Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero

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Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero

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GIULIO GIORELLO LO SPETTRO EIL LIBERTINO TEOLOGIA, MATEMATICA LIBERO PENSIERO

SAGGI ARNOLDO MONDADORI EDITORE

Sommario

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Premessa

LO SPETTRO E IL LIBERTINO Provocare il conflitto delle asserzioni

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Le battaglie dei libri, 19; La controversia come patologia. La medicina c!i Colin MacLaurin, 20; La controversia come metodo. li buon esempio di Galileo, 21; La sfida di John Mili: "l'avvocato del diavolo", 24; li caso della matematica, 25; Una (apparente) digressione attraverso il Walhalla, 26; 29

Il

Nulla, vuoto, zero

Fredegiso: • il nulla è qualcosa", 29; Adoratori del nulla?, 30; Il divieto greco, 31; Digressione: Aristotele contro il vuoto, 32; Lo zero in aritmetica: una "scatola vuota•. 33; Dividere per zero? Un precedente in Aristotele, 37; li divieto della divisione per zero, 39; li paradosso di De Morgan, 39; Newton: da zero all'infinito, 42; 45

Ili

Dare "numeri" alle "cose"

Zero, uno ... infinito, 45; Varie specie di numeri, 48; Teoria eudossiana delle grandezze, approssimazioni e teoria "aritmetica" dei numeri reali, 53; li problema dell'area delle figure curvilinee, 61; La questione deJJe "somme infinite". Serie convergenti e divergenti, 68; "Negativo, distruuivo, polemico": Zenone e i paradossi del moto, 73; La 'dicotomia' e la scoperta degli irrazionali, 78; Gregorio "taglia" il nodo gordiano, 80; "Lanterna magica"?, 83; 86

IV

• I Litiganti", ovvero; atomismo e divisibilità senza fine

Nel "Labirinto del continuo•, 86; li crimine di Democrito, 88; Atomi, punti e nulla assoluti, 90; li "moto a scatti" e i tre mariti di Elena, 94; I minimi "intelligibili", 98; "Dupliciter variantes": la logica dicotomico dell'"errore• degli atomisti, 100; "li rasoio di Occam• e l'eliminazione degli indivisibili, 104; li grande conflitto, ovvero geometria contro atomismo: • Euclides atomorum hostis capilalissimus•, 109; "Temporibus quantum libet ex iguis", 119;

122

157

V •L'immenso oceano degli indivisibili": I punti del continuo e i gradi di velocità "DilTalcare gli Impedimenti della materia", 122; Galileo e gli "atomi realmente indivisibili", 125; "Divagazioni" sulla "potenza infinita", 128; "Guardami un solo istante", 132; Le "mirabili invenzioni" di Bonaventura Cavalieri, 144; Il "novello Edipo" e i suoi "cani da caeeia", 147; "Gli oscuri labirinti", 151; VI

Il credo dei ribelli.

I) Momenti, flussioni, primi e ultimi rapporti e ... atomi di tempo Fantasmi e filosofi, 157; Lo zero mascherato, 160; La "scienza del tempo"

di Newton, 170; La gerarchia delle "fluenti" e delle "flussioni", 171; L'atomo di tempo, 173;

184

VII Il credo dei ribelli. I I) Differenziali, differenziali di ordine superiore e legge di continuità Leibniz: il calcolo delle somme e delle differenze, 184; La traduzione: dagli indivisibili (cavalieriani) agli infinitesimi (leibniziani), 187; Una metafisica celata, 191; Il "governo della ragione", 194; La "commedia degli infinitesimi", 196; Identità e differenza, 200; Il primo paradosso di Nieuwentijt e la replica di Hermann, 202; La legge di continuità: una metafisica esplicita, 204; I differenziali di ordine superiore. Il secondo paradosso di Nieuwentijt, 209; "Continuità" e "giustizia", 216;

220

VIII Il privilegio del libero pensatore Gli "spettri" di George Berkeley, 220; Il "rasoio di Berkeley•, 225; "Not too fast, good Mr Logician•, 232; "Good Night, Dr. Pemberton": la controversia 'biforca', 237; • Affinché il sistema dei cieli fosse costruito su di una sicura geometria", 244; • Ah, certo è l'ombra che mi incontrò", 250; Augustus De Morgan ovvero: l'arte di interpretare paradossi, 255;

260

IX Curve e catastrofi L'ordine segreto del Mondo, 260; "L'elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete", 261; Le "severe leggi della natura" e la struttura differenziale, 263; • Le apprensioni dei Laputiani •: equazioni differenziali e stabilità del sistema solare, 270; L'instabilità e ('"avventura umana", 280; La "stabilità strutturale" e i modelli, 282; La natura "fa salti"?, 285; Biforcazione e catastrofe: la "spiegazione dinamica• secondo Thom, 288; La "nave di Teseo", 302;

306

Una potenza •immensa e incomprensibile" Terra ignota: stupirsi e pensare, _306; L'immagine, l'esperimento, il rigore, 310; Vizi nascosti, pubbliche virtù, 311; La Babele delle astrazioni, 315; Cinque "slittamenti", 318;

331

Conclusione

335

Biblio&rafia

Premessa

DON GIOVANNI

Già la mensa è preparata; voi suonate, amici cari; giacché spendo i miei danari io mi voglio divertir. (L. Da Ponte, W.A. Mozart,

Don Giovanni, atto Il, scena XVII)

Avrei forse intitolato queste pagine introduttive elogio di Gurdulù. Gurdulù è lo scudiero del Cavaliere inesistente, un "prigioniero del\e cose" che "ha ingurgitato una pinta d'acqua salata prima di capire che non è il mare che deve stare dentro a lui ma è lui che deve stare nel mare". Poi la grandezza intel\ettuale di Gurdulù mi ha dissuaso. Perché Gurdulù è stato Aristotde, Ipparco o Tolomeo, prima di diventare Copernico e Galileo: per convincersene basta mettere al posto di mare e di Gurdulù la "fabbrica dei cieli" e il pianeta terra, con tutto il suo carico di Gurdulù. Dopotutto, potremmo dire parafrasando Kant, lo "scisma" in astronomia tra i sostenitori del geocentrismo e quelli dell'eliocentrismo fu una questione di "punti di vista". Oggi qualcuno chiama questi cambiamenti di punto di vista "rivoluzioni scientifiche". La metafora è affascinante ma ambigua, poiché non abbiamo le idee troppo chiare nemmeno su che cosa sia una rivoluzione in politica e senza contare che, come è noto, l'originale revolutio indica il tornare di un corpo celeste alla posizione iniziale e dunque la "rivoluzione" è, in origine, qualcosa di molto simile a una restaurazione. Ma al nodo di difficoltà su cui si scontrano storici e filosofi del\a scienza "continuisti" o "discontinuisti", coloro che difendono la "continuità nello sviluppo del pensiero umano" e coloro che insistono su radicali rotture, nel caso della matematica si aggiunge un altro tipo di ambiguità, connessa al carattere elusivo di questa scienza. Basti un esempio: è abituale presentare la geometria di Euclide - quel\a stessa che si insegna nella media superiore - come un sistema "ipotetico-deduttivo": se si accettano certe premesse ("assiomi"), allora non si possono non accettare anche le loro conseguenze ("teoremi"). Considerata sotto questa luce, la geometria euclidea potrebbe essere anche una scienza che non tratta di questo mondo (e in un certo senso è molto probabile che le cose stiano proprio così) D'altra parte una lunga tradizione ha visto proprio

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Lo spettro

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li liberlirio

nella geometria di Euclide uno strumento essenziale per una cosmologia: da Proclo (V secolo d.C.: "Alcuni hanno ritenuto che l'argomento dei diversi libri [ di Euclide] concernesse il cosmo e che essi fossero concepiti per servire di aiuto alla nostra contemplazione e teorizzazione dell'universo") a Karl Popper (1963: gli Elementi di Euclide sono •un orga11on per una teoria del mondo"). David Hilbert, uno dei maggiori matematici del nostro secolo, soleva rispondere, a chi gli chiedeva quale fosse il problema scientifico più importante: decidere l'ipotesi di Riemann (è ancora oggi un problema aperto della matematica "pura": Hilbert aggiungeva che era importante non solo in quel contesto, ma era "assolutamente il più importante" e il problema tecnologico più importante: colpire una mosca sulla luna. La matematica ha consentito lo sviluppo di una tecnologia, cioè la sistematica pianificazione dell'intervento dell'uomo nel mondo, oltre ad aver permesso a 'Gurdulù' di rappresentare le orbite dei pianeti, di calcolare le velocità dei corpi in movimento, fossero essi terrestri o celesti, o magari di classificare le forme stesse del vivente, ecc. Se anche certi "strumenti" non servono più allo scopo (per esempio, abbiamo bisogno di una geometria più sofisticata di quella euclidea per studiare Io spazio fisico) essi restano parte integrante del patrimonio matematico - ove possono ancora rendere utili servigi - né la loro validità come teorie puramente matematiche viene messa in discussione. A questa innegabile stabilità del sapere matematico si affianca "un fenomeno che non cessa di mettere in imbarazzo fisici e filosofi", la constatazione che gli strumenti matematici necessari a non poche delle teorie più "rivoluzionarie" della fisica e di altre discipline che studiano questo mondo "erano stati già immaginati e sviluppati dai matematici in vista di problemi interni delle matematiche e senza sospettare affatto che un giorno sarebbero stati suscettibili di applicazioni diverse". Eppure "i filosofi" (o i fisici, o chi per essi) hanno tentato delle risposte, tanto più che alcuni di loro hanno realizzato che (al contrario di quanto ritiene un punto di vista positivista che è stato a lungo dominante), l'applicazione delle matematiche allo studio di una data fe. nomenologia empirica non è "neutra", ma cambia, anche radicalmente, l'arredo del mondo. Cosl è stato con la scoperta dell'incommensurabilità della diagonale con il lato del quadrato e la morma eudossiana della teoria delle proporzioni, con gli "indivisibili" di Galileo e dei suoi seguaci, con il Calcolo di Newton, Leibniz, Bernoulli, Euler, ecc. Già il matematico e generale Lazare Carnet osservava che sono queste "felici rivoluzioni" in matematica che potenziano le nostre capacità nello studio della natura. Eppure, questo intreccio di matematica e cosmologia è risultato talvolta sgradito ai filosofi. Per esempio, cosl si esprime Hegel, a proposito della comprensione geometrica del mondo fisico, nella Fenomenologia dello spirito: "Lo spazio è l'esserci nel quale il concetto iscrive le sue differenze come in un elemento morto e

Premessa

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vuoto dove esse sono altrettanto immote e prive di vita". E Horkheimer e Adorno, nella Dialettica dell'illuminismo: "questo adeguarsi al morto mediante il linguaggio contiene lo schema della matematica moderna". Ma non sono stati proprio i matematici coloro che, più di ogni altro, hanno perseverato "nell'ideale greco della ricerca del Vero", come scrive con (legittimo) orgoglio Jean Dieudonné? Ora, anche se "nessuno può pensare di negare che l'origine di tutte le matematiche risieda in problemi della vita corrente, quali il conteggio di oggetti o la misurazione di grandezze", pare quasi altrettanto evidente che gli "oggetti" che via via i matematici introducono siano "più astratti di quelli considerati inizialmente: soltanto l'astrazione e la generalizzazione possono in effetti determinare la scomparsa dei fenomeni contingenti a una situazione troppo particolare, ai quali va spesso la responsabilità di mascherarne la vera natura". Dunque: l'astrazione dei matematici "smaschera" o "uccide"? Si può chiudere la questione ripetendo, con Dieudonné, che critiche come quelle sopra riportate non sono che sfoghi "di spiriti illuminati accecati dal loro stesso fanatismo" e domandarsi, semmai, quando è stato tracciato il fossato tra filosofi e matematici. Con coloro che dopo la cosiddetta "crisi dei fondamenti" dei primi del Novecento hanno preteso di ricostruire "su basi di solida roccia" l'edificio delle matematiche (o quel che si immaginavano fosse tale edificio)? O con Hegel, per cui la verità della matematica era una verità "fatta di proposizioni rigide e morte"? Con George Berkeley, critico spietato delle "idee astratte"? O, forse, molto prima? Osserva lo storico Wilbur Knorr che già al tempo di Platone e di Aristotele "i matematici dell'antichità non dovettero reagire molto diversamente da quelli moderni in situazioni analoghe: perché difficoltà filosofiche pertinenti alla sola periferia delle matematiche avrebbero dovuto interferire con la loro ricerca"? In ogni caso, alle provocazioni dei filosofi, i matematici hanno di solito reagito (è ancora un paragone di Jean Dieudonné} "come i pionieri attaccati dai pellerossa", arroccandosi dentro il cerchio dei carri. Tutto questo è fin troppo giusto. Ma, come sa ogni cultore del western, furono i pellerossa ad essere alla fine distrutti. Forse quei filosofi erano colpiti da una strana cecità, poiché, nonostante fossero in torto, hanno pur qualche ragione sui tempi lunghi? Non mi sentirei di sottoscrivere nemmeno questa tesi. Nelle loro incursioni nella matematica, fosse "pura" o "mista" (noi diremmo oggi "applicata"), i filosofi, da Zenone in poi, senza dubbio hanno formulato esigenze di intelligibilità, ma è anche vero che richieste del genere vennero dispiegate in una ridda di concezioni metafisiche che hanno finito col produrre quello che fohn Watkins ha chiamato (1958) "l'effetto della casa infestata dagli spettri": una proliferazione di entità "anfibie tra il Non Essere e l'Essere". un labirinto di ontologie appena camuffato

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Lo spettro s il libertino

da regulae ad: directionem ingenii o • regole del filosofare", canoni o criteri di razionalità, che mentre pretendono di "controllare", paiono sfuggire essi stessi a ogni forma di "controllo". E come diceva un illuminista (alquanto sui generis) la metafisica è un velo che nasce dalla magia e altera i fatti ... Eppure, almeno da quando Burtt e Koyré hanno insegnato a rintracciare le radici metafisiche della scienza moderna, solo qualche positivista recidivo si ostina a considerare la metafisica come un balbettio privo di senso, mentre i filosofi della scienza hanno rivalutato il ruolo delle "metafisiche influenti" (Watkins), delle "cornici metafisiche" (Agassi), dei "nuclei metafisici" (Lakatos). Che conseguenza può avere questo riorientamento del! 'epistemologia nella valutazione della "autonomia" della matematica? La domanda è molto complessa: mi limito a osservare che individuare quali siano le proposizioni che un dato settore della comunità scientifica sceglie di considerare irrevocabili "in virtù di un decreto metodologico" (Lakatos) è compito alquanto difficile per lo storico delle scienze empiriche. r: stato solo in virtù di una "convenzione" che le ipotesi, poniamo, della meccanica newtoniana sono state assunte come irreversibili o, indipendentemente da tale "convenzione", di fatto si sono rivelate per un lungo periodo difficili da respingere? Se si ammette che il nucleo metafisico di una tradizione scientifica di ricerca "non nasce armato come Atena dalla testa dì Zeus" ma è necessario un certo periodo preliminare, perché non chiedersi, allora, in che occasione, per esempio, i principi della meccanica sono divenuti un nucleo del genere? Con Newton? Nel tardo Settecento, sbaragliate le concezioni rivali? O solo sul finire dell'Ottocento, quando stavano per essere sfidati da programmi alternativi o andavano incontro a svolte come la "catastrofe di Poincaré" (cfr. p. 278)? A maggior ragione l'impresa mi pare disperata per la matematica •pura". Con questo non voglio negare che i matematici si impegnino in "programmi di ricerca metafisici", per usare una felice espressione di Karl Popper. Anzi. alcune idee il cui sviluppo è in breve delineato in questo libro potrebbero venir considerate "programmi metafisici": la progressiva estensione della nozione di numero, l'indivisibilismo, il calcolo "differenziale" di Leibniz, il calcolo delle "flussioni e fluenti" di Newton, e, in tempi più recenti, la concezione della stabilità strutturale o la cosiddetta teoria delle catastrofi. In tutti questi casi la metafisica non è stata messa al riparo dalla critica "per decreto metodologico": piuttosto, metafisica e critica si sono intrecciate, poiché proprio leggi fort métaphysiques, per dirla con Leibniz, hanno consentito di criticare dottrine consolidate e al tempo stesso di procedere là dove "gli altri strumenti vengono meno", salvo poi venir a loro volta criticate da una metafisica rivale. Leibniz e Johann Bernoulli, per esempio, per isolare tali "leggi" ricorrevano talora al termine greco metaphysikotera, cioè cose troppo o più metafisiche delle altre, cioè dei

Premessa

Il

soliti 'sistemi' escogitati dai metafisici 'professionisti'. Sarei tentato di dire che tali principi "troppo metafisici" non sono altro che la filosofia, non in quanto fornisce "immagini della scienza" che spesso risultano distaccate dalla pratica della ricerca, ma in quanto rappresenta un elemento essenziale della critica e della crescita della conoscenza. Sicché questo libro non vuol essere né un'introduzione al pensiero matematico né una storia del Calcolo o di qualche altra disciplina; piuttosto, senza alcuna pretesa di completezza, esso mira a ricostruire qual-

che frammento di questo gioco della filosofia entro la scienza.

t per questo che si può anche raccogliere qualche provocazione dei filosofi. Cito ancora da Horkheimer e Adorno: "Il destino mitico ... faceva tutt'uno con la parola detta"; in quell'ambito "espressione e significato si confondono. Ma l'astuzia mette a profitto la differenza; si attacca alla parola per trasformare la cosa .... Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odissea si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse. Poiché il nome Oudeis può coprire altrettanto bene l'eroe e nessuno, egli può spezzare l'incantesimo del nome". I "decreti mitici" vengono interpretati in modo che divenga possibile sfuggirvi, ovvero l'astuzia riesce a infrangere il potere di fascinazione delle forme esterne scoprendo il "mondo intelligibile", l'universo delle "finzioni ben fondate". Senza di esse la comprensione scientifica del mondo conseguita attraverso "la scomparsa dei fenomeni contingenti a una situazione troppo particolare" (p. 9) sarebbe addirittura impossibile. Nel libro terzo del suo Essay Concerning Human Understanding (1690) John Locke affronta appunto la questione di tale "libertà di Adamo" (naturalmente qui il riferimento privilegiato non è Omero, ma la Bibbia), cioè la libertà "di apporre un nome nuovo a un'idea", che è stata ereditata dai suoi figli, cioè da tutti gli uomini: "ma con questa differenza, che nei luoghi in cui gli uomini che fonnano una società hanno stabilito fra loro una lingua, i significati delle parole devono essere cambiati con molta cautela e parsimonia. Infatti, in questo caso gli uomini sono già forniti di nomi per le loro idee e l'uso comune ha attribuito certi nomi conosciuti a determinate idee, e un'applicazione volutamente errata di essi non potrebbe non essere ridicola". O sovversiva. Questa deliberata deformazione dei significati, questa "voluta" ambiguità nell'uso delle parole, ha accompagnato troppo spesso il trionfo dcli 'astrazione matematica per non destare il sospetto di filosofi, come il vescovo Berkeley, troppo gelosi della Verità. Se nella matematica, dove le idee dovrebbero davvero essere "chiare e . distinte", sono in agguato i doppi significati, lo slittamento delle ipotesi, la tensione dei concetti (cfr. in particolare il capitolo VIII), che cosa distingue più questa •rigorosa" disciplina da una commedia degli errori o da una storia di fantasmi? Questo libro esamina alcune delle risposte. Ma prima vale la pena

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Lo spettro e il libertino

di sgombrare il campo da un equivoco. Esso consiste, detto in breve nell'idea che l'impossibilità di una terapia come quella suggerita da Locke - usare rigidamente la stessa parola nello stesso senso "in tutti i discorsi con i quali un uomo pretende di istruire o convincere l 'altro" - confini la possibilità della discussione entro un quadro condiviso ben definito, mentre al di fuori non resta che la terra desolata della prevaricazione ideologica e dell'aggressione irrazionale. Questa non è però che la versione estrema, in negativo, di un dogma radicato, secondo cui la costituzione della scienza come sapere pubblico e controllabile va di pari passo con la formazione di un consenso sempre maggiore. Se le cose stessero davvero così, la scienza non sarebbe altro che la realizzazione più riuscita del • Grande Fratello" di Orwell Inoltre, è una singolare ironia che tale dogma sia tanto più forte quanto più la difesa delle forme di pensiero che il dispiegarsi della "razionalità" lascia a margine assume le caratteristiche del recupero a oltranza di qualsiasi balbettio e assurdità: così non si fa che accettare forse inconsapevolmente, le regole imposte dalla costellazione delle idee stabilite. Quel che non viene sufficientemente realizzato nel dibattito attuale tra •razionalisti" e "irrazionalisti", tra difensori e detrattori del "metodo scientifico" è una sorta di paradosso che attraversa la riflessione sulla scienza almeno da Descartes. Nelle Regulae ad directionem ingenii ( 1628) questi per metodo intende "regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso". Così "certe" e così "facili" che nel Discours de la Méthode (1637) egli stesso si paragona a un "uomo che cammina da solo e nelle tenebre", sottopone ogni credenza stabilita al "dubbio metodico,. e constata che "nemmeno la maggioranza dei consensi è una valida prova per le verità un po' ardue da scoprire". Infine, l'elogio stesso del dissenso è a doppio taglio, proprio perché l'idea di dissenso rimanda a quella terra di nessuno i cui confini sono stabiliti dall'autorità contro cui si pensa di fare opposizione. Ma allora la tolleranza è solo un'illusione? Se la risposta è no, è perché, mentre la coppia consenso/dissenso fa pensare a un sistema di idee rispetto al quale settori più o meno rilevanti della comunità scientifica si definiscono in accordo o in opposizione, i "temi" di base della speculazione scientifica sono invece dissoi /ogoi, come avrebbero detto i Greci, "discorsi doppi,.: due o più quadri concettuali, sistemi di idee, programmi metafisici, ecc. sono posti in contrasto. La scienza nasce da "una certa sensibilità ai problemi e un'ardente passione per essi; come dicevano i Greci, [dalla] dote naturale di provare meraviglia" (Popper. 1963). Ma "di che cosa bisogna stupirsi?" (Thom, 1978). Di un'orma di piede umano sulla sabbia di un'isola che si credeva disabitata, come capita a Robinson? Di Mercurio "stella errante" e imbarazzo degli astronomi fin dall'antichità? Di una funzione matematica "che si comporta male", perché in ogni punto.è continua senza

Premessa

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essere derivabile? E perché non del fatto stesso che a proposito di "verità evidenti" non c'è l'accordo atteso e qualcuno si spinge a negare ciò che a prima vista sembra indubitabile? la rivalità tra teorie - o,. se si preferisce, tra programmi di ricerca (cfr. sopra p. 12) è ciò che consente insieme critica e crescita deUa conoscenza e a sua volta richiede una spiegazione che fa parte essa pure della impresa scientifica. L'argomento degli "schemi di pensiero incommensurabili" (su cui molto hanno insistito Thomas Kuhn e Paul Feyerabend) - nella scelta tra i quali risulta impossibile ai membri della comunità fare appello a una qualsiasi "misura comune" - è, sotto questa luce, solo un punto di partenza, poiché la comunicazione tra differenti indirizzi di pensiero non è garantita a priori da un linguaggio comune o da un insieme di premesse condivise, ma viene costruita passo per passo. Se ciò avvenga per merito della "filosofia" o per merito di una matematica esente da "influenze filosofiche" è questione (abbastanza bizantina) che non verrà discussa qui: sia lecito solo ricordare che • I'astuzia di Odissee" è, in larga parte, l'intelligenza del matematico e che la filosofia (la hegeliana • nottola di Minerva") non spicca il volo solo al crepuscolo. Il cammino della scienza •verso la Verità" è piuttosto un conflitto delle verità, reso possibile dal fatto - solo apparentemente paradossale - che per poter combattere un punto di vista rivale occorre • simulare" entro il nostro alcuni dei suoi tratti caratteristici, per spiegare perché, pur partendo da principi che noi riteniamo implausibili o erronei, esso consegua un qualche successo. ti questa la lezione che si trae da alcune delle controversie sul Calcolo. La "logica della scoperta matematica" - se mai ve ne è una - è, almeno in certa misura, una logica della "traduzione". La nostra proposta potrebbe allora configurarsi così: almeno per le fasi più creative della matematica o di quelle discipline empiriche ove la matematica struttura nozioni e principi di base, l'unità di valutazione deUa crescita delfa conoscenza è fornita da due o più teorie (o programmi) in competizione tra loro. Certo, come altre concezioni del progresso scientifico, anche questa rimanda a una qualche metafisica. In negativo: poiché insiste sul ruolo del "doppio significato" e della "traduzione" (o "re-interpretazione") tra schemi concettuali rivali, essa potrebbe entrare in rotta di collisione con il realismo, inteso come quel punto di vista secondo cui dobbiamo prendere alla lettera le favole che via via andiamo raccontando sul mondo. E poiché la traduzione - proprio nei casi più interessanti - non pare né univoca né completa (come avremo modo di vedere, in particolare, negli ultimi capitoli) non c'è alcuna garanzia di "sintesi" tra "tesi" e "antitesi" contrapposte, come vogliono i sostenitori di una dialettica di tipo hegeliano. Ma non si entrerà qui direttamente in merito a tali questioni: tocca piuttosto ai realisti, o ai dialettici, giudicare. (Ma si potrebbe

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anche sostenere che sia il realismo sia lo schema dialettico, pur nel tentativo l'uno di mostrare che la progressiva astrazione "non travisa la realtà• e l'altro di rendere conto di una crescita non puramente cumulativa, finiscono di fatto col rivelare troppe somiglianze con quei •decreti mitici" che il pensiero astratto infrange.) Ma in positivo: la crescita, intesa come capacità di "mettere a profitto la differenza" e la possibilità della revisione di ogni nostro quadro concettuale, sono concepibili insieme assumendo quella che (come vedremo ne1 capitolo X) lsaac Barrow chiamava "una potenza assoluta e incomprensibile". Ma determinare quale sia il luogo di tale •potenza• è a mio avviso impresa disperata. Inoltre possono esserci ragioni metafisiche (o meglio, teologiche), ma non ritengo che ci sia alcuna ragione •scientifica" per ritenere la contesa delle verità migliore di un progresso "pacifico e lineare•, proprio come non penso che ci sia una qualche ragione "scientif,ca • per ritenere una "democrazia di conflitto" migliore di qualche altra forma, magari più stabile, di vita associata. Piuttosto, è la struttura delle preferenze di alcuni di noi che porta a scegliere questi e non altri valori, e segnatamente a riconoscerci eredi di Eraclito, il principe di Efeso che insegnava che •n conflitto è signore di tutte le cose" e che potrebbe venir considerato •rinventore" della democrazia intellettuale. So che non pochi dei punti di vista qui espressi contrastano con quelli che sugli stessi argomenti Ludovico Geymonat ha avuto modo di articolare in cinquant'anni di ricerca che onorano la filosofia italiana. Ma Geymonat non solo mi ha insegnato a "cercare la filosofia nelle stesse pieghe della scienza•, ma ha rappresentato un esempio di come sia preferibile seguire la virtù del disaccordo piuttosto che il vizio del compromesso: ed è perciò che questo libro gli è dedicato. Molti degli argomenti che qui ho esposto sono stati oggetto di discussioni private e pubbliche. Con particolare gratitudine voglio ringraziare innanzitutto Fernando Gil, Jean Petitot e René Thom e ancora Evandro Agazzi, Stefan Amsterdamski, Enrico Bellone, Umberto Bottazzini, Adriano Carugo, Carlo Cellucci, Emest Coumet, Giovanni Dantoni, Massimo Galuzzi, Giuseppe Geymonat, Donald Gillies, Enrico Giusti, Ivor Grattan-Guinness, Maurizio Mamiani, William Newton-Smith, Arrigo Pacchi, Luigi Pepe, Marcello Pera, Maria Vittoria Predava!, Carlo Sini, Mario Vegetti, Ben Vermeulen, Jules Vuillemin, Lech Witkowski: a tutti sono debitore di critiche e consigli. Naturalmente tutti questi studiosi non hanno alcuna responsabilità nelle opinioni un po' cranky espresse nelle pagine che seguono. Ciò vale anche per quei giovani ricercatori e amici che mi sono stati di validissimo aiuto nel reperire testi e citazioni, come Alessandro Belloni, Luca Bianchi, Nicoletta Bocca, Luca Bonatti, Michele Di Francesco, Giovanni Lucchelli, Mariella Perucca, Angelo Petroni, Sandro Petruccioli, Eugenio

Premessa

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Randi, Terenzio Scapolla, Marta Spranzi, Massimo Turchetta, Marco Vigevani. Un grande debito ho con i miei due più cari collaboratori, Niccolò Guicciardini e Marco Panza, nonché con i membri del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Milano e con gli studenti dei corsi di filosofia della scienza degli anni 1978-1985. Questo volume non sarebbe mai stato scritto senza l'incoraggiamento e l'affettuosa partecipazione di Gian Arturo Ferrari e di Paolo Parlavecchia e non sarebbe stato portato a termine senza la paziente cura di Alvise La Rocca e dei suoi collaboratori della redazione mondadoriana. Mi sia lecito concludere l'elenco (incompleto) delle persone cui questo libro deve qualcosa con i nomi dei miei genitori, Wanda e Carlo, il cui aiuto nella stesura è stato prezioso e insostituibile. Un saluto va infine a Micia e Nerone, compagni notturni e silenziosi.

G.G. Milano, giugno 1985

Lo spettro e il libertino

A Ludovico Geymonat

Capitolo I

"Provocare il conflitto delle asserzioni" DON GIOVANNI

Olà, finiam le dispute! Se subito senza altro replicar non te ne vai, Masetto, guarda ben, ti pentirai! (Atto I, scena VIII)

Le battaglie dei libri "Bisogna sapere che in tutte le battaglie tra eruditi la grande arma missile è l'inchiostro, il quale viene trasportato su una specie di macchina chiamata calamo: i valorosi di entrambe le parti contendenti ne scagliano sul nemico un numero infinito, con destrezza pari alla violenza, come se si trattasse di un combattimento tra porcospini . ... Come i greci che quando, dopo un assalto, non riuscivano ad accordarsi su chi avesse vinto, solevano innalzare trofei in entrambi i campi, la parte sconfitta accontentandosi del pareggio per salvare la faccia [ ... ]. cosl gli eruditi, dopo una disputa aspra e sanguinosa, appendono anch'essi i loro trofei, quale che sia la parte che ha avuto la peggio Nelle iscrizioni di questi trofei si trovano ampiamente illustrati i meriti della causa, si dà completo e imparziale ragguaglio della battaglia, e si proclama come la vittoria sia chiaramente toccata alla parte che li ha esposti. Essi sono noti al mondo con nomi diversi, quali: dispute,

controversie, repliche, brevi considerazioni, risposte, osservazioni, critiche, obiezioni, confutazioni. Restano affissi in luoghi pubblici... per alcuni giorni cosl che i passanti possano guardarli; poi i più grandi vengono tolti di lì e trasferiti in certi magazzini chiamati biblioteche, dove restano, in un'area specifica loro destinata, e da allora in poi vengono chiamati libri di controversie." Così l'irlandese Jonathan Swift nel 1704. E prosegue: "io credo che sia delle biblioteche quel che è degli altri cimiteri, dove certi filosofi affermano che un certo spirito, che loro chiamano brutum hominis, aleggia sul monumento sepolcrale fino a quando il corpo non si corrompe e diventa polvere o vermi, per poi dissolversi e svanire. Allo stesso modo possiamo dire che uno spirito senza pace aleggia su ogni libro fino a quando la polvere o i vermi non se ne siano impadroniti, e questo può darsi che a uno capiti in pochi giorni e ad altri più tardi; e pertanto, essendo i libri di controversie frequentati dagli spiriti più disordinati, li si è sempre confinati in alloggi separati da tutti gli altri". La cautela dei bibliotecari è giustamente raccomandata. La

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malattia della controversia ha infatti imperversato per secoli nella • Repubblica delle Lettere" senza risparmiare alcun dogma della costellazione delle idee stabilite: dalla fede religiosa alla moralità pubblica. Il veleno più sottile sparso da una "disputa tra eruditi" è, per citare l'ateniese Protagora, il riuscire a convertire la causa più debole in quella più forte. C'è da stupirsi dunque che le controversie abbiano sempre lasciato non pochi strascichi nel corpo della società? Filosofi severi e ricercatori impegnati, moralisti preoccupati e politici difensori dell'ordine e della legge: fanatici religiosi e profeti della rivoluzione si sono sempre trovati d'accordo nel condannare come uno scandalo quello che è il "frutto proibito" generato dal conflitto intellettuale: l'abbinamento di critica e di crescita della conoscenza, quello che fa davvero della scienza un incontrollabile elemento di sovversione. La censura parrebbe ben motivata: infatti "la scienza sempre più col gettare il sospetto su fonti di consolazione come la metafisica, la religione e l'arte - toglie gioia". L'ammonizione di Friedrich Nietzsche (1878) riassume il punto di vista di tutti i custodi della nostra felicità. Ma se Nietzsche ha ragione, vuol dire che quel qualcosa che aleggia ancora tra i libri di controversie (e che Swift paragonava al brutum hominis che secondo l'alchimista e poeta Thomas Vaughan restava nell'aria dopo la morte) è riuscito a uscire dal chiuso delle polverose biblioteche, a diffondersi nel mondo degli uomini. La storia raccontata in questo libro è la vicenda di uno di questi "spiriti sottili•. · La controversia come patologia. La medicina di Colin Maclaurin

Ma non abbiamo imparato invece che la scienza è conoscenza dimostrata, "dimostrata mediante la ragione o mediante l'evidenza sensibile"? Le battaglie a colpi di inchiostro non si addicono meglio a tutto quel che con Nietzsche abbiamo visto essere radicalmente altro dalla scienza: arte, religione, metafisica, ecc.? È qui che (per parafrasare il vescovo Berkeley) gli uomini possono permettersi il lusso di avere opinioni: i pochi che fanno scienza, invece, pensano e i risultati del loro sforzo intellettuale non possono che convergere verso la verità. "Per quanto concerne i dogmi particolari di Talete e dei suoi successori della scuola ionica, quello che, tutto sommato, riusciamo ad apprendere dagli imperfetti resoconti che di loro ci sono rimasti è che ciascuno rovesciò quel che il suo immediato predecessore aveva proposto; e gli toccò in sorte lo stesso trattamento da parte del suo immediato successore". Questa la storia dei primi filosofi greci secondo il matematico scozzese Colin MacLaurin, nel suo An Account o/ Sir lsaac Newton Philosophical Discoveries (1748). Mn filosofi più recenti non ricevevano un trattamento molto migliore: il sistema esposto da René Descartes nei Principes de la Philosophie (1644) non era che

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una "favola"; le dottrine di Spinoza "un cumulo di empietà"; e se le correzioni apportate al cartesianesimo da Leibniz apparivano a prima vista plausibili, il buon senso si rifiutava di ammettere cose come "le monadi" o "l'armonia prestabilita"; solo paradossi si trovavano presso chi, come Berkeley, volendo negare la materia, finiva col negare anche lo spirito o chi, come Andrew Baxter, col sostenere che Dio è responsabile diretto di ogni seppur minimo cambiamento del mondo, eliminava, insieme alle "cause seconde", anche l'oggetto stesso della "filosofia naturale" (leggi: scienza newtoniana). Per uno come MacLaurin, che proclamava di detestare lo spirito "litigioso", non c'è davvero male! Riprendendo un tema che circa un secolo prima era stato caro a Francis Bacon, Colin individuava la ragione principale della disputa nella "precipitazione" dei filosofi speculativi insofferenti dei vincoli rappresentati dal rispetto dei fatti e dal ragionamento matematico. "Lo spirito" diceva nel nostro secolo Robert Musi! "è il grande fabbricante di alternative." Colin avrebbe aggiunto: unche troppe. Il compito principale di quei due vincoli è infatti di ridurle drasticamente. I positivisti dell'Ottocento e la loro versione "sofisticata" del Novecento - i cosiddetti positivisti logici - non sono che gli epigoni di questo autorevole punto di vista. La speculazione non può che degenerare in "pseudopensiero"; come i letterati rissosi della satira di Swift, i teologi e i metafisici hanno litigato, per secoli, senza mai riuscire ad accordarsi su chi avesse vinto, ma la controversia non è che il segno pubblico della loro disonestà intellettuale. MacLaurin, al confronto dei positivisti appare un moderato: dispute, controversie, repliche, ecc. tra filosofi avevano per lui almeno il merito di spingere gli ingegni speculativi a portare all'estremo le loro tesi, denunciando in questo modo ciò che di arbitrario e stravagante era "nascosto" nelle premesse.

1A controversia come metodo. Il buon esempio di Galileo Ho deciso, Faust non si pentirà. / Mefistofele, v1em. ricominciamo a parlare / a parlare delle stelle divine. / Dimmi delle sfere oltre la luna, / dimmi se i corpi celesti formano un solo globo / solido come questa terra al centro. MEFISTOFELE. I Cieli sono come gli elementi, ognuno / su dalla luna fino all'orbe più alto / fascia l'altro e si fascia della sua sfera / e tutti insieme volgono su un asse / che in cima è detto il gran polo del mondo ... " f:: un'ulteriore beffa del destino (o del diavolo) - al di là delle intenzioni dell'autore - che il Dottor Faust di Christopher Marlowe scambi la sua anima immortale in cambio di una lezione sul cosmo che per la più avanzata astronomia matematica del tempo (Marlowe compose l'opera presumibilmente intorno al 1590) era semplicemente

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un ammasso di concezioni superate. Nel 1543 era stato pubblicato il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico ed era cominciata la sovversione della "fabbrica dei cieli" aristotelico-tolemaica. La storia è fin troppo nota: con Copernico la Terra da centro del cosmo veniva declassata a semplice "astro errante" intorno al Sole, immobile "lampada dell'universo". Ma è pure noto che inizialmente i dotti dell'epoca dovevano guardare al copernicanesimo - che riecheggiava antiche concezioni dei Pitagorici e di Aristarco - come a una sorta di "eresia", in contrasto non solo con le verità della Rivelazione, ma con quello che quotidianamente apprendiamo dai nostri sensi. Dopotutto, non ci sembra di percepire alcun movimento della Terra, questo corpo greve e oscuro, apparentemente così diverso dai pianeti luminosi che scorgiamo nel cielo. E se la Terra davvero ruotasse, com'è possibile che gli oggetti posti sulla sua superficie non vengano scaraventati nello spazio, proprio come accade agli oggetti posti su di una piattaforma rotante? Questa non è che una delle formidabili obiezioni rivolte contro la dottrina del moto della Terra, sl che come scriveva Galileo Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) - "non posso trovar termine all'ammirazione mia come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità". Eppure fu in larga misura grazie agli 5forzi intellettuali di Galileo che il copernicanesimo finl coll'imporsi prima tra gli scienziati professionisti, poi in settori sempre più larghi dell'opinione pubblica. E fu proprio nel cercare di dissipare un'obiezione del genere che Galileo enunciò il suo principio di relatività che tanta importanza doveva rivestire per la fisica moderna. Galileo era fin troppo consapevole del fatto che tali obiezioni "volgari" indicavano una questione reale: in breve, che tipo di fisica è compatibile con il copernicanesimo? Di fronte agli argomenti che • apparentemente" confutano Copernico facendo ricorso ali 'osservazione, Galileo cambia letteralmente quel tipo di osservazione che sembra danneggiare il punto di vista eliostutico, elogia Copernico per non averne tenuto conto, sostiene infine di avere eliminato le evidenze contrarie puntando il canocchiale verso il cielo, senza troppo sforzarsi di offrire qualche ragione teorica per cui si dovrebbe attendere che il suo "occhiale" ne dia un'immagine fedele! Eppure, è ben noto che Galileo si riteneva miglior discepolo di Aristotele degli aristotelici ufficiali. Di fatto, non poteva però che essere un aristotelico provvisorio. "Quando Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo", scriveva a Liceti, "dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché niuna alterazione vi si era allora veduta, indubitabilmente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario". Vedendo le novità scoperte nuovamente in cielo, dunque scommettendo sull'attendibilità del canocchiale nelle osservazioni celesti; mutando opi-

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nione, disponendosi cioè a rivedere i principi della sua cosmologia. ~ uno di questi principi che Galileo sovverte in un celebre passo della "Giornata prima" del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), la separazione tra "mondo sublunare", regno della "generazione e corruzione" secondo Aristotele e il sistema dei cieli, "inalterabili e impassibili". Poiché gli avversari mettevano in discussione non l'attendibilità delle osservazioni al canocchiale sulla Terra (più in generale: entro la parte del cosmo sottostante al "cielo della Luna") ma solo l'estrapolazione "ai cieli", la mossa di Galileo era pressoché obbligata. Così si esprime, nel Dialogo, il suo portavoce: "SALVIATI: Non vi pigliate già pensiero del Cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anca della filosofia; perché, quanto al cielo, in vano è che voi temiate di quello che voi medesimo reputate inalterabile e impassibile; quanto alla Terra, noi cerchiamo di nobilitarla e perfezionarla, mentre procuriamo di farla simile a i corpi celesti e in certo metterla quasi in Cielo, di dove i vostri filosofi l'hanno bandita. La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine.• La scelta della forma dialogica non è casuale: come lo stesso Galileo anticipa nella premessa del Dialogo rivolta "al discreto lettore" è invece la forma più adatta a esporre "un capriccio matematico" (sostanzialmente: l'ipotesi copernicana e le sue conseguenze) che finisce col decostruire, al di là forse delle intenzioni del suo autore, alcune delle certezze più stabilite. Galileo non fa altro che mettere in scena, letteralmente, quella ricerca della verità attraverso il conflitto che aveva nella realtà perseguito attraverso il confronto e lo scontro con vari "eruditi", avversari o almeno scettici circa "l'opinione dei Pitagorici e del Copernico". La controversia è qui, essenzialmente, una via alla verità, un metodo nel senso migliore della parola. Sotto questo aspetto, Galileo è davvero buon erede di Aristotele che proprio nel trattato Del cielo aveva ammesso che "quello che diremo parrà forse più degno di fede, quando prima si siano ascoltate le asserzioni delle teorie in contrasto con la nostra. In tal modo non parremo pronunciare la condanna in assenza della parte avversa; giacché chi voglia giudicare del vero nel modo dovuto ha da essere piuttosto arbitro che parte in causa". Non a caso tre sono i personaggi del Dialogo galileiano per due "sistemi del mondo" in opposizione: se Simplicio adombra l'ortodossia (aristotelica) e Salviati l'eterodossia, la terza figura, Sagredo, ha piuttosto la funzione dell'"arbitro" già prevista da Aristotele nella logica della (buona) controversia. Né si deve dimenticare che "parti in causa" e "arbitro" mirano tutte "alla scoperta della verità•. La confutazione della confutazione messa in scena da Galileo mira. utilizzando l'aristotelico principio di (non)con-

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trnddizione, a tramutare delle evidenze contrarie in mezzi di scoperta. Come Gnlì\eo scriveva a Francesco lngoli, segretario della Congregazione de Propaganda Fide e autore di una De situ et quiete Terrae contra Copemici Systema Disputa/io: "Restami a pregarvi a ricever i buona parte queste mie risposte; il che spero che siate per fare, sì per la vostra ingenita cortesia, sì ancora perché così conviene farsi da ogni amatore della verità: perché se io avrò con fondamento risoluto le vostre istanze, il guadagno vostro non sarà stato poco, cambiando cose false con vere; e se per l'apposito, io avrò errato, tanto più chiara si mostrerà la dottrina de' vostri discorsi". Ovvero: la scoperta di qualche cosa è sempre scoperta contro qualche cosa d'altro. La sfida di fohn Mili: •l'avvocato del diavolo ..

Non fissiamoci troppo sulle dispute intorno alla "fabbrica dei cieli" il muovere da uno specifico problema (nel caso: la giustificazione

fisica del copernicanesimo), cercare di risolverlo e nel contempo aprire nuovi problemi (per esempio, il principio di relatività "galileiano e le sue possibili estensioni) è infatti un carattere generale dell'impresa scientifica. Come osservava un grande fisico del Novecento, Wemer Heisenberg (1976), è proprio in questo modo che un punto di vista anticonformista viene a costituire il punto iniziale di una tradizione di ricerca che più si rafforza meno pare preoccuparsi della costellazione di idee che contribuisce a sovvertire o a distruggere. Più di un secolo prima così si esprimeva, nello splendido On Liberty (1859), John Stuart Mili u In ogni campo in cui una differenza di opinioni è possibile, la verità dipende dalla individuazione dell'equilibrio tra due gruppi di ragioni contrapposte. Anche nella filosofia naturale è sempre possibile fornire un'altra spiegazione degli stessi fatti: una teoria geocentrica al posto di una eliocentrica, il flogisto al posto dell'ossigeno". E ancora: "le nostre convinzioni più giustificate non si fondano su altra salvaguardia che sull'invito permanente a tutti di cercare di mostrarne l'infondatezza". Una sorta di "avvocato del Diavolo" pare d'obbligo non solo nei processi romani di canonizzazione, ma per la crescita della scienza Dopo tutto, nel Vecchio Testamento, ha-satan, cioè Satana, è "l'oppositore" per eccellenza - di fatto però sempre al servizio di · Dio (cioè della Verità) di fronte al quale si presenta criticando non le opere divine, ma quelle umane. Ovvero, parafrasando Voltaire, se non ci fossero stati oppositori, poniamo, di un Galileo stesso o di un Newton sarebbe stato necessario inventarli: ma vennero uomini come Niels Bohr o Albert Einstein a raccogliere la sfida di Mili. Gli sviluppi della relatività e della fisica quantistica mostrano (entro la stessa scienza del nostro secolo) come la crescita scientifica comporti la rinuncia a

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categorie, interpretazioni, schemi generali, concezioni filosofiche, ecc. che a prima vista promettono di renderci intelligibile il mondo.

Il caso della matematica Tutto questo scenario - diceva ancora Mili - non concerne però la matematica: qui "non ci sono obiezioni e non ci sono risposte alle obiezioni". Molti sottoscriverebbero oggi questo giudizio: se pure è vero che anche il più diretto appello ai "nudi fatti" dell'esperienza rimanda a una costellazione di elementi teorici (non è stato così, per esempio, nel caso delle pretese "evidenze contrarie" al copernicanesimo?), pare altrettanto vero che le conquiste dei matematici siano immuni da revisioni così radicali. La ragione sta forse nella modestia dei matematici: essi "non proclamano di saper tutto né pretendono di parlare di tutto; solo ciò che sanno per vero e possono sostenere con argomentazioni invincibili, questo pubblicano e includono tra i loro teoremi. Sul resto si limitano a tacere". Questa è la ricetta diceva il matematico lsaac Barrow nel 1664, con un certo anticipo sul Wittgenstein del Tractatus (1921: "Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere") - grazie alla quale i matematici riescono a evitare che le controversie, se anche talvolta li coinvolgono direttamente come persone, giungano a incrinare "la saldezza della geometria". Infatti "la lite concerne al più non la verità dei punti fondamentali, ma solo l'ordinamento di alcune proposizioni, verte sostanzialmente non sulla certezza della scienza, ma solo del modo o del metodo di apprendere, insomma su questioni di natura matematica piuttosto che filosofica". Per una volta, riportiamo il solenne latino di Barrow, tipico più di un predicatore (quale Barrow divenne) che di un geometra: non de prae-

cipuarum rerum veritate, sed de quarundam propositionum ordine; non de scientiae certitudine, sed de sciendi methodo modoque, de quibusdam tantum exterioribus litigetur, Philosophicis potius quam Mathematicis. Inoltre: ai matematici spetta proprio quel ruolo di "arbitri" nelle controversie filosofiche e scientifiche che già Aristotele riteneva necessario affinché dalla disputa la verità uscisse rafforzata. Fin qui tutto bene: finché cioè si ritenga che in matematica o non si dànno dispute o che esse sono solo apparenti. Ma altri erano meno ottimisti di Barrow o di MacLaurin: "non si può negare che anche nella matematica ci siano speculazioni di un genere tale da suscitare presso i Geometri il massimo dissenso". Così il grandissimo Euler, nell'alludere non solo a grandi controversie entro la matematica applicata del Settecento (come quella circa la vis viva, cioè la definizione dell'energia), ma anche entro la matematica pura (come quella concernente la "somma" delle serie divergenti): semplici questioni de methodo mo-

doque? Proviamo allora a capovolgere le valutazioni abbozzate più sopra.

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Perché non considerare "Talete e i suoi successori della scuola Ionica" gli iniziatori di una tradizione critica secondo la quale "le coraggiose modifiche apportate alla dottrina non sono proibite"? Al contrario, "l'innovazione viene incoraggiata ed è considerata un successo, un miglioramento, se muove da una discussione critica di quanto la precede". Karl Popper (1958) per descrivere il rovesciamento di un quadro concettuale da parte di un quadro concettuale rivale utilizza pressoché le stesse parole di MacLaurin, ma l'enfasi è di segno opposto. Atteggiamento critico e "speculazione" possono anche andare insieme, anzi lo debbono: proprio perché la usuale pratica scientifica è intessuta di credenze, anticipazioni, interessi e valori, la critica potrà essere articolata solo movendo da un quadro concettuale alternativo abbastanza strutturato per poter scalzare quella rete di "pregiudizi" che troppo spesso scambiamo per verità indiscutibili. Ma per Popper ancora il gioco della congettura e della confutazione riguarda solo le teorie di questo mondo mentre la matematica, essendo vera di ogni mondo possibile, non ha alcun "contenuto empirico" ed è quindi sottratta alla tensione tra vecchio e nuovo, tra ordine stabilito e rivoluzione scientifica.

Una (apparente) digressione "attraverso il Walhalla•, con la guida di Kant Il poeta Samuel Butler nel descrivere le doti del cavaliere Hudibras ai tempi della guerra civile in Inghilterra sottolineava la sua capacità di decide ali controversies by / lnfal/ible Artillery, cioè di affidare al cannone il compito di "arbitro imparziale" che Aristotele riteneva proprio del filosofo disinteressato e Barrow del matematico modesto: a ogni tempo i suoi metri di giudizio. Butler alludeva soprattutto alle polemiche tra le varie sette religiose, mentre ancora soffiava il vento evocato da Oliver Cromwell; circa un secolo dopo lmmanuel Kant, nella Critica della Ragion Pura sostituiva al cannone "il tribunale della ragione" per far giustizia delle dispute che per secoli avevano trasformato la metafisica in un "campo di battaglia senza fine". I filosofi stiano in guardia, poiché nella "lizza dialettica" tutto avviene proprio come a suo tempo Swift aveva descritto la battaglia dei libri: "quei cavalieri vigorosi - combattano essi per la buona o per la cattiva causa - sono sicuri di riportare l'alloro della vittoria, solo che badino a ottenere il privilegio di condurre l'ultimo attacco, senza essere costretti a sostenere un nuovo assalto dell'avversario. Si può facilmente immaginare, che sin dai più remoti tempi questa arena sia stata spesso calpestata dai piedi dei combattenti, che molte vittorie siano state conquistate da entrambe le parti, ma che per l'ultima vittoria - quella decisiva - si sia sempre badato di far conservare il suo posto al difeh-

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sore della buona causa, col proibire all'avversario di impugnare più oltre le armi". Ma il compito dell'arbitro, rispetto ad Aristotele o Galileo, è slittato: non si tratta infatti più di decidere quale sia la buona causa, ma lasciar piuttosto che i contendenti riconoscano la "vanità della loro contesa". I conflitti della "ragione con se stessa" più che risolti vanno dissolti, secondo una ricetta che Kant descrive come il metodo "di . assistere a un conflitto di asserzioni, o piuttosto di provocarlo [ corsivo mio]. non già allo scopo di decidere finalmente a vantaggio dell'una o dell'altra parte, ma al fine di scoprire se l'oggetto della lotta non sia forse una semplice illusione". Come Kant annunciava già il 2 settembre 1770 in una lettera a Lambert, bisogna essere sempre in grado di decidere "per ogni sorta di questione metafisica" se essa ammette o no soluzione: le controversie non sono che lo strumento di questo controllo. La reiterazione degli argomenti pro e contro - "le dimostrazioni di un contrario costituiscono le aporie dell'altro contrario", avrebbe detto Aristotele - la ripetitiva opposizione della "tesi" e della "antitesi" per usare il linguaggio kantiano sono il segno migliore del "malinteso dogmatico", radice di ogni inutile conflitto. Come in teatro nemmeno il conflitto va preso sul serio: "Entrambe le parti menano colpi in aria e combattono con le loro ombre: in effetti essi oltrepassano la natura, giungendo là, dove non c'è nulla che possa essere afferrato o trattenuto dal dogmatismo. Essi hanno un bel combattere: le ombre, spaccate dalle loro spade, si riuniscono daccapo in un attimo, come gli eroi del Walhalla, per potersi di nuovo divertire in lotte incruente". La "filosofia trascendentale" di Kant, che dovrebbe far raggiungere alla filosofia lo stadio maturo conseguito dalla matematica (almeno dai tempi di Euclide) e dalla fisica (almeno dai tempi di Newton), combatte cosi l'ultima guerra contro le guerre dei filosofi. Kant non cerca infatti una sorta di "sintesi" tra verità unilaterali: "tesi" e "antitesi" in ogni "conflitto della ragione con se stessa" rinviano a errori pressoché speculari e l'unica soluzione è l'eliminazione (sotto questo profilo i positivisti logici del Novecento si sono rivelati ottimi kantiani). Tutto il contrario che in Aristotele: nel quadro grandioso offerto dal libro primo della sua Metafisica emergeva l'idea di una crescita della conoscenza "per aggiunte successive", in cui predecessori e rivali i filosofi litigiosi che MacLaurin schernirà implacabilmente - sono semplici portavoce della "cosa" stessa, cioè della verità. La critica non ha altra compito che mostrare l'unilateralità delle loro "opinioni", ma allo stesso tempo disegna una sorta di carta delle biforcazioni del pensiero di cui ogni ramo si realizza in una dottrina che è stata di fatto sostenuta. I:: la favola narrataci da Aristotele quella maggiormente suggestiva per capire l'impresa scientifica. Kant, al contrario, appare spaventosamente arido proprio perché, dopo aver aperto uno spiraglio sul ruolo

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realtà, sembra particolarmente ripugnante al pensiero comune" (Geymonat). Il coraggio di Fredegiso sta nel concludere l'esistenza del nulla sfidando tale "ripugnanza" e sancendo questo scandalo dell'ontologia e della logica.

Adoratori del Nulla?

"t:: lui ... , cioè nessuno• dice un preoccupato sacrestano di una chiesa a abitata" da presenze inopportune in uno dei più efficaci racconti "gotici" di Montague ("Monty") Rhodes James; il filosofo Max Black, nella voce Zero per il volume XXIX dell'Encyclopaedia Americana ricorda che trattare nessuno come qualcuno fu vizio ricorrente e cita la setta di coloro che, sul finire del XI Il secolo, "adoravano Nemo (cioè nessuno), la persona cui supponevano si riferisse quel termine nei testi biblici e classici", insinuando che non pochi filosofi, per esempio "esistenzialisti come Martin Heidegger", nel trattare la questione metafisica del nulla si ritrovano oggi a ripercorrerne le orme. E non è che Black abbia del tutto torto, dato che il tema del nulla / uori di noi (e forse anche dentro) ricorre come un'ossessione in Heidegger e nei suoi epigoni: "Certo è che noi conosciamo il niente, sebbene solo in quanto di esso, per un verso o per l'altro, parliamo ogni giorno" leggiamo in Cos'è la metafisica? del 1929. Nel racconto di Monty James il sacrestano fa sì che un (abbastanza sprovveduto) antiquario inglese finisca coll'incontrare davvero quel Nessuno sulla sua strada (nella forma di un demone notturno); a noi è ancor meno difficile - stando sempre alla "filosofia dell'esistenza" - imbatterci nel nulla, "questo volgare niente, che così inavvertitamente s'insinua nei nostri discorsi, scolorito nell'incolore uniformità dell'evidenza", ripugnante anch'esso, non come demone, ma come mostro prodotto dal "sonno della ragione" (intendendosi per ragione la nostra capacità di analisi logicolinguistica). Rudolf Camap non ha infatti risparmiato (nel 1932) a Heidegger l'accusa di essere rimasto vittima e/o di far restare noi stessi vittime di un abbaglio linguistico che conferisce sostanza a uno "pseudopensiero". Ma, almeno per ora, il nostro problema non è di vedere chi dei due - il positivista o l'esistenzialista - abbia avuto ragione, ma, più modestamente, ricercare da quale fonte questo "abbaglio" (Carnap) o questa reale "angoscia" (Heidegger) provengano. Il nihilismo (o la sua variante personalizzata, il "nemonismo" di cui parla Black) come "trucco linguistico" è antico, come mostra il racconto del Ciclope nel Canto Xl dell'Odissea (Domanda: "Polifemo, chi ti reca dànno?" Risposta: "Nessuno"). Quale "astuzia della Ragione" ha svolto nello sviluppo del pensiero il ruolo che nel poema omerico spetta a Odisseo? Non è fuor di luogo ricorrere per schiarimenti a Hegel: "Quando la metafisica posteriore [al pensiero filosofico classico], soprattutto la cristiana, rigettò la proposizione che dal nulla

Nulla, vuoto, zero

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venisse nulla, essa affennò un passaggio dal nulla nell'essere. Per quanto, ora, questa proposizione fosse da lei presa sinteticamente o in guisa semplicemente rappresentativa, pur nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l'essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce ... Così perfino in Dio la qualità, cioè l'attività, la creazione, la potenza ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo• .

.Il divieto greco Ma prima? Al poeta Esiodo era stato severamente rimproverato di aver affermato che, alle origini, il Caos venne a/l'essere e quindi l'Ordine si formò dal Caos. Nihil ex nihilo fieri, specularmente, nil in nihilum potest reverti - "nulla si crea, nulla si distrugge" - è il divieto che, come ricorda Aristotele, è sottoscritto da "pressoché tutti i naturalisti• cioè da tutti i filosofi che si sono occupati della • natura delle cose• (physis ha in greco la doppia accezione di natura e di generazione). Parmenide di Elea era stato forse il più deciso nell'esporne le ragioni: 1) il non essere non è né intelligibile né esprimibile (poiché esso elude il logos inteso sia come pensiero sia come linguaggio); 11) e comunque, se l'essere fosse mai stato "generato" dal non essere, questa generazione non può venir fissata nel tempo: a/lora - potremmo dire ma perché non prima? O poi? Di qui la drastica conclusione: di essa non si può nemmeno parlare. La posizione di Parmenide doveva sembrare a qualcuno anche troppo radicale. Così Aristotele, nella Fisica: "quelli che primamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza .... Secondo loro, l'essere non può divenire (poiché esso è di già) e dal non-essere nulla si può generare". Ma così non si può che concludere (separando rigidamente essere e non essere) che il molteplice è un'assurdità non meno del divenire. Eppure il Cosmo in cui viviamo è scandito dalla molteplicità e dal cambiamento, come mostra l'esperienza di tutti i giorni. Dobbiamo gettarla a mare, come un'illusione, a vantaggio dell'essere di Pannenide "uno" e "immutabile"? Qualcuno (magari anche ai nostri giorni) potrebbe seguire la leggendaria "scuola di Elea" su questa strada: ma dovrebbe sempre chiedersi onde proviene quell'illusione? O l'essere vittima di un'illusione è a sua volta solo illusione? Non Aristotele: "anche noi affermiamo che in senso assoluto nulla diviene dal non ente, ma che comunque, c'è una generazione dal non ente, per esempio per accidente (dalla privazione, infatti, che di per sé è un non essere, vien fuori un qualcosa di ciò che non esisteva)", ma basta riqualificare i tennini del linguaggio (nel caso: •generazione") e il problema si scioglie: l'espressione

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creativo della disputa, si affretta a precisare che il suo metodo - cioè provocare la controversia - "nella matematica ... sarebbe assurdo, poiché non vi è alcuna asserzione falsa che possa nascondersi o rendersi invisibile, in quanto le dimostrazioni devono sempre procedere lungo il filo dell'intuizione pura, e precisamente, attraverso una sintesi sempre evidente" (quanto alla scienza sperimentale, il fraintendimento è sì possibile, ma anche "facilmente eliminabile"). Eppure basta un'occhiata non superficiale alla •antinomia della ragion pura" delineata da Kant nella sua "Dialettica trascendentale" per ritrovare le grandi opposizioni concettuali di più di duemila anni di matematica collegate esattamente secondo il modo intravisto da Aristotele: "le dimostrazioni di un contrario costituiscono le aporie dell'altro contrario". Il che ci suggerisce due •modeste proposte": la prima, di sostituire alla metafisica secondo Kant proprio la matematica che Barrow (e mille altri con lui) riteneva "immune da dubbio e disputa"; la seconda, di scegliere, per valutare la crescita della conoscenza - in matematica o in ogni disciplina (in senso Iato) fisica ma provvista di un "nucleo matematico• sufficientemente articolato - l'insieme di quelle teorie rivali che impediscono la stagnazione intellettuale. Nel modello politico di •società libera" che John Mili delineava in On Liberty, il conflitto tra •modi di vivere• garantiva lo sviluppo, poiché faceva sl che "i potenziali centri di irradiamento del progresso fossero tanti quanti gli individui". Nella • scienza in una società libera" sarà il conflitto tra teorie o addirittura tra tradizioni di ricerca a motivare la crescita. Lasciamo, per ora almeno, il "Walhalla" di Kant, e seguiamo, come filo di Arianna, il dispiegarsi di un'antica questione, controversa almeno dai tempi di Platone e di Aristotele. Per restare in tema di teatro, potremmo anche etichettare tutta la storia attingendo da Shakespeare "molto rumore per nulla". Come vedremo nel capitolo seguente.

Capitolo II

Nulla, vuoto, zero ZERLINA

Ma, signor, io gli diedi parola di sposarlo. DON GIOVANNI

Tal parola non vale un zero. (Atto I, scena IX)

Fredegiso: "il nulla

~

qualcosa•

"La potenza di Dio ha fatto dal nulla la terra, l'acqua, l'aria, il fuoco e anche la luce, gli angeli e l'anima dell'uomo. La nostra comprensione intellettuale deve sollevarsi fino a questa autorità così elevata che non può venir scossa da alcun ragionamento, che non può venir confutata da alcuna argomentazione, che non può essere impugnata da forza alcuna. E questa autorità che proclama che le prime e più importanti delle creature sono state create dal nulla." Se la nostra fosse una fiaba, diremmo: c'era una volta (IX secolo d.C.) Fredegiso di Tours, allievo del sapiente Alcuino, la cui fama, nei secoli cosiddetti bui del Medioevo, è legata principalmente a una Epistola de nihilo et tenebris: qui come abbiamo visto dalle frasi che abbiamo riportato, Fredegiso, basandosi sull'autorità delle Scritture (definita rationis munimcn et stabile firmamentum, come dire "fortezza inespugnabile e bastione della ragione"), conclude che il nulla non può non essere qualcosa di reale. De Wulf, nella sua Histoire de la phi/osophie médiévale (1925), ha liquidato gli argomenti di Fredegiso come semplici enfantillages o sophismes verbaux, cioè, detto in modo più breve, come • infantili sofismi". Altri storici sono stati più clementi. Comunque, osservava il filosofo Ludovico Geymonat nel 1952, pare più facile sorridere della soluzione di Fredegiso, che non trovarne un'altra di maggior consistenza, dato che egli si pone una domanda piuttosto imbarazzante: se il nulla (nihil) sia qualcosa (a/iquid) OpP,ure no; ora, "se qualcuno risponde, mi sembra che sia proprio nulla, questa sua stessa risposta, che ritiene negativa, lo costringe ad ammettere che il nulla è qualcosa, allorché dice mi sembra che sia nulla". Ovvero: poiché si possa predicare qualcosa di un soggetto, quest9 soggetto deve essere qualcosa di determinato. Tutti siamo convinti di poter intenderci allorché usiamo questo termine, dunque esso deve avere per noi un significato determinato: nihil aliquid significai. "Proprio questo fatto però, che esso significhi qualcosa, che denoti una effettiva

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II

U libertino

realtà, sembra particolarmente ripugnante al pensiero comune- (Geymonat). li coraggio di Fredegiso sta nel concludere l'esistenza del nulla sfidando tale "ripugnanza" e sancendo questo scandalo dell'ontologia e della logica. Adoratori del Nulla? "~ lui ... , cioè nessuno" dice un preoccupato sacrestano di una chiesa •abitata• da presenze inopportune in uno dei più efficaci racconti •gotici" di Montague ("Monty") Rhodes James; il filosofo Max Black, nella voce Zero per il volume XXIX dell'Encyclopaedia Americana ricorda che trattare nessuno come qualcuno fu vizio ricorrente e cita la setta di coloro che, sul finire del Xlii secolo, "adoravano Nemo (cioè nessuno), la persona cui supponevano si riferisse quel termine nei testi biblici e classici", insinuando che non pochi filosofi, per esempio "esistenzialisti come Martin Heidegger", nel trattare la questione metafisica del nulla si ritrovano oggi a ripercorrerne le orme. E non è che Black abbia del tutto torto, dato che il tema del nulla fuori di noi (e forse anche dentro) ricorre come un'ossessione in Heidegger e nei suoi epigoni: "Certo è che noi conosciamo il niente, sebbene solo in quanto di esso, per un verso o per l'altro, parliamo ogni giorno" leggiamo in Cos'è la metafisica? del 1929. Nel racconto di Monty James il sacrestano fa sì che un (abbastanza sprovveduto) antiquario inglese finisca coll'incontrare davvero quel Nessuno sulla sua strada (nella forma di un demone notturno); a noi è ancor meno difficile - stando sempre alla "fùosofia dell'esistenza" - imbatterci nel nulla, "questo volgare niente, che così inavvertitamente s'insinua nei nostri discorsi, scolorito nell'incolore uniformità dell'evidenza•, ripugnante anch'esso, non come demone, ma come mostro prodotto dal "sonno della ragione" (intendendosi per ragione la nostra capacità di analisi logicolinguistica). Rudolf Camap non ha infatti risparmiato (nel 1932) a Heidegger l'accusa di essere rimasto vittima e/o di far restare noi stessi vittime di un abbaglio linguistico che conferisce sostanza a uno •pseudopensiero". Ma, almeno per ora, il nostro problema non è di vedere chi dei due - il positivista o l'esistenzialista - abbia avuto ragione, ma, più modestamente, ricercare da quale fonte questo "abbaglio" (Camap) o questa reale "angoscia" (Heidegger) provengano. II nihilismo (o la sua variante personalizzata, il "nemonismo" di cui parla Black) come "trucco linguistico" è antico, come mostra il racconto del Ciclope nel Canto XI dell'Odissea (Domanda: • Polifemo, chi ti reca dànno?" Risposta: • Nessuno"). Quale "astuzia della Ragione" ha svolto nello sviluppo del pensiero il ruolo che nel poema omerico spetta a Odissea? Non è fuor di luogo ricorrere per schiarimenti a Hegel: "Quando la metafisica posteriore [al pensiero filosofico classico], soprattutto la cristiana, rigettò la proposizione che dal nulla

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venisse nulla, essa affennò un passaggio dal nulla nell'essere: Per quan• to, ora, questa proposizione fosse da lei presa sinteticamente o in guisa semplicemente rappresentativa, pur nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l'essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce ... Cosl perfino in Dio la qualità, cioè l'attività, la creazione, la potenza ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo•.

li divieto greco Ma prima? Al poeta Esiodo era stato severamente rimproverato di aver affermato che, alle origini, il Caos venne all'essere e quindi l'Ordine si formò dal Caos. Nihil ex nihilo fieri, specularmente, nil in nihilum potest reverti - "nulla si crea, nulla si distrugge" - è il divieto che, come ricorda Aristotele, è sottoscritto da • pressoché tutti i naturalisti" cioè da tutti i filosofi che si sono occupati della "natura delle cose" (physis ha in greco la doppia accezione di natura e di generazione). Parmenide di Elea era stato forse il più deciso nell'esporne le ragioni: 1) il non essere non è né intelligibile né esprimibile (poiché esso elude il logos inteso sia come pensiero sia come linguaggio); 11) e comunque, se l'essere fosse mai stato "generato" dal non essere, questa generazione non può venir fissata nel tempo: allora - potremmo dire ma perché non prima? O poi? Di qui la drastica conclusione: di essa non si può nemmeno parlare. · La posizione di Parmenide doveva sembrare a qualcuno anche troppo radicale. Cosl Aristotele, nella Fisica: "quelli che primamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per cosl dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza. ... Secondo loro, l'essere non può divenire (poiché esso è di già) e dal non-essere nulla si può generare". Ma così non si può che concludere (separando rigidamente essere e non essere) che il molteplice è un'assurdità non meno del divenire. Eppure il Cosmo in cui viviamo è scandito dalla molteplicità e dal cambiamento, come mostra l'esperienza di tutti i giorni. Dobbiamo gettarla a mare, come un'illusione, a vantaggio dell'essere di Parmenide "uno" e "immutabile"? Qualcuno (magari anche ai nostri giorni) potrebbe seguire la leggendaria "scuola di Elea" su questa strada: ma dovrebbe sempre chiedersi onde proviene quell'illusione? O l'essere vittima di un'illusione è a sua volta solo illusione? Non Aristotele: "anche noi affermiamo che in senso assoluto nulla diviene dal non ente, ma che comunque, c'è una generazione dal non ente, per esempio per accidente (dalla privazione, infatti, che di per sé è un non essere, vien fuori un qualcosa di ciò che non esisteva)", ma basta riqualificare i termini del linguaggio (nel caso: "generaiione") e il problema si scioglie: l'espressione

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essere generato dal non ente va in realtà intesa come essere generato in q11a11to 11011 ente. Insomma, se diciamo che un legno bianco "viene generato da quel che non è", vogliamo solo dire che "viene generato in quanto non è, poniamo, una pietra nera (e analogamente non è moltissime altre cose) ma esso può divenire qualcosa d'altro (per esempio uno ~gabello rosso) purché ne abbia la disposizione ovvero la potenzialità. Per Aristotele oggetto di genuina conoscenza è, come noto, anzitutto l'essere synolon o •unione" di "materia" e "forma" cui corrispondono "potenza" (quel che si può divenire) e "atto" (quel che si è). Ora né ma• teria né forma paiono poter essere state create, almeno nel senso che tale termine ha assunto con. l'irruzione del "Dio semitico" della Bibbia sulla scena filosofica. Per quanto riguarda la materia, dice infatti Aristotele che se essa fosse generata "occorrerebbe che le soggiacesse qualcosa, dalla cui immanenza essa risulterebbe; ma prcprio questo soggiacere è la sua natura, e quindi essa è prima di essere generata" E anche la forma pare pre-esistere all'oggetto generato (essa, per esempio, è prima nei genitori, nel caso degli animali, o nella mente del· l'artefice, nel caso, per esempio, di una statua). Infine, "è possibile ... che un corpo si generi dall'altro, per esempio il fuoco dall'aria; ma che un corpo si generi quando in assoluto non preesista a es~o nessun'al• tra grandezza, questo è impossibile". Questa sorta di "generazione integrale" presupporrebbe infatti l'esistenza del vuoto ("nel luogo in cui sarà il corpo che ora si genera ... dev'esserci prima necessariamente il vuoto, non essendovi in esso nessun corpo"). Solo che, per Aristotele. il vuoto è inconcepibile sia logicamente sia fisicamente.

Digressione: Aristotele contro il vuoto Leggiamo nel trattato Del Cielo: "Vuoto poi dicono essere ciò in cui non si trova presente un corpo, ma può venire a trovarsi". Nella Fisica Aristotele chiarisce: "è opinione che il vuoto sia un luogo in cui non c'è nulla. E la causa di ciò è nel fatto che si crede che l'ente sia un corpo e che ogni corpo sia in un luogo, e che il vuoto sia il luogo nel quale non c'è alcun corpo; sicché, se in un luogo non c'è un corpo, ivi c'è vuoto". Ora, se si fosse definito il vuoto come • luogo privato di corpo", sarebbe stato facile concludere che un luogo vuoto è qualcosa di distinto dai corpi che lo occupano e giustificare coloro i quali, come Esiodo, avevano posto come "primo• il Caos: "quasi che sia necessaria, anzitutto, l'esistenza di uno spazio per gli enti, per il fauo che egli [Esiodo) crede, come i più, che tutte le cose sono in un 'dove'". Se "i più" avessero davvero ragione, "meravigliosa dovrebbe essere la potenza del luogo: difalli, ciò che è indispensabile per l'esistenza delle altre cose e che esiste senza le altre, è necessariamente il primo: ché il luogo non perisce, mentre le cose che sono in esso si

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distruggono". Ma "i più" non hanno ragione e la "teoria del concetto del luogo" che Aristotele svolge nella Fisica è una correzione della credenza comune: il luogo è infatti "il limite ... del corpo contenente (in quanto esso è in contatto col contenuto)". In questo modo Aristotele respinge tre altre possibilità: che il luogo sia 1) forma, o 11) una materia dell'oggetto (e contenuto) o anche 111) l'estensione ("intervallo") tra le estremità del corpo contenente. Il luogo non è forma, perché la forma è il limite della cosa (contenuta), mentre il luogo è "il limite del corpo contenente"; non è materia perché questa "non è separabile dall'oggetto, né lo contiene" mentre "per il luogo, invece, si verifica esattamente il contrario"; infine, se fosse possibile "la permanenza di un intervallo in sé, nel medesimo luogo vi sarebbero luoghi infiniti"; infatti se questo "intervallo", una volta vuoto, cioè "privato dell 'oggetto" fosse in un qualche senso "un ente", dovrebbe di conseguenza essere "da qualche parte" e conseguentemente, dovrebbe avere anch'esso un luogo: dovrebbe esserci quindi un luogo del luogo e così via, all'infinito. In più Aristotele credeva di aver chiuso ogni via di scampo ai sostenitori del vuoto (come gli atomisti) anche con argomenti di tipo empirico piuttosto che logico: mostrando, per esempio, che il moto nel vuoto è impossibile, che se comunque occorresse, sarebbe infinito o istantaneo, e che se anche fosse finito, tutti i corpi, di non importa qual peso, cadrebbero con la stessa velocità. f: il mondo in cui viviamo, così come è fatto, che non tollera il vuoto: esso è Cosmo, cioè "ordine": un pieno finito, sferico, riempito tutto di materia e in questo Cosmo la resistenza dei mezzi, i "luoghi naturali", l'opposizione moti "naturali" /moti "violenti" svolgono un ruolo fondamentale. Ma nessuno di questi presupposti vitali erano ammissibili nello "spazio vuoto" e ad Aristotele era parso legittimo, di conseguenza, eliminarli. Ma i creatori della fisica moderna, come Galileo, Pascal e Newton ... prima tra esitazioni e compromessi, poi sempre più decisamen'te dovevano finire con l'imboccare l'altra via: accettare il vuoto e negare i presupposti cosmologici cari ad Aristotele. Lo zero in aritmetica: una "scatola vuota•

Ma prima di trattare la riabilitazione del vuoto entro la fisica moderna, vogliamo accennare a una prospettiva che ritiene almeno concettualmente possibile quella "generazione integrale" dell'essere dal non essere che Aristotele sembrava escludere. Che "il passaggio dal nulla all'essere" fosse, per così dire, "simbolizzato" dalla contrapposizione dello O dell'aritmetica e le altre cifre significative fu una delle più radicate convinzioni del filosofo e matematico Gottfried Wilhelm Leibniz (e venne per lo meno condivisa da qualch~ suo corrispondente e seguace nella "Repubblica delle Lettere"). -

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A prima vista, può sembrarci piuttosto strano. Ma cominciamo coll'osservare che il nostro abituale approccio ai numeri "naturali" (cioè I, 2, 3, 4, ecc.) si basa sul fatto che le operazioni fondamentali per tali numeri sono regolate da ben determinate "leggi". Ora, invece di usare, come nei manuali, i simboli 1, 2, 3, 4, ecc. proviamo a rappresentare i numeri che indicano gli oggetti di una data "collezione" in un modo abbastanza concreto, come collezioni di palline poste in apposite scatole rettangolari, una pallina per ciascun oggetto (fig. 1). E immediato interpretare le operazioni sui naturali: per esempio, per addizionare due numeri interi m e n si possono porre le scatole corrispondenti l'una accanto all'altra e si rimuove quindi la parete divisoria comune (fìg. t a); per moltiplicare m e n si forma una nuova scatola con m righe, ciascuna composta di n palline, ottenendo così anche n colonne, ciascuna composta di m palline (fig. t b). Le • leggi dell'aritmetica" vengono dunque a corrispondere a proprietà di queste scatole (fìg. t e). Si può anche leggermente estendere il dominio dei naturali rappresentati da scatole di palline introducendo un nuovo "numero", lo zero, rappresentato da una scatola vuota. ~ allora abbastanza facile ricavare alcune delle sue proprietà aritmetiche: se si indica la scatola vuota con l'usuale simbolo O, si ha subito, per ogni naturale n, n + O = n, poiché n + O indica l'addizione di una scatola n con la scatola vuota (fìg. I cl). Per n • O = O bisogna riflettere forse qualche istante di più: tuttavia n • O altro non è che una scatola senza colonne, e una scatola senza colonne è appunto una scatola vuota ... Nella voce della Encyclopaedia Americana che abbiamo ricordato a p. 30 Max Black affe~a che il segno O, che denota l'usuale zero dell'aritmetica, "non sta per qualche entità peculiare o misteriosa, anche se vi sono modi molto particolari di usarlo": dopo tutto, si è trattato solo di "uno strumento ausiliare, impiegato per una semplice· assenza, che via via ha preso l'apparenza di un simulacro di sostanza e sembra stare per un vero numero". Eppure lo stesso linguaggio di Black (per esempio: "simulacro di sostanza") è spia dell'ambiguità che sottende l'ingresso dello zero nella scena matematica. Il sistema di numerazione decimale di cui oggi si fa ancora larghissimo uso è noto a buon diritto come sistema "indo-arabico ". Già su un piatto del 595 d.C. è scritta una data, 346, in notazione posizionale decimale, ma "la comparsa certa di un simbolo per zero in India si trova per la prima volta in una iscrizione dell'876 a Gwalior, in cui 50 e 270 appaiono entrambi scritti con uno zero" (Smith, 1925). In questo come in altri casi occorre sempre "distinguere tra la data presunta di una invenzione, quella della sua diffusione e quella delle prime testimonianze" (lfrah, 1981). Comunque, a prescindere dall'enigma dei Maya - ove peraltro una notazione posizionale in base 20 e provvista dello zero sembra impiegata solo per

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Figura I

•••••l+l••••l=I•••••••••

•••••lxl••••I=

•••• .•••• .. .

a)

b)

•••• ••••

. . ..... .. . ....

• • • I X (cm+ I ••••• Il= • • • • • • •

e)

· • · • • l+D=I • • · · •

d)

Un .. modello concreto per il conceuo astratto di numero ... Esso consente una .. intuitiva" interpretazione delle Operazioni aritme1iche fondamentali (nell'insieme dei numeri naturali) e l'immediato riconoscimcnlo di alcune loro proprietà. In a) è interpretata l"addizione: in h) la molliplicazione: e) offre un immediato riscontro della proprietà distributiv~: cl) rappresenta lo zero come una .. scatola vuota" e ne illustra la proprietà di essere elemento neutro per l'addizione (per esempio: 5 + O = 5). La figura è ispirata alla trattazione offena da R. Couram. H. Robbins. Wlia1 is Ma1hema1ics? (1941) (tr. il. Boringhieri, Torino 1961. pp. 36-38).

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esprimere il tempo trascorso tra due date significative, più che per essere utilizzata in veri e propri calcoli -, sia che venga anticipato dalla notazione greca o che derivi dal circolo poi usato nei caratteri •letterali• briihmT per il 10, o ancora da un punto utilizzato dagli Indiani (magari racchiuso da un circoletto per meglio evidenziarlo non ci sono molte probabilità che l'origine del simbolo O - come del resto dei simboli delle altre nove cifre decimali - venga chiarita al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma quel che interessa qui è lo slittamento dello zero da semplice indicatore di un posto vuoto, come del resto mostra ancora uno dei termini del sanscrito, siinyci (che in origine significa appunto "vuoto• altri termini sono altrettanto suggestivi: kha •cielo•, gagana "spazio• ambara "atmosfera", bindu "punto", ecc.), a numero come gli altri, assoggettato a regole che estendono "in modo naturale" le regole del calcolo. Le virgolette sono necessarie: è in gioco qui un equilibrio assai delicato tra intuizione e convenzione, tra economia di pensiero e intel• ligibilità degli enti matematici introdotti. Qualche esempio. Il mate• matico e astronomo Brahmagupta nel suo Brahma Sphuta Siddhiinta (628 d.C.) discute sei operazioni (addizione, sottrazione, moltiplica• zione, divisione, potenza, estrazione di radice) su "crediti", "debiti" e "nulla" (dhana, rna, kham), cioè su numeri positivi, numeri negativi e sul numero zero. Quindi lo zero, concepito in precedenza come operatore aritmetico (cioè come un segno che aggiunto a una cifra "significativa" la moltiplica per dieci), comincia ad essere trattato come un ente matematico a sé. E l'indiano MahlivTra, del IX secolo d.C., così enuncia le regole del calcolo delle quattro operazioni nel caso dello zero: "Un numero moltiplicato per zero dà zero e tale numero resta immutato quando viene diviso, aumentato o diminuito di zero". Se si considera zero come equivalente a nulla, queste regole appaiono abbastanza plausibili. Ma qualcuno potrebbe trovare sospetto che un qualsiasi numero diviso per zero dia ancora quel numero, anche se qualche giustificazione intuitiva potrebbe venir trovata: se si possiede, per esempio, una torta, e non c'è nessuno per dividerla, si resta con l'intera torta. Ma di fronte alle difficoltà che immediatamente scaturiscono da una "legge" del genere (vedi più oltre p. 39) non pare meglio evitare (o vietare!) la divisione per zero? Si deve concluderne che MahavTra peccava di irragionevolezza? E che di una differente irragionevolezza si rendeva colpevole anche un altro indiano, Bhiiskara (nato circa verso il 1114), quando a proposito della divisione per zero si impegnava in un trapasso dal finito all 'in• finito che giustificava solo teologicamente? Bhiiskara scriveva infatti: "Enunciato: Dividendo 3, Divisore O. Quoziente la frazione 3/0. Questa frazione, il cui denominatore è zero, viene definita una quantità infinita. In questa quantità, consistente in ciò che ha come divisore lo zero, non v'è nessuna alterazione, anche se vi viene aggiunto o tolto

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molto: infatti nessun mutamento ha luogo nella infinità e immutabilità di Dio". Lo storico della matematica Boyer ha così commentato: "Questa affermazione suona promettente, ma l'ulteriore asserzione di Bhtiskara che (a/0) •O = a mostra la mancanza di una chiara compren • sione del problema". Eppure questi atti •irragionevoli" e questa "mancanza di comprensione" sono germi da cui può dispiegarsi una rilevante crescita matematica, appena questa si situi nel contesto opportuno.

Dividere per zero? Un precedente in Aristotele Nel capitolo ottavo del IV libro della Fisica Aristotele. nel ribadire la sua ostilità al vuoto, sostiene che "per il vuoto non esiste alcuna proporzione secondo cui esso possa mai venire superato dal corpo, come non c'è proporzione tra il nulla e il numero" (il corsivo è nostro). Aggiunge Aristotele che "necessariamente ciò che è superiore si divide nel superante e nel superato". Così, per esempio, 4 è superiore a 3, e dunque 4 3 ("superato") + "superante"; in questo caso il "superante" è 1, che è a sua volta superato da 3: esso è dunque quello che noi diremmo il resto di una divisione di 4 per 3. Non ci è difficile reinterpretare l'idea di Aristotele come un embrione di algoritmo di divisione. Ma, poniamo, nel caso di 4 e di "nulla" (noi saremmo tentati di dire zero, con un forte anacronismo) il "superiore", cioè 4, se fosse ancora inteso come somma del "superato" e del "superante", non risulterebbe altro che se stesso più "nulla": dunque "non si darà nessun rapporto secondo cui il quattro superi lo zero". Proprio come in geometria "neppure la linea supera il punto, dal momento che la linea non è costituita da punti". Torneremo su questa fondamentale e ricorrente formulazione di questo che chiameremo d'ora in avanti "principio di omogeneità"; per ora limitiamoci a un cenno al contesto "fisico" in cui Aristotele situa questa analogia tra "vuoto" e "nulla" (= zero?). "Il vuoto par che sia, in certo modo, non ente e privazione" dice Aristotele nello stesso capitolo del libro IV della Fisica, salvo osservare altrove che "la privazione è non ente" di per se stessa (e in questo si distingue dalla materia, che è non ente "per accidente"): Aristotele sembra qui in polemica con Platone e quei suoi seguaci che paiono sostenere che • la natura in senso assoluto proviene dal non essere". In realtà, precisa Aristotele nella Metafisica, di fronte al problema della molteplicità, Platone e i suoi "opinano che tutte le cose esistenti si sarebbero ridotte a una sola, ossia all'essere-in-sé, qualora non fosse stata dissolta e respinta l'affermazione di Parmenide: 'mai, mai si potrà provare che sia quel che non è', ma reputarono che fosse necessario dimostrare l'esistenza del non essere, giacché le cose esistenti potrebbero esistere nella loro molteplicità soltanto a questa condizione, ossia procedendo dall'essere e da qualche altra cosa" (il corsivo è mio). Questo qualche altra cosa non

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puè) essere, dice Aristotele, che •non essere": ma con ciò non si dà ancora ragione a Platone e seguaci. Anzi essi • hanno impostato il problema con criteri arcaici"; mentre occorre precisare che, "dal momento che il termine 'essere' si usa in molte accezioni (in un senso, infatti, esso sta ad indicare la sostanza, in un altro la qualità, in un altro la quantità, e così di seguito anche le altre categorie)" saranno del pari molte anche le accezioni del termine "non essere". "Ma, se si tiene presente che il termine 'non essere', usato nella diversità dei casi, oltre ad avere lo stesso numero di accezioni che hanno le categorie, viene detto anche nel senso di 'falso' e nel senso di 'potenza', si noterà che proprio da questa sua ultima accezione procede la generazione: uomo deriva da non-uomo, ma che, pero, è uomo-in-potenza, e bianco deriva da non-bianco, ma che, però, è bianco in potenza, e non c'è alcuna differenza se venga generata una cosa o ne vengono generate molte.• Abbiamo così ritrovato la ridefinizione - sul piano logico e linguistico - del "non essere" in Aristotele. Ma se da questo piano si slitta a quello, empirico o cosmologico, della (im)possibilità del vuoto fisico, l'indeterminatezza del rapporto tra "quantità"(= "numero") e "nulla" (= zero?) illumina a sua volta la difficoltà di una "scienza del movimento" nel puro vuoto. L'argomento di Aristotele - che riportiamo qui nei tratti essenziali - non è privo di fascino. Sia, dunque, il corpo A spostato attraverso la grandezza B in un tempo C e attraverso la grandezza D, che è più •sottile", in un tempo E; se la lunghezza di B e quella di D sono eguali, il tempo sarà proporzionato alla resistenza del corpo che fa d'attrito. Siano, infatti, B acqua e D aria: di quanto l'aria è più leggera e più incorporea dell'acqua, di tanto A passerà più velocemente attraverso D che attraverso B. Vi sarà, dunque, tra velocità e velocità la medesima proporzione che intercorre tra la "sottigliezza" dell'aria e dell'acqua; sicché, se la sottigliezza è doppia, il corpo percorrerà la grandezza B in un tempo doppio che la grandezza D e, quindi, il tempo C sarà doppio del tempo E. E sempre, quanto più "incorporeo" e "meno resistente" e "più divisibile" sarà il mezzo attraverso cui l'oggetto è spostato, tanto più velocemente esso sarà spostato. Ma poiché - prosegue Aristotele " il vuoto nori può essere in alcuna proporzione col pieno", proprio come non può esservi alcuna proporzione tra •nulla" e •numero", lo spostamento attraverso il vuoto "supererebbe qualsiasi proporzione" rispetto al moto entro qualsiasi "elemento" che funzioni come mezzo. Sia, infatti, F un vuoto tanto grande quanto B e D e si supponga che A attraversi F in un tempo G, non nullo. Allora per quanto G sia minore di E, il vuoto F starà al pieno D in un rapporto finito, uguale a quello che sussiste fra G ed E. Per quanto G sia piccolo, in tale tempo A percorrerà una parte di D, diciamo H. Sicché in egual tempo

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l'oggetto percorre un pieno e un vuoto. "Ma ciò - conclude Aristotele - è impossibile". Il divieto della divisione per zero

La fisica moderna - lo vedremo parlando di Galileo - doveva far giustizia degli argomenti empirici di Aristotele contro il vuoto, anche se con certa difficoltà. Se si reinterpreta ciò che Aristotele dice circa l'assenza di rapporto tra "quantità" e "nulla" come una prova dell'impossibilità di dividere qualunque "numero" per zero, si incontra• no, a .livello puramente matematico, difficoltà ancor maggiori per rompere questo genere di divieto. Un qualsiasi manuale ci mette oggi in guardia con parole come queste: "Si usa no~malmente escludere dalla corisiderazione le frazioni con denominatore O. Esse non sono né errate né inconcepibili. La somma o il prodotto di una qualsiasi altra frazione con una frazione di questo genere prende come denominatore O. Inoltre, per la regola di eguaglianza, due frazioni con denominatore O sono uguali e una frazione qualsiasi è sempre uguale a 0/0. Ammettere questo sarebbe troppo. ... Non rimane che escludere completamente dalla nostra considerazione tale tipo di frazioni" (E.C. Titchmarsh, 1959). Quel che abbiamo appositamente riportato in corsivo è per così dire la traduzione - neppur troppo "infedele" - dell'intuizione di Aristotele; quel che abbiamo lasciato in tondo marca invece alcune differenze di tipo più propriamente filosofico. Oggi non crediamo tanto alla impossibilità assoluta di estendere le leggi delle frazioni in modo di includere anche il caso in cui il divisore è zero, quanto riteniamo che questa estensione non sia "conveniente" e che la assoluta "universalità" della divisione così ottenuta si pagherebbe. con maggior complessità in un'altra "zona" della teoria. Se per esempio scegliessimo una convenzione come a : O O, ogni volta che abbiamo a che fare con la "legge" che ci dice che, per esempio nel sistema delle frazioni, "qualsiasi elemento a ammette un reciproco b" dovremmo ridefinire l'inverso moltiplicativo o reciproco di una frazione a come quella frazione b per cui a• b 1 se a è diversa da O e come O nel caso in cui anche a è zero: conseguentemente, per decidere la verità o la falsità di espressioni come a . a-1 I (ove a- 1 indica, come al solito, il reciproco di a) dovremmo preliminarmente sapere se a è o no diverso da zero. Anche convenzioni come a : O a o anche a : O b con b fissato ma diverso da O comportano complicazioni.

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Il paradosso di De Morgan Il nodo gordiano della divisione per zero in tal modo non è tanto sciolto, quanto tagliato via di netto: «frazioni,. come 1/0 o 2/0,

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ecc. semplicemente sono "espressioni prive di significato". Eppure: applichiamo qui quello che potremmo battezzare principio di carità (secondo il matematico Federigo Enriques): anche ciò che è sinnlos, cioè "privo di significato" - o è decretato esser tale sulla base delle decisioni prese dalla comunità dei matematici di fronte a difficoltà, anomalie e paradossi - ha ancora un senso, che viene colto attra• verso l'indagine storica dei "quadri concettuali" che la sistemazione "rigorosa" oggi dominante ha sconfitto. L'analisi concettuale chiede qui aiuto alla storia (come appunto voleva Enriques, negli anni Trenta del nostro secolo) - e come di fatto aveva già realizzato, per esempio, il grande logico e algebrista Augustus De Morgan, in quel On Jnfinity and on the Sign o/ Equality del 1864 che mostra come quella dello storico (della scienza) sia un'arte dell'interpretazione, una specie di riscoperta di un •senso• che le realizzazioni successive hanno spesso cancellato. Anche se lo zero è stato ammesso tra i •numeri•, esso resta sostanrialmente estraneo alle "quantità", poiché - scrive appunto De Morgan - "in realtà O significa la totale assenza della quantità". Dunque, 'non dovremmo stupirci troppo quando scopriamo che questo simbolo non obbedisce a tutte le leggi della quantità, per quanto si intenda ii tennine quantità nella sua accezione estrema e più forzata". La storia dello zero, dall'India all'Europa, come abbiamo visto, è una · storia di slittamenti di significato, di tensioni di concetto, di forzature dell'immaginazione, di allargamento delle nostre categorie (come, appunto, 'quantità") fino all'inclusione del "caso estremo". Ora, "nel significato più stretto, noi capiamo certo O + a, a + O, a - O; e neppure O - a [cioè la quantità negativa!] presenta alcuna difficoltà di questa natura. Neppure troviamo una qualche ragione per fermarci di fronte a O + O, O + O + O, ecc. e neppure a n • O. Semmai abbiamo una momentanea esitazione con O • n e ne troviamo l'interpretazione in consideriamo n per una qualche operazione, ma, in realtà, non utilizziamo alcuna sua parte. Quanto a O : O esso è una buona traduzione [a true translation] di non ce ne ~ nessuno, e se anche ce ne fossero, non te ne toccherebbe alcuno. In tutti questi casi - ragiona De Morgan - il segno O sostituisce un termine da cui potremmo trarre qualcosa (something), con uno da cui si ottiene nulla (nothing). "Ma quando collochiamo O al denominatore di una frazione la domanda è invece quante assenze totali di quantità messe insieme ci daranno il numeratore?" La risposta dipende dal numeratore di questa frazione, cioè dal numero che vorremmo dividere per O. Se tale numeratore è anch'esso zero, la risposta è qualsiasi numero n, poiché qualsiasi sia n, O · n = O; se però il numeratore è diverso da zero, la risposta è nessun numero. Ora, perché il risultato della divisione per zero sia definito, occorre che esista e sia unico; ma nel primo caso cade la condizione di unicità; nel secondo caso quella di esistenza.

Nulla, vuoto, :zero

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Figura 2 (1) (2) (3) (4)

(5) (6)

X

= l

x2 = X :x2 - l = x (x + 1) (x x + l = 1 2 = 1

- 1 1)

=x

-

1

Il paradosso di De Morgan.

Ma, giunto a questo punto, De Morgan non finisce dichiarando chiusa la questione, come farebbe, pressoché un secolo dopo, qualsiasi neopositivista: la riflessione - concettuale e storica a un tempo - è appena cominciata. Nel testo del 1864 De Morgan si finge un insegnante che presenta ai suoi allievi "una sorta di scherzo" e domanda loro di scoprire il trucco. Cominciamo col supporre che una certa quantità, diciamo x, sia uguale a 1. Facciamo vedere che da questa "innocente» supposizione segue nientemeno che I è uguale a 2. L'insegnante scrive alla lavagna l'algoritmo con cui ottiene il suo "assurdo" risultato (Figura 2) e invita gli allievi ad analizzarlo. per scoprire "quale passo è illegale". Facciamolo anche noi: abbiamo scritto (I) per ipotesi, (2) si ottiene da (1) moltiplicando entrambi i membri per x; passiamo a (3) sottraendo 1 da entrambi i.membri. Poi: applichiamo la regola che ci dice che il prodotto della somma di due numeri per la loro differenza è uguale alla differenza dei loro quadrati e riscriviamo la (3) nella forma (4); dividiamo entrambi i membri della (4) per x - 1, ottenendo così la (5). Da essa, ricordando che abbiamo supposto (1), cioè che x sia uguale a 1 otteniamo la (6). Il passo "pericoloso" è presto individuato: abbiamo ricavato dalla (4) la (5) dividendo entrambi i membri della (4) per x - 1 dimenticando che avevamo premesso che x è uguale a I e dunque x - 1 è zero. "Che anche in matematica ogni cosa non sia proprio la migliore, in questo mondo che pure è il migliore dei mondi possibili - commenta il logico Patrick Suppes - lo ricorda proprio la vexata quaestio della divisione per zero". Tagliare il nodo gordiano è, come abbiamo anticipato, la soluzione più drastica, quella (apparentemente) più semplice,

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Lo spellro e il libertino

esplicitamente o implicitamente suggerita nella stragrande maggioranza dei manuali. Lo zero non pare dunque molto fortunato: dopo la messa in guardia (almeno aristotelica) circa il trattare il "puro nulla" alla stregua di "qualcosa", usare lo zero come divisore è severamente vietato ai maggiori di 14 anni. Ma i grandi matematici del passato hanno di fatto infranto il divieto e in questo modo ci hanno rivelato lo spettacolo della "grande connessione", come dice ancora De Morgan, tra • infinito• e •nulla". Newton: da zero all'infinito Ma quale poteva mai essere l'intuizione sottostante a questa infrazione? "Se supponiamo - dice De Morgan - che x passi attraverso tutti gli stadi di una diminuzione, e divenga infine O ••• dobbiamo supporre che il reciproco x-1 passi attraverso tutti gli stadi dell'accrescimento" fino a una sorta di "termine": questo non è altro che "lo 1/0 dell'algebra, detto usualmente l'infinito". A De Morgan pareva che i grandi creatori del Calcolo avessero proceduto secondo uno schema come il seguente: a) la divisione per zero di un qualsiasi "numero" usuale (cioè "finito", ma diverso da zero) giustifica l'introduzione del "numero infinito"; b) la divisione per l'infinito di un qualsiasi numero finito è anch'essa ammessa: e) quel che si riottiene secondo alcuni è ancora zero; secondo altri - per esempio Leibniz (tenace propugnatore della tesi secondo la quale il nostro è il migliore dei mondi possibili) - quel che si ottiene da quell'operazione non è •esattamente" zero, ma una nuova entità "infinitamente vicina a zero", una quantità "minore di ogni quantità assegnabile" (cioè di ogni quantità finita) ma "a rigore" diversa da zero. Tutto ciò è una •fallacia• (come De Morgan stesso si domanda)? O un •enigma", come scrissero non pochi protagonisti della vicenda (come Leibniz o Lazare Camot)? O semplicemente un volgare "trucco", come insinuò il vescovo Berkeley, martellando spietatamente i "matematici infecfeli" dell'epoca sua? Ancora nell'Ottocento, il secolo del • rigore matematico", uno spirito critico come De Morgan si dichiarava insoddisfatto della "pura e semplice" manipolazione dei simboli che pareva dominare la pratica algebrica e al tempo stesso convinto .che le difficoltà in cui si erano imbattuti i matematici del passato, "non potessero semplicemente venir liquidate con esclusioni per convenzione". E così terminava la sua perorazione contro il convenzionalismo matematico spinto ali 'estremo: "Da una parte io asserisco il vero significato di O, una totale assenza di quantità; dall'altra, io sono completamente convinto che non dobbiamo considerare l'algebra come fondata in modo soddisfacente finché ogni manipolazione di simboli non abbia ricevuto la sua interpretazione. Ma il problema è che non si è sicuri che ogni interpretazione in uso sia consistente con se stessa e con le altre".

Nulla, vuoto, zero

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Proponiamo al lettore di mettere in pratica il tipo di analisi delineato da De Morgan su un testo dell'"epoca eroica" del Calcolo. Si tratta di un passo di Isaac Newton tratto da Certain Phi/osophical Questions, il celebre Newton's Trinity Notebook che è disponibile ora in una splendida edizione dovuta a J. MacGuire e Martin Tamny: il passo in questione, intitolato O/ Quantity, concerne il problema delle frazioni con denominatore zero: "2/0 è doppio di 1/0 e 0/1 è doppio di 0/2: infatti, moltiplicando i primi due per O e dividendo gli altri due per O, risulta rispettivamente 2/1 : 1/1 e 1/1 : 1/2". Innanzitutto, Newton qui offre già una variazione sul tema caro a Bhiiskara: sia 1 : O che 2 : O dànno infinito, ma si tratta di due infiniti diversi, che stanno tra di loro come 2 e 1. Ancor più stravagante può apparirci l'asserzione che O : 1 e O : 2 stiano tra loro, di nuovo, come 2 e 1. Potremmo subito obiettare che, essendo entrambi zero, il loro rapporto è indeterminato! Ancor più interessante è che obiezioni del genere avrebbero potuto rivolgerle direttamente a Newton (se il manoscritto fosse stato pubblicato) i suoi stessi contemporanei. Il fatto è che "l'interpretazione in uso" newtoniana contrastava con quella che, con lentezza, si era imposta tra gli aritmetici del tardo Medio Evo e del Rinascimento e che consisteva nel considerare lo zero come il numero del "posto vuoto". Nel testo newtoniano, come McGuire e Tamny sottolineano nella loro Introduzione, "O non è tanto un numero, quanto il primo principio, non numerico, del numero: e non è un numero, in senso stretto del termine, dal momento che non è misurato dall'unità". Piuttosto esso è il risultato di una "strana" procedura infinitaria: la divisione di una unità un infinito numero di volte! Anzi, "da come Newton usa O, questo sembra addirittura definito dividendo l'unità un numero infinito di volte". Conseguentemente anche 1/0, 2/0; ecc. e 0/1, 0/2, ecc. non sono numeri, in senso stretto: essi infatti non sono "misurati" dall'unità. Quest'antica concezione \"numero" è ciò che l'unità misura: come volevano pitagorici, platonici e aristotelici) qui non è p;ù però il selettore che respinge fuori della conoscenza l'infinito (anch'esso ridotto a qualcosa di "negativo", la semplice assenza di un termine, cioè qualcosa di "indeterminato" o "indefinito"}, ma il generatore di una nuova specie di entità, che saremmo tentati di definire gli "infiniti" (come 1/0, 2/0, ecc.). t lo studio di questi nuovi enti che costituisce l'esplorazione di quelli che Edmund Halley, il grande astronomo amico di Newton, chiamava "gli abissi dell'infinito". Essi sono letteralmente inconfrontabili con le usuali "quantità finite": nel medesimo manoscritto, alle righe immediatamente successive, Newton osserva che, proprio in virtù di tale inconfrontabilità, 2/0 e 1/0 "devono essere considerate uguali rispetto all'unità": e altrettanto va detto di 0/1 e .0/2. Gottfried Wilhelm Leibniz, il grande rivale di Newton doveva qualche decennio dopo utilizzare, in un ordine di idee per certi versi analogo (ma

+4

Lo spettro e il libertino

conseguito indipendentemente), la parola "indistinguibili" al posto di "uguali"; e Lconhard Euler, in pieno Settecento, doveva riprendere questo calcolo "degli zeri e dei loro reciproci", movendo dalla premessa che O/ I, 0/2 non sono affatto "puri nulla", ma una sorta di "zeri relativi" che racchiudono in sé, grazie alla stessa scrittura simbolica, la traccia del •processo• intellettuale con cui si è stati portati a concepirli (e ciò vale, una volta prese le opportune cautele, anche per la stessa "forma indeterminata" 0/0, nonché, ovviamente, per gli "infiniti" come 1/0, 2/0, ecc.). Così, di fronte all'infinito - proclamava Newton - è il finito che resta • indefinito, cioè indeterminato: per quanto grande una sfera possa mai esser fatta, per quanto grande un numero possa venir contato, per quanto divisibile risulti la materia, per quanto tempo o estensione noi possiamo immaginarci". Invece "l'eternità e a/O sono infiniti"

Capitolo III

Dare "numeri" alle "cose" LEPORELLO

Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio; un catalogo egli è che ho fatt'io; osservate, leggete con me. In Italia seicento e quaranta; in Allemagna duecento e trentuna; cento in Francia; in Turchia novantuna; ma in !spegna son già mille e tre. (Atto I, scena V)

Zero, uno ... infinito Aristotele (nel primo libro della Metafisica) a proposito dei Pitagorici: "Pareva loro evidente che tutte le altre cose modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero l'essenza primordiale di tutto l'universo fisico; e per tutte queste ragioni essi concepirono gli clementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l'intero cielo come armonia e numero". E l'eredità più profonda della "setta dei Pitagorici• pare ancor oggi l'idea che il "numero" rappresenti la chiave per strappare al Mondo i suoi segreti: cosmologie rivali si sono succedute nei secoli, ma la convinzione che aveva animato Pitagora, che "attese allo studio aritmetico della geometria" e fu "il primo a introdurre in Grecia misure pesi ... e a identificare Vespero con Lucifero" (come dice nelle Vite Diogene Laerzio), costituisce una sorta di filo d'Arianna dalle prime speculazioni "sulla natura delle cose" agli sviluppi più raffinati delle teorie fisiche di oggi. Dare "numeri" alle "cose• ha costituito via via la leva della "rivoluzione galileiana", lo strumento di grandi sintesi scientifiche come quella di Newton (o di Einstein, o di Heisenberg), il segno della maturità di una scienza (tale era, per esempio l'opinione di Kant) o del distacco profondo dal "mondo della vita" (Husserl). In questo senso scienza e filosofia hanno giocato con i numeri, non meno dell'antica gema/ria, la tendenza "magica" ad associare ai numeri significati iniziatici. "SOCRATE .... Un uomo tale [il matematico] potrà mai da sé a sé fare calcoli di numeri che abbia solo nella mente; o farà altri calcoli di cose che sono fuori di lui, fra quante sono numerabili? TEETETO. E come no? SOCRATE. Ma fare un calcolo non è altro, diremo, che computare quanto un numero viene a essere" (Platone,

Teeteto).

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LD spettro e il libertino

Questo è forse il tipo di calcolo piti · semplice che si conosca. Ma ciò che noi oggi chiamiamo la successione dei numeri naturali (zero e poi I, 2, 3, 4, 6, ... , ad i11finit11111) è già una conquista. Alcune culture, per esempio, non sono riuscite nemmeno a realizzare che l'operazione del contare può venir prolungata quanto si vuole. Eppure l'universo matematico di queste culture "primitive" (per esempio: nulla, uno, due, tre, molti) può anche essere una strullura perfetta• mente consistente (anche se un'aritmetica in cui O + O = O, O + 1 1, 1 I 2, 2 + 2 molti sembra a noi estremamente povera). Dunque ci si imballe ben presto nella difficoltà di comprendere l'infinito. Non è vero, almeno psicologicamente, che anche per noi ci sono numeri così grandi che paiono non aver nome? E: la situazione enigmatica che Archimede affrontava nelle prime righe dell'Arenario: "Alcuni pensano, o re Gelone, che il numero dei granelli della sabbia sia infinito in quantità: dico non solo quello dei granelli che sono intorno a Siracusa e nel resto della Sicilia, ma anche di quello dei granelli che sono in ogni regione, sia abitata sia non abitata ... Vi sono poi alcuni che ritengono che quel numero non sia infinito, ma che non si possa nominare un numero che superi la sua quantità" (corsivo nostro). Gli alluali sistemi posizionali (per esempio quello decimale) permettono, in linea di principio, di esprimere numeri comunque grandi: basti pensare che, per esempio, è lecito scrivere, dopo l'unità, tanti zeri quanti si vogliono. Certo, può essere incomodo contare tanti zeri per stabilire il nome del numero. Ma ci sono utili espedienti: per esempio, nel sistema decimale, quello di ricorrere alle potenze di base 10: per esempio 3 • IOS° invece che 3 seguito da ottanta zeri, poiché l'esponente ne indica appunto il numero. "Dei numeri da noi denominati - si legge ancora nell'Arenario alcuni superano non soltanto il numero dei granelli di sabbia aventi [nell'insieme] grandezza uguale alla terra ... , ma anche grandezza uguale al cosmo". Per 'dimostrarlo' Archimede stabilisce anzitutto le dimensioni di un granello di sabbia, convenendo a tale scopo che un seme di papavero non contenga più di una miriade di granelli (cioè 10000). Passa poi alla sfera avente il diametro di un dito e suppone che tale diametro non sia più di quaranta volte il diametro del seme di papavero: ciò comporta che la sfera del diametro di un dito non è più di 64000 volte un seme di papavero. Passa quindi alla sfera avente il diametro di uno stadio, sfera che è minore di quella avente il diametro di diecimila dita; poi alla sfera del cosmo (la sfera avente il centro nel centro della Terra e per raggio la distanza tra i centri della Terra e del Sole), il cui diametro ritiene sia minore di cento miriadi di miriadi di stadi. E finalmente considera la sfera delle stelle fisse, il cui diametro ritiene minore di una miriade di volte il diametro del cosmo.

=

+ =

=

Dare •numeri' alle •cose•

47

A conti fatti, ci si ritrova con un numero tipo 10b3, cioè una unità seguita da 63 zeri. Una opportuna notazione - che include l'uso spregiudicato dello zero - riduce a routine per il "computista" addestrato quel che nell'età classica era per il sapere comune ancora un divieto. "Queste cose poi, o re Gelone - concludeva l'Arenario ritengo che sembreranno incredibili ai molti che sono inesperti nella matematica, ma che saranno credibili, mediante le dimostrazioni, per coloro che sono versati e che abbiano meditato sulle distanze e sulle grandezze della Terra, del Sole, della Luna e di tutto il cosmo". L'infinito - come abbiamo visto nel capitolo II - è anche collegato col "nulla", cioè con lo zero, cosl estraneo alla mentalità greca per cui il numero, come vuole la tradizione aristotelica, è sempre numero di qualcosa. Ci separa dalla "aritmetica" del mondo greco e alessandrino non solo il possesso di una notazione più duttile, ma un diverso modo di intendere i numeri. Negli anni Trenta lo storico J. Klein ricordava che, quando i greci - come Platone in un passo celebre della Repubblica - parlano di numeri che hanno "corpi visibili e tangibili•, occorre prenderli pressoché alla lettera. Certamente, anche il numero 'puro' cui oggi siamo abituati (cioè senza qualificazione, senza cioè intendere "numero di qualcosa") può venir considerato tanto "concreto" quanto un dato numero di pere, bambini, pietruzze, ecc.: circa cent'anni fa, il logico Gottlob Frege era solito dire che il "numero è una cosa". Quel che caratterizza l'arithmos, cioè il "numero" dei Greci, è piuttosto, come diceva Klein, una "doppia determinatezza": si tratta sempre di un numero di oggetti determinati in un dato modo e scopo del numero è dirci che ci sono "tanti" di quegli oggetti (e non uno di meno o di più). Non c'è da stupirsi dunque se nelle testimonianze ci si imbatte di frequente in affermazioni tipo "uno non è un numero" o "uno non è né pari né dispari", ecc. Che l'unità o monade sia principio del numero e non numero pare bizzarro solo se si presuppone la successione dei numeri naturali come oggi la concepiamo. Giamblico rimprovera di palese assurdità il filosofo Crisippo di Soli (lii secolo a.C.) che avrebbe parlato di "moltitudine uno"; lo storico della matematica Heath vi ha scorto invece un primo tentativo di "far rientrare l nel concetto di numero". Come ha osservato David Bloor (1976), "quel che Giamblico prendeva per una confusione, oggi noi lo teniamo per certo ... La palese assurdità potrebbe rivelarsi una funzione della classificazione sottostante che vien data per scontaìa. La classificazione usuale dei numeri pr.!sso gli antichi Greci è chiaramente differente dalla nostra. Differenti risulteranno quindi le violazioni dell'ordine e della coerenza, differenti, di conseguenza, saranno le confusioni e le contraddizioni". L'infrazione è diventata nuova regola. Nella sua Arithmetique (1585) Simon Stevin, dopo aver detto che "l'aritmetica è la scienza dei nu-

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meri" e che "numero è ciò mediante cui si esplica la quantità di ogni cosa•, aggiunge subito che l'unité est nombre, 'uno' è un numero. Contro l'opinione di "vecchi e nuovi filosofi" Stevin ribatte di essere certo di tale tesi "come se la Natura stessa [glielo] avesse confidato di sua bocca". La parte - dice Stevin - è "della stessa materian del tutto; l'unità è parte di una moltitudine di unità ma la matière de multi/ude d'unitez est nombre, quindi "materia" dell'unità è il numero, ovvero l'unità è essa stessa un numero. Stevin ha fondato così una nuova classificazione "naturale": ed è in questo quadro che andrà collocato l'abbandono della assimilazione classica della "unità" aritmetica al "punton geometrico e il conseguente slittamento della nozione di "punto", correlata invece allo zero, inteso come il limite della progressiva diminuzione della quantità (cfr. oltre, a p. 83 la citazione da Barrow).

V arie specie di numeri Spostiamoci di qualche secolo. La seconda metà dell'Ottocento ha visto la sistemazione assiomatica di molte nozioni base della matematica. Quella di numero (in particolare di numero naturale) non ha fatto eccezione. Nel curioso latino sine f[exione di Giuseppe Peana l'idea che le proprietà essenziali della successione dei naturali si possano sistematizzare mediante un opportuno sistema assiomatico è formulata come segue: Nos sume tres idea N, b, • ut idea primitivo, per que nos defini omni simbolo de Arithmetica; si assumono cioè come idee primitive, mediante le quali definire ogni altra idea aritmetica, N, b, •, che designano rispettivamente numero (naturale), zero e successore; Nos determina valore de symbolo non definito N, B, • per systema de propositio primitivo seguente, ovvero "il valore" di tali simboli primitivi viene fissato da "proposizioni primitive" o assiomi come elr.ncati nella figura 3. I numeri naturali (o interi senza segno) non sono gli unici numeri con cui l'umanità ha calcolato. Oltre ad aggettivi come 'uno, due, tre', ... anche le lingue più primitive hanno termini quali 'un mezzo', 'un terzo', 'un quarto'; dire invece che segni quali -1 o ,[2, stanno per "numeri" è uso di questi ultimi secoli. Questo sviluppo è appunto connesso con la pratica del calcolo. Supponiamo che la considerazione di un problema della vita di tutti i giorni ci abbia portato a formulare l'equazione x + 3000 2000 (pensiamo a un cliente di una banca che vuol sapere a quanti dollari ammontava il suo deposito prima di portare il conto a 2000 dollari versandone 3000). L'equazione non si risolve in termini di numeri naturali, ma se ammettiamo "numeri negativi" possiamo scrivere x = -1000 (il cliente aveva con la banca un debito di 1000 dollari). Presumibilmente i primi pitagorici rappresentavano i segmenti di retta come sequenze (finite) di "monadi" o "unità",

=

Dare •numeri• alle •cose•

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Figura 3 (1)

(2) (3) (4) (5)

b è un N. Per ogni x, sex è un N, allora X"' è un N. Per ogni x, sex è un Ne y è un Ne x* = y*, allora x = y. Per ogni x, sex è un N, allora b =I X"'. Per ogni F [se b è un F e per ogni x (sex è un F allora x* è un F)] allora per ogni y (se y è un N, allora y è un F).

Gli assiomi di Dekekind-Peano per i numeri narurali. Negli assiomi 1-5 compaiono i segni primitivi specifici b, N, •. Nell'interpretazione abituale b desi· gna il numero O; se• .... • designa un numero naturale n. allora• ... •· designa n+ I e N designa l'insieme dei naturali. Gli assiomi si leggono dunque: I) O è un numero; 2) il successore di un numero è un numero; 3) se due numeri hanno successori uguali, allora sono uguali; 4) O non è il successore di alcun numero; 5) se F è una classe tale che O appaniene a F e inoltre per ogni numero ;;e sex appaniene a F allora anche ;;e+ I appaniene a F, allora F con• tiene la classe N. Ma questa non è che una delle infinite interpretazioni degli assiomi 1-5.

identificate con dei "punti": in linea di prmc1pto, non c'è difficoltà

ad ammettere una rappresentazione per così dire speculare in modo da consentire una rappresentazione analoga anche per gli interi negativi. L'ostacolo maggiore all'accettazione dei numeri negativi (numeri ficti come vennero a lungo chiamati), ancora nei primi decenni

dell'Ottocento, va visto piuttosto nella stretta e persistente associazione di numero e di quantità e nella conseguente remora a considerare qualcosa come una quantità negativa. (Come abbiamo visto, . si tratta dello stesso ostacolo che agiva contro la piena accettazione dello zero, nonostante gli indubbi vantaggi olferti da questo nella "arte del computo" e pur in presenza - si veda p. 36 - di interpretazioni intuitive che rendevano plausibili tali estensioni). Ben più antiche dei numeri ficti sono le frazioni. La loro introduzione può venir comunque motivata in modo analogo a quella dei numeri relativi (cioè positiv.i e negativi): per esempio, dobbiamo am-

Lo spettro e il libertino

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Figura 4 (l) (2) (3)

(a, b) (a, b) (a, b)

d) se e solo se a + d = b (e, d) (a+c, b+d) X (e, d) = (ac+bd, ad+bc).

= (e,

+e

+

li calcolo degli inJeri relarM come calcolo di coppie (ordinate) di numeri naturali. Le con\'enzioni I. 2. 3 consentono di definire per coppie (ordinate) di narurali uguagliam:.a, samma e prodotto rispet1ivamen1e. In forza della I) ogni coppia è uguale (nel senso definito) a una coppia (a. O) o (O. h). con a e b narurali. Se per tali coppie standard introduciamo le abbreviazioni +a per (a, O} e -b per (O, b) ritroviamo gli ormai familiari numeri (interi) .. con segno ...

mettere •numeri" come 3/2 per parlare di soluzione esatta di equazioni come 2x - 3 = O. Con tali numeri razionali la nostra capacità di studiare "aritmeticamente" un ente geometrico come la retta è notevolmente aumentata. Infatti, Ira due distinte frazioni possiamo sempre trovarne un'altra "intermedia": il che è come dire che vi è un'infinità di frazioni in qualsiasi intervallo finito. L'ampliamento del sistema dei naturali con gli interi relativi e con le frazioni può essere presentato in modo rigoroso come una riduzione del calcolo dei "debiti e crediti", rispettivamente di quello delle "frazioni• a calcoli di coppie (ordinate) di numeri naturali (si veda la figura 4), rispettivamente di coppie (ordinate) di numeri interi (relativi) (figura 5), secondo un punto di vista affermatosi nell'Ottocento e divenuto oggi familiare. Tuttavia non dobbiamo presumere di aver individùato con tali ampliamenti tu/li i punti della retta. A suo tempo l'immagine della scienza dei pitagorici venne messa in crisi dalla "scoperta" del fatto che, se costruiamo un quadrato il cui lato ha lunghezza di un'unità e se, a partire dall'origine del lato, tracciamo la diagonale del quadrato (figura 6) il punto che individuiamo sulla retta non è uno di quelli cui sinora abbiamo assegnato numeri. Infatti: supponiamo che (0) la diagonale e il lato del quadrato siano "commensurabili", cioè che (I) la misura comune dei due segmenti sia contenuta un numero intero di volte p nella diagonale e q nel lato, il che è come dire che al punto che sulla retta (si veda .mcora la figura 6) corrisponde alla diagonale del quadrato di lato

Dare •numeri' alle •cose•

51

Figura S

=

(1)

(a, b)

(2) (3)

(a, b) + (e, d) (a, b) x (e, d)

(e, d) se e solo se ad

= (ad+bc,

= (ac,

= be

bd)

bd).

Il calcolo dei numeri razionali come calcolo di coppie (ordinale) di numeri interi (rela1ivi). Le convenzioni 1, 2. 3 consemono di definire per !ali coppie uguaglianza, somma e prodotto rispenivameme. A esse viene usualmenle aggiun1a la reslrizione che il secondo numero di ogni coppia sia diverso da O. Ciò corrisponde, ovviameme, al divie10 della divisione per zero (cfr. qui pp. 39 - 41). Se si scrive a/b invece che (a. b) si ri1rova immedia1amen1e rormai familiare calcolo con le frazioni ("con segno").

unitario si può assegnare una frazione p/ q; inoltre ( l ') possiamo assumere senza problema che p e q siano due numeri primi tra loro, cioè che 1 sia il massimo dei divisori comuni a p e q (un altro modo di esprimere ciò è dire che la frazione p/q è ridotta ai minimi termini); ora (2) per il teorema di Pitagora, il quadrato della diagonale è uguale al doppio del quadrato del lato p2 2q2: (3) di conseguenza p2 è pari; (4) onde anche p è pari e possiamo scrivere p 2r, onde, sostituendo nella (2), otteniamo (5) 4r 2q2, ovvero (6) q2, onde (7) anche q7- è pari e dunque anche q è pari ma (7') poiché p era pari per la (4) e p e q sono primi tra loro per la ( l ') q non può che essere dispari (altrimenti il massimo comun divisore di p e q sarebbe 2 o un suo multiplo); ma un numero non può essere al tempo stesso pari e dispari. Si può solo congetturare chi sia stato per primo a comprendere "l'incommensurabilità della diagonale col lato del quadrato" ovvero, , come leggiamo abitualmente nei manuali della nostra scuola media, "l'irrazionalità di V2". Anche le motivazioni e la via seguita per tale scoperta sono materia di pura supposizione; è invece chiaro che questo risultato era strettamente connesso a uno dei più brillanti successi dei pitagorici (il celebre "teorema di Pitagora": per averlo scoperto l'antico sapiente sacrificò cento buoi) e quindi non poteva essere a lungo accantonato come una semplice "anomalia", ma finiva col minare l'intera cosmologia pitagorica. La dimostrazione di cui sopra, osserva David Bloor (1976), "a rigore mostra solo che V2 non è numero razionale; ma per noi non

=

=

2r =

=

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Lo spettro e il libertino

Figura 6

Costruzione ,ulla rena dell'immagine di

V2.

c'è evidentemente altro significato: se V2 non è un numero razionale è certo un numero irrazionale. Ma non era questo che provava per i Greci. Per essi provava invece che v2 non era affatto un numero ... Cosa davvero dimostra, allora, una tale dimostrazione? Che V2 è irrazionale o che non è un numero? La risposta dipende dalle assunzioni di sfondo circa il numero con le quali si considera lo stesso processo di calcolo". La terminologia stessa è signifìcativa: al greco a/ogos per 'irrazionale' (cioè 'non esprimibile con un rapporto numerico'), si affiancano termini come arrhetos, cioè ou rhetos 'non dicibile', ametros 'incommensurabile' o addirittura ouk en arithmois cioè 'non numero', "termini non rigorosamente sinonimi" che insistono rispettivamente sulle difficoltà di espressione (cioè di notazione), sulla dicotomia continuo (geometria)/discreto (aritmetica), sull'esclusione degli irrazionali dai •numeri•. In una cultura meno sensibile alle rigide distinzioni concettuali, la "crisi" non sarebbe apparsa tale. Come dice Bloor, "al contrario che nel caso dei pitagorici, giorno e notte, buono e cattivo, bianco e nero, ecc. non sarebbero parsi degli opposti così irriducibili e ovvii. Dopo tutto, la notte sfuma nel giorno, il buono nel cattivo e il nero nel bianco... Una simile cosmologia sarebbe stata ancora intelligibile, e avrebbe potuto anzi essere notevolmente sofìsticata. li calcolo [su cui si regge la dimostrazione della irrazionalità di v2], interpretato come una dimostrazione che i numeri possono essere pari e dispari, non avrebbe creato problemi, anzi avrebbe ulteriormente confermato l'idea che rigidi confini non sono realistici". Ma la forza dell'astrazione matematica finiva a sua volta per non lasciare spazio a cosmologie siffatte.

Dare • numeri• alle •cose•

53

Teoria eudossiana delle grandezze, approssimazioni e teoria "aritmetica» dei numeri reali

"Le persone alle quali il Re mi aveva affidato, osservando com'ero mal vestito, diedero ordine a un sarto di recarsi da me il giorno dopo, e di prendermi le misure. Il sarto, a differenza dei suoi colleghi europei, si attenne al seguente metodo: prese l'altezza a mezzo di un quadrante, poi con la squadra e i compassi descrisse sulla carta dimensioni e lineamenti della mia persona, e in capo a sei giorni mi portò un vestito malissimo fatto e che non mi si attagliava punto. Gli è che s'era sbagliato di uno zero nel calcolare". Così Lemuel Gulliver a Laputa. Errori di uno zero possono letteralmente 'de-stabilizzare' un modello matematico di un processo reale; ma il procedere "con squadra e compasso" sembra la via migliore quando (vedi la figura 6) la determinazione numerica sembra impossibile. La descrizione dell'ordine del mondo attraverso frazioni, cioè coppie di interi (senza segno) aveva costituito il nucleo del primo pitagorismo. È attraverso una proporzione (cioè attraverso l'uguaglianza di due rapporti ovvero di due frazioni) che si può "trasferire" una determinazione numerica da una coppia A, B di "grandezzen omogenee (cioè dello stesso genere) a due altre "grandezze" C, D tra loro omogenee (ma non necessariamente dello stesso genere delle due precedenti). È presumibile infine che l'originaria teoria pitagorica delle proporzioni si basasse su una definizione che si può riassumere nel modo seguente: date quattro grandezze A, B, C, D a dué a due omogenee, si dice che esse sono in proporzione quando esistono due interi m e n tali che (1/m) A (1/n) B e (1/m) C (1/n) D. Il controllo se le quattro grandezze date erano o no davvero in proporzione consisteva evidentemente nella ricerca di un sottomultiplo comune ad A e a B e di un sottomultiplo comune a C e D. Supponiamo, infatti, che il primo stia m' volte in A e n' volte in B e il secondo m" in C e n" volte in D; se, soppressi i fattori comuni a m' e n' e soppressi quelli comuni a m" e n" si ottengono - da entrambe le coppie - i medesimi numeri m e n, le quattro grandezze date formeranno una proporzione; se invece si ottengono numeri diversi, esse non formeranno una proporzione. Si comprende quindi come la scoperta di coppie di grandezze omogenee incommensurabili (per esempio, tra le lunghezze, la diagonale e il lato del quadrato) inducesse una "crisi" nel programma pitagorico. Se, infatti, A e B sono incommensurabili (e altrettanto C e Dl. non esiste più alcun sottomultiplo comune alle prime due (né alle due ultime) e quindi viene a mancare la via attraverso cui decidere se A, B, C, D formeranno o no una proporzione. Non restavano ai greci che due possibilità: o riconoscere che le

=

=

54

-

Lo spettro e Il libertino

quattro grandezze predette si trovano in una situazione ambigua (né proporzionalità né non proporzionalità) o ammettere che la definizione di proporzione è difettosa. La prima 'soluzione' sarebbe però apparsa a dei teorici appassionati alle distinzioni concettuali ben definite (si veda p. 52) una pseudosoluzione; non restava che la seconda via. Come è noto, a Eudosso di Cnido (IV. secolo a.C.) si deve quella ricostruzione della teoria delle proporzioni che permette di scindere tale grande strumento di comprensione dal destino del pitagorismo in senso stretto. Eudosso "fatto esperto dalle teorie sofistiche sulla molteplicità dei linguaggi" imperniò la sua nuova teoria su una definizione di proporzione "contorta e artificiosa", se considerata secondo il vecchio schema concettuale ma "capace di evitare... dubbi o equivoci" una volta conseguito un più alto livello di astrazione (L. Geymonat, 1962). Ecco le parole con cui essa viene esposta da Euclide all'inizio del libro V degli Elementi: "Si dice che il rapporto di una prima grandezza a una seconda è uguale a quello di una terza ad una quarta, quando presi degli equimulripli qualsiasi della prima e della terza, e degli equimultipli qualsiasi della seconda e della quarta, se il multiplo della prima è maggiore del multiplo della seconda, anche il multiplo della terza sia maggiore del multiplo della quarta; se eguale, eguale; se minore, minore". In termini per noi più semplici: A, B, C, D si dicono in proporzione allorché, per due interi qualunque m e n, a seconda che n A sia minore, uguale o maggiore di m B, rispettivamente risulta che n C è minore, uguale o maggiore di m D. Ma - come avremo modo di osservare in seguito (si veda soprattutto p. 324) - man mano che si producono nuove e "più complete" astrazioni dovremmo aspettarci che esse includano le astrazioni che ~ hanno precedute. Per quanto concerne la teoria delle proporzioni facile constatare che nel caso particolare della commensurabilità .a A e B, C e D, la nuova definizione si riduce alla precedente; essa risulta tuttavia applicabile anche al caso della incommensurabilità. Può quindi prescindere dal fatto che le grandezze siano o no commensurabili, e quindi dar luogo a teoremi indifferentemente applicabili alle grandezze commensurabili o incommensurabili. Questi teoremi, - pervenuti a noi negli Elementi di Euclide - hanno costituito, nei secoli, le pietre dì "un impareggiabile edificio di precisione logica; la loro perfezione dipende dal fatto che il termine 'proporzione' conserva costantemente in essi il significato eudossiano, non turbato da vaghi riferimenti intuitivi" (L. Geymonat). Ma non si deve dimenticare che la teoria eudossiana è una teoria delle "grandezze". non dei "numeri": le generazioni successive di matematici la considerarono applicabile solo alla geometria e assunsero di conseguenza l'atteggiamento per cui solo quest'ultima è rigorosa. Questo nucleo "rigido" o "euclideo". della conoscenza matematica ha però costituito anche

Dare "numeri" alle "cose•

55

un punto di riferimento per la valutazione delle stesse tecniche di calcolo che impiegavano le "nuove specie di numeri". Basti solo un esempio: lo storico della matematica Cari Boyer tratta (1949) come un reazionario il matematico lsaac Barrow che, nella seconda metà del Seicento, vedeva ancora l'aritmetica sottoposta alla geometria e diffidava delle troppo disinvolte manipolazioni di simboli cui ricorrevano gli algebristi. Ma Boyer è ingiusto: Barrow (1964) afferma infatti: "un numero matematico non è alcunché che abbia una esistenza propria, ma solo un marchio o un segno [nota quaedam vel signum] di una grandezza considerata in un certo modo" e distingue poi, secondo l'uso corrente, tra "numeri interi, fratti [ razionali] e sordi [ irrazionali]". Il tennine surdus per il nostro "numero irrazionale" non è altro che una corruzione da absurdus (come dire, i numeri irrazionali sono • numeri assurdi•, ovvero è assurdo ammetterli "tra i numeri", dr. p. 52). Ma Barrow aggiunge subito che è grazie alla teoria delle proporzioni che si definiscono questi pretesi • numeri assurdi• lper esempio, V2 non è altro che la nota di una grandezza che è media proporzionale tra due grandezze omogenee, che sono l'una il doppio dell'altra); inoltre, proprio perché tutti i numeri (dunque anche i razionali o addirittura gli interi) non sono che notae di grandezze geometriche non c'è ragione alcuna di mantenere artificiose esclusioni. • Per quanto concerne questi numeri sordi (che vengono chiamati anche irrazionali, ineffabili, irregolari, inesplicabili, non per loro colpa, ma quasi per calunnia e oltraggio), molti negano che siano numeri in senso proprio e, dopo averli esclusi dall'aritmetica, solgono relegarli nel dominio di un'altra scienza, cioè dell'algebra (che però non è scienza affatto). In questo modo mutilano l'aritmetica di un suo membro grande e utile"; e Barrow conclude (ricorrendo a un argomento che vedremo essere già di Galileo cfr. p. 128) "quando misuriamo le grandezze e le paragoniamo tra loro, perveniamo nei calcoli più spesso a tali numeri sordi piuttosto che ai cosiddetti razionali•. Ci sono quindi diversi modi di riconnettersi a una prestigiosa tradizione matematica e il caso di Barrow mostra come ciò che a prima vista liquideremmo come una nostalgia verso il passato possa, a una differente lettura, rivelare uno spiraglio verso il futuro; esso è anche una buona illustrazione di quello che si potrebbe battezzare il principio della (reciproca) tolleranza tra "mostri•. Ricordiamo ancora qualche parola di Leibniz: "è impossibile ... proporre una sequenza ... di numeri di apparenza del tutto irregolari, nella quale i numeri crescono e diminuiscono in modo vario, senza che si manifesti alcun ordine; e nondimeno chi riuscirà a riconoscere la chiave della cifra, a intendere l'origine e la costruzione della sequenza dei numeri, potrà trovare la regola che, bene intesa, farà vedere come [la sequenza] è del tutto regolare e possiede anche belle proprietà•.

=

=

56

Lo spettro e il libertino

Figura 7 (I) (2)

(3) (4) (5)

I. 2, 3, 4, ... 2, 4, 8. 16, ... -1, 2, -3, 4, ... 3, 3, 3, 3, ... 1 I I I

·2•3•4•···

a.= n a.= 2" a.= (-l)"n a.= 3

a.=..!.n

(6)

I 2 3 0·2·3•4•···

a.=

(7)

0 3 2 S 4

a.= n+(-1)"

(8)

I 3 17 577

·2'3'4'5' ...

1'2'12'408' 665857 470832 ' ...

(9)

(10)

3

I 2 I I 2 I I • 2' 3'4' 5'6'

O, I, O, I, O, I, ...

n-1 n

n la legge di questa successione è definita per induzione: se p.lq. denota il termine n -esimo della successione, posto inizialmente p = q = I, si conviene P,+1 = p/ + mq.2, q.+ 1 = 2p. q. scegliendo m = 2. (si tratta di una procedura per calcolare valori approssimati della radice quadrata del numero m positivo, in panicolare del numero 2).

a.

= ..!. [n-{-1)" n

a.=-½ [I

·n + I)

+ (-1)").

Dieci successioni di numeri razionali ("con segno"). Da F. Waismann, Einru1rrung in das mothematische Denken, 1936; lr. il. Boringhieri, Torino 1965,

p. I50, con qualche modificazione.

Dare •numeri• alle •cose•

57

Figura 8

( 1) (2) (3)

(4)

o

2

o

2

4

-5

-3

-I

3

o

4

5

o

4

2

6

3

(5)

1/4 o 115 I 1/3 ~lii I

1/2

(6)

oI

1/2

O

2/3 4/5 I

I I

3/4 2/3 \4/5 I

I

I I~

5/4 3/2

(7)--+1-----1!...__t-+-ltlll■■ -~llrll--tl--

0 3/2 2 (8)-+l-------1---i...1---tl1/4 2 21,5 21,3 O 1/6/ 1/2 (9)~ I ~

o (10)-+------Rappresen1azione geometrica delle successioni della fig. 7. Alcune di queste successioni (come I 2 e 3) si estendono all'infinito: altre (come 5 6 7 8) si addensano o ··convergono" verso un determinato punto (nell"esempio 5. si tratta del punto O: negli esempi 6 e 7 del punto I: nell"esempio 8 di un punto situato tra I e 3/2): fra queste alcune si avvicinano al loro "'limite'" con valori crescenti da sinistra a destra (6). altre con valori decrescenti da destrd a sinistra (5) e altre infine (come la 7) gli si avvicinano da entrambe le pani per mezzo di termini che "sahano·· da una pane all"ultra del '"limite·· e lo racchiudono in intervalli sempre più piccoli. Nella successione 9. invece. itermini ·•si raccolgono·· intorno ai punti Oe 2 (detti ··punti di condensazione·· della successione). Infine le successioni 4 e IO consistono nella ripetiiione illimitata di uno o più termini (cfr. Waismann. op. cii.: tr. it. p. 151).

58

Lo spellro e Il libertino

Non si trattava di una questione meramente teorica. Nonostante i dubbi "calunniosi", cui alludeva Barrow, prima e dopo di lui i matematici continuarono a calcolare "radici imperfette", considerando un numero sostanzialmente definito "dalla possibilità di ottenere dei valori approssimati e di introdurre questi ultimi nel calcolo•, come osserva 'Nicolas Bourbaki' nei suoi Eléments d'histoire des mathématiques (1960): "ciò implica ... un certo grado di confusione fra le misure di grandezza date dall'esperienza, che naturalmente non sono suscettibili di approssimazione indefinita, e dei numeri come (ammesso che vi sia un algoritmo per l'approssimazione indefinita di quest'ultimo). Tale punto di vista 'pragmatista' riappare quindi in tutte le scuole matematiche nellt> quali la maestria del calcolo ha la meglio sugli scrupoli rigoristici e sulle preoccupazioni teoriche". La separazione dell'idea di numero reale dalla teoria delle grandezze e quindi la 'costruzione' dei numeri reali a partire dai soli numeri razionali è stata del resto ottenuta solo nella seconda metà dell'Ottocento, a opera di Weierstrass e quindi di Dedekind, Cantor, Méray e altri. La teoria che brevemente esponiamo qui è quella dovuta (1872) a Georg Cantor. Un modo per chiarirne l'idea base è proprio quello di muovere dalle parole di Leibniz sopra ricordate circa la "regolarità" di sequenze infinite o successioni di numeri razionali. Si ha una successione di ·razionali quando si sostituiscono i termini della successione dei naturali 1, 2, 3, 4, ... con dei razionali: proprio come avviene per i dieci casi della figura 7. Prescindiamo qui dalla questione generale "se si possano ammettere successioni prive di legge" (quesito che dipende ovviamente da cosa intendiamo precisamente, in tale contesto, con la parola legge): le dieci successioni della figura dipendono tutte da "una legge". Tuttavia esse posseggono una struttura assai diversa le une dalle altre. Lo constatiamo immediatamente associando a ciascuna di esse la sua rappresentazione geometrica sulla retta (figura 8): alcune di tali successioni si estendono fino all'infinito, altre si addensano o "convergono" verso un determinato punto; altre contengono diversi ·"punti di condensazione" verso cui vanno a raccogliersi i termini; in ultimo alcune consistono nella ripetizione illimitata di uno o più valori. I matematici chiamano punto limite (o punto di condensazione) un punto tale che ogni suo intorno, per quanto piccolo, contiene infiniti termini della successione; limite, invece un punto tale che ogni suo intorno contiene 'quasi tutti' i termini della successione: ogni limite è dunque un punto limite (ma come si vede dal caso 9. delle figure 7 e 8, non vale l'inverso). E anche possibile modificare queste definizioni in modo da poter attribuire dei punti limite a successioni come la IO. della figura 7 e un limite a successioni come la 4. di quella stessa figura. In particolare diciamo eh" un punto a è il limite di

v2

Dare 'numeri" alle •cose•

59

una successione (an) se per ogni razionale positivo E esiste un indice della successione N tale che per ogni indice n maggiore di N la differenza (in valore assoluto) tra a e On è minore di E. Diciamo allora che tale successione (a.) tende ad a o ammette a come limite o anche che la successione (a.) è convergente. Tale è il caso delle successioni 5. 6. 7. della figura 7 che convergono, rispettivamente a O, 1, e 1. Il caso della successione 8. della figura 7 è particolarmente interessante. Se si guarda alla rappresentazione geometrica corrispondente nella figura 8 si vede che i punti della successione si addensano ovvero "convergono• in un punto tra 1 e 3/2: la "legge" della successione non è altro che una procedura per il calcolo (approssimato) di li "limite• di questa particolare successione di razionali non è dunque (cfr. p. 51) un numero razionale. Di nuovo constatiamo la 'incompletezza' del sistema dei razionali rispetto alla retta geometrica. Ma c'è qualcosa di comune nella struttura della successione 8. e delle successioni 5. 6. 7 .; per tutte è infatti possibile mostrare che per ogni E (razionale) positivo esiste un indice N tale che per n, m maggiori di N la differenza (in valore assoluto) tra a. e Om è minore di E. In onore di Cauchy le successioni che godono di questa proprietà sono dette successioni di Couchy (o, più brevemente, C-convergenti): al contrario della definizione di convergenza (a un limite o), la nozione di e-convergenza è "immanente ... cioè si riferisce soltanto ai termini della successione ... e non suppone la conoscenza di alcun numero oltre a essi. In parole povere [essa] esige che i termini della successione si addensino gli uni agli altri, sicché ... dopo un certo numero di termini, i rimanenti si presentano vicinissimi gli uni agli altri. Come il lettore sa, vi sono successioni convergenti che tendono a un limite irrazionale ... Poiché tuttavia noi disponiamo finora soltanto dei numeri razionali, non possiamo, volendo essere rigorosi, procedere come se quel limite irrazionale esistesse, ma dobbiamo dire invece: vi sono due generi di successioni 'convergenti', quelle che hanno un limite razionale e quelle che non l'hanno• (F. Waismann, 1936), ovvero: non tutte le successioni Cconvergenti di razionali hanno un limite tra i razionali. La mossa di Cantar consiste nell'identificare un numero reale con una successione di Cauchy di razionali. Più precisamente, nella teoria di Cantar due successioni e-convergenti (o.) e (b.) sono eguali se la successione (a. - b.) è una zero-successione, cioè una successione che converge a zero. Sono molto naturali le definizioni di somma e di prodotto: (on) + (bn) è per definizione (a. + b.); (a.) • (b.,) è per definizione (a" b.). Sarà facile poi identificare ciascun razionale r con la successione C-convergente in cui tutti i termini sono eguali a r (o con qualsiasi altra successione che sia "eguale" a questa nel senso della nostra stipulazione). In modo canonico si sono cosl "im-

v2.

60

Lo spettro e il libertino

mersi• i numeri razionali nel sistema dei reali. Il sistema dei reali che viene ordinato dalla relazione ~ (maggiore o eguale) è un candidato adeguato a rappresentare numericamente il continuo lineare, cioè la retta geometrica. Il sistema dei reali è infatti completo: si dimostra che ogni successione e-convergente di reali è convergente, ammette cioè limite reale. Questa è la cosiddetta proprietà di completezza o di continuità secondo Cantar (e costituisce insieme con il postulato di Eudosso-Archimede, di cui parleremo tra poco, la cosiddetta "continuità forte"). Teorie come quella di Cantor (o una delle possibili alternative) dovevano sembrare a un matematico come Hankel, il creatore della teoria dei numeri razionali come coppie di interi (cfr. la figura 5 a p. 51), un cumulo di "artifizi astrusi e malagevoli•, staccati dal loro contesto più naturale ("la nozione di grandezza"). Eppure esse, nel lungo periodo, erano destinate a imporsi nella comunità dei mate• matici, nonostante • difficoltà psicologiche•. Come ha osservato il (neo)positivista Friedrich Waismann, "Che cosa vogliamo dire, a rigore, affermando che conosciamo un numero irrazionale, per esempio v2, e che possiamo farci un'idea della sua grandezza? Che cosa si cela dietro questo sentimento? Nulla, senza dubbio, fuorché la conoscenza di un processo per calcolare -./2 con un numero arbitrario di decimali. Conoscere un numero irrazionale significa saperlo calcolare con successive approssimazioni; è quindi perfettamente legittimo identificare un tal numero con il procedimento di approssimazione (e cioè con la successione stessa)• (corsivo mio). La scissione stigmatizzata da Hankel comporta comunque qualche abbandono, non foss'altro quello della convinzione 'ingenua' che vi sia qualcosa, nel mondo esterno, che corrisponde esattamente al continuo dei numeri reali. Nella seconda metà dell'Ottocento Boltzmann e ClilTord insistettero sulla possibilità che spazio e tempo fossero discontinui "sicché, per esempio, tutti i movimenti naturali consisterebbero di piccolissimi salti, come nei film" (Waismann, 1936). E Richard Dedekind (1872): "Se qualcuno mi dicesse che noi non siamo in grado di immaginare lo spazio altrimenti che continuo, io mi pennellerei di mettere in dubbio le sue parole, e gli farei osservare quanta finezza di cultura scientifica sia necessaria per comprendere ~hiaramente l'essenza del continuo•. Se c'è un qualche carattere "empirico" nella crescita della matematica, esso va visto nella circostanza che nuovi livelli di astrazioni vengono conseguiti non semplicemente prolungando le nostre "intuizioni• ma forzando l'immaginazione stessa a cercare ai problemi delle soluzioni che comportano se non l'abbandono, almeno la riqualificazione di •intuizioni• siffatte (potremmo chiamare anche "quasi-empirico" questo aspetto, per staccarci dalla troppo angusta caratterizzazione della conoscenza matematica come semplice 'prolungamento' del-

Dare "numeri" alle "cose•

61

le nostre percezioni). La rifondazione del continuo dei numeri reali mette bene in luce, oltre a questo aspetto, come in tale sviluppo "quasi-empirico" si possa ricorrere, senza troppi scrupoli, a nozioni che non paiono però immediatamente traibili "dal serbatoio dell'esperienza quotidiana". Solo impropriamente infatti, tale fondazione è talvolta. chiamata "fondazione aritmetica", come se davvero Weierstrass e Cantor, Dedekind e Méray fossero riusciti a realizzare esattamente, qualche millennio dopo, il prqgetto in cui i pitagorici avevano fallito. I nuovi "numeri" chiamano in causa una idea nuova, quella di "legge" nella teoria di Cantor (o una idea corrispondente nelle altre teorie): "il calcolo dei numeri reali è un calcolo che opera su leggi ovvero. su classi: proprio per questo non può risultare traducibile nella lingua dei numeri razionali• (F. Waismann) - al contrario di quel che capita con il calcolo delle frazioni e dei numeri relativi che si può agevolmente riportare a quello coi numeri naturali (si vedano ancora le figure 4 e 5 alle pp. 50 e 51).

Il problema dell'area delle figure curvilinee Leibniz soleva illustrare la distinzione fra verità necessarie e contingenti con "un esempio tratto dalla geometria e dai numeri", il caso dell'irrazionale, appunto. Anche una coppia di grandezze incommensurabili ha un determinato rapporto, ma l'esplicitazione numerica di questo comporta, come le verità contingenti, una sorta di procedura infinita, che solo Dio è capace di afferrare, in quanto penetra l'infinito con un'unica intuizione. La "legge" che si dispiega nella successione infinita di razionali che definisce un numero reale non elimina, ma conserva, sul piano del rigore, questo tema ricorrente nella teologia e nella matematica. Per coglierne un altro aspetto, muoveremo di nuovo dalla sfida dei pitagorici - dare "numeri" alle "cose". Contare è la via più semplice e diretta, ma non sempre praticabile (lo abbiamo già visto, a proposito delle lunghezze, per la diagonale e il lato del quadrato). Un tipico esempio è la questione del calcolo delle aree delle figure piane, nota almeno dalla geometria greca. Nel caso del quadrato il problema è presto risolto: la sua area (figura 9 a) viene definita come il numero dei quadrati unitari contenuti nella figura sicché è sufficiente suddividere la superficie del quadrato in quadrati unitari (disponendo di una unità di lunghezza nei termini della quale sia possibile esprimere la lunghezza del lato) e contare il loro numero; non è poi difficile estendere tale nozione di area e siffatta procedura a rettangoli, triangoli, più in generale poligoni. Ma sono le figure a contorno curvilineo che creano problemi, poiché l'espediente del contare qui viene meno, come mostra già il caso del cerchio, la figura che, nella cultura classica, rappresenta l'immagine della perfezione. ~ ov-

Lo spettro e il libertino

62

Figura 9

----a unità---•

\

·s

·e

::s

"'

I

Area

= ti

unità

li problema dell"area di una figura piana. a) La questione è presto risolta nel del quadrato: la sua area è definita come il numero dei quadrdti unitari conlenuli nella figura. basta dunque suddividere la superficie del quadralo in quadrali unitari e quindi contare il loro numero (purché disponiamo di una unità di lunghezza nei termini della quale possiamo esprimere la lunghezza del lato). Non è difficile estendere tale nozione di area e siffatta procedura a rettangoli. triangoli. più in generale poligoni. b) Ma sono le figure a contorno curvilineo che creano problemi: qui l'espediente del comare non basta più. Consideriamo. per esempio. il çaso del cerchio: possiamo iscrivervi un poligono • nella figura. un esagono regolare - che ci dà una ··approssimazione .. della urea del cerchio.

ca,o

vio che, per certi fini pratici, una "approssimazione" (per esempio quella fornita da un poligono regolare inscritto, si veda la figura 9 b) può essere adeguata. Ma in questo modo restiamo, per parafrasare Leibniz, nel contingente. Un analogo problema si pone per il calcolo dei volumi. Ma limitiamoci alla geometria piana. Supponiamo dunque di voler determinare l'area del cerchio: inscriviamo nel cerchio un quadrato, poi, bisecando, un ottagono regolare, poi, ancori bisecando, un poligono regolare di sedici lati, e così via, ad infinitum (figura 10). Calcolando le aree dei poligoni regolari così ottenuti, otteniamo una successione di valori (reali) che è C-umerc che p e q siano primi tra loro. come. tanto per fi!>Sare le idee. 4 e 3 (dato che ··1a diagonale è alquanto più lunga del lato .. ). Costruiamo allora i rispettivi quadrati: essi stanno tra di loro come 16 e 9. Ma ··;1 quadrato costruito sulla diagonale è doppio di quello costruito sul lato··. dunque i due quadrati stanno tra loro come 18 e 9. Ne consegue che 18 è uguale a 16. ovvero che 9 é uguale a 8. Anche se si cambia resem~io panicolarc della figura. cioè la scelta 4 e 3 per il numero di ··punti di Epicuro·· della diagonale e rispettivamente del lato. la conclusione ··paradossale e incredibile·· è sempre !"uguaglianza di un numero dispari con un nuinero pari (Lubyrinrhus. pp. 39-42).

I I5

Atomismo e dlvisibilitd senza fine

Figura 20 A■













iii~ □

.... . . L=.J ...

A

■ ■ ■ ■ ■B

D

B

a) • • •C

··Nessun punto [geometrico] - dice Fromondo - può essere costituilo da un punto di Epicurou. cioè non si dà una struttura fine in cui un continuo "'ter•

minato .. consista di un numero finito di ··punti ... In u). scello un .. punto" qualsia.,i come centro. ogni "cerchio" concentrico che ne risulta è in realtà un quadrato. comunque grande (in figura fino a dodici punti di lato) ... Ciò è a.,surdo e contro i sensi". ma se non bas1a. si supponga pure. come in bi che · •ii.i possa lo slesso cracciare un cerchio tangente a una rena esattamente in un solo punto .. e diciamo ABCD la circonferenza del cerchio. C il pun10 di tangenza. EF )a rena. Poiché ··u,, la parte inferiore della circonferenza e la rena lo spazio è finito ... e dunque vi è solo un numero "fini10" di punti. ··un cerchio di poco maggiore di quello già 1raccia10 non toccherà la rena in un punto. ma in due. tre ecc. a seconda di quanto maggiore sarà ... Dello in breve. il contano tra una generica cirq,nferenza e la rena sarà cos1itui10 da un intero .. segmento ... diciamo ufl sulla circonfcrenzà e yh sulla rena: .. magj!iore il cerchio. maggiore questo contano" e il cerchio più ampio i.I, 1uni. "quello del firmamento" avrà un coniano con la rena "veramente enorme··. sicch senza fine

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"di tempi piccoli a piacere [temporibus quantum libet exiguis]" e, nella rappresentazione geometrica, si ricorre a "punti" invece che a "lineette indefinitamente piccole". I metodi degli indivisibilisti italiani (Galileo, Cavalieri e poi Torricelli, Angeli, ecc.) sono dunque "recuperati" senza compromettersi con la teoria degli indivisibili (i cui tratti vedremo nel successivo capitolo V) e senza impelagarsi eccessivamente nella polemica generale. Orsù, cessiam le dispute: la riduzione dovrebbe letteralmente eliminare la materia del contendere e consentire un'esposizione "più chiara e semplice" dei risultati. Ma si potrebbe rivolgere a questa strategia la stessa critica che Eleanore Stump ha indirizzato (cfr. p. 107) alla ricostruzione del punto di vista occamista che contesta essere davvero tale. La traduzione come riduzione finisce col riaprire quei paradossi che intendeva originariamente eliminare. Ma - come mostreremo nei capitoli VII e Vili nei casi rispettivi di Newton e di Leibniz - la traduzione come interpretazione (proprio quella che avviene "non sulla base di un'unica formula, ma quasi su una base ad hoc", cfr. p. 108) può talvolta produrre una trasformazione creativa di problemi e di metodi. (Ciò non vale solo per la divisibilità senza fine, ma anche per gli "atomi" o "indivisibili": ancora Magnien (Johannes Magnenus) professore a Pavia dal 1646 e autore di un Democritus reviviscens (1646) in cui Galileo non è pur del tutto ignorato "scioglie" le ormai classiche difficoltà della compositio ex atomis distinguendo tra atomi fisicamente infrangibili e punti "senza parti", ma puramente geometrici e ideali, accettando la stessa concezione aristotelica della astrazione geometrica e concludendo infine che un continuo è idealmente divisibile all'infinito (extrinsece), ma è fisicamente strutturato in atomi (intrinsece), sicché solo virtualiter si può dire, per esempio, che una retta è tangente a un cerchio o un piano a una sfera in un punto.)

Capitolo V « L'immenso

oceano degli indivisibili":

i punti del continuo e i gradi di velocità DON OTTAVIO

Senti, cor mio, deh! senti; guardami un solo istante! Ti parla il caro amante, che vive sol per te. (Atto I, scena III) • Diffa/care gli impedimenti della materia'

"Le linee sensibili non sono per nulla tali quali le pretende il geometra (giacché non c'è alcuna cosa sensibile che sia retta o curva nel senso da loro indicato; e il cerchio non tocca la tangente in un solo punto, bensì nel modo indicato da Protagora nelle sue confutazioni contro i geometri"). Così Aristotele nella Metafisica. Analogamente, la sfera non tocca il piano "tangente" in un solo punto, perché allo stesso modo le superfici sensibili non sono quelle che i geometri pretendono di studiare. Sulla opinione del sofista Protagora (V secolo a.C.), senza necessariamente compromettersi con la sua dottrina più generale circa la relatività della conoscenza (per citare ancora dalla Metafisica: "Il principio ... espresso da Protagora, che affermava essere l'uomo misura di tutte le cose ... non significa altro, se non che ciò che pare a ciascuno, è anche certamente"), si trovavano di fatto d'accordo non pochi dei "litiganti" che abbiamo incontrato nel capitolo precedente. sia dell'una che dell'altra parte. Gli atomisti, almeno quelli di osservanza, per così dire epicurea, convinti come erano della presenza di soglie insuperabili e nella sensazione e nella comprensione {cfr. p. 99), non potevano che convenire sul carattere puramente "chimerico" del punto di contatto tra cerchio e retta "tangente•, tra sfera e piano "tangente", proprio perché tale contatto era non solo fisicamente impossibile, ma anche concettualmente inintelligibile. Come constata - potremmo aggiungere noi - chiunque schematizza tale situazione ideale tracciando linee col gesso su una lavagna o utilizzando modellini di cartone. Ma la constatazione che il "contatto" interessa sempre una regione estesa (per quanto piccola) e non un punto poteva venir utilizzata anche da Aristotele e dalla sua lunga catena di seguaci. Antonio Rocco nel 1633, replicando alle critiche espresse da Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi a tale tradizione, ancora ribadiva che l'asserzio-

• L'immenso oceano dep,li indivisibili'

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ne secondo cui una retta può toccare una circonferenza o un piano una sfera in un solo punto era "difficile ed inintelligibile, per non dir falsa". Né c'è troppo da stupirsi; per ogni buon "Simplicio", cioè per ogni aristotelico abbastanza ortodosso, il ruolo che materia e forma (cfr. p. 32) sono in grado di svolgere, non può certo venir assolto (almeno per quanto concerne il mondo "sublunare") dagli enti matematici; lo stesso Aristotele riteneva infatti che una fisica in cui i processi reali fossero simulati da modelli matematici comportasse la rinuncia a fare del mutamento un fenomeno ben fondato. Le nozioni di base della geometria - punti, linee, superfici, ecc. - infatti non sono né essenze indipendenti dall'esperienza né semplici costruzioni concettuali, ma nozioni che rimandano a proprietà dei corpi fisici che sono state "astratte", cioè separate ad opera del geometra, dal loro contesto naturale. Certo, sottratte alla contingenza che inevitabilmente accompagna la presenza della materia, queste proprietà possono costituire l'oggetto autonomo di un'analisi puramente teorica; ma nella scienza della natura, dove dall'imperfetta materia non si può prescindere, è in via di principio impossibile esigere la •necessità" delle dimostrazioni matematiche. "Ma io veramente stimo il libro della filosofia essere quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi agli occhi; ma perch.l è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può essere da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, altissime per tal lettura". Sembra che per Galileo la materia stessa, fonte dell'esistenza "in potenza" per Aristotele, sia invece il sostegr.o di una struttura inalterabile, assimilabile, in tutti i suoi punti letteralmente, a qualcosa di "necessario" per la cui comprensione la geometria si rivela lo strumento adeguato. Questo slittamento ha un prezzo: è ormai constatazione abituale presso i filosofi della scienza che la via seguita da Galileo di fatto riduce drasticamente il contenuto della dinamica: quella aristotelica era infatti una teoria generale del mutamento comprendente il moto locale, il mutamento qualitativo, il mutamento quantitativo e il mutamento della sostanza (generazione, corruzione ecc.); la dinamica di Galileo e dei suoi seguaci si occupa invece solo della locomozione o "moto locale": gli altri tipi di "moto" (aristotelicamente, kinesis) sono messi da parte con l'osservazione (tradizionalmente democritea, cfr. p. 89) che il moto locale comprenderà alla fine tutti i moti. Una promessa allettante (la posta in gioco è la spiegazione mediante figure e la predizione mediante numeri): ma solo una promessa. Sarà di nuovo una specifica polemica a fornirci un filo rosso per orientarci nel complesso programma di Galileo. Nel Dialogo (1632) Salviati così raccoglie la sfida di Protagora: "Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale, che non sia sfera perfetta, può toc-

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Lo spetlro e il libertino

care un piano immateriale, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con parte della sua superficie; talché sin qui quello che accade in concreto, accade nell'istesso modo in astratto: P. sarebbe ben nuova cosa che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non rispondessero poi alle monete d'oro e d'argento e alle mercanzie in concreto. Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tomino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie e altre bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che diffalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustamente che i computi aritmeticin. Salviati così conclude: "Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti". Chi fa i calcoli, dunque, commette errori. Non necessariamente per inesperienza, ma per la complessità della situazione che viene modellizzata. Galileo - si badi concede agli aristotelici più di quanto certe sarcastiche battute contro "il signor Simplicio" possano far sospettare a una prima lettura. Gli "impedimenti della materian, infatti, non sono ignorati né è ignorato lo scarto tra mondo e matematica, tra situazione reale e modello. L'idea di Galileo, implicita nella regola diffalcare (= eliminare) gli impedimenti materiali, è piuttosto che questo scarto può essere ridotto fino a essere considerato trascurabile. t; questa qualificazione che va tenuta presente nell'accoppiamento tra "sensate esperienzen e "certe dimostrazioni". Nei Discorsi (1638) Salviati ben volentieri riconoscerà a Simplicio che i principi sopra i quali "s'appoggia l'immensa macchina d'infinite conclusioni" devono essere in qualche modo passati al vaglio dell'esperienza, poiché "cosl si costuma e conviene nelle scienze le quali alle conclusioni naturali applicano le dimostrazioni matematiche, come si vede ne i perspettivi, negli astronomi, ne i meccanici. ne i musici ed altri, li quali con sensate esperienze confermano i principii loro, che sono i fondamenti di tutta la seguente strutturan. t; così che nascono le "matematiche applicate". Il miglior commento lo troviamo forse in Conoscenza ed errore (1905) di Emst Mach: "Un'applicabilità plurima, generale il più possibile delle leggi naturali a casi fattuali concreti è possibile solo astraendo, semplificando, idealizzando i fatti, scomponendoli in elementi semplici, tali che a partire da essi sia possibile ricostruire e ricomporre mentalmente i fatti con precisione crescente". La teoria galileiana del moto uniforme e del moto uniformemente accelerato (che vedremo tra poche pagine in questo stesso capitolo) non è che un primo esempio di quella "integrazione mentale" dell'esperienza che si dispiega "nelle equazioni differenziali della fisica• (si veda, più oltre, il capitolo IX). Ma questo non è che un lato della medaglia. L'altro è la tradizione delle "ma-

• L'immenso oceano degli indivisibili"

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tematiche miste" (che vedremo influente proprio nell'approccio galileiano alla struttura fine del continuo): qui le teorie matematiche del mondo fisico, per dirla ancora con Mach, non "consistono di una serie di teoremi pronti per l'applicazione, scelti in conformità a quest'uso", piuttosto vengono via via costruite privilegiando una particolare interpretazione fisica, che permette di tagliare qualche intricato nodo concettuale. Così procederanno ancora Barrow, Newton stesso, i suoi seguaci britannici e persino il rigoroso Colin MacLaurin. Alla "iniezione" di idee matematiche nello studio della realtà corrisponde la "iniezione" di idee fisiche nel mondo apparentemente "puro" del "geometra". Questo tipo di tensione si ritrova pressoché a ogni grande svolta creativa e conferisce alla conoscenza matematica il suo carattere "quasi empirico" (come avremo modo di vedere più oltre, in particolare nei capitoli VII e X).

Galileo e gli "atomi realmente indivisibiUAntonio Rocco, nel contestare ai geometri il contatto "puntuale" (cfr. p. 122), aggiungeva che dall'ammissione di una "maraviglia" del genere "seguirebbe che la linea potria esser composta di punti, e la sfera parimente, anzi la sfera non sarebbe sfera, né sferica, ma del tutto indivisibile. Conciosiache, posta la sfera sopra un piano perfettissimo, tirata a striscio, segnarebbe una linea, e pur sempre tocca in un punto; ecco che le parti della linea sarebbero punti, e di esse verrebbe ad esser composta: la qual cosa ed in filosofia ed in matematica è stimata falsissima, già che vogliono, ogni quantità continua constare di parti sempre divisibili". La risposta di Galileo è contenuta nella "Giornata prima" dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scie11ze (1638: le due "nuove" scienze sono la meccanica e la resistenza dei materiali) ove Salviati - assistito da un compiacente Sagredo - non solo pretende di dissipare le perplessità filosofiche di Simplicio, ma ritiene di presentare una teori& della struttura fine del continuo in grado di conciliare l'indagine del mondo fisico con le pretese "astrazioni" della matematica. Che Galileo ci sia appieno riuscito è dubbio per non pochi storici che hanno insistito sulla "scarsa chiarezza" delle sue idee in proposito o sul cammino tortuoso con cui, movendo da un'opzione originariamente democritea, Galileo sarebbe arrivato alla dottrina matura (ma tutt'altro che impeccabile) dei Discorsi. Quello che sembra aver motivato inizialmente l'analisi galileiana (cfr. oltre, p. 130) è un problema che concerne "mutamenti" a prima vista qualitativi: si trattava di spiegare la "coesione dei corpi", cioè la proprietà che garantiva una permanenza delle forme nel tempo, impedendo che i corpi, solidi o fluidi che siano, si risolvano in un'instabile nuvola di particelle. Cri-

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Lo spellro e, Il libertino

ticando quegli aristotelici che sostenevano, contro Archimede, che il movimento relativo di un solido entro un liquido non può essere determinato unicamente dal rapporto dei pesi specifici, Galileo già nel Discorso intorno alle cose che sta,mo in su l'acqua (1612) aveva distinto due modi in cui si riuniscono le parti costitutive dei corpi, quello in cui le parti sono •continue• (ciascuna non ha alcuna estremità che le sia propria) e quello in cui le parti sono •contigue" (ciascuna possiede le sue estremità e si trova in contatto con le altre); a essi corrispondono due modalità di penetrazione: nel caso della "continuità• la penetrazione richiede una vera e propria divisione, nel caso della •contiguità" basta scartare l'una dall'altra le varie parti costitutive senza che ci sia necessità di dividere. Una sorta di filosofia •corpuscolare" si ritrova pure nel Saggiatore (1623) là dove Galileo afferma che nella luce si può riconoscere una "altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili" (come dire, in atomi davvero atomi!): quan•o al calore, esso è scomponibile in "minimi ignei" e i vari corpi sono costituiti da "minimi quanti". Nei Discorsi (1638), infine, con la trattazione della coesione e della resi--. stenza dei solidi questa visione riemerge. Ma c'è una differenza: se i corpi possono in certe particolari condizioni cambiare di stato (il ghiaccio si scioglie, il metallo fonde, l'acqua evapora, ecc.) è solo perché la struttura fine di qualsiasi corpo è una rete formata da un numero infinito di atomi separati da un numero infinito di vuoti. I "minimi quanti" del 1623 sono dunque sostituiti da atomi che vanno intesi come "parti non quante" e gli stessi vuoti sono dei • vacui non ouanti ". A nostro avviso, sono state proprio le difficoltà "geometriche" (cfr. pp. 110-116) intrinseche alla spiegazione atomistica a motivare questo "slittamento di ipotesi". Ma se concepire i corpi come aggregati di un numero •infinito" di atomi non era nuovo (si veda il capitolo IV), Galileo, accettando perfino il vuoto (ma solo come • vacui non quanti• forse riallacciandosi a un'idea di Erone), ha davvero in mente la modellizzazione matematica dei processi fisici: i piccoli vuoti vanno inframmezzati agli atomi (anch'essi "non quanti") affinché il filosofo della natura possa rendere conto quantitativamente di fenomeni apparentemente qualitativi come il cambiamento di stato (per esempio: il fuoco scioglie metalli come l'oro, non perché l'oro "attualmente" solido è "potenzialmente• liquido, ma perché gli atomi "ignei" penetrano negli interstizi, cioè nei vacui non quanti che compongono il metallo). Non è ancora la rottura aperta con Aristotele: è piuttosto l'introduzione di un tipo di spiegazione profonda con cui la spiegazione di superficie in termini di forma e materia, di potenza e atto può anche coesistere, anzi, a cui può essere ridotta purché si sia disposti a considerare le classificazioni aristoteliche del visibile come semplici abbreviazioni per la rappresentazione geometrica e la determinazione numerica delle relazioni che sussistono tra atomi invisibili. ·

• L'immenso oceano degli indivisibili'

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•se la divisione e suddivisione si ha da poter continuare sempre, bisogna necessariamente che la moltitudine delle parti sia tale che già mai non si possa superare; e sono, dunque, le parti infinite, altrimenti la divisione si finirebbe; e se sono infinite, bisogna che non siano quante, perché infiniti quanti compongono un quanto infinito e noi parliamo di quanti terminati: e però, gli altissimi e ultimi, anzi primi componenti del continuo, sono indivisibili infiniti". Lo storico Paolo Galluzzi ha fatto osservare che Galileo fonnula in questo passo due giudizi distinti: un continuo (tanto per fissare le idee, un continuo lineare) "terminato" (cioè finito): 1) è divisibile in un numero arbitrario (indeterminato, non infinito) di parti "quante", 2) ma è composto di infinite parti "non quante" (cioè, indivisibili: nel caso, "punti"). In sé la 1) non sospende affatto un aspetto della cosmologia aristotelica (purché si accetti: parti quante = parti sempre divisibili); al tempo stesso essa prepara all'accettazione degli "atomi". Prosegue infatti Salviati-Galileo: "Non vedete voi che il dire che il continuo consta di parti sempre divisibili, importa [cioè comporta] che, dividendo e suddividendo, non si arrivi mai a' primi componenti? I primi componenti, dunque sono quelli che non sono più divisibili ed i non più divisibili sono gli indivisibili". Parrebbe quasi che la 2) debba addirittura seguire dalla ]): •e però gli altissimi ed ultimi, anzi i primi componenti del continuo, sono indivisibili infiniti". Galileo sta di nuovo facendo slittare la caratterizzazione classica degli indivisibili: per Democrito come per Aristotele essi erano "inosservabili", cioè fuori dalla portata dell'esperienza; qui sono "inaccessibili" alla operazione umana di "dividere e suddividere•, sia eseguita materialmente, sia conce• pita mentalmente. Galileo non si preoccupa del fatto che quel e però non è poi cosl stringente. I nominalisti radicali avrebbero potuto obiettargli che "i primi componenti" semplicemente non esistono; ma essi - diciamo da Ockham a Fromondo - volevano solo mostrare che !!li indivisibili erano assurdi, ma finivano col trattare come astrazioni Jè entità stesse della geometria. Galileo invece fa propria l'idea di Democrito e poi di Epicuro che le parti "componenti" spieghino la struttura del tutto, poiché le parti indivisibili solo dal nostro punto di vista sono •ultime", mentre, ontologicamente, sono "prime• e potrebbero identificarsi proprio con i punti geometrici. Parla ancora Salviati-Galileo: "Concedo dunque a i Signori filosofi che il continuo contiene quante parti quan• te piace a loro, e gli ammetto che le contenga in atto o in potenza, e lor gusto e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si contengano dieci linee d'una canna l'une, e quaranta d'un braccio l'una, e ottanta di mezzo braccio, etc., cosl contiene ella punti infinitiM. La leggibilità del mondo in caratteri matematici si fonda dunque sui tratti "atomistici della compositio continui e non he tutti i torti Simpti• M

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Lo spettro e il liberti11u

cio quando, nello "Giornata Prima• dei Discorsi e dimostrazioni, crede di vedervi aleggiare "l'ombra di tol filosofo antico", cioè Democrito. Ma Salviati è pronto a ribattere che "il nostro Accademico" (cioè Galileo} si guarda ben dal negare • la Provvidenza divina". Con I 'ammettere che gli indivisibili che compongono un continuo "terminato" sono •infiniti• Galileo ritiene che si possa uscire dalla trappola aristotelica: due indivisibili un indivisibile solo. Ma l'infinità è un attributo del "Dio semitico" (e cristiano} proprio come lo sono saggezza e potenza. Quel e però del passo galileiano ha senso tenendo conto che, mentre la I} è una sorta di constatazione empirica (o quasi-empirica), la 2) è invece una proposizione teorica (almeno nella prospettiva aristotelica) e dunque essa può venir collegata alla I) solo grazie a una ulteriore assunzione che è entrata in gioco: è in virtù della loro stessa infinità che le parti "non quante• stanno insieme. Ma questa non è altro che "la virtù dell'infinito" (che gli scolastici chiamavano vis infinittì dispiegata dalla provvidenza di Dio, capace di far sì che le parti "non quante" costituiscano un tutto "quanto". f:: proprio così che si evita di cadere nel materialismo ateo (anzi, l'atomismo è più consono alla fede dello stesso aristotelismo che, almeno nella versione averroista, negava appunto il disegno di Dio), senza necessariamente bloccarsi con i tradizionali paradossi dell'infinito concernenti il totum parte maius: a questo punto essi attestano solo la potenza di Dio creatore e, per contrasto, l'impotenza dell'uomo, sua creatura. "SALVIATI: Avrò qualche mio pensiero particolare, replicando prima quel che poco fa dissi, cioè che l'infinito è per sé solo da noi incomprensibile come anco gli indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur, se vogliamo comporre la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e cosl conviene apprendere nel medesimo tempo l'infinito e l'indivisibile".

=

•Divagazioni• sulla •potenza infinita• Già il 16 luglio 1611, in una lettera a Gallenzone Gallenzoni, Galileo non aveva esitato a sostenere che Dio, senza preoccupazione alcuna per le simmetrie che l'uomo è in grado di comprendere e di descrivere, aveva ordinato le differenze tra i principali movimenti delle sfere celesti servendosi di "proporzioni imperfette", cioè tra grandezze incommensurabili. Anni dopo, ritroviamo nella lettera a Ingoli (1624) un 'analoiza idea circa l'eventualità che i movimenti dei pianeti risultino tra loro incommensurabili e che richiedano dunque • correzioni senza fine" dal momento che nella pratica il calcolo non può che ricorrere alla finzione di considerarli commensurabili, in ouanto sostituisce a quelli che noi oggi chiameremmo numeri reali (che esprimono tali rapporti) le loro approssimazioni razionali.

'l'immenso oceano degli indivisibili'

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Figura 21

a)

---------- D E _____ F

b)

F

-=---~-:::--.:-.::-.:.e:::-=-.~-,,-=---✓ Y Z-==-~--=:=:...-~--T ·

--~--------A.---'--'---. Q X S La rota Arinote/is: a) il paradosso. b) La soluzione galileiana.

L'idea galileiana che il "trapasso"· dal finito all'infinito comporti "maraviglie" ricompare infine nella spiegazione (abbozzata nella "Giornata prima" dei Discorsi) della celebre "ruota di Aristotele", il rompicapo proveniente dalle pseudo-aristoteliche Questioni meccaniche con cui Galileo sembra essersi cimentato fin dal 1597-98. Si tratta, come sappiamo (cfr. pp. 110-111). di spiegare (vedi fig. 21) perché date due circonferenze concentriche, quella maggiore, compiendo una rotazione completa, percorra una linea eguale in lunghezza a quella percorsa con un 'analoga completa rotazione della circonferenza minore, mentre, se rotolassero separatamente l'una dall'altra le linee percorse dalle loro rotazioni avrebbero un rapporto uguale a quello tra le lunghezze delle rispettive circonferenze. Galileo considera allora due poligoni regolari, aventi lo stesso numero n di lati, inscritti nelle due circonferenze e i cui vertici si corrispondono per allineamento col

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Lo spettro

II

il libertino

centro comune. Facendo "rivolgere" i poligoni come nel caso della ruota sì fa con le circonferenze, mentre il poligono maggiore percorre con il suo perimetro una retta continua, il poligono minore percorre con il suo perimetro una retta parallela con tanti "salti• quanti sono i suoi lati. Facendo indefinitamente aumentare il numero n dei lati, i poligoni tendono II confondersi con le circonferenze, i lati dei due poligoni decrescono indefinitamente, mentre i salti tendono a zero. Per sfuggire al paradosso basta allora immaginare che il "rivolgimento" del cerchio più piccolo della ruota comporti una infinità di "salti" infinitamente piccoli. Questi "infiniti indivisibili vacui" disseminati sulla retta geometrica corrispondono esattamente agli "infiniti vacui non quanti" della sbarra di metallo che "possiamo concepire distratta in immenso" grazie alla "interposizione" di tali vuoti. Un problema meccanico ha dunque portato Galileo a questa "fantasia", cioè a questa struttura porosa (nell'infinitamente piccolo) del continuo mentre una analogia fisica con il "globetto d'oro" che può a sua volta "venire distratto ... in uno spazio grandissimo" ha sciolto i paradossi geometrici come quello delle sfere (cfr. p. 126); una volta spianale queste difficoltà ("Dove poi avete trovato che ripugni alle matematiche il compor le linee di punti?", già aveva replicato nel 1615 Galileo - o Benedetto Castelli per lui - a Ludovico delle Colombe e a Vincenzo di Grazia) la struttura indivisibilista del continuo ha fornito infine l'intelaiatura matematica che genera i modelli atti a studiare "cangiamenti" fisici come liquefazione, rarefazione, condensazione, ecc. Di questa matematica "mista" - ove nozioni fisiche come le velocità istantanee (cfr. oltre, pp. 132-144) e i vuoti frammisti alle "parti indivisibili" non solo forniscono la motivazione iniziale ma garantiscono l'intelligibilità delle stesse tecniche matematiche - il fondamento teologico resta sullo sfondo, influente, anche se non dominante. Dio onnipotente impedisce che gli oggetti del mondo si dissolvano in un turbinio di atomi e a suo piacere scandisce "la fabbrica dei cieli" su rapporti che per noi sono "ineffabili" o "sordi" (= numeri irrazionali): a tale "divino Artefice" il nostro intelletto "tenninato" non può porre alcun vincolo assoluto. Come recita l'Ecclesiaste (3, 11), Dio infatti "ha posto il mondo nel cuor degli uomini,, senza che però l'uomo possa giammai rivenir )'opere che Iddio ha fatte, da capo al fine". Persino la prova apparentemente più irrefutabile della dottrina preferita può allora venir rovesciata e l'uso metodico della controversia (cfr. pp. 21-24) incontrare il suo limite. Come mostrava del resto la stessa conclusione del Dialogo sopra i due massimi sistemi nella "Giornata quarta" dopo che Salviati-Galileo ha esposto come istanza decisiva per il copemicanesimo quell'argomento "del flusso e riflusso del mare" (ma la spiegazione galileiana delle maree attraverso il moto terrestre doveva sembrare già all'epoca estremamente discutibile ed è oggi sostanzialmente respinta). La parola è, di nuovo, a Simplicio-Galileo.

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• s1MPL1c10. Non occorre che voi arrechiate queste scuse, che son supernue, e massime a me, che, sendo consueto a ritrovarmi tra circoli e pubbliche dispute, ho cento volte sentito i disputanti non solamente riscaldarsi e tra di loro alterarsi, ma prorompere ancora in parole ingiuriose, e talora trascorrere assai vicini al venire a i fatti. Quanto poi a i discorsi avuti, ed in particolare in quest'ultimo intorno alla ragione del flusso e renusso del mare, io veramente non ne resto interamente capace; ma per quella qual si sia assai tenue idea che me ne son formata, confesso, il vostro pensiero parermi bene più ingegnoso di quanti altri io me n'abbia sentiti, ma non però lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale è forza quietarsi, so che amendue voci, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all'elemento dell'acqua il reciproco movimento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co 'l far muovere il vaso contenente, so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall'intelletto nostro inescogitabili. Onde io immediatamente vi concludo che, stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare. SALVIATI. Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente risponde quell'altra, pur divina, la quale, mentre ci concede il disputare intorno alla costituzione del mondo, ci soggiunge (forse acciò che l'esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare l'opera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque l'esercizio permessoci ed ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza. SAGREDO. E questa potrà essere l'ultima chiusa dei nostri ragionamenti ... ". Solo una mossa tattica, in tempi in cui "un salutifero editto [24 febbraio 1616] ... per ovviare a' pericolosi scandali de li 'età presente, imponeva opportuno silenzio all'opinione ... della mobilità della Terra" e in cui occorreva non urtare la suscettibilità di papa Urbano VIII (al secolo Maffei Barberini), riconoscibile autore della "mirabile e veramente angelica dottrina"? t:: una interpretazione largamente diffusa, che non intendiamo qui contestare; vogliamo però osservare che tale mossa (che, per altro, non ebbe successo: Galileo, come quasi tutti sanno, fu costretto all'abiura dal Santo Uffizio il 22 giugno 1633) è abbastanza naturale per un Galileo capace di riorientarsi da un atomismo di tipo "epicureo", ancora influente nel Saggiatore, a quello "matematico" dei Discorsi. li suo Dio che solo "conosce le infinite proposizioni" che riempiono il gran libro del Mondo ci ricorda l'imperscrutabile

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Signore cui Isaac Newton dedicherà lo • Scolio generale• della seconda edizione (1713) dei Principia: il suo disegno globale dell'universo sfida l'immaginazione locale degli uomini. Ma essi "hanno il mondo posto nel loro cuore" (p. 130) e alla loro "fantasia" non possono non ricorrere, tendendo /'i111magi11azione, per vedere all'opera nel più piccolo ogge110 ("il globeuo d'oro", "la sbarra di metallo", "la ruota di Aristotele", ecc.) "la virtù dell'infinito" che altro non è che il dispiegamento della potenza divina. Sì che la concezione galileiana della "infinita potenza e sapienza" di Dio è fondamentalmente ambigua, poiché da una parte prelude a una sorta di volontarismo radicale, dall'altra ne blocca le conseguenze estreme, proprio perché è sempre lecito, dopotullo, "disputare intorno alla costituzione del mondo". Dunque, una tensione interna è sempre compagna di Galileo negli "oscuri labirinti" degli indivisibili. Essa è colta da René Descartes, nella lenera a Mersenne dell'l I ottobre 1638 con parole spietate: "Galileo erra in tutto quello che dice a proposito dell'infinito: infatti, nonostante la sua ammissione che l'intelletto umano, finito, non è capace di comprenderlo, egli procede proprio a discuterlo".

"Guardami un solo istante• • Diamo avvio a una nuovissima scienza intorno a un soggetto antichissimo", così esordisce Galileo nella "Giornata terza• dei Discorsi e dimostrazioni matematiche: poiché si tratta della scienza del moto, sul -quale "ci sono non pochi volumi, né di piccola mole, scritti dai filosofi", nuova sarà l'impostazione. Ma il primo argomento affrontato da Galileo è il "moto equabile" o moto uniforme, cioè il moto in cui gli spazi percorsi da un mobile, in tempi eguali risultano tra di loro eguali. Le proporzioni (ricalcate sullo esempio di Euclide) che Galileo enuncia tra "tempo", "spazio" e "velocità" servendosi del linguaggio comune sono compendiabili nella nostra formula s vi ove s, t, e v denotano rispettivamente lo spazio percorso, il tempo e la velocità del moto, anche se non dobbiamo dimenticare che Galileo non ha mai scriuo una formula del genere. Ora, se ci si limita a moti uniformi, non solo Galileo, ma neanche Aristotele avrebbe avuto troppi problemi: entrambi si sarebbero trovati sostanzialmente d'accordo nell'utilizzazione per una vasta gamma di fenomeni di questo schema esplicativo non troppo lontano dalla superficie delle apparenze. Benché un moto (rellilineo) uniforme sia piuttosto un caso ideale in natura (Aristotele e Galileo avrebbero per altro concordato che il vero moto • na· turale" è quello circolare), a non pochi casi reali ci si avvicina con sufficiente approssimazione. Possiamo rendercene conto con un semplicissimo esempio. Stiamo guidando un'automobile sopra un rettilineo: alle ore 2 del pomeriggio il con1achilome1ri segna 70 chilometri percorsi, alle 5 del pomeriggio

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segna 220 chilometri. Supponiamo ora che l'automobile abbia viaggiato per tutto questo intervallo di tempo "a velocità costante", anche se come avverte qualche manuale quando si presentano a scopo didattico situazioni come questa, la nostra assunzione "è molto improbabile in realtà". Se qualcuno ci chiede dunque: Qual era questa velocità?, non ci è difficile rispondere che l'automobile ha viaggiato a una velocità di cinquanta chilometri all'ora: basta infatti sottrarre 70 da 220, dunque i chilometri che abbiamo percorso in linea retta sono 150 (lo "spazio" di cui parla Galileo) mentre per percorrerli sono state necessarie 5 meno 2 ore, cioè 3 ore (il "tempo"); il quoziente della divisione di 150 per 3 è 50, quindi concludiamo che l'automobile ha viaggiato costantemente alla "velocità" di 50 chilometri all'ora. Ma le situazioni reali possono essere più complicate e la modellizzazione suggerita dalla formula s vt può rivelarsi inadeguata. Tutto dipende da quel che vogliamo sapere: .supponiamo che la nostra auto parta ancora alle 2, e arrivi a destinazione alle 5, percorrendo su un rettilineo 200-50 150 chilometri, e tuttavia ora andiamo più forte, · ora andiamo più piano. Se a un certo punto superiamo il limite di velocità consentito, diciamo 100 chilometri all'ora, possiamo appellarci alla formula del "moto equabile"? l'ossiamo cioè ribattere a un perplesso agente della stradale che, se in tre ore abbiamo percorso 150 chilometri, allora egli non ha il diritto di multarci per eccesso di velocità in quanto viaggiavamo a (una media di) 50 chilometri all'ora? Certamente no: l'agente "non chiuderà un occhio" e ci darà lo stesso la multa. Forse senza saperlo l'agente ha assimilato il modo di vedere che si è imposto proprio con Ja "scienza nuova" di Galileo (La "Giornata terza• dei Discorsi non si limita tra l'altro al "moto naturale dei gravi discendenti" che è moto "che accelera continuamente"). Chi "ha socchiu• so gli occhi" nel nostro immaginario incontro con l'agente della stradale siamo stati noi, che siamo ricorsi a una sorta di media, preoccupandoci ben poco di come variava effettivamente la nostra velocità nel corso del viaggio. t;: giusto dire allora che noi siamo rimasti "nel mondo del pressappoco", mentre quell'agente vive ormai "nell'universo della pre• cisione"? Sl e no. Sì: almeno dai tempi di Galileo, il rispondere che la nostra velocità media è stata di 50 chilometri orari non esclude affatto l'accusa di averli superati in una certa parte del viaggio, per esem• pio in quell'intervallo di tempo, abbastanza piccolo, in cui l'agente ci ha sorpreso. No: l'agente, come noi, "socchiude gli occhi", poiché per valutare a che velocità viaggiavamo quando ci ha sorpreso ricorre anche lui a una media, seppure su un intervallo di tempo· mo/io più breve di un'ora (per esempio è sensato supporre che la velocità di una automobile non subisca una variazione rilevante per gli interessi del traffico in un secondo: ed è questa velocità media "più fine" che l'agente contrappone alla velocità media che noi abbiamo dichiareto). Fin qui,

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tutto bene; ma se l'agente volesse davvero precisare quale era la velocità nell 'istallle in cui ci ha sorpreso si imbotterebbe nella stessa difficoltà di Agostino d'lppona, dovrebbe davvero guardarci in un solo istallle! Ma, si dirà, potrebbe anche uscire dalla difficoltà sostenendo che ciò che permette davvero di passare dal "mondo del pressappoco• allo "universo della precisione• non è tanto la conquista dell'esattezza quanto la riduzione dell'imprecisione: nell'applicazione della formula s = vt nella valutazione approssimata della velocità a/l'istante si tratta di • socchiudere gli occhi• per intervalli di tempo sempre più brevi. Se l'agente fosse, per un qualche caso, un lettore non solo di Agostino, ma dei "nominalisti", da Ockham a Fromondo, concluderebbe giudiziosamente che la velocità all'istante non è che una "finzione", o meglio è un • nome che abbrevia la descrizione di una sequenza ("indefinita•, cioè potenzialmente infinita) di medie (su tempi sempre più piccoli) e adotterebbe così quella strategia di riduzione linguistica che i nomina/es, radicalizzando Aristotele, utilizzavano già nei confronti dell'infinito. Ma Galileo non si sarebbe dichiarato soddisfatto: avrebbe insistito che in casi di moti •accelerati• occorre conoscere anche "in che proporzione tale accelerazione avvenga•. A questo scopo non occorre solo una precisa nozione di velocità all'istante, ma anche una stima della variazione della velocità istantanea. Un compito arduo, non fosse altro per il fatto che se l'intervallo di tempo su cui calcoliamo la media viene contralto, per così dire, in un istante, ci ritroviamo con la freccia "immota• _di Zenone che in ogni istante è ferma o, se si preferisce la versione algebrica del problema, con un 'espressione della velocità che non è altro che la "assurda• frazione 0/0. Per districarsi da questo "labirinto• (il che, con tutta probabilità, esula dalle sue competenze istiruzionali) il nostro agente avrebbe dovuto allora leggersi Galileo, e poi, per far solo qualche nome, Cavalieri, Torricelli, Barrow, Descartes, Fermat, Pascal, Newton, Leibniz, Euler e ancora Cauchy e Weierstrass (e, perché no?, anche Abraham Robinson), Ovviamente tali letture sarebbero veramente superflue se il nostro fosse un mondo in cui tutti i moti fossero "equabili", cioè uniformi. Sollevare il velo su un cosmo in cui l'informazione di base concerne non le singole velocità ma le loro variazioni nel tempo sarà allora, nel teatro galileiano, compito di Salviati. Già nella "Giornata prima" del Dialogo (1632) è infatti lui che chiede ai suoi interlocutori di immaginare due piani (fig. 22), CB verticale e CA inclinato, eretti al disopra di un piano orizzontale AB. Salviati immagina poi che lungo ciascun piano una palla rotoli senza attrito a partire dal punto comune C e chiede ai suoi interlocutori di concedere che, quando i due corpi raggiungono rispettivamente A e B, avranno acquistato lo stesso "impeto• inteso come la velocità necessaria per ricondurli alla medesima altezza da cui sono scesi. Salviati domanda quindi agli altri due personaggi quale dei due corpi si muoverà più velocemente. Sagredo ammette su-

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Figura 22

L'esperimento mentale di Galileo nella "Giornata prima" del Dialogo a proposito della nozione di velocità.

bito che "pare pur necessario che il moto per la perpendicolare CB debba esser più veloce che per l'inclinata CA": eppure, "se questo è, come potrà il cadente per l'inclinata, giunto al punto A, aver tanto impeto, cioè tal grado di velocità [corsivo mio], quale e quanto il cadente per la perpendicolare avrà nel punto B? Queste due proposizioni par che si contraddicono". Salviati ricorda allora ai suoi ascoltatori che si suole definire come "più veloce" fra due moti quello che percorre una stessa distanza in un tempo minore. Una parte della difficoltà, egli suggerisce, deriva dal tentativo di comparare due moti che percorrono distanze diverse. Si dovrebbero invece mettere a confronto i tempi impiegati dai due corpi per percorrere una medesima distanza. Come distanza comune Salviati sceglie la lunghezza del piano verticale CB. Questa decisione, però, complica il problema. La distanza CA è più lunga della distanza CB e la risposta alla domanda di quale dei due corpi si muova più velocemente dipende da dove, lungo il piano inclinato CA, si misura la lunghezza comune CB. Se essa viene misurata immediatamente a partire dall'inizio del piano inclinato, la palla in moto lungo la perpendicolare completerà il suo moto in un tempo minore di quello impiegato dalla palla in moto lungo l'inclinata per percorrere una distanza uguale a CB: il moto lungo la perpendicolare è più veloce. D'altro lato, se la distanza viene misurata nella parte bassa del piano inclinato, il corpo in moto lungo la perpendicolare

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impiegherà a percorrere la medesima distanza un tempo maggiore: il moto lungo la perpendicolare sarà più lento. Infine, ragiona Salviati, se la distanza CB sarà misurata su una appropriata parte interna dell'inclinata, i tempi richiesti perché i due corpi percorrano i due segmenti uguali saranno uguali: il moto lungo la perpendicolare avrà la stessa velocità di quello lungo l'inclinata. A questo punto il dialogo ha fornito addirittura tre risposte e anche queste • par che si contraddicano"! Simplicio potrebbe allora osservare che i suoi interlocutori non hanno fatto altro che cavillare intorno a una nozione - quella di velocità - che ognuno ritiene di poter affermare intuitivamente senza difficoltà (e che Galilei, tra l'altro, si guarda bene dal "definire" sia nel Dialogo che nei Discorsi) e concludere disperato "non avevo problemi all'inizio; ed ora ho solo problemi•. Ma dà i suoi frutti la tattica di Salviati-Galileo, consistente, anche q11i, nel "far slittare l'ipotesi" (cfr. oltre, p. 230); essa mira a una revisione delle classificazioni concetruali di base; mira, in particolare, a distinguere tra l'uso (consueto) del termine velocità come proprietà "globale" del moto da un'accezione più "locale" (la velocità non va attribuita al moto nel suo insieme ma piuttosto alle sue parti). Man mano che l'argomentazione procede, Salviati-Galileo continua infatti ad ammonire i suoi due interlocutori a non fingere di non capire "quel che voi intendete meglio di me", cioè il significato di termini come più veloce. Ma il fatto è che, nella messa in scena galileiana della controversia, anche Sagredo e Simplicio sono Galileo. Ora, Simplicio-Galileo sa cosa vuol dire che un dato corpo A percorre una data distanza "più rapidamente" di come la percorre un altro corpo B, mentre Sagredo-Galileo "intende" cosa vuol dire che in un dato istante un corpo ha una "velocità" (o meglio: "un grado di velocità") maggiore di quella (quello) che un altro corpo ha in quell'istante o in un altro istante specificato. Nell'Essay Concerning Human Understanding (1690) il filosofo John Locke osserverà che tutte le dispute si concluderebbero in tempi brevissimi se i litiganti "usassero costantemente la stessa parola nello stesso senso": solo che "la provvista delle parole è così scarsa rispetto all'infinita varietà dei pensieri che gli uomini ... saranno costretti a usare la stessa .parola in sensi alquanto diversi•. Di ciò occorre avere però consapevolezza: e questa non è immediata, ma emerge proprio con l'articolarsi della disputa. Nel caso: in Aristotele le due accezioni di "velocità" coesistevano, anzi erano con-fuse proprio perché, sostanzialmente, "il Macedone di Stagira" sembrava assumere, perlomeno implicitamente, che tutti i moti fossero uniformi. Questo mondo • aristotelico • è in sé perfettamente "legittimo" (cfr. p. 90): solo, obietterebbe un Salviati-Galileo, il mondo aristotelico non è il nostro mondo, proprio perché è retto da una legge che solo occasionalmente è soddisfatta nel nostro. t vero che in più di un passo del corpus aristotelico

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appare la consapevolezza del fatto che i corpi in caduta accrescono la loro velocità durante il moto; ma ha ragione lo storico della scienza Thomas Kuhn quando dice che "Aristotele mantenne questa informazione alla periferia della sua coscienza scientifica•. La rivoluzione intellettuale operata da Galileo - se mai "rivoluzione• c'è stata - ba consistito proprio nel porre al centro quei casi che Aristotele aveva lasciato alla periferia. Lo cogliamo bene nei Discorsi (1638), dove si dispiega appunto la "novità" dell'approccio galileiano. "Quando, dunque, osservo che una pietra, che discende dall'alto a partire dalla quiete, acquista via via nuovi incrementi di velocità, perché non dovrei credere che tali aumenti avvengano secondo la più semplice e la più ovvia proporzione? Ora, se consideriamo attentamente la cosa, non troveremo nessun aumento o incremento più semplice di quello che aumenta sempre nello stesso modo." Ne potremo concludere che "sembra di non discordare affatto dalla retta ragione se ammettiamo che l'intensità della velocità cresca secondo l'estensione del tempo" (noi diremmo che la velocità è proporzionale al tempo). Ma qui Sagredo solleva un'obiezione: la condizione iniziale è che la pietra sia in quiete e la quiete è "privazione di ogni velocità": ora, "essendo il tempo subdivisibile in infinito", a un intervallo di tempo dall'inizio del moto di una certa consistenza esso sembrerebbe "cosi tardo, che non avrebbe (seguitando a muoversi con tal tardità) passato un miglio in un'ora, né in un giorno, né in un anno, né in mille" e questo "è accidente al quale pare che assai mal agevolmente s'accomodi l'immaginazione, mentre che il senso ci mostra, un grave cadente venir subito con gran velocità•. Ma per Salviati l'esperienza "che parea nel primo aspetto mostrare una cosa", meglio considerata ci assicura del contrario: • quel masso che lasciato cadere sopra un palo dall'altezza di quattro braccia mo fissa in terra, v.g. quattro dita, venendo dall'altezza di duo braccia lo caccerà assai manco, e meno dall'altezza di uno, e manco da un palmo; e finalmente, sollevando un dito, che farà di più che se, senza percossa, vi fusse sopra? certo pochissimo: ed operazione del tutto impercettibile sarebbe, se si elevasse quanto è grosso un foglio. t perché l'effetto della percossa si regola dalla velocità del medesimo percuziente, chi vorrà dubitare che lentissimo sia 'l moto e più che minima la velocità, dove l'operazione sua sia impercettibile?". Insomma, "noi abbiamo un sasso grave, so• stenuto nell'aria in quiete; si libera dal sostegno e si pone in libertà, e, come più grave dell'aria, vien discendendo al passo, e non con moto equabile, ma lento nel principio, e continuamente dopo accelerato: ed essendo che la velocità è aumentabile e menomabile in infinito, qual ragione mi persuaderà che tal mobile. partendosi da una tardità infinita (ché tal è la quiete), entri immediatamente in dieci gradi di velocità più che in una di quattro, o in questa prima che in una di due, di uno, di un mezzo, di un centesimo? ed in somma in tutte le minori in infi-

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nito?" Infine, !'"acquisto dei gradi di velocità del sasso cadente" avviene collo stesso ordine con cui il grave perde i medesimi •gradi• quando nel moto contrario "è ricacciato in su alla medesima altezza• da una qualche "forza impellente". E in questo ultimo caso (moto uniformemente "ritardato") è evidente che il sasso "consuma tutta" la velocità iniziale e perviene allo stato di quiete "passando per tutti i gradi di tardità•, che sono infiniti. ~ ora il turno di Simplicio: se questi •gradi• sono infiniti, • già mai si consumeranno tutti• ovvero il sasso scagliato in aria non perverrà mai alla quiete, "ma infinitamente si rnoverà, ritardandosi sempre". A Simplicio (o meglio, a Simplicio-Galileo) tocca una parte che non sarebbe dispiaciuta a Zenone (anche se il filosofo di Elea non è esplicitamente evocato). Nella logica della controversia ciò non è che il preludio alla soluzione offerta da Salviati, cioè l'atomismo infinitista. L'esito paradossale si verificherebbe solo se "il mobile andasse per qualche tempo trattenendosi in ciaschedun grado"; ma questo "vi passa solamente, senza dimorarvi oltre a un istante" e ciò perché "in ogni tempo quanto, ancor che piccolissimo, sono infiniti istanti, però son bastanti a rispondere a gl'infiniti gradi di velocità diminuita". Di nuovo Galileo sembra giustificare anche la dottrina aristotelica della perpetua divisibilitas ricorrendo alla compositio atomistica. Galileo affronta di fatto la "difficoltà zenoniana" - come può un mobile in un tempo finito passare per gli infiniti • gradi di velocità• con una audace correlazione tra •gradi" e •istanti" di tempo. La sua reinterpretazione di una tecnica di calcolo ben nota (la cosiddetta "regola di Merton College", cfr. anche la didascalia della fig. 24), traduce nel contesto matematico della •dimostrazione" del •teorema• circa il moto uniformemente accelerato (di cui la caduta dei gravi diviene un vero e proprio caso esemplare) il fatto fisico che la variazio_ne di velocità nel tempo è "percettibile", il fatto cioè che essa fornisce una informazione rilevante alla determinazione della "legge del moto" (al contrario Aristotele, in un celebre passo del libro V della Fisica, aveva considerato tale variazione una sorta di non-movimento, cfr. anche p. 213). E se pure manca in Galileo una "definizione" della velocità istantanea (tipo quella che incontriamo abitualmente nei nostri manuali per cui essa non è altro che "la derivata dello spazio rispetto al tempo"), l'uso teorico dell'esempio fisico (in breve quello che si suole chiamare "esperimento mentale") - tipico appunto della tradizione della "matematica mista" (cfr. p. 129) - giustifica l'abbandono di quello che per brevità alla p. J 36 abbiamo chiamato mondo aristotelico. Con una geniale tecnica di rappresentazione - che sfrutta le proprietà del piano inclinato (cfr. fig. 23) - Galileo infatti rende concettualmente intelligibile quel "passaggio per tutti i gradi di tardità• che sembra così imbarazzante per Simplicio. Come è evidente nella figura 23, aumentando progressivamente l'inclinazione del piano il moto

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Figura 23

Galileo alle prese con una difficoltà che riecheggia sostanzialmente l'argomento di Zenone. Nella caduta di un grave, come può il mobile in un tempo finito passare per gli infiniti "gradi di velocità" che lo separano infine dalla "quiete"? li dispositivo del piano inclinato consente una sona di "esperianento mentale" che mostra la possibilità della transizione dalla velocità iniziale alla quiete che è "infinita tardità": aumentando progressivamente l'inclinazione rispetto alla vcnicale il moto rallenta, fino alla stasi (piano orizzontale).

viene rallentato: la quiete che è caratterizzata dalla tardità infinita o, diciamolo pure, dalla velocità zero - non è altro - potremmo dire con un piccolo anacronismo - che il limite del moto; più che richiedere una trattazione separata, essa deve venir prospettata come il caso ultimo di quello. Galileo non fa altro che dare qui una versione cinematica dell'assimilazione dello zero alle quantità usuali, assimilazione che diviene perfettamente intelligibile almeno nel caso di grandezze continue. Due giudizi posteriori paiono qui pertinenti. li primo è tratto dalla Critica della ragion pura (1783) di Kant: una grandezza continua "può appunto ridursi a nulla ... per un progressivo sminuimento (remissio) ... (quindi per illanguidimento, se mi è concesso l'impiego di una espressione del genere)". Kant nel luogo citato utilizzava lo schema per criticare un argomento a favore dell'immortalità dell'anima addotto da Moses Mendelssohn; ma al tempo stesso fondava "le anticipazioni della percezione" sulla possibilità di prospettare il limite cui tende un processo come il caso ultimo di quel processo. Il secondo giudizio è contenuto nella Meccanica (1885) di Emst Mach, secondo cui "in tutte le sue riflessioni Galileo ha seguito un principio di grande fecondità scientifica, che può essere chiamato principio di continuità

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Figura 24

D La dimostrazione del Teorema I nella "Giornata terza" dei Discorsi. Galileo

si riallaccia presumibilmente a una tradizione che risale (almeno) a Nicola d'Oresme. La cosiddetta ··regola di Oresme", che oggi si preferisce chiamare "regola di Menon College"' può venir così formulata: .. La distanza percorsa in un tempo dato da un corpo che si muove di moto uniformemente vario con velocità crescente da ,.• a v, è uguale alla distanza percorsa nello stesso tempo da un corpo che si muove di moto uniforme con velocità uguale a quella del moto uniformemente vario nell'istante di mezzo del tempo considerato". Tale regola, come osserva per esempio Oijksterhuis, "non è altro che la proposizione, generalmente nota e largamente discussa nel Trecento. che una qualità uniformemente difforme corrisponde al suo grado di mezzo, affermazione contro la quale altri sostenevano invece che essa corrisponde non al suo grado di mezzo, ma al suo grado finale". (E. J. Dijksterhuis, De Mechanisering van htt Wereldbetld, 1950, tr. it. li meccanicismo e /'immagi11e del mo11do dai Presocratici a Newton, Feltrinelli, Milano 1971: Il, 129 e 130, pp. 261 e 262 rispettivamente).

consistente nel variare nel pensiero, gradualmente e per quanto è possibile, le circostanze di un caso particolare, tenendo ferma nello stesso tempo l'idea già formulata su di esso. Nessun altro metodo permette una più sicura comprensione di tutti i fenomeni naturali con maggiore facilità e minore fatica intellettuale" (corsivo mio). Galileo non è stato "l'inventore" di tale principio (come dice Mach in una

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pagina piena di entusiasmo), poiché teologi e filosofi naturali, matematici e mistici nel Medioevo e nel Rinascimento vi avevano già fatto ricorso, trovandovi tra l'altro proprio quei pregi di "economia intellettuale• che dovevano renderlo cosl raccomandabile agli occhi di Mach. Né c'è da stupirsi troppo dell'attribuzione dell'invenzione del principio a Galileo, dato che davvero • in tutte le sue riflessioni• questi ne ha fatto lo strumento essenziale del suo "esame ordinato• delle "materie fisiche" (che vuol dire "diffalcare gli impedimenti della materia" se non che al caso ultimo in cui questi spariscono si perviene applicando concettualmente un "progressivo sminuimento• degli "impedimenti" che abitualmente riscontriamo nella esperienza quotidiana). Semmai può apparire sorprendente che proprio Mach che è usualmente considerato un empirista radicale (e che dichiarava egli stesso "di non condividere alcun punto di vista metafisico") ricorresse ("per colmare le lacune dell'esperienza mediante rappresentazioni che l'esperienza stessa suggerisce") a un principio la cui natura "fin troppo metafisica" poteva sembrare imbarazzante persino a un "metafisico" come Leibniz (pp. 216-219). Ma di questo più oltre. Torniamo a Galileo. Egli aveva a lungo esitato tra l'idea che la velocità fosse proporzionale allo spazio percorso e quella, adottata pienamente nei Discorsi, che la velocità è proporzionale al tempo trascorso. La dimostrazione di quest'ultima tesi è il punto di arrivo di un percorso intellettuale complesso e proprio per questo risulta inte• ressante. Innanzitutto: per Galileo (come più tardi per Newton), comprendere è geometrizzare: e nella figura 24, tratta dalla "Giornata terza" dei Discorsi, gli istanti di tempo sono rappresentati da punti di un segmento, i "gradi di velocità" da segmenti, e gli spazi percorsi sono, sostanzialmente, delle aree. Più precisamente, con la lunghezza AB Galileo rappresenta il tempo in cui viene percorso lo spazio CD da un mobile che si muove di moto uniformemente accelerato a partire dalla quiete in C. La velocità crescerà e dopo un certo lasso di tempo arriverà in D a un certo "grado di velocità" maggiore di tutti i precedenti: Galileo rappresenta allora tale lasso di tempo con un segmento retto AB, cioè con un continuo lineare "terminato" e il "grado di velocità" finale con un segmento BE perpendicolare in B ad AB. Infine, "tracciata la congiungente AE tutte le parallele a BE condotte dai singoli punti della linea AB rappresenteranno i gradi di velocità crescenti a partire dallo istante A". L'istante A è quello in cui il mobile è in quiete ovvero ha "tardità infinita"; noi diremmo che il mobile ha qui velocità zero e che, di conseguenza, il segmento perpendicolare alla AB in A che dovrebbe rappresentare "il grado di velocità" in quell'istante. si è come contratto in un punto. Prosegue Galileo: "Divisa poi la BE a metà nel punto F, e condotte le parallele FG e AG rispettivamente alle BA e BF, si sarà costruito il parallelogramma AGFB che è uguale [equivalente] al triangolo AEB

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e che col lato GF divide a metà la AE nel punto /: se poi si prolungano le parallele del triangolo AEB fino a incontrare la IO, avremo che l'aggregato di tutte le parallele contenute nel quadrilatero è eguale [equivalente] all'aggregato di quelle comprese nel triangolo AEB; infatti, quelle che si trovano nel triangolo IEF sono pari a quelle contenute nel triangolo GlA; quanto a quelle che si trovano nel trapezio AlFB, esse sono in comune•. Cii) posto, "siccome a tutti gli istanti del tempo AB corrispondono, uno ad uno, tutti i punti della linea AB, e poiché le parallele condotte da questi punti e comprese nel triangolo AEB rappresentano i gradi crescenti della velocità aumentata, mentre le parallele contenute nel parallelogramma rappresentano analogamente altrettanti gradi della velocità non accresciuta, ma equahile. E chiaro che nel moto accelerato secondo le parallele crescenti del triangolo AEB si avranno altrettanti momenti di velocità [momenta celeritatis] che nel moto equabile secondo le parallele del parallelogramma GB: infatti quella parte dei momenti che manca nella prima metà del moto accelerato (infatti mancano i momenti rappresentati dalle parallele del triangolo AGO è compensata dai momenti rappresentati dalle parallele del triangolo IEF•. Galileo ritiene di aver cosl dimostrato il teorema secondo cui il tem· po in cui un dato spazio è percorso da un mobile con moto uniformemente accelerato a partire dalla quiete, è eguale al tempo in cui quel medesimo spazio sarebbe percorso dal medesimo mobile mosso di "moto equabi!e• (uniforme) il cui grado di velocità sia la metà del "grado di velocità ultimo e massimo• raggiunto dal mobile nel moto uniformemente accelerato; pertanto per noi è immediato esprimere il risultato galileiano nella formula s 1 /2 vt (ove v denota la velocità al tempo t) (che traduce l'equivalenza tra il rettangolo AGFB e il triangolo AEB) e; posto v gt ove g denota l'accelerazione (costante: in particolare g è 9,8 metri al secondo per la caduta dei gravi secondo Galileo) si ricava la formula attribuita a Galileo in ogni manuale di scuola media: s 1/2 gt2. Galileo non ha mai scritto una formula del genere; ma il punto non è questo. Quel che importa è che nello schema galileiano è possibile accoppiare alla rappresentazione geometrica una stima numerica. Basta infatti prolungare la figura 24 come indicato nella figura 25 e letteralmente contare i triangoli per constatare che gli spazi percorsi in intervalli di tempo uguali aumentano come i numeri dispari 1, 3, 5, 7, ecc. e quindi gli spazi percorsi dall'inizio del moto aumentano come 1 + 3 = 4 = 21, 1 + 3 + 5 9 = 31, 1 + 3 + 5 + 7 16 = 41, ecc. cioè come i quadrati dei numeri natu·rali I, 2, 3, 4, ecc. Se la rappresentazione geometrica sfrutta essenzialmente il continuo, l'aspello più propriamente calcolistico mette in luce i vantaggi del discreto. Pur con tutte le ambiguità della sua "matematica mista" e della sua • metafisica nascosta•, Galileo era riuscito, seppur solo

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Figura 25

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/1 ;'1 / I , I / I/ 1/

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Discretizzazione dello schema galileiano. Ba,1a prolungare la figura 24 e coniare i triangoli per vedere che gli spazi percorsi in in1ervalli di 1empo uguali aumen1ano come i numeri dispari I. 3, 5. 7 .... e quindi gli spazi complessivi aumen1ano come 1+3 = 4 = 21 • 1+3+5 = 9 = J1. 1+3+5+7 = 16 = 4 1 , ... cioè come i yuadrali dei numeri nalurdli.

• per certi effetti particolari• (come gli rinfacciava Descartes nel 1638, l'anno stesso della comparsa dei Discorsi a Leida, • appresso gli Elsevirii "), a far combaciare i due aspetti chiave di quella che ancor oggi si indica come "l'aporia fondante" della matematica. E questo non è un risultato minore, almeno se si pensa - (con Galileo e) con Mach che "la scienza non riguarda solo le accademie dei dotti, ma ha radici profonde nella vita dell'umanità e agisce attivamente su di essa". Del resto, senza calcolo, cioè senza determinazioni numeriche, niente predizioni e quindi niente controlli dei modelli generati dalle nostre teorie, per quanto "prom::ttenti" si rivelino sul piano della "pura" intelligibilità. Mentre invece, come scriveva Leibniz a Con ring (1678), la miglior garanzia della loro attendibilità • è che con il loro aiuto si possono fare predizioni anche intorno a fenomeni ed esperimenti non previsti•. Filosofi come William Whewell e matematici come Joseph

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Fourier scorgeranno proprio qui la caratteristica più rilevante della crescita della scienza. Ma come accertarsene, appunto, senza "interpretazione numerica"? Le •mirabili invenzioni• di Bonaventura Cavalieri Nel 1635, due anni dopo il processo a Galileo, appare a Bologna, stampato da Clemente Ferroni, un poderoso trattato di geometria, la Geometria indivisibilibus co11ti11uorum nova quadam ratione promo/a del frate milanese Bonaventura Cavalieri. li più prestigioso dei discepoli di Galileo, Evangelista Torricelli saluterà in lui "l'ideatore di mirabili invenzioni•, colui che • per primo aprì e spianò, per il pubblico bene• quelle vie che dovevano portare alla costituzione di una "nuova geometria". Tuttavia gli storici delle matematiche non si sono sempre dimostrati così generosi con Cavalieri: scrittore dallo stile che si pretende "oscuro" così come sono oscuri non pochi particolari della sua vita (non è certa la data di nascita e nemmeno la grafia del nome: Cavalieri, Cavaglieri, Cavallieri, ecc.), cui viene attribuito il ruolo (e. come vedremo, a torto!) di uno fra i vari "precursori" di Leibniz. Più approfonditi studi hanno però restituito i tratti originari della concezione di Cavalieri che aprì alla ricerca geometrica un "immenso oceano" di nuove questioni e risultati. Un grande problema che la matematica aveva ereditato dal mondo greco - quello del calcolo delle aree delle figure piane e dei volumi delle figure solide (si veda il capitolo lii) - viene affrontato da Cavalieri non coi metodi •rigorosi• che la tradizione faceva risalire almeno ad Archimede, ma con un approccio differente, la "teoria degli indivisibili". In una linea è possibile individuare un numero infinito (ma prudentemente Cavalieri preferisce dire "indefinito") di punti: essi sono gli "elementi ultimi" in cui la linea si può pensare scomposta e per questo sono detti "indivisibili• della linea. Analogamente: in una figura piana (cioè, in un "continuo" piano) è possibile individuare un numero infinito di linee, che vanno intese come gli •indivisibili• di quella figura; infine in una figura solida (in un "continuo" solido) è possibile individuare un numero infinito di piani, gli "indivisibili" di quella figura. Fin qui niente di nuovo rispetto alle dispute medioevali (si veda il capitolo IV). Ma, come impiegare questa versione dello "indivisibilismo" per risolvere il problema delle aree e dei volumi? Nella tradizione classica, un passo che pare d'obbligo è quello di confrontare una figura piana (o solida) di cui non si conosce l'area (o il volume) con un'altra figura di cui già si sa l'area (o il volume); per Cavalieri tale confronto va però ricondotto al confronto dei loro indivisibili. Supponiamo, per esempio, che si debbano confrontare tra loro due qualsiasi figure, come nel disegno CAM e CME (vedi figura 26). Ca-

•L'immenso oceano degli indivisibili"

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Figura 26

L'approccio di Cavalieri: 1utte le rette parnllele a una data ··regola", per esempio la rena AE. cos1i1uisconu gli indivisibili della tigurn CAM e della tigurn CME rispcttivamcnlc: per e,cmpio. BD:parnllcla ad AE. individua l'indivisibile BR nella prima tigur•. l'indivisibile RD nella seconda.

valieri considererebbe allora tutte le rette parallele a una data retta assegnata (o "regola"), per esempio alla retta AE. Sia BD una di queste rette, che individua un "indivisibile" BR della prima figura CAM e un corrispondente indivisibile RD della seconda figura CME. BR e RD stanno in un certo rapporto: ora, se ogni altra coppia di indivisibili corrispondenti nelle due figure è nel medesimo rapporto di BR e RD, Cavalieri si sentirebbe in diritto di concludere che l'intera figura CAM è in quello stesso rapporto con l'intera figura CME. Ut unum ad unum, sic omnia ad omnia: la frase di Cavalieri sintetizza la procedura consistente nel confrontare "singolarmente" gli indivisibili di due figure per inferire da un eventuale rapporto costante di ogni singola coppia di indivisibili "omologhi" (corrispondenti) il rapporto delle due figure geometriche. Cavalieri, infatti, non fa mai riferimento, come ci è oggi familiare, alla misura delle grandezze, ma lavora esclusivamente su rapporti. Ora, è noto, che se a1 : b1 = az : bz = = a. : b. allora (a, + az ... + a,,) : (b1 +bz + ... b.) ai: b1 ovvero "come uno degli antecedenti sta ad uno dei conseguenti così [la somma di] tutti gli antecedenti stanno a [la somma di] tutti i conseguenti". Tuttavia, quel che Cavalieri in realtà "compone" - per esempio nel caso di continui piani - sono le "linee" delle due figure in

=

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Lo spellro e il libertino

questione (crr. ancora la figura 26) e •con lo stesso metodo" procede anche per figure solide. Si tratta così di una •doppia estrapolazione" (E. Giusti 1980) che consiste 1) nel passare da un numero finito a un numero infinito di rapporti (Cavalieri si limita a parlare di un "numero indefinito di tutti gli antecedenti e conseguenti"); 2) nell'identificare l'espressione omnia antecedentia (un'abbreviazione di summa omnium antecedenlium) con

omnes lineae.

Ora, la 1) ci rimanda a uno dei temi del pensiero matematico dell'epoca (l'estrapolazione da procedure di calcolo che constano di un numero finito di operazioni elementari a procedure che constano di una successione infinita); la 2) è spia del fatto che teorie fortemente accreditate per certi contesti possono rivelarsi un ostacolo appena la situazione è cambiata. La crisi del pitagorismo aveva indotto i greci ad abbandonare l'aritmetica come teoria dominante e a sostituirla con la geometria: la dottrina delle proporzioni aveva reso possibile la traduzione nel nuovo contesto geometrico_dei risultati acquisiti mediante l'aritmetica e una trattazione soddisfacente dei rapporti tra grandezze incommensurabili. In questa griglia concettuale Cavalieri opera, senza rimetterla in discussione; anche se la griglia è troppo rigida per i contenuti della •teoria degli indivisibili". Un nuovo cambiamento di teoria dominante (la sostituzione della geometria con l'algebra con Fennat e Descartes) rimodellerà notevolmente il calcolo e le modalità della sua applicazione allo studio dei fenomeni naturali. Quando alla trattazione eudossiana ed euclidea delle grandezze si sostituiranno le manipolazioni dell'algebra, l'attribuzione di uno spessore infinitesimo alle •linee" di una figura pennetterà di ottenere un risultato finito di una somma infinita di grandezze "infinitamente piccole". Questa operazione - il calcolo del cosiddetto integrale definito - verrà indicata ancora da Leibniz per un certo periodo con un simbolo "cavalierano" omn. L, abbreviazione di omnes lineae, e solo successivamente modificato: • utile erit scribi f pro omnes lineae, ut f L pro omn. L, id est summa ipsorum L ": Leibniz riterrà dunque "utile" abbreviare "la somma di tutte le linee• con il segno f, che non è altro che l'iniziale di somma; ma finirà con scrivere dopo questo segno non il semplice L, ma (come è nella stessa notazione attuale) L(x) dx: dunque, quel che segue il segno di integrale, contro Cavalieri, rappresenta un vero e proprio elemento bidimensionale, seppur "infinitesimo". Si dovrà quindi procedere con estrema cautela nel "tradurre" Cavalieri mediante le usuali notazioni integrali: Cavalieri non è un precursore di Leibniz (contro un mito che Leibniz stesso ha accreditato; p. 189). Ma se si cessa di cercare in Cavalieri anticipazioni di idee impostesi anni o secoli più tardi e si guarda piuttosto ai tratti peculiari della sua concezione degli indivisibili, lo stesso modo di proce-

• L'immenso oceano degli lndi11isib/W

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dere della Geometria appare meno "oscuro" di quanto i critici abbiano preteso. Così è lo stesso Cavalieri che si preoccupa di eliminare incomprensioni e perplessità: "Qualcuno può forse dubitare di questa dimostrazione - nota in un commento della geometria - non comprendendo bene in qual modo linee, o piani, indefiniti di numero, quali possono essere stimati quelli che da me sono chiamati tutte le linee, oppure tutti i piani, di tali e talaltre figure, possano essere mutualmente confrontati. Per questo motivo mi sembra di dover accennare [ al fatto] che, quando considero tutte le linee, oppure tutti i piani di una qualche figura, io non confronto il loro numero, che ignoriamo, ma soltanto la grandezza che è uguale allo spazio occupato dalle linee medesime, essendo congruente ad esso; e poiché quello spazio è racchiuso in confini, pertanto anche la loro grandezza è racchiusa nei medesimi confini, per la qual cosa 3d éssa può venir fatta un'addizione, o una sottrazione, sebbt:ne ignoriamo il numero di esse; dico che ciò basta affinché siano mutuamente confrontabili, ché altrimenti neppure gli spazi stessi delle figure sarebbero confrontabili•.

Il •novello Edipo• e i suoi •cani da caccia• Il seguace di Cavalieri, Stefano Angeli, commenta nel 1659 che "tutti i geometri sono stati convinti della procedura che impiega gli indivisibili", con l'eccezione qi tre gesuiti at quo spirito ductos, ignoramus. Si tratta di Paul Guldin (Guidino), Andreas Tacquet e Mario Bettini. Innanzitutto quo spirito ductos?, cioè per quali motivi? Anche se ricorre nelle obiezioni dei critici come nelle risposte di Cavalieri il riferimento alla "avversione di moltissimi Filosofi• per gli indivisibili e Cavalieri stesso ci tiene a puntualizzare che mai ha affermato che Il continuo "si componga" di essi, la posta in gioco della controversia è ormai situata sul terreno della pratica matematica. Nei sei libri delle Exercitationes geometricae (1647) in larga parte motivati dal desiderio di dissolvere dubbi e incomprensioni, Cavalieri prende in esame "una certa difficoltà, che poteva essere fatta contro gli indivisibili•, benché di essa Guidino, il più autorevole degli avversari, "non si fosse nemmeno accorto". Cavalieri mostra così al suo principale critico di essere più bravo di lui nello scovare obiezioni contro il proprio programma, ma "la difficoltà" è in sé importante perché, da una parte, è il prototipo di molti degli argomenti addotti dai conservatori, dall'altra, il ricorso all'analogia da parte di Cavalieri nel trattarlo è spia delle difficoltà reali dello "indivisibilismo" matematico. HDG e HDA (fig. 27) sono due triangoli che hanno la stessa altezza, ma di basi differenti, rispettivamente GD e DA con GD maggiore di DA. Per un punto qualunque dell'altezza HD tracciamo una parallela / L alla retta AG e consideriamo il corrispondente rettangolo I LEC

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Lo spettro e il /iber1i110

Figura 27 H

Un tipico ··parad=·· degli indivisibili. ··Tra le cose che dal nostro Autore [Guidino) furono addotte comro !_!li lndivi,ibili - commema Cavalieri nelle E.xrrd1, ma anche del fatto che la velocità con cui la y varia al passare dall'istante x + o all'istante x + o + o è a sua volta variata (e tale variazione è data da yo, cioè dalla • velocità della velocità" per il tempuscolo o). Scritta allora la (2), si ricava algebricamente la (3) da cui, semplificando, segue la (4) dove, per comodità, invece che 4o2 abbiamo scritto 2a2 + 2a2, in modo che, sfruttando quanto già sappiamo da P,· 168 (fig. 32), essendo yo 2xo + 0 2 (e dunque 2j>o 4xo + 2o ) ci è facile semplificare di nuovo la (4), ottenendo la (5). Dividendo, questa volta per o', si trova infine il risultato corretto (6). Queste non sono solo semplici manipolazioni di segni: esse permettono di scoprire il ruolo "esplicito• di o e quello "nascosto" di a2 (o3, o', ecc. poiché Newton prevede l'uso di flussioni di tutti gli ordini) e

=

=

=

Lo spettro e il libertino

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Figura 34 (1) (2)

(3) (4) (5) (6)

= i+ yo + (y + yo)o = (x + o + o)2 2 2 y + yo + yo + yo = i- + 4.xo + 4o 2 2 2 2yo + '}o = 4.xo + 2o + 2o

y y

yo2 = 2o2 y =2

L'uso "nascos10" (De Mo~an) di o nel calcolo della Hussionc seconda della parabola di equazione x = J' (cfr. le figure 31 e 32). ove si è supposlo .i: = I.

ci portano quindi al cuore della newtoniana "scienza del tempo". Questa particolare versione dell'atomismo temporale è in realtà una filosofia che garantisce •sicurezza• e •intelligibilità•, ·come De Morgan suggerisce. E come leggiamo direttamente in Newton, nei Prin-

cipia:

• Le cose che sono state dimostrate circa le linee curve e le superfici in esse comprese, si applicano facilmente anche alle superfici curve e ai volumi dei solidi. In verità ho premesso questi lemmi per sfuggire alla noia di dedurre, secondo l'usanza dei vecchi geometri, lunghe dimostrazioni per assurdo. Col metodo degli indivisibili le dimostrazioni sono rese più brevi. Ma poiché l'ipotesi degli indivisibili è ardua, e poiché quel metodo è stimato meno geometrico, ho preferito ridurre le dimostrazioni delle cose seguenti alle prime e ultime somme e rapporti di quantità evanescenti e nascenti, ossia ai limiti delle somme e rapporti, e premettere, perciò, il più brevemente possibile, le dimostrazioni di quei limiti ... Perciò, se nel seguito mi capiterà di considerare le quantità come costituite da particelle determinate, o mi capiterà di prendere segmenti curvilinei come retti, vorrò significare non particelle indivisibili ma divisibili evanescenti, non somme e rapporti di parti determinate, ma sempre limiti di somme e rapporti; e la forza di tali dimostrazioni si richiamerà sempre al metodo dei lemmi precedenti•. E ancora: "Si obietta che non esiste l'ultimo rapporto di quantità evanescenti, in quanto esso, prima che le quantità siano svanite non è l'ultimo, e allorché sono svanite non c'è affatto. Ma con lo stesso

Il credo dei ribelli. Momenti, flussioni e atomi di tempo

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ragionamento si può giustamente sostenere che non esiste la velocità ultima di un corpo che giunga in un certo luogo, dove il moto finisce. La velocità, infatti, prima che un corpo giunga nel luogo non è l'ultima, quando vi giunge non c'è". Sembra la versione cinematica del paradosso di Agostino. Ma "la risposta è facile: per velocità ultima s'in· tende quella con la quale il corpo si muove, non prima di giungere al luogo ultimo nel quale il moto cessa, né dopo, ma proprio nel momento in cui vi giunge: ossia, quella stessa velocità con la quale il corpo giunge al luogo ultimo e con la quale il moto cessa. Similmente, per ultimi rapporti delle quantità evanesçenti si deve intendere il rapporto delle quantità non prima di diventare nulle e non dopo, ma quello col quale si annullano. Parimenti, anche il primo rapporto delle quantità nascenti è il rapporto col quale nascono. E la prima e ultima somma è quella con cui iniziano e cessano di essere (ossia di essere aumentate o di essere diminuite). Esiste un limite che la velocità alla fine del moto può raggiungere ma non superare. Questa è l'ultima velocità. E un identico limite è il rapporto di tutte le quantità e propor• zioni incipienti e evanescenti. E poiché questo limite è certo e definito, il problema di determinarlo è veramente geometrico". Infine: "si può anche obiettare che se vengono dati gli ultimi rapporti delle quantità evanescenti, saranno date anche ultime grandezze, e in tal modo ogni quantità sarà costituita da indivisibili, contro quanto Euclide dimostrò circa gli incommensurabili nel decimo libro degli Elementi. [ t; il vecchio spauracchio dell'irrazionalità della radice di 2 che, da Epicuro (almeno) in poi, ha costituito uno degli "spauracchi" più terribili degli "indivisibilisti" (pp. 109-118)). Questa obiezione, però, si basa su una falsa ipotesi. Gli ultimi rapporti con cui quelle quantità si annullano non sono in realtà i raoporti delle ultime quantità, ma i limiti ai quali i rapporti delle quantità decrescenti si avvicinano sempre, illimitatamente, e ai quali si possono avvicinare per più di qualunque differenza data, e che, però, non possono mai 5uperare, né toccare prima che le quantità siano diminuite all'infinito. La cosa si capisce più chiaramente nell'infinitamente grande. Se due quantità, delle quali è data la differenza, vengçmo aumentate all'infinito, sarà dato il loro ultimo rapporto, soprattutto il rapporto di eguaglianza, e, tuttavia, non saranno date le quantità ultime o massime delle quali questo è il rapporto. Nel seguito, dunque, allorché per essere capito facilmente, menzionerò le quantità minime o evanescenti o ultime, non bisognerà supporre che si tratti di quantità di determinata grandezza, ma bisognerà pensare sempre a quantità che diminuiscono illimitata• mente". A proposito di -questo passo dei Principia osserva per esempio Lu• dovico Geymonat: "se anche non ci troviamo ancora di fronte a un'esatta definizione di limite (questa sarà raggiunta solo un secolo e mezzo più tardi), abbiamo però l'esempio di una distinzione piena-

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mente consapevole fra lo studio (rigoroso) del limite del rapporto fra quantità che tendono a zero, e lo studio (puramente intuitivo) del rapporto fra due presunti indivisibili". Ora è vero che In concezione di Newton va attentamente distinta e dalla • teoria degli indivisibili• (nonché dalla presentazione delle proprie idee che Leibniz veniva facendo); è altrettanto vero che Newton si mostra "pienamente consapevole" di tale diversità concettuale. Che poi il passo citato ci dia un esempio di come possa operare l'idea di limite nei fondamenti del Calcolo pare indubbio. E tuttavia Newton non procedeva come ~un matematico di oggi". Gli mancava sia una concezione abbastanza definita di cosa sia un limite (la si troverà sostanziahnente solo con Cauchy e altri matematici della prima metà dell'Ottocento) sia uno "stile matematico" (per usare la bella locuzione di André Weil) in cui esprimere i propri risultati sfruttando sistematicamente tale definizione di limite (un risultato che si otterrà nella seconda metà dell'Ottocento con Weierstrass). Un giudizio come quello di Geymonat che abbiamo sopra riportato è un tipico esempio di quello che potremmo battezzare "eccesso di carità". Come è noto, è possibile reinterpretare retrospettivamente asserzioni di autori del passato razionalizzando il loro comportamento linguistico alla luce delle nostre concezioni, mediante una sorta di "principio di indulgenza" [principle o/ charity] o "principio del beneficio del dubbio". Parafrasando Pumam: certamente il "limite" della analisi matematica odierna (cioè dopo Weierstrass) è il limite di cui uei Principia (e altrove) intendeva parlare Newton, anzi "è senz'altro ciò di cui egli deve avere avuto intenzione di parlare!•. Ma c'è un uso non caritatevole del "principio di carità• che consiste nel cancellare quei tratti peculiari della concezione di base o del comportamento linguistico dell'autore preso in considerazione che contrastano con l'immagine preferita della crescita scientifica. Se il concetto newtoniano di limite fosse semplicemente una anticipazione (non del tutto riuscita) del concetto per cosi dire operativo di limite impostosi con Cauchy nell'Ottocento, tutta la "scienza del tempo" newtoniana sarebbe davvero "fatica superflua" come dice Hegel o "semplice pseudopensiero" come vuole Carnap, la storia del Calcolo non sarebbe altro che la storia della progressiva conquista di "frammenti" di una matematica "perfetta". Come vedremo in seguito, questo modo di concepire lo sviluppo delle idee chiave del Calcolo (e più in generale, di qualunque grande tradizione scientifica) è tutt'altro che irrazionale o implausibile. Solo che necessita di qualche qualificazione per evitare di appiattire la scienza del passato su quella di oggi, in una monotona sequenza di "anticipazioniw. Il fatto è che una sorta di "principio di indulgenzaw viene talvolta usato, talora in modo implicito e non del tutto consapevole, dagli stessi ricercatori, prima che da filosofi della scienza o da storici troppo sedotti dal miraggio di un progresso • pacifico e lineare•. Ne

Il credo dei ribelli. Momenti, flussioni e atomi di tempo

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abbiamo visto un esempio con le riletture "convenzionalistiche" del metodo degli indivisibili alle pagine I 19-121; ne vedremo in questo e nei capitoli successivi, a proposito della interpretazione degli indivisibili da parte di Newton (pp.182-183) e di Leibniz (pp. 189-190) nonché di quella degli infinitesimi da parte di Weierstrass (pp. 253-254), ecc. Per citare Borges, non solo Kafka sceglie i suoi precursori, ma anche Newton, o Leibniz, o Cauchy, ecc. Dunque: quella che in Newton troviamo all'opera, nello stesso uso del termine limite nel primo libro dei Principia è una sorta di intuizione fisica la cui importanza non va affatto sminuita per il fatto che a essa manca un tipo di "rigore• che sarà acquisito in modo sistematico due secoli più tardi. I': ben vero che nell'Ottocento il punto di vista dei limiti è diventato il punto di vista del rigore nel Calcolo; ma torna utile qui un'osservazione generale del grande matematico del Novecento Richard Courant: "è una tentazione ricorrente per i matematici [noi diremmo: anche per i filosofi della matematica] presentare il prodotto cristallizzato del loro pensiero• dimenticando problemi e difficoltà che si sono intrecciati ai tentativi via via proposti, e, ancor più il gioco complesso delle concezioni rivali. I; abbastanza scontato, allora, che la crescita della matematica, potremmo dire parafrasando Kuhn, risulti "un processo frammentario, nel corso del quale [vari] elementi sono stati aggiunti, singolarmente o a gruppi, al deposito sempre crescente che costituisce fla conoscenza matematica]•. Ma "quel che differenziava le varie scuole [per esempio indivisibili e limiti] non era questo o quel difetto di metodo ... ma ciò che chiameremo le loro incommensurabili maniere di guardare il mondo" (corsivo mio). Cavalieri soleva difendere i "suoi indivisibili• dalle accuse di inaffidabilità formulando esplicitamente quelle "restrizioni" che eliminavano i paradossi o addirittura li trasformavano in esempi (cfr. pp. 148-150): di conseguenza egli riteneva di essere perfettamente rispettoso del "rigore• che si ad dice ai geometri. D'altra parte la pretesa concezione "rigorosa• dei "primi e ultimi rapporti• doveva apparire a George Berkeley uno dei punti più deboli dello "edificio newtoniano• (proprio per gli "ultimi rapporti" che non sono "rapporti delle ultime quantità", ma "limiti ai quali i rapporti delle quantità decrescenti si avvicinano" Berkeley conierà il suo ghost of departed quantities, cfr. oltre, p. 225) e darà origine a una spaccatura nelle fila degli stessi "buoni newtoniani" (cfr. oltre, pp.-237-243). D'altra parte, guardando retrospettivamente, Newton letteralmente traduce entro la propria "maniera di guardare al mondo" i termini chiave della "teoria degli indivisibili". Punti di forza (a livello euristico) e punti di debolezza (a livello del "rigore", come Berkeley non mancherà di far notare) sono del resto evidenti nella recensione del Commercium epistolicum: "Newton ... avanza l'idea di ricavare l'area

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lo spettro e il libertino

dell'ordinata, considerando l'area come una quantità che nasce, cresce o aumenta secondo una flussione continua, in proporzione alla lunghezza dell'ordinata, e supponendo che l'ascissa aumenti uniformemente in proporzione al tempo. E dai momenti del tempo indica con il nome di momenti gli incrementi istantanei, cioè quelle parti infinitamente piccole dell'area e dell'ascissa generate nei singoli momenti del tempo. Chiama punto nel senso indicato da Cavalieri il momento della linea, quantunque non si tratti di un punto geometrico, ma di un segmento infinitamente breve; chiama linea, sempre nello stesso senso di Cavalieri, il momento dell'area o superficie, anche se non si tratta di una linea geometrica, ma di una superficie di larghezza infinitamente sottile. Quando poi considera l'ordinata come momento dell'area, intende con ciò i rettangoli aventi per lati l'ordinata geometrica e un momento deli 'ascissa. anche se tale momento non è sempre espresso•. JI linguaggio è qui estremamente rivelatore: il "momento della linea• prende il posto del "punto", il "momento dell'area o superficie" quello della •linea" di Cavalieri, ecc. la traduzione •distorce" i significati originari. Né poteva essere altrimenti: come Wallis e Barrow avevano a suo tempo ricordato, i "punti" (cioè gli indivisibili di base nella stessa teoria cavalierana) non sono "monadi" cioè "unità• come diceva ancora nella Fisica Aristotele, riprendendo i pitagorici (cfr. p. 83), ma sono "puri zero" o "meri nulla"; da essi, a meno che non si voglia, quasi magicamente, invocare la vis infiniti, non si può comporre un continuo proprio come tanti zero (poiché lo zero è essenza di quantità) non possono produrre una quantità. D'altro canto un continuo •terminato" cioè finito - ormai lo sappiamo - non può constare di un numero infinito di parti "quante": la via d'uscita pare allora rappresentata dalle • parti infinitamente piccole ... generate nei singoli momenti di tempo". Questi non sono altro (come abbiamo visto alle pp. 174-177) che l'ultimo avatar dei vecchi atomi di tempo. In una pagina rivelatrice del manoscritto latino della Methodus Newton a proposito degli algoritmi utilizzati per passare dalla "relazione tra fluenti• alla • relazione tra flussioni• osservava che • poiché i momenti (come io e yo) delle quantità fluenti (come x e y) sono incrementi infinitamente piccoli [infinite parva], con le quali quelle quantità crescono nei singoli intervalli di tempo infinitamente piccoli [infinite parva] segue che quantità x e y dopo un qualsiasi intervallo di tempo infinitamente piccolo [infinite parvum] diverranno x + io e y + yo•: ma aveva corretto un originario • indefinitamente piccoli• [indefinite parva], la locuzione cara, per esempio, a Barrow. Certi passi della recensione al Commercium episto/icum, infine, chiariscono la doppia interpretazione del procediment.o newtoniano, statica (o è "infinitamente piccolo" e quindi "trascurabile") e cinematica (o è una "quantilà finita", ma può "decrescere all'infinito sino a svanire"): "Newton [ infatti] assume per unità la flussione uniforme del

Il credo del ribe//1. Momenti, Pussionl e atomi di tempo

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tempo o di qualsiasi funzione del tempo. Indica con la lettera "o• il momento del tempo e della sua funzione; con qualsiasi altro tipo di simboli le flussioni delle altre quantità; e con i rettangoli compresi sotto questi simboli e la lettera "o" i momenti di queste quantità; infine indica con la ordinata inclusa in un quadrato l'area della curva. L'area è considerata come quantità fluente, e l'ordinata come la sua flussione. Dovendo dimostrare una proposizione, usa la lettera "o" per indicare un momento finito del tempo, o di una sua funzione o di una qualsiasi altra quantità uniformemente fluente. E risolve poi tutto il calcolo in figure o schemi finiti, senza nessuna approssimazione, se• condo la geometria degli Antichi. Ma, una volta che abbia compiuto il calcolo e sia pervenuto a ridurre l'equazione, suppone che il momento o decresca in in/ìnitum sino a svanire. Quando però non vuole dare una dimostrazione della proposizione, ma solo analizzarla, per portare in fondo più rapidamente la cosa suppone che il momento o sia infinitamente piccolo, tanto da poter trascurare di scriverlo, e si serve di tutti i mezzi di approssimazione che ritiene appropriati a non produrre nessun errore nella conclusione". La narrazione in terza persona, apparentemente imparziale, con queste parole suggella infine il pieno dispiegarsi dello "imponente edificio delle flussioni" ideato da Newton: "così, nella lettera in data IO dicembre 1672 [già aveva osservato] che con questo stesso metodo si possono risolvere i problemi riguardanti la curvatura di tulle le curve, geometriche e meccaniche. Donde risulta chiaro che era già riuscito ad estendere il suo metodo ai momenti secondi e terzi. Quando infatti le aree delle curve si considerano come fluenti... le ordinate sono date dalle flussioni prime; le tangenti sono date dalle flussioni seconde, e le curvature dalle terze. Egualmente quando ... Newton dice: la superficie è il momento dei volumi, la linea il momento della superficie, il punto il momento della linea, ciò equivale a dire che se si considerano i solidi come quantità fluenti, loro momenti sono le superficie, e momenti dei loro momenti (cioè i momenti secondi) sono le linee; mentre i momenti dei momenti di questi ultimi (cioè i momenti terzi) sono i punti, secondo sempre la definizione di Cavalieri. E nei Principia philosophiae, dove Newton considera più volte le linee come quantità fluenti descritte dai punti le cui velocità possono aumentare o diminuire, le velocità costituiscono le flussioni prime, e i loro incrementi le seconde. Il problema: data una equazione contenente quantità fluenti, trovare le flussioni e viceversa, si estende a tutte le flussioni•.

Capitolo VII

Il credo dei ribelli. n) Differenziali, differenziali di ordine superiore e legge di continuità LEPORELLO

Madama... veramente... in questo mondo conciossia cosa quando fosseché ... il quadro non è tondo ... (Atto I, scena V)

Leibniz: il calcolo delle somme e delle differenze Pressoché negli stessi anni in cui in Inghilterra Newton affiancava al Calcolo i•ia "momenti• l'interpretazione fisica in termini di flussioni (= velocità) senza dimenticare la giustificazione "rigorosa" in termini di •rapporti primi e ultimi", sul Continente europeo Gottfried Wilhelm Leibniz veniva articolando il suo altrettanto imponente "calcolo delle somme e delle differenze• (chiamato ben presto • calcolo difTerenziale e integrale": il termine differenziale, più precisamente, è dovuto allo stesso Leibniz, ma il termine integrale viene introdotto da Johann Bernoulli). Tra i più preziosi documenti dell'archivio leibniziano di Hannover c'è un gruppo di manoscritti matematici datati 25, 26 e 29 ottobre e 1 e 11 novembre 1675. Essi permettono di seguire passo per passo l'invenzione del Calcolo attraverso i vari approcci che Leibniz delineò per il problema del calcolo delle aree, cioè il problema delle quadrature. Fu nel corso di questi studi che Leibniz introdusse i simboli • f" e • d", formulò le regole cui tali operatori obbediscono e le applicò infine nel "tradurre" problemi tipicamente geometrici in problemi concernenti la "manipolazione" di simboli entro formule. Tre idee guida vale la pena di segnalare qui. La prima concerne il progetto - a un tempo filosofico e matematico - di una characteristica generalis, un linguaggio simbolico capace di esprimere mediante opportuni simboli e in formule costruite secondo opportune regole ogni sorta di ragionamento. Il paradigma è qui costituito dalla pratica algebrica, ormai giunta a un notevole grado di sviluppo; va poi detto che il progetto leibniziano, com'è noto, sarà destinato a riemergere coi grandi protagonisti della logica del secolo scorso: come De Morgan, Boole, Frege e Peana; nelle grandi costruzioni logiche del Novecento, infine, si ritroverà una traccia di quello che Giuseppe Peano chiamava appunto "il sogno leibniziano•.

Il credo del ribelli. DiQerenzioli e legge di continuitll

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Proprio questo progetto, osserva lo storico della matematica H.J .M. Bos, "spiega il grande interesse di Leibniz per le notazioni e i simboli in matematica e, più in generale, il suo sfor20 di tradurre [transiate] enunciati matematici e metodi in formule o algoritmi. Così, per esempio nello studio della geometria delle curve, egli era interessato più ai metodi che ai risultati, specie ai modi in cui trasformare tali metodi in algoritmi eseguibili con formule. In breve, Leibniz era alla ricerca di un autentico calcolo per i problemi della geometria infinitesimale". La seconda grande idea muove dalla considerazione delle successioni di differenze. Consideriamo una successione qualsiasi 01, a,, OJ, ••• e costruiamo la relativa successione delle differenze b1 = a1 - a,, b, a, - ai, bi ai - a., ... ; Leibniz nota b1 + b, + ... b. a, - a•• , il che significa che le successioni di differenze possono facilmente venir sommate. Ora, tale constatazione può parere banale sul piano dell'algebra; ma assume ben altra importanza "trasferita" alle serie infinite. Nel 1672 Christiaan Huygens aveva sottoposto a Leibniz il problema di sommare la serie 1/1 + 1/3 + 1/6 + 1/10 + 1/ 15 + ... Si tratta di una serie di frazioni, ciascuna delle quali ha per numeratore l'unità e per denominatore, via via, i cosiddetti • numeri triangolari": r (r + 1) / 2 per r = 1, 2, 3, ecc. Leibniz mostra allora che tali termini possono venir scritti come differenze 2 2 2 r(r+l) r r+l

=

=

=

=

come si può agevolmente verificare, e, applicando il risultato precedente, ottiene

n

Ir=l

2

r (r+l)

=2-

2

n+l

Si tratta ora di passare al caso di n infinito; Leibniz trova come risultato finale 2 (la considerazione intuitiva è che nel secondo membro a 2, al crescere di n, si sottrae una frazione sempre più piccola; ciò rende immediatamente plausibile il risultato). Ma non ci addentreremo nell'esposizione dettagliata dei risultati circa "i numeri triangolari": come osserva Bos, essi del resto "non erano nemmeno del tutto nuovi; ma resero Leibniz consapevole che formare successioni di differenze e sommare successioni sono operazioni l'una inversa dell'altra. Questa idea fondamentale doveva divenire ancor più significativa se trasferita alla geometria". Consideriamo infatti la curva rappresentata nella figura 35: è assegnata una curva di cui B rappresenta un punto qualsiasi. (Per comodità abbiamo scelto l'origine A in un punto della curva stessa.) Inoltre è stata tracciata

Lo spettro e il libertino

186

Figura 35

)'

T Lo schema leibniziano: detenninazione dell'atta soucsa da una curva e della tangente in un punto a.segnato B della curva.

una sequenza di ordinate (di punti della curva tra cui 8) equidistanti: per fissare le idee tutte a distanza uno. Ora, se prendiamo tutte queste ordinate a distanza uno, la "somma delle ordinate" y è una approssimazione dell'area della curva, mentre la differenza di due y successive dà approssimativamente l'inclinazione della tangente. Naturalmente: più piccola viene scelta l'unità di misura (sull'asse delle x), migliore sarà, l'approssimazione. Leibniz ne concludeva che, se tale unità fosse scelta infinitamente piccola, la determinazione dcli 'area della curva e dell'inclinazione della tangente sarebbero risultate esatte. Ma dalla reciprocità delle operazioni di "sommare" e "sottrarre" nelle sequenze, concludeva inoltre che il calcolo delle quadrature (cioè delle aree) e la determinazione della tangente erano operazioni reciproche. Ciò rende plausibile due aspetti ulteriori del calcolo differenziale e integrale: t) come, date le differenze, la determinazione delle corrispondenti somme è sempre a meno di una costante additiva, così data quella che noi (non Leibniz) chiamiamo derivata, la corrispondente integrale è trovata a meno di una costante additiva; 2) come, date le somme, è sempre possibile determinare le differenze - mentre non è così agevole il problema inverso - così il problema della derivazione (o problema della tangente) è più "facile" del problema inverso (o problema della ricerca dell'integrale). La terza idea consiste nell'impiego del cosiddetto "triangolo caratteristico". Studiando le opere di Pascal e di altri matematici fran-

Il credo del ribelli. Differenzia/i e le88e di continui/li

187

cesi, Leibniz aveva notato l'importanza (si vedano più oltre le figure 36 e 40) del triangolo mistilineo NBR. Pascal lo aveva impiegato nel caso del cerchio. Leibniz ne farà un uso più ampio diremmo quasi per curve qualsiasi.

La traduzione: dagli indivisibili (cavalieriani) agli infinitesimi (leibniziani) Le tecniche che Leibniz via via dispiega in questi manoscritti sotto il profilo della rappresentazione geometrica non sono molto differenti da quelle seguite, per il problema delle quadrature e delle cubature (cioè del calcolo delle aree e dei volumi), da non pochi matematici che avevano ripreso i metodi indivisibilisti di Cavalieri, Torricelli, ecc. Procedimenti e "canoni", cioè regole analoghe a quelle proposte e utilizzate in tale sede da Leibniz si ritrovano del resto nelle opere di Huygens e di Barrow: le Lectiones geometricae (1670) di quest'ultimo per esempio insegnano non pochi procedimenti di "trasformazione" della quadratura di una figura in quello di un'altra, che si sa già quadrare nonché metodi di soluzione del problema della tangente; e tali procedimenti, se fossero tradotti dalla originale presentazione puramente geometrica nel linguaggio in cui Leibniz formula il proprio calcolo, come nota opportunamente Bes, "farebbero la figura degli algoritmi tipici dell'approccio differenzialista". Una circostanza del genere è stata richiamata, per esempio da J.M. Child, per attribuire a Barrow, piuttosto che a Leibniz o allo stesso Newton, il titolo di creatore del calcolo. Ma questa pretesa può venir sostenuta, dice sempre Bos, "solo se si prescinde completamente dall'effetto della traduzione del testo geometrico di Barrow in formule analitiche•. Per comprendere dunque la novità di Leibniz è proprio nella traduzione che dobbiamo insistere. E non solo per quanto riguarda Barrow; come abbiamo già osservato a p. 146, a proposito degli indivisibili di Cavalieri, in un tempo abbastanza breve (manoscritti del 25 ottobre - 11 novembre 1675) Leibniz trasforma la "somma di tutte le linee• della vecchia teoria degli indivisibili nell'integrale definito (il segno J cui siamo abituati non è altro che l'iniziale di summa) e introduce il differenziale di una variabile y come una difierenza • infinita• mente piccola• tra due successivi valori di y (si veda la figura 36): "ai nuovi concetti - commenta E. Giusti (1984) - corrispondono ... delle notazioni estremamente felici. .. D'altra parte è da respingere l'opinione di chi vede nelle notazioni la molla che fa scattare il nuovo calcolo: le idee e non le notazioni sono feconde, e l'efficacia di queste ultime è tanto maggiore quanto più esse sono aderenti alle idee che denotano. t; in questa corrispondenza tra i segni e i concetti che risiede l'efficacia della notazione differenziale leibniziana ... •. Un punto particolarmente delicato è proprio quello della relazio-

188

Lo spettro e il libertino

Figura 36 y

X

La rappresentazione leibniziana di dx e (/_1·.

ne tra "differenziazione" e "quadratura" (si veda ancora la figura 36). Osserva Giusti :"Non c'è dubbio ... che sia riconosciuto in generale, per dirla con Newton, che la flussione dell'area è l'ordinata [si veda anche la didascalia delln figura 33]. D'altra parte ... la diffe. renziazione e la quadratura sono due cose sostanzialmente diverse: la prima è un'operazione, la seconda un problema. La vera dualità non è tra queste, ma t.ra le operazioni differenza-somma o, in Newton, nel passaggio dalla fluente alla flussione e viceversa. In esse l'operazione inversa, l'integrazione, è definita piuttosto che riconosciuta come tale". r: questo un tratto che si ritrova anche in scritti più tardi di Leibniz e nei suoi stessi seguaci. Johann Bernoulli, per esempio, nel mostrare, nelle sue lezioni, "come si trovino le Tntegra/i delle differenziali", aggiunge appunto: "quelle quantità delle quali sono differenziali". Una volta eseguita tale operazione, si potranno affrontare quei "famosi problemi" della matematica come "la quadratura degli spazi, la cubatura dei solidi, la rettificazione delle curve, il metodo inverso delle tangenti, ovvero la deduzione della natura delle curve da date proprietà delle tangenti, ecc.: non meno che quelli attinenti alla Meccanica, come il calcolo del centro di gravità, di percussione, di oscillazione, ecc.". Sul finire del 1691 Leibniz aveva scritio a Christiaan Huygens: "Se qualcuno potesse dare l'arte di ridurre sempre alle quadrature il problema inverso delle tangenti,

Il credo dei ribelli. Differenziai/ e legge di conlinuitl!

189

darebbe quanto più auspico in questa materia". Commenta Giusti: • Dopo trecento anni questo problema non è stato ancora completamente risolto", ma: "una teoria matematica si ·afferma meno per i problemi che risolve che per gli orizzonti che apre" (cfr. del resto il criterio di crescita discusso nel capitolo X a p. 327). Ma ritorniamo alla non semplice relazione tra gli indivisibilisti italiani (Cavalieri, Torricelli, ecc.) e Leibniz. Come abbiamo accennato, giudizi del tipo "Cavalieri è stato un precursore di Leibniz" hanno bisogno di un'attenta riqualificazione. Certo è vero che, nel contesto dell'approccio algebrico alla geometria, inaugurato da Fermat e Descartes, come rileva Bos, "il metodo di Cavalieri ammette una traduzione di grande portata [a far-reaching translation] in simboli matematici. L'aggregato delle ordinate y di una curva può infatti venir denotato da omn.y e con l'aiuto di questo simbolismo si possono rappresentare analiticamente varie relazioni tra quadrature e si può elaborare un calcolo" (corsivo mio). Ma, perché tale "traduzione" è di larga portata? Come già si è visto commentando la lettera a Oldenburg del 29 ottobre 1675, proprio perché Leibniz per indicare una quadratura sostituisce all'abbreviazione omn.y, che egli considera denotare "la somma di tutte le linee• y (ovvero: J y) il segno f y dx ove compare il simbolo differenziale dx. Questo cambiamento di notazione è essenziale. "Leibniz ha ripetutamente insistito sull'importanza del fatto che nel suo calcolo le quadrature andavano valutate come somme di differenziali di superficie piuttosto che come somme o aggregati di linee" (Bos). C'è una notevole documentazione già per il periodo parigino della consapevolezza di Leibniz del cruciale slittamento rispetto a Cavalieri. Successivamente, Leibniz ritorna in non poche occasioni su questo punto, per esempio nel De geometria recondita et analysi indivisibilium atque infinitorum ... apparsa negli "Acta Eruditorum• nel giugno 1686. La linea di pensiero può venir cosl schematizzata: Cavalieri calcolava le quadrature come f y, dunque "somme" di ordinate. Ora se nella corrispondente scrittura leibniziana dx viene supposto costante, c'è solo una differenza formale tra J y "di Cavalieri" e f y dx (di Leibniz); ma se non supponiamo più dx costante, allora il metodo di Cavalieri consistente nel trattare le quadrature come "somme" f y non è più adeguato, mentre l'impiego di J y dx è ancora accettabile. Ma, ammettere arbitrarie progressioni delle variabili è essenziale nel programma di Leibniz: altrimenti non sarebbero possibili, nello studio delle quadrature, trasformazioni di variabili (per esempio: nel caso della "trasformazione" - un classico dell'approccio di Leibniz al problema delle quadrature - f n dx f y ds ove n denota la normale alla curva e s la lunghezza dell'arco (si veda la figura 37) è impossibile supporre costanti contemporaneamente dx e ds: quindi non è possibile tradurre nella terminologia di Cavalieri almeno uno dei due integrali). Di qui

=

190

Lo spettro e il libertino·

Figura 37

Le grandezze geometriche di base: l'ascissax. l'ordinatay. l'arco s. l'anomalia O. il raggio vettore,. la normale n. la sottotangente o. l'area Q del triangolo mistilineo APR, cioè l"area della figura compresa tra la curva e l"asse x delle ascisse.

la convinzione leibniziana della superiorità dei propri infinitesimi sugli indivisibili cavalieriani: "Ma questo metodo degli indivisibili contiene solo il cominciamento dell'Arte ... Infatti ogni volta che gli elementi di spazio tra ordinate parallele (linee rette o superficie piane) non sono eguali l'uno all'altro, allora, per trovare il contenuto della figura, non è più corretto considerare le .ordinate come un tutto; ma occorre misurare gli elementi di spazio, infinitamente piccoli tra le ordinate". Così Leibniz nel manoscritto Scientiarum diversos gradus nostra imbe/licitas facit ... E immediatamente dopo commenta: Ea vero infinite parvorum aestimatio Cavalerianae methodi 11ires excedebat, "la stima delle quantità infinitamente piccole era al di sopra delle forze di Cavalieri". Questo punto ci pare importante almeno per tre ragioni: I) mette bene in luce come nella pratica matematica di Leibniz operasse la sua concezione dei differenziali come "elementi infinitamente piccoli" (E/ementa infinite parva); 2) mostra l'importanza della "traduzione" delle originali idee di Cavalieri in un quadro concettuale che è mutato: Leibniz infatti interpreta le quadrature di Cavalieri come "somme" di linee (qui a loro volta reinterpretare come ordinate!), un punto su cui Cavalieri aveva in pubblico esibito grande cautela come abbiamo visto alle pp. 145-147). Ma tale traduzione è un potente stimolo entro l'euristica dello stesso Leibniz; 3) evidenzia come tra schemi concettuali

Il credo del ribelli. D/flerenziu/i e legge di continui/li

191

differenti (ovvero tra "le loro incommensurabili maniere di guardare il mondo") sia possibile, almeno in un senso, una traduzione che permette di ritrovare uno schema come un caso particolare dell'altro. La qualificazione almeno in un senso è necessaria: i procedimenti di "tra• duzione" si rivelano asimmetrici (non pare infatti agevole "riprodurre" entro il quadro concettuale di Cavalieri il punto di vista leibniziano).

Una metafisica celata Ma Leibniz stesso era piuttosto riluttante a presentare nel modo che abbiamo poco più sopra brevemente ricordato la euristica del nuovo calcolo (euristica che, in armonia con la sua concezione generale delle differenze "non apprezzabili" o "impercettibili", immediatamente passava alle dilTerenze delle differenze e così via, ponendo le premesse dei differenziali di ordine superiore); nella sua prima pubblicazione "ufficiale", Nova Methodus pro maximis et minimis idemque tangenti bus apparsa nel 1864 sugli "Acta Eruditorum ", Leibniz procede in modo alquanto diverso. In breve, egli introduce un segmento finito dx mentre dy viene definito (per il punto B) come il segmento che soddisfa la proporzione sottotangente: y = dx : dv (fig. 38).

Figura 38

dr

x-

La definizione leibniziana di dy per il pumo B di una curva as.-.egnata nell"airticolo del 1684. Dato dx, dy è il segmento che soddisfa la proporzione TP : y = dx : dy.

192

Lo spe/lro e il Ubertino

Figura 39

a = costante dax = a dx

da = O

d(z - y + w + x) dz - dy d(xv) = x dv + v dx d v =±vdy+ydv y yy

+

dw

+ dx

Le regole del Calculus dijferenria/is di Leibniz, dalla Nova methodus del 1684. Nell"ordine, la regola della cos1an1e, del prodouo di una coslante per una variabile, della somma e della differenza, del prodouo, del quoziente. Da esse si ricavano facilmente le regole del calcolo delle polenze e delle radici. Usando ques1e regole si possono delenninare langenli alle curve, trovare i massimi e i minimi, detenninare la convessilà, la concavità, i flessi delle curve senza dover ricorrere ad anifici per liberare l'equazione della curva da evenruali espressioni irrazionali o fratte (come accadeva, invece, con alcuni melodi precedenti).

Tuuavia nella stessa Nova Methoclus leggiamo che uno dei problemi ivi affrontati è quello di "trovare la tangente, cioè condurre la retta che congiunge due punti a distanza infinitamente piccola [dislanliam infinite parvam habentia], ovvero prolungare il lato del poligono infinitangolo, che per noi è equivalente alla curva•. Ma "così gli infinitesimi cacciati dalla porta rientrano dalla finestra, e con essi rientra il triangolo caratteristico di Pascal, i cui lati sono l'elemento della curva (o il lato del poligono infinitangolo a essa equivalente) e i difTerenziali dx, dy, ora proporzionali agli incrementi infinitesimi delle variabili ... A ciò si aggiunga ... che non si capiscono le regole di differenziazione [si veda qui la figura 39] altro che supponendo dx e dy infinitesimi e trascurando i termini di ordine superiore, cosa per altro necessaria anche nell'identificazione del differenziale con l'incremento della variabile dipendente" (E. Giusti, 1984). li 21 giugno 1677 Leibniz aveva del resto precisato a Oldenburg che indicava con dy "la difTerenza delle due y più vicine• e con dx "la differenza delle due x più vicine". Questa identificazione e l'audace introduzione di entità "evanescenti• (il termine si adatta bene ai differenziali di Leibniz, ma le "velocità" newtoniane non sono meno "sfuggenti") erano elementi

li credo dei ribelli. Differenzia/i e legge di conlinuitll

193

chiave del rinnovato approccio di Leibniz rispetto ai predecessori (cfr. del resto quanto abbiamo osservato, per Newton, alle pp. 168-170). Per costoro, come Christiaan Huygens, gli infinitesimi erano, al più, "artifici di calcolo"; al contrario "per Leibniz ... sono i parametri essenziali che permettono di ricavare le proprietà della curva, in particolare la sottotangente" (E. Giusti) che negli scritti di Leibniz non è nemmeno indicata con un simbolo apposito. Si possono comprendere le cautele dell'articolo del 1684. Resta il fatto che manoscritti e altri testi di Leibniz rivelano abbastanza bene l'infinitesimalismo di fondo. Riprendiamo allora in esame il suo approccio alla questione della tangente, che può venire schematizzato come segue. Prima mossa (si veda la figura 40). Se invece di prendere il punto N sulla curva AB, si prende il punto L sulla retta tangente TB è immediato concludere che LBR è un triangolo simile al triangolo TBP. Ora la mossa di Leibniz consiste nel trattare NBR come se fosse il triangolo LBR e concludere che il "triangolo" NBR è "simile" al triangolo TBP onde la proporzione: (I)

TP: BP

= BR : NR

Nella proporzione che abbiamo scritto sopra compare BP = y che è un dato del problema (l'ordinata del punto B di tangenza) e la so/lotangenle TP: nota quest'ultima il problema sarà risolto.

Figura 40

T

,r

Leibniz e il problema della 1Hngeme. La ruppre,..,muziune geometrica.

194

Lo SPflllro e

il libertino

Leibniz, senza fare necessariamente riferimento al tempo, considera il caso che gli incrementi di x e di y siano entrambi "impercettibili". Se N è molto vicino a B tali incrementi BR e N R (le difTerenze delle coordinate di N e B) sono infatti molto piccoli. Riscriviamo allora la proporzione (I) nella forma: (li) sottotangente: y BR : NR

=

e osserviamo che se N è impercettibilmente vicino a B quelle differenze diventano anch'esse impercettibili. Ma la proporzione - per Leibniz sussiste ancora e, in armonia con quanto abbiamo detto poco sopra, la scriveremo nella forma: (Ili) sottotangente: y dx : dy

=

ove dx e dy sono appunto quelli che Leibniz chiamava •differenziali" delle quantità variabili x e y; dx/dy è il loro "rapporto differenziale". (Va notato che mentre oggi operiamo con dx/dy intendendo che tale simbolo significhi la derivata di x rispetto a y ecc., che altro non è, come Cauchy ha suggerito, che un particolare limite, per Leibniz quel che noi chiameremmo derivata è un autentico rapporto, il rapporto di due differenziali, cioè di due quantità infinitamente piccole.) Seconda mossa. Resta da calcolare il secondo membro della proporzione (III). Vediamo come avrebbe operato Leibniz (o uno dei suoi seguaci) in uno dei casi più semplici, quello in cui la curva è la parabola di equazione x = -y'. Nella notazione di Leibniz il calcolo può venir schematizzato come nella figura 41. La ( 1) esprime il fatto che il punto B di coordinate x e y appartiene alla parabola; la (2) traduce il fatto che anche il punto N appartiene alla parabola; la (3) non è altro che lo sviluppo algebrico della (2): la (4) è ottenuta dalla (3) tenendo conto della (I); la (5) si ottiene dalla (4) dividendo per dy; la (6) - il risultato corretto - si ricava dalla (5) omettendo come "trascurabile" la quantità dy "impercettibile".

Il •governo della ragione• Mentre per Newton e i suoi discepoli la plausibilità di shifting the hypothesis, il crimine che Berkeley denuncerà, risiede in una sorta di intuizione dell'evento (quantità che prima non sono zero diventano tali nel tempo), Leibniz si rifiuterà invece di considerare il dx come un evento - una interpretazione "britannica" che però godrà di notevole fortuna sullo stesso Continente europeo tra non pochi matematici del Settecento. Egli proclama invece: "Si constata che le regole del finito funzionano nell'infinito come se ci fossero degli atomi (cioè degli elementi assegnabili alla natural benché non ce ne siano affatto visto che la materia è in realtà suddivisa ali 'infinito; e che viceversa le regole

Il credo dei ribelli. DiOere11ziall e legge di continuità

195

Figura 41 (1) (2)

(3) (4) (5) (6)

X

= y2

+ dx = (y + dy)2 x + dx = y2 + 2y dy + dx = 2y dy + dy dy x

dy dy

dx!dy = 2y + dy dx/dy = 2y

Leibniz e il problema della tangente. La manipolazione dei simboli. Il calcolo del ra.pporto differenziale tLr : dy è eseguito per la parabola di equazione JC = y. Dalla (6) si può ricavare il valore PT della sollolangenle alla parabola (si veda la precedente figura 40 a p. 194) e ricordando la (I) si oniene una classica proprietà della parabola che, impiegando le coordinate ortogonali. si esprime PT = 2x. Il risultalo classico "indu11ivamente" conferma l'approccio via differenziali.

dell'infinito funzionano nel finito, come se ci fossero degli infinitamente piccoli metafisici, benché non se ne abbia affatto bisogno e benché la materia non giunga mai a particelle infinitamente piccole: ma le cose stanno così perché tutto è governato dalla ragio11e. e diversamente non .ci sarebbero né scienza né regole, il che non sarebbe affatto conforme con la natura del principio supremo". Leibniz ha in• non pochi passi esplicitato questo suo governo della ragione. In una lettera a Wallis (1690) leggiamo: • E utile considerare quantità infinitamente piccole tali che, quando se ne cerca il rappor• to, possono non essere considerate zero, ma sono trascurabili ogni volta che occorrono insieme a quantità incomparabilmente più grandi. Così, se abbiamo x + dx, dx va tralasciato. Ma la cosa è diversa se si cerca la differenza fra x dx e x. Analogamente non si possono avere insieme xdx e dxdx. Dunque se si deve differenziare xy si scrive (x dx) (y dy) - xy xdy ydx dxdy. Ma qui dxdy va tralasciato in quanto è incompatibilmente minore di xdy + ydx. Quindi, in ogni caso specifico, l'errore è minore di ogni quantità finita". Ma l'idea di queste "entità anfibie tra zero e le quantità finite" diverse da zero e le stesse procedure di calcolo non erano accettabili per il senso comune di molti degli stessi contemporanei di Leibniz, i matematici "arei precisi" Cii termine è suo!). Si potrebbe mostrare col senno di poi (cioè

+

+

+

=

+

+

196

Lo spettro

~

Il libertino

entro lo stile t-6 impostasi con Weierstrass) che anche qualche proposizione della "nuova analisi• di Leibniz non regge. Eppure queste proposizioni sbagliaie, queste quantità "evanescenti", questa sorta di "gioco di prestigio" vengono letteralmente convertiti da Leibniz in un forte sostegno a favore di una nuova euristica matematica, cioè di una •via nuova" più fertile dell'antica via archimedea (il metodo detto di esaustione). L'intero ricco repertorio della pratica ma1ema1ica viene così utilizzalo da Leibniz nelle sue argomentazioni: ma i risultati ::he i suoi •principi" sono chiamati a riorganizzare fanno violenza (cfr. l'espressione di Hegel, riportata alla p. 171) al "senso comune" dell'epoca sua, cioè alla costellazione di idee preconcette condivise dai matematici del suo tempo. Vengono compiuti •errori• nel senso tecnico del calcolo, vengono teorizzate approssimazioni, vengono giustificati spregiudicati ricorsi a "elementi ideali" (come gli infinitesimi). Leibniz diremmo quasi crea una nuova pratica matematica, costi1ui1a di "aria sottile": una pratica che viene poi "solidificata" insinuando che altrove è già familiare. Così, non causalmente, come già Cavalieri o Torricelli al tempo delle polemiche contro Guidino circa gli indivisibili, Leibniz si appella a quel che fanno gli algebristi che introducono radici "sorde" (irrazionali) o addirittura "immaginarie" per ottenere alla fine dei calcoli le soluzioni desiderate. Quando risponde ai critici, Leibniz insiste sul fatto che il suo calcolo usa (dopotutto) solo concetti matematici ordinari. Ma, non convinto di convincere del tutto i propri critici, compie pure una mossa più ardita, a un tempo difensiva e offensiva. La sua pratica euristica. che di fatto viola i canoni del rigore del tempo, viene fatta rientrare nel campo delle verità accreditate ricorrendo a un autentico principio metafisico, riesumato da Cusano e da Kepler: la legge di continuità (ma che noi abbiamo intravisto all'opera nella stessa lettura galileiana del gran libro del mondo; si veda alle pp. 140-142). La •commedia degli infinitesimi"

Gli avversari di Leibniz dovevano spingersi fino organizzare, in teatro, una sorta di "commedia degli infinitesimi•, in cui le quantità scomode "sparivano", cioè uscivano letteralmente di scena in modo che tornassero i calcoli. Ora, come abbiamo già fatto nel capitolo V per la teoria degli indivisibili (nel caso si trattava della polemica tra Cavalieri e Guidino, soprattutto), anche nel caso dell 'infinitesimalismo di Leibniz, scegliamo, come esemplare, nell'intreccio delle dispute cui il nuovo Calcolo diede luogo, una controversia particolare. Qui Bemhard Nieuwentijt, teologo calvinista olandese e seguace pentito di Descartes, non fa, a prima vista, gran bella figura: gli storici della matematica, in genere, hanno fatto loro il giudizio di Montucla (le

Il credo dei ribelli. Differenziali e legge di continui/Il

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sue obiezioni sono semplicemente "un tessuto di assurdità") e lo storico settecentesco, a sua volta, non faceva che rieccheggiare i giudizi di Leibniz stesso e dei suoi seguaci, come Johann Bernoulli e Jakob Hcrmann. Eppure nelle Considerationes circa Analyseos ad quantitates infinite parvas applicate principia (1694) e nel più ampio trattato Analysis infinitorum seu curvilineorum proprietates ex polygonorum natura deductae (1695) l'olandese aveva individuato un punto nodale delle procedure leibniziane. Detto in breve, Nieuwentijt proponeva, in calcoli come quello della figura 41 di passare dalla (4) alla (6) senza utilizzare la (5), bensì sfruttando le due relazioni: a) dy :I, O e b) dy dy O. La a) era perfettamente accettabile per lo stesso Leibniz. Ma la b)? Proprio nella lettera a Oldenburg (che abbiamo ricordato a p; 189) e in molti altri luoghi Leibniz aveva osservato come in procedure come quelle della figura 41 fosse perfettamente lecito "omettere quantità come il quadrato di dy" (è il cosiddetto principio di omissione degli infinitesimi di ordine superiore) e questo, tuttavia, non voleva ancora dire che il quadrato di dy fosse zero. Nella replica sugli • Acta Eruditorum • (1695) Leibniz osservava infatti: "Non capisco come quel Sapientissimo Autore abbia potuto mettersi in mente di affermare che la linea o il lato dx sia una quantità, ma che il quadrato o il rettangolo di tali linee cioè le quantità come dx dx, dx dy, dy dy, ecc. siano zero. Infatti, sebbene queste quantità infinitamente infinitesime [in/i• nities infinite parvae] moltiplicate per un numero infinito del primo grado non producano una quantità data od ordinaria, esse vi riescono se moltiplicate per un numero infinitamente infinito [numerum in{inities in{initum], numero che non è lecito respingere, una volta che si sia già ammesso un numero infinito; lo si ottiene infatti elevando al quadrato un numero infinito del primo grado". Il Sapientissimo Autore della risposta pubblica doveva diventare, in privato, qualcuno che "come un eretico, va messo al bando, dopo la prima o !a seconda ammonizione, come vuole la Scrittura" (Così Leibniz in una lettera del dicembre 1696 a Johann Bernoulli: traclandus est instar heretici, q:1em, post unam a/teramve admonitionem, devitandum esse Scriptura docet. Johann, poco prima, si era espresso con altrettanta durezza, accusando Nieuwentijt di dedicarsi in modo quasi maniacale a stravolgere il senso delle parole di Leibniz: eandem semper Cranbem recoquere, & ei unice studere, ut verborum Tuorum sensum detorqueat). Il fatto è che Nieuwentijt aveva replicato a Leibniz, dichiarandosi insoddisfatto della risposta apparsa sugli "Acta Eruditorum" e rendendo più dettagliate le critiche nelle sue Considerationes secundae (1696). Nel 1935 Louis Rougier ha detto che • il progresso è talvolta l'opera dell'eretico". Vediamo se questo è il caso. Ciò che separa maggiormente Leibniz da Nieuwentijt è la struttura algebric~ sottostante

=

198

lo spettro t il libertino

al Calcolo: la b) di p. 197 (che, congiunta con la a) della stessa pagina consente l'introduzione di quel che oggi diremmo un elemento 11ilpotente) non poteva apparire a Leibniz che come un indebolimento del principio di permanenza delle leggi algoritmiche nel passaggio dal finito all'infinito (così essenziale, cfr. p. 194, per tutto il suo progetto della • nuova analisi"). Detto nella terminologia che è oggi a noi familiare: Leibniz con i propri "elementi ideali" arricchisce la struttura dei numeri (reali) R (di cui si ha all'epoca sua solo una giustificazione geometrica, cfr. capitolo III) in una struttura R • che è ancora un corpo (nel senso algebrico del termine); Nieuwentijt invece immerge la struttura R in una struttura R' che risulta algebricamente un anello con divisori dello zero. Anche il lettore che non è familiare con questa terminologia - abbastanza tecnica - si rende conto che di nuovo ci siamo imbattuti in un altro enigma circa la natura elusiva dello zero: come è possibile che due quantità, entrambe differenti da zero, moltiplicate l'una per l'altra, diano proprio zero, cioè il nulla? Dopo il secolo XIX, con il grande sviluppo dello studio delle strutture algebriche più varie per noi non è affa110 uno scandalo della ragione un'algebra come quella intravvista da Nieuwentijt. Ma mentre noi - dopo Hamilton, De Morgan, Boole, ecc. invocheremmo il carattere formale dell'algebra, Nieuwentijt avrebbe piuttosto riposto nella onnipotenza di Dio la giustificazione di leggi algebriche che probabilmente gli derivavano da una interpretazione (o 'traduzione') delle procedure di Fermat e di altri "eminenti geometri• differente da quella stessa che compiva Leibniz quando leggeva i contributi dei suoi "precursori•. (Va tra l'altro osservato che mentre la "analisi non standard" di Robinson ha recuperato parte dell 'intuizione di Leibniz, la "geometria differenziale sintetica" di A. Kock ha recuperato parte di quella di Nieuwentijt. La qualificazione parte di è però essenziale in entrambi i casi.) Dunque Dio può consentire che il prodotto di due quantità entrambe diverse da zero dia lo stesso come risultato il nulla (ciò prova, curiosamente, la possibilità stessa della Creazione: come Dio può annichilire, può anche produrre dal nulla). t comunque meglio questa via che mantenere il principio di omissione (al primo ordine come si fa nella procedura della figura 41 di p. I95) o mantenere insieme principio di omissione (per infinitesimi di ordine superiore) e principio di trasferimento. Cosl facendo, dice Nieuwentijt si perviene a "conclusioni che sono estranee alla natura delle curve": prendiamo, egli ci dice, per la quantità finita a l'ordinata y di una curva e per l'infinitesimo b la "differenza• (cioè il differenziale leibniziano) dy; se consideriamo uguali, per esempio, y e y + dy - argomenta Nieuwentijt - è come se affermassimo geometricamente che sono uguali due ordinate "successive", ma ciò non è altro che affermare che "ogni curva finisce col diventare una retta parallela• all'asse delle ascisse!

Il credo del ribelli. DiQerenzlatl e legge di_conlinuitll

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"Le vecchie cose ritornano" potremmo dire con Robert Musil: questa obiezione non è che una variante dell'argomento del cono di Democrito che abbiamo qui esposto alle pp. 90-91, ricordando la tesi storiografica secondo cui esso costituiva un argomento se non immediatamente in difesa dell'atomismo, almeno per la plausibilità di "creodi minimi" (figura 15). Considerare non trascurabile dy nella regola delle tangenti o in altri algoritmi, cioè rifiutarsi di omettere l'infinitesimo b in scritture come a + b con a finito, ne è la traduzione in contesto algebrico. "Se aggiungi una linea incomparabilmente minore, hai fatto lo stesso che avessi aggiunto un punto a una linea o una linea a una superficie": ritorna anche qui un vecchio argomento contro la composi/io continui ex punctis (sulle due sponde opposte Magnenus e Fromondo, rispettivamente alle pp. 120-121 e I 10-116). Singolare vicenda: Leibniz accetta la divisibilità senza fine della tradizione aristotelica e oscilla tra il ripudio degli atomi di Democrito e di Gassendi e la loro spregiudicata reinterpretazione in termini infinitesimalisti, salvo dichiarare che queste sono solo "finzioni" (anche se "ben fondate"), il che non impedisce di "reiterare" su un "atomo" il procedimento della infinita fractura (e proprio per questo la reinterpretazione infinitesimalista è essenziale: ogni "atomo" è in miniatura "un mondo" e non c'è ragione - "sufficiente" - per interdire la reiterazione della procedura infìnitesimalista). Nieuwentijt fin dalle Considerationes respinge in nome della onnipotenza divina la gerarchia degli infinitesimi: se questi sono equiparati agli indivisibili, come si può "concepire" un'ulteriore divisione di ciò che è "indivisibile"? Poiché la divisibilità è propria dell'estensione e questa è, cartesianamente, attributo della materia, gli "atomi" sono prodotti di un processo che, se fosse reiterato - come vuole Leibniz - ad infinitum vanificherebbe la "forza infinita" del Creatore, conferendo alla materia i tratti dell'in-/ìnito, dunque dell'eterno. Non c'è da stupirsi che egli rigetti l'analogia leibniziana tra infinitesimi e punti come non fondata e, complessivamente, veda la giustificazione di Leibniz viziata da\l 'errore consistente nell'aver messo sullo stesso piano la "somma" tra grandezze "eterogenee", (come un punto e una linea e una superficie, ecc.) e la "somma" tra grandezze "omogenee" (come una linea e una linea "infinitamente piccola"; o, anche nel problema inverso, cioè nel calcolo delle aree, non è che si sommano le ordinate y, ma i rettangoli - con un lato infinitesimo - y dx). Inoltre: ciò che è infinitamente piccolo, dice Nieuwentijt, non può essere "né costruito, né rappresentato né immaginato" (quas quatenus infinite parva sunt, nulla immagina/io, nulla constructio, nullum schema capii). Eppure quelle particulae non possono per questo solo motivo venir omesse nei calcoli. Anche se la loro natura "elude la forza di ogni umana immaginazione" le loro relazioni sono ricostruibili concettualmente e

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predsnbili in modo rigoroso gruzie u quel mc:todu 11ssiom111iço çhc: almeno da Euclide ha conosciuto tanti successi. Nicuwentijt aveva nutrito in gioventù qualche simpatia cartesiana, poi ripudiuta; ma il suo, a livello di metodo, resta un cartesianesimo indebolito: a un concetto matematico non deve necessariamente affiancarsi un'immagine (la parola latina è schema) né il supporto dell'immaginazione è necessario per ogni passo di un calcolo; ma le regole del calcolo non devono muovere da premesse che non siano • chiare o distinte" né devono portare a conclusioni "ripugnanti all'immaginazione". Infine, sottende tutta la riflessione di Nieuwpital: assumere il principio di omissione come assioma e introdurre nei Calcoli dei veri e propri infinitesimi. D'altra parte "con evanescant si deve significare: o si annullino (gli incrementi) e diven• tino zero in senso ovvio, oppure diventino infinitamente piccoli". (E maliziosamente qui il Vescovo aggiunge: "che quest'ultimo non sia il senso inteso da Sir lsaac è evidente dalle sue stesse parole nella stessa pagina [ove compare evanescant jam augmenta il/a] cioè nell'ultima pagina della sua introduzione del De quadratura, dove espressamente dice voluti ostendere quod in methodo fluxionum non opus sit figuras infinite parvas in geometriam introducere"). Una disputa fra persone destinate inevitabilmente a fraintendersi? Se le cose stanno davvero così, la controversia tra Berkeley e Jurin è un ottimo esempio della situazione - analizzata nei suoi aspetti generali da Paul Feyerabend (1962) - di "radicale varianza di signi• ficato": due punti di vista rivali sono espressi ciascuno in un idioma in cui compaiono termini omofoni, ma "le loro esplicite regole d'uso [in un idioma] sono incompatibili con quelle nell'altro". È ancora possibile comunicare? Per alcuni sì: come ha più volte sottolineato Karl Popper, "il punto centrale è che una discussione critica e un confronto dei vari quadri [concettuali] è sempre possibile. È solo un dogma, un dogma pericoloso, quello secondo cui i diversi quadri concettuali sono come lingue reciprocamente intraducibili. Il fatto ì- che perfino lingue totalmente differenti (come l'inglese, lo hopi o il cinese) non sono intraducibili e che ci sono parecchi hopi o cinesi che sanno padroneggiare mo! to bene l'inglese•. Ma, nel nostro caso, c'è una difficoltà preliminare: si tratta, innan• zitutto, di passare semplicemente (!) dal latino di Newton all'inglese, lingua comune a Berkeley e ai suoi llussionisti "infedeli". Dobbiamo concludere che era solo il Vescovo che fraintendeva sistematicamente (non importa poi se in buona o in cattiva fede) il senso delle procedure dei flussionisti? Che le •contraddizioni• che egli riteneva di scoprire in Newton erano in realtà frutto dei suoi "malintesi"? Questa non è solo l'opinione di qualche odierno storico della matematica, ma anche quella di Jurin e altri newtoniani. Alla citazione berkeleyana di Matteo Jurin replica appunto nel frontespizio di The Minute Mathematician con due altri passi biblici: "ti è duro recalcitrar contro gli stimoli" (Atti, 9, 5: detto direttamente da Dio a Saulo, il persecutore) e "tu sei stato pesato alle bilance. e sei stato trovato mancante" (Daniele, 6, 27: cattivo auspicio per Belsagar). Berkeley: "Voi siete liberi di fare qualsiasi supposizione; e voi potete annullare una supposizione con l'altra; ma allora non potete ottenere alcuna conseguenza o parte delle conseguenze della supposizione annullata". Può la matematica godere "il privilegio di essere esente da una tale legge" che persino "in teologia" viene ri'spettata? Replica Jurin: "So di un certo galantuomo che, circa all'aprile

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1734. i:ra in verità convinto di vedere nei principi delle llussioni con maggior chiarezza di quanto Sir lsaac Newton mai abbia fatro. La conseguenza di questo suo convincimento ru che egli pubblicò un libro che immediatamente persuase tutta l'umanità del contrario. Se fin dall'inizio gli fossero state sottoposte delle ragioni, egli forse avrebbe interamente mutato la sua opinione. La sua primitiva convinzione sarebbe sparita e andata via; ma il libro, che era la conseguenza di quella convinzione, non è comunque sparito e andato via [ 1•a11ished and gone] con essa, anche se sarebbe stato molto meglio per il buon nome e per la tranquillità di spirito di quel povero galantuo- mo, se le cose fossero andate così•. Ma lasciamo il terreno dell'esemplificazione e vediamo la struttura dell'argomento. Dice Jurin: "Tralascio ogni commento sulla tua interpretazione della parola si annulla [ vanish]. Ammetto che sia come tu vuoi, che cioè la prima supposizione sia che gli incrementi ci sono e che la seconda supposizione sia che non ci sono incrementi. La seconda supposizione, tu dici allora, è contraria alla prima e la annulla e, nell'annullare la prima, annulla anche le espressioni, i rapporti. ogni altra cosa derivata dalla prima supposizione. Troppo precipitoso, mio buon Logico! Se io dico che gli incrementi ora esistono e che gli incrementi ora non esistono, questa ultima asserzione sarà contraria alla prima, supponendo che ora significhi lo stesso istante di tempo in entrambi gli asserti. Ma se io dico in un dato tempo che gli incrementi ora esistono e dico, poniamo un'ora dopo, che gli incre· menti ora non esistono, quest'ultima asserzione non risulterà affatto contraria o contraddittoria con la prima, poiché il primo ora significa un tempo, e il secondo ora significa un altro tempo, sicché entrambe le asserzioni possono essere vere• (corsivi miei). Dunque Berkeley ha applicato il suo lemma a sproposito. Natural• mente con questa mossa (che non pochi altri flussionisti riprenderanno) Jurin ha evocato una nostra vecchia conoscenza, il nyn, cioè lo ora di Aristotele, il fuggevole "istante" di Plotino e di Agostino. Hegel parlerà di "Kronos, produttore di tutto e divoratore dei suoi prodo:ti" (cfr. p. 170); ma alcuni di essi, come abbiamo visto, 'sopravvivono' all'istante in cui sono stati prodotti. (Il richiamo di quel fantasma filosofico potrebbe ovviamente venir eluso da un punto di vista berkeleyano constatando però che ora è termine generico, che sta per una idea "generale e astratta• che contro Locke - di cui per altro Jurin prende le difose - il 'rasoio di Berkeley' certo non risparmia.) Questo tipo di giustificazione - che indubbiamente deriva dalla stessa concezione 'genetica' degli enti geometrici. dispiegata da Newton nel De quadratura (e altrove) - implicitamente muta la concezione della "dimostrazione": qui infatti gli augmenta illa "nascono e svaniscono• non solo nella fase della soluzione dei problemi. ma anche in quello della prova delle proposizioni. Ora l'inglese to demonstrute, non

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diversamente dal greco deìknymì, indica non solo dimostrare o provare. Già Platone nel Cratìlo dice: "con mostrare intendo presentare alla percezione visuale [eis t11n ton ophthalmon aisthesin katastesai] ". Sono allora (congiuntamente) interpretabili come "dimostrazioni" quelle che abbiamo chiamato le due 'mosse' del Calcolo (ovvero i due "errori" secondo Berkeley) nel problema della tangente? Pensiamo alla raffigurazione geometrica che è associata alla manipolazione dei simboli: come già sul Continente Nieuwentijt aveva sospellato, ogni raffigurazione concretamente realizzata è un tradimento. Il "triangolo caratteristico inassegnabile" come lo chiama Leibniz, in quanto non sottoponibile "alla percezione degli occhi", per Berkeley addirittura non esiste. Jurin confessa nel Minute mathematìcian che "un incremento nascente è un incremento che comincia appunto a esistere dal nulla [lo exist /rom nothing] ... ma non è ancora pervenuto a una qualsiasi grandezza assegnabile per quanto piccola [any assignable magnitude how sma/1 soever]". Allo stesso modo l'ultimo rapporto di due quantità va inteso letteralmente come "il loro rapporto all'istante in cui svaniscono [vanish]". Sembra che Jurin sia finito dalla stessa parte di Leibniz! Eppure, appena si guarda a figure come la 31 o la 33 nel capitolo VI non dall'usuale punto di vista 'statico', ma da quello 'cinematico' - o 'genetico' caro a Barrow o a Newton - anche 'dimostrazioni' che coinvolgono • quantità inassegnabili" diventano (per usare la locuzione cara a John Colson, l'editore (1736) della Methodus di Newton) ocular demonstrations; dunque sfuggono, almeno in linea di principio, al "rasoio di Berkeley". L'intuizione del tempo fa qui le veci della leibniziana legge di continuità e realizza quel che agli occhi del Vescovo è solo "divertimento o meraviglia per il lettore": il montaggio per così dire (si è tentati di ricorrere - con notevole anacronismo - addirittura al linguaggio della tecnica cinematografica) di una sequenza di situazioni 'statiche' che si avvicinano a una situazione limite.

"Good Night, Dr. Pemberton": la controversia 'biforca' Con lo scambio di battute tra Berkeley e Jurin la controversia era appena incominciata. C'è una qualche ironia della sorte nel fauo che quest'ultimo nella Geometry lodava Newton per la "prudente attenzione in ogni parola che impiega", in modo da non offrire materia del contendere agli homines stolidi & ad depugnandum parati, che per il gusto vizioso della polemica giungono a induere se in stimufos latentes, "esponendosi allo scorno e al disprezzo di ogni osservatore privo di pregiudizi". In Geometry No Friend o/ ln(ide/ity Jurin aveva ancor più· candidamente ribattuto al Vescovo: "se la tua immuginazione è sotto tensione e messa in imbarazzo [strained and puzzled] dalla [nuova anali-

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si], se essa ti appare contenere misteri oscuri e inconcepibili, in breve, se tu non la capisci, io ti dico che altri lo fanno". Come argomento è debole e fa immediatamente venir in mente, per contrasto. il prudente avviso di Descartes nel Discours de la Méthode: "nemmeno la maggioranza dei consensi è una valida prova per le verità un po' ardue da scoprire". Non lo è nemmeno per l'intelligibilità dei concetti, come la storia che racconteremo nelle pagine seguenti sta a dimostrare. Berkeley non doveva aver faticato molto a intuire chi fosse il poor Ge111/ema11 cui alludeva l'esempio di The Minute Mathematician. Ma Berkeley era un maestro della controversia: ora, se l'abilità di un controversista si misura nella prontezza e nelle capacità dispiegate nella replica, abilità ancor maggiore è forse quella di esser riuscito a inaugurare la disputa in modo tale da portare il fronte degli avversari a spaccarsi, senza troppo reintervenire nella polemica. Ma perché questo possa accadere, occorre che ci siano le condizioni iniziali: che. in particolare, la "prudente attenzione" degli autori coinvolti non sia affatto riuscita a eliminare quegli • stimoli segreti• che l'occhio esperto del controversista coglie là dove i seguaci più ingenui trovano tutto "perfettamente piano e comprensibile". Questo, con buona pace del troppo ottimista Jurin, era appunto il caso della "analisi dei moderni". Diamo ancora la parola a aerkeley (paragrafo 44 di A De/ence): • Alcuni volano ai rapporti tra due nulla [nothings: zeri]. Certuni respingono quantità perché infinitesime. Altri ammettono solo quantità finite e quelle infinitesime omettono come inconfrontabili. Altri collocano il metodo delle flussioni sullo stesso piano di quello di esaustione e non vi riconoscono quindi nulla di nuovo. Alcuni si ostinano a ritenere chiara l'idea delle flussioni. Altri ritengono di essere in grado di svolgere dimostrazioni [demonstrate] circa cose incomprensibili. Certi vorrebbero provare [prove] l'algoritmo delle flussioni mediante una reductio ad absurdum; altri a priori. Alcuni ritengono che gli incrementi evanescenti siano quantità reali, altri che siano nulla, altri che siano dei limiti. Tanti uomini, tanti pareri: ciascuno differente dall'altro e tutti da Sir lsaac Newton". As marry men, so many minds: non solo la battuta di Berkeley dipinge lo stato del Calcolo prima e durante l'età eroica di Newton e di Leibniz, ma gli sviluppi della coniroversia negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di The Analyst non faranno che conformare questa impressione. Digressione. C'è una situazione abbastanza tipica nel comport11mento animale: una unica specie, per esempio di uccelli. cerca il suo cibo alle pendici di un monte senza essere capace di salirvi; lentamente la specie aggira però l'ostacolo, a destra e a sinistra del monte, conquistando sempre di più nuovi territori, finché, arrivati dall'altra parte del monte, i due rami della biforcazione si incontrano. Gli etologi constatano però che gli uccelli che vengono, poniamo, da sinistra

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a destra e quelli che vengono dalla parte opposta non si riconoscono più come elementi della stessa specie, ma si combattono come se si riconoscessero come elementi di specie diverse. Fuor di metafora: questo è un fenomeno di divisione che spesso si produce pure in coloro che originariamente si riconoscevano come sostenitori dello stesso programma e che alJa fine, aggirato in modi differenti un qualche ostacolo, si scoprono diversi. Nel 1735 Benjamin Robins pubblica a Londra A Discourse Concerning the Nature and Certainty of Sir lsaac Newton's Methods o/ Fluxions, and o/ Prime and Ultimate Ratios (cui già abbiamo fatto riferimento a p. 231). Il programma esplicito è quello di dissipare dubbi e perplessità di qualche lettore delle opere di Newton dato lo stile •conciso• che Sir Isaac ha impiegato talvolta nei suoi scritti; ma l'opera contiene tra le righe anche una critica della linea difensiva adottata da Jurin. Thomas Kuhn ha opportunamente ricordato come da una scuola di ricercatori, individuata dalJa comune adesione a punti di vista che si ritengono essenziali, il passato della disciplina in questione viene abitualmente •riscritto" in nome degli "interessi" del presente. I newtoniani britannici non costituiscono un'eccezione. Quello di Newton, nella ricostruzione 'razionale' (o dovremmo dire 'ideologica'?) di Robins, è infatti un tipico programma rivale a quel misto di indivisibilismo, infinito attuale e spregiudicata manipolazione algebrica che ai suoi occhi (e a quelli di altri britannici) sembrava caratterizzare l'approccio di Leibniz e dei Bernoulli (conosciuto soprattutto attraverso l'Analyse del Marchese de l'Hopital). "Considerando le grandezze non dal punto di vista delJa loro crescita mediante iterata aggiunzione di parti, ma come generate da un moto continuo o flusso, egli [ Newton] ha scoperto un metodo per confrontare insieme le velocità, con cui crescono grandezze omogenee e in questo modo ha insegnato un'analisi libera da ogni oscurità e confusione". L'analisi - cioè la tecnica di soluzione dei problemi - è per Robins il Calcolo delle flussioni in senso stretto. Con una importante qualificazione: • Ora, la velocità di crescita in ogni quantità è la flussione di quella quantità. Questa è la vera interpretazione dell'appellativo scelto da Sir Isaac per le flussioni, lncrementorum velocitates. Le flussioni non sono le velocità con cui le fluenti sono esse stesse mosse, o anche gli incrementi, che tali fluenti ricevono, ma i gradi di velocità [degrees o/ ve/ocity], con cui tali incrementi sono generati. Anche soggetti incapaci di moto locale, come le flussioni stesse, possono avere le loro flussioni. In ciò noi non attribuiamo a queste flussioni alcun moto reale; infatti attribuire moto o velocità a ciò che è già una velocità sarebbe completamente inintelligibile. La flussione di un'altra flussione è solo una variazione della velocità che costituisce quella flussione. In breve, luce, calore, suono, moto dei corpi, potere della gra-

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vità e qualsiasi altra cosa capace di v11ri11zione e di aver quella variazione assegnata [assigned, quindi anche finita], cadono sotto la preseme dottrina". Nel capitolo successivo vedremo come "la presente dottrina" ~reata da Sir lsaac abbia reso possibile la scoperta delle "leggi" che "l'Essere Supremo" ha "impresso" al Mondo. fornendo un paradigma di spiegazione scientifica. Qui ci basta sottolineare che proprio grazie alla precisazione linguistica circa il significato del termine flussione, Robins ritiene di aver aggirato quello che costituiva, detto in breve, il massimo ostacolo intellettuale al passaggio dal cosmo di Aristotele a quello di Galileo o, ancora, dal cosmo di Berkeley stesso a quello di Newton e dei suoi "infedeli" seguaci: la reiterazione del raie o/ change, la "variazione della variazione" (cfr. p. 171). E anche in Robins, non diversamente che in Jurin, la traduzione dal latino dell'originale all'inglese pare un passo obbligato. Quanto al metodo dei primi e ultimi rapporti, esso per Robins corrisponde alla sintesi dei "matematici antichi": forse "più conciso ... ma egualmente distinto e stringente". Qualcosa è scomparso rispetto al quadro concettuale originario di Newton, se è vero, come pensava Berkeley (e come alcuni storici oggi sono pronti a riconoscere) che in tale quadro si intrecciavano tre "metodi": flussioni, primi e ultimi rapporti e momenti. Val la pena di citare ancora Kuhn (che a sua volta riprende Whitehead): "una scienza che esit:i a dimenticare i suoi fondatori è perduta". Robins presumibilmente non voleva 'perdersi' e non esitava a sacrificare in una esposizione • concernente la natura e la certezza" dei metodi newtoniani quei momenti che Newton riteneva strumenti così spediti "per ricercare la verità". Si trattava, a suo dire, di fornire di nuovo • la corretta" interpretazione delle parole di Newton. Questi, nel Libro II dei Principia aveva scritto: Neque spectatur magnitudo momentorum, sed prima nascentium proportio, letteralmente: "non viene considerata la grandezza dei momenti, ma la prima proporzione [ il primo rapporto l delle quantità nascenti". E Robins glossa: "Qui va sempre ricordato che l'unico uso che dovrebbe mai essere fatto di questi momenti, è di conrrontarli l'uno con l'altro, e ciò per nessun altro scopo che determinare la ultima o prima proporzione tra i diversi incrementi o decrementi, da cui questi [momenti] sono ottenuti". In procedure come quella riportata nella figura 32 di p. 168 il momento della variabile y (che è uguale a r) va dunque nella (5) valutato con 2xo "senza l'aggiunzione di qualsiasi altro termine successivo". Ciò per Robins vale anche nel caso generale, per n intero o anche frazionario. Ora, finché n è un intero positivo (come nell'esempio, n 2) non era troppo difficile per qualsiasi matematico newtoniano dare almeno una prova informale che quel che viene ome~so puèl essere reso "piccolo come si vuole" prendendo o sufficientemente piccolo. Ma trattando la questione in piena generalità (n negativo o frazionario)

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fornire un analogo argomento convincente "per omettere tutto quel che resta della serie• (parole di Robins) è più difficile in assenza di una qualsiasi specificazione del significato delle espressioni che contengono serie infinite. La difficoltà principale di Newton e di quelli che dovevano disputarsi la sua eredità intellettuale, come ha scritto recentemente Philip Kitcher (1981) "è più con il concetto di convergenza, che con la nozione di infinitesimo". Inoltre, la nozione stessa di limite consentiva una doppia interpretazione. Limitiamoci pure a una procedura come quella per la determinazione della tangente a una curva. Robins conclude che, "benché i momenti [secondo Newton] non abbiano grandezza finale - grandezza che sarebbe invece necessaria per render le parli capaci di comporre un tutto per accumulazione - i loro ultimi rapporti sono veramente assegnabili [ corsivo mio] come gli altri rapporti tra quantità qualsiasi". Robins aveva già preso nelle precedenti pagine del Discourse le debite precauzioni affinché questa conclusione non suonasse come un nuovo paradosso. In ambiente flussionista la locuzione ultimi (o primi) rapporti diventava un modo di parlare, quasi "un'espressione filosofico-retorica• (vedi p. 207) avrebbe detto sul Continente un seguace di Leibniz sensibile alla mecafisica e alla metodologia del maestro. Nella dottrina dei primi e ultimi rapporti, chiarisce infatti Robins alla pagina 53 del Discourse, "una ultima grandezza non è altro che il limite, cui una grandezza variabile può approssimarsi a qualsiasi grado di vicinanza [ within any degree o/ nearness whatever], benché essa non possa mai essere resa assolutamente uguale al suo limite". Proprio tale qualificazione doveva provocare l'ira di Philalethes, cioè di Jurin, già irritato della pretesa di Robins di "migliorare" lo stile "troppo conciso" di Newton. Di fatto Robins giustifica l'omissione dei "termini ulteriori" in passi come quello dalla (5) alla (6) della figura 32 come un passaggio al limite. Questa non è che la traduzione dello ultimo aequales fiunt del I libro dei Principia o anche dell'evanescant augmenta illa del De quadratura di Newton. Ma l'espressione newtoniana ultimo - ribatte Jurin - può solo significare che, divenendo b "inassegnabile", a+ b raggiunge il limite a: escludendo questa eventualità Robins non fa che portare acqua al mulino del Vescovo, perché l'omissione non è più giustificata e il Calcolo newtoniano viene davvero declassato a calcolo di "errori". "The Present State of the Republick of Letters", periodico "calco" edito da A. Reid, doveva ospitare nel biennio 1735-36 (con uno strascico l'anno successivo) - tra le proteste della maggioranza dei lettori che mal digerivano la troppa "geometria" - la disputa tra Jurin, da una parte e Robins, cui si affianca Henry Pemberton (cui si deve la terza edizione dei Principia), dall'altra. Al centro è appunto come rendere lo ultimo di Newton: semplicemente lastly o ultimately (come facevano Pemberton e Robins, limitandosi a un calco pressoché

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letterale dell'inglese sul latino, senza spiegarsi molto) o actually, come si comprometteva invece Jurin, esponendosi all'accusa di reintrodurre, surrettiziamente, gli infinitesimi attuali? E lo evanescant augmellla il/a del De q11adrat11ra vuol dire davvero che gli incrementi possono diventare nulli poiché o può contrarsi in uno zero (Jurin) o solo che, in modo pressoché figurato, è possibile sostituire nelle scritture come quelle della figura 32 agli aumenti finiti i momenti, che in linea di principio non debbono avere "grandezza finale" (Robins, Pemberton)? I destini della disputa si giocano, dopotutto, su un congiuntivo. Una controversia nella controversia: né c'è troppo da stupirsi che entrambe le parti dimentichino l'ostacolo iniziale (le obiezioni del vescovo Berkeley) per accanirsi l'una contro l'altra e che ciascuna condanni l'altra in nome della "corretta" interpretazione del pensiero di Newton. Dopotutto, come ha osservato Kuhn, l'educazione scientifica è un tipo di educazione "rigida e limitata, forse più rigida e limitata di ogni altro tipo di educazione, fatta eccezione per la teologia ortodossa ". Detto in breve: ove l'uso dogmatico della ragione è di casa, •eretico" è sempre l'altro. Ma il fatto che la controversia, per cosl dire, 'biforchi' non è informativo solo circa le abitudini intellettuali o i vincoli istituzionali dei protagonisti: come nella 'parabola' degli uccelli e della montagna vogliamo apprendere qualcosa della 'geometria della biforcazione', nella fattispecie circa il paesaggio geografico, l'habitat della specie, ecc., analogamente qui il dividersi in due del partito newtoniano rende esplicita la tacita compresenza di due motivazioni distinte del Calcolo, una più tipicamente geometrica, l'altra più immediatamente fisica. Quando Robins insiste sul fatto che il limite non viene mai raggiunto, l'esempio classico che egli letteralmente ci mette sotto gli occhi è quello della quadratura del cerchio: l'area del cerchio è il limite cui tendono (crescendo) le aree dei poligoni regolari inscritti o (decrescendo) le aree dei poligoni regolari circoscritti; in entrambi i casi, nessuna di tali aree raggiunge mai l'area del cerchio, proprio come non è lecito, se si vuol rispettare • il rigore degli antichi•, trattare il cerchio come "un poligono di infiniti lati". (L'atteggiamento di Robins si adattava bene, del resto, all'ambiente dei British Mathematicians che, almeno sul piano dei principi, rivendicavano l'esattezza delle procedure newtoniane in contrapposizione alle mosse azzardate che qualche continentale come il Marchese de l'Héìpital era giunto al punto di elevare a rango di "assiomi• della • nuova analisi•.) Fin qui tutto bene: e tutto nello spirito del De quadratura. Ma riprendiamo un passo dei Principia che a suo tempo abbiamo già citato e commentato (p. 178): "Si obietta che non esiste l'ultimo rapporto di quantità evanescenti, in quanto esso, prima che le quantità siano svanite non è l'ultimo, e allorché sono svanite non c'è affatto.

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Ma con lo stesso ragionamento si puè> giustamente sostenere che non esiste la velocità ultima di un corpo che giunga in un certo luogo, dove il moto finisce. La velocità, infatti, prima che un corpo giunga nel luogo non è l'ultima, e quando vi giunge non c'è. La risposta è facile: per velocità ultima si intende quella con la quale il corpo si muove, non prima di giungere al luogo ultimo nel quale il moto cessa, né dopo, ma proprio nel momento in cui vi giunge: ossia, quella stessa velocità con la quale il corpo giunge al luogo ultimo é con la quale il moto cessa. Similmente, per ultime ragioni delle quantità evanescenti si deve intendere il rapporto delle quantità non prima di diventare nulle e non dopo, ma quello col quale si annullano". La questione fisica del moto era in passi del genere quella dominante. Jurin ha dunque qualche diritto nell'evocare contro Pemberton e Robins qualcosa di simile agli antichi paradossi dello Stopping and Starting o alla ratio Achilles (vedi pp. 136-139 e p. 110; ma vedi anche la didascalia della fig. 23): E a un attonito Pemberton egli puè> alfine indicare (demonstrate!) l'evidenza quotidiana. "Dici che una variabile non puè> raggiungere il suo limite? Supponi che le lancette dell'orologio segnino le 11 della notte e lascia che un'ora trascorra. La lancetta più corta si sposta dalla tacca dello 11 a quella del 12 lentamente, quella più lunga compie un ciclo completo. Quando l'ora è quasi compiuta, la lancetta dei minuti ha quasi raggiunto quella delle ore e la loro coincidenza avviene quando scocca mezzanotte: buona notte, dr. Pembertonl • Nella Siris (1744} il vescovo Berkeley offre, in una nota a piè di pagina, un quadro finale della situazione e, insieme, un altro saggio del consueto sarcasmo: • Il nostro giudizio ... non si deve lasciar soverchiare dalla presunta evidenza delle nozioni e dei ragionamenti matematici, poiché è manifesto che i matematici di quest'epoca abbracciano nozioni oscure e opinioni incerte e si rompono la testa a loro proposito, contraddicendosi l'un l'altro e disputando come fanno tutti gli uomini: come testimonia la loro dottrina delle flussioni, a proposito della quale in questi ultimi dieci anni ho visto pubblicato circa venti trattati e dissertazioni, i cui autori, essendo completamente differenti e addirittura inconsistenti l'uno rispetto all'altro, istruiscono gli spettatori su quel che bisogna pensare delle loro pretese all'evidenza•. La controversia - ci riconnettiamo con quanto abbiamo scritto nelle prime pagine del I capitolo - puè> esser vista come patologia: la controversia nella controversia è dunque una sorta di patologia di secondo ordine?

• Af/incM il sistema dei cieli fosse costruito su di una sicura geometria" Non potremo far cenno qui di tutta la ventina • di trattati e dissertazioni" cui Berkeley fa cosl sbrigativo riferimento - ma, prima di trarre qualche conclusione sul "privilegio del libero pensatore" vogliamo almeno accennare a un contributo che decisamente sovrasta tutti gli altri. "Una lettera pubblicata nel 1734, col titolo The Analyst, ha costituito la prima occasione per questo trattato". Il trattato è il monumentale Treatise o/ Fluxio11s dello scozzese Colin MacLaurin in due libri, pubblicato a Londra nel 1742 e la vasta gamma di risultati •puri" e "applicati" - che esso offre al lettore va ben oltre la replica a Berkeley. Ma questi, all'inizio, è esplicitamente chiamato in causa. Egli "ha rappresentato il metodo delle flussioni come fondato su falsi ragionamenti e pieno di misteri•, tratto in inganno, con tutta probabilità, "dallo stile conciso con cui vengono abitualmente descritti gli elementi di questo metodo". Fin dalla Prefazione, ogni parola è attentamente pesata: in tempi di "infuocate contese" (il termine è di Swift) tra sostenitori degli "Antichi• e dei "Moderni• in tutti i campi: dal Parnaso (cioè dalla poesia) alla "officina di Vulcano• (cioè alla scienza e alla tecnica), Colin MacLaurin media tra legittimo orgoglio per la "nuova analisi" e omaggio al "rigore di Euclide e di Archimede". Le coraggiose tensioni di concetto e l'audacia nel forzare l'immaginazione la spregiudicatezza di Leibniz, dei Bernoulli, del Marchese de l'HOpital, di Jakob Hennann, ecc. sono lontane - nel tempo e nello spazio. "Mentre procedevo nell'opera, mi venivo accorgendo che certe regole cadevano in difetto o erano poco precise; che la soluzione di parecclù problemi, dedotta in un modo alquanto misterioso, impiegando una seconda e anche una terza flussione, poteva venir completamente determinata con maggior evidenza e con minor pericolo di errore, impiegando solo flussioni prime; e che altri problemi erano stati risolti mediante approssimazioni, anche quando una soluzione esatta poteva venir ottenuta con la stessa facilità o con facilità ancor maggiore". MacLaurin è dunque fin troppo sensibile al "privilegio del libero pensatore" esercitato da Berkeley: ed è per questo che. da semplice replica al pamphlet del Vescovo, "l'opera" gli cresce, per così dire, tra le mani, diventando un vero e proprio monumento alla ortodossia flussionistista. li programma è, fin dalle prime battute, esplicito: "dedurre gli elementi [della nuova geometria] alla maniera degli Antichi, da pochi principi ineccepibili, mediante dimostrazioni della forma più rigorosa [Demonstrations o/ the strie/est form] • (corsivo mio). Rigorizzare vuol dire allora sostituire tutti quei passaggi che negli algoritmi sono per qualche verso "dubbi• con passaggi la cui •evi-

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denza" sia fuori discussione (•Ja geometria è valutata per la sua utilità, ma è ammirata per la sua evidenza"). Ancora una volta siamo lontani da Leibniz o dai Bernoulli. Nella stessa giustificazione metafisica di Leibniz, infatti, "l'evidenza" entro un calcolo era solo indiretta e, per cosl dire, 'globale': era sufficiente che il problema fosse formulato "in modo chiaro e distinto" e che altrettanta chiarezza e distinzione si ritrovasse nella soluzione per avere una prova (induttiva) che si erano introdotti come • enti ausiliari" delle finzioni "ben fondate" (vedi p. 209), allontanandosi cosl dai rigidi precetti cartesiani che Johann Bernoulli soleva beffeggiare insinuando che i seguaci di Descartes chiamavano "chiaro e distinto" solo quello che le loro (limitate) capacità intellettuali erano in grado di concepire. Qui invece "l'evidenza" è step by step, •passo per passo": diretla e, per così dire 'locale'. Le motivazioni possono essere molte: il senso di superiorità - dopo la disputa sulla priorità tra Newton e Leibniz - dei matematici britannici e al tempo stesso il sospetto di precarietà gettato da Berkeley sul mirabile edificio del Calcolo flussionale, per esempio. Ma c'è forse una ragione intellettuale più profonda: il MacLaurin che, nell'Ac-

count of the Philosophical Disco11eries of Sir lsaac Newton (1748), ricostruisce - lo abbiamo visto a p. 20 - la storia della filosofia naturale, come una sequenza di spietate controversie, è anche l'uomo di fede rispettoso della • assoluta potenza del Creatore" che tuttavia non riesce a credere che Dio arbitrariamente infranga le leggi che Egli stesso ha stabilito (poiché questo, come rinfaccia al radicalismo teologico di Andrew Baxter, vanificherebbe qualsiasi indagine razionale). Solo una filosofia naturale che si basa sul solido terreno dell'esperienza e che rifugge dalle "speculazioni" può spezzare la catena senza fine della confutazione, della confutazione della confutazione, ecc.: la filosofia naturale annunciata da Francis Bacon, delineata nei suoi tratti intellettuali nella "teoria delle idee" di John Locke, realizzata, nella grande sintesi di meccanica celeste e terrestre, solo nei Principia di Newton. Augustus De Morgan osservava - circa un secolo dopo - che Newton si era ben guardato dal lodare pubblicamente Bacon e che il suo punto di vista non sempre aveva coinciso con quello di Locke per esempio su "idee" come lo spazio e il tempo assoluti e soprattutlo sulla "estensione" e la "durata" concepite come infinite: ma le "ricostruzioni" della storia del pensiero come quelle di Maclaurin eranò destinate a imporsi (anche sul Continente europeo: per esempio con la diffusione dell'Account come vero e proprio manifesto del newtoniancsimo durante "la età dei lumi"). Esse finivano col costruire la prestigiosa genealogia di quel "modo di pensare inglese•. cioè de[la filosofia che privilegia l'esperienza, contro cui doveva scagliarsi la reazione - rabbiosa e impotente - di Hegel nel suo De orbitis planetarum (vedi oltre p. 262).

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Questo riferimento non ci porta fuori strada: quel che Hegel infatti, nel rivalutare "il divino Kepler", rimproverava a Newton era l'abbandono della filosofia "speculativa" a vantaggio non della semplice filosofia sperimentale, ma di una esperienza matematizzata, quale era appunto dispiegata nei Principia. E il cerchio si chiude: i due primi libri "matematici" del capolavoro newtoniano - quindi la stessa dottrina dei "primi e ultimi rapporti" - sono finalizzati alla comprensione dei "fenomeni" e del resto - come è spiegato nel De quadratura - le generazioni degli enti geometrici "hanno davvero luogo in realtà". Se dunque la giustificazione newtoniana è diversa sia dal "metodo degli indivisibili" sia da quello "delle quantità infinitamente piccole" è proprio perché - come già scriveva l'autore della recensione al Commercium epistolicum (= Newton stesso!) "il sistema dei cieli sia costruito su di una sicura geometria". Colin MacLaurin matematico anticipa Colin MacLaurin filosofo: "la dimostrazione matematica è tale che si può sempre supporre capace di por fine alle dispute, poiché non lascia posto per dubbio o cavillo". Abbandonando i canoni degli Antichi - scrive Colin nel Treatise gli indivisibilisti come Cavalieri e gli infinitesimalisti come Leibniz had involved themselves in the mazes o/ infinity, "si sono impelagati nei labirinti dell'infinito" e "quando dalla geometria infiniti e infinitesimi sono passati nella filosofia, hanno portato con loro quell'oscurità e perplessità che non poteva non accompagnarli•. E;, appunto, il quadro - reso fosco da controversie e dubbi - della filosofia della natura sul Continente: "Qualcuno ammette una divisione attuale, ovvero una divisibilità della materia in infinitum. I fluidi sono immaginati come fatti di particelle infinitamente piccole, che sono a loro volta composte di altre infinitamente minori; e questa sottodivisione si suppone continuata senza fine. Hanno proposto i vortici, per spiegare i fenomeni della natura, di gradi infiniti o indefiniti, a imitazione dell'infinitesimale in geometria; ovvero, quando qualche ordine superiore risulta insufficiente allo scopo, un ordine inforiore può ancora salvare tale schema favorito. Nelle sue operazioni la natura è vincolata ad agire per passi infinitamente piccoli. I corpi di durezza perfetta non vengono ammessi, e la vecchia dottrina degli atomi trattata come immaginaria, dal momento che nelle loro azioni e collisioni essi dovrebbero passare in un animo dal moto alla quiete o dalla quiete al moto, violando proprio questa legge". Non è questa che una delle caricature più impietose della legge di continuità e della stessa pretesa leibniziana di utilizzarla come strumento di critica (per esempio, nella determinazione di un modello matematico dell'urto tra due particelle). Quanto al potere euristico della "dottrina degli infiniti", MacLaurin è per lo meno prudente quanto lo era a suo tempo Locke: tali supposizioni "proposte all'inizio con molta diffidenza, come semplice ricetta per

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scoprire nuovi teoremi con facilità maggiore in geometria, e ammesse solo su questa base, sono state così a lungo tollerate al punto che questa disciplina si è riempita di tanti oggetti di una natura cosl astrusa da rendere motivo di perplessità sé e le altre scienze che da essa dipendono". La filosofia "avrà sempre i suoi misteri, ma questi vengono evitati In geometria", anche se va ricordato che • una filosofia assurda è il prodotto naturale di una geometria viziata". E la terapia che MacLaurin propone contro "l'eccessiva libertà" con cui Leibniz e i suoi adepti più entusiasti impiegano "la scala degli infiniti" è quella di seguire il consiglio di Locke, cioè di ragionare intorno a "quantità assegnabili", evitando • di parlare e disputare di grandezze infinite, come se si avesse di esse idee complete e positive come si hanno dei nomi che si impiegano per esse": una cautela non troppo diversa da quella di Berkeley (" niente è più facile che inventare espressioni o notazioni... per gli infinitesimi dei vari ordini"; vedi p. 230), ma mentre Berkeley stimava che le stesse flussioni di Newton fossero astruse quanto le differenze infinitamente piccole, MacLaurin, ritenendosi in pieno accordo con la teoria lockiana della conoscenza, ritiene che la nozione di flussione · sia un'idea generale astratta perfettamente ammissibile, perché di essa abbiamo una definizione che rispetta l'evidenza della geometria, una "misura" perfettamente "chiara e distinta" in termini di familiari quantità fisiche, una determinazione algoritmica in cui l'eventuale uso di "infiniti" e "infinitesimi" è solo un modo di parlare "abbreviato". In realtà, il confronto tra l'enorme massa di acquisizioni di Leibniz, dei Bernoulli, successivamente di Euler e quanto davvero può venir tradotto nel rigoroso linguaggio • archimedeo" del Treatise mette in luce sia il titanico sforzo di MacLaurin, sia le difficoltà del tentativo. La geometria "pura" dello scozzese resta indietro; inoltre, almeno ai nostri occhi, essa appare meno pura di quanto pretende. Le caratteristiche della "maniera degli Antichi" che MacLaurin recupera sono almeno tre: i") la rigida distinzione tra retto e curvo: il cerchio (cfr. anche Robins, pp. 242-243) non è "un poligono di infiniti lati", ma qualcosa di molto simile a quello che oggi (dopo Richard Dedekind) chiameremmo l'elemento separatore tra due "classi": quella dei poligoni regolari inscritti e quella dei poligoni regolari circoscritti; ii) il mantenimento rigido (contenutistico) dell'assioma di Eudosso-Archimede; iii) l'accettazione del solo infinito potenziale e la rigida esclusione dell'infinito attuale. in questo quadro concettuale - ove Archimede (l'Archimede degli "arciprecisi" che avrebbe impiegato esclusivamente il "metodo di esaustione") va d'accordo con Aristotele e tutto con la benedizione della filosofia della conoscenza "rinnovata" da Locke - che prende sempre più spessore l'immagine del Newton "rigoroso• che tratta solo di quantità finite o di limiti di rap-

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porti tra quantità finite, senza compromeu~rsi con "la scala degli infiniti• (e degli infinitesimi). Agli inizi del Settecento William Jones, John Craig. John Harris, Charles Hayes, Humphrey Ditton e altri avevano inaugurato il genere del trottato di calcolo flussionale associando senza troppi scrupoli le metafisiche rivali di Newton e di Leibniz: i differenziali di Leibniz non solo potevano venir, per così dire, tradotti nei momenti di Newton (come Newton stesso sosteneva), ma erano sostanzialmente la stessa cosa, il che spostava la bilancia netta• mente a favore di Newton nella controversia sulla priorità. Non c'è da stupirsi che MacLaurin invece guardi soprattutto al De quadratura del 1704, il vero e proprio manifesto pubblico di Newton sul Calcolo e cerchi conseguentemente di avallare un Newton "rigoroso" che ha ormai lasciato alle spalle il suo passato infinitesimalista. Proprio per questo abbiamo usato nei punti i), ii) e iii) il termine rigido intendendo in i) una distinzione qualitativa la cui "chiarezza• non può essere cancellata scendendo nell'infìnitamente piccolo; in ii) il divieto di reinterpretare un principio come l'assioma di EudossoArchimede facendo slittare il significato dei termini base (per esempio, • del termine numero, cfr. p. 197); in iii) la restrizione dell'infinito alla sola accezione negativa, eliminando entità "misteriose" come "i numeri infiniti": un insieme di vincoli che dovrebbero garantire per la "geometria dei Moderni" la stessa "esattezza• della "geometria degli Antichi". In tutti i tre aspetti MacLaurin imboccava la strada inversa a quella delle felici trasgressioni commesse da Leibniz e il riferimento • alla maniera degli Antichi• svolge il ruolo pressoché opposto a quegli spregiudicati richiami ai matematici greci che Leibniz utilizzava sprezzantemente contro Nieuwentijt. Anche il ricorso al metodo assiomatico contrasta pressoché specularmente alla versione della • nuova analisi• più diffusa e prestigiosa sul Continente, cioè alla formulazione assiomatica di Johann Bernoulli e l'Héìpital. Gli assiomi dell'Analyse des infiniments petits miravano a legittimare l'impiego delle "quantità infinitamente piccole" nei problemi geometrici; quelli di MacLaurin a fame letteralmente a meno. Il compito dello scozzese era dunque ben più arduo di quello di Johann Bernoulli che modellava i propri "assiomi» sugli algoritmi del calcolo differenziale (il secondo principio del trattato di de l'Héìpital altro non è che il principio di omissione, cfr. p. 235) - pur oscillan• do tra la concezione realistica e quella nominalistica (" finzione le") degli infinitesimi. Nulla di tutto ciò in MacLaurin: le fluenti - cioè le grandezze variabili con continuità nel tempo - sono definite come nel De quadratura e "la velocità con cui una quantità fluisce a ogni termine di tempo [at any term o/ time] mentre si suppone che sia generata, è detta sua Flussione: essa è sempre misurata dall'incremento o

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decremento che sarebbe generato in un dato tempo da questo movimento, se fosse continuato uniformemente da quel termine [term] senza alcuna accelerazione o ritardo" (corsivo mio). La frase chiave è quella che abbiamo riportato in corsivo: la velocità è cioè "misurata" da una quantità finita ad essa proporzionale. Ora, un seguace di Leibniz (con buona pace del dottor Nieuwentijt) avrebbe tranquillamente eluso la difficoltà definendo la velocità istantanea come il rapporto fra uno spazio infinitesimo e un tempo infinitesimo, riprendendo un'idea cara al filosofo Thomas Hobbes che a suo tempo già aveva descritto la velocità come il rapporto tra un "indivisibile• di spazio e un •indivisibile• di tempo. La prima preoccupazione di MacLaurin è invece quella di dedurre le proposizioni del Calcolo da "poche verità autoevidenti", il che vuol dire da "principi che implicano l'immaginazione di quantità realmente esistenti• (non è questa una forte concessione a Berkeley?) mentre nel caso del moto uniforme, stabilita una unità di tempo, la flussione è immediatamente misurata dall'incremento ottenuto dalla fluente yin quell'intervallo unitario di tempo: che significato abbia la locuzione l'incremento generato in un dato tempo da questo movimento, se fosse continuato uniformemente a partire da quel termine senza alcuna accelerazione, aspetta ancora un senso. Il problema è però risolto determinando y secondo il metodo newtoniano dei primi e ultimi rapporti, cioè, noi diremmo, calcolando un limite. E, in linea di principio, questo procedimento può essere iterato in modo da ottenere flussioni di qualsiasi ordine. L'enfasi di Colin sul concetto di limite sembra, sul lungo periodo, aver pagato. Jean le Rond d'Alembert nella voce Limite dell'Encyclopédie non esiterà a dire che quella dei limiti "è la vera metafisica del Calcolo infinitesimale" e Cauchy, nel 1821, darà infine una fondazione del Calcolo su tale concetto, "che nulla ha da invidiare al rigore degli Antichi". Ma prima di entusiasmarci per questo cammino • dai principi autoevidenti" alla matematica "indubitabile" attraverso il sentiero, angusto ma sicuro, delle strict demonstrations (le rigidae demostrationes - come le chiamava Euler - che nessuno spazio lasciano allo S1,ain of Imagination), dobbiamo ricordare una "piccola" differenza tra il rigore matematico secondo MacLaurin e quello cui noi siamo abituati (e, per dirla con Leibniz, sono le piccole differenze quelle che contano). Da Cauchy in poi quelle che MacLaurin chiamava "velocità" sono letteralmente definite come limite del rapporto tra gli incrementi (vedi più oltre, p. 253): in ogni applicazione (geometrica come il problema della tangente o fisica come il problema della velocità nel moto locale) una dimostrazione di convergenza garantisce che è sensato parlare di limite in quel dato caso. Nel Treatise di MacLaurin, invece, il metodo dei primi e ultimi rapporti fornisce solo une

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procedura generale per la determinazione quantitativa degli enti geometrici che rappresentano i concetti del Calcolo flussionale. Termini come "fluente•. • flussione prima•, "flussione seconda", ecc. denotano aspetti presenti nel mondo fisico, un mondo popolato, come sappiamo da Barrow e da Newton, da "quantità che crescono e decrescono con continuità". Dietro il rigore di MacLaurin ritroviamo una nostra vecchia conoscenza: la matematica mista di Galileo, la fisica applicata di Barrow. Detto in breve, se tutto l'edificio del rigorista MacLaurin sta in piedi, in assenza di convincenti e sistematiche dimostrazioni di convergenza, è solo perché movimento e velocità sono dei presupposti fisicamente ineccepibili (con buona pace di Zenone di Elea) che solo un pazzo (o un idealista come il Vescovo) potrebbe mettere in questione. Occorre davvero provare meraviglia o sdegno per il fatto che Berkeley non si era nemmeno degnato di una replica-particolare (come faceva il biografo di MacLaurin, Patrick Murdoch nella biografia di Colin che accompagna l'Account of the Philosophical Discoveries of Sir Isaac Newton, uscito postumo nel 1748: Colin si era spento, invocando Dio e glorificando il suo corpo o segno, "lo spazio assoluto• sul letto di morte, stroncato dalle fatiche sostenute difendendo Edimburgo dai ribelli giacobiti)? f: ragionevole supporre che Berkeley avesse trovato tutta la machine de guerre dello scozzese viziata da una sorta di circolo. • Ah, certo

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l'ombra che mi incontro•

•f: inconcepibile come la successione dei numeri naturali passa dal Finito all'Infinito, come, cioè, dopo aver avuto termini finiti, viene ad averne uno infinito. Pertanto, deve essere proprio così: a meno che non vogliamo abbandonare assolutamente ogni idea dell'Infinito e non pronunciarne nemmeno il nome, il che farebbe perire la parte più grande e nobile della matematica•. Quanto all'infinitesimo esso "non è che il reciproco dell'Infinito": con esso sopravvive a ogni dubbio della nostra fragile immaginazione o con esso perisce di fronte alla più spietata analisi logica - cioè all'ultimo travestimento del "privilegio del libero pensatore". Ma non conosciamo ormai la fine della storia? La gerarchia di "infiniti e infinitesimi" che per l'incauto Bernard le Bovier de Fontenelle costituivano "la parte più grande e nobile della matematica• (la citazione è tratta dai suoi Eléments de la Géométrie de l'In/ìni, 1726) se non "le speculazioni più sublimi" è stata inesorabilmente dissolta: un pantheon di dèi falsi e bugiardi. C'è qualcosa da rimpiangere? La situazione ricorda per qualche verso il finale del Don Giovanni di Da Ponte e Mozart, quando, a "ri• sultati ottenuti•, Donna Elvira e Leporello, Donna Anna e Don Ottavio, Zerlina e Masetto cercano di dare un senso alla sparizione di Don Giovanni: solo cenere è rimasta. Ma chi ha gettato il libertino nelle

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braccia di "Proserpina e Pluton"? L'identificazione di Donna Elvira - "Ah, certo è l'ombra che m'incontrò" (cioè lo spettro del Commendatore) - lascerebbe forse deluso qualche razionalista. Se il libretto fosse stato scritto da Rudolf Carnap (o da qualche positivista suo epigono) avremmo finalmente avuto "la spiegazione" in grado di conferire ai fatti ( ai risultati circa derivazione e integrazione, cfr. la citazione a p. 159) "il loro autentico senso": Don Giovanni è vittima certamente di una congiura, ordita forse non dall'imbelle Don Ottavio, ma dalla più volitiva Donna Anna, con l'aiuto di qualche braccio contadino e della complicità, più o meno spontanea, di Leporello. li lettore provi da sé: quasi tutti i dettagli quadrano, e se qualcuno non quadra, c'è sempre modo di relegarlo nelle "note a piè di pagina", che hanno il compito di salvarci l'anima nelle nostre "ricostruzioni razionali n. Forse lo spettatore 'ingenuo' potrebbe preferire ancora la vecchia versione. Ma nel caso del Calcolo - si obietterà subito - non siamo di fronte a un "dramma giocoso", ma a una epica storia di come la ragione (matematica) si è affrancata dalle quantità "anfibie tra essere e non essere• pervenendo a uno stile così limpido da non lasciare dubbi o incertezze in alcuno. • Chiedo se sia vero che solo la metafisica e la logica possano aprire gli occhi ai matematici e liberare costoro delle loro difficoltà" (Berkeley, The Ana/yst, domanda n. 51). La risposta è oggi abitualmente affermativa: la "metafisica" dei limiti, annata di una logica impeccabile, ha ripristinato l'edificio dell'analisi. Certo, un logico e filosofo come Charles Sanders Peirce o un matematico con inclinazione filosofica come Hennann Weyl - per fare due soli nomi - si sono a lungo domandati se davvero il rigore weierstrassiano non pagasse il prezzo troppo alto di un sacrificio di intelligibilità. Ma voci del genere hanno esercitato solo il fascino discreto dell'eterodossia. Torniamo per un attimo a Berkeley. Come doveva riconoscere uno dei più acuti 'storici' delle controversie sul Calcolo, Augustus De Morgan, la polemica innescata da The Analyst - pur con Il' sue conseguenze immediatamente negative nell'ambiente dei matematici del Regno Unito - costituiva un caso esemplare di come il rigore, dapprima esercitato dall'esterno della matematica (con motivazioni propriamente apologetiche e religiose), doveva venire a poco a poco assimilato all'interno della matematica stessa. C'era voluto tutto "l'orgoglio metafisico" (per usare l'espressione cara a Buffon, traduttore francese della Methodus di Newton) del Ve$COVO per trattare come "spettri" od "ombre" gli strumenti concettuali di un Calcolo che già allora passava di successo in successo, in un'epoca in cui i resoconti di apparizioni si moltiplicavano e le persone di buon senso chiedevano lumi ai filosofi. • Le idee degli spettri e dei fantasmi - aveva osservato fohn Locke nell'Essay Concerning Hu-

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man U11derstanding (1690) - in realtà non hanno a che vedere con l'o scurità più che con la luce; tuttavia, lasciate che una stolta donnetta inculchi abbastanza spesso queste idee nella mente di un bambino, e ve le susciti tra loro unite, e forse mai più egli sarà in grado, finché vive, di separarle nuovamente l'una dall'altra". In breve Berkeley aveva rigettato sulla matematica lo scetticismo lockiano circa la possibilità di una scienza degli "spiriti disincarnati". Ammettiamo. per il momento. che Berkeley avesse avuto ragione anche qui: Leibniz e Newton avevano proiettato sul mondo una struttura segnica in cui certi simboli - come lo o degli inglesi o i dx, dy, ecc. dei matematici del Continente - non sembravano avere alcun riferimento preciso (che in uno dominasse più un "pensiero del tempo" mentre nell'altro un "pensiero della differenza" che cioè quella di Newton e quella di Leibniz siano due "metafisiche del Calcolo" rivali - a questo punto non è più rilevante). Così facendo avevano creato un labirinto di enigmi in cui erano stati i primi a smarrirsi e il filo di Arianna era arrivato con più di un secolo di ritardo. Facciamo ora un'apparente digressione. Il linguista Benjamin Lee Whorf ha raccontato questo aneddoto: • In certe parti del New England i gatti persiani sono chiamati coon cats, e questo nome ha generato la credenza che essi siano un ibrido tra il gatto e il coon (procione). La cosa è spesso ritenuta vera da persone ignoranti di biologia, poiché la forza della struttura linguistica... fa loro 'vedere' (uno psicologo direbbe 'proiettare') qualità oggettive del procione nel corpo del gatto: la folta coda, il pelo lungo e così via. Conoscevo una donna, che possedeva appunto un coon cat, che sosteneva vivacemente con un suo amico: 'Ma guardalo soltanto, la coda, gli occhi buffi, non lo vedi?' 'Ma non essere sciocca! - ribatteva il suo amico un po' più istruito - Ricordati la storia naturale! I procioni non possono incrociarsi con i gatti; appartengono a una famiglia diversa'. Ma la signora ... rimase convinta che il suo micio era il risultato dell'incontro tra un procione vagheggino e una gatta capricciosa! Esattamente a questo modo, su scala più vasta, è intessuto il velo di Maya, l'illusione fondata su un incallito egocentrismo. Mi dicono che i coon cats hanno ricevuto il loro nome da un certo capitano Coon che portò sulla sua nave il primo di questi gatti persiani nello stato del Maine•. Ripensiamo al rapporto differenziale di Leibniz: per noi - commentava nel 1903 Bertrand Russell - • il dx e il dy sono nulla: dx/dy è il limite di una frazione il cui numeratore e il cui denominatore sono finiti, ma non è esso stesso una frazione". Ma per Leibniz dx/dy ha senso solo come simbolo unico, proprio come, alla luce della classificazione degli animali accettata, il nome coon cats è una parola sola e non va affatto scomposto in coon e in cats, con equivoche allusioni a galli e procioni. All'inverso, per Leibniz - il cui quadro di idee matematiche non contempla l'attuale nozione di funzione derivata (essa

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ci viene da Lagrange), bensì quella di rapporto differenziale - dx/dy ha senso solo perché si possono combinare insieme i differenziali dx, dy, proprio come per la signora del New England coon cats ha senso solo per l'unione di coon e cats. Naturalmente Leibniz era più sofisticato: non avrebbe detto che i gatti persiani sono ibridi tra gatti e procioni, ma che si comportano come se fossero ibridi tra gatti e procioni. Fuori di metafora: dx e dy sono finzioni (ma ben fondate), cioè elementi ideali: la legge di continuità ne giustifica l'impiego (cfr. del resto quanto detto nel capitolo VII, pp. 204-9). Ma tutto questo apparato - come del resto quello newtoniano doveva sembra "inutile" e l'enigma dell'ultimo aequales fiunt apparire letteralmente dissolto con la rifondazione rigorosa del Calcolo sul concetto di limite nella prima metà dell'Ottocento. "Cauchy, al contrario di Newton" ha osservato Judith Grabiner "non sollevò la questione se un rapporto e il suo limite erano in ultimo eguali né (al contrario di chi ragionava in termini di legge di continuità) si poneva il quesito se la secante 'divenisse' alla fine la tangente. La sua definizione di limite diceva solo che la variabile e il suo limite differiscono meno di ogni arbitraria quantità assegnata". Come si è visto, questa concezione, una volta espressa nello stile inaugurato da Weierstrass nella seconda metà del secolo scorso e impostosi quindi nell'analisi sembrerebbe non lasciare spazio alle quantità infinitamente piccole. Occorre solo ri-orientare (ri-educare) chi nella comunità scientifico ancora si attarda a servirsene proprio come si sarebbe dovuto ri-orientare (ri-educare) la cocciuta signora del New England. Questo è, apparentemente, il compito della "rigorizzazione". Chi resiste verrà via via considerato 'rozw', 'non aggiornato', 'superato', 'bizzarro', 'folle', in una sorta di progressiva emarginazione. Che Newton e Leibniz al tempo loro si fossero espressi come oggi si esprimerebbero solo dei personaggi 'bizzarri' o 'folli' non ha molta importanza. E probabilmente non deve averne. Come diceva appunto Whitehead, una scienza che non esita a dimenticare i suoi fondamenti è perduta. Quel che vien prima delle rigorose "definizioni concettuali• non è nemmeno storia di una scienza, ma al più preistoria. Eppure questa identificazione delle teorie con le teorie rigorose non è soddisfacente. Essa fa del "presentimento intuitivo" - come ha osservato Ludovico Geymonat (I 950) - una sorta di "divinazione diretta, anteriore a ogni ragionamento" del comportamento che ci si attende da parte degli enti matematici. Con l'omissione, sul piano storico, di qualche particolare. Ha scritto per esempio Quine, seguendo in questo Russell: "Weierstrass non ha definito l'infinitesimo, ma ha mostrato come andare avanti senza di esson. Ma, se si rilegge Weierstrass, si scopre che questi, piuttosto, ha tradotto nel linguaggio E • lì questa nozione. (Un infinitesimo è una funzione / di una variabile h, tale che, una volta "dato E, si può trovare lì tale che, per ogni valore di h il cui valore assoluto è

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minore 6, /(/1) è in valore assoluto minore di E"): questa traduzione rende plausibili non poche asserzioni di Leibniz circa i suoi "elementi ideali" (anche se non le rende plausibili tutte). Riprendiamo il parnllelo con le lingue (dopotutto, come si è visto, i matematici post-newtoniani si erano proprio imbattuti in un problema di traduzione dal latino!). La traduzione è 'locale', non 'globale'. Come l'esperienza degli antropologi sul campo sembra indicare, essa mira a razionalizzare il comportamento di coloro che parlano la lingua che si vuole tradurre. Ora "simulare ... la 'ragionevolezza' - ha notato Hilary Putnam - significa simulare ... l'intera mente umana". Una vera utopia scientifica! Ma l'impossibilità di questa simulazione 'globale' non implica che la traduzione non sia 'localmente' efficace. Essa è una capacità, perfettamente utilizzabile nella vita di tutti i giorni come nella stessa pratica scientifica che fa sì che un vero e proprio "manuale di traduzione" possa venir costruito passo per passo. man mano che una teoria si dispiega e si confronta con quelle precedenti e/o rivali. Questa capacità può (legittimamente) venir considerata una sorta di •intuizione• quando l'opera di traduzione è ancora in svolgimento. Le traduzioni - in questo senso - rientrano non solo nella pratica dello storico della scienza, ma anche nella pratica degli scienziati stessi. Costoro, di fronte alla proliferazione di teorie (o di metafisiche) rivali, non possono far altro - per dirla con lo storico della scienza Thomas Kuhn - che riconoscersi l'un l'altro come membri di comunità linguistiche differenti e di diventare quindi dei traduttori". Certo, la traduzione incontra spesso "resistenze strutturate"; per questo ricorre a deformazioni dei significati originari, a tensioni di concetto, a ipotesi ausiliari. Matematica come antropologia? Sì, almeno in un certo senso. Chi ha cercato o cerca di razionalizzare il comportamento deJla 'tribù' dei newtoniani o dei leibniziani, ecc. userà conseguentemente un • principio del beneficio del dubbio" o • principio di indulgenza" (cfr. anche pp. 179-180). Esso consiste, sostanzialmente, nell'assegnare retrospettivamente dei riferimenti agli "elementi ideali• dal punto di vista della analisi odierna. Ma Newton o Leibniz o lo stesso Berkeley non divengono dei semplici 'precursori' di Cauchy o di Weierstrass proprio perché sappiamo che la traduzione è parziale, non univoca e dipende non solo dalla costellazione delle teorie di cui oggi disponiamo, ma dai nostri stessi interessi. Le traduzioni sono dunque, anch'esse, fallibili: esse conferiscono senso, ma nessun "autentico senso". f; proprio per questo, però, che, in linea di principio, non sono sterili sul piano intellettuale. Proprio perché mostrano come le diverse formulazioni 'ben strutturate' di un enigma 'mal strutturato' siano appunto versioni di una stessa "questione imperfetta". Esse fanno sì, dunque, che un enigma possa tra-

ti privilegio del libero pensatore

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mutarsi in un generatore di problemi: e questa è "la virtù dell'analisi", come diceva il matematico Lazare Camo! - circa un secolo dopo Newton e Leibniz - nelle sue RéPexions su, la Métaphysique du Ca/cui ln/initésima/ (1797, 1813). Così Newton e Leibniz hanno tradotto i loro predecessori, creando rispettivamente flussioni e differenziali: Berkeley e quindi Carnot hanno tradotto flussioni e differenziali nel quadro concettuale della compensazione degli errori, Cauchy lo ha fallo invece entro "la metafisica dei limiti" ... e la storia potrebbe continuare (fino all'"analisi non standard" di Abraham Robinson e oltre). La stessa auestione del rigore assume allora un aspetto differente: al di là delie intenzioni quel che rende interessante una rigorizzazione non è tanto che ottenga • la purezza della conoscenza" quanto che contribuisca alla sua crescita. Questo è l'uso migliore (almeno in matematica) del "privilegio

del libero pensatore". Augustus De Morgan ovvero: l'arte di interpretare paradossi Per quanto riguarda il caso specifico del Calcolo, l'idea che le t.ecniche algoritmiche potessero essere proficuamente svincolate dalle "mtetafisiche" sottostanti è comparsa ben prima del neopositivismo più o meno "liberalizzato" (cfr. del resto le citazioni di Russell, Camap, Quine nelle pagine precedenti) e per molti versi ha rappresentato un elemento interessante per la critica di quelle stesse metafisiche. E in questo senso che si dovrebbe leggere un giudizio di uno degli 'storici' oiù sottili del Calcolo, Augustus De Morgan. Due citazioni, entrambe tratte dalla Penny Cyclopedia cui De Morgan fu assiduo e operoso collaboratore saranno qui sufficienti. 1837: "Questi differenti sistemi [le metafisiche rivali del tardo Seicento e del Settecento) portano tutti agli stessi risultati, espressi in maniere molto differenti: nella scelta fra l'uno e l'altro non è in questione la verità o la falsità di qualche dimostrazione, e una mente preparata può sempre realizzare come i principi di un metodo, dati per garantiti, possono essere impiegati per dedurre quelli di un altro metodo. E perciò, tranne qualche eccezione, una differenza metafisica più che una differenza ma!ematica che agita (o meglio che agitava) il mondo matematico". 1838: "Ci fu durante tutta la disputa [sulle metafisiche del calcolo] una confusione tra la comprensione delle flussioni e dei differenziali e un calcolo delle flussioni e dei differenziali, cioè un metodo elaborato fornito di regole generali. Se la disputa potesse rinascere ai nostri tempi, verrebbe posta su un piano del tutto differente". C'è tuttavia un salto tra la denuncia della sterilità di une certa Mmetafisica del Calcolo" (De Morgan aveva come bersagli principali l'impostazione streuamente rispeuosa dell'autorità di Newton, dunque rigidamente Mflussionista ". che dominava ancora sul finire del

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Lo sptllro e il libertino

Settecento nei manuali in voga ·nel regno Unito) e la rinuncia a qualsiasi concezione fìlosolìcn del Calcolo, cara a molto "positivismo matematico". La debolezza di certi rendiconti di storici "rigoristi• del Cnlcolo e di certe sublimazioni 'fìlosolìche' sta riel far proprio il no11 sequitur di cui sopra. Così facendo si dimentica proprio una delle migliori lezioni di De Morgan, reinterpretare celebri "paradossi" ridando "senso" a conclusioni apparentemente implausibili. Gli esempi di questa "tecnica interpretativa" (o dovremmo dire "arte"?) più pertinenti li troviamo proprio in quel On infinity; and 011 the Sig11 o/ Equalìty (1864) ove De Morgan paga il dovuto tributo proprio • alle dispute" e in particolare a quella tra Leibniz e una nostra vecchia conoscenza, il dottor Nicuwentijt, i cui testi di critica alla "nuova analisi" erano presenti nella biblioteca di De Morgan. La controversia, lo abbiamo visto (pp. 200-202) verteva in particolare sulla tensione cui Leibniz sulla scia di Kepler e di Fermat, aveva sottoposto la nozione stessa di uguaglianza, pretendendo addirittura di essere nella migliore tradizione di Euclide e Archimede e cercando di liquidare le prime obiezioni dell'olandese come pure questioni di nomi. Ma, osserva appunto De Morgan, "se si concede all'inlìnitesimale di far parte del pensiero, c'è più che una controversia di parole". De Morgan ha ragione: mai come in casi del genere il linguaggio svela la cosmologia sottostante. La contrapposizione tra Nieuwentijt e Leibniz non fa che rendere esplicita alla "Repubblica delle lettere" (cioè alla comunità scientilìca) l'aporia fondatrice della riflessione di Leibniz (e di Newton) sulla natura del continuo in tanto in quanto essa interessa sia "i principi• del Calcolo sia la comprensione dei fenomeni: e cioè il connitto tra atomismo e infinita divisibilità. Il nodo, ci dice De Morgan, è infatti il principio leibniziano di omissione (efr. p. 195), ovvero, geometricamente, la trasformazione della linea nel punto e viceversa (Leibniz: punctum seu linea evanescens, quel che Berkeley tradurrà seccamente ghosl). L'andamento stesso della controversia e il focalizzarsi della critica di Nieuwentijt sulla trattazione leibniziana dell'uguaglianza svela il nodo.concettuale della questione. Di fatto, dice De Morgan, "la nozione assegnata al segno = è quella che significa che A e B in A B non possono venir distinte e questo vuoi per la loro grandezza, vuoi per la loro piccolezza". Ammettiamo ora che "ogni grado di infinito e di infinitesimo, oo", oo-•, abbia un proprio segno di eguaglianza, =• o =-• connesso con gli altri segni nel modo sotto indicato. Innanzitutto vogliamo confrontare tra loro "grandezze" dello stesso ordine n, diciamo A. e B.: conveniamo allora di scrivere A. =• Bn "se la loro differenza è una grandezza di ordine inferiore". Questo è l'uso "normale" degli (infiniti) segni =•= nulla ci impedisce, aggiunge ancora De Morgan, di prendere in considerazione equazioni in cui i due membri (non necessariamente dello sJesso ordine) sono di ordine su-

=

fl

privilegio del libero pensatore

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periore a quello del segno di uguaglianza ("caso supernormale"), rispettivamente di ordine inferiore a quello del segno di uguaglianza (" caso subnormale"). "~ come se il segno di uguaglianza - o piuttosto di indistinguibilità - portasse con sé un riferimento all'ordine di grandezza sottinteso e affermasse che i due membri dell'equazione sono indistinguibili perché hanno rispetto a una data misura una differenza non misurabile [immeasurable: caso normale], o sono smisuratamente grandi [immeasurably great: caso supernormale] o smisuratamente piccoli [immeasurab/y sma/1: caso subnormale]". Prosegue De Morgan: • A. =• B. porta all'equazione subnormale A. - B., =• O". Non dimentichiamo infatti che lo O dell'algebra - cioè il "puro nulla" della tradizione che va, per così dire, da Fredegiso a Nieuwentijt - è solo uno dei poli della gamma delle grandezze "infinite e infinitesime" che possiamo "concepire"; l'altro è l'infinito, altrettanto assoluto di Bhaskhara, ottenuto come 0- 1, cioè inverso di zero (cfr. p. 36). Quello che abbiamo battezzato principio di Leibniz così decisamente impugnato da Nieuweniiit, nella classificazione più fine che ammette "infiniti" segni di uguaglianza può venir tradotto (trasla/ed è termine di De Morgan) A + 8_, =• O (subnormalmente). Insomma, il principio di Leibniz appare caso particolare di un principio più generale, che ci pare giusto battezzare principio di De Morgan. Esso scioglie l'obiezione di Nieuwentijt ed entrambi i suoi paradossi. Certo, aggiungeva De Morgan, occorre non confondere soluzioni •normali" di un'equazione e soluzioni "supernormali" o "subnormali". Qualche accorgimento tipografico • avrebbe evitato il memorabile ostacolo di una quantità che, pur non essendo O, è troppo piccola per far cadere l'uguaglianza se viene aggiunta a uno dei due membri di un'equazione". L'intera intuizione di Leibniz (come è espressa nella replica a Nieuwentijt del 1695) o nella stessa lettera a Dangicourt (1716) è qui ripresa: per esempio, anche il principio di omissione di quantità finite rispetto a quantità infinite (ammesso anche da Nieuwentijt, giustificato da una metafisica radicalmente differente) "Così se A B =1 B, se A viene ora inteso come infinito, è equazione normale se B è finito: e lo è pure 1 + B A" 1 =• I. La prima equazione si può considerare come quella che definisce la relazione del finito all'infinito: nel sistema di Leibniz veniva data dicendo che B è infinitamente piccolo in confronto ad A". Il miglior commento lo si trae da una considerazione di portata più generale: • siamo inclini - con una facile operazione di trasferimento - ad associare a una idea la qualità di quel che abbiamo in essa concepito: così la nostra idea di qualcosa di orribile è davvero un'idea orribile. Ma non diremmo altrettanto che l'idea di qualcosa di azzurro è un'idea azzurra e neppure che l'idea di olio è qualcosa di

+

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oleoso. Non dovremmo dire neppure che il concetto di infinito è un concetto infinito: e, a maggior mgione. non dovremmo nemmeno affermare che se esso è un concetto richiede un intelletto infinito: il concetto di azzurro. infatti, non richiede un intelletto azzurro. Meno di tutto potremmo chiamare l'infinità un concetto indefinito: anzi è uno dei concetti più definiti che abbiamo: sappiamo perfetl!1mente come distinguere nel pensiero l'infinito dal finito". Così la prospettiva 'scettica' di filosofi classici e medioevali e dello stesso Galileo o Descartes, come di matematici prudenti (per esempio Barrow) e di filosofi empiristi (per esempio Locke) sono lasciate alle spalle purché si riconosca che "di fatto ci sono tanti segni di uguaglianza quanti ordini di grandezza: e nelle trasformazioni algebriche, ogni cambiamento che altera l'ordine di uno o di entrambi i membri di un'equazione, può o non' può richiedere, può o non può permettere, un'alterazione nell'ordine del senso di uguaglianza". In questo modo De Morgan riesce a riassorbire apparenti paradossi dell'algebra: ciò vale per lo stesso paradosso di De Morgan cioè per la sconcertante conclusione I 2. Infatti nello studio dell'equazione 2 x x ha ora senso chiedersi che tipo di soluzioni stiamo cercando. Quanto detto a p. 41 mostra semplicemente che non ci sono soluzioni "normali"; ma quell'equazione, riscritta ora 2 x =• x, ammette soluzioni "supemorrnali" x a oo m (m positivo) e soluzioni "subnormali" della stessa forma con m negativo (ma non abbiamo soluzione normale nemmeno per l'equazione 2x =1 x per qualsiasi valore finito dell'indice k). I "casi estremi" della pratica algebrica usuale (ovviamente: la pratica algebrica usuale al tempo di De Morgan) daranno la soluzione "subnormale" x = O e quella "supernormale" x = 0· 1• Del resto, "passare ai casi estremi dell'algebra pura" non significa altro che "salire o scendere per tutti i gradi dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo": potremo allora anche ammettere che 2 =m 1 è ancora vera per m positivo "in senso subnormale": essa non vuol dire altro che I e 2 "sono indistinguibili se confrontati a un infinito di ordine m": potremmo anche ammettere 2 1 se la riscrivessimo come 2 oo 1 o 2 oo I ammettendo cioè indici infiniti nella "algebra pura" (gli indici infiniti sono, a questo punto, leciti, grazie a un'ulteriore applicazione della legge di continuità). De Morgan ricorre infine a un'esemplificazione di tipico sapore leibniziano: "Quando pensa al sistema solare, l'astronomo si limita a collocare tutte le stelle fisse sulla medesima sfera e cosl facendo le tratta tutte come se fossero equidistanti. Se pure si desse che la stella polare è lontana da noi il doppio, poniamo, di quanto è lontana Sirio, anche sapendolo, egli non le concepirebbe entrambe come poste a distanze diseguali quando si limita a prendere in considerazione il sistema Terra-Sole. Ma in che senso noi stiamo dicendo che 1 è uguale a 2? Non

=

=

=

=

=-

=

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lo diciamo riguardo alle quantità in sé, ma solo in considerazione delle quantità che riteniamo opportuno distinguere". Perché, infine, non sarebbe stato possibile relativizzare lo stesso "rasoio di Berkeley"? Nel caso del paradosso di De Morgan 1 e 2 risultano •indistinguibili" proprio perché impercettibile è la loro differenza di fronte all'immensità del cielo stellato. Viceversa, nel caso dei differenziali primi, secondi, ecc. perché non ammettere una percezione più sottile capace di scorgere la differenza ove uno sguardo di superficie non riesce a operare distinzioni? La metafora cara a Leibniz per cui è come se percepissimo ciò che a un dato livello percepibile non è servendoci di un microscopio di potenza "infinita" sarebbe però stata ancora respinta da Berkeley, convinto come era (per esempio nell'Essay Towards a New Theory o/ Vision, 1709) che, almeno per quanto riguarda la vista, i minimi percepibili "non sono mai grandi o piccoli, ma sempre uguali in tutti i casi" e che "se i nostri occhi fossero trasformati in microscopi, noi non saremmo molto avvantaggiati dal cambiamento". Eppure che dalla "confusione" (in campo percettivo) o dallo "errore" (nel campo puramente intellettuale della matematica, purificato da ogni contaminazione con le cose sensibili) potesse scaturire una spiegazione del "miracolo" dello irrazionale successo della matematica, era intuizione che, come abbiamo visto, accomunava tanto il fìlosofo-ihatematico che negli anni della gioventù •aveva collocato le anime nei punti geometrici" e l'irlandese che "cercava fama coi paradossi". E questa spiegazione era forse più agevole per due pensatori che, al contrario delle pretese realistiche di Newton e dei suoi, avrebbero agevolmente concordato sul fatto che la matematica "è interamente comparazione di idee e non richiede un mondo esterno". Come diceva appunto de Morgan, leggete Berkeley e diventate idealisti (in matematica).

Capitolo IX

Curve e catastrofi DON GIOVANNI

Non so più quel ch'io mi faccia, è confusa la mia testa,

e un'orribile tempesta minacciando, oh Dio, mi val Ma non manca in me coraggio, non mi perdo o mi confondo: se cadesse ancora il mondo nulla mai temer mi fa. (Atto I, scena XXII)

L'ordine segreto del Mondo •Helios [il Sole] invero non oltrepasserà le misure: in caso contrario lo scoveranno le Erinni, ministre di Dike". E Dike è la giustizia, la stessa potenza che "piomba addosso a coloro che foggiano e testimoniano menzogne". Forse non c'è espressione più efficace di questo antico frammento di Eraclito CV secolo a.C.) per caratterizzare l'I· b? Se lo sperimentatore persiste e dà a x valori maggiori di b, non c'è altro esito che la distruzione del sistema. (~ proprio la catastrofe nel senso usuale del termine, per esempio l'esplosione di una caldaia se si spinge la pressione del vapore oltre la soglia di resistenza). Caso b). Questa volta la caratteristica C ha l'andamento di una curva fatta a S maiuscola (ciclo di isteresi). Ci sono ancora due punti critici a, b nello spazio delle entrate e due valori critici a', b' nello spazio delle uscite. Immaginiamo, proprio come prima, che al valore x compreso tra a e b, corrisponda sulla porzione superiore di C Io stato y(x). Facciamo ora crescere x sino a raggiungere il valore b: y(x) descrive per continuità il ramo superiore di C fino a raggiungere il punto b,. Se x viene spinto oltre b, il sistema sfugge alla distruzione in quanto permette allo stato y(x) di "saltare• rapidissimamente sul ramo inferiore di C, in bi. Se infine facciamo decrescere x verso a, y(x) si sposta con continuità sul ramo inferiore di C fino al punto critico a'. Qui, se x continua a decrescere, lo stato y(x) "salta" nuovamente sul ramo superiore di C in a, ove potrà ricominciare il processo precedente. I punti x = a e x = b sono quelli che il matematico René Thom chiama "punti di catastrofe", ma qui senza più alcuna connotazione pessimistica: i punti di catastrofe sono punti in cui il sistema è tipicamente instabile.

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Figura 52

b,

_I'

a)

b

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b)

b

x-

Sistemi come --scatole nere". In a) la carauerislica del ,islema è una curva chiusa, liscia, conve"a: in hl la caraucristica del sistema è una curva a S (isteresi). (In entrambi i casi lo spazio delle entrate e quello delle uscite sono unidimensionali: .r denota la variabile di comrollo. y la variabile di ,1a10).

La natura "fa salti"? Se lo cl1iedeva già Henri Poincaré quando nel 1912 scriveva: "[Oggi] non si pone soltanto la domanda se le equazioni differenziali della dinamica debbano venir modificate, ma ne viene posta un'altra, se le leggi del movimento potranno venir ancora espresse da equazioni differenzieli. E questa sarebbe la rivoluzione più profonda subita dalla

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II

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filosofia naturale da Newton in poi. Il luminoso genio di Newton aveva ben visto (o creduto di vedere, cominciamo a chiederci) che lo stato di un sistema mobile, o più in generale, quello dell'universo, non poteva dipendere se non dal suo stato immediatamente antecedente, e che, nella natura, tutte le variazioni devono aver luogo in modo continuo. Indubbiamente questa idea non era di sua invenzione; la si poteva già trovare nel pensiero degli antichi e degli scolastici, i quali proclamavano l'adagio Natura non facit saltus; ma era soffocata da una miriade di erbe maligne che le impedivano di crescere, estirpate poi finalmente dai grandi filosofi del Seicento. Ma ora è questa idea fondamentale che viene messa in discussione: ci si chiede se non sia necessario introdurre nelle leggi naturali discontinuità, non apparenti ma essenziali, e noi dobbiamo prima spiegare come si sia potuti giungere a un modo di vedere tanto straordinario". Ogni "rivoluzione", si sa, vuole le sue vittime. Quel che qui viene colpito è proprio l'assioma • accettato da tutti i filosofi" a detta di Roger Cotes (p. 280), secondo cui le stesse cause producono gli stessi effetti. Come Maxwell a suo tempo aveva sottolineato, ciò restava ormai un principio metafisico "non di molta utilità in un mondo come il nostro dove gli stessi antecedenti non si verificano mai e nulla si ripete esattamente". E. più dubbio se tutto ciò suoni come condanna dell'analogo leibniziano di tale •assioma", cioè della legge di continuità (vedi pp. 204-209), Lo stesso Leibniz, nella lettera a Bayle (1687), confessava che "talvolta un piccolo cambiamento può produrre un grande effetto, come, per esempio, una scintilla che cade su un cumulo di polvere da sparo può distruggere un'intera città". Ma ciò, aggiungeva, "non è contrario" alla legge di continuità, poiché vale solo "per le cose composte", mentre "nulla di simile può accadere per cose o principi semplici, altrimenti la natura non sarebbe effetto di sapienza infinita". Né dovrebbe essere impossibile rendere conto di evenienze del genere "mediante principi generali". Ma la realizzazione di questo ideale di spiegazione ha tardato. Coll'ammettere "per le cose composte" dinamiche di tipo differente da quelle rette dalla legge di continuità, Leibniz riconosceva quel carattere discontinuo che già abbiamo evocato a proposito delle obiezioni dei nomina/es agli indivisibilia terminantia (vedi pp. 104-106). Ma, come più volte ha osservato René Thom, •nulla mette più a disagio un matematico di una discontinuità", perché ogni modello quantitativo utilizzabile a scopi predittivi si fonda sull'impiego di funzioni analitiche che immediatamente risultano continue. Eppure si dovrebbe ricordare il giudizio di Galileo sul gesuita Scheiner: w Questo uomo si va di mano in mano figurando le cose quali bisognerebbe ch'elle fossero per servire al suo proposito, e non va accomodando i suol propositi di mano in mano alle cose quali elle sono•.

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"L'acqua, con cambiare temperatura non diventa semplicemente più o meno calda, ma passa attraverso gli stati solido, liquido e gassoso. Questi diversi stati non sorgono a poco a poco, ma il semplice progresso graduale del mutamento di temperatura viene anzi interrotto e arrestato a un tratto da questi punti [i cosiddetti punti critici in cui instabilmente sono compresi due stati della sostanza considerata] e il subentrare di un altro stato è un salto". Cosi Hegel nella Scienza della

logica. li filosofo sfida cosi la esecrata scienza newtoniana su un terreno che oggi chiameremmo dell'opposizione tra "dinamiche lente" e "dinamiche veloci", convinto che a maggior ragione il "passaggio come salto" rappresenterà la transizione per eccellenza in quei contesti ove più forte soffia lo Spirito e i punti critici sono autentici punti di crisi, in cui si affrontano Ragione e Mutamento. Vincere la sfida doveva sembrare facile, all'epoca della Logica hegeliana, poiché la resistenza dei matematici di fronte alle discontinuità era pressoché la norma nella prima metà dell'Ottocento. Ma quella di Hegel è una vittoria di Pirro: nel privilegiare proprio i •salti" su cui la matematica del tempo non aveva presa Hegel finisce col privare la sua stessa filosofia sia della potenza rappresentativa della geometria sia di quella. predittiva del calcolo (numerico). Nel quadro delineato nella Logica, la variazione quantitativa resta, per così dire, alla superficie dell'essere, mentre solo il passaggio da qualità a qualità si rivela dotato di autentica portata ontologica. Ma queste disavventure della dialettica sono spia di difficoltà reali. Tra gli scienziati dell'Ottocento, ligi ancora • alle regole del buon newtoniano", l'enfasi sulla discontinuità comparve inizialmente nelle discipline più marginali, ove la matematizzazione era praticamente assente e le dispute che seguirono si sciolsero alla fine nella constatazione che le rotture della continuità erano puramente •apparenti•, e tutt'altro che •essenziali", sicché era in linea di principio possibile ridurle a variazioni continue. Fu questo, per esempio, il fato del "catastrofismo• di Georges Cuvier in geologia e paleontologia: è stato a buon diritto osservato che le "catastrofi" di Cuvier, proprio come le "rivoluzioni" degli storici politici suoi contemporanei costituivano lacune incolmabili dal punto di vista intellettuale (sembrerebbero quasi gli effetti di Dio che ex potentia absoluta sospende l'ordine naturale). Già nel 1830-33 Lyell, nei Principles o/ Geology, per rendere conto di tali discontinuità visibili a occhio nudo invocava però cambiamenti impercettibili, ma che si producono in modo continuo ricorrendo a una partizione più fine dei tempi, in modo da contemplare un numero "molto grande" di tali cambiamenti invisibili la cui •integrazione• porta infine a mutamenti visibili. F. lo stesso spirito che sottende alla fondazione del Calcolo in Newton e in Leibniz, anche se Lyell non ricor-

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reva certo alla matematica, ma utilizzava il linguaggio comune per la descrizione e spiegazione dei fenomeni geologici e paleontologici pertinenti. Infatti nell'un coso e nell'altro un effetto percettibile (o finito) viene spiegato in termini dcli 'accumulo di cause impercettibili {o i11fi11itesi111e) utilizzando, se è caso, terms o/ time cioè unità di tempo più fini (se non addirittura infinitesime). Biforcazione e catastrofe: la "spiegazione dinamica• secondo Thom t; nelle ricerche di René Thom degli anni Sessanta e Settanta del Novecento che accoppiano una nozione matematica (o addirittura metamatematica, cfr. p. 283) come quella di stabilità strutturale allo studio delle forme ("morfologia") e delle trasformazioni di una forma da un'altra ("morfogenesi"), che sono confluite ricerche di dinamica qualitativa e alcune delle ricognizioni più spregiudicate delle discontinuità riscontrate nel mondo della natura e dell'uomo. La sua "teoria delle catastrofi• {ma la locuzione è stata coniata da Zeeman), non è, come Thom stesso sottolinea, una pura teoria matematica: è semmai un programma di comprensione geometrica delle "forme" e soprattutto delle "forme del cambiamento" che rientra nella migliore tradizione della "matematica mista" (cfr. p. 130). Per delineare qualche tratto, è bene allora muovere da problemi di modellizzazione. Come si è già detto {cfr. p. 281) quando una funzione / modellizza dei processi molto regolari, il grafico della funzione / assume la forma di una curva continua, anzi liscia. In questo caso particolare le "singolarità• della curva, cioè della funzione / rappresentata, sono per definizione quei punti in cui la tangente alla curva è orizzonta/e (figura 53). Perché sono così importanti? Perché in esse si concentra, in un certo senso "localmente", l'informazione circa la funzione /. Sono infatti, per cosl dire, i punti dove cambia qualitativamente la direzione della curvatura di /, cioè muta la "qualità" della curva. Gli strumenti del Calcolo qui si rivelano preziosi: nel caso di una funzione di una variabile basta infatti considerare la ·sua derivata. Questa in un dato punto x, misura l'inclinazione sull'asse orizzontale della tangente alla curva in x (interpretazione geometrica) e anche il tasso di variazione (velocità) della funzione (interpretazione cinematica). Le singolarità di / sono allora i punti x in cui tale derivata si annulla. Già Fermat aveva trovato che in questo caso le singolarità sono punti di massimo - o di minimo locale (in cui cioè la funzione / assume valori maggiori - o minori che nelle immediate vicinanze) e che inoltre vi sono punti in cui la tangente attraversa il grafico (punti di flesso). La situazione per funzioni di più variabili reali offre una tipologia più complicata: una disciplina specifica, il calcolo delle variazioni, ha preso in esame

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Figura 53

t

y

Xc

Xo

x-

Singolarità della funzione /(x) di una variabile reale x. Nei punti A. B. C. D della curva la tangente geometrica è orizzontale (la derivata per i cmri,pondenti valori della x. cioè x,. x 0 . xc. x0 • ha valore zero). Si Imita. nelrorùine. di un minimo locale. di un fle"o. di un ma"imo locale. di un altm minimo locale.

la questione, che proprio gli studi di Marston Morse e di H. Whitney nel Novecento hanno infine collocato nel quadro topologico più generale. Pensiamo di nuovo al grafico della funzione / (si veda ancora la figura 53) e immaginiamo che raffiguri (in sezione) un sistema di colline. Piove: l'acqua non assorbita dal terreno si concentra negli avvallamenti. Infatti nei· massimi locali (come il punto C nella figura 53), le cime delle colline, l'acqua scorre via lungo l'uno o l'altro versante della collina (verso A o verso D): anche in un punto di flesso (come nel punto B) l'acqua finisce per scorrere via, ma in una sola direzione (per esempio da B verso A). Solo nei minimi locali (come i pun-

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Lo spettro • il libsrtino

ti A e Dl, le acque si raccolgono stabilmente in una sorta di pozzetti. li carattere a locale" dei minimi della funzione /, cioè dei "pozzi", va

sottolineato: aglobalmente" vi possono infatti essere punti più bassi di un dato minimo locale e i vari "pozzi" essere collocati ad altezza differente (come A e D). Questa duttilità della rappresentazione geometrica (e qualitativa: non sono necessarie specificazioni sulla distanza dei vari •pozzi" ecc.) che colpiva già i matematici del Sei e del Settecento è stata sistematicamente sfruttata da René Thom per rappresentare •n passoggio del cambiamento". Nella sua opera più celebre, Stabilité structurelle et morphogenèse, Thom si è esplicitamente rifatto a quello che è oggi celebrato come un classico della morfologia del vivente (ma che all'epoca in cui fu scritto venne piuttosto visto come una tipica "eresia scientifica"), On Growth and Form dello scozzese D'Arcy Wentworth Thompson che scriveva nel 1917: "Cellula e tes9Uto, conchiglia e osso, foglia e fiore, sono altrettante porzioni di materia, ed è in obbedienza alle leggi della fisica che le particelle che li compongono sono assestate, modellate, conformate. Esse non fanno eccezione alla regola secondo cui Dio geometrizza sempre. I loro problemi di forma sono prima di tutto problemi matematici: i loro problemi di accrescimento sono essenzialmente problemi fisici". Circa quarant'anni dopo René Thom concepisce l'intera modellizzazione scientifica come descrizione e spiegazione di morfologie. Ma descrivere e spiegare - come già Poincaré ha mostrato - non significa sempre costruire modelli quantitativi, ma soprattutto "rendere intelligibili i fenomeni, offrirne rappresentazioni qualitative soddisfacenti". Ma la qualità non gode presso gli scienziati contemporanei di una cattiva fama? Non sottoscriverebbero pressoché tutti il detto del fisico Rutherford, Qualitative is nothing but poor quantitative? Thom ribatte: il qualitativo non è un quantitativo "impoverito", anzi "bisogna convincersi che, in seguito ai progressi recenti della topologia differenziale ... è ormai possibile accedere a un pensiero qualitativo rigoroso; sappiamo (in linea di principio) definire una forma e possiamo determinare se due funzioni hanno o no lo stesso tipo topologico [nel senso della topologia differenziale]". L'idea base è intuitiva e illuminante. Usualmente i topologi non distinguono tra quadrato e cerchio (o tra un cubo e una sfera), poiché ciascuno dei due può essere deformato nell'altro senza lacerazioni: hanno, per così dire, lo stesso •tipo topologico". Ma se il tipo topologico deve costituire il correlato della comune nozione di forma, è ancora troppo grossolano: non distingue, per esempio, tra curve e superfici lisce, come il cerchio o la sfera, e figure spigolose, come il quadrato o il cubo, dotate di vertici e spigoli. I topologi differenziali, che concentrano il loro interesse su curve e superfici lisce, si valgono invece di una nozione più fine: quando un topologo differenziale deforma una superficie, fa in modo

Curve e catastrofi

291

che rimanga liscia non solo la superficie In questione, ma anche qualunque curva liscia tracciata su di essa (la precisazione della nozione intuitiva di curva e di superficie lisce e la generalizzazione a spazi di dimensione qualsiasi richiede nozioni di calcolo differenziale: di qui il nome della disciplina). Le configurazioni di un sistema Inteso come una scatola nera (cfr. p. 284) saranno descritte da certe "variabili di stato" (un'assegnazione dei valori di tali variabili costituirà un'uscita della scatola). ma essi dipenderanno dunque da certe "variabili di controllo" (un'assegnazione di valori di tali variabili costituirà un'entrata della scatola). Que• sta non è altro che una riformulazione del classico problema della causalità, in cui, seguendo una terminologia introdotta dall'inglese E.C. Zeeman, si è sostituito il termine "cause" con "variabili di controllo" e il termine •effetti" con • variabili di stato". Non sempre saremo fortunati come con le funzioni (per le quali a una data entrata corrisponde una e una sola uscita) perché in via teorica non possiamo neppure escludere che a una entrata corrispondano infinite uscite, anche se, nella pratica, possiamo assumere, (almeno "localmente") che a una entrata corrisponda un numero finito di uscite (come per i due sistemi considerati a suo tempo nella figura 52). Possiamo anche supporre di "aprire una finestra• in una parte della scatola nera per scorgervi dentro all'opera un • demone nascosto" che mira sempre a ridurre la sua "perdita" rappresentata da una funzione (liscia) f delle variabili di stato del sistema. Fuori di metafora: il sistema si orienta verso quegli stati in cui la funzione /, detta potenziale del sistema, è minima. L'idea riproduce situazioni fami• Jiari in meccanica e, più in generale, nelle scienze fisiche ed economiche (le cosiddette "dinamiche di gradiente"); per trovare gli stati verso cui il sistema si orienta, bisognerà dunque cercare i minimi (locali) di / in mezzo alle sue singolarità. Nel caso di una sola va• riabile di stato, diciamo :e, essi si troveranno tra quei -particolari valori della variabile x per cui la tangente è orizzontale (per cui, cioè, si annulla la derivata di /). Pensiamo ancora al paesaggio geografico: se il nostro sistema è la distribuzione delle acque dopo una precipitazione, è abbastanza ovvi9 che le acque si ripartiscono nei "pozzi di potenziale" rappresentati dai minimi locali di /. Ma non abbiamo ancora fatto i conti con il problema di Maxwell (cfr. p. 281 ), cioè con la questione della stabilità. Infatti, già nel caso di una variabile, è facile accorgersi che non sempre il potenziale è stabile, ma cambia la sua forma (topologica) con una "piccola" perturbazione (cioè aggiungendo a /(x) una opportuna funzione p(x); che cosa si intende con l'aggettivo "piccola" può venir rigorosamente precisato nel quadro di una sofisticata topologia definita sullo spazio delle funzioni che ci interessano, la cosiddetta "topologia di Whitney"). Cosl /(x) = x2 (parabola) è strutturalmente stabile nelle im-

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Lo spettro

~

il libertino

=

mediate vicinanze del punto· x O, ma altre nostre vecchie conoscenze come x3, x◄ , .\'5 , ecc. non lo sono più (figura 54). Come avvertiva Duhem, niente stabilità, niente modellizzazione: cosa capiterebbe nel nostro modello del regi·me delle acque se non fosse "strutturalmente stabile"? Un avvallamento potrebbe sparire o magari potrebbero comparirne due improvvisamente. La mossa successiva consiste nel passare dalla funzione /, che dipende dalle sole variabili di stato al suo "dispiegamento universale", cioè a una nuova espressione del potenziale, corretto n;zediante /'aggi11n=io11e di termini che dipendono anche dalle variabili di co11trollo, in modo da tener conto delle possibili perturbazioni cui il sistema può

Figura 54

a)

o=O

o

O

b) oO

x3 con t11.

Per,; nega1ivo abbiamo un ma~!'limu e un minimo: per" nullo abbiamo un nc ..o: per u po,i1ivo non abbiamoJiù né massimi. né minimi. né punii di ffe,so. /,) Pcnurbazione dix• con aA . Per" nega-

1im abbiamo due minimi e un massimo: per a nullo rimiviamo un minimo: per a po,i1ivu abbiamo un minimo.

Curve e catastrofi

293

venire sottopost.o. Il "dispiegamento universalew stabilizza, per cosi dire, l'instabilità del potenziale originario: "Ogni situazione instabile" dice Thom, "è fonte di indeterminazione", ma siamo in grado di controllarne (in linea di _principio) tutti gli esiti possibili, in quanto ciascuno di essi corrisponde a una opportuna scelta di valori per le variabili di controllo. Inoltre tali dispiegamenti risultano "strutturalmente stabili" (una volta che la nozione di stabilità strutturale sia stata convenientemente estesa ai dispiegamenti, che sono famiglie di funzioni i cui membri dipendono dalle variabili di controllo), anche se le funzioni originarie non lo sono in prossimità dei punti che costituiscono la singolarità. In breve, la teoria di Thom focalizza l'interesse sulla circostanza che l'instabilità stessa può essere stabile e quindi consentire una sorta di predizione qualitativa legittima. Per dirla ancora con Eraclito il fuoco "mutando riposa". Un esempio chiarirà immediatamente il nocciolo della questione. Come abbiamo già visto, f(x) = x4 ha una singolarità per x = O, ma ivi è instabile. Thom considera allora il "dispiegamento" /(x) = x 4/4 + a x2/2 + bx che dipende anche dai due parametri di controllo a e b. La ricerca delle singolarità del potenziale così "dispiegato" porta allo studio di una equazione algebrica di terzo grado x3 + ax + b = O (si è posto infatti df/dx = O). Lo studio delle soluzioni di tale equazione in funzione dei coefficienti a e b permette quindi una descrizione dei minimi del potenziale in funzione delle variabili di controllo. · Qui ritroviamo manipolazioni algebriche familiari. x3 + ax + b = O è una equazione di terzo grado: essa ha almeno una radice reale e al più tre radici reali. La natura delle radici dipende appunto dai parametri a e b, che compaiono nel discriminante della equazione cubica D = 4 a1 + 27 b2• Geometricamente la situazione si interpreta bene sul "piano di controllo" (a, b) (vedi fig. 55). Data la curva (parabola semicubica) B di equazione 4 a1 + 27 b2 = O è opportuno considerare il piano (a, b) diviso in cinque regioni: l'origine O, i due rami della curva B1 e Bz, la regione I "interna" alla curva e la regione E "esterna" alla curva. Se il punto (a, b) è in E, c'è una radice reale e che corrisponde a un minimo di /; dunque nella nostra "scatola nera" c'è un solo regime possibile. In I le radici reali sono tre ci, cz, C3 e corrispondono a due minimi - diciamo c1 e cz - e a un massimo C3. Nell'ipotesi fatta, il demone ha davanti a sé due regioni che corrispondono ai minimi stabili per c1 e cz. Dunque all'interno della "cuspide" B ci sono due regimi stabili in conflitto. In B1 e 82, infine (tranne che nell'origine O) troviamo un minimo e un punto di flesso e solamente un minimo c1 = cz = C3 all'origine O (vedi fìg. 55). Nell'ottica qui assunta i minimi del potenziale/ ("pozzi di potenziale"), cioè i massimi del guadagno -/ del "demone•, definiscono i regimi locali stabili. Ma, come abbiamo visto nel caso precedente per

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lo spellro e Il libertino

Figura 55

t

a E

o

E

E

bE

B,

a)

·V

,w

B✓

·•V

oV a) La

··cu,pide" di equazione 4 a' + 21 b'

b)

= O nel piano di concrollo (n.

b).

b) Le diver.,e fonne del potenziale f (.r) = .r4/4 + "x'/2 + b x in relazione alle cinque regioni in cui ,i è M:ompo,to il piano di controllo Ca. b). (Si noii che qui con .r denotiamo la variabile di stato e con "· b le due variabili di controllo).

Curve e catastrofi

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la regione /, c'è in genere più di un minimo, e, evidentemente, solo uno può dominare in un punto regolare. Come "scegliere"? La domanda mette bene in luce la componente matematica e quella empirica dell'approccio di Thom. Il sistema "biforca" per tutti quei punti del piano (a, b) in cui lo stato del sistema non è strutturalmente stabile: la nozione di biforcazione è dunque "un concetto matematico, legato a un preciso formalismo differenziale". La nozione di catastrofe, non diversamente che in Cuvier, è invece "un concetto fenomenologico: in prima approssimazione si potrebbe definire la catastrofe mediante la discontinuità di una o più grandezze osservabili". Perché risulti anche un concetto "matematicamente definito" occorre collegare i punti di catastrofe a quelli di biforcazione ovvero (prospettando le cose come voleva Duhem, si veda p. 283) muovere dalla rete teorica ai fatti "fisici" mediante una opportuna "convenzione" (o "traduzione", per usare un linguaggio à la Duhem, si veda ancora a p. 282) suggerita dalle nostre cono. scenze di sfondo (ma gli esiti paventati in generale da Duhem sono qui evitati, come si è visto, grazie alla stabilità del dispiegamento, che garantisce, per cosl dire, l'univocità della traduzione). Ne daremo un'applicazione abbastanza tipica tra breve. Ma prima di ciò, è bene ricordare che il fascino della teoria delle catastrofi sta nel fatto che, mentre potremmo ritenere senza speranza l'impresa di ordinare all'interno di un qualche schema l'infinità dei modi di cambiamento e l'infinità stessa delle forme, basta in realtà imporre opportuni vincoli e se ne trova un numero finito di tipi: nella fattispecie si richiede la stabilità strutturale del processo (chianùamolo vincolo di Duhem-Thom o semplicemente di Thom); la conti• nuità del modo di "perturbarlo" via "variabili di controllo" (lo battezzeremo vincolo di Leibniz); e ancora, la limitazione a quei particolari sistemi dinamici la cui evoluzione deriva da una funzione per tenziale liscia; infine si tiene conto anche del vincolo dimensionale dallo spazio-tempo che è a quattro dimensioni (e si assume che quattro siano appunto le "variabili di controllo"): le catastrofi risultano allora in numero di sette. t:; questo in breve il contenuto del teorema detto di Thom e Mather. Non discutiamo per ora la portata della ipotesi del potenziale; soffermiamoci innazitutto sulla richiesta che la funzione potenziale sia liscia. Questa richiesta è "naturale" alla luce del vincolo di Leibniz: come nota P.T. Saunders, poiché "siamo interessati alle origini delle discontinuità, non andremmo molto lontano se assumessimo semplicemente le discontinuità come un primum: ciò vorrebbe dire che non abbiamo spinto la nostra analisi abbastanza a fondo". Questo aspetto è rilevante anche sotto il profilo della tecnica matematica. Infatti gll stati del sistema sono determinati minimizzando il potenziale, e dunque studiandone i cosiddetti punti critici o singolari; perché tale

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studio abbia senso occorre che la funzione potenziale sia appunto liscia, il che vuol dire che è sempre possibile associare a essa la sua serie di Taylor. Questo aspetto apparenta i modelli di Thom via teoria delle catastrofi a quelli ottenuti nel calcolo dilTerenziale; ma li distingue da essi il fatto che l'approccio thomi&no si accontenta, per cosl dire, di qualcosa di meno: non suppone implicitamente o richiede esplicitamente la convergenza delle serie (proprietà di analiticità), ma si interessa solo dei primi termini della serie di Taylor, precisamente del primo termine diverso da zero, che viene calcolato attraverso la prima derivata che non si annulla nel punto considerato. Non esiste allora per caso un opportuno cambiamento di variabile che permetta di trasformare la funzione esattamente nel primo termine della serie di Taylor diverso da zero? ... Nel nostro secolo Marston Morse prima, Whitney poi e quindi René Thom hanno affrontato problemi di questa natura, generalizzandoli ai casi di più variabili e di funzioni a più valori reali. Torniamo al caso di p. 292. Nella regione I del piano di controllo (cfr. ancora la fig. 55) ci sono per ogni punto (a, b) due valori, diciamo c1 e c2, a priori possibili. Questo "conflitto fra attrattori c1 e ei•, dice Thom, può venir risolto convenendo che prevalga quello di potenziale minimo, diciamo e, se /(e,) è minore di /(c2). Una regola analoga era stata impiegata da Maxwell per eliminare l'indeterminazione in V (volume) dell'equazione di stato di un gas di van der Waals f (p, V) = O nell'intervallo di p (pressione) in cui si hanno tre radici reali in V, il che descrive una mescolanza di fasi gassose e liquide. Ovviamente la validità della "convenzione di Maxweu • sotto il profilo quantitativo non ci interessa, ci interessa. invece, pur con certi limiti, il tipo di descrizione della struttura topologica dei punti catastrofici nell'intorno di una singolarità del potenziale / che tale convenzione consente. Dalla convenzione di Maxwell segue in generale che un punto dello spazio di controllo può essere catastrofico solo in due casi: o si raggiunge il minimo assoluto del potenziale / in due punti distinti e, e c2, due punti, cioè, di conflitto oppure il minimo assoluto del potenziale, raggiunto in un unico punto e cessa di essere stabile (punto di biforcazione). Applichiamo la convenzione di Maxwell all'interno I della curva rappresentata nello fig. 56. Non è possibile scegliere un regime continuo all'interno di tale curva. Lo stato di conflitto, cioè l'insieme della funzione f per cui /(e,) = /(c2) è dato da una scelta dei parametri a, b che descrive nel piano di controllo (a, b) una curva uscente dall'origine O. All'origine corrisponde un minimo (del potenziale) non stabile: l'origine è dunque un punto di biforcazione nel piano di controllo (a, b). Nel caso fisico le entrate sono i valori di pressione p e temperatura T; le uscite quelli del volume V o meglio della densità, intesa come inverso del volume, cioè 1/V. La superficie della figura 56 dà la den-

Curve e catastrofi

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sità in funzione di pressione p e temperatura T; la proiezione sul piano (p, T) delle entrate della grinza formata dai punti in cui la densità 11011 è univocamente determinata da pressione e temperatura costituisce la cuspide (già vista nella fìg. 55). In questo caso è facile mostrare che la superficie della fig. 56 si può interpretare come la superficie dei punti critici di una funzione potenziale che dipende dalla variabile di stato densità e dalle variabili di controll0 pressione e temperatura. "Perturbando" tale funzione potenziale mediante la tecnica di Thom si ottiene una superficie qualitativamente indistinguibile da quella della fig. 56. Su di essa è allora possibile interpretare quel particolare processo - la transizione di fase - come un processo stabile: i minimi del potenziale sono "in competizione" in certe regioni della superficie - quelle "grinzose": per la "convenzione di Maxwell" il salto avviene quando uno dei due minimi perde il suo valore assoluto a scapito dell'altro, cioè lungo quella linea tratteggiata nel piano (p, T) della figura 56 cioè per quei valori di pressione e temperatura per cui risultano eguali nella figura 56 le aree tratteggiate. Ma perché proprio quella particolare superficie della figura 56? Ciò è appunto conseguenza del fatto che, nell'approccio catastrofista cerchiamo di soddisfare il vincolo di Duhem-Thom della stabilità strutturale. La superficie in questione rion rappresenta una sola funzione potenziale, ma tutta una classe di funzioni potenziali che hanno le stesse caratteristiche qualitative locali, cioè lo stesso insieme di singolarità. Che abbia proprio quella forma - a grinza - è una conseguenza del teorema di Thom-Mather: il vincolo di Thom tradotto nei termini dello spazio delle funzioni potenziali dipendenti da due parametri di controllo (pressione e temperatura) implica che se tale funzione è (strutturalmente) stabile, allora la superficie dei suoi punti critici è liscia e presenta solo delle grinze come quelle rappresentate nella figura 56. Qui sta l'interesse maggiore della teoria delle catastrofi: in forza di teoremi come quello di Thom-Mather essa, sulla base delle informazioni tratte dalle fenomenologie osservate, può indicare, una volta specificate le variabili di controllo del sistema, quale è la "forma", cioè il tipo topologico della catastrofe entro l'elenco di "catastrofi elementari" (cf r. fig. 57) che il teorema di Thom-Mather ci mette a disposizione. Ciò rende la spiegazione di tipo dinamico prospettata da Thom indipendente dal sostrato e fa operare la teoria delle catastrofi come un generatore di analogie. Ora, in molti casi la teoria delle catastrofi semplicemente ritrova, per una via matematicamente molto elegante, risultati già noti (è il caso di molte app\icazion fisiche della teoria); in molti altri casi, come per esempio in biologia in linguistica, ove una teorizzazione "forte" non è sempre presente l'analogia via catastrofi appare promettente dal punto di vista euristico. Essa consente infatti una sorta di "predizione qualitativa" che costituisce in molti casi la sola via percorribile dato l'attuale "stato

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Figura 56

t

p

v-

In a) vengono rappresentate in un piano cartesiano - sui cui due assi sono riportati il volume V e la pressione p - le isotenne di un gas (cioè le curve lungo le quali la temperatura Trimane costante): nel caso dei "gas perfetti" esse sarebbero delle iperboli equilatere, cui si approssimano per i casi reali le cosiddette curve di van der Waals quando la temperatura Tè molto elevata. Sopra un panicolare valore Te della temperatura - o temperatura critica - per quanto alta sia la pressione, il g15 rimane nella fase gassosa. Sono tale temperatura critica, invece, per un certo valore critico della pressione Pc - o pressione critica - si ottiene la fase liquida. Sopra Te forti variazioni di pressione provocano forti variazioni di volume; sono Te e per pressioni superiori a Pc anche esercitando pressioni elevatissime si ottengono variazioni di volume molto scarse: si tratta del comportamento tipico nel primo caso dei gas, nel secondo caso dei liquidi. Ma sono la pressione critica Pc il sistema non segue la curva fana a S sdraiato della figura perché, quando compare la nuova fase liquida, esso taglia la curva "saltando" dal ramo destro al sinistro come indicalO in figura.

Curve e catastrofi

Figura 56

densità

= I/V

In b) si con,illerano come variabili di con1rollo pressione e 1empen11ura: come varibili lii slalO il volume V o meglio la densi1à imesa come inve~o I.lei volume. cioè 1/V. La superficie raffigurala in figura dii la llensilà in funzione lii pressione e 1empera1urd: la proiezione sul piano (p. delle variabili di conirollo della i11c-resp11111r