punto di vista - che al limite poteva anche essere quello del Borghese - stavano cambiando in meglio, nel senso che facevano meno paura. Lo confermavano quelle stesse istantanee di Palmiro Togliatti in doppio petto blu, gli occhiali da professore e la forchetta alza­ ta. «L'acquolina di Togliatti», recava la didascalia. Già più rimarchevole, per i personaggi che comparivano a fianco del «Migliore», era quella duplice composizione icono­ grafica sotto cui si leggeva: « Togliatti I e 2 ». Nella prima foto il capo comunista era ritratto insieme alla sua ex guardia del cor­ po Armando Rosati, detto « Armandino»; nella seconda appariva al fianco di Peppino De Filippo. Il commento era, come al solito, si.:ittitorio: «Togliatti ha lasciato il pistolero Armandino per Pep­ pino cuoco sopraffino». Quest'ultimo era a quel tempo uno degli eroi di Carosello, interpretato appunto da Peppino per una marca di olio da cucina. A suo modo quella beffarda didascalia diceva la verità. Dopo anni di devotissimo servizio, il partito aveva allontanato da To­ gliatti « Armandino » per la negligenza dimostrata in occasione dell'attentato del luglio 1948. E questi l'aveva vissuto come un vero fallimento politico ed esistenziale. Rosati era il militante fideista per eccellenza. Oltre a svolgere il

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ruolo di addetto alla sicurezza, si era assunto la funzione di com­ missario all'alimentazione del capo comunista. Forse erano ordini che venivano dall'alto -dallo stesso Stalin, come s'è visto -o for­ se era una sua intima convinzione, per quanto di natura magico­ sacrale. Fatto sta che « Annandino» s'era convinto che Togliani dovesse mangiare ogni giorno un piatto di cervella, poiché egli « doveva pensare per tutti noi». Perciò, al ristorante, metteva boc­ ca premurosamente in ogni consultazione del menu. scavalcando nel corso degli anni la Montagnana o la lotti. e comunque ordi­ nando per Togliatti bistecche e, meglio ancora, cervella frine.' Ebbene: di un personaggio del genere il panito e Togliani non avevano effettivamente più tanto bisogno. Quanto a Peppino, cuoco sopraffino, seppure non avesse preso il posto di « Annandino» al fianco del segretario comunista - del resto: chi, allora, avrebbe mai potuto immaginare gli stretti rap­ porti tra il leader D'Alema e il cuoco Vissani"1 - be', era comun­ que un segno che il mondo comunista, fino a poco prima contras­ segnato da uno stile perfino monacale, stava scoprendo agi bor­ ghesi e contiguità pubblicitarie di cui un tempo si sarebbe sen­ z'altro vergognato. Ne fa fede, se si vuole, un bizzarro aneddoto che fulmina il« Mi­ gliore» proprio il giorno della morte di Stalin, 5 marzo 1953. Quando Togliatti apprende la notizia da Pajetta si trova in aula a Montecitorio e ha davanti a sé un foglio con su scritto qualcosa. Rapidamente raccoglie le sue cose ed emozionato si precipita verso l'uscita della Camera. Sulla piazza l'attendono l'Aurelia nera e i primi capannelli. Prima di entrare in macchina, si ricorda di avere ancora in mano quel foglio, ci pensa un attimo, quindi lo appallottola e lo butta via. L'auto parte a grande velocità verso le Botteghe Oscure: è un momento drammatico nella storia del mo­ vimento operaio. Non si rende minimamente conto, Togliatti, che nei pressi del­ la macchina c'era un signore piuttosto curioso, amico di giorna­ listi di destra. Questi va a raccogliere il foglio. Muore dalla vo­ glia di sapere cosa ha per le mani il capo dei comunisti italiani nell'ora in cui il cuore del compagno Stalin ha cessato di battere. Quindi svolge il foglio e legge: « Piastra per arrosto». Il solito Borghese la butterà in polemica sull'URSS: « Vergo­ gna, lì comanda un partito dove milioni di persone non solo non

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hanno la piastra, ma nemmeno l'arrosto». 2 È un tratto di comica umanità, una specie di scherzo surreale, una vendetta postuma dei «forchettoni». Eppure, su un piano che riguarda le complesse re­ lazioni tra cibo e potere, forse solo una preoccupazione così «bassa» carpita in un momento così «alto», una piastra per ar­ rosto e la morte di Stalin, riescono a trasmettere il senso anche profondo di un cambiamento in atto. Si replica più o meno con gli stessi effetti stranianti nell'indimen­ ticabile 1956, l'anno dell'Ungheria, quando per offrire una cena alle delegazioni estere confluite a Roma per una manifestazione, il PCI sceglie « La Villa dei Cesari», che appartiene al celebre ristoratore rosso «Cesaretto», ma dove i poveri camerieri, per far colpo sui turisti, sono obbligati a lavorare indossando tuniche da antichi romani d'ispirazione un po' hollywoodiana e un altro po' trash-pompeiana. Pure in questo caso conviene farsi raccontare la serata dal ma­ ligno giornalista di destra che nella gran confusione è riuscito a intrufolarsi: « Notai che Togliatti, sedendo a tavola, compiva una di quelle mossette, sotto la giacca, che tradiscono l'allentamento preventivo della cinta. Dopo questa piccola misura di sicurezza, il capo del PCI riempì i bicchieri e intrecciò il primo brindisi con la Furtseva, poi con i polacchi e infine con i cechi. Poi venne il piano forte: 'spaghetti alla papalina'. I traduttori faticarono molto per spiegare la cosa alle singole delegazioni. Qualcuno dei dele­ gati rise. Molti guardavano gli spaghetti come se temessero di trovarsi sul piatto un cibo consacrato». 3 Ma qui, più che il comunismo, contava Roma: la sua pervasiva e sofisticata ineleganza, la sua sbalorditiva e poetica promiscuità. Rispetto al cibo e ai ristoranti, d'altra parte, già negli anni '60 i comunisti della capitale, raccolti attorno alla cosiddetta « Scuola romana», godevano di una particolare autonomia che ben si com­ binava con certi impulsi di destra riformista. Paolo Bufalini, Maurizio Ferrara e Antonello Trombadori, chiamati anche, per la arrochita cadenza romanesca, « i rauco-co­ munisti», si ritrovavano spesso ai tavoli della «Carbonara», tra Campo de' Fiori e la Cancelleria. In comune, oltre a una passione per il discutibile vinello bianco dei Castelli e il maestoso fritto vegetale, avevano una certa vena poetica. Bufalini era un grande traduttore di Orazio, quindi anche del-

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I 'Orazio gastronomo della Quarta satira del Secondo libro: « Si vespertinus subito te oppresserit hospes... », se mai ti capitasse all'improvviso un ospite sul far della sera.• Ferrara e Trombadori, cultori del Belli, erano poeti soprattutto in dialetto romanesco. Entrambi assertori di una carnalità che non poteva certo trascurare il mangiare. Di Maurizio Ferrara, sia pure nascosto dietro lo pseudonimo di « anonimo romano», vale qui la pena di segnalare un sonetto su La golosità de li vecchi, sorta di confessione e sublimazione di altri piaceri a una certa età: Dunque me fa goloso: e tutto er giorno penzo ar magnà, ce godo e me conzòla de fa l'amore co 'n 'abbacchio ar forno. Me ce vergogno: è 'na gran brutta scola scoprisse rimbambiti a girà 'ntorno peccànno no de cazzo ma de gola.' In Trombadori il cibo è celebrato in una dimensione meno intima, ma più completa: osti, piatti, luoghi, sapori - anche perduti, or­ mai - della capitale. La pizza all'angolo dei Cappellari e i filetti di baccalà di largo dei Libbrari;6 la malinconica chiusura per sfratto di « Enzo al Paradiso», con il dovuto elogio dei ristoratori amatriciani;' una specie di completissimo itinerario alla ricerca di pastarelle, sfogliatelle, frittelle, bignè, bombe e perfino kranz nel­ le pasticcerie dell'Urbe.8 Fino all'apoteosi del sunnominato risto­ rante « La carbonara», sito in « Campo de' Fiori n. 23 », che è anche il titolo del sonetto: Ggira ggira 'ndò vai? Non c'è più un sito dove, come 'na vorta a/l'osteria, si ciavevi la vòjja e I 'appitito potevi magnà a sede o pportà via. Ch'odore che mannava la pancetta arrosolata cor pommidoretto! come scenneva asciutta la fojetta! Pe stà magnata diventata rara, spece ar giorno de pesce o de crapetto, vòi annà sicuro? Và a La Carbonara.9 Fuori Roma, nel frattempo, si continuava ad andare alle feste del­ ! 'Unità.

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Ma qualcosa stava accadendo, o era accaduto, a partire dal 1975-76, il biennio dei successi elettorali del PCI berlingueriano. Quanto più le manifestazioni perdevano spessore politico e cultu­ rale, tanto più ne assumevano in quantità e qualità dal punto di vista della gastronomia e della ristorazione. Il fenomeno divenne macroscopico negli anni '80, che pure, dal punto di vista elettorale, non furono affatto felici. Nel 1987 si calcolò che la rete festivaliera del partito avesse coinvolto circa 30 milioni di commensali, attraverso un gigantesco banchetto che dal Piemonte si snodava fino in Sicilia. Quello sarà anche stato l'anno di una pesante sconfitta, ma la Festa nazionale di Bologna offriva lo stesso un quadro sempre più gaudente, con «ristoranti caratteristici, quelli dei Paesi dell'Est, l'immancabile bar cubano con la foto del Che, il cocktail !sia de los Pinos e gli altoparlanti che diffondono a tutto volume Guantanamera». ' 0 Vengono consumate 250.000 uova, 750 chili di somarello, 120 quintali di pesce, 180 di suino, 11O di cacciagione, 50 di polenta, 6000 lumache, 800 chili di wi.irstel, 45 quintali di prosciutto, 25 di formaggio. Nelle librerie vanno fortissimo i manuali di cuci­ na.'' È un festival cosi grasso da attirare i fulmini del cardinal Biffi sulla natura «epicurea» della città rossa per eccellenza. La sconfitta elettorale e l'incertezza politica sono lì, ma la grande festa nazionale sembra trasmettere un «mangia che ti pas­ sa» a suo modo rivelatore di fenomeni profondi, contaminazioni consumistiche, appartenenze che vanno sgretolandosi, identità che perdono la loro potenza esclusiva. In altre parole: il cibo co­ me uno dei veicoli di secolarizzazione della religione comunista. In quello stesso 1987, a novembre, su impulso del nascente Arei-gola, il PCI organizza a Montalcino il primo concorso-con­ vegno gastronomico collegato al festival. Fabio Mussi ironizza sulla nomea dei comunisti mangia-bambini; Enrico Menduni ro­ vescia la frase di Mao sulla rivoluzione che non è un pranzo di gala per concludere che «è giunto il tempo in cui anche i rivolu­ zionari sperimentino come sia bello mettersi a tavola». E vengo­ no premiati i tre migliori ristoranti. ' 2 Tre anni dopo, nel settembre del 1990, il PCI sta per essere sciol­ to. E al festival di Venezia sono in vendita i dolci di produzione Arrigo Cipriani, simbolo della borghesia ricca e sfruttatrice, ad­ dirittura menzionato nella canzone popolare Giudeca. 13 All'eno­ teca della Festa nazionale di Modena, la carta dei vini comprende

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una scelta di 233 tipi. Ce ne sono da 10.000 lire, fino alla botti­ glia di Brunello del Centenario che ne costa 160.000. 14 Per certi versi si può dire che i festival sono una reale occasio­ ne di crescita della cultura gastronomica. Alcune pietanze - tipo il somarello e le rane - migliaia di italiani le assaggiano solo lì. 's E tuttavia quella cibaria è ormai una deriva che non si può se­ parare dai grandi processi di trasformazione dei cittadini in con­ sumatori. Al festival nazionale di Bologna del 1993, la mangiata intelligente o sperimentale, capricciosa o tradizionale convivono con l'industria delle diete dimagranti e non lontano dall'«Osteria dei popoli►> c'è Wanna Marchi, con la figlia, che vende dal vivo le sue pozioni a base di alghe. 16 Insieme alla tele-venditrice in carne e ossa arrivano anche la roulette, le slot-machines, la sfilata di moda, lo strip-tease e la chiromante. Nel 1994, l'anno della vittoria berlusconiana, i progressisti bolognesi organizzano banchetti raffinati e pranzi di gala nella settecentesca Villa Cicogna di San Lazzaro o nel cortile della vecchia sede (poi venduta) di palazzo Marescotti-Brazzetti per finanziarsi. Nel primo caso si pagano 250.000 lire; nel secondo «solo►> 150. « Posti limitati in entrambe le occasioni», si legge sull'Unità, «obbligata la prenotazione, gradito (anche se non ri­ chiesto) l'abito scuro.» Il pezzo forte sarebbe un maialino ripie­ no di ogni ben di Dio. Sarebbe, perché i verdi hanno piantato grane e così l'animale è stato riprodotto al naturale con crosta di pane. Vini adeguati e in sottofondo musiche di Haendel e Mo­ zart.17 Nel 1997, infine, è sintomatico che un quotidiano come La Stampa invii il critico gastronomico Edoardo Raspelli alla festa di Reggio Emilia, dove ci sono sette fra bar e gelaterie, 8 punti di ristoro e 20 ristoranti di cui uno costruito su misura per i bam­ bini.'" Con la consueta e brillante meticolosità, Raspelli descrive l'assalto serale alla pappa da parte di un popolo che qui non si riesce più nemmeno a definire «ex» o «post» comunista. E alla fine del ghiotto resoconto non sai più con che occhi guardare quella vecchia collezione di foto ingiallite: «I comunisti ingrassano►>.

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NOTE ' Massimo Caprara, Quando le Botteghe... , cit., p. 79. Guglielmo Peirce, « Una piastra per arrosto», in/ magnifici anni '50, Edizioni del Borghese, Milano, 1979, pp. 91-97. 3 Id., « A pranzo con la furtseva», ivi, pp. 303-306. Sul risto­ rante« La Villa dei Cesari», che fino a qualche anno fa recava, co­ me annuncio pubblicitario, « sarete serviti da schiavi e liberti», e più in generale sull'« ignominia della messa in scena», ha scritto Gianfranco Finaldi, Guida ai piaceri di Roma, Sugar, Milano, 1971, p. 52: « Camerieri improbabilmente bardati da antichi roma­ ni e il guardamacchine in tunica da schiavo e torcia in mano, fanno di questa trattoria il paradiso per i turisti americani in cerca di emozioni folcloristiche-archeologiche... Vi si organizzano toga­ parties, con comitive scortate al galoppo da bighe romane con tor­ ce al vento.L'organizzazione provvedeva ai costumi (confezionati in un piccolo stabilimento di Pomezia) che alla fine restavano in possesso dei clienti. Arrivavano quindi anche i gladiatori». • Per questo eventuale ospite, Orazio offre suggerimenti ga­ stronomici straordinari e a suo modo anche piuttosto moderni, specie per quanto riguarda la scelta delle materie prime: « Il ca­ volo cresciuto nei campi asciutti è più dolce di quelli del subur­ bio... » 5 Anonimo romano, Er compromesso rivoluzzionario, Gar­ zanti, Milano, 1975, p. I 04. • Antonello Trombadori, Solo lì, in Sonetti romaneschi, Newton Compton, Roma, 1988, p. 163. 7 Id., A bbur "alice, ivi, p. 177. 8 Id., Li darci, ivi, p. 213. • Id., Campo de· Fiori n. 23, ivi, p. 182. 0 Paolo Mieli, « Una festa scacciapensieri rimuove la sconfit­ ' ta PCI», la Stampa, 2 settembre 1987. 11 Carmine Fotia, « Il supermarket rosso», li Manifesto, 18 settembre 1987. 12 Mario Passi,« Siete invitati a pranzo con... il PCI», l'Unità, 30 novembre 1987. 13 « Per il dessert il partito sceglie Cipriani», la Repubblica, 7 settembre 1990. 14 Morena Pivetti, « Dai tortelloni di Anna al tartufo di Ser­ gio», l'Unità, 12 settembre 1990. 15 « Italiani mangiatori di rane alle feste di partito», l'Unità, 2

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25 settembre 1991. Settanta tonnellate di anfibi in meno di un mese al festival di Bologna. 16 Massimiliano Lussana, « Macché Gramsci, la star dei com­ pagni è Wanna Marchi», L'Indipendente, 3 settembre i 993. 17 Onide Donati, « Cene progressiste stile Rinascimento », l'Unità, 2 marzo 1994. 18 Edoardo Raspelli, « Al compagno piace l'aragosta » , la Stampa, 8 settembre 1997.

5. Pane e nostalgia: il rancio neofascista

Camerati, onorate il buon pane di una volta... «L'Italia, che pri­ ma del fascismo era tributaria del grano dello straniero, ha non vinto, ma stravinto la battaglia del grano. Sta di fatto che, nono­ stante tutte le distrazioni della guerra, il raggiunto livello produt­ tivo fece sì che tutti gli italiani potessero finalmente nutrirsi di pane italiano. » Questo si poteva leggere, ancora nel 1961, sul quotidiano dell' MSI, Il Secolo d'Italia. 1 « Italiani, amate il pane, frutto del lavoro, profumo della men­ sa e gioia del focolare», era del resto una specie di preghiera - di probabile conio staraciano - raccomandata dal fascismo alle fa­ miglie. La questione è che a un certo punto, diciamo in coinci­ denza con la guerra, proprio questo assai decantato pane venne drammaticamente a mancare. E per tanti anni, come s'è visto, se ne ebbe non solo una triste memoria, ma anche una durevole colpevolizzazione dei responsabili di tale mancanza: i fascisti, nel frattempo divenuti «neo». Insomma: anche per quel che riguardava il cibo il regime non aveva lasciato un buon ricordo. In fin dei conti, tra i tanti piaceri, Mussolini non aveva colti­ vato quello del mangiare. Soffriva anche d'ulcera, aveva gusti semplici. Premesso che c'erano colpe più gravi, sosteneva con qualche ragione Luigi Veronelli in quello stesso 1961, il regime «aveva voluto imporre alla nazione un clima bellico anche in tempo di pace». La requisitoria del gastronomo era al tempo stesso impla­ cabile e impeccabile. Altro che pane fascista. Durante la guerra, a Roma, come scherzosa protesta in rima c'era chi aveva messo un cartello al collo di una delle tante statue di bronzo: « Tu che ciai lo stomaco de /ero», recava l'iscrizione, «puoi magnà er pane del'Impero». E il fatto che la statua fosse proprio quella di un imperatore romano, e per giunta a via dei Fori imperiali, rendeva la beffa ancora più riuscita.

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E nemmeno c'era il bisogno, per criminalizzare l'ordine ali­ mentare del fascismo, di ricordare la famosa e sciaguratissima sentenza, sempre mussoliniana: « Abbiamo rinunciato al burro per avere i cannoni►►. E cosi, adesso, abbiamo i «burroni», fu la replica con cui fin da allora si espresse un sensato scetticismo su come sarebbe andata a finire. Ma a parte il burro, e il sostanziale fallimento delle varie cam­ pagne del riso o degli « orti di guerra►►: a parte le restrizioni per un certo periodo aggirate dalla fettina di carne nascosta sotto le verdure e clandestinamente richiesta al cameriere come« il sotto­ marino►►, be', insomma, anche prima di impegnarsi contro gli in­ glesi, « popolo dei cinque pasti►►, tuno sommato i I fascismo ave­ va predicato l'austerità, venerato la semplicità. esaltato la sobrie­ tà, condannato i gusti borghesi e deriso le buone maniere a tavo­ la. Nulla quindi che potesse, specie dopo il disastro, far rimpian­ gere quelle stentoree indicazioni gastronomiche. Il capo, inoltre, con i suoi malanni gastrici e la sua polemica contro un supposto« panciafichismo►► (parola che indicava quan­ to fosse vergognoso riempirsi la pancia di fichi). restava pur sem­ pre un modello negativo. « Il duce beve latte». incalzava Vero­ nelli facendo il verso alla propaganda del regime. «il duce man­ gia pane e salame. Il duce si disseta con l'acqua fresca.>> li guaio, proseguiva la requisitoria, è che non solo ci siamo convertiti al pane, al latte, al salame e all'acqua fresca, « ma abbiamo perduto il gusto sottile e raffinato di insaporire i piaceri del palato».' D'altra parte era ancora vivo il ricordo di un celebre manifesto, affisso su tutti i muri d'Italia. Si vedeva un tale con il tovagliolo attorno al collo che si accingeva a un bel pranzo con maccheroni, pollo, frutta, un fiasco di vino, e un soldato in uniforme coloniale, dietro di lui, che gli faceva andare di traverso il boccone in gola ammonendolo: « Chi mangia troppo, deruba la Patria►>. Vero è anche che questo genere di propaganda era assai limi­ tatamente efficace. Anzi, fra le varie forme di antifascismo, c'è chi annovera anche quella « della ribellione gastronomica►►, be­ ninteso da parte di chi se lo poteva permettere. Accadeva cioè che la reazione al potere si manifestasse« attraverso fastosi pran­ zi che, anche in tempo di sanzioni, prevedevano la presenza in tavola di costosissimi prodotti importati fortunosamente dall'e­ stero►►: in particolare: foie gras e champagne dalla Francia; sal­ mone e whisky dalla « perfida Albione>►•

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La provocazione era tanto più efficace quanti più dignitari e notabili fascisti si riusciva a coinvolgere in quelle trasgressive li­ bagioni. Nei dossier dell'OVRA, che andava anche a caccia dita­ li frequentazioni, sembra fossero particolarmente gustose le giu­ stificazioni, tipo: « Accenai l'invito solo per constatare a che punto si spinge l'attività antinazionale del Tal dei Tali ». 3 Per farla breve: a tavola il fascismo era stato un vero disastro. Con quel po' po' di fardello caricato sulle spalle, per cosa pote­ vano dunque distinguersi i neofascisti? Era il loro, dopo la guerra, un mondo di scampati. di condannati a restare ► e« progresso». Si avvera dunque il sogno di zu Sariddu, il lago è una realtà, come quell'« acqua democratica», quasi dieci anni prima individuata come condizione indispensabile per non morire più di fame. Eppure di morte, al Borgo, ormai non si parla più. Colpiscono semmai le prime critiche nei confronti di Dolci e di quel suo ri­ voluzionario strumento di lotta che forse non è più, almeno nel suo caso, lo sciopero della fame. Tocca qui registrare una presa di distanza di Guido Calogero, il pensatore che pone il dialogo alla base della sua filosofia e che pure gli fu molto vicino negli anni precedenti: « Di fatto in simili forme di sollecitazione delle decisioni altrui», scrive sul Mondo nel 1962, « ciò che propria­ mente giuoca non è più la persuasione, ma l'emozione. Si ha una specie di ingigantita mozione degli affetti: è come quando al­ la pacata eloquenza degli argomenti, gli oratori sostituiscono l'eccitazione delle passioni». 1• Nulla in confronto alle critiche, e alle amarezze, che tocche­ ranno a Danilo negli anni a venire." Eppure, pare anche di co­ gliere un po' la conferma dei limiti del digiuno, arma davvero de­ licata nella sua potenza, e addirittura fragile quando la sua stessa rappresentazione prende il sopravvento.

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NOTE 1 Giuseppe Casarrubea, Danilo Dolci, sul filo della memoria, cit. 2 Ivi. 3 Emanuele Macaluso, « Un irregolare in Sicilia», // Manife­ sto, 3 I dicembre 1997. • Livio Ghersi, « Danilo Dolci e la dimensione wnana», http://212.2 l 0247.194/pratica/Testi/07! .htm. s Piero Calamandrei, Testo stenografico dell'arringa pronun­ ciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo. In Processo ali 'art. 4, cit., pp. 291-316. 6 Ivi. 7 Pietro Nenni, « Il paradiso dei capitalisti», L'Avanti!, 29 marzo 1956. ' Giuseppe Casarrubea, Danilo Dolci, sul filo della memoria, cit. 9 Marcello Sorgi, « Torino e un grande italiano», la Stampa, 6 aprile I 999. 10 Lamberti Sorrentino, « Fuggiti dai conventi e reduci dai carceri nella Nomadelfia di Sicilia», Tempo, 25 aprile 1956. 11 «L'Africa in casa», in L'Espresso 1955- '85. Treni 'anni di costume, a cura di Umberto Eco, Editoriale L'Espresso, Roma, 1985, pp. 36-38. 12 Salvatore Nicolosi, « Il digiunatore di Natale», Tempo, 3 gennaio 1957. 13 « Cronologia essenziale», a cura di Franco Alasia e José Mar­ tinetti, www.geocities.corn/Athens/Agora/2055/cronologia.htm. 1 • Guido Calogero, « Sciopero della fame», // Mondo, 2 otto­ bre 1962. 15 Nel 1977 diciotto collaboratori di Dolci, minacciati di li­ cenziamento, si rivolsero al sindacato e quindi entrarono in scio­ pero. Nel gruppo vi furono anche delle dolorose separazioni. Per altre critiche, di vario genere, anche personali, rivolte a Danilo Dolci in quel periodo: Cristina Mariotti, « Ora gli apostoli chie­ dono la tredicesima», L'Espresso, 22 maggio 1977.

3. Strategie e calorie nel digiuno panne/liana

Chissà quanti altri digiuni ancora per Marco Pannella ... In oltre trent'anni il leader del radicalismo italiano ne ha com­ piuti un numero che nessun pur volonteroso biografo è riuscito esattamente a calcolare. Le stime più empiriche ondeggiano tra i diciotto e i ventidue, ma la vicenda pannelliana sembra ben lun­ gi dall'essere compiuta, considerata l'imprevedibilità del perso­ naggio. Le occasioni, d'altra parte, non gli mancano; nè si può dire, in tutta onestà, che lui si sia mai risparmiato. Anzi, per introdurre il particolare approccio di Pannella al digiuno, vale qui ricordare una sera di maggio del 1998, quando fu ricoverato d'urgenza al Policlinico, e poco prima di entrare in sala operatoria dove gli avrebbero messo quattro by-pass, be', molti si sarebbero preoccu­ pati dell'intervento. E invece Marco, convocati i giornalisti, si premurò solo di avvertirli che lui stava solo « cercando di capire» come iniziare un digiuno, lì all'ospedale, in quelle precise co ndi­ zioni di pre-sala operatoria, e come conciliarlo con la degenza e quindi con la convalescenza... 1 Perché a volte sembra un pazzo, Pannella. E forse lo è - con tanto di gratificanti autogiustificazioni letterarie' -, ammesso che la pazzia, specie in politica, si possa misurare con parametri che non siano anch'essi un po' folli. Ben più arduo che indagare sull'arte pannelliana del digiuno, in fondo, è comprendere il «normale» rapporto che il più pervi­ cace digiunatore della storia politica italiana ha con il cibo. E già si parte in modo un po' strambo perché una leggenda di Palazzo Io vorrebbe in origine coinvolto, per ragioni di autofinanziamen­ to, in un traffico di datteri.' Altra stranezza - ben più recente, per quanto anch'essa non smentita - è che a Pannella piace far credere di essere un gran cuoco. Per cui una volta invitò a pranzo a casa sua Berluscom e Letta, che furono prodighi di elogi. Anche se poi si venne a sa-

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pere che in realtà gli aveva fatto mangiare un pranzo ordinato alla trattoria sotto casa! È possibile che la beffa avesse una sua valenza di tipo peda­ gogico. Come che sia, si sa che Pannella è genericamente una buona forchetta ed è ghiotto di pasta, senza troppa fantasia. Una volta, cedendo con qualche riprovevole voluttà alle richieste di un rotocalco, si è spinto a consigliare una ricetta per certi spa­ ghetti che il settimanale ha inesorabilmente ribattezzato « alla Pannella». Era una innocente pastasciutta al burro e parrnigiano. L'unico suggerimento gastronomicamente rilevante era quello di abbondare con il burro, poi scolare al dente e mantecare.' Burro e parmigiano ricorrono anche, per quanto sciolti in un triste «brodino» di dadi, quali ingredienti che di solito pongono fine allo sciopero della fame.• Con un «brodino», una volta, Pan­ nella ha confessato di aver segretamente interrotto un digiuno. Un altro «sgarro» ammesso riguarda una pasta con la crema, di­ vorata in un momento di sconforto.' Si conclude la disamina accennando al fatto che a casa sua come in casa di qualche altro milione d'italiani - venivano utiliz­ zati come bicchieri gli ex barattoli di vetro della Nutella. E che il leader radicale è stato uno dei primi italiani a scoprire le cliniche della salute, frequentate soprattutto dopo i più selvaggi scioperi della fame. Degenze che hanno contribuito a salvargli per quanto possibile il metabolismo e quindi anche ad allungargli la vita. E comunque, sempre ai digiuni si ritorna. Con tutte le differenze tecniche, politiche e anche di natura filosofica, quelli di Pannella costituiscono senz'altro un 'evoluzione della formula inaugurata in Italia da Danilo Dolci.8 Il primo digiuno, probabilmente in Francia, all'inizio degli an­ ni '60, è contro la guerra d'Algeria.• Il primo che ha lanciato in Italia, nell'agosto del 1968: «per lo sgombero totale delle truppe sovietiche dalla Cecoslovacchia». 10 Dopodiché i vari scioperi, parziali e totali, della fame e della sete, individuali e collettivi, culminati a Natale o a Pasqua, si in­ trecciano, si accavallano e si confondono, spesso anche per quel che riguarda la durata e gli obiettivi, lungo l'arco di oltre un quar­ to di secolo. Una cronologia sicuramente incompleta non può comunque fare a meno di indicarne i principali. Novembre 1969, dentro una roulotte in piazza Montecitorio, per accelerare l'iter della

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legge sul divorzio. Ottobre-novembre 1972 (36 giorni): « Natale a casa per Valpreda e gli obiettori di coscienza». Primavera 1974 (62 giorni) per ottenere un incontro con il presidente della Re­ pubblica e un «risarcimento» in termini di spazi televisivi. Pri­ mavera-estate 1976 (90 giorni, a più riprese): sempre con l'obiet­ tivo di strappare spazio televisivo, anche in vista delle imminenti elezioni. Settembre 1977: per l'obiezione di coscienza, in Spa­ gna. Aprile 1979, contro lo « sterminio per fame» nel mondo. Aprile 1980, primo Sathyagraha, o azione diretta non-violenta e di massa a livello europeo sempre contro la fame nel mondo. Novembre 198 I ( I 00 giorni, in diverse riprese): per sollecitare una normativa d'intervento per il Terzo Mondo. Luglio I 982 (60 giorni), con il sostegno di 70 Premi Nobel, sempre contro «lo sterminio». E qui sembra chiudersi un ciclo. Un altro, di ancora più difficile e monotona esposizione, si ria­ pre alla metà degli anni '90 soprattutto sui temi dell'informazio­ ne, non di rado in collegamento con le varie tornate referendarie e con le vicissitudini di Radio radicale. Nell'autunno del 1995, persi 15 chili, per la prima volta Marco Pannella viene ricoverato d'urgenza in ospedale. li 3 novembre del 1997 viene di nuovo ri­ coverato, questa volta per un'ischemia, all'ospedale San Giaco­ mo. li giorno 8 «scappa» dal reparto per andare a distribuire spi­ nelli. li 14 novembre, ancora in terapia intensiva, ricomincia un nuovo sciopero della fame e della sete, che sospende il 17, non senza essere stato scongiurato a smettere dal capo della maggio­ ranza D'Alema e da quello dell'opposizione Berlusconi, e dopo aver accordato 48 ore alla Commissione di Vigilanza RAI « per rimediare». 11 L'anno dopo, come si è visto, riattacca... Divorzio, aborto, obiezione di coscienza, fame nel mondo, in­ formazione. A dispetto dei singoli frammenti della vicenda pannelliana, è comunque enorme lo spazio che questa sua for­ ma di lotta non-violenta ha occupato nella vita anche quotidia­ na degli italiani. I risultati sono sotto gli occhi di ognuno. E tuttavia, ciò che qui interessa è lo sviluppo e il perfezionamen­ to di una pratica di cui fin dall'inizio il leader allora trentacin­ quenne del PR valuta l'efficacia soprattutto in relazione con il sistema dei media. 12 Questo per dire come lo sciopero della fame si connoti pregiu­ dizialmente come strumento ad altissimo impatto emotivo e co­ municativo. Su questa base Pannella lo modella a sua immagine

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e somiglianza e lo utilizza a suo uso e consumo. Ne fissa quindi le procedure, ne ridisegna i confini e ne stabilisce i contenuti con una attenzione anche tecnica che lo porterà quasi a sentirsi cavia e benemerito della scienza dell'alimentazione: « Abbiamo sco­ perto che i medici non sanno quasi niente». 13 Pannella parte garantendosi una riserva minima, due o tre cap­ puccini al giorno, con dello zucchero, più sali minerali e vitami­ ne: sono quaranta calorie di zucchero e cento di latte, 140 in tutto rispetto alle 3000 necessarie, per « evitare che il primo organo colpito sia il cervello». 1• A differenza del corpo, che ha avuto i suoi guai, il cervello di Pannella è sempre stato una garanzia e al tempo stesso un motore inesauribile di trovate. Alla guida di un partito piccolo e privo di un'organizzazione stabile del consenso, sin dai primordi il leader radicale è costretto a sviluppare un circuito di comunicazione che prefigura con vent'anni di anticipo moduli e suggestioni oggi di uso comune: immediatezza, serialità, semplificazione, dramma­ tizzazione. Sulle virtù mediageniche del personaggio non si ammettono dubbi. Già nel 1976 Umberto Eco certificò che Pannella« bucava il video». 15 E una decina d'anni dopo questo stesso personaggio poteva autorevolmente essere proclamato « padre fondatore della politica spettacolo in Italia». 16 In tale primato è evidente che proprio il rifiuto prolungato del cibo gli consente di mettere in scena la fame, facendosi egli stes­ so messaggio, senza mediazioni di sorta. In altre parole, Pannella occupa il mezzo e stabilisce un rapporto diretto fra leader e mas­ sa, fra determinazione individuale e consenso diffuso. 17 Ignorare il digiuno, oltretutto, è praticamente impossibile. Lo stesso leader radicale, per giunta, è maestro nell'enfatizzarne la potenza narrativa, performativa, a tratti anche affabulatoria. 1• E come se non bastasse, sempre il digiuno ha pure un fortissi­ mo potere colpevolizzante. « Specie quando passa attraverso l'immagine fisicamente visibile», ha scritto del digiuno uno stu­ dioso di cultura e pratica radicali come Massimo Teodori, « pro­ voca complessi di colpa e induce solidarietà in quei politici abi­ tuati a utilizzare la cosa pubblica a proprio vantaggio e quindi a cogliere, quasi si trattasse di una riparazione, il valore di un atteg­ giamento così fuori dalla norma. » 19

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Ogni volta, però, il digiuno deve far giocare la vita con la mor­ te.20 Nessuno più di Pannella riesce a improvvisarsi regista di ter­ ribili esca/ations. Osservato con freddo distacco, lo schema di massima ricorda il lancio del classico missile a più stadi. Dappri­ ma il leader radicale avverte che non dovrebbe digiunare dato che i medici gliel'hanno vietato; poi attacca. ma con i cappuccini; poi dichiara lo sciopero «totale»; poi promette che proseguirà « fino alle estreme conseguenze»; quindi si passa in genere allo sciope­ ro della sete. Nel 1972, Pannella ha tenuto un diario di uno sciopero collet­ tivo.« Siamo ridotti all'osso», si legge al 32" giorno. « Sono di­ magrito di 19 chili. Sappiamo già che ormai sono e saranno bru­ ciate cellule che non si ricostituiranno. So che i capelli cadranno, anche i denti e la vista ne risentiranno come la memoria e al­ tro.»2 ' Più o meno a questo punto, in altri digiuni e in altri diari. en­ trano in campo i medici.'' La presenza dei sanitari garantisce un'accelerazione dei brividi e della pena. La sintomatologia del digiunatore è di per sé spaventosa, e nulla viene risparmiato per «sfondare» l'indifferenza dell'opi­ nione pubblica: abbassamento della vista, insonnia, dolori mu­ scolari, decalcificazione dei denti, sfaldamento delle unghie, in­ canutimento dei capelli, lingua secca, bocca impastata. I periodici bollettini confermano che le pulsazioni si dimezzano; la pressio­ ne venosa e arteriosa si riduce; l'elettrocardiogramma si«minia­ turizza»; la diuresi si contrae; il peso corporeo«fonde». Pannel­ la arriva a perdere quasi 40 chili. Ma il peggio - fanno sapere i protagonisti di queste azioni - av­ viene«dentro», là dove non si vede. Se protratto all'estremo, il di­ giuno rende il corpo simile a«una fabbrica che resta senza nafta e va avanti lo stesso, sempre più al minimo», consumandosi alla ri­ cerca disperata di riserve dimenticate." Quindi, prima se ne vanno i grassi, che si bruciano per risparmiare le proteine strutturali; poi cominciano a diminuire di volume il fegato, l'intestino, i muscoli. la tiroide, il pancreas; e un po' anche il cuore, i reni e le ghiandole surrenali. Il cervello no, ma anche questo può essere un guaio. Quando la situazione appare disperata, la disperazione si traduce in immagini, poiché i digiuni, secondo Pannella, «hanno una sola incontrovertibile prova evidente: le fotografie».24 Il corredo iconografico radical-pannelliano, preferibilmente in

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bianco e nero, è anch'esso impressionante: occhi sbarrati, volti smunti, maglioni neri, torsi scheletriti. La forza primaria e provo­ catoria del nudo, di solito, si combina con lo shock del corpo af­ famato. Nel 1974, Pannella annuncia di essere disponibile, dietro compenso, « a un servizio fotografico che mercifichi ulteriormen­ te quel che sono diventato per tanta parte della stampa italiana. Poserò volentieri nudo e sarò ben lieto di vendere questa mia re­ lativa ricchezza, questo magrore e l'immagine del mio corpo per­ ché non mi appartengono più, né mi interessano».25 Molte di quelle foto compaiono vent'anni dopo sul fondale del teatro Flaiano dove Pannella, letteralmente dietro le quinte, espo­ ne completamente nudi una dozzina di militanti radicali giunti al trentasettesimo giorno di digiuno. Li presenta a un pubblico di giornalisti citando passi del profeta Isaia e di se stesso: « Voi ci vedete. Come ci siamo fatti ricchi della nostra storia e della no­ stra povertà, così ci facciamo forti di questo nostro magrore, di questa nostra debolezza, di questi nostri corpi...»26

NOTE 1 « Pannella sarà operato al cuore», La Stampa, 18 maggio 1997. 2 I riferimenti letterari di Pannella risultano da un suo testo del 1974: « Piuttosto ci insidiano moduli che potrebbero rievocare i 'clerici vagantes', o le enfasi disperate dei Villon fino ai Rim­ baud, o la funzione dei giullari quale la intuiva già un bonario si­ gnore quale il Tommaso Grossi del Marco Visconti e che oggi ri­ crea e ripropone Dario Fo». Si menzionano anche Dickens, En­ gels, Balzac, Elsa Morante, Mann, oltre a « figli e nipoti degli idioti dostoevskijani». Cfr. Marco Pannella, « I pazzi siete voi», in Il pugno e la rosa, a cura di Valter Vecellio, Bertani, Ve­ rona, 1979, pp. 335-344. 1 Guido Quaranta, « Un abile show man», in Super Pannella, Matteo, Preganziol, 1977, p. 136. La vicenda, o la leggenda, dei datteri pannelliani si sarebbe conclusa con il fallimento commer­ ciale dell'iniziativa e una sovrabbondanza di frutti non smerciati, dei quali peraltro i radicali si sarebbero nutriti per oltre un anno. • « Triste digiuno senza Super Marco», La Stampa, 27 agosto 1996.

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5 Gigi Moncalvo, Pannella, Sperling & Kupfer, Milano, 1983, p. 51. 6 « Il signor digiuno», in / radicali e la non violenza, a cura di Angiolo Bandinelli, Il partito nuovo, Roma, 1994, pp. 26-32. 7 Mauro Suttora, Pannella, Liber, Milano, p. 107. Per la cro­ naca: lo sconforto che portò Pannella a interrompere il digiuno con un brodino e una pasta alla crema fu originato da « scazz1 » con i giudici di Magistratura democratica. 8 Pannella non risulta aver molto parlato di Danilo Dolci. U na volta, pur premettendo che si trattava di iniziative « degne di ri­ spetto», Pannella si è riferito ai digiuni di Dolci come « pratiche penitenziali e di ascesi». In un'altra occasione, più tecnicamente, ha sottolineato che Dolci « digiunava a letto, risparmiando al massimo le energie. Noi invece raddoppiamo gli sforzi, non n: sparrniamo le energie, ma non ci debilitiamo a letto». Vedi « Si fa presto a dire fame», in / radicali e la non violenza, cit.,

p. 55.

Mauro Suttora, Pannella, cit., p. 43. Marco Pannella, Scritti e discorsi, Gammalibri, Milano, 1982, p. 39. 11 Stefano Marroni, « Hai ragione, ma non ucciderti », la Re­ pubblica, 15 novembre 1997, e «Pannella riprende il digiuno», La Stampa, 18 novembre 1997. 12 Marco Pannella, Scritti e discorsi, cit., p. 39. Già nel comu­ nicato in cui si annuncia il digiuno « per lo sgombero totale delle truppe sovietiche» dalla Cecoslovacchia, nell'agosto del 1968, s1 legge: « Anche sul piano dell'efficacia, l'eco giornalistica e poli­ tica non potrebbe non essere rilevante». 13 Gigi Moncalvo, Pannella, cit., pp. 192-194. Gli unici es: perimenti medici sui digiunatori sembra riguardassero naufraghi e viaggiatori sperduti nel deserto. Ma , a differenza di costoro, Pannella ha tutto l'interesse - eventualmente - a prolungare 11 digiuno. 14 « Si fa presto a dire fame», in / radicali e la non violenza, cit., p. 55 15 li pugno e la rosa, cit., p. 272. · 16 Gianni Statera, La politica spettacolo, Mondadori, Milano, 1986, p. 45. 17 Massimo Teodori, Marco Pannella, Marsilio, Venezia, 1996, pp. 130-131. 18 Marco Pannella, Scritti e discorsi, cit., p. 229. Ha detto Pan9

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nella nel 1976: « La stampa italiana si lascia scappare storie co­ loratissime. A digiunare con me c'era un'anziana scrittrice che viveva sola in una villa romantica, floreale, ottocentesca: ti ci po­ tevi immaginare Gozzano, le marmellate della nonna e il rosolio; digiunava da sola. Settantadue anni». 19 Massimo Teodori, Marco Pannella, cit., p. 131. 20 I l pugno e la rosa, cit., p. 268. Nel 1976, con amichevole risolutezza, lo scrittore Goffredo Parise scrisse a Pannella che non valeva la pena di morire per l'informazione televisiva. Gli pareva una causa « di seconda e scadente qualità». Quale immen­ so valore, chiedeva Parise, dava Pannella all'informazione? A di­ stanza di oltre un ventennio occorre riconoscere che già allora il leader radicale aveva probabilmente individuato nella TV quel che Parise, con qualche ottimismo, dubitava invece che fosse: « il vero artefice della storia degli italiani». 21 / radicali e la non violenza, cit., pp. 26-32. 22 Mauro Suttora, Pannella, cit., p. 146. In trent'anni di digiu­ ni Pannella ha avuto svariati medici accanto a sé, e anche molto diversi tra loro: da Ennio Boglino, che lo aiutò nella stagione del­ la camera 167 all'hotel Minerva, al professor Mario Spallone, già amico e medico personale di Togliatti, che con altri sanitari fu vicino al leader radicale nel 1979 durante il digiuno contro la fa­ me nel mondo. 23 Gigi Moncalvo, Pannella, cit., p. 124. 2 • I radicali e la non violenza, cit., p. 34. 25 Gigi Moncalvo, Pannella, cit., p. 145. In un'intervista a Pier Paolo Pasolini, nello stesso periodo, Pannella diceva anche: « Se io oggi mi spogliassi e uscissi nudo testimonierei, nel mio corpo, la continuità di Buchenwald»: « Pazzo di libertà»,// Mon­ do, 25 luglio 1976. 26 Marco Ventura, « La verità è nuda», Il Giornale, 22 no­ vembre 1995.

4. La minestrina di Fortebraccio

Oltretutto Pannella ha sempre sostenuto che il digiuno è anche un veicolo di felicità. È un modo di stare insieme: « I politici sono sempre soli. Guardateli quando escono dalla Carnera, buttano giù un pasto cauto e ingordo e poi cercano un cinema dove sdraiarsi a sonnecchiare in attesa di andare a dormire».' Certo, anche se posta in maniera un po' troppo sbrigativa, l'a­ stensione dal cibo risolveva alla radice qualsiasi eventuale tenta­ zione bulimica. Ma nel caso di Pannella c'era da tener conto di quella particolare forma di euforia, anch'essa con venature lette­ rarie, che almeno nella prima metà degli anni '70 gli faceva dire: « E incredibile la forza spirituale, il vigore dialettico che si acqm­ sta digiunando. Sei come in cordata sul!' Everest, tra speranze, vertigini, allucinanti visioni. Per tenerti su reciti Rimbaud e il suo raisonné dérèglement de tous le sens, il ragionevole sregola­ mento di tutti i sensi, proprio il contrario dell'autolesionismo, del suicidio, del violento e sordo morire... »2 Su questo aspetto ha sempre molto insistito: il digiuno è vita. Forse proprio per questo a differenza di Gandhi, che si faceva mettere una branda sotto il portico di casa e ci si sdraiava restando quasi immobile, Pannella ha sempre rifiutato di digiunare a letto, tanto che non esistono sue foto « in posizione di cadavere».J Non solo, ma durante gli scioperi della fame il leader radicale ha l'abitudine di indossare « lindi girocolli», perché « non voglio commuovere nessuno». E contro ogni sospetto di « barbonizza­ zione», si rade due volte al giorno.• Una volta ha cercato pure di fare lo spiritoso, oppure faceva sul serio quando, dandosi un pizzicotto sulla pancia, se n'è uscito: « Il digiuno mangia e ti brucia via i muscoli, ma ti lascia questa maledetta ciccetta ». 5 Autorevoli testimonianze familiari confermano questo spirito, questo stato d'animo se non festoso, nemmeno troppo disperante. La donna con cui Pannella ha vissuto per tanti anni, Mirella Pa­ rachini, detestava gli scioperi della fame: « Quando ne fa uno... »

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ha ricordato una volta, «ci sediamo insieme in cucina: io mangio e lui parla». Eppure il digiuno «addolciva» Marco.6 Lui stesso ha confessato nel 1981 a Camilla Cedema, a proposito degli aspetti più intimi della quotidianità digiunatoria: « Proprio nei giorni di massima tensione si può realizzare la rara e splendida possibilità di riuscire in una carezza nuova. Quindi, siccome ti so curiosa, ti dico che proprio da questo mio corpo, che anch'io ritenevo stremato, ho trovato e trovo amore». 7 Com'è ovvio non sono tutte rose, fiori e cappuccini. Con qualche frequenza questi ultimi, ossia i cappuccini, tendono a essere rego­ larmente assimilati, nell'immaginario del composito fronte anti­ pannelliano, a maritozzi, brioche e perfino tramezzini. Nel senso che esiste, è sempre esistita un 'area politica trasversale che, se­ condo diverse graduazioni di scetticismo, è stanca o non crede ai digiuni pannelliani, li ritiene una mezza buffonata o una cla­ morosa messa in scena, li irride o ne denuncia il pericoloso potere di manipolazione. E ancora una volta il cibo, nella sua inesorabile concretezza, diviene il vero nodo della contesa. Qualcosa di più di un prete­ sto: mangia o non mangia, Pannella, durante i «digiuni»? È un bugiardo o un martire? Un politico che rischia in buona fede la propria vita o un impostore? Quasi mai questa specie di strisciante partito, che diffida o ad­ dirittura ritiene che il leader radicale vada segretamente a tramez­ zini, viene allo scoperto. Di solito si limita a «non parlare»: a «censurare», direbbe Pannella, i suoi scioperi della fame. Il più delle volte si dispiega a colpi di vignette, sorrisetti, battutine, insinuazioni. « La classe dirigente», protesta lui, «ha stabilito che la forma di lotta dei radicali è ridicola e falsa. Ecco quindi le foto deformi di un Pannella grassissimo trasmesse al TG 1 per illustrare la notizia dei miei digiuni. »8 Pochissimi uomini politici hanno avuto il cuore, e un po' an­ che il coraggio, di denunciare apertamente i loro sospetti. Uno è il socialdemocratico Luigi Preti, che negli anni '70 de­ finì quegli scioperi della fame «istrionici» e il leader radicale uno «pseudo-digiunatore, abituato a nutrirsi durante i cosiddetti digiuni di abbondanti brioche e cappuccini, che gli hanno per­ messo di ingrassare di vari chili»: « lo che non digiuno», disse Preti a riprova del suo polemico scetticismo, «sono più magro di lui ».9 Pannella gli diede querela.

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Così come, nel maggio del 1987, sempre il leader radicale an­ nunciò una querela - chiedendo cinque miliardi di risarcimento al democristiano Clemente Mastella che durante un dibattito elet­ torale sulla prima rete RAI aveva affrontato Pannella, ufficial­ mente a digiuno, rinfacciandogli di averlo visto «gozzovigliare» in un villaggio turistico africano. 10 Appena più cauti i comW1isti, che pure detestavano più di ogni altro il leader radicale. Ha scritto una volta Mario Melloni, il principe dei corsivisti dell'Unità e del giornalismo politico sati­ rico degli anni '60 e '70, che all'apice di uno sciopero della fame arrivò alla segretaria di un dirigente delle Botteghe Oscure una telefonata anonima. « Se qualcuno di voi viene subito all'hotel Minerva», comW1icava l'anonimo, avrebbe trovato un vassoio ri­ colmo di gustosissime vivande destinate al celebre digiunatore. Ma la segnalazione, «a metà strada tra spionaggio e pettegolez­ zo», fu lasciata cadere dal partito. Ma non da Fortebraccio. «Un medico nostro amico ci ha as­ sicurato», cominciava il suo sfottò, « che i ripetuti digiuni, anche se non sempre visibilmente, debilitano, finiscono in ogni caso per influire in modo deleterio sul cervello e sulla coscienza, indebo­ lendo il primo e obnubilando la seconda.» A questo punto, dalla prima pagina dell'Unità, faceva un appello alla deputata del PCI Annamaria Ciai che qualche giorno prima aveva avuto uno scre­ zio con Pannella. La prossima volta, invece di apostrofarlo con asprezza, doveva portare con sé «un sacchettino di pasta glutina­ ta, un dado di carne e un fornellino a spirito, in modo da prepa­ rargli una buona minestrina calda. E se volesse essere addirittura materna, come ci auguriamo che voglia», concludeva, «la com­ pagna Ciai dovrebbe pazientemente imboccare il non più giovane infante seguitando delicatamente a raccogliere con un cucchiaino i resti della pappa che, come accade ai bambini, si fermano sulle labbra».'' Morale: impostore e commediante per alcuni, rimbambito per al­ tri. Ma c'era - e per certi versi c'è ancora - una terza via, non ne­ cessariamente irrispettosa nei confronti di Pannella e del suo reite­ rato digiunare. Una linea che ragionevolmente prendeva atto della quantità e dell'intensità dell'investimento emotivo di tale gesto per concludere che, come nei migliori proverbi, «il troppo strop­ pia». In altre parole, Pannella digiunava troppo e troppo spesso. Un colpo fatale, oltretutto, gli era venuto da Bobby Sands e

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dai sette militanti dell'IRA che nel maggio 1981 per estrema pro­ testa contro il governo britannico si erano lasciati morire di fame nelle carceri di Belfast. Da allora questo esito drammatico viene fatto sistematicamente pesare a Pannella, che invece - sottinteso ingiusto e anche un po' crudele - non moriva mai. Invano il leader radicale ha cercato di rispondere che quella forma di digiuno era tutt'altro che non-violenta e che gli irlande­ si, arruolati in un esercito, sia pure clandestino, accettavano e praticavano l'assassinio politico." Lo sciopero della fame come l'intendeva e lo praticava lui era sì un'arma estrema, ma non an­ dava mai usata per imporre la propria volontà. Vi si ricorreva so­ lo « per chiedere al potere, con fiducia, di attuare quello che ha promesso e che la legge stessa gli impone». 13 Era una distinzione troppo sottile, soprattutto se valutata con quella stessa sensibilità che Pannella attizzava nelle sue campa­ gne, o con lo stesso potere di semplificazione emotiva che i primi digiuni pannelliani avevano consapevolmente scatenato. Scrisse Enzo Biagi, che pure fino all'inizio degli anni '80 aveva rispetta­ to Pannella e i radicali: « Gli irlandesi hanno messo in crisi i loro riti. Ci si abitua al defunto, figuriamoci ai digiuni». 14 Non si po­ teva replicare a tempo indeterminato sempre pretendendo la stes­ sa attenzione, osservò Maurizio Costanzo." Come in una sorta di legge del contrappasso, l'abitudine rischia­ va di uccidere il digiuno. Ma ancora di più il dramma, la tragedia e lo shock, così intensamente evocati e suscitati, reclamavano adesso la loro parte di realtà. Quando si gioca con la morte, era l'implicita controindicazione, non può sempre vincere la vita. Indro Montanelli fu brutale, ma al solito più che efficace: « A questo punto o Pannella muore, o è un politico morto». 1• Più o meno lo stesso concetto mise in campo Leonardo Sciascia: « A forza di cavalcare la tigre degli scioperi della fame, ora Pannella è arrivato al punto che o ammazza la tigre e se la mangia, o scen­ de e si fa mangiare». 17 A tanti anni di distanza c'è da dire che non accadde né l'una, né l'altra cosa. E anzi, dopo qualche tempo, pur senza rinunciare al suo scetticismo sul digiuno, oltretutto già manifestato ai tempi di Danilo Dolci, 18 accadde invece che proprio Sciascia fosse eletto nelle liste radicali. Come si è visto, e come del resto si continua a vedere, Panne(-

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la continuò con la fame e con la sete, con l'allegria e la dispera­ zione, seguitando così a incrementare una stralunata aneddotica. Nel 1983 la Ferrarelle offri ai radicali 40 milioni se Marco si fosse fatto fotografare mentre riempiva il suo primo bicchiere con quell'acqua minerale. I suoi collaboratori dissero di sì. Lui disse di no: di milioni per il partito ne voleva I 00. E l'azienda chiuse la trattativa. Poco dopo, al momento di interrompere il digiuno, ci si accor­ se che l'unica acqua minerale disponibile era proprio la Ferrarel­ le. Pannella alzò il bicchiere, gratis. Gli si colse negli occhi sca­ vati un lampo di saggia follia. 19

NOTE 1 Marco Pannella, Scritti e discorsi, cit., p. I 71. Gigi Moncalvo, Pannella, cit., p. 47. 3 « Il signor digiuno», in / radicali e la non violenza, cit., p. 23. 4 Andrea Marcenaro, «Caso Pannella», Epoca, 25 ottobre 1995. 5 lvi. 6 Massimo Gramellini, «Lui digiuna, io mangio. Pannella rac­ contato dalla sua compagna», La Stampa, 11 gennaio i 992. 7 Mauro Suttora, Pannella, cit., p. 162. 8 Adele Cambria, « Pannella, il carisma è soltanto una lunga pazienza», // Giorno, 21 gennaio 1987. 9 Gigi Moncalvo, Pannella, cit., p. 20. 10 « Pannella querela Mastella, 'In Africa non gozzoviglia­ vo'», Corriere della Sera, I O maggio 1987 e « Pannella (per un pranzo) vuole da Mastella 5 miliardi», l'Unità, 31 maggio 1987. All'annuncio della querela pannelliana Mastella replicò: « Lo inviterò a una cena pantagruelica la prossima volta che farà un digiuno». 11 Fortebraccio, «La pappa», l'Unità, 9 dicembre 1977. 12 « La non violenza è attiva», in / radicali e la non violenza, cit., p. 52. iJ lvi. 14 Federico U. D'Amato, Menù e dossier, cit., p. 101. 15 // pugno e la rosa, cit., pp. 394-395. 2

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Gigi Moncalvo, Pannella, cit., p. 302. Ivi, p. 294. 18 Nei confronti dei digiuni di Danilo Dolci, Leonardo Scia­ scia manifestò un rispettoso scetticismo, comunque restando con­ vinto che« la Sicilia non era l'India». Riguardo agli scioperi del­ la fame di Pannella scrisse: « Non mi piace il fatto, in sé, del di­ giunare. Lo vedo aduggiato da ombre di misticismo che ho in so­ spetto. Perché reinventare come protesta civile una privazione che per secoli abbiamo subito per costrizione dell'aldiqua e del­ l'aldilà? Alle mie spalle ci sono troppi secoli di digiuno involon­ tario perché io possa apprezzare un digiuno volontario». In Pan­ nella su Pannella, Magma, Roma, 1977, p. 121. 19 Giancarlo Perna, Chiaroscuri, Mondadori, Milano, 1995, p. 175. 17

5. I polli del Parco Lambro e il diritto al caviale

Molto peggio e molto meno romantico di Woodstock all'alba, dopo l'ultima notte. Scatolette unte e lattine vuote, brace puzzo­ lente di piatti di plastica, i tavoli degli stand a gambe per aria sul1 'erba secca e là in fondo un camion-frigorifero della Motta di traverso, con i ·portelloni desolatamente aperti. Sparsi per tutto il parco - cui il Comune ha premurosamente tagliato le condutture dell'acqua - si vedono immondi resti di pollo; altri polli giacciono ancora crudi e bianchicci, sfonnati dal­ le pedate, sui cumuli dell'immondizia. Una volta scongelati, sono serviti da palloni per rabbiose partitelle, ancora una volta dimo­ strando che il cibo rischia di anticipare, segnare e comunque ac­ compagnare fenomeni sociali e pezzetti di storia patria. Parco Lambro, fine giugno 1976, sesta festa dei Circoli del pro­ letariato giovanile organizzata dalla rivista Re Nudo, pochi giorni dopo la vittoria del PCI (e anche della DC) alle elezioni politiche. Speranza e disillusione a distanza ravvicinatissima. Questi giova­ ni proletari sono arrivati da tutta Italia in 50-60.000. Hanno tro­ vato centinaia di tende, tre gruppi elettrogeni che illuminano un immenso palco, ma soprattutto un clima spaventoso di violenza, una specie di cupa allegria distruttiva quale solo l'emarginazione e ancora più l'auto-emarginazione riescono a creare. C'è anche Toni Negri che assiste a questo« carnevale di pove­ ri», « vero congresso dell'autonomia sociale dei movimenti», dall'alto del valloncello che domina il parco: « La gente era tanta, a mucchi, come covoni, un tempo, prima della mietitrebbia, sui campi assolati - e a mano a mano che le giornate giravano i grup­ pi si spostavano per cercare ombra e fresco ►>. 1 Il festival parte come una Oktoberfest della sinistra piena di orrende salsicce e pessimo vino, « un ko/ossa/ del cattivo consu­ mismo innalzato proprio da chi teorizzava di distruggere la civil­ tà dei consumi ».2 Ma forse anche per questo la folla è ben più interessante. « Un sacco di fenomeni cosiddetti sociologici erano

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lì, in bella vista», continua Negri: « Il primo giorno fu tranquillo, già al secondo ci fu l'esproprio proletario dei camion di viveri dell'organizzazione, il terzo giorno sparse squadre vennero fuori dal Parco a cercare supermercati da svaligiare - colpi da fuoco risuonarono».3 Altro che musica. Abbondano, sulle rive inaridite del Lambro, presagi, simboli e visioni. Come in un film di Buii.uel, nella calura non manca uno studioso di antropologia culturale, Elvio Facchinelli, il quale scorge una scimmietta: « Ci aveva visto succhiare dei ghiaccioli e veniva a chiedere di poter anche lei partecipare. E si è messa a leccare il suo ghiacciolo proprio come un nostro fratello, con una visibile paura che qualcuno glielo portasse via. Una paura non in­ fondata»! Perché Parco Lambro non rivela solo I'« apocalisse del pop», ma passerà alla storia come il festival della « chiave inglese appesa alla cintura»;' oltre che per l'esproprio dei polli, azione tra le più inutili e irragionevoli del più recente ciclo ribellistico italiano. E tuttavia - senza scontati giustificazionismi - quelle migliaia di giovani, molti dei quali figli del Mezzogiorno trapiantati nei quartieri dormitorio delle metropoli industriali, esprimono una protesta del tutto omogenea al tipo di scombussolamenti sociali e culturali che attraversa l'Italia in quegli anni. Sono il prodotto, scrive Marisa Rusconi, « della crisi economica, della disoccupa­ zione e sottoccupazione galoppante, dello sfacelo delle istituzio­ ni, dello scollamento sempre più drammatico fra civiltà contadina e industriale, fra Nord e Sud».6 Per Toni Negri, davvero immaginifico, si tratta di « ombre legge­ re alla ricerca di un tempo e di un corpo collettivo (Aufstand der Korper)». Le muove, queste ombre, « un cortocircuito tra la mi­ seria del nuovo proletariato e la forma altissima della sua compo­ sizione».' Per inquadrare e comprendere questo torvo disagio giovanile, Umberto Eco ha richiamato alla memoria quel genere di movi­ menti apocalittici e millenaristi - fraticelli, gioachimiti, anabatti­ sti - che sorgono nei periodi di transizione. 8 Più che in transizione, l'Italia del 1976 è in bilico. Mai come allora, dalla fine della guerra, appare diffusa la violenza: « La violenza nel conquistare qualcosa, la violenza nel far valere quel che si crede un proprio diritto». E quindi « la violenza», com-

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menterà Andrea Valcarenghi su Re Nudo, « nel vendere e nel comprare il panino ».9 Una volta entrata in relazione con il pane, la violenza recupera dai primordi una forza antica e oscura. Il compito di nutrire il proletariato giovanile - cibo e bibite - se lo sono incautamente assegnato i gruppi della sinistra extraparla­ mentare. C'è lo stand della IV Internazionale e l'area m-1; i grup­ petti devono pagare 150.000 lire al giorno per l'appalto e sono costretti a lavorare come matti per finanziare le organizzazioni. 10 Ma subito la tensione sale, gli autonomi soffiano sul fuoco, gli stand della festa sono praticamente sotto assedio. Una porzione di pollo con le patatine costa 1500 lire; un pani­ no 350: troppo. Una massa niente affatto festosa preme, sempre più affamata; gli improvvidi vivandieri e bibitari rivoluzionari non sanno che fare. Invano, a questo punto, gli organizzatori re­ clamano un supplemento di viveri per placare la protesta. Dalla cronaca del Corriere della Sera (sulla base di un filmato del regista Alberto Grifi che con diverse troupe ha girato ore e ore al Parco Lambro):« Sotto il palco delle orchestre si radunano i gruppetti: 'Che facciamo? Espropriamo qua o alla Esse Lung a? ' Gli organizzatori si precipitano sul palco con i megafoni: 'Siete impazziti? Espropriate i compagni?' La folla sotto risponde a to­ no: 'Corteo, corteo'. 'Via, via, la nuova polizia.. .' I Cani Sciolti non ci stanno: 'Fate i mercatini rossi e a noi fate pagare questi prezzi?' Quelli degli stand ribattono: 'Ma chi ce lo fa fare a stare qui a faticare? Allora ce ne andiamo a spinellare!' Un compagno barista spiega dal palco che lui ha sempre fatto panini a 120 lire, la gente rumoreggia. 'Tutto subito!', altri casineggiano davanti agli stand: 'Ciò fame! Ciò fame!' Valcarenghi tenta di intervenire ma lo bollano subito ('Sei un sindacalista schifoso!'). E subito 500-1000 ragazzi prendono d'assalto il camion, incomincia la di­ stribuzione dei polli. Uno di Le accusa tutti di sciacallaggio. Ma la festa, ormai, è lanciata: due tizi tutti nudi bevono uova a deci­ ne, si accendono focherelli per cucinare i volatili ... » 11 Uno spettacolo selvaggio e irreale, tanto più se si considera che molti di quei polli non verranno mangiati, ma finiranno presi a calci come palloni, o marciranno insieme a tutto il resto. In questa atmosfera il cibo torna comunque a essere qualcosa che si difende e conquista. Anche in questo, per chi sappia vederlo, Parco Lambro è un'anticipazione. L'appetizer - se è consentita

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la formula un po' frivola - sta già in molte delle espressioni che risuonano per la prima volta proprio in quel raduno: «esproprio», «autoriduzione», «riappropriazione», «prezzo politico», «spe­ sa proletaria», «autorganizzazione dei bisogni primari», «auto­ nomia desiderante» ... Tutto questo lessico, un po' scombinato e un altro po' ipocrita, finisce per trovare astuta teoria e concreta applicazione nel rap­ porto tra cibo e sovversione. Del tutto marginale appare, alla metà degli anni '70, il volontari­ smo della nuova sinistra: i «mercatini rossi» con gli alimenti venduti a metà prezzo, o la mensa per i bambini proletari orga­ nizzata da Lotta continua al piano nobile di un palazzo barocco in disfacimento a Napoli." L'estremismo gruppettaro è inesorabilmente in crisi. Nella si­ tuazione di stallo in cui si è venuta a trovare la dialettica rivolu­ zionaria, scrive Eco, c'è chi pensa che l'unica cosa da fare è «chiedere e prendere tutto subito». ' 3 Già più in linea con i tempi, dopo tutto, è un opuscolo di Stam­ pa Alternativa che s'intitola Riprendiamoci la vita ed è dedicato «a chiunque voglia fare autoriduzione o comunque voglia vivere gratis senza pagare ciò che consuma o quasi». In forma di suggerimenti e testimonianze vi si legge come ru­ bare nei supermercati: « È noto che i polli» - e dagli - « non han­ no tutti lo stesso peso, i prezzi variano, ma le casse non hanno la bilancia e la sostituzione delle etichette passa inosservata». Altro consiglio: «Cambiare l'imballaggio: svuotate il contenuto di una scatola di merce molto economica e sostituitelo con ciò che vi in­ teressa». Oppure, in modo più sbrigativo: «Consumate diretta­ mente nel magazzino». Fino al punto di organizzare e mettere in atto un piano da attuarsi con una «azione diversiva», una lun­ ga corsa nel negozio che attiri tutti gli sguardi, « nel frattempo alcuni amici. .. » I puntini di sospensione non riescono a nascondere l'imbaraz­ zo del furto rinominato «esproprio». Un furto giustificato o forse reso un po' più legittimo da alcune sentenze della magistratura che, citate anch'esse a corredo documentario nell'opuscolo di Stampa Alternativa, definiscono l'appropriazione nei grandi ma­ gazzini come «reato indotto, cioè provocato dall'esposizione so­ vrabbondante di merci e non penalmente perseguibile». 14

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Anche senza manuali, comunque, la pratica procede. Tra i nuovi bersagli della protesta giovanile in quegli anni ci sono bar, risto­ ranti, negozi alimentari di lusso, autogrill e soprattutto supermer­ cati, questi ultimi chiaramente «vissuti» come templi del consu­ mismo da espugnare. Nel settembre del 1975, a Roma, dopo una manifestazione an­ tifranchista, sono saccheggiate decine di negozi a via del Corso e devastati due autogrill sull'autostrada del Sole. Nel gennaio del 1976, a Padova, si registra un assalto allo storico caffè Pedrocchi e nel marzo, a Bergamo, un'irruzione in una dozzina di negozi. A metà giugno, a Roma, picchettaggi di supermarket alla Magliana e a Val Melaina e incendio del Metro-market di Castellanza, in provincia di Varese. Dopo gli incidenti del Parco Lambro, sem­ pre nell'estate del 1976, altri ne avvengono, anch'essi con espro­ pri proletari, al festival itinerante di Umbria Jazz e alla pnma fe­ sta della gioventù organizzata dalla FGCI a Ravenna. L'esproprio in massa, oltretutto, si svolge secondo moduli ri­ tuali che ne rafforzano il potere simbolico. 1� E le requisizioni del­ le merci sono chiaramente la risposta al governo di solidarietà na­ zionale che invoca restrizioni e chiede sacrifici. Per frange di gio­ vani sottoproletari il cibo, insieme alla musica e al cinema, divie­ ne l'emblema di tuno ciò che li esclude e che loro odiano, ma fi­ no a quando non lo conquistano. A Roma, durante una manifestazione nel novembre 1976, un gruppetto si stacca e mene al sacco una rosticceria. «Per me», è la testimonianza di uno degli autori di quel gesto, «la felicità di questa giornata è stata quando siamo entrati al 'Delfino' e abbia­ mo mangiato tutto quello che ci pareva. Io ho mangiato il salmo­ ne. Era la prima volta in vita mia, mi è piaciuto e sono stato con­ tento. Adesso sento che qualcuno dice che questo non si deve fa­ re. Ma perché? Perché a noi queste cose ci sono negate? » 16 A Milano e un po' dappertutto le questure sono in stato d'al: )arme perché si teme un Natale « autoridono ». li 7 dicembre 1 Circoli del proletariato giovanile stringono d'assedio la Scala: 170 feriti, 30 arresti, 250 fermati. In quell'occasione viene diffu­ so un proclama: « Nell'orgia consumistica del Natale, vogliamo anche noi il diritto al regalo, organizziamo dunque un Natale con­ tro i sacrifici. La logica dei sacrifici dice: ai proletari la pasta­ sciutta, ai borghesi il caviale. Noi rivendichiamo il diritto al ca­ viale». 17 Recuperato dalla notte dei tempi, l'esproprio sta per diventare

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un'abitudine. Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio, i nuovi barbari delle periferie « calano a migliaia nel centro cittadino ru­ tilante di luci e di merci materiali e immateriali».18

NOTE Toni Negri, Pipe-fine, Einaudi, Torino, 1983, pp. 166-167. Marisa Rusconi. « Come è difficile essere giovani», L 'Espresso, 11 luglio 1976. ' Toni Negri, Pipe-fine, cit., p. 167. • « Dentro il vulcano», L "Espresso, 1 l luglio 1976. ' La citazione, tratta da Re Nudo, è in Giampiero Mughini, // grande disordine, Mondadori, Milano, 1998, p. 221. 6 Marisa Rusconi, introduzione a la festa del Parco Lambro, Mastrogiacomo, Padova, 1978. In Internet: www.taonet.it/ 77web/77-23.htm. ' Toni Negri, Pipe-fine, cit., p. 166. 8 Umberto Eco, « Ma la città del sole non si fabbrica così», l'Espresso, 11 luglio 1977. 9 Giampiero Mughini, // grande disordine, cit., p. 221. 0 Primo Moroni, « Origine dei Centri sociali a Milano. Ap­ ' punti per una storia possibile», in Comunità virtuali, Il Manifesto libri, Roma, 1994, p. 53. 11 Giuliano Zincone, « Quante spranghe, quanti misteri nel fe­ stival rivisto alla moviola», Con·iere della Sera, 27 luglio 1976. Inizialmente il lavoro cinematografico di Alberto Grifi era stato finanziato dai discografici che puntavano alla realizzazione di un film-concerto. Ma in seguito finì per concentrarsi sulle contesta­ zioni da parte dei giovani proletari degli spettacoli musicali e di tutte le merci che gli organizzatori contavano di vendere. « Più che un documento politico», ha scritto lo stesso Grifi, « il film è uno psicodramma ad alta temperatura sulle insurrezioni giova­ nili degli anni '70 'chiuse' nel ghetto del festival.» Gli autori non lo haMo mai voluto cedere alla RAI o ad altre emittenti « per im­ pedire che divenisse oggetto di grossolane manipolazioni politi­ che» (da un ciclostilato « Visual Arts, Photography, Cinemato­ graphy & Video»). 12 Aldo Cazzullo, / ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori, Milano, 1998, p. 174. Vale la pena di riportare un 1

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brano dell'articolo sulla mensa per i bambini proletari di Napoli che Carla Melazzini scrisse allora sul quotidiano Lotta continua: « La cuoca butta la pasta. Sempre più urlanti e litigiosi i bamb1m aspettano l'una e mezzo, ora di apertura, per salire ''n copp' a , _ comunisti'. L'idea del comunismo per loro coincide con la realta della mensa. La pasta è cotta al punto giusto, se no non la man­ giano. Si aprono le porte, l'orda irrompe a stento trattenuta dalle compagne che sbarrano l'entrata, ma quelli passano da tutti i bu­ chi, riuscendo a distribuire nel frattempo pizzicotti e manate sul sedere con grande generosità». u Mino Monicelli, L'ultrasinistra in Italia, Laterza, Bari-Ro­ ma, 1978, p. 62. 14 Paolo Mieli,« Come scappare da casa e vivere felice». L 'E-_ spresso, 11 aprile 1976. Per l'ospuscolo intitolato Riprendiamoci la vita l'editore Marcello Baraghini ebbe un sacco di denunce e di guai. Per un certo periodo visse da semiclandestino in campa: gna: « Mi sono messo a fare il contadino, vivo con le uova e gh altri prodotti della terra»: Pier Vittorio Buffa, « lo pericoloso? Ma se sono erbivoro!», L'Espresso, 11 aprile 1976. 15 Umberto Eco - Paolo Fabbri, « Aiuto! La tribù dei fr eak è sul sentiero di guerra», L'Espresso, 8 agosto 1976. 16 Serena Rossetti,« Felicità è essere in tanti», L'Espresso, 12 dicembre 1976. 17 Renzo Di Rienzo, « Così giovani e così disperati», L 'E­ spresso, 19 dicembre 1976. 18 Primo Moroni, « Origine dei centri sociali a Milano...», cii., p. 53.

6. Bologna 1977, assalto al« Cantunzein »

Dagli e dagli, esproprio dopo esproprio, autoriduzione dopo auto­ riduzione, si arriva al Settantasette e al suo movimento. La vampata parte da Bologna. Qui c'è un Collettivo universi­ tario che addirittura si richiama allajacquerie, la sommossa con­ tadina del XIV secolo, celebre per le devastazioni dei castelli no­ biliari. A Bologna se la vedono male soprattutto i ristoranti. A di­ cembre del 1976 tocca al «Brenta»; a gennaio al «Badia». La dinamica dell'esproprio risulta più o meno la stessa: men­ tre la manifestazione avanza, dal corteo si staccano una quaran­ tina di dimostranti con il volto più o meno coperto, e una volta dentro il locale arraffano in silenzio prosciutti, salami, forme di parmigiano, bottiglie di vino pregiato. A volte si portano via an­ che pezzi di came, altre volte, per spregio, prendono direttamente dal piatto dei clienti, tra lo stupore dei camerieri e l'angoscia im­ potente dei proprietari. Il 7 marzo, durante la solita manifestazione, all'ora di pranzo gruppi di autonomi «visitano» il «Pappagallo», in piazza della Mercanzia e, per la prima volta, il «Cantunzein». 1 Quest'ultimo ristorante, il cui nome in dialetto vuol dire «cantoncino», non so­ lo è il locale preferito della nomenklatura comunista bolognese, ma ha anche la disgrazia di trovarsi in piazza Verdi, piena zona universitaria, proprio davanti a quella mensa dove ogni giorno gli studenti fuori sede fanno file di ore per mangiare.2 In altre parole: obiettivo più simbolico non potrebbe esserci, e infatti non resterà l'unica «visita» della jacquerie al ristorante dove il sindaco Renato Zangheri e gli assessori comunali vengo­ no a consumare i loro pasti. Quattro giorni dopo quell'irruzione, la mattina dell'I I marzo, in uno scontro all'università resta ucciso un militante di Lotta con­ tinua. I collettivi autonomi mettono a ferro e fuoco il centro della città. La dinamica degli incidenti è complessa, ma furiosa. Subito parte un corteo dall'università; a via Rizzoli vengono rotte decine

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di vetrine; nei pressi della sede DC la polizia attacca la testa della manifestazione. Il corteo si dissolve nelle stradine del centro, per poi ricomporsi alla stazione, dove di nuovo si verificano scontri violenti. Altri gruppi nel frattempo hanno costruito barricate nella cittadella universitaria, che per quanto assediata dagli agenti resta a lungo nelle mani del movimento. « Per procurarsi i viveri», annotano Primo Moroni e Nanni Balestrini, « viene saccheggiato il ristorante di lusso 'Cantun­ zein'».1 La formula è laconica, ma la parola« saccheggio» c'è. Era da an­ ni che non risuonava, in Italia. Nelle testimonianze dirette sembra di cogliere una certa indulgente ritrosia a pronunciarla. Ecco il racconto di un anonimo studente: « In piazza Verdi affluiscono folti gruppi di compagni: siamo tutti stremati. assenti, scossi [ ... ] Tutti i bar sono chiusi, non c'è neanche una fontanella per l'acqua. Molti entrano al 'Cantunzein', e dopo un po' girano pez­ zi di carne, frutta, bottiglie di vino». Resta spazio per una rifles­ sione, sia pure confusa, o perlomeno incompiuta: « Penso che non è giusto né sbagliato. Nessuno si diverte del saccheggio, si man­ gia e si beve per tenersi su».• Ma a giudicare dai danni non deve essere stata una cosa così liscia. Chi c'era ha visto porte che sbat­ tono, sedie che volano, colonne di piatti che si rovesciano, tova­ glie strappate via, vetri infranti, salumi staccati a forza dai muri. enormi forme di grana rotolate per strada. La motivazione del­ l'approvvigionamento alla cittadella universitaria assediata non suona del tutto convincente. Anche perché una volta violato e svuotato, il tempio gastronomico del PCB (Partito comunista bo­ lognese) viene dato alle fiamme. Fino a diventare il « Carbun­ zein», un carboncino. In qualsiasi rivoluzione il fuoco e il vino dei ricchi possiedono una terribile virtù eccitatrice. Barricate fumanti e nebbie alcoliche vanno così d'accordo che spesso, dopo aver messo a sacco le dispen­ se, la rabbia delle moltitudini si trasforma in un'esaltazione scom­ posta, dionisiaca, carnascialesca. È il caso appunto di Bologna. A un certo punto del pomeriggio la folla invade la pizzeria « Titanus», in via Zamboni, dove c'é un pianoforte, e lo trascina fino a piazza Verdi, sempre assediata dalle forze dell'ordine, do­ ve un compagno si mette a suonare.' L'episodio entrerà a pieno titolo nel mito del «Settantasette»:

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Trascinato sulla strada fra due barricate si trova stupito a suonar note più calde, più dolci. li mogano lucido circondato dal fi1mo sporco dei lacrimogeni ... 6 Musica e fiamme, dunque. Quando all'alba polizia e carabinieri sgomberano l'università alla ricerca di anni, si trovano tra i piedi decine di bottiglie vuote di Pommery. C'è chi dice che il sacco del « Cantunzein» anticipa di appena due mesi le devastazioni dei negozi del centro di New York in occasione del black-out energetico, « la notte totale» in cui grup­ pi di bianchi, neri e chicanos si prendono con la forza quanto quella civiltà gli ha sempre negato.' Ultramoderno e al tempo stesso antichissimo, il saccheggio dei viveri lascia comunque impietrita la cultura della sinistra. I comunisti non sanno da dove cominciare. « I confini tra queste realtà, la delinquenza comune e il mondo della droga», sostiene il segretario della federazione bolognese del PCI Renzo lmbeni, « sono praticamente inesistenti.»" Umberto Eco, che pure lavora a Bologna, si dichiara indisponibile a riconoscere « la razzia di Albana bianco e di finocchiona toscana come un modo serio di far politica». E tuttavia, trova che in momenti di grande tensione anche a un bravo ragazzo come Renzo Tramaglino può capitare di mettere piede in un forno.• II guaio è che nel 1977 l'assalto al forno, archetipo della ribel­ lione spontanea, tende pericolosamente a mutarsi in assalto sem­ pre più programmato e scientifico alle armerie. Se ne ha la prova a Roma nel corso di una violentissima manifestazione nazionale, il 15 marzo. Neanche a farlo apposta, il giorno seguente Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, deve tirare le conclusioni di un difficile Comitato centrale dedicato appunto agli incidenti di Bologna e, più in generale, alla questione giovanile. Ma non lo farà. « Berlinguer è malato», annota il presidente del Consiglio Andreotti nei suoi diari. 10

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Malato di che? Di un'indigestione che a suo modo sanziona il potere beffardo e rivelatore del cibo. Annuncia all'ultimo momen­ to il portavoce del segretario del partito, Tonino Tatò, che respon­ sabile dell'intossicazione di Berlinguer è una scatola di daneri secchi ricevuta in regalo qualche giorno prima da una delegazione araba. Il segretario generale del Partito comunista non solo ne ha mangiati troppi, ma li ha pure accompagnati con del whisky. « Danno emicrania, dice Maimonide, i daneri secchi. Ma il piacere di un danero», sostiene Guido Ceronetti, «dà gioia al cuore. » 11 Nel capo comunista, al contrario. quegli stessi froni hanno rivelato la più indigesta e dolorosa inquietudine. E come se non bastasse quella colica ispira a Lolla continua una vignena in cui appare un Berlinguer depresso e soffcri:nte. preda di incubi notturni che prendono forma di daneri metropolitani, datteri auto­ nomi, datteri comunque rivoltosi." Sei mesi dopo, comunque, la rivincita. A settembre, quando gli autonomi, gli indiani metropolitani e quanti sono disposti a nco­ noscersi nel Movimento si danno appuntamento a Bologna per tre giorni di convegno « contro la repressione». Appuntamento che, con la ferita dei fatti di marzo ancora aperta, si annuncia denso di rischi, oltre che di ardua gestione logistico-organizzativa. Si trat­ ta in pratica di «ospitare», vitto e alloggio compresi, chi dice 30, chi dice 40, chi dice 100.000 potenziali «lanzichenecchi». Ma stavolta i comunisti bolognesi, sindaco Zangheri in testa, si mostrano decisi e al tempo stesso flessibili. Intuiscono, anzi ca­ piscono per tempo che nella situazione data la garanzia di un pa­ sto caldo per gli «invasori» finisce per assumere un rilievo poli­ tico di primaria importanza. « Sono tutti giovani», argomenta alla vigilia Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera, « avranno una fame scatenata e pochi sol­ di per soddisfarla. Movimento sfamato, movimento più tranquillo: sulla base di questa equazione Bologna, cioè cooperative ed enti pubblici, hanno fatto di tutto per far quadrare il cerchio.» 13 È una quadratura difficile. Accogliendo le richieste che gli or­ ganizzatori del convegno hanno enunciato in modo tanto generi­ co quanto baldanzoso, il comune e l'università assicurano una quantità variabile dagli 8 ai 10.000 pasti al giorno, al prezzo di 5-600 lire. 14 li Movimento esulta, e anche in questo caso lolla continua mette in pagina una esemplare vignetta. Si vede un gio­ vane neanche troppo rassicurante, scarmigliato e in classica tenu-

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ta movimentista, che annuncia: «E ora inizia la vera trattativa: il menu»." A questo punto ci si sarebbe potuti anche offendere, come del resto si offese /"Unità, che infatti replicò piuttosto piccata: «No, adesso dovete farci sapere voi qual è il menu che si prepara a so­ stituire quello che vi si è ammuffito tra le mani». 16 Ma tra le parole e i fatti, specie in situazioni politiche d'emer­ genza - e quella lo era-, corre sempre una certa distanza. Per cui ai 10.000 pasti, i lungimiranti comunisti emiliani ne aggiunsero altri 28.000 garantiti e in pratica offerti a buon mercato, gratis et amore, come avrebbe detto il sunnominato Renzo Tramaglino, dalla potentissima cooperativa CAMST. 17 Avvenne cosi che i ribelli del Settantasette furono nutriti da quelli contro cui si erano ribellati. A riprova che chi dà da man­ giare, comanda. Mentre chi mangia, dopo tutto, è più difficile che vada a svaligiare superrnercati e a bruciare ristoranti.

NOTE 1

«Violenze e danneggiamenti degli ultrà in pieno centro», li

Resto del Carlino, 8 marzo 1977.

Domenico Del Prete - Giovanni Forti, «'Sciacalli, delato­ ri!', 'Autonomi, pitrentottisti!', da sponde opposte le due città fanno di tutto per capirsi sempre meno», li Manifesto, 20 luglio 1977. 3 Primo Moroni - Nanni Balestrini, L'orda d'oro, Sugarco, Milano, 1988, ora su Internet: www.taonet.it/77web/77-37.htm. 4 Autori molti compagni, Bologna marzo 1977... fatti nostri. Su Internet: www.taonet.it/77web/77-42.htm. 5 «Anni di sacrifici annullati in un'ora», li Resto del Carlino, 15 marzo 1977. • Care compagne, cari compagni, Edizione cooperativa gior­ nalisti Lotta continua, Roma, 1978, p. 157. Il compagno che suo­ nò il pianoforte, Antonio Mariano, del gruppo di Radio Alice, mori in un incidente automobilistico l'estate seguente. Lo ricor­ dano due lettere raccolte nel volume indicato. 7 Mino Monicelli, L'ultrasinistra in Italia, cit., p. 144. 8 / comunisti e la questione giovanile, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 124-135. 2

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9 Umberto Eco, « Il compromesso edipico», L'Espresso, 18 settembre 1977. 10 Giulio Andreotti, Diari 1976-1979, Rizzali, Milano, 1981, p. 88. 11 Guido Ceronetti, li silenzio del corpo, Adelphi, Milano, 1994, p. 22. 12 Chiara Valentini, Berlinguer il segretario, Mondado ri, Mi­ lano, 1987, p. 148. L'indigestione berlingueriana di datteri è ri­ cordata, sia pure con qualche dubbio, anche dall'allora segretano della FGCI, Massimo D' Alema, che di quel Comitato centrale� uno dei protagonisti. Cfr. Giovanni Fasanella - Daniele Mart1m, D 'Alema, Longanesi, Milano, 1995, pp. 77-78. 13 Giampaolo Pansa, « Cominciano i difficili tre giorni di B o­ logna», Corriere della Sera, 23 settembre 1977. 14 Giampiero Gramaglia, «Non chiuderanno i negozi di Bolo ­ gna, ma non si venderà a 'prezzo politico'», La Gazzetta del po­ polo, 20 settembre 1977. 15 « Bologna, soddisfatte le 'folli' richieste del mov imento», Lotta continua, 16 settembre 1977. 16 «Un menu vecchio», l'Unità, 17 settembre 1977. 17 Giampiero Gramaglia, « Non chiuderanno i negozi...», cii.

7. « Macondo », ristorante da sballo

A Bologna, di slogan, se n'erano sentiti di ogni tipo. In linea con certa surreale e truculenta ironia in voga a quei tempi, ce n'era uno che strillava:

Gastronomia operaia cannibalizzazione forchetta, coltello: mangiamoci il padrone! Ora, il punto era che proprio allora divenne chiaro che il padrone, ben lungi dal farsi divorare, stava vincendo la partita. E mentre la rivoluzione si allontanava definitivamente dagli orizzonti individuali e collettivi, senza neanche accorgersene i ri­ voluzionari si trasformarono in reduci, per di più in seria crisi po­ litica ed esistenziale. Dal punto di vista del cibo, tale ripiegamento chiudeva la fase della sovversione, ma in qualche caso apriva quella della ristora­ zione. Ogni utopia negata o sconfitta, si sa, tende a risolversi a tavo­ la, o ad ammonticchiarsi su qualche scaffale in forma di barattoli di marmellata o di miele super-naturale. Alla fine degli anni '70, oltre che sulla febbre del sabato sera o sull'esegesi di I Ching e dei tarocchi, il«riflusso» andò a parare sul cibo. Bastava leggere i«Piccoli Annunci» di Lotta continua per rendersene conto: era tutto un fiorire di birrerie alternative, cucine vegetariane e macro­ biotiche, menu democratici a prezzo politico e così via. 1 Sull'alternativo, categoria peraltro ancora oggi di assai dubbia in­ terpretazione, è doveroso intendersi. Di solito cucina e rivoluzione non sono fatte per capirsi. Se si esclude l'esperienza ludico-predatoria degli «Uccelli», il grup­ petto romano di studenti di architettura che si presentavano non invitati a casa degli intellettuali, aprivano i frigoriferi e si mette­ vano a cucinare,2 il favoloso Sessantotto è paurosamente povero

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cli risvolti gastronomici. Ragion per cui, sia pure con qualche le­ gittimo ribrezzo, bisogna ammettere che l'unico tentativo di au­ tentica cucina estremamente«alternativa» risale al 1969. Ed è la storia un po' truce di un giovane anarchico torinese, certo Ventura, al quale durante una perquisizione trovarono, nel­ l'ordine: uno striscione con su scritto« Rivoluzione». una clava, una maschera antigas, un paio di chili di polvere da sparo e - at­ tenzione: qui nasce la storia - un fucile ad aria compressa Flo­ bert. Ma quello, spiegò Ventura, non aveva nulla a che fare con la politica. Gli serviva per andare a caccia di topi sulla Dora. E a tutti i costi volle far mettere a verbale che lui i topi se li mangia­ va. Non solo: «Mia moglie», aggiunse,«ci fa il ragù: con la pa­ stasciutta è ottimo>►. A riprova di questa sua abitudine alimentare che obiettivamen­ te sapeva di sfida ai gusti della borghesia, Ventura accompagnò il maresciallo in soffitta dove questi, con dolorosa sorpresa, poté constatare la presenza di decine e decine di pelli di ratto.' Ma il ragù di topo, a quel che se ne sa, rimase un fatto isolato. È con la droga, piuttosto, che nel mondo giovanile e genericamente rivoluzionario il cibo aveva iniziato da tempo ad intrecciarsi. Droghe leggere, derivati della cannabis, hashish e marjiuana da cucinare e ingurgitare, oltre che da fumare. Avevano preso ad uscire in quegli anni opuscoli e libretti che reclamizzavano, sul modello anche qui «alternativo», un con­ gruo numero di ricette, tanto improbabili quanto meticolose, a base gastro-psichedelica.• «Erba e merda», vi si poteva leggere con qualche apprensio­ ne,« sono molto più facili da cucinare di quanto normalmente si creda. Qualunque ricetta può, in fondo, andar bene.» A questa in­ coraggiante premessa seguiva un repertorio di intrugli denomina­ ti con qualche esotica fantasia: «salsa per risotto afrodisiaco», «harrera o zuppa del Ramadam», «piselli al chili»,«bocconci­ ni di sesamo>►, «mele del paradiso», « leccadita di shocko/ara», «ciambelle di banana>►, « croccantini straccadenti ». Il grado di difficoltà delle preparazioni appare anche oggi al profano piuttosto variegato. Si va dal complicatissimo «bhang­ pop gelato>► - nell'attesa necessaria alla cucina si consigliava, « se religiosi>►, di recitare«il mantra di consacrazione» dell'erba (o bhang): Om, Aing, Grig, Cling, Chamunda, Ei, Vijay- fino al-

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la più sbrigativa presenziane riservata al « sogno di Edipo»: « Arrostire la pianta intera dell'erba sul fuoco vivo, salare, im­ mergere nel miele e leccare». Sul tutto un 'avvertenza: « Per ridurre e annullare qualsiasi ef­ fetto secondario spiacevole (leggi paranoia) suggeriamo una li­ monata fresca con molto zucchero o al limite qualsiasi prodotto con vitamina C ».' Se si pensa che all'incirca nello stesso periodo i limoni, gli in­ nocenti e poetici limoni, erano anche utilizzati come mezzi di di­ fesa contro i gas lacrimogeni della polizia nelle manifestazioni, e come tali sospetti mezzi di reato, be', bisogna riconoscere che al­ meno dal punto di vista degli alimenti la deriva del riflusso post­ rivoluzionario a sfondo stupefacente stava facendo davvero dei progressi.• Fallita la rivoluzione, d'altra parte, si poteva sempre aprire un ri­ storante.« Come minimo», si disse Mauro Rostagno, che era sta­ to uno dei capi di Lotta continua, leader di fascino e di fantasia, un uomo destinato, dopo tante peripezie esistenziali, a incontrare la morte in Sicilia. con tutta probabilità per mano della mafia, nel settembre del 1988. L'autunno del Movimento, undici anni prima, aveva colto Ro­ stagno e diversi altri compagni del suo giro in piena, profonda e ormai accelerata crisi di militanza. L'origine del ristorante, che si chiamerà« Macondo» come il paese colombiano in cui si svolge Ceni 'anni di solitudine, è sem­ plice. Un 'intuizione e insieme una speranza. « Ci facciamo da mangiare in casa, abbiamo il raptus macrobiotico, assatanati. Od­ dio. Decidiamo, come minimo - appunto - di aprire un ristorante, cioè un posto dove una fettina del popolo degli uomini può man­ giare, bere, fumare, passare una serata.» E ancora: « Un modo di 'stare' in questa Milano pazzesca, violenta, paranoica, un luogo dove vai e cerchi di tenere la voce poco alta, di non sbattere i pu­ gni sul tavolo, di non rompere le cose... »' « Macondo» è stato anche questo, ma non solo. Molte cose erano già rotte dentro; altre se ne ruppero strada facendo; la rottura di altre ancora si può serenamente addebitare a un potere che al dunque non seppe difendersi se non a colpi di denunce, perquisi­ zioni e - perché no? a volte succede - persecuzioni giudiziarie. Eppure è un'avventura, un film di straordinaria intensità, così

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breve, così drammatico, così rappresentativo del suo tempo con­ fuso e pieno di sbagli. Nessuno dei 14 soci della cooperativa, tanto per cominciare, ha mai avuto esperienza nella ristorazione. Ma tant'è. I lavori, affi­ dati a un manovale quasi sempre brillo, si svolgono nel caos più totale. La pendenza delle piastrelle fa scorrere in cucina rivoli d'acqua; la canna fumaria che dovrebbe mandare via gli odori è murata in modo da far esplodere la caldaia del vicino. Si mangia così così, su stuoie, cuscini e tavoli bassi comprati a un fallimento. Nei locali, oltre al bar e a uno stanzone dove si svolgono conferenze o si sente la musica, c'è una rivendita di stracci e vestiti. Prima di cominciare i più scettici della cooperativa sono stati spediti per un sondaggio da una maga. Quella, che non li conosce e non sa nulla del ristorante, li gela: « Voi siete venuti per Ma­ condo. È un posto magico con una grande energia che può essere usata bene o male». La maga, cioè, è appunto una maga, ma non si sbilancia. Sbi­ lanciatissimi, al contrario, per storia e natura, sono in quel mo­ mento non solo Rostagno e i suoi compagni, ma anche i clienti e i numi tutelari di questa specie di Alice 's resta11rant girato dal vivo con dieci anni di ritardo. L'inaugurazione avviene in fretta e furia nell"ottobre del 1977, con André Glucksmann che presenta un libro. Il mese seguente, sponsorizzato da Lévy, Guattari e Deleuze, arriva per una confe­ renza David Cooper, completamente ubriaco, tanto da vomitare per l'intero pomeriggio davanti a tutti gli psichiatri e antipsichia­ tri francesi, algerini, tedeschi, inglesi che lo guardano allibiti. Quindi si perde nel cesso di « Macondo », da cui verrà estratto a fatica solo a tarda sera. « Una scena allucinante», commenta Rostagno, che pure ne ha viste. All'apertura vera e propria calcolano 150 coperti, ma si pre­ sentano in 300. « Ci sono saltati completamente tutti i pasti>►, prosegue il ricordo, « la gente non ha potuto mangiare quasi nien­ te per un ingorgo incredibile in cucina. Abbiamo dovuto buttare via chili e chili di riso scotto. Mancava lo zucchero. Stavamo scoppiando. Ho passato le ore più farneticanti della mia vita a la­ vare centinaia di piatti. Un vero disastro.» Ma un disastro vivo. « Macondo» infatti fa tendenza, è un locale sempre affollato, promiscuo come Milano non ne ha mai visti e anche per questo

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attira curiosi a più non posso. Nella stessa sala si può trovare Al­ berto Arbasino, «che gira incantato a vedere i colori della gente e il ragazzo di Cinisello Balsamo che non sa nemmeno chi è Arba­ smo». Si va avanti dalle 4 di pomeriggio alle 4 di notte. Ogni tanto qualcuno deve andare a controllare che nei bagni non ci si buchi. In sala abbonda il «fumo». I proprietari, oltretutto, scherzano con il fuoco distribuendo finti biglietti della metro utili a fare fil­ tri per le canne. La cosa finisce sui giornali creando scandalo. Per alcuni compagni che l'hanno conosciuto come leader della sini­ stra extraparlamentare, Rostagno è un traditore: «Prima ci davi la linea», scrivono sui muri lì intorno, «ora ci dai il vino». Nel giro di tre mesi la gente, la più varia e anche la meno rac­ comandabile, si «riappropria» - come si diceva allora - del luo­ go; e con la scusa del mangiare, poi neanche più con quella, « Macondo » diviene definitivamente un porto di mare. Il futuro fondatore della comunità di Saman ricorda «la giova­ ne donna con un piccolo bambino che arriva tutte le sere con die­ ci torte macrobiotiche, le vende, prende il suo incasso e se ne va via». Ma c'è anche, aggiunge, «chi porta i cibi più disgustosi e cerca di piazzarli. Arriva gente che ha male di stomaco perché ha bevuto o mangiato cose tremende». Per farla breve: «Era un ca­ sino senza precedenti». Un casino. La parola ricorre in modo troppo insistente per la­ sciar supporre un lieto fine. E infatti. A interrompere il sogno - o l'incubo, se si vuole - la polizia arriva a « Macondo» alle 23.45 del 22 febbraio 1978. Gli agenti sequestrano - come da atti giudiziari - «pipe, xilos, resi­ dui di spinelli, oltre a uno spinello intero, nonché 120 grammi di hashish e un grammo di sostanza di colore bianco». Il ristorante è chiuso d'autorità; gli sballi continueranno per strada, sulle pan­ chine nei parchi o nelle case. Dopo l'arresto, al processo di primo grado Rostagno, che sta per partire per l'India e farsi arancione, e gli altri soci della coo­ perativa sono condannati a tre mesi e trecentomila lire di multa. Con impietoso sociologismo introspettivo la sentenza li definisce «reduci da sofferte esperienze politiche, evidentemente non appa­ gati e ora tendenzialmente volti ad un ripiegamento su se stessi». 8 Molti dei loro ex compagni, quelli non «ripiegati», avevano comunque già iniziato a fare di peggio.

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NOTE 1 Alessandro De Feo, «Compagna, leggimi la mano sinistra», in L'Espresso 1955- '85. Trent ·anni di costume, cit., p. 60. L 'ar­ ticolo riporta qualche nome e indirizzo di quei primi locali « al­ ternativi»:« Il puledro impennato» a Palermo,« L'Ortica» a Ro­ ma, « Il Cantamaggio» ad Ancona, il circolo di alimentazione na­ turista « La Quercia» a Macerata. 2 Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, cit., p. 105. Uno degli «Uccelli» era Paolo Liguori: « Eravamo una Arancia Meccanica non violenta, non facevamo danni, ma ar­ rivavamo in cinquanta, aprivamo il frigo, cucinavamo, metteva­ mo su i dischi, accendevamo la TV. I più simpatici capivano che era un happening, altri si infuriavano». 3 «Studente universitario arrestato con due chili di esplosivo nell'auto», La Stampa, 1° maggio 1969. Anche durante il proces­ so l'anarchico Ventura confermò ai giornalisti la bontà dei ratti: «I topi della Dora», disse, «sono ottimi». Tale sua certezza ap­ pare vagamente scalfita solo quando, incalzato dalle domande sul perché di questa sua scelta, risponde: « Piuttosto di stare agli or­ dini e irreggimentarmi, continuerò a mangiare topi ». • Marisa Rusconi, «Versare un etto di hashish e servire tiepi­ do», L'Espresso, 16 gennaio 1977. 5 Sette giovani furono fermati su un autobus, durante gli scon­ tri del marzo 1977 a Bologna, perché nelle loro borse vi erano dei limoni. Furono poi prosciolti. Claudio Santini, « I limoni antila­ crimogeni non costituiscono reato», // Resto del Car/ino, 14 mar­ zo 1977. 6 Ma l'amor mio non muore, Arcana, Roma, 1971, pp. 104!09. 7 Tutto il racconto della vita tempestosa di « Macondo» è trat­ to da: Mauro Rostagno - Claudio Castellacci, Macondo, Sugarco, Milano, I 978. 8 Sentenza nella causa penale contro i soci della cooperativa di «Macondo», in Mauro Rostagno - Claudio Castellacci, Ma­ condo, cit., pp. 169-183.

8. I vassoi nelle prigioni del popolo

Nella Comune di piazza Stuparich, a Milano, fine anni '60, ha raccontato Mario Moretti che « quasi tutti i compagni milanesi che poi hanno militato nelle Brigate Rosse sono passati almeno una volta, magari solo per mangiare il risotto». 1 Più o meno in quello stesso periodo, nel primo covo con cuci­ nino a Porta Ticinese, Renato Curcio improvvisava grandi spa­ ghettate con ciò che trovava nella dispensa, però sempre aggiun­ gendovi « una quantità di peperoncino che faceva sudare. Man­ giavamo a fatica quei suoi piatti», è il ricordo di Alberto France­ schini, « ma non lo criticavamo». 2 Lui, Franceschini, si dedicava ai risotti con le verdure: « Mi pia­ ceva passare una mezzoretta a ridurre zucchine, carote, sedano, pa­ tate in piccoli pezzetti per poi veder tutto appassire nella pentola e diventare un insieme di tanti sapori». Margherita Cagol si rifiutava invece di cucinare: « Diceva di non essere capace con lo stesso to­ no di voce che usavano anche altre compagne del movimento».3 Innocue memorie e divagazioni protobrigatiste. Oppure poetiche riflessioni autobiografiche del post-terrorismo come questa di Bar­ bara Balzerani: « Mi viene da pensare che se tu avessi avuto biso­ gno di due foglie di basilico», scrive in un libro che s'intitola Com­ pagna luna, « non avrei avuto difficoltà ad accontentarti. Difficile per me non averne di fresco dentro un bicchiere pieno d'acqua. Strani segni di 'normalità' per una come me che ha vissuto per anni in posti da altri definiti covi, continuando a non darsene a vedere».4 E tuttavia, sia pure per un attimo, gli spaghetti piccantissimi di Curcio e i presumibili pomodoro e basilico della Balzerani un po' rinviano ad altri minacciosi spaghetti degli anni di piombo: la co­ pertina dello Spiegel con quel piattone di pastasciutta sulla cui sommità era collocata una P38; e quell'accenno, certo metafori­ co, ma terribilmente minatorio, di Henry Kissinger a spaghetti italiani da condirsi « in salsa cilena».

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Sarà un caso, ma fra Cile e Germania il cibo brigatista evoca altri esotismi rivoluzionari. Giangiacomo Feltrinelli, ad esempio, pre­ tendeva che i compagni avessero sempre a portata di mano, in ca­ so di fuga improvvisa, quel che chiamava « lo zainetto del guer­ rigliero». Dentro, in buon ordine, dovevano esserci vestiti di ri­ cambio, documenti, soldi, sigari e un sacchetto di sale. « Scusa, ma perché il sale?» gli chiese un giorno Curcio. « Perché il sale in America latina è un bene prezioso», fu la risposta. « Va bene, ma qui siamo a Milano, e il sale si trova dovunque.» Ma Feltri­ nelli non si arrese: « Non fa niente, il sale è una tradizione del guerrigliero, ci deve essere».5 Curcio non aveva tutti i torti. Negli anni della clandestinità non era il sale il problema dei brigatisti. Era il vitto, semmai. Mangiavano male, infatti, rovinandosi la salute. « Quasi sempre si frequentavano trattorie di seconda mano». ha raccontato Alfre­ do Buonavita, « che tra l'altro ti scassavano lo stomaco. A volte ci si accontentava anche del panino.»• La prima regola dei militanti «regolari» delle BR era spende­ re poco. La dieta era relegata in secondissimo piano. Col risulta­ to, tuttavia, che «per strada puzzavamo di frittura, di fogna e di chissà che altro in maniera rivoltante», ha poi scritto Enrico Fen­ zi, l'ex brigatista genovese studioso di letteratura italiana. Una volta, timidamente, e «cercando di non urtare la suscetti­ bilità poveristica» dei suoi compagni, Fenzi confessò che per ri­ sparmiare senza farsi venire l'ulcera, alle schifezze delle trattorie preferiva «un tè e una fetta di dolce». Fu indicato come una spe­ cie di reietto, e in seguito un pentito riferì quella storia addirittura a un giudice. 7 Nelle sue memorie, Patrizio Peci, il primo brigatista pentito, non riesce a nascondere la rabbia e la delusione provate nello scoprire che il suo capocolonna, Raffaele Fiore, se la spassava al ristorante mentre lui campava «a insalata e mortadella».' Una volta - è sempre Peci che racconta - Fiore e Lauro Az­ zolini vollero regalarsi una botta di vita e se ne andarono in un ristorante di Saint Vincent. Qui, come due borghesi in trasferta, ordinarono caviale, ma quando il cameriere presentò loro « le uova di storione», non capendo che si trattava della stessa cosa, rifiutarono sdegnosamente il piatto: « Noi abbiamo ordinato ca­ viale!» Il malinteso gastronomico ebbe una autoironica risonanza nel­ l'ambiente BR: « Ma guarda un po'», pare abbia commentato

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l'incauto capocolonna, «per una volta che vogliamo provare co­ me si sta da capitalisti, ci facciamo una figura di merda pure con il cameriere».9 Nulla più del cibo. in realtà, con la sua potenza superbamente prosaica illumina le piccole miserie del tran-tran brigatista: inge­ nuità, invidie, gelosie, grettezze, recriminazioni. Su questo piano Peci non ne lascia passare una. Racconta che Fiore « non compra­ va mai l'olio, né i pelati, né niente»; che «teneva la casa in ma­ niera desolante»; che era sporco, molto sporco. Un giorno, per dire, arriva mentre lui sta mangiando in cucina, si toglie le scarpe e mette i piedi sul tavolo: « Un puzzo terribile. Ma il peggio deve ancora venire». E viene, il peggio, non c'è dubbio, poiché Fiore, toltosi anche le calze, « agguanta il coltello per il pane, uno di quei coltelli seghettati, lunghi, e con la punta comincia a far sal­ tare tutto lo sporco che aveva tra le dita dei piedi. Zac, e via lo sporco fra due dita, zac, e via lo sporco tra altre due; era abilis­ simo: zac, zac. zac. zac. Ma che maniere sono?»' 0 Certo pure lui, Peci, era un bel tipetto. Non si faceva il pedi­ cure a tavola, ma alla povera Nadia Ponti, che pur sofferente di stomaco lo accusava di essere troppo tirchio, stava lì a contare le brioche con il cappuccino. Lei protestava, ne voleva di più. Lui le rispondeva: «Ma come, tu hai problemi di stomaco e ti mangi tre brioche. Se stai male, stai male sempre, no? Non che stai male solo quando non mangi le brioche! »11 Questi vividi retroscena psicoalimentari dovevano in qualche modo cessare quando nei covi venivano allestite le «prigioni del popolo». E con l'ostaggio in casa, obbligati a farsi carcerieri, i brigatisti riacquistavano paradossalmente un regime dietetico più sano, e magari anche un clima più sereno. I loro pasti erano all'incirca quelli destinati al prigioniero, al quale venivano ineso­ rabilmente serviti su vassoi, come ai malati in ospedale. Ogni pri­ gione del popolo, insomma, aveva in dotazione un «portavivande in plastica diviso in scomparti», come annota il giudice Mario Sossi, che nella primavera del 1974 restò 35 giorni nelle mani delle BR. E «posate anch'esse in plastica». 12 Ospedaliera, cioè triste e senza fantasia, risulta in linea di massima la cucina durante i sequestri di persona. Eccezione fra le eccezioni, il trattamento riservato al democristiano napole­ tano Ciro Cirillo, che mangiò così bene - perfino una spaghetta-

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ta· ai frutti di mare con tanto di aragostine decorative - da con­

vincersi di essere tenuto prigioniero nel retrobottega di un risto­ rante di lusso." Dal diario di Sossi, che diligentemente prendeva nota di quel che gli portavano, si comprende invece lo standard di alimenta­ zione brigatista: caffè lungo, brodo caldo, fette biscottate o crack­ er, mezza minerale, riso in bianco o pasta al burro, prosciutto o formaggio, piselli, una mela, più « una specie di camomilla, una pozione che è quasi sicuramente drogata», ma che il giudice ac­ cettava « con sollievo e gratitudine perché altrimenti sarei stato troppo agitato per dormire». 14 A un dato momento, però, sul vassoio compare anche una pa­ sta e fagioli. E poi un risotto, anzi due. «Com· era?» gli chiede il brigatista incappucciato che è entrato nella cella insonorizzata a riprendersi il vassoio. «Buono», risponde Sossi, « però era me­ glio quello dell'altro ieri.» «Lo credo bene», riprende il carce­ riere. «L'ho fatto io, quello. Stavolta l'ha fatto un 'altra persona.» E al sequestrato pare di cogliere, in lontananza, oltre la cella, l'e­ co di un risolino femminile. Miracoli del cibo. Da quel momento tra il prigioniero e il suo guardiano si apre un insperato canale di comunicazione. Quel bri­ gatista che il giudice chiama « il Gregario» gli rivela di essere « un gran cuoco», specialista in risotti. Sossi, che è pure lui un gourmet, gli dà corda: « Andiamo avanti a parlare per quasi due ore, mettendo a confronto le nostre esperienze che risentono, la mia dell'influenza piemontese (impiego del barolo, dei funghi e dei tartufi), la sua della tradizione lombarda». Uno di fronte all'altro, in condizioni così diverse, il giudice e il terrorista parlano della bagna cauda e dell'asino con polenta, secondo l'uso di Borgomanero. Sossi espone al suo interlocutore « la ricetta perfetta» del pesto: basilico, aglio, olio d'oliva, pinoli e formaggio pecorino sardo. « Per un po' lui insiste che ci vuole anche il prezzemolo. Poi si lascia convincere: 'In fatto di cucina genovese tu ne sai certamente più di me, ma sui dolci sicuramen­ te io ti batto'. » La sfida gastronomica sembra risolversi in una specie di « sin­ drome di Stoccolma» alla rovescia: prima di andarsene il briga­ tista promette all'ostaggio di preparargli con le sue mani un bu­ dino con biscotti al maraschino. « Questa parentesi distensiva», annota Sossi, « mi spinge ali'ottimismo. Penso che in ogni caso non mi ammazzeranno più. »' 5

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E nell'ultimo pasto, prima della liberazione, sul vassoio Sossi troverà anche un bicchiere di vino. Ad Aldo Moro va molto peggio. Il giorno in cui gli dicono che è stato condannato a morte, rimanda indietro il cibo, trattenendo solo l'acqua da bere. 16 Appena condotto nella prigione del popolo, Mario Moretti gli ha chiesto cosa mangia. Il presidente della Democrazia cristiana ha risposto che la sua dieta è costituita da poca carne, qualche formaggio, molte verdure. « I minestroni», ha poi ricordato il ca­ po delle BR, « sono la costante della sua dieta, gli piacciono e lo accontentiamo senza difficoltà.» Moro mangia con appetito, ma poco. Si stupisce solo, Moretti, di aver trovato nella tasca del so­ prabito del prigioniero una fiaschetta di whisky: « Gli chiedo co­ me mai, perché non ha davvero l'aria dell'alcolizzato. Dice che gli serve per gli abbassamenti di pressione: ma non ne avrà mai bisogno, e non ne chiederà mai ». 17 Anche per lui c'è naturalmente un vassoio. L'ha comprato An­ na Laura Braghetti, scegliendolo tra quelli con le gambe « che si usano per gli ammalati». A vent'anni da quell'evento che molto probabilmente cambiò la storia d'Italia, la Braghetti ci tiene a far sapere di essere « una di quelle persone che non apparecchiano senza tovaglia». Per cui ha modo di mettere sul vassoio una tovaglietta all'americana di raffia, oltre a posate di metallo e bicchiere di vetro. Per la prima colazione Moro fu sorpreso perché i biscotti erano proprio quelli che consumava anche in famiglia: « Una pura coincidenza, erano gli stessi che piacevano a me». Purtroppo non ne rivela la marca. In compenso cucina delle gran minestre. « Le minestre», so­ stiene con piglio quasi materno nella sua autobiografia, « fanno piacere a tutti; sono un cibo che dà conforto. Preparavo pasta e lenticchie, la più rapida, visto che le lenticchie non hanno biso­ gno di stare tante ore a bagno come altri legumi. E quando avevo tempo portavo a tavola pasta e ceci e pasta e fagioli. » 18 Fa una certa impressione misurare con il metro dei biscottini o di pasta e ceci la più grande tragedia del dopoguerra. Ma la cifra narrativa del cibo, la sua potenza latente, è proprio quella di es­ serci, sempre, di accompagnare ogni passaggio storico, qualsiasi giornata fatale, consentendo di valutare meglio anche le persone. Questa vivandiera Braghetti, ad esempio, che a tanti anni di di-

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stanza dall'assassinio si proclama« fiera» delle sue« virtù dome­ stiche»: in via Montalcini, proclama, « non si mangiavano certo panini e scatolette». 1•

NOTE 1 Mario Moretti, Brigate rosse una storia italiana, a cura di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Anabasi, Milano, I 994, p. I 3. 2 A lberto Franceschini, Mara, Renato e io, a cura di Pier Vittorio Buffa e Franco Giustolisi, Mondadori, Milano, 1988, p. 18. 3 lvi. • Barbara Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli, 1998, p. 109. s Renato Curcio, A viso aperto, a cura di Mario Scialoia, Mondadori, Milano, 1993, pp. 58-59. 6 Raimondo Catanzaro - Luigi Manconi (a cura di), Storie di lotta armata, li Mulino, Bologna, 1995, p. 125. 7 Enrico Fenzi, Armi e bagagli, Costa e Nolan, Genova, 1998, p. 153. 1 Patrizio Peci, lo, l'infame, a cura di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, Milano, 1983, p. 21. • Ivi, pp. 95-96. 10 Ivi, p. 21. 11 Ivi, p. 83. 12 Mario Sossi, Nella prigione delle BR, Editoriale Nuova, Milano, 1979, p. 44. 13 Federico U. D'Amato, Menù e dossier, cit., p. 101. 14 Mario Sossi, Nella prigione delle BR, cit., p. 22. 15 Ivi, pp. 181-182. 16 Anna Laura Braghetti, li prigioniero, a cura di Paola Tavella, Mondadori, Milano, 1998, p. 127. 17 Mario Moretti, Brigate rosse una storia italiana, cit., p. 136. 11 Anna Laura Braghetti, Il prigioniero, cit., pp. 43-44. 19 lvi, p. 19.

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L'ULTIMA ABBOFFATA

« Mangiare vuol dire bruciarsi sull'altare del gusto, immolarsi alle perversioni del piacere e del dolore, e impataccarsi. » GllJl.IANO FERRARA

1. Spadolini e la fenomenologia dei ciccioni

All'inizio degli anni '80, lo sviluppo della televisione restituisce potere e visibilità al corpo. Quello rotondo e compatto di Giovan­ ni Spadolini, primo presidente del Consiglio laico di un'Italia alla ricerca di novità, con i suoi 120 chili e più di peso sembrava fatto apposta per far comprendere che, da astratta qual era stata finora, l'arte politica tornava ad essere figurativa. Un po' come alle origini il potere si connotava per il volto, la vo­ ce, i gesti, l'andatura, l'aspetto fisico, «Giovannone» - non a ca­ so - incarnava una sembianza umana e materiale che non poteva non evocare il cibo, e la sua allegria. Più in là negli anni si imparerà a comprendere - mai abbastan­ za, comunque - che la politica-spettacolo è spesso mendace o manipolatoria. E anche nel caso di Spadolini, da quel che si ca­ pisce con un minimo di distacco «storico», quel suo fantastico mangiare era più compulsivo che gioioso; più nevrotico che spen­ sierato; e una volta a Palazzo Chigi, le diete divennero continue, oltre che crudeli e di pubblico dominio. Eppure, dalla sua obiettiva grassezza, «Spadolone» non ebbe che benevolenze. Piacque subito il faccione rosso da putto sette­ centesco, o da fratacchione gaudente; si celebrarono le virtù della pappagorgia e del bottone della giacca tiratissimo sul ventre. Le dimensioni della pancia, oltretutto, e la voracità a tavola si ac­ compagnavano ad una cultura enciclopedica e a un'eloquenza torrenziale. Sorridendo, Fortebraccio sosteneva che il personag­ gio era «afflitto in egual misura da pinguedine e da parledine», così come Enzo Biagi individuava una consimile tendenza a «de­ bordare in facondia e farinacei». 1 Quando, nella primavera del 1981, il segretario repubblicano ebbe l'incarico di formare il governo, Giorgio Forattini lo raffi­ gurò nell'atto di leggere una specialissima lista dei ministri: «Fi­ nocchiona, crostini con le rigaglie, pasta e ceci, bistecca alla fio­ rentina (s.q.), biscottini di Prato col vinsanto ...»2 Era un menu

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classicamente toscano, e anche di questo il presidente incaricato fu riconoscente al disegnatore, che più o meno da allora prese a tratteggiarlo nudo come un bambinone, con un enorme sedere, una pancia strabordante e un pisellino piccolo piccolo.' Anche nella vita pubblica, in effetti, esistono obesi «buoni» e «cattivi». Il ciccione del primo tipo, di solito, è felice e pronto allo scherzo. Spadolini fece di più, sollecitò qualsiasi arguzia sul­ la sua persona fisica; prese a collezionare le caricature che lo ve­ devano protagonista; fu il primo uomo di governo a presenziare plaudente alla sfilata dei carri al Carnevale di Viareggio. dove era stato ritratto in varie fogge, anche sotto forma di roast beef, con contorno di patatine«spadoline >>. 4 All'apice della popolarità, per l'intervento di un dissennato cuoco-scultore, si affacciò dalle pa­ gine dei rotocalchi anche una statua presidenziale di burro, con le fattezze debitamente caricaturali. E insomma: oltre che nella TV, con la sua insaziabile richiesta di corpi, si può dire che la leadership cicciona di Spadolini ricer­ cò e rapidamente trovò piena legittimazione nella satira, che pro­ prio all'inizio degli anni '80 stava, come lui, dilagando e strabor­ dando. Era del resto una attrazione reciproca e istintiva.«Lo faccio nudo e grasso come un porcellino perché mi è simpatico», spiegava Forattini. « Per quanto possa sforzarmi non mi viene mai sgrade­ vole.» E Tullio Pericoli: «Fisicamente, ha un aspetto rassicuran­ te. È come una succulenta natura morta. Spadolini ti piace subito, senza sapere perché. O meglio, lo sai il perché. Perché è un gras­ so che non vuole dimagrire».5 Al di là dello scherzo, si avvertiva qualcosa di più profondo che travalicava i confini delle vignette. Tanto che interrogandosi sul segreto del successo d'immagine del nuovo presidente, perfi­ no il quotidiano Lotta continua era arrivato alle medesime, so­ prendenti conclusioni dei disegnatori: «Spadolini piace perché è grasso. Perché è grasso e contento. Perché è l'unico uomo po­ litico italiano (o quasi) che non indossa un'aria sofferente».• Anziché appesantirlo, in effetti, il cibo sembrava aver la fun­ zione del carburante necessario, come per Braccio di Ferro gli spinaci. Appena seduto a tavola, si faceva portare dell'acqua con ghiaccio e limone: era una specie di pregiudiziale rito digestivo; quindi «annegava» le mozzarelle nel brodo; si gettava sulla pa-

L'ultima abboffata

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sta e sulla carne, svuotava sovrappensiero piatti e piatti di patati­ ne fritte. E intanto parlava, parlava... Una volta, nella foga di una discussione, fu visto attaccare vigorosamente un secondo piatto di fettuccine che un cameriere di «Fortunato», il prediletto risto­ rante al Pantheon, gli aveva messo davanti per sbaglio. « Spado­ lini mangiava cosi distrattamente», ha scritto il suo biografo Claudio Sabelli Fioretti, «da non serbare memoria del fatto.» 7 Questa sua fame divenne presto una leggenda di Palazzo. Scris­ sero che s'infilava nelle tasche una quantità di cioccolata per averne sempre a disposizione e poterla trangugiare avidamente.8 Lui stesso, a un certo punto, ritenne di ridimensionare il feno­ meno. Pur dichiarando onestamente di non aver mai considerato la gastronomia «un fatto importante della vita», sosteneva che la faccenda del suo «appetito» - così lo chiamava - era tutt'altro che veritiera: « Io lascio che circoli», spiegava con palese inge­ nuità, «ma è assolutamente falsa». Si definiva «un mangiatore rapido e distratto», arrivando a determinare anche il tempo ri­ strettissimo di un pasto: «13-14 minuti». Era, per lui, una que­ stione di pignoleria: « Capisco che il volto suggerisce tutt'altre idee», riconosceva, « ma è proprio così ».9 Anche il segretario socialdemocratico Pietro Longo, in quegli stessi anni, poteva disporre di un corpo capace di attrarre l'atten­ zione e colpire l'immaginazione. Anche lui - che oltretutto pote­ va vantare una certa cultura non solo sociologica, ma anche cine­ matografica, avendo studiato al Centro sperimentale - sembrava perfettamente consapevole delle potenzialità spettacolari del pro­ prio corpo, anche lì ben oltre il quintale. Ma a differenza di Spa­ dolini, Longo pareva ispirare una pigra e melanconica bonomia, per quanto non priva di qualche maliziosa inventiva. In fondo, ne aveva cominciato a dar prova giovanissimo, a 15 anni, durante la Resistenza, aiutando la mamma Rosetta a consegnare in giro per Roma materiale clandestino dopo averlo avvolto nella carta della pasticceria «Ruschena». 10 Quale segretario del PSDI, tuttavia, Longo si rendeva conto di come gravemente in passato il suo piccolo partito avesse sofferto di maliziosi accostamenti alla tavola. A parte il precedente pseu­ do-etilico di Saragat, e l'eloquente soprannome di «Gnam­ Gnam ►► riservato agli esponenti della rinomata federazione roma­ na, pesavano ancora gli sfollò con cui per anni il solito Fortebrac­ cio si era accanito nei confronti di uno dei predecessori di Longo,

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quel Mauro Ferri che in modo surreale, ma piuttosto efficace, il corsivista dell'Unità abbinava a qualsiasi tipo di cibo. Per ragioni neppure troppo oscure Fortebraccio chiamava Fer­ ri « gran fritto di mare»; oppure lo salutava « per espresso man­ dato di tutti i salumai d'Italia». E ancora scriveva: « Ieri ho visto Ferri seminascosto da una porzione d'abbacchio», «trifolato», « abbronzato, addirittura negronetto»; « quest'uomo che con la sua incessante domanda fa rincarare il vitellone»; «questo so­ cialdemocratico sulla cui bandiera invece del sole nascente splen­ de una mortadella»; « lasciate, compagni, che Fortebraccio saluti con emozione il rientro fra i tegami dell'onorevole Ferri, cus­ cus».11

Ma Longo non era tipo da lasciarsi intimidire. Per cui, sia pure a distanza di anni da quelle sapide prese in giro, raccolse la sfida dei comunisti e fra i tegami ci andò sul serio, con l'orgoglio di chi aveva individuato un ruolo nel teatrino della politica, inaugu­ rando la figura del ciccione-cuoco. Esordì sull'Espresso, nel mezzo di un'impegnativa intervista politica: « Sono bravissimo in casa e soprattutto in cucina». Spe­ cialità? « Spaghetti all'amatriciana, penne alla vodka, brasato, saltimbocca alla romana...» 12 Si fece fotografare ai fornelli con tanto di grembiule e mestolo in mano. La passione culinaria ve­ niva offerta al pubblico dal corpulento segretario socialdemocra­ tico con lo stesso spirito, fra l'impudico e il pacioccone, con cui all'incirca nella stessa stagione si esibiva in TV cantando la Vie en rose e perfino accennando alcuni passi di danza, con la manina sopra la testa, sul palcoscenico di un teatro di Rimini, a beneficio dei congressisti socialdemocratici. Erano già gli imperativi della politica-spettacolo, cui la classe politica si sottoponeva con cre­ scente entusiasmo, prossima al masochismo. Quando, dopo le elezioni del 1983, Bettino Craxi conquistò Palazzo Chigi, Longo si rifece vivo per rendere nota una sua ar­ ticolata creazione gastronomica, « una pastasciutta», spiegò con l'aria di chi se la voleva giocare per benino, «che ricorda il go­ verno». E dunque: « C'è una base di pomodoro (i socialdemo­ cratici) con peperoncino (i socialisti) e un pochino di ricotta (i democristiani). Non manca il prezzemolo (i repubblicani). 1 tre colori» - concludeva Longo con qualche estensione metaforica - « rappresentano i liberali». Il pentapartito era dunque servito. « Il piatto», assicurava tornando alla dimensione più concreta del cibo, « è piaciuto molto. Mia moglie Fernanda e i figli l'han-

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no mangiato con gusto. Segno che ci ho preso, non crede? » 13 E in effetti Longo ci prese per qualche anno. Poi finì in malo modo pure lui, prima di tanti altri. Ma ormai era fatta. La democrazia del piccolo schermo accolse altri corpaccioni ballonzolanti senza complessi dentro e fuori il Palazzo; decretò il successo di altre pance tanto mediageniche quanto sporgenti e come tali pronte a trarre il massimo profitto in termini di comunicazione. Finché durava - e a un certo punto non dura più. Il ministro socialista e ballerino Gianni De Michelis, ad esem­ pio, trasmetteva strafottenza, potere e vitalità non solo nella capi­ gliatura, o nelle turbolente frequentazioni femminili, ma anche nel modo in cui, quasi in trance, si metteva pezzi di carta in boc­ ca, o masticava gomma americana durante le riunioni del Consi­ glio dei ministri. 14 Anche lui veloce e distratto a tavola, ma im­ petuoso e pieno di vita nel divertimento." « Custodendo nel ven­ tre patriarcale antipasti di salmone marinato, risotto ai fiori di zucca, roast-beef, torta e spumante», lo descrive Michele Serra, «De Michelis si lancia sulla pista principale della discoteca 'Bandiera gialla'.» 1 • Un campione di modernizzazione e d'incontinenza che, una volta ministro degli Esteri, accende la fantasia anche della stampa internazionale. « Le Fa/staff venetien», lo chiama Le Monde; mentre gli anglosassoni non esitano a usare nei suoi riguardi una parola - gut - che sta per «budella», «intestini», ma che non suonerebbe poi così improprio tradurre come «trippa». Dopo la caduta, una anonima signora veneta che lo conosceva bene confidò a Sandro Viola che veder mangiare De Michelis «era come leggere Rabelais. Gianni mangiava per tre, per quat­ tro, forse per cinque uomini della sua età e con i suoi impegni. Una pazzia, una vera pazzia. E col bere, lo stesso: una bottiglia di vodka gli andava via in un baleno».17 La trippa era dunque il minimo. Ma anche quella, a un dato momento, cominciò a sollevare qualche problema d'immagine. Se ne rese interprete, e proprio sul quotidiano socialista L 'Avan­ ti!, un compagno che si firmava Realmo Bonari, da Prato. Era una specie di appello. Si trattava, in sostanza, « di far notare al nostro che in occasione di incontri ufficiali a livello di governo potrebbe indossare giacche a doppio petto e abbottonate onde rendere meno 'osceno' quel ventre così voluminoso e spaparan-

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zato che le immagini della TV ci trasmettono. Anche l'occhio vuole la sua parte e mi sembra facile» - concludeva conciliante il compagno Bonari - « rendersi più gradevoli e accettabili». Dopo aver messo le mani avanti, il direttore dell'Avanti!, An­ tonio Ghirelli, si permise una chiosa sdrammatizzante: « Il com­ pagno De Michelis è piuttosto spiritoso e non se ne avrà certo a male se questo socialista toscano mette in risalto certe caratteri­ stiche alla Falstaff che a me, francamente, risultano simpatiche. Sono magro», concluse, « ma solidarizzo con i grassoni che mi sembrano più allegri e ottimisti, meno legati alle ferree leggi del­ la dieta e della linea». 18 Il punto, però, è che nell'immaginazione dei popoli non c'è solo Falstaff. C'è anche Re Ubu, tiranno pappone, o i grassi sfruttatori in pelliccia dei disegni di Grosz o delle commedie di Brecht. Non sempre cioè i ciccioni risultano simpatici ed estroversi. E quella lettera all'Avanti!, vera o falsa che fosse, indicava comunque un cambio di percezione nei riguardi del povero De Michelis, che nel frattempo quelli del Male avevano cominciato a chiamare « De Maialis». Accade infatti in talune circostanze che proprio la carne, la pancia, la ciccia vengano vissute come il segno visibile della col­ pa; e l'obeso - secondo le teorie dello storico Claude Fischler sia visto come colui che ha mangiato più di quanto gli spettava . 19 Il rovinoso ribaltamento d'immagine cui vanno incontro i po­ litici contemporanei è un altro grazioso regalino di una cultura politica in cui le forme, soprattutto fisiche della persona, soppian­ tano quasi del tutto i contenuti. Anche l'aspetto del ministro Nino Andreatta, per dire, 120 chili di stazza e « una circonferenza di vita che lo costringe a farsi con­ fezionare camicie e vestiti su misura»,20 suscitò a suo tempo di­ scussioni, ma più che altro simpatia. Il personaggio era eccezio­ nale da molti punti di vista, ma la sua grassezza era del genere accademico, o se si vuole tecnocratico, con lampi di geniale cat­ tiveria, inusitata in un democristiano, pure sui generis come lui. Per restare al tema alimentare, il suo quasi omonimo Andreotti aveva sostenuto una volta che Nino era un po' come la mostarda: dava sapore, ma non si poteva certo campare di mostarda .21 Certo Andreatta aveva fama di « mangiatore mastodontico che digerisce l'impossibile». Cosi almeno lo presentava Giancarlo

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Pema: « Ha un modo bizzarro di abbinare i cibi. È stato visto in­ ghiottire nell'ordine: una pizzetta, due bignè, un piatto di lasagne, una fetta di prosciutto, un altro bignè, una coscia di pollo... » Tra i suoi tratti distintivi, oltre a una indubbia distrazione, anche a ta­ vola, Andreatta poteva vantare un'irrequieta mobilità, giacché « si alza ogni due per tre da tavola, dovendo camminare quando parla e ragiona. Va in giro con il boccone in bocca e la forchetta piena in mano. Le cibarie finiscono sulla camicia e la cravatta. Lui non ci bada e si ripresenta il giorno dopo con la stessa roba spadellata».'' Ciò nonostante, un uomo non solo intellettualmente affascinan­ te, ma consapevole di esserlo. Un personaggio capace di incantare anche gli avversari politici, tra cui un altro intelligentissimo cic­ cione, Giuliano Ferrara, pure lui venuto fuori dalla più straripante e riuscita sperimentazione televisiva degli anni '80: « Da come si· stravacca sulle pelli di Montecitorio, con quell'aria da Bambin Gesù accudito dai Magi», notava Ferrara, « il ministro Andreatta mostra di puntare su una divina pinguedine, su una corporalità oracolare, per sedurre e convincere senza sforzo, lasciando che si interpreti la sua volontà in base alla sola postura». 23 Eppure, divina o no che fosse la sua ciccia, a un dato momento anche Andreatta ebbe la sua bella letterina sul pancione, che al­ i'improvviso gli veniva indicato come qualcosa di vergognoso, da nascondere: « C'eravamo illusi che con l'uscita di scena di De Michelis», appaive scritto sul Corriere della Sera in una lettera a firma Lorenzo Milanesi,« fosse finita l'era di un'Italia becera e sciattona che partecipava ai consessi internazionali con un ministro degli Esteri sbracato e impresentabile». Il lettore Milanesi ricorda­ va al ministro l'esistenza di« fior di gilet, che hanno fra l'altro la prerogativa di occultare la ingombrante mole del ventre ».24 Desiderio tutto sommato innocuo, essendo allora la classe po­ litica impegnata a occultare ben altre faccende.

NOTE 1 Enzo Biagi, « Spadolineide », la Repubblica, 5 novembre 1981. 2 Claudio Sabelli Fioretti, Spadolini. li potere della parola, Sperling & Kupfer, Milano, 1983, p. 28.

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lvi, p. 29. Gianni Mancini, «Spadolini spettatore di se stesso in arcio­ ne al ribelle 'ciuco Italia' », li Giornale, I O marzo 1982. In tale occasione, l'allora presidente del Consiglio si informò sulla pre­ senza del pubblico nelle precedenti edizioni, traendo la convin­ zione che la sua partecipazione fisica e in effigie al Carnevale ne aveva incrementato senz'altro la media. s Claudio Sabelli Fioretti, Spado/ini... , cii., p. 29. 6 « Evviva Spadolini», Lotta continua, 19 gennaio 1982. 7 Claudio Sabelli Fioretti, Spadolini... , cit., p. 62. 8 Chantal Dubois, Li ho resi famosi, cit., p. 19. • Claudio Sabelli Fioretti, Spadolini ... , cit.. p. 62 . 0 Ezio Mauro, «Citerò Montesquieu, ho commesso errori pe­ ' rò mai malvagità», La Stampa, 20 settembre 1985. 11 « Quel super magistrato che torna dalla preistoria», La Stampa, 10 gennaio 1995. 12 Alberto Statera, « Detto tra noi, e senza peli sulla lingua», L'Espresso, 23 novembre 1980. 13 Salvatore Taverna, « La domenica del ministro», Il Mes­ saggero, 23 ottobre 1983. 14 « Pistaaa! », Panorama, 16 novembre 1981. 15 Raffaele Canteri - Federico Peruffo, /I doge e il sultano, Publiprint, Trento, 1993, p. 153. 16 Enzo Biagi, La disfatta, Rizzoli, Milano, 1993, p. 98. 17 Sandro Viola, « Gianni megalomane il grande perdente», la Repubblica, 18 luglio 1993. 18 «Il ventre di De Michelis», L'Avanti!, 9 novembre 1989. 19 Antonella Boralevi, Viva la faccia, Mondadori, Milano, 1988, pp. 90-91. 20 Renzo Rosati, « Andreatta al banco di prova», // Mondo, 8 novembre 1982. 21 U go Baduel, « È come la mostarda, poca dà sapore, un piat­ to non si mangia», l'Unità, 14 ottobre 1982. 22 Giancarlo Perna, Chiaroscuri, cii., p. 8. 23 Giuliano Ferrara, «Andreatta ha talmente torto che qualche ragione ce l'ha», Foglio dei fogli, 7 aprile I 997. 24 « Un gilet per Andreatta», Corriere della Sera, 12 dicem­ bre 1993. 4

2. La «scarpetta» ancestrale di Re Bettino

Anche Bettino Craxi, all'inizio, era un po' ciccione: del genere paffuto, forse per via della montatura degli occhiali, e orientaleg­ giante. Ma presto dimagrì. Con qualche fantastica sincronia si può dire che la sua dieta coincise con una posizione politica più intransigente e aggressiva nei confronti di comunisti e democristiani. « Qualche decina di chili», commentò Oreste del Buono nel 1982, « cambiano l'appa­ renza e la sostanza di un eroe.»' Asciutto, robusto e convenientemente incazzoso, il leader del PSI guidò il gioco della politica italiana per una decina d'anni. Era un gioco smodato, oltre che rischioso, in pratica l'unico pos­ sibile. Chi c'era ricorda grandi battaglie e anche grandi tavolate; e brindisi, tovaglie, stoviglie con i garofani disegnati dagli stilisti del made in lra/y. Bettino Craxi era un italiano senza complessi d'inferiorità. Prima che a Sigonella, aveva fatto la voce grossa con gli americani che disdegnavano di importare il nostro pro­ sciutto, il migliore del mondo...2 Enzo Bettiza ha dipinto uno splendido quadro della convi­ vialità bettiniana e dell'atmosfera che regnava al Raphael, I 'al­ bergo che Craxi aveva scelto come propria residenza romana: « Per lui era imbandita una tavola incuneata in una nicchia del­ la sala del ristorante situato nel sottosuolo. Un'ampia poltrona foderata di velluto cardinalizio soverchiava la tavola imbandita e le seggiole su cui sedevano gli intimi della corte e gli ospiti di passaggio. Sovranamente assiso su quella specie di piccolo trono, Craxi assumeva l'aria di un re capriccioso che interroga i commensali senza ascoltare le loro risposte [... ] Continuava intanto a masticare con la voracità automatica e assente dei grandi distratti, dando l'impressione di non accorgersi nemme­ no del cibo che stava tritando e deglutendo. Talvolta però bloc­ cava i movimenti della mascella carnosa, tratteneva un attimo il bolo nella bocca, lo rigirava lentamente sotto il palato, infine lo mandava giù di colpo e, allegro, quasi stupefatto, esclamava:

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'Ma questo che sto mangiando è buonissimo, bravo il nostro cuoco!'»1 La notte dell'ultimo dell'anno 1990, un trascuratissimo diabe­ te fermò nel peggiore dei modi - autoambulanza, ospedale, ver­ gogna della malattia, lunga convalescenza, energia ridotta, pia­ ghe dolorosissime - la corsa craxiana e i suoi sbalordimenti ga­ stronomici. Non molto più tardi Tangentopoli sanzionò la fine definitiva dell'avventura politica. Da allora, per forza di cose - e prima che la pietà per la scompar­ sa riequilibrasse il ricordo anche umano del personaggio -, è an­ data accumulandosi un'abbondante pubblicistica generalmente antisocialista e in particolare anticraxiana. Guai ai vinti, si sa, anzi, guai al vinto. Questo per dire che del Craxi conviviale resta agli atti un'avi­ dità temeraria e una maleducata vitalità. Il cibo era puramente funzionale; il comportamento a tavola suggeriva un'attitudine vi­ sibilmente egotistica. Ma proprio in questo - ed è quanto ai suoi critici generalmente sfuggiva - si intende qui trovare la radice e l'essenza stessa delle sue indubbie virtù di capo. E l'origine, in fondo, della sua grande sconfitta. In altre parole: a capo tavola, per quanto gioiosamente, Craxi teneva conto solo di se stesso, e questo l'ha anche un po' fregato. E una questione che, evidentemente, va ben oltre l'etichetta. Fatto sta che davanti al piatto viene descritto come una specie di mostruoso fenomeno che ingurgita tutto e soprattutto ha le ma­ niere di un troglodita. «Tranne i rigatoni che vengono mangiati con la forchetta», si legge in un libro significativamente intito­ lato Razza cafona, «tutto il resto è portato alla bocca preferibil­ mente con le mani. »4 In pizzeria, davanti ai giornalisti, il leader del nuovo socialismo non si fa scrupolo di «agguantare» una paillard e di «divorarla» tenendola sollevata in alto con la ma­ no. Anche il lesso di gallina viene «azzannato» senza usare for­ chetta e coltello; la verdura segue cicli alterni, a volte con le po­ sate a volte no. Il tovagliolo gli serve pure per asciugarsi il su­ dore: «Bettino lo appallottola e se lo passa ripetutamente sulla pelata». Sembra di cogliere un riflesso atavico, una diffidenza ferina nel modo in cui Craxi si comporta durante un gran pranzo orga­ nizzato in suo onore a Milano da Chicca Olivetti. Quando arriva il buffet, Bettino si alza in piedi e si serve il risotto: ma «prima

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l'annusa con aria feroce, poi l'assaggia e davanti a tutti domanda: 'Ma che cos'è questa roba?' E lascia il piatto sul tavolo». Eppure, di nuovo: non si tratta solo di arroganza, o di semplice villania. Sia pure inorriditi, gli osservatori del costume craxiano ci fanno conoscere un particolare, anch'esso riprovevole dal pun­ to di vista dell'estetica, ma di fondamentale importanza ai fini dell'interpretazione. Notano infatti che Craxi ha l'abitudine di «pescare con le mani nei piatti dei vicini». Più esattamente: im­ pasta con cura molliche di pane, « fino a raggiungere la consi­ stenza desiderata», quindi allunga la mano sotto il naso del com­ mensale che gli sta di fianco o davanti e infine si abbandona alla più classica «scarpetta». 5 Del tutto speculare a questa pratica, si trova anche scritto che Craxi ne esercita un 'altra, pure sintomatica, a completare il qua­ dro. Quando gli sta particolannente a cuore qualcuno, ad esempio una donna. invece che togliere Bettino dà, porge, concede, asse­ gna, propina del suo, nutre. In questo secondo caso la fonte storica va rintracciata nelle co­ lorite e a tratti imbarazzanti memorie di Sandra Milo: «Il dolce, servito in coppa, era buonissimo. Finii subito, almeno il mio. Ina­ spettatamente Craxi mi ficcò il proprio cucchiaino colmo di cre­ ma in bocca». 6 E di nuovo: «Tagliò un pezzo di carne e me lo avvicinò alla bocca. Ancora una volta quel modo di fare». 7 Riepilogando: il cibo annusato, rifiutato, morsicato e manipo­ lato, così come la «scarpetta» e il «bocconcino», riaffermano senza ombra di dubbio un ruolo, un rango, un potere perfino pri­ mordiale. Craxi è il capo, e come tale non ha da rendere conto a nessuno, mai. Egli esercita un diritto di prelazione, si riserva un privilegio di comando, esibisce una supremazia che arriva fino all'azione estrema e ancestrale del nutrimento. Questo suo potere totale, di cui non si starebbe qui a dar conto con tanta pedanteria se non fosse lo stesso che ha anche portato alla rovina un buon politico e un glorioso partito, è evidentissimo anche nei più vividi resoconti resi da Marina Ripa di Meana sui pranzi e le cene ad Hammamet, negli anni felici. Scrive infatti la signora - rivelando qualche ingratitudine, bi­ sogna aggiungere - che la condizione patriarcale di Craxi era sot­ tolineata anche nella disposizione e nel confort dei posti al desco. Lui solo sedeva su «una poltrona imponente, di cuoio, con brac­ cioli intarsiati e schienale altissimo». Gli altri familiari e gli ospi­ ti su una panca che la Ripa di Meana trova assai spiritoso quali-

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ficare « la panca dei culi rotti». 8 I camerieri, inoltre, «avevano, naturalmente, l'ordine di servire sempre lui per primo. Gli pona­ vano le pietanze e lui con noncuranza faceva cadere nel suo piat­ to porzioni gigantesche». Una volta, ricorda, «lui» si spolpò un'enorme cernia, «e quando arrivò il nostro turno, ci toccò accontentarci di un pesce sarchiato, completamente sbriciolato, con le spine di fuori».• Un'altra volta s'infuriò con il cuoco tunisino Hassad per un pas­ sato di verdure. Spinse via il piatto con disgusto: « Ma che è 'sta broda? Roba da convalescenti?» In fondo. a casa Olivetti s'era anche trattenuto. Ma a casa sua Bettino s'infilò in cucina, da do­ ve uscì con un coltellaccio in una mano e nell'altra una cordicel­ la da cui pendevano due caciocavalli. La Ripa di Meana, che ha sempre voglia di scherzare, gli chiese se per caso erano i coglio­ ni di Hassad. «Bettino, sempre più ingrugnato. si mise a tagliare enormi pezzi di formaggio e a ficcarseli in bocca. »' 0 Non molti altri spunti, a parte queste scenette, offre il decennio alimentare del garofano. Per lo più immuni dall'allora montante nouvelle cuisine e appena sfiorati dal trionfo di rughetta (o rucola) di quegli anni di Milano da bere, i fedelissimi della cerchia mene­ ghina si ritrovavano con il Capo ogni lunedì sera al ristorante « El matarèl», dove, secondo Camilla Cederna, si mangiavano « cose pesanti». 11 Altrimenti si dava da fare come cuoco il segretario di Bettino, Cornelio Brandini, cui si attribuisce un motto di ragione­ vole spregiudicatezza: «Non cucino animali che non conosco». Anni felici. Durante l'allestimento dei congressi, lo scenogra­ fo Filippo Panseca, l'inventore del tempio greco e della piramide craxiana, aggirava i divieti dell'amministrazione del panito fa­ cendo servire champagne nelle caraffe del vino della casa. 12 Proprio in occasione dei congressi, che alla metà degli anni '80 vanno inesorabilmente trasformandosi in occasioni ludico­ partitiche, tocca registrare dissennate sperimentazioni gastrono­ miche, tipo I'insalatina che lo chef del «Caffè delle rose ►> di Ri­ mini ha il cuore di intitolare al povero Pietro Nenni: tagliolini fat­ ti in casa e scampi adagiati su foglie di carciofo, arricchiti con tartufo e guarniti con cetriolini e - attenzione qui - petali di ga­ rofano.13 Al congresso di Milano, in compenso, nella cittadella craxiana ricostruita nell'ex fabbrica dell'Ansaldo, il servizio di ristorazio­ ne è inopinatamente gestito, con atroce preveggenza, da una ditta

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che si chiama «Pappo's».1• E all'insegna di una pregiudizievole ironia, o di un simbolico presagio, chissà, suona anche il racconto della cena sulla magnifica terrazza dell'architetto Portoghesi, a via Gregoriana, allorché certe fameliche forrniche attaccarono con successo, trascinando via per i tetti di Roma, le cotolette pre­ parate in omaggio a Re Bettino. 15 Sempre a Craxi, dopo tutto, si ritorna: padre padrone del par­ tito, sempre più incapace di distinguere tra il suo ruolo e la sua persona, e quindi prima venerato e omaggiato, poi reso capro espiatorio. Quando é a Napoli, i deputati e gli amministratori del­ la Campania gli recano in dono succose mozzarelle, così guada­ gnandosi l'appellativo di «mozzarellari »; 16 e in Sicilia sono cas­ sate e cannoli, mentre a Bari - sede dell'ultimo, accaldatissimo congresso, nel giugno del 1991 - sono lampascioni e panzerotti... A quel punto l'avventura craxiana era orrnai al capolinea, ma l'u