Lo schermo demoniaco
 8835926394, 9788835926399

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Lotte Eisner

Lo schermo demoniaco Prefazione di Gian Piero Brunetta

Editori Riuniti

Lotte H. Eisner

Lo schermo demoniaco Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo

Prefazione di Gian Piero Brunetta

Editori Riuniti

I edizione in onesta collana: maggio 1991 Titolo originale: L'cerati détnomaque Les influences de Max Reinhardt et de lrexpressionnisfne © Copyright by Le Terrain Vague» 1981, Nuova edizione Traduzione di Martine Schruoffeneger © Copyright by Editori Riuniti» 1983 Via Serchio, 9/11 - 00198 Roma CL 63-3446-6 ISBN 88-359-3446-X

Indice

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Prefazione di Gian Piero Brunetta

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Prefazione

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I. Predisposizione dei tedeschi all’espressionismo II. Genesi del film espressionista m. Magia della luce. La penombra IV. Lubitsch e il film in costume V. Il fantastico stilizzato. L’«incantesimo di laboratorio» VI. Le sinfonie dell’orrore VII. Verso un espressionismo decorativo VIU. Il mondo delle ombre e degli specchi IX. Architettura e paesaggi in studio X. Gli esordi espressionisti di un regista «realista» XI. Il «Kammerspielfilm» e la «Stimmung» tedesca XII. Mumau e il «Kammerspielfilm» Xm. L’occhio sulla folla XIV. L’avventura nei film di Fritz Lang XV. Tragedie di strada. H sociale decorativo XVI. L’evoluzione del film in costume

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XVII. L’occhio della camera nei film di Dupont XVIH. H trionfo del chiaroscuro XIX. Pabst e il miracolo di Louise Brooks XX. Il declino del cinema tedesco

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Appendici I. La macchina da presa nel film classico tedesco, p. 355 - II. «La casa senza pone né finestre», p. 357 - III. Cari Bocsc: i trucchi tecnici di «Golem» (1920), p. 358 - IV. Marlene Poelzig e la scenografìa del «Golem», p. 364 - V. Asta Nielsen, p. 365 • VI. Elisabeth Bergner, p. 367 • VII. Paul Leni: l’arte della scenografia nel film, p. 368.

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Bibliografia e ringraziamenti filmografia Indice deifilm Indice dei nomi

Prefazione

Lo schermo demoniaco ha trentanni ma non li dimostra. Lo slogan, anche se non brilla per originalità, mi potrebbe consen­ tire di chiudere già a questo punto e concorrere, con buone speranze, al Guinness dei primati per la brevità di una introdu­ zione letteraria. Il lettore, se intende procedere, è comunque avvertito: le righe che seguono non fanno altro che riprendere e variare il tema iniziale. Scritto su commissione per la collana cinematografica del Poligono già alla fine degli anni quaranta, questo libro è stato poi curato e tradotto da Mario Verdone nel 1955 per le edizio­ ni di Bianco e Nero, in una versione più ricca e completa ri­ spetto a quella francese del 1954 e, per molti versi, assai vicina alla più recente edizione del 1981. Pur tornandovi sopra a distanza di tempo, Lotte Eisner non ha sentito il bisogno di apportarvi modifiche sostanziali, di ac­ cogliere nuove ipotesi o tesi inconfutabili emerse nel frattempo. Gli aggiornamenti bibliografici, o gli interventi sul testo, segna­ lano piuttosto la diffusione e l’accettazione delle sue tesi e di molti motivi del libro e denunciano, con mano leggera, resisten­ za di piccoli atti di pirateria critica ai suoi danni. In ogni caso nessun restauro o operazione di facile rivitalizzazione dei tessu­ ti. Il libro mantiene intatte fisionomia e struttura originarie.

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(.ìian Piero Brunetta

Caso pressoché unico, nel quadro peraltro molto ricco della saggistica cinematografica del dopoguerra, Lo schermo demo­ niaco è stato subito visto come un classico, pur senza assumere un ruolo centrale e di guida nel dibattito teorico e critico del­ l’epoca. Non solo giocava a suo sfavore l’ostracismo più gene­ rale nei confronti delle avanguardie artistiche, ma un elemento decisivo era dato dal confronto con il libro di Kracauer, Il cine­ ma tedesco. Dal «Gabinetto del dottor Caligari» a Hitler, dello stesso periodo, anche se scritto e tradotto in Italia alcuni anni prima, la cui carica polemica e ideologica si muoveva in sinto­ nia quasi perfetta con le parole d’ordine, gli interessi e la com­ petenza della critica del tempo. Tuttavia se la critica militante non trovava soddisfatti, dal saggio della Eisner, gli interrogativi sul rispecchiamento della società tedesca prenazista nei film espressionisti, ci si rendeva conto che l’area di interessi e la portata dello sguardo della Eisner erano assai più ampie e ricche di prospettive rispetto all’argomentazione tutta orientata su un solo asse dimostrati­ vo del libro di Kracauer. Partito dunque con un discreto handicap, questo libro, sulla lunga distanza, non soltanto ha recuperato, ma è riuscito a mantenersi come punto di riferimento indispensabile per tutte le successive analisi e ricerche sull’espressionismo cinematogra­ fico. Che, peraltro, non sono state molte, nel pur vivace pano­ rama critico e interpretativo degli ultimi vent’anni, e neppure memorabili per qualità e novità critica o storiografica. In mancanza di una rigorosa ricerca d’archivio, che sappia restituire, in modo completo, il quadro delle relazioni, delle in­ fluenze reciproche nella cinematografìa all’indomani della pri­ ma guerra mondiale e in mancanza di una convincente risiste­ mazione critica del cosiddetto espressionismo cinematografico nel più vasto campo di tensioni dell’espressionismo artistico e culturale, il libro della Eisner ha il merito di costituire, ancor oggi, la guida più autorevole per un tipo di contatto con l’inte­ ro ordine di problemi stilistici e interpretativi posti dal sistema

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cinematografico tedesco tra la fine della guerra mondiale e l’in­ venzione del sonoro. Il primo interrogativo e la prima risposta netta che il libro offre è che si deve maneggiare con cura la formula «espressio­ nismo cinematografico» e che, a ben guardare, ben pochi film meritano, a pieno titolo, l’appellativo di espressionisti. L’ipotesi guida del libro è che il cinema, ad un certo momen­ to, in prossimità della guerra mondiale, viene attirato - e quasi risucchiato — nel campo gravitazionale dell’espressionismo, senza mai fame parte del tutto. In base ai principi di rottura dei criteri di separazione tra le arti si attua una mescolanza e una continua metamorfosi di codici tra le varie manifestazioni dell’espressionismo. Il gioco di travasi e passaggi, i principi dei vasi comunicanti sono analizzabili fino alle soglie del cinema, che si pone come un luogo di confluenza delle diverse forme e temi senza esserne tuttavia il naturale punto d’approdo e di conversione completa. Più che di metamorfosi si potrà parlare piuttosto di ibridazione, di intergamia, di reti di relazioni mul­ tiple e di coesistenza di anime diverse. Nel passaggio dalla letteratura, dalle arti figurative, dal tea­ tro al cinema, raramente si constata una congruenza perfetta degli elementi recitativi, scenografici, narrativi, fotografici, ar­ chitettonici e una loro corrispondenza totale con i codici espressionisti. Nel testo filmato i valori e i moduli espressioni­ sti, quando vi siano, risultano come diluiti e coesistenti con al­ tri elementi. Come ricordava ancora la Eisner qualche anno fa in un numero monografico della rivista francese Obliques (n.67, 1976), di ogni autore di film espressionisti si dovrà tener conto del suo contemporaneo contributo alla creazione di altri generi e altre tendenze. Carl Mayer - l’ideatore per eccellenza dei più famosi soggetti e sceneggiature espressionisti - è anche l’autore e promotore del «Kammerspiel», il genere più antiteti­ co rispetto all’espressionismo. Lo stesso Robert Wiene, autore del Gabinetto del dottor Caligari, non ha alcun rapporto organi­ co anteriore o successivo con il movimento espressionista. E

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l7ritz Lang si ostina a negare, contro ogni evidenza, il suo rap­ porto con l’espressionismo fino agli ultimi anni di vita. Quanto ai film di Murnau la recitazione espressionista in qualche opera non è sufficiente a farlo rientrare d’ufficio nel movimento, mentre assai più forte è in lui l’influenza di Max Reinhardt. La presenza di elementi espressionisti appare dunque diffusa e distribuita in modo diseguale e disomogeneo. Percorrendo le fasi della storia del cinema tedesco nel decennio successivo alla fine della prima guerra mondiale, l’autrice punta la sua atten­ zione su elementi specifici, isola tratti stilistici e formali assai marcati, suggerisce anche l’idea di un’atmosfera che permea il cinema tedesco e che, all’improvviso, irrompe sulla scena cine­ matografica e si materializza in modo imprevedibile. Ignorando quasi del tutto gli orientamenti e le parole d’ordine della criti­ ca degli anni cinquanta, la Eisner sceglie, da una parte, come punto di riferimento fondamentale il libro di Rudolf Kurtz Expressionistnus und Film del 1926 e pochissimi altri referenti bibliografici e, dall’altra, tenta di applicare al cinema - ricor­ dandosi la sua formazione di storica dell’arte — la lezione di Alois Riegl e soprattutto di Heinrich Wòlfflin e del purovisibilismo. Tutte le sue analisi stilistiche e formali dei rapporti tra i film e lo sviluppo di forme e di mentalità anteriori possono es­ sere tranquillamente riportate, o trovare i loro referenti natura­ li, nei concetti fondamentali sullo sviluppo dell’arte moderna espressi da Wòlfflin. In ogni capitolo la Eisner segue lo svilup­ po e la trasformazione di questa o quella forma, individuando­ ne le radici vicine e lontane e mostrandone la materializzazione finale in una scena o in un film. Non solo, ma, soprattutto nei primi capitoli, si tenta di cogliere la presenza di temi chiave o temi guida nel profondo della mentalità del popolo tedesco che il cinema accoglie e ripropone all’interno di un quadro sto­ rico lacerato e carico di tensioni violentissime. Cosi, se da una parte la lezione purovisibilista le consente, a sua volta, di effettuare magistrali analisi sulla relazione tra le forme, le linee e le superfici all’interno delle singole inquadrature, o di scene

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e sequenze e di coordinarle in un quadro generale di scelte d’auto­ re, dall’altra l’attenzione per gli archetipi e la storia della cultura e della mentalità la portano a importanti riflessioni sul ruolo del ci­ nema per la comprensione dell’immaginario tedesco. Certo se, tra tutte le manifestazioni artistiche, la Eisner rie­ sce a distinguerne il diverso grado di influenza sul prodotto ci­ nematografico, il suo discorso acquista il massimo di pertinen­ za quando vengono mostrate le relazioni più strette e dirette tra il teatro e il cinema. Su questo piano si attua, in misura maggio­ re, il principio dei vasi comunicanti e si constata come, ad ali­ mentare il cosiddetto espressionismo cinematografico, sia la le­ zione teatrale di Max Reinhardt prima e di Piscator poi, in mi­ sura non certo inferiore a quella delle regie dell’espressionismo teatrale. A mano a mano che il libro procede ci si accorge che la Eisner, mediante una serie di mutamenti a vista, pone il cine­ ma non al punto più stretto di confluenza delle varie espressio­ ni artistiche, ma gli affida il ruolo di contenitore, dalle pareti assai elastiche e dilatabili, capace di accogliere e sistemare al suo interno spinte e materiali tra i più eterogenei. Cosi, in uno spazio in apparenza sconvolto, tra storie di mostri e fantasmi, in atmosfere da incubo, la Eisner si muove con estrema sicurez­ za indicando i giusti rapporti di prospettiva, le ragioni delle scelte scenografiche, l’oscillazione tra molteplicità e unità, tra forme chiuse e aperte, tra le diverse modalità della visione della superficie e della profondità, le influenze precise e specifiche là dove esistono - dei grandi teatralizzatori tedeschi degli inizi del novecento. Cosi non sarà difficile - per esempio - mostrare come alla base del cinema di Fritz Lang vi sia la lezione di Gordon Craig, come il verbo di Max Reinhardt sia sceso sulle teste di molti autori del cinema tedesco come una sorta di spirito, come l’o­ pera di von Gerlach, Jessner, o del «Kammerspiel» circoli nei film di Lubitsch e Dupont, di Lupu Pick e Murnau, Pabst e Lang. Più che in qualsiasi altra cinematografia, nel cinema te­ desco degli anni venti si verifica un rapporto non antagonisti-

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co, ma simbiotico tra cinema e teatro e una feconda interazio­ ne reciproca. E il merito del libro è di avercene mostrato tutti i legami e le relazioni di scambio. In questo quadro la cultura dell’espressionismo risulta esse­ re una pedina importante del gioco, ma non la forza egemone e totalizzante. Le relazioni, le misure di scala, i conflitti formali e ideologici all’interno della produzione tedesca della repub­ blica di Weimar non si possono osservare in base ad una pro­ spettiva unitaria e monocentrica. I testi e il sistema cinemato­ grafico che li accoglie presentano all’interpretazione percorsi multipli e tuttora si offrono in tutta la loro ambiguità e polise­ mia di significati e di espressione. Trent’anni fa, con questo saggio, Lotte Eisner aveva mostra­ to come il modo più produttivo per conoscere il cinema tede­ sco degli anni venti fosse quello non di unificare e trovare co­ modi denominatori comuni, ma piuttosto di mostrare le diffe­ renze, distinguere, separare. Da allora, come si è detto, poco è stato fatto e la modestia dei contributi successivi e il minimo interesse per la storia del cinema muto tedesco, se non trovano plausibili spiegazioni, ripropongono, quasi naturalmente, que­ sto libro per la sua attualità. Ad un ideale tavolo di gioco critico e storiografico, alla Eisner il banco verrebbe assegnato di diritto e bisogna ricono­ scere che in mano ha tuttora lei le carte migliori e che, in molti momenti, il libro è ancora in grado di assumersi rischi critici e interpretativi molto alti. E soprattutto di comunicarci il senso del profondo coinvolgimento e dell’amore dell’autrice per il proprio oggetto e di affascinarci per la ricchezza del suo baga­ glio culturale e per la sua estrema disinvoltura nel manovrare i vari strumenti critici e interpretativi. Dal momento che Werner Herzog ha già testimoniato, da par suo, l’amore per la Eisner compiendo un viaggio a piedi da Monaco a Parigi nel 1974 (documentato nelle pagine di Sentie­ ri di ghiaccio} per ottenerne la guarigione da una grave malat­ tia, e poiché, d’altra parte, credo assai poco nelle mie doti tau­

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maturgiche, preferisco dichiarare, in modo assai più semplice e modesto, il mio amore per l’autrice. E testimoniarle soprattut­ to la mia riconoscenza per aver provato, leggendo più volte queste e le altre pagine dei libri su Mumau e Lang, emozioni e suggestioni culturali di lunga durata e lezioni di metodo e di ri­ gore professionale, raramente ritrovate in questi ultimi anni in cui mi è parso spesso di annegare nella miriade di pubblica­ zioni effìmere, improvvisate, dilettantesche, abborracciate, de­ stinate per lo più ad una dispersione rapida e incapaci di la­ sciare alcuna traccia.

Gian Piero Brunetta

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Alla memoria di tre miei amici' Jean George Auriol. André Bazin, Henri Langlois

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Bisogna definire semplicemente demoniaco quel comportamento enigmatico verso la realtà» verso quel tutto solido e chiuso che il mondo presenta. L'uomo tedesco è l’uomo demoniaco per eccellenza. Demoniaco sembra veramente l’abisso cne non si può colmare, la nostalgia che non si può placare, la sete che non si può estinguere...

Leopold Ziegler, Dar Heilige Reich der Deutsche#, 1925

Rispetto a quella degli altri paesi, la storia del cinema tede­ sco comincia tardi. Qualsiasi giudizio su questo periodo inizia­ le che dura fino agli anni 1913-14 si riduce a constatazioni ne­ gative. Lo scarso respiro delle piccole immagini animate di Max Skladanowsky, noto pioniere del cinema tedesco, non ha niente a che vedere con le attualità già allora cosi piene di vita di Louis Lumière. Nella produzione di Oskar Messter non c’è nulla che ricordi anche da lontano l’estro da «commedia del­ l’arte» dei vecchi film comici di Pathé o Gaumont, né la perfe­ zione stilistica dei «film d’arte» francesi, né la poesia fantastica di Georges Méliès. Tentativi ancora i film di Franz Porten, pa­ dre della famosa Henny, che gira negli anni 1911-12 delle spe­ cie di quadri patriottici animati: La regina Luisa e Giorni di glo­ ria della Germania. Tentativi a loro volta i film di Kurt Stark, primo marito di Henny Porten, come felicità d'amore di una donna cieca (1911) in cui prevale un verismo ingenuo e senti­ mentale. Gli schermi tedeschi sono invasi da melodrammi di Max Mack, di Joe May, di Rudolf Meinert e da commedie sempliciste come quelle di Bolten Baeckers. Joe May e Rudolf Meinert gireranno in seguito film di avventure; ma questi non hanno mai il fascino dei film di Louis Feuillade, che solo con Fritz Lang e i suoi Ragni troveranno un equivalente.

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La storia del cinema tedesco comincia alla vigilia del primo conflitto mondiale con poche opere sparse. Ma la spinta decisiva sarà data dopo la guerra. Saranno allora i tempi gloriosi, brevi del resto, dato che per lo più non vanno oltre gli anni 1925-27. Nonostante certi capolavori successivi, mai più il cinema te­ desco conoscerà una tale espansione, sotto la spinta, al tempo stesso, del teatro di Max Reinhardt e dell'arte espressionista. Non ci si aspetti qui una storia esauriente del cinema tede­ sco. Diffido sempre un po’ di quelle storie del cinema mondia­ le che sconcertano il lettore con le loro aride rassegne di titoli. Su un film il cui contenuto viene appena accennato, o di cui ci si limita a segnalare che offre «alcune inquadrature interessan­ ti», non si viene a sapere nulla di essenziale. Per presentare a grandi linee la storia cinematografica di una nazione mi pare più opportuno ricorrere ai metodi stabiliti dagli storici dell’arte. Occorre pertanto studiare lo stile di ogni singolo film che abbia occupato un posto di rilievo nello svi­ luppo di un cinema nazionale. E innanzitutto dei film di cui conserviamo un ricordo preciso o che abbiamo avuto occasio­ ne di rivedere nel corso di recenti rassegne retrospettive. Basta approfondire il metodo della storia dell’arte per in­ terpretare lo stile, la tecnica e l’evoluzione artistica di ogni re­ gista importante, e quindi evidenziare (per quanto lo consenta la distanza che ci separa dai vecchi film) le tendenze estetiche salienti dei diversi periodi. Tale procedimento ci proibisce, beninteso, di considerare il singolo film come un fenomeno strettamente individuale, stac­ cato dalle altre espressioni artistiche e dagli eventi contempo­ ranei. Esso va collocato all’interno del suo contesto storico e nazionale, e analizzato alla luce della mentalità del paese a cui appartiene. Per evidenziare questi molteplici dati, occorre esa­ minare le manifestazioni artistiche e letterarie del tempo, cosi come i complessi interrogativi ad esse connessi. Il nostro non è altro che un tentativo di mettere in luce cer­ te tendenze, intellettuali, artistiche e tecniche, che hanno do­

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minato il cinema tedesco nel corso degli anni. L’accento viene posto su quel periodo del muto, già diventato «classico», che si sviluppa dopo la prima guerra mondiale e finisce negli anni 1926-27, prima ancora che inizi il dominio del sonoro. Il periodo del sonoro e per cosi dire trattato «in appen­ dice». All’origine del presente libro c’è la richiesta, da parte di un editore italiano, di un saggio che doveva portare il tito­ lo «Dieci anni di cinema tedesco muto», limitato quindi al periodo del muto. Essendo fallito questo editore, il mano­ scritto passò nelle mani di un editore francese, che richiese in corso di pubblicazione l’aggiunta di un capitolo dedicato al film sonoro, almeno fino al 1933, per poter presentare il li­ bro come un «panorama del cinema tedesco». Ma l’autore fu costretto a eliminare interi paragrafi dalla parte dedicata al cinema muto. Tutti questi paragrafi sono stati ripristinati nella presente edi­ zione che, inoltre, è stata ampliata con un capitolo inedito e con ulteriori saggi su alcuni film che l’autore ha avuto recentemente occasione di esaminare. Tuttavia l’esame degli ultimi quindici an­ ni del cinema muto occupa pur sempre uno spazio molto più co­ spicuo che non quello dei primi tre anni del sonoro1. Gli storici dell’arte, se appena lo desiderano, hanno sotto gli occhi i quadri, le sculture e i monumenti che hanno attraversa­ to il tempo. Essendo invece la pellicola fatta con materiale de­ peribile, non resta talvolta che un vago ricordo di opere a loro tempo famose, e forse noi conosciamo meglio la preistoria del­ l’umanità che non i primi trent’anni del cinema. Non se ne possono presentare per lo più che copie incompiute, rovinate, controtipi di controtipi che hanno perso il valore plastico e la luminosità delle copie originali. Stando cosi le cose, come fare a raffigurarsi qual era la loro vera fisionomia al momento della prima proiezione? 1

Non appaiono i pionieri, dal momento che fautore non ha avuto una conoscenza diretta di questo periodo. G auguriamo che qualcuno piu competente ne parli un giorno,

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Nel titolo di questo saggio, demoniaco non significa «diabo­ lico», come qualcuno potrebbe credere. Il significato è quello che gli davano i greci ed è simile a come l’intendeva Goethe. Un’ultima osservazione: smettiamo di confondere lo stile espressionista con il suo contrario, quello del teatro di Max Reinhardt.

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Predisposizione dei tedeschi all’espressionismo

I tedeschi sono, del resto, della gente curiosa! Con i loro profondi pensieri ed idee, che cercano dappertutto, ed ovunque vogliono introdurre, si rendono la vita piu diffìcile del necessario. Oh, se aveste finalmente una volta il coraggio di abbandonarvi alle impressioni, di lasciarvi ncreare, commuovere, elevare; si, anche istruire ed infiammarvi ed esaltarvi per Qualcosa di grande! Ma voi pensate sempre che tutto sia vano, se non v’è sotto qualche pensiero, qualche idea astratta! J. P. Eckermann, Colloqui con Goethe, 6 maggio 1827.

Atteggiamenti tipicamente espressionisti nel teatro: Ilmendicante di Reinhard Sorge.

Furono una stagione singolare, in Germania, gli anni succes­ sivi alla prima guerra mondiale: lo spirito tedesco stenta a ri­ prendersi dal crollo del sogno imperialista; i più intransigenti cercano di reagire promuovendo un movimento di rivolta, che però viene subito soffocato. Questa torbida atmosfera raggiun­ ge il parossismo con l’inflazione, che provoca il collasso di tutti i valori, e l'inquietudine innata dei tedeschi assume proporzio­ ni gigantesche. Misticismo e magia, forze oscure a cui i tedeschi sono sempre stati inclini ad abbandonarsi, erano fioriti di fron­ te alla morte sui campi di battaglia. L’ecatombe di giovani pre­ cocemente falciati dalla guerra sembrava nutrire la truce no­ stalgia dei sopravvissuti. E i fantasmi che avevano ossessionato il romanticismo tedesco riprendevano vita come le ombre del­ l’Ade quando hanno bevuto sangue. Risorge cosi l’eterna attrazione verso ciò che è oscuro e inde­ terminato, verso quella riflessione speculativa e ad azione lenta chiamata «Griibelei», che sbocca nella dottrina apocalittica dell’espressionismo. La miseria, l’assillo costante del domani avevano contribuito a far si che gli artisti tedeschi si gettassero a corpo morto in questo movimento che si era proposto, sin dal 1910, di fare tabula rasa dei principi che fino ad allora erano stati alla base dell’arte.

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Per analizzare il fenomeno dell’espressionismo in tutta la sua complessità, in tutta la sua ambiguità, occorre, per quanto pa­ radossale possa sembrare, seguirne la traccia nelle dichiarazioni letterarie del tempo più che studiarlo nelle sue realizzazioni plastiche o grafiche. Infatti per i tedeschi - questo «popolo di pensatori e di poeti» - ogni manifestazione artistica si muta su­ bito in dogma; l’ideologia sistematica della loro «Weltan­ schauung» si traduce principalmente in un’interpretazione di­ dattica dell’arte. Non è certo facile penetrare nell’intrico della fraseologia espressionista tedesca. Già la lingua classica di Thomas Mann, con le sue lunghe frasi aggrovigliate in un dedalo di proposi­ zioni secondarie, si presta difficilmente a una traduzione in francese, lingua spietatamente precisa. Che dire allora del lin­ guaggio degli espressionisti tedeschi, veemente, spezzato, dove l’ordine sintattico è stato rovesciato, dove i pronomi e gli arti­ coli sono stati deliberatamente soppressi? Esso risulta in effetti pressoché inaccessibile a una mentalità latina. A prima vista l’espressionismo, con il suo stile telegrafico, che esplode in frasi corte, in esclamazioni brevi, sembra aver semplificato la tendenza alla complicazione espressiva dei tede­ schi, ma questa apparente chiarezza è ingannevole. È il deside­ rio di amplificare il significato «metafìsico» delle parole a do­ minare la fraseologia espressionista. Si gioca virtuosisticamente con espressioni vaghe, si forgiano concatenazioni di termini sulla base di combinazioni casuali, si inventano allegorie misti­ che prive di logica, piene di insinuazioni, che si riducono a po­ ca cosa se appena si tenta di tradurle. Questo linguaggio, cari­ co di simboli e di metafore, rimane volutamente oscuro, affin­ ché solo gli iniziati possano coglierne il significato. E un terre­ no disseminato di trappole: per attraversarlo senza danno biso­ gna conoscere la parola d’ordine. Ascoltiamo ad esempio il ditirambo intonato nel 1919 dall’ap­ passionato teorico di questo stile, Kasimir Edschmid, in Uber den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung. Vi si

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rivela, più tangibile che in qualsiasi altra opera, la chiave di volta della concezione espressionista. L’espressionismo, dichiara Edschmid, reagisce allo «smem­ bramento atomico» dell’impressionismo, che riflette i cangianti equivoci della natura, la sua inquietante diversità, le sue effime­ re sfumature; lotta allo stesso tempo contro la decalcomania borghese del naturalismo e contro il suo intento meschino di fotografare la natura o la vita quotidiana. Il mondo è là, sarebbe assurdo riprodurlo tale e quale, puramente e semplicemente1. L’espressionista non vede, ha delle «visioni». Secondo Edschmid, «la catena dei fatti: fabbriche, case, malattie, prosti­ tute, gridi, fame», non esiste; esiste soltanto la visione interiore che essi provocano. I fatti e gli oggetti di per sé non sono nulla: bisogna raggiungere la loro essenza, discemere ciò che vi è al di là della loro forma accidentale. E la mano dell’artista che «attraverso loro afferra quello che è dietro di loro», e consenti­ rà di conoscere la loro forma vera, liberata dalla soffocante co­ strizione di una «falsa realtà». L’artista espressionista, non ri­ cettivo ma veramente creatore, cerca, invece di un effetto mo­ mentaneo, il significato eterno dei fatti e degli oggetti. Secondo gli espressionisti, bisogna staccarsi dalla natura e sforzarsi di suscitare «l’espressione più espressiva» di un og­ getto. Béla Balàzs spiegò queste esigenze un po’ confuse dell’e­ spressionismo nel libro L’uomo visibile-, è possibile stilizzare un oggetto accentuando la sua «fisionomia latente». Cosi si penetrerà la sua aura visibile.

La vita umana, proclama Edschmid, al di là dell’individuo, partecipa alla vita dell’universo; il nostro cuore batte all’uniso­ no con il mondo, è legato ad ogni evento: il cosmo è il nostro polmone! L’uomo ha cessato di essere un individuo legato a un dovere, a una morale, a una famiglia, a una società; la vita del­ 1

Gli espressionisti se la prendono anche con quella reazione tipicamente tedesca contro il naturalismo che è il neoromanticismo, che pretendono eccccssivamente effeminato, sensualista, individualista.

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l’espressionista sfugge a ogni logica meschina e al meccanismo delle causalità. Affrancato da ogni rimorso borghese, respin­ gendo tutto tranne il prodigioso barometro della sua sensibili­ tà, si abbandona ai suoi impulsi. L’immagine del mondo si ri­ specchia in lui nella sua purezza primitiva, la realtà è creata da noi, l’immagine del mondo non esiste che in noi2. Ecco affiorare non pochi contrasti e contraddizioni. Da una parte, l’espressionismo rappresenta una forma oltranzista di soggettivismo; dall’altra, a questa affermazione di un io totalita­ rio e assoluto, creatore del mondo, si giustappone un dogma che implica l’astrazione completa dall’individuo*. Non solo la natura viene messa all’indice in questo grande garbuglio: anche la psicologia, questa ancella compiacente del naturalismo, è a sua volta condannata. Che periscano con essa le leggi e le concezioni di una società conformistica e le trage­ die alimentate dalle misere ambizioni sociali! Prevale l’intelletto. Edschmid proclama la dittatura dello spi­ rito, che ha per missione di plasmare la materia; egli esalta Yat­ titudine della volontà costruttrice, una revisione complessiva di tutto il comportamento umano. Chi sfoglia la letteratura espressionista tedesca ritrova sempre lo stesso vocabolario ste­ reotipato: parole e frasi come «tensione interiore», «forza di espansione», «immensa accumulazione di concentrazione crea­ tiva», o ancora «gioco metafisico delle intensità e delle ener­ gie»; ricorrono anche, messe in risalto, espressioni come «dina­ mismo», «densità», e soprattutto la parola «Ballung», nozione 2

Questo desiderio esasperato di perdere ogni individualità in un'espansione totale, di sentirsi invadere dal destino universale» è una caratteristica comune a molti intellettuali tedeschi» verso la fine della prima guerra mondiale. La maggior parte di essi cominciava a maledire le assurde stragi; poco tempo dopo» poeti tedeschi desiderosi, come già Schiller» di abbracciare 1’umanità intera» canteranno al modo di Werfel, nel 1910: «La mia unica felicità, o uomo, è di sentirmi tuo prossimo». I tedeschi, che vivono dentro la contraddizione, hanno avvertito la necessità di un compromesso. Cosi» uno dei loro critici d’arte, Paul Fechter, in un'opera dal titolo Der Expressionismus (1914), distingue un «espressionismo intensivo» caratterizzato da un estremo individualismo, come quello di un pittore quale Kandinskij, che ignora deliberatamente il mondo esterno. Fechter gli contrappone 1 «espressionismo estensivo» di un Pechstein, spinto alla creazione dal traboccare di un sentimento cosmico. D'altra parte, gli espressionisti distinguevano due

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quasi intraducibile che si potrebbe rendere con «cristallizza­ zione intensiva della forma». Conviene ancora dire qualche parola in merito all’«astrazione» cosi frequentemente evocata dai teorici dell’espressioni­ smo. Nella sua tesi di dottorato Abstraktion und Einfiìhlung, pubblicata nel 1907, Wilhelm Worringer, una specie di Oswald Spengler per la storia dell’arte e come lui mistico, anticipa non pochi precetti dell’espressionismo; ciò che dimostra quanto ci sia in comune tra questi assiomi estetici e la «Weltanschauung» tedesca. L’astrazione, dichiara Worringer, nasce dalla grande inquie­ tudine dell’uomo terrorizzato dai fenomeni che vede accadere intorno a lui, senza essere capace di decifrarne i rapporti, i mi­ steriosi contrappunti. Questa angoscia primordiale dell’uomo di fronte a uno spazio illimitato suscita in lui il desiderio di strappare gli oggetti del mondo esteriore dal loro contesto na­ turale, o meglio ancora di liberare l’oggetto dai suoi vincoli con altri oggetti, in breve di renderlo «assoluto». Il nordico, prosegue Worringer, sente sempre la presenza di un «velo tra lui e la natura»; ecco perché aspira a un’arte astratta. I popoli segnati da una disannonia interiore, alla ri­ cerca di ostacoli quasi insuperabili, hanno bisogno di questo patetico inquietante che spinge alla «animazione dell’inorgani­ co»4. L’uomo mediterraneo, cosi perfettamente armonioso, non conoscerà mai questa estasi dell’«astrazione espressiva». opposte correnti: già nel 1910» uno dei due gruppi che si erano raccolti a Berlino attorno a due riviste aveva assunto il nome di «Aktion». Questo gruppo, diretto da Franz Pfemfert, contrapponendosi agli espressionisti estatici puri» si orientava verso finalità sociali e politiche antiborghesi» e si richiamava a un intellettualismo assoluto sotto la formula «Gehirnlichkeit», ossia «cerebralità». L’altro gruppo aveva assunto il nome di «Sturm», ossia «tempesta»» e aveva un programma più specificamente artistico» promulgando il dogma espressionista della creazione estatica secondo cui le visioni prendono corpo. Il capo di questo gruppo» Henvarth Walden» scrive in un opuscolo del 1919; l’espressionismo non è una moda né una tendenza, bensì una «Weltanschauung»» ossia una «concezione del mondo». Secondo Worringer» il desiderio d’astrazione dei nordici raggiunge il suo culmine nell’«astrazione tuttora vitale» dell’arte gotica, in quel «dinamismo estensivo» delle energie» in quell’intensità d’espressione che lo trasporta, «beatificato e vibrante di un’estasi spasmodica, sotto l’imperio di un’ebbrezza vertiginosa, verso i cieli che gli dischiude un’orchestrazione folgorante di forze meccanicne».

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1.2. Lo studente di Praga di Stdlan Ryc con Paul Wegener. 3. Alberi Bassermann in L'altro di Max Mack.

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Ecco dunque la formula paradossale che sintetizza il turba­ mento mistico dell’espressionismo. Bisogna, esige ancora Edschmid, che tutto rimanga allo stato di abbozzo e vibri di tensione immanente, che siano salvaguar­ date un’effervescenza e un’eccitazione perpetue. Questo paros­ sismo che i tedeschi scambiano per dinamismo si ritrova in tutti i drammi di quell’epoca, che fu chiamata poi «“O Mensch” Periode», vale a dire il «periodo "Oh uomo!”». A proposito del Mendicante di Reinhard Sorge, dramma scritto nel 1912 e prototipo del genere, un critico fa un’osservazione che si po­ trebbe estendere a tutte le opere del tempo: il mondo è diventa­ to cosi «permeabile» che in ogni momento sembrano sprigio­ narsi insieme lo spirito, la visione e i fantasmi; continuamente i fatti esteriori vi si trasmutano in elementi interiori, e accidenti psichici vengono esteriorizzati. Non è questa appunto l’atmosfe­ ra che noi ritroviamo nei film classici del cinema tedesco?

Genesi del film espressionista

Parliamo di Caligari, Il suo ritmo impone ti film. Prima lento, deliberatamente laborioso, vuole snervare l'attenzione. Poi quando iniziano a girare le onde dentate della «Kermesse», la cadenza balza, si accelera, scorre e non d lasda che con la parola «fine», secca come imo schiaffo.

Louis Delluc, Cinéa, 1962.

Un disegno di Alfred Kubin. Strada con lampioni.

il gabinetto del dottor Caligari, Genuine, Dal mattino a mezzanotte, Torgus, Delitto e castigo,

1919 1920 1920 1920 1923

La tendenza ai contrasti violenti, che la letteratura espres­ sionista ha calato in formule tagliate con l’accetta, come la no­ stalgia del chiaroscuro e delle ombre, nostalgia innata nei te­ deschi, hanno evidentemente trovato nell’arte cinematografica un modo d’espressione privilegiato. Le visioni nutrite da uno stato d’animo vago e torbido non potevano venire evocate in modo più adeguato e al tempo stesso concreto e irreale. Cosi alcuni registi come Robert Wiene e Richard Oswald, che si rivelarono poi soltanto artisti di second’ordine, hanno potuto trarre in inganno, ai loro esordi, firmando film che so­ no sembrati, al momento, dotati di qualità notevoli. In queste opere, la morbosità di una dissezione psicologica contrasse­ gnata dal freudismo e l’esaltazione espressionista si sposavano con le fantasie romantiche di Hoffmann e di Eichendorff. Al­ l’anima tormentata della Germania contemporanca questi film, pieni di evocazioni funebri, di orrori, di un’atmosfera da incu­ bo, sembravano il riflesso della sua immagine deforme, e fun­ gevano in qualche modo da sfogo. Nel 1817, in una lettera a Rahel Varnhagen, personaggio per eccellenza romantico, Adolphe Coustine scriveva: «C’è sem­ pre, dietro i tedeschi, sia che scrivano sia che vivano, un mon­ do misterioso la cui sola luce sembra trapassare il velo della

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nostra atmosfera; e gli spiriti che son disposti a risalire verso quel mondo, che termina là dove questo principia, saranno sempre stranieri tra di noi». A questa strana fantasmagoria, che insieme attrae e respin­ ge, è dovuta la fama del cinema tedesco all’estero.

La realizzazione di Caligari è stata segnata da episodi che i diversi responsabili di quest’opera esemplare hanno diversamente riferito. Grazie alle spiegazioni date da uno degli autori della sce­ neggiatura, e riportate da Kracauer nel suo Cinema tedesco. Dal «Gabinetto del dottor Caligari» a Hitler. 1918-1933, si sa che il prologo e l’epilogo di questo dramma sono stati aggiunti successivamente, e nonostante l’opposizione dei due autori. Cosicché la trama narrativa ne risulta alterata e alla fine ridotta alle allucinazioni di un folle. Gli autori del film, Carl Mayer e Hans Janowitz, avevano al contrario l’intenzione di denunciare nella persona del dottor Caligari, direttore di un manicomio e istrione da fiera, l’assurdità di un’autorità asociale. Erich Pommer, che sostiene oggi di aver «supervisionato» Caligari, racconta che gli autori gli sottoposero il copione e gli comunicarono la loro intenzione di ordinare la sceneggiatura a Alfred Kubin, disegnatore e incisore visionario, le cui opere demoniache sembrano sorgere da un caos chiaroscurale. Il Caligari di Kubin sarebbe sicuramente stato pieno di visioni goyesche, e il cinema muto tedesco, risparmiandosi questa de­ viazione piena di pericoli verso l’astrazione, avrebbe assunto subito l’atmosfera tenebrosa e allucinatoria che gli è propria. Infatti Kubin, originario come Janowitz di Praga, città miste­ riosa dove il medioevo sopravviveva nei vicoli tortuosi del ghetto, conosceva anche lui tutti gli orrori di un mondo inter­ medio. Nelle note autobiografiche apparse nel 1922, egli rac­ conta le sue peregrinazioni per le strade buie, in preda a una forza oscura e ammaliante, che lo spingeva a evocare case e paesaggi conturbanti, situazioni terrificanti o grottesche. Entra

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poi in una piccola sala da tè: tutto gli pare insolitó, le camerie­ re assomigliano a bambole di cera, mosse da dio sa che singo­ lare meccanismo. Ha l’impressione che la sua intrusione abbia sorpreso i rari clienti seduti al loro tavolino, del tutto irreali, si­ mili a ombre assorte a tramare complotti satanici. La parete di fondo, adornata da un organetto di Barberia, gli sembra so­ spetta, una trappola. Non c’è dietro a questo organetto di Bar­ beria un antro insanguinato, immerso nella penombra? (C’è da rimpiangere che non sia stato concesso a Kubin, questo pittore di viventi incubi, di eseguire la scenografia di Caligari.} Pommer, pratico e realista, riferisce che, mentre Mayer e Janowitz gli «parlavano d’arte» lui aveva sulla sceneggiatura un punto di vista molto diverso. «Loro miravano alla sperimenta­ zione — scrive nel 1947 — e io invece pensavo solo a realizzare una produzione relativamente poco costosa.» L’uso di sceno­ grafìe eseguite su tela dipinta piuttosto che in gesso o in qual­ siasi altra materia rappresentava un notevole risparmio sotto ogni riguardo, e facilitava molto la realizzazione del film in un periodo in cui denaro e materie prime scarseggiavano. D’altra parte, in una Germania ancora scossa dai contraccolpi di una rivoluzione repressa, dove la situazione economica e lo stato d’animo generale erano altrettanto instabili, l’atmosfera era propizia a tentativi e prove audaci. Il regista di Caligari, Robert Wiene, ha in seguito rivendicato, a Londra, la paternità assolu­ ta della concezione espressionista del film. Kracauer e Erich Pommer sono stati tuttavia traditi dalla memoria mentre evocavano ricordi cosi remoti. Ecco come Hermann Warm1 ci racconta la vera storia di Ca­ ligari-. non fu Erich Pommer, di cui non vogliamo affatto sotto­ valutare l’importanza, il direttore di produzione, ma Rudolf Meinert, regista di film di cui si sa ben poco, come II cane di Baskerville, Dormitorio pubblico, Rosenmontag, Maria Anto­ nietta. 1

In un manoscritto inviato aireditore di Der nette ¥ibn, a proposito di una pubblicatone di Ernst Jaeger.

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CONTRASTO E STILIZZAZIONE

4.-6. Li fusti senza porta di Stellari Ryc.

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È dunque Meinert, e non Pommer, che, conformandosi alle abitudini deDa produzione tedesca del tempo, per la quale pre­ valeva la scenografia, consegnò il copione di Caligari allo sce­ nografo Warm. Questi lo esaminò con due suoi amici, pittori, che collaboravano con l’industria cinematografica: Walter Ròhrig e Walter Reimann. «Leggemmo fino al calar della notte questo copione molto curioso, - scrive Warm. - Capimmo che un tale soggetto ri­ chiedeva una scenografia inconsueta, irreale. Reimann, pittore allora di tendenza espressionista, ci propose di eseguire una scenografia espressionista. Iniziammo subito a disegnare degli abbozzi in questo stile.» L’indomani Wiene diede il suo assenso. Rudolf Meinert, più cauto, chiese un giorno di riflessione. Poi disse loro: «Fatemi questa scenografia nella maniera più folle possibile!». Non è per gusto dell’aneddoto che riferiamo qui le vicende della realizzazione di Caligari, ma perché ne emerge chiara­ mente una caratteristica di fondo del cinema tedesco: la fun­ zione essenziale svolta da sceneggiatori, scenografi e tecnici. Anche per questo non c’è nel cinema muto tedesco - fatta ec­ cezione per il film astratto - un’avanguardia vera e propria co­ me in Francia. In Germania, l’industria cinematografica si spe­ cializzò subito nei vari settori artistici del film, calcolando che, con l’andar del tempo, le avrebbero immancabilmente procu­ rato lauti guadagni. La scenografia di Caligari 2, cui si è spesso rimproverato di essere troppo piatta, presenta tuttavia una certa profondità, dovuta a prospettive volutamente falsate e a vicoli sghembi che s’incrociano bruscamente secondo angolazioni impreviste; tal­ volta anche questa profondità è data da un fondale che prolun­ ga questi vicoli con linee ondulate. Precarietà di volumi raffor2

Un autore inglese. Messe!, nel suo This film business* usa a proposito di Caligari un gioco di parole intraducibile: il background* lo sfondo, il secondo piano, si colloca in foreground* in primo piano; in effetti, la scenografia svolge qui un ruolo predominante

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ARCHITETTURE ESPRESSICI ISTE

7- Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene. 8. Delitto e castigo di Robert Wiene.

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ARCHITETTURE ESPRESSIONISTE

9.-11. Il gabinetto del dottor Caligari.

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zata dai cubi sbilenchi di case scalcinate. Su una distesa vaga, strade oblique, curve o rettilinee convergono verso il fondo: un muro rasentato dalla sagoma del sonnambulo, Cesare, la cresta sottile del tetto su cui salta, carico della sua preda, i sentieri ri­ pidi su cui si arrampica nella fuga. Ma queste curve, queste linee che scorrono di sbieco, porta­ no con sé, come osserva Rudolf Kurtz, autore di Expressionis­ ms und Film, un significato prettamente metafisico: in effetti, la linea obliqua provoca sullo spettatore tutt’altra reazione che non la linea diritta, e curve inaspettate provocano una reazio­ ne psichica di tutt'altro ordine che non linee dall'andamento armonioso. Infine, le salite brusche, i pendii scoscesi suscitano nell'anima reazioni totalmente diverse rispetto a un’architettu­ ra ricca di transizioni. Il fatto è che si mira a creare inquietudine e terrore. La va­ rietà delle inquadrature diventa quindi secondaria. In Caligari, l’interpretazione espressionista è riuscita con raro successo a evocare la «fisionomia latente» di una piccola città medievale dai vicoli tortuosi e oscuri, budelli stretti rinserrati tra case sgretolate le cui facciate sbilenche non lasciano mai entrare la luce del giorno. Porte cuneiformi dalle ombre pesanti e fine­ stre oblique dai vani deformi sembrano rodere i muri. Davanti al­ l’esaltazione bizzarra che emana da questa scenografia sintetica di Caligari, ricordiamoci di una dichiarazione di Edschmid: «l’e­ spressionismo si muove in un’eccitazione perpetua». Queste case o questo pozzo appena schizzato all’angolo di una stradina sem­ brano infatti vibrare di una straordinaria vita interiore. «Si risveglia il carattere antidiluviano degli utensili», dice Kurtz. Eccoci di fronte al patetico inquietante creato, secondo Worringer, dall’animazione dell'inorganico. Tale impressione non proviene soltanto dallo strano dono dei tedeschi, abituati alle leggende primitive, di animare gli og­ getti. Nella comune sintassi della loro lingua, gli oggetti hanno una vita attiva, compiuta: si usano per parlare di essi gli agget­ tivi e i verbi usati per parlare degli oggetti animati; si prestano

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loro le stesse qualità; agiscono e reagiscono allo stesso modo. Ben prima dell’espressionismo, questo antropomorfismo è già spinto agli estremi. Nel 1879, uno scrittore tedesco, Friedrich Vischer, parla abbastanza seriamente, nel suo romanzo Anche uno, della «perfìdia dell’oggetto», che spia con gioia maligna i nostri vani sforzi di dominarlo'. Sotto questa luce appaiono già gli oggetti stregati deU’universo ossessionato di Hoffmann. (L’oggetto animato sarà sempre motivo ricorrente per il narci­ sismo tedesco.) Attraverso la fraseologia espressionista la per­ sonificazione dell’oggetto si amplifica: la metafora si espande, mescolando persone e cose \ Così, luogo diabolico per gli autori di lingua tedesca si rivela spesso la strada: nel Golem di Gustav Meyrink le case del ghet­ to di Praga, cresciute a caso come gramigna, sembrano posse­ dere una vita perfida e ostile «quando la nebbia delle sere d’autunno ristagna per le strade velando il loro impercettibile sogghigno». Esse hanno il potere di spogliarsi della loro vita e dei loro sentimenti durante il giorno; li prestano allora ai pro­ pri occupanti, enigmatiche creature che vivono nelle latebre della loro anima e errano senza volontà, solo lievemente ani­ mate dalla presenza di un’invisibile corrente magnetica. Ma di notte le case reclamano la propria vita con interesse d’usura a questi irreali occupanti: si irrigidiscono con biechi volti pieni d’indicibile cattiveria. Le porte diventano fauci spalancate e gole capaci di lanciare grida laceranti. «La forza dinamica degli oggetti - dichiara Kurtz - urla la loro esigenza di essere creati.» Di qui il senso d’ossessione che impregna la stregata scenografia di Caligari. *

L’oggetto spia, secondo Vischer, con «Schadenfreude» (termine intraducibile e tipicamente tedesco, in cui si mescola un’idea di persistenza diabolica e di gioia maligna davanti all’altrui infelicità) i nostri vani sforzi per dominarlo: come, ad esempio, i bottoni del colletto che rotolano sotto un armadio o si rompono somionamente sotto le nostre dila per farci ritardare e rovinarci la carriera. Cosi, da un lato il poeta diventa «un campo riarso dalla sete», e dall’altro le bocche «voraci» delle finestre o i dardi di ombre «avide» trafiggono i muri «frementi»; i battenti «crudeli» delle porte «implacabili» lacerano i fianchi «dolenti» delle case che «annegano nella disperazione».

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12. Il gabinetto del dottor Caligari. l i. Homunculus di Otto Rippert.

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La deformazione degli oggetti, essenziale nell’arte espressio­ nista, è dunque provocata soltanto da certe condizioni di luce, da effluvi atmosferici, o dagli imponderabili della distanza? Non bisogna sottovalutare il potere dell’astrazione che si ag­ giunge alla visione espressionista. Grazie a un uso selettivo e creativo della deformazione, dice Georg Marzynski nel libro Methode des Expressionisnius (1921), l’artista dispone di mezzi che gli consentono di rappresentare con intensità la complessi­ tà psichica: collegandola a una complessità ottica, egli può re­ stituire all'oggetto la sua vita interna, l’espressione della sua «anima»’. Gli espressionisti fanno appello solo a immagini de­ positate nella memoria, ed è cosi che arrivano del tutto natu­ ralmente a questi muri obliqui, privi di realtà. E una caratteri­ stica delle «immagini immaginate» rappresentare gli oggetti di sbieco, visti dall’alto, a perpendicolo; questo punto di vista fa­ cilita una presentazione complessiva dcll’insieme, permettendo per lo più di evitare l’incrociarsi delle linee. Non dobbiamo neppure dimenticare che i tedeschi amano contemplare le immagini riflesse negli specchi deformanti. Gli scrittori romantici si erano già interessati a certe altera­ zioni delle forme. Un eroe di Ludwig Tieck, ad esempio, Wil­ liam Lovell, descrive quest’impressione di un universo flut­ tuante e impreciso: «le strade mi appaiono allora come file di case contraffalle, con i loro occupanti folli...». Le strade di cui parlano Kubin o Meyrink, quelle della scenografia di Ca­ ligari, non fanno appunto perfetto riscontro a questa descri­ zione? Quando ci fa vedere una cella dove le linee nere degli angoli e degli spigoli si contraggono verso l’aito, allora la sce­ nografia di Caligari raggiunge il massimo di astrazione e di deformazione. L’effetto di oppressione viene rafforzato dal prolungarsi verso il suolo di queste linee, che dirigono le loro I recce là dove si trova rannicchiato il prigioniero in catene. In Secondo Marzynski. l'espressionista si propone di rappresentare l’esperienza psichica nella sua totalità, tutte le associazioni di idee che l’oggetto suscita nella sua immaginazione, e i rapporti metafisici degli oggetti tra eli loro. Giunge cosi a una selezione e a una deformazione, e spesso addirittura a rappresentazioni simultanee.

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questo inferno, la losanga sghemba di una finestra inaccessi­ bile sembra uno scherno. Gli scenografi di Caligari sono riu­ sciti a rendere l’idea del carcere in assoluto, nella sua «espressione più espressiva»'’. Hermann Warm, uno degli scenografi di Caligari, dichiara: «L’immagine cinematografica deve diventare un’incisione». Ma il famoso chiaroscuro del cinema tedesco non è nato da questa unica testimonianza. Homunculus, film a episodi, dimo­ stra chiaramente l’effetto che si può ricavare dai contrasti tra nero e bianco. E la scenografia7 a determinare la stilizzazione del modo di recitare degli attori. Werner Krauss, nella parte del demonia­ co dottor Caligari, e Conrad Veidt, in quella del sinistro son­ nambulo, sono tuttavia gli unici ad adattarvisi veramente, per la concentrazione della loro interpretazione e della loro mi­ mica.-Riducendo i gesti, essi giungono a movimenti quasi li­ neari che - a parte qualche curva insidiosa - rimangono bru­ schi come gli angoli spezzati della scenografia; i loro sposta­ menti, inoltre, non superano mai i limiti di un certo piano geometrico. Krauss e Veidt, dichiara Kurtz, conferiscono alla loro inter­ pretazione un’intensità conforme alla concezione metafisica della scenografia. Per arrivare a una «sintesi dinamica del loro essere», essi hanno deliberatamente soppresso dai loro movi­ menti ogni articolazione intermedia. Piscator, nella sua regia della commedia di Ernst Toller, Opla. noi viviamo*, ha osato spingersi ancora più in là: l'idea della prigione c espressa da uno schermo cinematografico che occupa la parte superiore d'una delle sezioni laterali dello sfondo, dove appaiono, proiettate in primo piano, le canne puntate di due fucili giganteschi, a significare l’eterna minaccia di un potere che sorveglia sempre vigile. La «Neue Sachlichkeil» - la nuova oggettività - in tutta la sua astrazione si è fatta continuatncc dell’astrazione degli espressionisti di un tempo.

Si nota in Caligari una certa discontinuità, alquanto fastidiosa, fra la scenografìa espressionista e l’arredamento perfettamente norghese: Ir poltrone ricoperte di stoffa a fiori nel salotto di Lil Dagover o le poltrone di cuoio nel conile del manicomio. Una rottura di stile che risulta fatale, dato che, in quel momento, l’azione si svolge nella realtà. Cosi la facciata dell'ospizio non è deformata. La conclusione del film si svolge tuttavia di nuovo nello stesso ambiente strano. E la tendenza espressionista degli scenografi ad aver prevalso, o la volontà di risparmiare dei puntatori?

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SUPERRCT E PROFONDITÀ EXPRESSION ISTE

14. Genuine di Robert Wiene. 15. Scene di Andrej Andreev per Delitto e castigo.

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C’è da notare che i personaggi di Caligari e di Cesare sono perfettamente conformi alla concezione espressionista: il son­ nambulo staccato dal suo ambiente quotidiano, privato di ogni individualità, creatura astratta, uccide senza motivo né logica. Mentre il suo padrone, il misterioso dottor Caligari, che non conosce l’ombra di uno scrupolo umano, agisce con quell’in­ sensibilità esacerbata, quella sfida alla morale corrente, che gli espressionisti esaltano. Sebbene Caligari non abbia propriamente fatto scuola, i ci­ neasti tedeschi hanno tuttavia subito la sua influenza. Già l’an­ no successivo lo stesso Wiene ha tentato di dare un seguito al «caligarismo»8 nel suo Genuine. Egli aveva scelto come sceneggiatore appunto lo stesso di Cali­ gari, Carl Mayer, che sin dalla sua prima sceneggiatura aveva rive­ lato grande talento e sensibilità cinematografica. Quest’uomo, che non ha lasciato alcun romanzo o novella, che non ha mai scritto se non per il cinema, era dotato di una straordinaria po­ tenza visiva: un’azione veniva subito concepita da lui in termini d’immagini. Questo però - nonostante il ritmo che conferiva a ognuna delle sue opere - non impedi a Genuine di essere un falli­ mento. Sullo sfondo ingarbugliato (genere carta dipinta «moder­ na», ispirata all’artigianato d’arte monacense) di una scenografia dipinta dal pittore Cesar Klein, si muovevano senza rilievo e sen­ za presenza scenica attori fedeli alla tecnica naturalistica9. Le sinuose curve del corpo di Fem Andra, bella donna ma attrice mediocre, - vestita nello stile di Poiret, tipo Perfi8

I controtipi di questo film (colorati originariamente per mezzo di viraggi verdi, bluastri o b pinastri) non permettono di valutare Punita compositiva delle immagini nella copia «originale», con le didascalie dalla grafica bizzarramente allungata, in armonia con la concezione espressionista. Ne resta qualche traccia nella scena d'allucinazione del dottore travolto dalla sua ambizione demoniaca, dove i caratteri delle parole «bisogna che diventi Caligari* attraversano come una successione di lampi o di curve luminose lo stretto passaggio di un giardino dagli alberi piatti, ini di spine, esempio isolato di sovrimpressione. Già in Caligari gli attori - a eccezione di Krauss e Veidt - restavano fedeli a uno stile «naturalista* di recitazione; nonostante i loro sforzi, continuavano a rimanere rigidi come manichini. 11 loro abbigliamento fuori moda, mantelli, abiti rigidi, cappelli a cilindro, simile a quello dei curiosi personaggi di Spitzweg o di Monnier, sono gli unici elementi che avvicinano la loro sagoma all’arabesco,

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do incanto™\ — sarebbero state meglio adatte a un numero di music-hall. A eccezione del vecchietto calvo, che indossa guanti chiari con cuciture nere simili a quelli del dottor Cali­ gari, e il cui abbigliamento antiquato ne mette in risalto l’a­ spetto demoniaco, gli attori non conservano nulla della stiliz­ zazione quasi hoffmanniana che Robert Wiene aveva conferi­ to, nel film precedente, al personaggio di Werner Krauss. Wiene aveva tuttavia intuito qual era il difetto di Genuine. l’assenza di valori plastici; e per girare Delitto e castigo assunse un architetto di valore, Andrej Andreev. Grazie ad Andreev, il film include alcune inquadrature dove scenografìa e personag­ gi sembrano veramente sorgere dall’universo di Dostoevskij e interagire in una sorta di allucinazione reciproca. La tromba delle scale dalle assi slabbrate, dalle sbarre sbrecciate, dai gra­ dini popolati di fantasmi, fa già presentire la scala invasa da ombre frastagliate che salirà Lulù, nel film di Pabst, trascinan­ do con sé, verso un comune destino, Jack lo squartatore. Un altro film tradisce una concezione più artificiosa: Dal mattino a mezzanotte, realizzato da Cari Heinz Martin, regista espressionista di teatro. Qui tutte le scenografie, e persino i volti e i costumi degli attori, erano stati striati di righe o anima­ ti da macchie bianche o scure, a rappresentare luci e ombre so­ vrapposte. Ma anziché rafforzare i volumi delle forme, questo artifìcio ne cancellò i contorni. In Torgus, film abbastanza mediocre di Hans Kobe, l’espres­ sionismo si limita alle decorazioni, mentre i contorni naturali sono rispettati. I mobili tuttavia sono striati allo stesso modo, unico tentativo di distruggere i rapporti normali tra gli oggetti. Qui appare chiaramente quella dissonanza che caratterizza tanti film del genere espressionista, - con l’eccezione di Caliga­ ri, più unitario degli altri, - dissonanza inevitabile quando si tratta di creare un’atmosfera dove bisogna dare rilievo a eie10

Perfida incanto, film futurista di Bragaglia con Lyda Bercili, girato intorno al 1916, è spesso a torto considerato un film espressionista ante liiferam.

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VISIONI E SOGNI ESPRESSIONISTI

16. 17.1 misteri di ttn'anima di G.W. Pabst. 18. 19. Ombre ammonitrici di Arthur Robison.

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menti quasi impressionisti, e quando il tentativo di astrazione si riduce a una stilizzazione scenografica. È cosi che in Torgus la decorazione murale espressionista di una sala d'albergo sem­ bra svanire, dietro il fumo, nella luce di un lampadario. In Caligari la distorsione era giustificata, dal momento che le immagini rappresentavano la visione di un folle; in Dal mat­ tino a mezzanotte il punto di vista è diverso: oggetti e persone appaiono quali li concepisce il cassiere, strappato dal caso al suo onesto mondo quotidiano e travolto da torbidi desideri. Le forme che rivestono importanza ai suoi occhi si ingiganti­ scono e, secondo i precetti dell’espressionismo, sono spropor­ zionate e senza rapporto logico con il contesto. Altri oggetti, quelli che non hanno significato psichico per lui, sfumano o si rimpiccioliscono all’estremo. Negli autori romantici possiamo già osservare gli indizi di questo narcisismo espressionista. Jean Paul, nel Titano, non di­ ceva appunto, a proposito del suo eroe trasognato sotto un al­ bero, che nella sua immaginazione l’albero, l’unico che cresce­ va nell’universo, diventava enorme? Scorgiamo qui il segreto degli effetti del fantastico in tanti film tedeschi: lo incontriamo ancora nel flusso d’immagini del film di Mumau II fantasma, e nelle visioni della folla dentro gli occhi di un acrobata in Variété, il film di Dupont. Qui ancora risiede il potere di un film come Narcosi (1929), di Alfred Abel, dove gli spettatori vedono sullo schermo le immagini sorte dal subconscio della giovane sul tavolo operatorio11. E sarà anche, in una certa misura, il procedimento usato da Ernoe Metzner nel cortome­ traggio Lincidente del 1928, dove i sogni di un ferito, aggredito da un teppista, vengono riflessi attraverso specchi concavi o con­ vessi. Ma c’è un film, soprattutto, in cui il regista ha sfruttato tut­ te le precedenti esperienze dell’espressionismo, pur rimanendo fedele al procedimento tradizionale: si tratta di I misteri di un'a­ nima o II caso del professor Mathias. Alcune scene, che riprodu­ II

Trucchi realizzati da Eugen Schiifftan, tra cui un’intera sequenza in flash-back dentro una lacrima!

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cono i sogni di un represso, non si sarebbero mai potute girare senza lo stile espressionista. È all’interno di questo stile che Pabst ha scoperto il modo di dare un rilievo luminoso e irreale agli og­ getti o ai personaggi, di deformare la prospettiva architettonica e di falsare le proporzioni relative degli elementi di questo mondo. Dal mattino a mezzanotte, in definitiva, risponde meno a una preoccupazione architettonica che a un intento ornamentale. Non ci sono quasi vere prospettive, e le rare volte in cui scopria­ mo un vero paesaggio, in cui un sentiero innevato si prolunga nella profondità del campo, percepiamo una stonatura molto im­ barazzante. In tutte le altre inquadrature, lo sfondo rimane nero e, simili a pezzi di carta ritagliati, alcuni particolari della scenografìa, un mobile, una cassaforte, una porta, appaiono senza spessore, se­ condo un intento di astrazione elementare. Talvolta l’astrazione si fa raffinatezza. La scenografia emerge improvvisamente dalle tenebre, e questi effetti richiamano ele­ menti tipici delle regie di Max Reinhardt al Grosses Schauspielhaus. Forse per questo il film ci ricorda cosi da vicino la comme­ dia di Georg Kaiser? Soltanto Ernst Deutsch, con la sua mimica e i movimenti sgan­ gherati, recita in modo veramente espressionista. L’interpretazio­ ne degli altri attori è piuttosto di stile naturalista. Il grottesco di questo realismo stilizzato mal si adegua alla semplificazione cui tende la scenografìa espressionista. E per via di questo naturali­ smo involontario, alcune scene, in cui sono soppressi i particola­ ri, nello stile delle incisioni su legno di Schmidt-Rotluff, perdono ogni rilievo. Resta un effetto sorprendente per l’epoca: la corsa della «sei giorni», filmata come lo farà piu tardi l’«avanguardia». Anamorfosati, resi simili a sfaccettature scintillanti, grazie alla magia delle illuminazioni e all’uso, inconsueto per l’epoca, della lente defor­ mante, corridori ciclisti si slanciano, si deformano, per non esse­ re più che il simbolo stesso della velocità, nel vortice quasi astrat-

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20. 21. Scenografie per Da!mattino a mezzanotte di K.l I.Martin.

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co della corsa. Non c’è tanto da stupirsi di fronte a questa se­ quenza avanguardista aule litteranr. già nel 1916, quel grande pioniere che era l’attore e regista Paul Wegener aveva definito, in una conferenza su Le possibilità artistiche del cinema ", una specie di «kinetische Lyrik», ossia di «lirismo cinematografico», ispirato alla tecnica della fotografia. «Avete visto tutti - egli dice - film dove una linea appare, si curva, si trasforma. Da questa linea nascono dei volti, poi la linea svanisce. Nessuno ha mai pensato a tentare una esperienza di questo genere in un lungometraggio» «Potrei concepire - egli prosegue - un’arte cinematografica che usi soltanto supcrfici mobili, sulle quali si svolgerebbero eventi che parteciperebbero ancora del naturale, ma che trascen­ derebbero le linee e i volumi del reale.» Wegener pensa che si potrebbero usare «marionette o piccoli bozzetti a tre dimensioni, animati immagine per immagine, a rit­ mo sia rallentato che accelerato, in un montaggio piti o meno ra­ pido; cosi nascerebbero immagini fantastiche, che provochereb­ bero nello spettatore associazioni d'idee assolutamente nuove». «Si potrebbero - egli ribadisce - filmare alla rinfusa elementi microscopici di sostanze chimiche in fermentazione, e piccole piante di dimensioni diverse. Non si potrebbero più distinguere tra di loro gli elementi naturali da quelli artificiali. Si penetrereb­ be cosi in un nuovo mondo fantastico, come in una sorta di fore­ sta incantata, e si avanzerebbe nel dominio della cinetica pura, nell’universo del lirismo ottico.» Tra l’altro immagina una superficie vuota dove nascono forme fantomatiche; dove, in un’evoluzione continua, cellule nuove scoppiano formando nuove cellule che girano sempre più veloci, sino a diventare fuochi d’artificio. Ecco già la formula magica del «film assoluto», di cui sogne­ ranno Hans Richter e Ruttmann; eccolo già prefigurato nei truc­ chi della sequenza della «sei giorni» in Dal mattino a mezzanotte. k

Tenuta il 24 aprile 1916, lunedi di Pasqua, e riprodotta in un libro di Kai Moller, Punì Wcgcner, Hamburg, Rowohlt Vcrlag, 1954,

Ill Magia della luce. La penombra

La doppia luce è certamente arbitraria, e lei potrà sempre dire che è contro natura. Senonché questo che è contro la natura, io sostengo che sia più alto della natura; io dico che è un tratto audace del maestro, con il quale egli insegna in modo geniale come Parte non sia interamente sottomessa afie necessità naturali ma abbia invece le sue proprie leggi.

I. P. Eckennann, Colloqui con Goethe, 18 aprile 1827, durante una discussione su un paesaggio di Rubens dove si distinguono due fonti di luce.

Conrad Veidt in II gabinetto del dottor Caligari.

Lo studente di Praga, 1913 II Golem, 1920 L'erede dei Grtcsbuus, 1925

L’influenza di Max Reinhardt

Il termine «espressionista» spesso è attribuito, in modo indiscriminato, a qualsiasi film tedesco della cosiddetta stagione «classica». Occorre ancora precisare che certi effetti di chiaro­ scuro, cosi spesso definiti espressionisti, esistevano ben prima di Caligari? E che questo film non è proprio — come taluni sembrano credere — il primo film di valore girato in Germania? Non c’è da stupirsi che, in un paese come la Germania, dove predominano le manifestazioni letterarie, fin dal 1913 ci siano scrittori che reclamano - allo scopo di trasformare in opera d’arte uno spettacolo cosi mediocre qual era allora il cinema tedesco - r«Autorenfilm», ossia il film concepito da un autore di talento. La provenienza e la qualità di questi scrittori erano tuttavia ben diverse: c’erano tra di loro il fratello di Gerhart Haupt­ mann, Karl Hauptmann, curioso autore di drammi, miscono­ sciuto, offuscato dalla gloria del fratello piu celebre, e Hans Heinz Ewers, autore di strani racconti ispirati al tema del san­ gue e della voluttà. (Non ci si stupirà di vedere questo perso­ naggio allora sopravvalutato abbracciare più tardi la concezione del «Blut und Boden», sangue e terra, dei seguaci di Hitler.)

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DalT«Autorenfìlm» trae origine uno dei principali punti di forza del futuro cinema tedesco: la sceneggiatura «letteraria»1. Lo stesso Ewers scrisse il copione dello Studente di Praga film ben più sobrio del suo famoso romanzo Alraune, da cui nel 1928 Henrik Galeen ricavò il film La mandragora. Ewers s’ispira palesemente al Peter Schlemihl, racconto di Chamisso, in cui un giovane vende la propria ombra, e alle Avventure del­ la notte dì San Silvestro, in cui E.T.A. Hoffmann fa viaggiare l’eroe di Chamisso con il suo Erasmus Spikher, «l’uomo che ha perduto la propria immagine nello specchio». (Del resto, il no­ me di Scapinelli, che Ewers dà a questo personaggio diabolico, il misterioso acquirente dell’immagine nello specchio, non evo­ ca forse il mondo stregato di Hoffmann?) Con Lo studente di Praga, i tedeschi hanno subito avuto mo­ do di capire che il cinema poteva diventare lo strumento di espressione per eccellenza della loro angoscia romantica, e che poteva permettere di rendere il clima fantastico di visioni va­ ghe che svaniscono nella profondità infinita dello schermo, spazio irreale che sfugge al tempo. Se ne avvide per primo Paul Wegener, per anni attore nella troupe di Max Reinhardt. Quando espose in pubblico, il lunedi di Pasqua del 24 aprile 1916, nel corso di una conferenza, le sue idee sulle «possibilità artistiche del cinema»1 2, egli raccontò come nel 1913, guardando alcune fotografìe comiche, dove un perso­ naggio giocava a carte e tirava di scherma con se stesso, fosse giunto a comprendere che il cinema poteva, meglio di qualsiasi altra arte, esprimere il mondo fantastico di E.T.A. Hoffmann, e soprattutto il tema famoso del «doppio»’, ombra o riflesso, che, 1

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L'aspirazione air«Autorcnfdm» corrisponde a una tendenza sorta in Francia assai prima: il «film d’arce». Anche qui si ricercava una sceneggiatura «di valore arti­ stico». Cosi il famoso Assassinio del duca di Guisa (1908) fu realizzato sulrecccllente copione di Henri Lavcdan, accademico francese. Vedi Kai Moller, Paul Wegener, cit., pp. 102-113.

In un libro del 1927, Das Problem der Magie und Psychoanalyse, Leo Kaplan osserva che presso i popoli primitivi gli adulti sono come bambini angosciati da! mondo esterno, misterioso e ostile; inclinano a un narcisismo che ti rassicura. Cosi l'uomo narcisista, soggiogato dal sogno c incline alla magia, si creerà volentieri un «doppio». Bisogna credere che i romantici l'hanno crealo per analoghi motivi?

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evadendo dallo specchio, acquista una esistenza propria e si ri­ volta contro il suo modello. Egli aggiunge: «Lo studente di Praga, che è uno strano mi­ scuglio di naturale e artificiale, di realtà e scena, m’interessava moltissimo». «Occorre - egli continua - liberarsi del teatro o del roman­ zo e creare con i mezzi del cinema, unicamente attraverso l’im­ magine. Il vero poeta del film deve essere la macchina da pre­ sa. La possibilità offerta allo spettatore di cambiare in conti­ nuazione il punto di vista, i molteplici trucchi che raddoppia­ no l’attore sullo schermo diviso in due parti, le sovrimpressio­ ni, in una parola la tecnica, la forma, dànno al contenuto il suo vero significato.» E prosegue: «Ho avuto l’idea del mio Golem, di questa mi­ steriosa figura di argilla animata dal rabbino Loew, da ima leg­ genda del ghetto di Praga, e con questo film mi sono inoltrato piu profondamente nel dominio del cinema puro. Qui tutto di­ pende dall’immagine, da una certa “sfocatura” in cui il mondo fantastico del passato incontra il mondo del presente. Mi resi conto che la tecnica della fotografìa avrebbe determinato il de­ stino del cinema. La luce, l’oscurità assumono nel cinema il ruolo del ritmo e della cadenza nella musica». Questo primo Golem del 1914, che mescola eventi contem­ poranei (la scoperta del Golem a Praga) alla leggenda del rab­ bino Loew, il quale crea il gigante intorno al 1580, è purtroppo andato smarrito. Noi conosciamo solo 11 Golem del 1920, che si attiene unicamente alla leggenda. In compenso ci è pervenuto il primo Studente di Praga (1913): questo film, che prefigura con sei anni di anticipo Cali­ gari, presenta già molte delle qualità che costituiranno il valore dei film cosiddetti «classici» degli anni venti. Nulla agli inizi im­ pediva ai cineasti tedeschi di girare in esterni. Lo stile espressio­ nista, che dal 1910 dominava nelle altre arti, non aveva ancora invaso il cinema, allora tenuto in disprezzo. H regista, che nulla spingeva a deformare l’aspetto naturale delle cose, non aveva bi-

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22. Scena per il Golem rea­ lizzata da Marlene Poelzig su disegno del marito. 25. Acquarello di Hans Poel­ zig per il ghetto del Go/ew.

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sogno di usare lo studio per crearvi città e paesaggi allucinanti. Eppure il romanticismo tedesco, a cui Lo studente di Praga si richiama in modo cosi autentico, - tanto era il fascino che pro­ vava Paul Wegener di fronte all’illimitato potere espressivo di questa nuova arte, - si muoveva già alla ricerca dell’insolito Stellan Rye, il regista danese a cui la società Union 4 si rivolse per la regia (ci sarà tra lui e Wegener una stretta collaborazione), gi­ ra il suo film nella città vecchia di Praga, dove sopravvivono le tracce di un medioevo enigmatico e tenebroso. Egli gira per i vi­ coli stretti, sul vecchio ponte da cui s’intravede la sagoma irta di guglie della celebre cattedrale. Wegener se ne ricorderà quando realizzerà, questa volta in studio, il suo secondo Golem. Tuttavia la comunità ebraica, per ragioni religiose, aveva vie­ tato al cineasta di filmare l’antico cimitero. Lo si sarebbe po­ tuto ricostruire in studio, come si farà per il secondo Studente di Praga-, ma si preferì, cosa significativa, erigere in una foresta reale gli enormi blocchi medievali che, beninteso, fu necessario ricostruire. Oggi la fotografia della copia, l'unica conservata, sembra abbastanza grigia. Non bisogna dimenticare che le copie del tempo, colorate di marrone, verde o blu scuro (soprattutto per le scene notturne che la pellicola era allora incapace di rende­ re), erano piti ricche di sfumature. Evidentemente, quando Guido Seeber, il migliore operatore del tempo, filma veri interni nel palazzo Lobkowitz, l’immagine non possiede la qualità, la profondità di campo, a cui il cinema tedesco degli anni venti ci ha assuefatti: l’insieme sembra un po’ piatto. Ci sono tuttavia alcune inquadrature che annunciano i fu­ turi grandi film: una terrazza del castello dove colonne proietta­ no dense ombre, mentre gli amanti s’incontrano di nascosto. In basso si profila sul muro l’ombra minacciosa del cattivo Scapino­ li, che li spia nelle tenebre di un giardino ostile. L'Union Film, la società di Paul Davidsohn, è stata in grado di girare film di qualità grazie all'iniziativa di quest'ultimo; sempre nei suoi studi sono stati girati film» con Asta Nielsen. Questa società precede la Decla Bioscop, che piti tardi l'acquisterà.

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Si notano allo stesso modo degli interni carichi di un’at­ mosfera densa di suggestione; furono creati in studio secon­ do i bozzetti di uno scenografo di talento, Kurt Richter: la ca­ mera dello studente povero, stanza nuda dove Scapinelli en­ tra saltellando; appesantita da un’atmosfera angosciata, no­ stalgica, la stanza da lavoro dello studente divenuto ricco; ovunque fluttuano ombre misteriose, e nel crepuscolo vacilla la fiamma delle candele. Le luci erano già state previste negli schizzi5. Questa ricerca della scenografia e dell’atmosfera magica che caratterizza tutto il cinema tedesco, la troviamo già nel film con cui debutta Wegener, aiutato da Stellan Rye, esponente della grande scuola danese che già da qualche anno sapeva uti­ lizzare il chiaroscuro per suggerire un’atmosfera. Nella sua conferenza del 1916, Wegener precisa che sono efficaci soltanto dei gesti sobri, un viso espressivo, calmo, uno sguardo eloquente, un atteggiamento composto, naturale, in breve una grande misura nell’interpretazione; e che tutto ciò che è affettazione, tutto ciò che è gratuito non risulterà che contorcimento sulla grande superficie dello schermo, dove «l’attore è visto come al microscopio». Quando, tre anni dopo questa conferenza, Wegener recitò la parte dello studente di Praga, aveva ancora tutto da imparare sul cinema. Cosi pure per il primo Golem egli avrà sicuramente do­ vuto correggere la propria interpretazione, come testimonia la versione del 1920, e come già esige la sua parte, per diventare questo essere dal viso chiuso, enigmatico, che sembra scolpito nella creta, quale appare oggi in qualche raro fotogramma. Nel primo Studente di Praga c’è già un interprete - John Gottowt, attore poco conosciuto, personaggio hoffmanniano che ci sembra fatto apposta per il cinema. Non prefigura in un certo qual modo il personaggio allucinante del dottor Caligari, interpretato sei anni dopo da Werner Krauss? 5

Vedi lo schizzo riprodotto nel libro di Edward Carrick, Designing for Films, London e New York, The Studio Publications, 1949

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Non è senza interesse rivedere un film girato nel 1921 da Rochus Gliese (che sarà più tardi lo scenografo di Aurora): Cambra perduta. Questo film ricorda la storia di Peter Schlemihl, e Wegener vi recita la parte principale. E un film ancora arcaico, l’interpretazione degli attori è curiosamente compassa­ ta, goffa. Sarà vero che, come mi disse Lyda Salmonova a Pra­ ga, Wegener per aver litigato con il regista si disinteressò di questo film, che sembra anteriore allo Studente di Praga? Sappiamo ben poco del periodo che va dallo Studente di Praga al Caligari. Si possono soltanto citare i titoli di certi film d’arte girati da Stellan Rye o Wegener: che cosa valgono Evinrude, la storia di un avventuriero (1914), Der Yoghi (1916), Il Golem e la ballerina (1917), Il principe straniero (1918), Il ga­ leotto (1919) e, qualche anno dopo, La fine del duca Ferrante (1923) e Budda vivente (1924)? Ci restano solo scarsi frammenti dei «Màrchenfìlme» (film di leggende e incantesimi), che Wegener girò durante la guer­ ra, quali II matrimonio di Riìbezahl (1916) e II cacciatore di to­ pi di Hameln (1918). Anche Hans Trutz nel paese di Cuccagna (1917) è andato smarrito. Wegener li girò, nuovamente in esterni, tra i dirupi del Riesengebirge slesiano, sui pendìi asso­ lati e nei borghi medievali sulle sponde del Reno. Immagine indimenticabile quella dove Wegener ci mostra, su una collina coperta di erba e fiori, nel ricamo argentato tes­ suto dal sole, una fanciulla che danza. Il suo vestito dai disegni in tinta si armonizza con i colori del prato. Ella danza al suono del flauto magico di Hameln. La giovane Lyda Salmonova, in­ cantata da questa musica, non assomiglia, cosi vestita, alle Ofelie e Giuliette del Deutsches Theater? La linea di questo corpo snello, dal contegno «gotico», ricorda le movenze delle vergini esili e flessuose dei primitivi tedeschi evocate dalle attrici diret­ te da Max Reinhardt. I legami che uniscono il teatro di Max Reinhardt al cinema tedesco sono evidenti sin dal 1913; in effetti, i principali attori di questi film, Wegener, Bassermann, Moissi, Theodor Loos,

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Winterstein, Veidt, Krauss, Jannings, per citarne solo qualcu­ no, provengono dalla troupe di Max Reinhardt. Non bisogna dimenticare che Reinhardt, a partire dal 1907 e fino al 1919 (data in cui la rivoluzione portò in primo piano Piscator e il suo teatro costruttivista)6, tu una sorta di «Kaiser» del teatro a Berlino, e che la sua figura aveva assunto una tale impor­ tanza che i buoni borghesi avevano l'abitudine, leggendo il gior­ nale, di «saltare» la pagina politica per leggere ciò che il famoso critico Alfred Kerr diceva dello spettacolo del giorno prima. I berlinesi erano soliti frequentare più volte alla settimana il teatro di Max Reinhardt, che cambiava programma ogni giorno. Diventando un’arte, era del tutto naturale che il cinema mettesse a profitto le trovate di Max Reinhardt, che utilizzasse il chiaroscuro, che mostrasse, diffuse da un’alta finestra, quelle falde di luce in un interno oscuro, come si vedevano tutte le se­ re al Deutsches Theater. Questo famoso chiaroscuro del cinema tedesco non ha origine solo dal teatro di Max Reinhardt. Non dobbiamo trascurare l’ap­ porto dei cineasti nordici, e soprattutto danesi, che invasero gli studi tedeschi, quali Stellan Rye, Holger-Madsen o Dinesen. Essi vi introdussero, prima ancora che lo stile espressionista si definis­ se, il loro amore della natura e il loro senso del chiaroscuro. Dopo il libro di Kracauer, Da Caligari a Hitler, molti appas­ sionati di cinema credono che questo famoso chiaroscuro sia una componente fondamentale dell’espressionismo, e che ab­ bia avuto origine da un dramma espressionista, lì mendicante (1912), di Reinhard Sorge, messo in scena nel 1917 da un col­ laboratore di Max Reinhardt. C erano in effetti tutti gli elementi: il contrasto o, se cosi possiamo dire, lo shock della luce e dell’ombra, l’illuminazione improvvisa di un personaggio o di un oggetto sotto il raggio Gi sono, oltre a Piscator» con ogni evidenza altri tre grandi registri di teatro: Karl Heinz Martin r Jtirgcn l’chling. entrambi di tendenza espressionista, e Leopold Jcssner, che snesso condivide la stessa tendenza, ma è di fatto «costruttivista» come testimoniano ìc sue celebri scale sulla scena.

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24 . / lomunadus. 25 Riidoli Klein-Rogge. nel ruolo dello scienziato, in Metropolis di Fritz Lang

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del riflettore allo scopo di concentrare su di lui l’attenzione dello spettatore, mentre al momento stesso tutti gli altri perso­ naggi e oggetti piombano in una tenebra vaga. Era questa la tra­ duzione visiva dell’assioma espressionista che impone di puntare su un unico oggetto, scelto nel caos universale, e di strapparlo ai suoi legami. Tutto c’era in anticipo, perfino quell’alone fosfore­ scente, che aderiva ai contorni di una testa e svaniva man mano verso il mondo notturno, perfino quel fascio di luce aspra che accendeva come un grido la macchia bianca di un volto. L’autore di questo libro aveva già tentato, in uno scritto dal titolo Mise en garde et mise au point, apparso su una rivista di cinema7, di mostrare che il sottotitolo del suo Schermo demo­ niaco, «Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo», stabilisce una distinzione fondamentale tra i due termini. Eppure, qualche anno dopo, sulla stessa rivista, un curioso personaggio, in un articolo dove copiava spudoratamente Lo schermo demoniaco (di cui riprendeva parecchie espressioni e persino frasi intere per giungere a conclusioni erronee), so­ stenne che Max Reinhardt era stato espressionista! Bisogna finirla con questa confusione. Benno Fleischmann scrive con molta esattezza, nel suo Max Reinhardt edito a Vienna nel 1948: «Reinhardt osservava una prudente riserva e mostrava poca comprensione nei confronti dei giovani poeti espressionisti. Questi erano molto lontani sia dal suo temperamento sia dal suo stile. Se è vero che apri loro il suo teatro, ciò accadde in occasio­ ne di cicli “ai margini”, quali “Das Junge Deutschland” a Berlino e “Das Theater des Neuen” a Vienna. Lui stesso vi prendeva scarsamente parte. Questo grande, questo instancabile sperimen­ tatore conservava le distanze da queste esperienze»*. Max Reinhardt, profondamente «impressionista», faceva benissimo a meno delle esperienze degli espressionisti. Era già il maestro della magia soggiogante dell’illuminazione.

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Cinema, n. 1, novembre 1954: il mio libro è stato «sfruttato» in Cinema 62, nn. 69 e 70: Acfualifé de l'expressionnisme, di un certo Paul Leu trat. Ne prendo atto. Wien, Paul Neff Verlag.

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Fino ad allora, si era già sempre compiaciuto di avvolgere le forme in una calda luce, che scendeva miracolosamente da una sorgente invisibile, di moltiplicare queste sorgenti, di arro­ tondare, fondere e scavare le superfici con il velluto delle om­ bre, all’unico scopo di sopprimere il naturalismo e il verismo minuziosi, cari alla generazione precedente9. Durante gli ultimi anni della guerra 1914-1918, Max Rein­ hardt, cui si era spesso rimproverata l’importanza predomi­ nante assunta dalla scenografia nelle sue regie, fu costretto, da­ te la penuria di materie prime e le difficoltà finanziarie, ad ab­ bandonare la sontuosità delle sue architetture. Egli collocò in una scenografia fissa, preferibilmente tra due immense colon­ ne, tutte le scene di una stessa opera che si svolgevano in luo­ ghi diversi. La luce e l’oscurità assunsero allora un significato nuovo, sostituendosi alla varietà delle architetture, o meglio animando e trasformando una scenografìa unica: luci cangian­ ti, che s’incrociavano e si contrapponevano, erano l’unico mez­ zo per rimediare alla mediocrità delle stoffe «artificiali» e per creare un’intensità d’atmosfera variabile secondo le esigenze dell’intreccio. Spesso una scena breve e veemente spiccava lu­ minosa in mezzo alle tenebre, e lo slancio di questo intermezzo veniva come assorbito da una notte implacabile al momento giusto, mentre un istante dopo la luce irrompeva su un’altra scena, cambiamento consentito dalla piattaforma girevole del Deutsches Theater o dalla vasta arena del Grosses Schauspielhaus. Da questa circostanza Reinhardt prese spunto per esco­ gitare un nuovo modo di raggruppare i personaggi, per fissarli in tutta la loro plasticità messa in risalto dalla luce; del resto, Reinhardt, dedicatosi prima del 1914 a mille sfumature e impressioni caleidoscopiche, faceva appello all’immaginazione degli spettatori. Il suo teatro diventava un vasto spazio in cui turbinava il movimento e dove un'evoluzione incessante metamorfosava la vita. Pannelli in muratura e drappeggi dissimulavano in parte la curva dolce d*un «Rundhorizont», un orizzonte la cui superfìcie concava era inondata ora dalla luce della luna, ora dai raggi di un sole sfolgorante, per essere poi subito reimmersa in un'oscurità dove si vedevano tremolare le stelle, mentre il gioco d'una particolare lanterna magica la copriva di nubi mutevoli.

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una folla è più densa nel segreto delle ombre. (Lubitsch, istrui­ to da Reinhardt, lo aveva capito benissimo quando girò Theonis, la donna dei Faraoni.) Illuminazioni di questo genere ac­ crescono la tensione di un’atmosfera, il patetico di un destino tragico e persino il burlesco sapido di una «commedia del­ l'arte». 1 registi del cinema tedesco non avevano quindi nessun bi­ sogno di ricordarsi della regia del Mendicante per servirsi a lo­ ro volta degli effetti seducenti di un chiaroscuro che era loro familiare già da anni. Prova ne è il film a episodi Homunculus, troppo poco cono­ sciuto e girato ben prima di Caligari. In quest’opera precorri­ trice, si ritrovano tutti i contrasti di nero e bianco, tutti gli shock di luce e ombra, e tutti gli elementi classici del film tede­ sco, da Destino fino a Metropolis. La vera Germania - non dimentichiamo che Reinhardt era israelita - aveva una naturale inclinazione a preferire la pe­ nombra alla luce. Nel suo Tramonto dell’occidente, manifesto altamente rappresentativo della «Weltanschauung» tedesca, Oswald Spengler esalta la bruma, l’enigmatico chiaroscuro, il «kolossal» e la solitudine infinita. Questo spazio illimitato, ca­ ro all’«anima faustiana» dell’uomo del nord, non è mai chiaro e limpido, vi fluttuano effluvi tenebrosi e densi; il «Walhalla» germanico - simbolo della solitudine sgomenta - è invaso da un grigiore in cui regnano eroi asociali e dei ostili1". L’anima «faustiana» di Spengler, invaghita di questa nebulo­ sità, avrà una predilezione per il colore bruno, «il bruno della bottega di Rembrandt». Questo bruno, «colore protestante» assente nell’arcobaleno, è pertanto «il più irreale di tutti i colo­ ri»; è quello dell’anima, diventa l’emblema del trascendentale, dell’infinito, e dello «spaziale». L'adorazione del bruno, del 1

Solo i solitari, continua Spengler, possono conoscere «l’esperienza cosmica»; essi solo sono capaci di provare la nostalgia della foresta, l'indicibile isolamento. Cosi Ivan Cassou, dopo aver assistito a una proiezione dei Nibelunghi di Lung alla sua uscita in Francia, ha potuto dire che rappresentava «la tcstinioiuanza nuova e sconvolgente della solitudine dell'iiomo».

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26. Il doppio demoniaco dello Studente di Praga. 27 L’ambiguità della strada notturna in Le mani dell'altro di Robert Wiene.

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brunastro, e fatalmente dell’ombra, risale al famoso libro di Julius Langbehn, Rembrandt als Erzieher (pubblicato nel 1890), in cui Rembrandt rappresenta il tipo dell’ariano autenti­ co, dotato del carattere chiaroscurale dei «bassi tedeschi». Di conseguenza, come tutti i tedeschi, Rembrandt, il maestro del «nero bilioso», del .melanconico, ricerca - sempre secondo Langbehn - «il verso oscuro dell’esistenza, l’ora crepuscolare dove lo scuro pare più scuro e il chiaro più chiaro». Il chiaro­ scuro sarebbe il colore «basso tedesco» per eccellenza, essen­ do il tedesco «allo stesso tempo duro e tenero». A leggere certe frasi di Jean Paul (questo romantico troppo dimenticato da quelli che citano Hoffmann ad ogni momento), specie nel suo Titano, scritto nel 1802, ci sembra veramente che scorra davanti ai nostri occhi un film tedesco. Egli ci parla, ad esempio, di una stanza «chiaroscura», dove l’anima freme a causa di un raggio di luce che, simile a una strana lama roven­ te, attraversa l’alta finestra, e di una striscia di polvere animata e, per cosi dire, «resuscitata», che vi gioca, sempre sul punto di prendere forma. Il paesaggio partecipa evidentemente a questa ricerca del chiaroscuro: «Spesso - scrive Holderlin nel suo Iperione - il mio cuore si sente a suo agio in questa penombra. Quando contemplo la natura insondabile, non so perché questo idolo velato mi strappa delle lacrime sante e benedette». Ed ecco Holderlin chiedersi: «Questa penombra sarebbe dunque il nostro elemento?». Oppure: «È forse l’ombra la patria della nostra anima?». Eterno amore dell’incerto, quindi della notte, alla cui gloria quell’usignolo tisico che è Novalis compone inni languidi, do­ ve essa offre un riparo sicuro, lontano dalla luce «povera e puerile», lontano dalla vita ostile. Affascinato dall’oscuro seno materno di questa notte, dispensatrice di sogni e del sopore estremo, Novalis non vi cerca altro, in fondo, che l’eco della sua inquietudine. Cosi come nel torbido parossismo di Zara­

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thustra ritroviamo l’ambigua nostalgia delle tenebre cosi diffu­ sa tra i tedeschi: «Luce io sono: ah, fossi notte!... Ah, fossi oscu­ ro e notturno! Come vorrei succhiare alle mammelle della luce». Spengler, teorico del misticismo, ha tentato di chiarire i moti­ vi di questa preferenza: la luce del giorno impone dei limiti al­ l’occhio, crea oggetti corporei. La notte dissolve i corpi; il gior­ no dissolve l’anima. È in questo senso che si può dire, sempre secondo Spengler, che l’oscurità è una componente tipicamente germanica; già ì’Edda, epopea scandinava, portava «la traccia di queste notti fonde in cui Faust medita nel suo studio». L’anima faustiana del nordico si abbandona agli spazi brumo­ si, mentre Reinhardt dà forma al suo mondo magico con la luce, l’oscurità fungendo solo da contrappunto. È questa la doppia eredità del cinema tedesco. Paul Wegener aveva una personalità troppo potente per ac­ contentarsi di imitare la regia reinhardtiana. Ha dunque adat­ tato all’arte cinematografica la magia delle luci che inondavano il palcoscenico del Deutsches Theater. Durante gli anni della guerra, Wegener aveva girato i suoi «Màrchenfilme» come II matrimonio di Rùbezahl o II cacciato­ re di topi di Hameln, e da questa frequentazione degli scenari naturali aveva conservato una fluidità di atmosfera che seppe mantenere persino nel suo Golem, girato in studio. Una levità aerea avvolge le scene di quel cerchio di bambini inghirlandati di fiori davanti al cancello del ghetto. Wegener non manca di usare tutti gli effetti di luce di Reinhardt: stelle sfavillanti sul velluto del cielo, un lume che sorge dal braciere di un alchimista, una piccola lampada a olio che illumina l’apparizione di Myriam nell’angolo di una stanza immersa nell’ombra, un servo che tiene una lanterna, o ancora una fila di torce vacillanti nella notte, e, nella sinagoga, gli ef­ fetti di una luce tremante sulle forme indistinte, prosternate, avvolte in mantelli, mentre emerge dall’oscurità il candelabro sacro dai sette bracci, circondato da un alone.

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Incanto di queste luci sfumate, da cui sono assenti lo shock dei contrasti, la vivacità eccessiva ricercata dagli espressionisti. Una luce calda alla Rembrandt inonda gli interni, modella il vi­ so devastato del vecchio rabbino, e, in un rilievo raddolcito, il giovane discepolo sullo sfondo scuro; l’ombra delle sbarre di una finestra si profila su un vestito. La scena dei cerchi di fiamme dell’evocazione del demonio è piu suggestiva ancora di quella analoga nel Faust di Murnau: la testa fosforescente del demonio, con i suoi occhi tristi e vuoti, sospeso nella grande disperazione del nulla, si trasforma in una enorme maschera cinese, il cui profilo sorge ai bordi dello schermo con una sorta di ferocia prodigiosa spinta all’estremo dallo sfruttamento dei mezzi visivi.

Paul Wegener ha sempre smentito di aver avuto intenzione di fare con il suo Golem un film espressionista. Ciò non impe­ disce che questo film sia considerato tale, probabilmente a causa delle famose scenografie di Poelzig, creatore del Grosses Schauspielhaus". Per Poelzig, dichiara pressappoco Kurtz, tutti gli elementi dinamici, estatici, fantastici e patetici di un edificio si esprimo­ no soltanto nella facciata, senza che il piano della costruzione stessa sia coinvolto in questo rinnovamento delle forme. Ciò spiega perché le scenografie del Golem sono cosi diver­ se da quelle di Caligari. La forma tipica degli edifici gotici tra­ spare in queste case dalle cuspidi aguzze, molto alte e molto strette, coperte di stoppie. I loro contorni angolosi, obliqui, i loro volumi labili, i loro gradini logori, incavati, concorrono a dare l’immagine, tutto sommato non troppo lontana dalla real­ tà, di un ghetto malsano e sovrappopolato, dove si vive in 11

Se si paragona il professor Hans Poelzig ad altri architetti moderni quali Le Corbusier e Mies van der Rohe, risulta una personalità alquanto singolare: nel suo Grosses Schauspielhaus, riadattamento di un circo berlinese (trasformato da Reinhardt in arena greca), ricreava una specie di antro misterioso, decorato da stalattiti; inoltre nel foyer e nei corridoi si vedeva brillare il loto dei capitelli egizi illuminati con luci indirette, mentre le strette arcate all’esterno ricordavano vagamente, modificate in base a influenze gotiche, lo stile del Colosseo.

Magia della luce. La penombra

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un’angoscia senza fine. Vediamo qual è il significato dell’ani­ mazione cosi poco astratta di queste scenografie: le cuspidi strette si accordano, per cosi dire, ai cappelli a punta degli ebrei, ai loro pizzi agitati dal vento, allo svolazzare sovreccitato delle loro mani, alle loro braccia alzate, protese verso uno spa­ zio vuoto eppure cosi ristretto, a questa inquietudine variopin­ ta degli orientali. Questa folla, immersa o nel terrore o nella gioia eccessiva, ricorda a tratti i contorni fiammeggianti, il mo­ vimento frastagliato di un quadro di E1 Greco. Lo slancio di queste masse non ha niente in comune con il meccanismo che domina una scena di comparse in Lubitsch, né con la distribu­ zione geometrica delle folle in Fritz Lang. L’effetto è partico­ larmente plastico quando l’ornamentale deriva dal naturale: per esempio, questa inquadratura dall’alto del tabernacolo del­ la Thorà, e, sui due lati, la fila delle grandi trombe sacre. Negli interni, nervature e ogive gotiche mutate in semi-ellissi oblique formano una sorta di rete le cui maglie inquadrano i personaggi, ciò che conferisce un elemento di stabilità alla vibra­ zione di un’atmosfera fluttuante e talvolta curiosamente «.im­ pressionista» per questa struttura autenticamente espressionista. Di volta in volta, interviene tuttavia lo shock espressionista di certe illuminazioni che scoppiano come un grido acuto. È, nelle tenebre del laboratorio, la conchiglia violentemente illu­ minata della scala a chiocciola, sono i bagliori improvvisi getta­ ti dal candelabro a sette bracci, sono i visi lividi, angosciati, dei fedeli nella sinagoga. E abbastanza sorprendente che l’«invasione nordica», l’arri­ vo di tanti registi e attori danesi negli studi di Berlino, - se pur ha aperto la strada al chiaroscuro, - non abbia segnato piu profondamente il cinema tedesco. La magia bianca degli scan­ dinavi è stata sconfitta dalla magia nera dei cineasti tedeschi. È per il fatto di aver ricavato L'erede dei Grieshuus da un racconto tipicamente nordico di Storm, scrittore dello Schles­ wig (per molto tempo possedimento danese), che Arthur von

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Lo schermo demoniaco

Gerlach, regista tedesco, ha potuto creare uno dei rari film te­ deschi dove si respiri l’aria libera e la poesia nostalgica propria di un film svedese? Neppure una sceneggiatura un po’ melo­ drammatica, dalle pesanti didascalie, elaborata da Thea von Harbou, questa Vicky Baum del cinema tedesco, neppure un castello in rovina alla maniera espressionista (eretto sui vasti spazi di Neubabelsberg) hanno potuto attenuare quella melo­ dia di «ballata» malinconica - che emana anche dai «Màrchenfilme» di Paul Wegener. La «Liineburger Heide» della Germania del nord offre il suo scenario naturale di lande desolate a questa cupa vicenda di amore infelice, di fratricidio e di espiazione. Nella pianura dagli arbusti nerastri lacerati dalla tempesta galoppano, giganteschi affreschi equestri scolpiti contro un cielo pallido, cavalieri dagli ampi mantelli, le cui pieghe si gonfiano al vento; le cavalcature s’impennano: i movimenti, l’uragano del cuore e quello della natura si confondono. Negli interni, tenebre, luci, apparizioni sovrimpressionate tessono il loro denso velo. È la diretta conti­ nuazione del chiaroscuro «impressionista» che già esisteva nel Golem e che il Faust di Murnau porterà alla perfezione.

IV

Lubitsch e il film in costume

Egli può ~ seguitò Goethe - sembrare» alla prima conoscenza» un po' aspro, e sinanco un po’ rozzo. Ma è solo apparenza. Io non conosco forse persona più sensibile ai lui. E poi non si deve dimenticare che egli ha passato mezzo secolo a Berlino. E là, come io vedo da troppi segni» vige una zuffa umana cosi disperata da non lasciare molto posto alla cortesia. Là non si possono avere peli sulla lingua, ed è necessario essere un po' arroganti per tenersi a galla.

J. P. Eckermann, Colloqui con Goethe, 4 dicembre 1823, a proposito del suo amico Zelter che prima di divenire musicista fu muratore a Berlino.

Schizzo di Hermann Warm per Caligari.

Mudarne Du Barry, Sumurun c Anna Balena, Danton, Otello,

1919 1920 1921 1922

I film di Buchowetzki, Oswald e Eichberg L’ondata di film storici da cui è sommerso il cinema tedesco fra il 1919 e il 1923-24, e che vanno sotto il nome di «Kostiimfilm» (cosa abbastanza significativa), non è altro se non l’espressione del bisogno di evadere nel fasto da parte di un popolo impoverito e deluso, e per di più da sempre sensibile al lustro delle parate. La maggior parte di questi film, che nella sua Storia del cinema Paul Rotha definisce «commercial pro­ ducts of the property room and Reinhardt», hanno conservato solo in modo abbastanza superficiale alcuni elementi puramen­ te esteriori delle regie reinhardtiane. Diversi film, i cui costumi sembrano direttamente usciti da una polverosa bottega di tro­ varobe, si limitano a un’imitazione d’accatto: alcuni raggrup­ pamenti decorativi dalla simmetria studiata, e una stilizzazione del resto banalizzata da una rigida stereotipia. In effetti, all’influenza di Max Reinhardt è dovuto il fatto che tanti film in costume di quel periodo siano ambientati nel Rinascimento, come La peste di Firenze, uno degli episodi di Destino, Lucrezia Forgia, Monna Vanna. Accade che il ricordo di una regia di Reinhardt spinga registi di second’ordine a fil­ mare qualche scena con inquadrature sorprendenti: in Lucrezia

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Lo schermo demoniaco

Borgia, ad esempio, film di Richard Oswald, una fila di soldati che formano una sorta di fìtta siepe irta di lance ricorda con molta esattezza una scena dell’Ewrzco IV di Shakespeare, realiz­ zata da Reinhardt, dove guerrieri disposti lungo la piattaforma riuscivano a dare la stessa impressione di armata compatta. Co­ me in Reinhardt, alcune armature decorate, una bandiera svo­ lazzante stabiliscono dei punti di riferimento. Queste composi­ zioni, attraverso l’arte reinhardtiana, sembrano quasi un rifles­ so delle celebri battaglie di Paolo Uccello. In Monna Vanna di Richard Eichberg, regista che si accon­ tenterà in seguito di girare insipide commedie, scopriamo im­ provvisamente una scena stupenda come quella dei guerrieri disposti in emiciclo, che drizzano le loro lance da tutte le dire­ zioni contro un personaggio isolato che tiene la folla in scacco. Il fatto di lasciare uno spazio libero tra un personaggio princi­ pale e le comparse, di far convergere un fascio di linee verso questa figura isolata, in modo da guidare lo sguardo dello spet­ tatore verso il motivo centrale, tutto ciò deriva ancora da Reinhardt. Ovunque si riconosce il suo modo di procedere, persino in questi palazzi che fiancheggiano una piazza, a ricor­ dare vistosamente il palcoscenico di un teatro. (Ricordiamo an­ cora, di passaggio, la famosa piazza quadrata prediletta da Lubitsch per le sue scene di massa in Madame Du Barry, in Sumurun e Anna Bolena.) Chi avesse avuto il proposito di filmare un documentario sull’arte di Max Reinhardt non avrebbe potuto far meglio. Ben prima di Lubitsch, Oswald aveva capito quanto il cine­ ma potesse giovarsi della magia dell’illuminazione reinhardtia­ na. Per il suo film Carlo e Elisabetta, girato nel 1924, aveva del resto a sua disposizione un modello diretto: la regia del Don Carlos, rappresentato a più riprese dal Deutsches Theater. Come in Reinhardt, i personaggi sorgono bruscamente, ba­ gnati da invisibili sorgenti di luce; in una stanza dall’alta fine­ stra centrale scende un fiotto di luce, che trafigge l’oscurità senza dissolverla. I broccati scintillano, si disegnano ricami d’o-

Lubitsch c il film in costume

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ro, ricchi paramenti di velluto s’illuminano di luce soffusa. La tristezza del pallido viso di Veidt, l’infante di Spagna, emerge dalle tenebre, evocando Amleto. Ma queste immagini estremamente suggestive sono in contrasto con altre, sprovviste di tale magia: sintomo anche troppo evidente della mediocrità della regia e della direzione degli attori (anche se tutti facevano parte della troupe di Reinhardt). Questi film, ispirati al ricordo più o meno tenue delle regie del Deutsches Theater, mostrano subito la corda: in Otello, di Dimitri Buchowetzki, regista russo che ha girato in Germania, non resta nulla della Venezia opalescente che indoviniamo in Destino. Lo scorrere fluido di un’azione, che Reinhardt rende­ va condensando il ritmo d’un destino tragico, si inceppa in sce­ ne maldestramente appesantite da ingenui sottotitoli. Si salva solo il personaggio di Jago, che Werner Krauss ave­ va già impersonato in teatro; egli ne fa una specie di strano buf­ fone, il cui vestito di seta attillato e luccicante fa risaltare in modo spropositato la pinguedine del corpo. Un misto di balle­ rino d’opera, di personaggio della commedia italiana e di de­ mone vagamente mefistofelico, Jago risveglia la curiosità dello spettatore con i suoi saltelli frenetici, con i suoi balzi, con il pia­ cere maligno che prova a ingarbugliare i fili dell’intreccio, a sconvolgere i destini. Lubitsch, che fece cosi a lungo parte della troupe di Max Reinhardt, è stato meno sensibile alla sua influenza degli altri cineasti tedeschi. Il fatto è che Lubitsch, campione tipico dello spirito berlinese, che aveva iniziato la sua carriera cinematogra­ fica filmando farse piuttosto grossolane, ha visto in queste tra­ gedie pseudostoriche semplicemente un’occasione come un’al­ tra per mettere in risalto il loro aspetto comico, esagerandone la volgarità per il maggior diletto del suo pubblico. Ben prima che Hitler venisse a spegnere il loro buon senso, i berlinesi passavano per realisti e addirittura materialisti, vivaci, sempre pronti a cogliere il ridicolo, portati alla battuta pronta e grafitante. In questo atteggiamento positivo e terra terra dello

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«Sprceathen», l’arrivo degli ugonotti aveva introdotto un tocco di spirito francese. All’inizio dell’ottocento, all’epoca del salot­ to di Rahel von Varnhagen, la borghesia agiata ebraica vi ag­ giunse la sua perspicacia intellettuale. Poi, verso la fine del se­ colo, vi si associò l'umorismo disinvolto, un po' cinico della Konfektion (grandi magazzini di abbigliamento), di ambiente ebraico piccolo-borghese, che portò con sé il suo specifico sen­ so del comico, improntato a una sorta di fatalismo proprio di chi è abituato a passare in mezzo a pogrom e persecuzioni. Tali sono i diversi ingredienti che compongono il «Lubitsch touch». Più tardi, negli Stati Uniti, Lubitsch si affinerà, e capi­ rà che era tempo per lui di sbarazzarsi di una certa grossolanità molto «mitteleuropea». E cosi che modificherà radicalmente gli effetti spesso grevi delle sue commedie borghesi, affrettan­ dosi ad adottare una elegante disinvoltura, dove peraltro ri­ marrà sempre un po’ della piccola vanità del nuovo ricco. Tutti questi elementi contribuiranno tuttavia all’elaborazione di pro­ cedimenti ellittici molto sapienti, fondati sui «rapierlike com­ ments of his camera», menzionati da Lewis Jacobs. Lubitsch, insomma, per perfezionare il suo famoso «touch», doveva solo sviluppare le potenzialità del suo bagaglio tedesco: la presenza di spirito berlinese, il gusto del particolare realistico, la ten­ denza ebraica ai sottintesi, che portava spontaneamente a im­ magini a doppio senso. Sin dall’inizio della sua carriera, quando era ancora a Berlino, Lubitsch ha saputo sfruttare il ridicolo, suggerendo un tratto co­ mico con un’immagine che sfiorava appena l’azione ma rivelava attraverso allusioni l’essenziale di una situazione o di un caratte­ re. Il contrasto fra l’importanza preminente di un personaggio e un particolare secondario verrà utilizzato a più riprese in film co­ me Madame Du Barry o Anna Bolena. Tali sottintesi visivi, che egli arricchirà al tempo del sonoro con l’uso caleidoscopico del suono, sono messi in risalto da un abile montaggio. Lubitsch diventa, per cosi dire, quel famoso cameriere per il quale non esistono eroi. E un atteggiamento abbastanza scon-

Ltibitsch e il film in costume

L’INFLUENZA DI MAX RE1N1 (ARDI

28. I.N.R.l. di Robert Wiene. 29. Monna Vanna di Richard Eichberg.

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Lubitsch e il film in costume

L*INFLUENZA DI MAX REINHARDT

JO. Lucrezia Borgia di Richard Oswald. 3L Werner Krauss, nel molo di Robespierre, in Danton di Dimitri Buchowetzki 32. Carlo e Elisabetta di Richard Oswald. 33. Lucrezia Borgia

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L’INFLUENZA PI MAX REINHARDT

34. Asta Nielsen in Vanina di Arthur von Gerlach. 35. Emil tannings in lì gabinetto delle figure di cera di Pani Leni. 36. 37. Madame Da Parry di Ernst Lubitsch

Liibirsch e il film in cosi urne

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certame per uno spirito latino, ma quest’occhiata gettata tra le quinte, per superficiale che sia, presta nondimeno un soffio d’umanità ai suoi personaggi. Per questo gli americani, che non sono soliti rispettare l’autenticità storica (soprattutto se al­ trui), hanno potuto considerare Lubitsch il «great humanizer of history», e vedere in lui il «Griffith tedesco» che con un «realismo per nulla romanzato ( ! ) restituisce la Storia nella sua grandezza barbara». Non ci sembra, tuttavia, che il fatto di mostrare un re che fa la manicure alla sua amante o dà in tutta semplicità un pizzicotto a una bella figliola rappresenti revo­ cazione della realtà senza belletto e della Storia presa dal vivo! Per Lubitsch, del resto, la Storia non sarà altro che un pre­ testo per girare film in fastosi costumi d’epoca: sete, velluti e paramenti incantano l’occhio esperto del vecchio commesso della Konfektion. Per giunta, questo «showman» nato, e non formato da Hollywood, fiuta la bella occasione di raccontare, sotto la varietà delle preziose stoffe, un’avventura amorosa, e di mescolare alla storia romanzata il melodrammatico slancio delle folle, accuratamente composte di personaggi stereotipati'. Assorto nelle facezie degli «accessori», Lubitsch ricorre ra­ ramente al contrasto ombra e luce già in voga in Germania a quel tempo. Alla sua posizione morale, tipicamente berlinese, mai attratta dal sogno e dal mistero, - per lui tanto l’inferno quanto il paradiso possono aspettare! - è dovuta la tecnica talora spenta di cui si serve, fino a quando la sua astuzia gli permetterà di scoprire quanto profitto si possa ricavare dal­ l’uso del famoso chiaroscuro. Occorre osservare che i! proposito di Lubitsch non era» come ancor oggi assicurano tutte le storie del cinema francese, di «ridicolizzare, schernire e umiliare i monarchi francesi e le grandi figure della Rivoluzione» in Madame Dm Barry, né di «scalzare il tradizionale rispetto ori tannico per la monarchia e aizzare il puritanesimo america­ no contro la “merry old England"» in Anna Balena. Nel 1919-20 era soprattutto la valuta straniera a interessare la Germania, e la reazionaria industria pesante che di­ rigeva la produzione considerava questi film pseudostorici assai meno «strumenti di vendetta» che strumenti di profitto. (Del resto certi personaggi troppo stereoti­ pati della Rivoluzione francese - Torco con il coltello tra i denti e la megera scarmi­ gliata - si ritrovano ugualmente in Le due orfanelle di Griffith o in Fogtt del libro di Satana di Cari Theodor Dreyer J

Lubitsch c il film in costume

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Eppure, bisogna riconoscere che la regia di Madame Du Barry non manca di alcune sfumature più studiate. Se i grandi ricevimenti di corte hanno qualcosa di rigido nonostante lo sfoggio di drappeggi sontuosi, di pavimenti e parquets trasluci­ di come specchi, le scene di rivoluzione portano l’impronta, magari per effetto di una reminiscenza inconsapevole, della re­ gia di due opere su Danton, allestite da Reinhardt: quella del dramma di Biichner e quella del dramma di Romain Rolland. Per esempio, nelle scene che illustrano la cospirazione contro la favorita, il raggruppamento dei personaggi che sorgono dal­ l’ombra li apparenta a quelli del Danton di Buchowetzki, che seguiva più fedelmente il suo modello. Ma è soprattutto nelle scene di massa, per cui Lubitsch è fa­ moso, che prevale il ricordo dell’arte reinhardtiana; da alcune fotografie, da alcuni fotogrammi, risultano tuttavia evidenti la rigida regolarità che presiede alla distribuzione delle comparse e la meccanicità di una siffatta imitazione. Certo a volte que­ st’ordine, eccessivamente calcolato, si anima di un movimento di flusso e riflusso, come in Anna Balena l’irrompere della folla davanti alla cattedrale2. In Madame Du Barry, le masse rivoluzionarie che premono intorno alla ghigliottina, reclamando la morte della stessa favo­ rita, alzano il braccio destro con un effetto di simmetria che si nota spesso nei film tedeschi quando la massa delle comparse ha l’incarico di esprimere il furore o l’esaltazione. Questi gesti imposti da Reinhardt, nel 1910, ai cori antichi nella regia di Edipo re (rappresentato in un circo berlinese) perdono ogni valore nella maggior parte dei film tedeschi, dove all’ispirazio­ ne si sostituisce l’applicazione di un procedimento. Soprattutto Sumurun, pantomima prediletta di Max Rein­ hardt (che la rappresentò già nel 1909, riprendendola in seguiL'architettura delle piazze in Anna Bolena o in Madame Du Barry è più realistica di quella realizzata da Reinhardt. Lubitsch non ha del resto alcuno scrupolo a prende­ re gli elementi della sua scenografìa da dove gli pare: in Sumurun, ad esempio» tro­ viamo riprodotta quasi esattamente» con le sue case circostanti» la scala come mo­ dellata nella creta inventata da Poelzig per il Golem.

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Lubitsch e il him in costume

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ME< X ANISMC) < JRNAMEN PALE DI LUBITSCH

58. - 40. Fotogrammi da Anna Balena. 4L Due torcile.

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to e rimodellandola ogni volta con amore in tutto il suo fasto di racconto delle Mille e una notte), più che non i due Danton, ha segnato lo stile di Lubitsch. Se in Sumurun Lubitsch stesso nella parte del gobbo» buffone tragico, si lancia in una danza bizzarra, tutta a scatti, meccanica, dove braccia e gambe sembrano animate da una vita indipenden­ te, ciò accade perché si è ispirato a questo aspetto caleidoscopico da commedia dell’arte che la celebre pantomima evocava sulla scena. Ovunque traspaia questo ritmo leggero, cosi raro per un film tedesco, è a Reinhardt che occorre rendere omaggio. Alcune scene di Sumurun fanno già presentire l’eleganza del futuro Lubitsch americanizzato: nella bottega di un mercante, ad esempio, alcuni commessi-clown (sempre complici del loro pubblico, come il regista) dispiegano e srotolano ricche stoffe con gesti da prestigiatori. Ancora molto «Lubitsch touch» si tro­ va nelle inquadrature dall’alto di alcuni cuscini disposti su un tappeto, intorno a cui improvvisamente prende il volo e si di­ sperde in graziosi cerchi una nuvola di vezzose ancelle indaffara­ te. Il musical americano si ispirerà a questi delicati arabeschi. I film in costume tedeschi hanno inoltre subito, ma in misu­ ra inferiore a quanto si creda comunemente, un’altra influenza, quella dei film storici spettacolari del cinema italiano. È que­ sta un’influenza piuttosto di superfìcie, anche se contraddistin­ gue sempre le scene di massa nei vecchi «Monumentai Alme», sia che si tratti dei due film di Joe May - Veritas vincit in tre episodi (1918) e II sepolcro indiano in due episodi (1921) - o di un film indubbiamente ritardatario come Elena, la caduta di Troia (1923-24) di un regista di terz’ordine, Manfred Noa. Abbiamo visto che non bisogna neanche sopravvalutare l’apporto scandinavo, non più di quello dei registi russi emi­ grati negli studi tedeschi. Buchowetzki ne è un esempio carat­ teristico: il suo film Pietro il grande, tratto dalla storia naziona­ le russa, è un film tedesco, a pieno titolo.

Il fantastico stilizzato. L’«incantesttno di laboratorio»

1 Riovani impegnati in campo culturale, ed io fra loro, hanno fatto della tragedia un feticcio, esprìmendo un'aperta ribellione contro le vecchie risposte e le forme consunte che oscillano dall’ingenua dolcezza e luminosità ottocentesca all’estremo opposto del pessimismo per amore del pessimismo. F- Lang, Happily ever after, in Penguin film review, 1948.

Uno dei manifesti per Caligari.

Destino di Fritz Lang, 1921

Ciò che caratterizza il popolo tedesco è il gusto della morte, mentre le altre nazioni hanno il gusto della vita, scrive Clemen­ ceau in una delle sue opere. Ma non si tratta piuttosto, come lascia intendere Holderlin neìì'Iperione, di un’ossessione del fantasma della distruzione; e il tedesco, nella sua intensa paura della morte, non si consuma nella ricerca di strumenti che gli consentano di sfuggire al Destino? 1 tilm muti di Lang e le sue sceneggiature scritte per Rippert il­ lustrano a più riprese il tema della morte, trattato su un registro minore; è il Leitmotiv di Destino, il cui titolo tedesco è Der Miide Tod, la morte stanca. Inquadrati da una storia principale, quella della giovane che vuole strappare il suo amante alla Morte, tre episodi (che si svolgono in epoche e paesi diversi) non ne sono che delle varianti la cui conclusione è identica: tutti gli sforzi ten­ tati dalla giovane per salvare l’amato la conducono alla rovina1. La Morte, maschile in tedesco, non viene qui presentata in una luce crudele Allo stesso modo, in un racconto di Andersen, una madre fa visita alla Morte per strap­ parle il suo bambino. (Andersen è ancora la fonte di un altro film tedesco. Lo dente di Praga, dove ritroviamo l'influenza di un suo racconto. L'ombra. insieme a quella di Hoffmann e di Chain isso.) «L'angelo dell'ultima ora - scrive Jean Paul nella sua Vita di Quintus Ftx/cin - quello che chiamiamo con parola tanto dura la Morte, e il più tenero, il migliore degli angeli, scelto per cogliere, con gesti dolci e delicati, il cuore umano che appassisce. Staccandolo dalla vita, estraendolo dal no­ stro petto gelato, lo porta, senza gualcirlo, nelle sue mani tiepide, lassù nelI'Eden pcr riscaldarlo.»

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Ma Lang ha conosciuto un’evoluzione: nel 1948, nel suo ar­ ticolo sull’«happy ending», ribadisce più volte il rifiuto di gira­ re, dora in poi, film dove «man is trapped by fate», di realizza­ re cioè una tragedia del tutto gratuita, provocata unicamente da un destino implacabile. Fra tutti i cineasti tedeschi, è stato Fritz Lang ad aver subito nel modo più vistoso l’influenza di Max Reinhardt, anche se, come Wegener, conserva una visione molto personale2. Questa origine del suo stile è avvertibile soprattutto in uno degli episodi di Destino, quello che si svolge a Venezia durante il Rinascimento: su uno sfondo limpido alcuni gradini disegnano i loro nitidi contorni elevandosi in diagonale; una folla lieta ne di­ scende, con quel ritmo particolare, quei movimenti pieni di slan­ cio, che caratterizzavano le comparse di Reinhardt. Scene di carnevale notturno, dove torce scintillano nel buio e dove le te­ nebre sembrano tremare, ricordano l’impressionismo cangiante con cui questo grande mago del teatro trattava i drammi di Shakespeare. Attraverso la mediazione di Reinhardt ritroviamo anche in Lang tracce di queste scene fresche e ardenti del quat­ trocento, quali rivivono sui lati dei cassoni delle spose fiorentine; l’andatura noncurante di snelli efebi in farsetto e mantello, ad­ dossati a un’arcata, appoggiati a un muro o lanciati su una scala, all’inseguimento di un avversario, non ha altra origine. Lang è un architetto, ne ha del resto la formazione: farà sporgere le scanalature ogivali del portale gotico d’una cripta con una plasticità luminosa in contrasto con i muri scuri. Ri­ spetto a una tale ricerca, la scenografia di Caligari sembra ri­ dotta ad arabeschi piani e puramente lineari, totalmente sprov­ vista della magia del chiaroscuro. Ma è soprattutto il laboratorio del piccolo farmacista che presenta un aspetto singolare: vero laboratorio d’alchimista, vi brillano misteriosamente innumerevoli bottiglie e strumenti; siNel suo eclettismo Lang si è ricordato nell'episodio dalle Mille e una notte di un passaggio di Cabina. Del resto» nel Ladro di Bagdad. Douglas Fairbanks ha «preso in prestito» la scena del tappeto volante nell'episodio cinese, che più tardi, con tut­ ta la sua maestria, Murnau trasporrà nel Faust.

Il fantastico stilizzato. L’«incantcsinio di laboratorio»

! FILM IN COSTUME

42. Anna Bolena. 43. L’arresto di Danton nel film omonimo,

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mili a fantasmi fosforescenti, sorgono dalle tenebre scheletri e animali impagliati. Vi regna un’atmosfera satanica; sembra che orribili complotti debbano tramarsi in questo luogo, uscito tut­ to intero da un racconto di Hoffmann. (Eppure il farmacista è soltanto un brav’uomo inoffensivo, che strapperà la coppa av­ velenata dalle mani della giovane amante.) Questo metodo, che consiste nel sottolineare, nel mettere in risalto, spesso con eccesso, il rilievo c i contorni di un og­ getto o i particolari di una scenografia, metodo che non scor­ giamo ancora nel Golem (la cui atmosfera è più densa), di­ venterà una caratteristica del film tedesco. E da quel momen­ to che si cominceranno a illuminare le scenografie dal basso, accentuandone cosi il rilievo, deformando e trasformando i volumi con un intreccio di linee abbaglianti e insolite. Si giungerà anche a disporre enormi proiettori sui lati, di sbie­ co, in modo da illuminare violentemente l'architettura e da produrre, per mezzo di superfici sporgenti, quegli stridenti accordi di ombre e di luci divenuti classici. I registi e gli ope­ ratori tedeschi inizieranno a giocare virtuosisticamente con le luci, al punto che Kurtz potrà dire che la luce crea talvolta «profondità senza fondo». Essi finiranno col frastagliare i contorni e le superfici stesse per renderle irrazionali, esage­ rando le incavature delle ombre e i fasci di luce; contempora­ neamente, accentueranno alcuni contorni, modellando le for­ me con una striscia luminosa e creando cosi volumi artificiali. Gioco di contrasti o di contrappunti che conduce a quell’«incantesimo di laboratorio», per metà palpabile per metà irrea­ le, di cui parla Jean Cassou. Ritroviamo queste contrapposizioni violente negli autori ro­ mantici come Eichendorff; nel suo romanzo Presentimento e presente, parlando di un gruppo gioioso di maschere che inva­ de una corte oscura e costringe un cavaliere errante a entrare nella danza, Eichendorff nota: «Un’unica candela infilata in un palo gettava su questo strano intreccio la sua luce vacillante agitata dal vento».

Il fantastico stilizzato. L’«incantesimo di laboratorio»

l’evoluzione dei film in costume

44. Pola Negri e Emil Jannings in Madame Du Barry. 45. Anna Bolcua. 46. La fiamma dell'amore di Ernst Lubitsch.

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Lang ha ben presto capito quanto un’atmosfera possa gio­ varsi di un’accorta manipolazione della luce: egli apre un muro per collocare in un arco ogivale una scala ripida i cui gradini compongono una gamma luminosa; un cespuglio di bambù dagli steli levigati, inondati da una luce insieme fluttuante e fo­ sforescente, sembra non essere altro che il preludio al crescen­ do luminoso della foresta che attraverserà Sigfrido. I cineasti tedeschi, dice Kurtz, lavorando sugli effetti luminosi, trattano la luce come un «raumgestaltender Faktor», ossia come un «elemento generatore di spazio». Queste concezioni hanno certo influenzato l’arte di Lang, ma sarebbe un errore considerare i suoi primi film come essen­ zialmente espressionisti Il suo intenso senso dei volumi e la sua maestria nel manipolare le luci, in modo da dare risalto alle linee architettoniche, saranno gli unici contributi di Lang agli sviluppi dell’espressionismo.

Lo stesso vale per l’episodio cinese di Destino. iNon occorre precisare che un pae­ saggio cinese, con i suoi alberi curvi, le ondulazioni dei tetti e dei ponti, si presta fa­ cilmente a una distorsione espressionistica: qui però non è utilizzato se non per da­ re risalto all'aspetto da vaudeville di questo episodio, che segue lo stile dello Scoiat­ tolo, film di Lubitsch.

VI Le sinfonie dell’orrore

Lasciate a noi tedeschi i terrori della follia, del sogno febbrile e del mondo degli spiriti. La Germania è un paese più adatto alle vecchie streghe, ai fannulloni morti, ai golem di ogni sesso e in special modo ai marescialli di campo sul tipo del piccolo Cornelio Nepote... che di nascita è propriamente una radice, una di quelle radici che i francesi chiamano mandragora... Solo al di là del Reno possono attecchire simili fantasmi...

H. Heine, La scuola romantica, libro terzo, 1833. Ci resta da evocare questa fonte inesauribile degli effetti poetici in Germania: il terrore; i fantasmi e gli stregoni piacciono al popolo come all’uomo di cultura.

Madame de Staèl, De l'AUemagne, 1812.

«L’uomo espressionista pare che porti il cuore dipinto sul petto» ha scritto Kasimir Edschmid. Manifesto per il film Algol di I lans Wcrckmeister (1920).

Nosfera tu il vampiro, 1922

L’impero del diavolo. Il borghese demoniaco

Il singolare piacere che provano i tedeschi a evocare l’orrore de­ ve essere attribuito, oltre che a certe tendenze sadiche, all’eccessi­ vo e molto germanico desiderio di sottoporsi a una disciplina? In Poesia e verità, Goethe deplora: «Per disgrazia vigeva ancora il principio pedagogico di togliere per tempo ai bimbi ogni paura davanti al misterioso e all’invisibile e di abituarli allo spaventoso». In un romanzo di Karl Philipp Moritz, scrittore del settecen­ to e precursore dei romantici, vediamo un ragazzino. Anton Reiser, tenuto sveglio per lunghe ore tormentose da un «Màrchen» angoscioso, come quello delTLW/o senza mani che visita il camino quando soffia il vento. Il ragazzino si compiace, di se­ ra nel suo Ietto, di rappresentarsi, con un singolare senso di vo­ luttà, la decomposizione del proprio corpo e tutta la degrada­ zione che la morte gli farà subire. Cosi pure, e in questo sono simili al giovane William Lovell di Tieck che sogna di assassinare i suoi piccoli compagni, la maggior parte dei bambini tedeschi si dilettano dei racconti dell’orrore. «Non c’era nulla che mi piacesse di più, - fa dire E.T.A. Hoffmann al suo Natamele, tragico eroe del racconto L'Orco Insabbia, - di ascoltare o leggere storie paurose di fol-

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letti, di pollicini e cosi via.» Egli non è mai stanco del racconto dell’uomo cattivo, che butta pugni di sabbia, di notte, negli oc­ chi dei bambini che non sono ancora addormentati, e porta con sé nella Mezza Luna i loro occhi strappati dalle orbite e sanguinanti, per darli in pasto ai suoi bambini che, rannicchiati nel nido, aspettano con avidità il suo ritorno, con i loro becchi a punta come le civette. Che dire poi di quel ragazzino, evocato ancora da Eichendorff in Presentimento e presente? Ascoltando il racconto della balia si tratta di un povero bambino a cui la matrigna taglia la testa ri­ chiudendo su di lui il coperchio di una cassapanca - egli si gode questo «Màrchen» feroce con uno strano piacere e freme di deli­ zia (!) mentre contempla il crepuscolo color di sangue, di là dalle foreste scure. Curiosa ambiguità dell’anima tedesca (è questa so­ lo una caratteristica del romanticismo?): «Creiamo - dice Ludwig Tieck - dei “Màrchen” perché preferiamo popolare il vuoto mostruoso, Torrido caos». Con molta naturalezza gli hitleriani hanno preferito Schiller, il poeta nazionale, a Goethe, questo cittadino del mondo, cosi po­ co «affidabile» nonostante il suo Paust, che Spengler ha elevato a simbolo dell’uomo germanico. Nel 1826, a proposito del Paust, Goethe confessò a Eckermann che in quest’opera era ricorso so­ lo una volta «alla rappresentazione di diavoli e streghe», e che poi, soddisfatto di aver dato fondo alla sua eredità nordica, si ri­ volse «alle laute mense dei greci». Schiller invece, precursore dei romantici per il suo Visionario, ha una predilezione per le immagini tenebrose. In effetti Goethe rimprovera a Schiller «una certa propensione alla crudeltà», che si sarebbe rivelata sin dai Masnadieri. Egli racconta a Eckermann di essere stato costretto a rifiutare, per la rappresentazione di Egmont, un’innovazione abbastanza «tragica» proposta da Schiller, che suggeriva di far apparire nello sfondo la cupa figura del duca d’Alba, mascherato in un mantello per godersi l’effetto che la sentenza di morte avrebbe fatto su Egmont. Bella scena da portare sullo schermo!

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n titolo completo del film di Murnau è Nosferatu, eine Sym­ phonic des Grauens. In effetti, rivedendo oggi questo film, non si può fare a meno di essere colpiti da ciò che Béla Balàzs ha chiamato «i gelidi soffi dell’al di là». Come mai l’atmosfera di terrore di Caligari ci sembra, in confronto, quasi artificiale? In Friedrich Wilhelm Murnau, il più grande regista che i te­ deschi abbiano mai avuto, la visione cinematografica non è mai il risultato del solo sforzo di stilizzazione decorativa. Egli ha creato le immagini più conturbanti, più sconvolgenti del cine­ ma tedesco. Murnau ha avuto una formazione da storico dell’arte; men­ tre Lang, richiamandosi talvolta a quadri celebri, tenta di ripro­ durli fedelmente, Murnau ne conserva solo il ricordo, e, per via di un’elaborazione interiore, trasforma le immagini in visioni personali. Se per esempio nel suo Faust ci mostra di scorcio un appestato disteso per terra, questo è il riflesso trasposto del Cristo di Mantegna. E se Margherita, rannicchiata nella neve in mezzo alle rovine di una capanna, la testa avvolta nel mantello, tiene il bambino tra le braccia, non è che la vaga reminiscenza di una madonna fiamminga. Intento a fuggire da sé, a uscire da sé, Murnau non si è mai espresso con quella continuità nella concezione artistica che tanto facilita l’analisi dello stile, ad esempio, di Lang. Tutti i suoi film portano però l’impronta della sua dolorosa complessi­ tà interiore, di questa lotta che si svolgeva in lui contro un mondo cui rimaneva disperatamente estraneo. Solo nel suo ul­ timo film, Tabu, sembra finalmente aver trovato la pace e un po’ di felicità in mezzo a una natura in fiore, dove vien meno il senso di colpa inerente alla morale europea. Gide, affrancato sin dal suo Immoralista dall’austerità protestante e dagli scru­ poli che aveva dentro di sé, potè abbandonarsi alle sue inclina­ zioni naturali. Murnau invece, nato nel 1888, portava con sé quello spavento che ha fatto incombere sui suoi simili, fino alla rivoluzione del 1918, la minaccia del disumano paragrafo 175 del codice penale, che giustificava tutti gli orrori del ricatto.

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49. Nosferafn il vampiro Ji F.W. Miirnau

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Murnau, artista scrupoloso, tedesco nel senso positivo del termine, non ricorre mai alle scappatoie che possono facilitare il lavoro del regista. Ecco perché i suoi film sembrano a tratti un po’ grevi, liberando solo gradualmente il significato profon­ do del loro ritmo. A volte anche quando viene costretto, sotto la pressione dei grossi commercianti della Ufa, come in Lultimo uomo, ad aggiungere un «happy ending» alla sua opera, egli l’abborraccia con disgusto, sfruttando i più vistosi trucchi di un comico volgare, e diventa grossolano quanto quel pubblico che si batteva le cosce assistendo al film di Lubitsch Due sorelle. Bisogna ammettere del resto che il genio di Murnau - credo che nel suo caso sia concesso parlare di genio - ha anche debo­ lezze sorprendenti. Quest’uomo cosi sensibile commette a volte incredibili errori di gusto e cade facilmente nell’oleografia. In Faust, ad esempio, immagini dolciastre, perfettamente insipide, si alternano a visioni potenti, animate da un grande vigore crea­ tivo. La sua anima selvaggia, erede del pesante lascito di un sentimentalismo tipicamente tedesco e di una morbosa timi­ dezza, ammira negli altri la forza muscolare e la vitalità che a lui mancano. Ecco perché permette a Jannings, nella parte di Mefistofele, le peggiori civetterie, e non sa porre un argine al­ l’esuberanza di Dieterle. Originario della Westfalia, Murnau rimane imbevuto dell’at­ mosfera di questa regione di vasti pascoli, dove enormi conta­ dini allevano cavalli da lavoro di pesante corporatura. Nelle ri­ costruzioni in studio, a cui è costretto, conserva la nostalgia della campagna, che conferisce un sapore selvaggio a 11 campo rovente ed è ancora avvertibile in Aurora, girato negli Usa. Contrariamente alla maggior parte dei film tedeschi di quel­ l’epoca, i paesaggi, le riprese della piccola città o del castello di Nosferatu, sono stati filmati in esterni. Non è solo, infatti, per­ ché le frontiere fossero loro chiuse, o per l’odio che ispirassero ai loro vicini, o perché mancassero di valuta, che i registi tede­ schi, quali Lang o Lubitsch, giravano in studio o al limite a po­ chi metri di distanza su uno spiazzo vuoto, facendo costruire

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vaste foreste e città intere. Avrebbero benissimo potuto trovare città gotiche sulla costa del Baltico o città barocche nella Ger­ mania del sud; ma i precetti espressionisti li allontanavano dal reale. Murnau tuttavia, girando Nosferatu con mezzi ridottissimi, sapeva scorgere nella natura la possibilità di belle immagini: fil­ ma la forma fragile di una nuvola bianca che scorre sopra le dune, dove il vento del Baltico gioca con i radi steli di erba, e fissa il ricamo dei rami su un cielo primaverile invaso dal cre­ puscolo. Ci rende presente la freschezza di un prato dove i ca­ valli galoppano con la meravigliosa leggerezza degli animali li­ berati dalla bardatura. La natura partecipa al dramma: un montaggio sensibile ci la­ scia presentire nell’impeto delle onde 1’awicinarsi del vampiro, l’imminenza del destino che sta per colpire la città. Su tutti questi paesaggi, colline scure, fitte foreste, cieli dalle nuvole frastagliate foriere di tempesta, incombe, come indica Balàzs, la grande ombra del soprannaturale. Nei film di Murnau, ogni inquadratura ha la sua precisa funzione ed è interamente concepita nel suo rapporto con la vicenda. Se intravediamo per un istante il particolare in pri­ missimo piano di vele gonfie, questa inquadratura è necessaria all’azione cosi come l’immagine precedente: la ripresa dall’al­ to di flutti rapidi che travolgono la zattera carica del suo lugu­ bre fardello. Il grigiore delle colline aride che circondano il castello del vampiro ricorda, per la sua sobrietà estrema e quasi documenta­ ristica, alcuni momenti dei film di Dovzenko. Qualche anno do­ po, Murnau, costretto dalla tifa a usare la cartapesta, girerà in studio, con l’aiuto di bozzetti, il suo famoso viaggio aereo nel Faust. Non manca nulla a questa prodigiosa catena di montagne «artificiali», né i baratri, né i torrenti accuratamente prefabbrica­ ti; a renderli tollerabili e a volte persino ammirevoli è il solo ta­ lento di Murnau, che nasconde il gesso con vapori, falde di bru­ ma, intrecci di luce lambiti dalla nebbia: magia a cui i tedeschi

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sono tanto sensibili e con cui giocano, cosi come giocano con le luci smorzate di un lampadario in una stanza chiusa. È questa l’applicazione grandiosa di tutti gli artifici cinematografici da parte di un uomo che conosce a fondo il suo mestiere, eppure quanto rimpiangiamo le distese grigie di Nosferatu'. Il talento di Murnau, raggiunta la maturità, saprà creare del tutto artificialmente, in studio, la visione agghiacciante di vaste pianure innevate dove si leva un albero irto o la triste nudità di un palo che sovrasta un recinto demolito, riparo precario di Margherita che culla il suo bambino. Allo stesso modo, negli studi americani, egli creerà per Aurora stagni di una desolazio­ ne cosi naturale che l’occhio deve scrutare a lungo prima di scorgerne l’artificio. Murnau, che fu con Arthur von Gerlach (regista deU’Erei1

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LA SCALA ESPRESSIONISTA

50. // Golem. 51. Bozzetto di Ernst Stern per // gabinetto delle figure di cera.

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forma di finestra ne sfuma subito l’effetto. Cesare che avanza nella tenda e attraversa la grande stanza chiara di Lil Dagover, o il robot che dal fondo dello schermo viene verso di noi in Metropolis, non costituiscono immagini cosi violente come quella del vampiro che esce man mano dalle tenebre. (Lang sa­ prà trarre profitto dal brusco avanzamento di un personaggio verso lo spettatore: cosi questi appare nel primo Mabuse: la te­ sta, prima piccola e lontana sullo sfondo nero, viene improvvi­ samente proiettata in primissimo piano e riempie l’intero schermo, come spinta da un impulso soprannaturale.) Murnau sa anche sfruttare la potenza di un movimento tra­ sversale prolungandolo su tutta la superficie dello schermo: è il cupo vascello fantasma che naviga a vele spiegate su un mare agitato e arriva al porto, greve di minacce: oppure l’enorme sa­ goma del vampiro, ripresa dal basso, che attraversa lentamente il veliero per raggiungere la sua preda. Qui l’angolazione gli conferisce, oltre a proporzioni gigantesche, una sorta di obli­ quità che lo proietta fuori dello schermo e ne fa come una mi­ naccia tangibile, a tre dimensioni. Ci si è spesso meravigliati che Wiene, utilizzando per Caliga­ ri mascheri™ di forme diverse, non abbia mai usato, per accre­ scere l’impressione di mistero e di terrore, i trucchi di cui Méliès già disponeva. In Destino Lang ha saputo benissimo trarre profitto dalle sovrimpressioni e dalle dissolvenze: il corteo dei morti verso il grande muro, in sovrimpressione, le trasforma­ zioni diverse c le subitanee apparizioni mostrano che aveva ca­ pito le risorse di una tecnica idonea a liberare quest’arte a due dimensioni dai propri limiti. In Nosferalu, incubo vivente, i movimenti a scatti della car­ rozza stregata che porta via il giovane viaggiatore nel paese dei fantasmi, o quelli delle bare ammucchiate con una rapidità atroce, sono stati resi con il procedimento detto «giro di ma­ novella». Gli spettri degli alberi bianchi e spogli che si ergono contro uno sfondo nero come scheletri di animali antidiluviani, durante la corsa precipitosa verso il castello del mostro, sono

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resi con l’inserimento di alcuni metri di negativo nella pelli­ cola. Meglio di tanti fanatici dell'espressionismo, Murnau sa usa­ re l'ossessione degli oggetti animati. Nella stiva abitata da fan­ tasmi, l’amaca vuota del marinaio morto continua a oscillare dolcemente; nel suo proposito di estrema sobrietà, Murnau mostra l’ondeggiare continuo e monotono di una lampada ap­ pesa nella cabina deserta del veliero, dove tutti i marinai sono stati sorpresi dalla morte, solo attraverso il riflesso luminoso che oscilla. Murnau utilizzerà ancora questo gioco di riflessi quando il suo Faust ringiovanito abbraccerà la fiera duchessa di Parma sul suo letto sontuoso: al di sopra del letto oscilla un lampadario; rompendo però la sua consueta discrezione con l’intervento di un Mefìstofele voyeur, inclinerà verso un certo realismo filmando la lampada stessa. L’universo magico di Hoffmann rinasce in un film di Karl Heinz Martin, Casa alla luna, dove vediamo uno scultore di statue di cera portare le stigmate delle sue creature. In Narcosi, la cui vicenda si svolge ai nostri giorni, c’è un personaggio che assomiglia in ogni particolare a Caligari. Il gusto dei cineasti tedeschi per i personaggi lugubri giun­ ge a influenzare Lang, in Destino: il farmacista, che di notte ricerca la mandragora, è circondato da elementi macabri; al­ beri dalle radici denudate, dalla sagoma sbilenca, si levano come fantasmi. Il povero uomo (brava persona, un po’ ma­ landata, non ammessa alla tavola dei borghesi benestanti), parato con la sua pesante mantella e il suo cilindro allungato come i cappelli dalle dimensioni eccessive di Caligari o Torgus, ha un aspetto insolito. Fare di figure dopotutto abba­ stanza innocue personaggi sinistri è un piacere a cui difficil­ mente un regista tedesco rinuncerà. Cosi Paul Leni, in II ga­ binetto delle figure di cera, trasforma un bravo venditore am­ bulante in personaggio ambiguo. E d’altronde, il piccolo biz­ zarro signore di Genuine, con il suo abito striminzito, le sue

Le sinfonie dctTorrore

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ghette bianche e i suoi guanti chiari, è veramente cosi inge­ nuo come si vuol far credere, quando il giovane suo nipote si sveglia da un incubo? Negli autori romantici, accade spesso che non si sappia al­ l’inizio se un personaggio destinato alla lunga a rivelarsi sim­ patico non sia in fondo un crudele demone. Nel Vaso d'oro di Hoffmann, l’archivista Lindhorst, principe degli spiriti bene­ fici, spaventa lo studente Anseimo con lo sguardo penetrante dei suoi occhi infuocati, che ruotano nelle orbite cave. Hoff­ mann, dice Heine, vedeva sotto ogni parrucca berlinese uno spettro sogghignante; trasformava gli uomini in bestie e que­ ste in consiglieri aulici e in consiglieri finanziari. E questo mondo ibrido, a metà reale, che ci viene incontro nei film tedeschi. Da notare negli autori romantici questa tendenza a situare le creature irreali della loro immaginazione sui bizzarri gradini di una gerarchia complicata, e di mescolare cosi alla minuzia di un ordine borghese saldamente stabilito elementi che escono totalmente dall’ordinario e che sono apparentati al fantastico. Siamo sicuri che uno di questi signori, che esercita una profes­ sione ben definita e sfoggia un titolo ufficiale e altisonante, ca­ ro ai piccoli Stati minori della Germania, non conduca questa doppia vita cosi apprezzata dalle nature sognatrici? Un segre­ tario o un archivista municipale, un bibliotecario privato, un consigliere segreto, un «Obergerichtsrat», non nascondono, sotto l’apparenza di funzionari più o meno importanti, qualche vestigio di stregoneria che minaccia ad ogni momento di riemergere? Alla luce di questi accostamenti comprendiamo meglio alcu­ ni personaggi dei film tedeschi, personaggi la cui volgarità ri­ corda la buffoneria dei piccoli giornali umoristici cosi diffusi in Germania. In Destino e Lultimo uomo, Lang e Murnau si compiacciono di mostrare la grossolanità dei piccoli borghesi, intontiti dal banchetto e dalle libagioni, che escono storditi al­ l’aria fresca. (Si ritroveranno gli stessi borghesi ubriachi in La

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l/OSSESSK )NE DELLE SCALE

52 55. 54 55.

Delitto e castigo. 1 lenny Porteti in Scala ih servizio di Leopold Jessnen La strada di Karl Grune. I tessitori

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    Per i suoi esordi, Pabst attinge ampiamente all’armamentario espressionista: la casa del fonditore di campane è tarchia­ ta, rotonda e gonfia, senza struttura apparente sotto le sue sporgenze che sembrano impastate nella creta; i soffitti sono bassi, soffocanti, la sala è una cripta, gravida di mistero. Qui risulta evidente l’influenza di Golem: quelle ruvide muraglie scalcinate già intraviste in parecchi film tedeschi seguitano a mandare i loro effluvi di piante carnivore pronte a inghiottire gli esseri umani che si avvicinano. Ovunque scale, ovunque oscuri corridoi semisotterranei con gradini e curve improvvi­ se. E nelle tenebre si scorgono qua e là una stretta imposta da cui filtra una luce che illumina per frammenti un corpo, o una camera immersa nel buio. O ancora è Werner Krauss, bizzar­ ro ricercatore di tesori, che parte, una lanterna nascosta sotto la giubba; e la luce offuscata getta una trasparenza singolare sul suo viso stravolto e dilatato da visionario. Il fuoco del for­ nello, i flutti incandescenti del metallo liquido che si scioglie nello stampo contribuiscono agli effetti luminosi; i vapori che ne emanano avvolgono gli oggetti, il chiaroscuro si espande, diviene fosforescente, ed è nel divampare di un gigantesco in­ cendio che crollerà alla fine del film questa dimora espres­ sionista. Dappertutto affiora la preoccupazione della suggestività della luce e della penombra: l’immagine dei contadini seduti intorno alla tavola dell’albergo sotto la luce smorzata del lam­ padario evoca le immagini altrettanto sature di atmosfera che tanto abbondano nei film tedeschi. Sembrano un preludio a certe scene del Faust di Murnau, quando Krauss si avventura nell’oscurità per afferrare la sua bacchetta divinatoria e dai ce­ spugli spuntano rovi violentemente illuminati in modo da dare l’illusione di ossa di scheletri sotto il disco splendente di una luna da studio. A più riprese, Pabst ci presenta, proiettata a lungo sui muri, l’ombra solitaria di Krauss, che si arrampica con in mano la sua bacchetta divinatoria, in cerca del tesoro cosi avidamente con-

    Gli esordi espressionisti di un regista «realista»

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    cupito. O ancora, in controluce, nel vano di una porta, appare il giovane orefice prima che questa si richiuda sui due amanti abbracciati in mezzo a una vigna. In breve, ci sono qui tutti gli elementi del film tedesco classico, senza però che niente lasci intuire immediatamente la qualità dei futuri film di Pabst.

    XI Il «Kammerspielfìlm» e la «Stimmung» tedesca

    Al suo film La notte di San Silvestro Girl Mayer dà come sottotitolo «Un gioco di luce». È chiaro che questa indicazione non si limita ad alludere alla tecnica delle trasformazioni e dei movimenti di luce, ma sta a indicare il chiaroscuro che domina nell'uomo, nella sua anima, questo eterno andirivieni di ombre e di luce a cui sono sottoposte le relazioni psichiche. Cosi ho inteso questo sottotitolo.

    Lupu Pick, Prefazione alla sceneggiatura di La notte di San Silvestro di Carl Mayer, 1924.

    Disegni di Ernst Siero per una scenografìa di Max Reinhardt.

    Scala di servizio, 1920 La notte di San Silvestro, 1923

    Fotogenia dell’anima: un dramma tedesco

    Le storie del cinema ci dicono che la soppressione delle di­ dascalie costituisce una delle principali caratteristiche del «Kammerspielfilm». Ma quale l’origine di questo genere di film, e quale il suo significato? Anche qui bisogna ricorrere alla lezione di Max Reinhardt. Un giorno, durante la replica di un’opera molto raffinata, dove si trattava di evidenziare molto discretamente le relazioni psi­ cologiche tra i personaggi, Reinhardt sospirò: «Certo, io che sono sulla scena ho visto il suo gesto e capito il suo sguardo, ma gli spettatori seduti nelle ultime file, e soprattutto quelli del loggione potranno fare altrettanto?». Fu cosi che gli venne in mente di creare un teatro intimista i Kammerspiele, - dove le luci erano smorzate, le pareti rivesti­ te di legno dalle tinte calde, e dove un’élite (non più di trecento spettatori) poteva afferrare l’intero significato di un sorriso, di un movimento esitante, interrotto, o di un eloquente silenzio. «Se occorre, - dice uno dei suoi collaboratori, Heinz Herald, che ci ha riferito l’aneddoto, - che un attore levi l’intero braccio al Grosses Schauspielhaus, deve muovere solo la mano al Deutsches Theater e ai Kammerspiele basterà un gesto del dito.»

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    La scala di servizio, film di Leopold Jessner, regista di teatro, è un «Kammerspielfìlm» ante litteram. Paul Leni vi collaborò per la «Bildgestaltung», cioè per la composizione dell’immagi­ ne, e usò il suo talento per creare un’atmosfera che la scenogra­ fia rendeva ammaliante. Il famoso cortile interno dell’Ultimo uomo sembra quasi anodino a confronto con quello che fa da sfondo, vicino alla scala di servizio, al pietoso dramma della ca­ meriera che si crede abbandonata dall’amante perché il posti­ no, innamorato di lei, intercetta le sue lettere. Questo dramma intimista si svolge molto lentamente, pesante­ mente, in uno stile molto «tedesco», in modo troppo insistente, nonostante l’uso di certe ellissi ispirate dal teatro. Ad esempio, non ci viene mostrata la scena dell’assassinio, di cui vediamo solo, quando la porta chiusa col chiavistello finalmente cede, una sorta di «quadro vivente»; l’assassino è colto contro il muro, irrigidito in una posizione obliqua, - posizione espressionista per eccellen­ za - brandendo ancora la scure sospesa sopra la vittima. Ciò che oggi colpisce in questo film è un’eccessiva frattura di tono tra gli stili usati. Già la scala principale, esageratamente ingombra di ornamenti in uno stile «piccolo borghese», stona con questa scala di servizio scalcinata, volutamente equivoca, in breve «resa» in modo espressionista. Cosi pure la sordida abi­ tazione del postino contrasta con il salotto ’900 arredato con poltrone di pelouche, in uno stile «Lévitan», ulteriormente ap­ pesantito da palme artificiali. L’interpretazione degli attori rispecchia tale contrasto: Hen­ ny Porten, straripante di sentimentalismo, troppo bene in car­ ne, recita al modo naturalistico come in un film di Cari Froelich. Per contro Wilhelm Dieterle, molto diverso dal per­ sonaggio troppo ben nutrito del giovane fornaio che interpreta nelle Figure di cera, risulta qui enigmatico, abbastanza sobrio, sotto ogni riguardo conforme alle regole espressioniste, e i suoi gesti sono meccanici, a scatti. Quanto a Fritz Kortner, attore più bravo, egli sa adattare la sua parte alle esigenze dell’espres­ sionismo. Tutto è motivato: le reazioni lente di un pover’uomo

    Il «Kammerspielfìlm» e la «Stimmung» tedesca

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    indeciso, timoroso davanti all’amore, le esitazioni di un disere­ dato che, dopo aver conquistato a furia di astuzie la sua felicità, non vuole più crederci. Tenacemente abbracciato alla sua ca­ raffa di vino, egli sa rendere plausibile la sua immobilità. Que­ sto attore, espressionista d’istinto, si fonde con la scenografìa, si adegua al tono dell’atmosfera. Dei borghesi grossolanamente truccati come pupazzi da tiras­ segno sorgono per assistere al dramma, con gesti meccanici di robot. Nuova ellissi: prima vediamo la cameriera sul tetto, dispera­ ta. Poi i vicini, in un movimento di pietà molto «naturalista», si sporgono improvvisamente sulla strada dove s’indovina disteso il corpo sfracellato della suicida. Sarà dunque l’antinomia sostanziale tra «Kammerspiele», intimista, psicologico, e i procedimenti dell’espressionismo, a spiegare perché in un’opera sovralodata dalle storie del cinema (dove ognuno copia l’opinione del precedente) appare oggi co­ si deludente? Paul Leni non c’entra per nulla. Basta vedere gli altri suoi film per comprendere quanto sia estraneo alla realizzazione di questa opera, dovuta a un uomo di teatro come Jessner. Il «Kammerspielfilm», quale sin dal 1921 in La rotaia lo concepiva Lupu Pick, che ne fu il creatore, è il film psicologico per eccellenza; include in genere un numero limitato di perso­ naggi che si muovono in un ambiente quotidiano. Così, Pick contraddice deliberatamente tutti i princìpi espressionisti che condannano recisamente la psicologia esplicativa e l’analisi inti­ ma del dramma individuale. Pick insiste in questo atteggiamen­ to antiespressionista anche quando l’espressionismo è tramon­ tato da un pezzo. All’epoca del sonoro, evocando retrospettiva­ mente un film di Cari Boese, regista di film spiccatamente com­ merciali, Lultimo fiacre di Berlino (1926), dove faceva la parte di un cocchiere sentimentale in lotta contro il progresso, e cioè contro l’automobile, Pick diceva di questo film: «E uno schiaf­ fo naturalista affibbiato agli snob espressionisti».

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    MAGIA E LUCE

    97. Destino. 98.-100. Il Golem.

    Il «Kuninicrspicllilrn» e 1st «Sthntnung» tedesca

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    Lo schermo demon iaco

    Lo sceneggiatore di La rotaia, Carl Mayer, che fu anche quello di Caligari, ebbe in questo film una trovata: volendo far indovinare a spettatori di élite, capaci di apprezzare un simile tentativo, quanto avviene nell’anima degli eroi, sopprime le didascalie1. E significativa l’intervista che Lupu Pick concesse nel 1930 a un giornalista di Cinémonde-, gli fa osservare che è sempre stato incline ad opporsi alla moda del giorno: prima con La rotaia aveva dato il via alla «valanga dei film psicologici», e con La notte di San Silvestro aveva tentato di «superare la psicologia per giungere alla metafisica». La rotaia è un film più semplice, Pick, estremamente sensibi­ le alle atmosfere, riesce a dar rilievo a questo melodramma do­ ve vediamo la figlia di un ferroviere sedotta da un ispettore; questo oltraggio verrà vendicato dal padre, che osa uccidere il suo superiore, e questo per un tedesco, completamente imbe­ vuto di rispetto per la gerarchia, costituisce una vera prodezza. Solitudine, paesaggio triste, binari luccicanti che s’incrocia­ no in modo allucinante come in La rosa sulle rotaie di Abel Gance, treni che passano con i loro viaggiatori anonimi e insen­ sibili, luci di lanterne che brillano sul velluto della notte, uni­ formità di un’esistenza grigia sullo sfondo di avventure e di va­ gabondaggi lontani, tutto questo peso di nostalgia e di desideri abortiti che è tipico del film «di viaggio», rende quasi soppor­ tabile la deplorevole tendenza di Pick al simbolismo. Ma Pick, romeno emigrato in Germania, nonostante le sue resistenze alla moda è stato travolto dalle onde della «Weltan­ schauung» tedesca. «Quando ho letto la sceneggiatura della Notte di San Silvestro, - dichiara nella sua prefazione alla sce­ neggiatura di Carl Mayer pubblicata nel 1924, - sono stato 1

    Tale procedimento fece scuola solo in parte: pochi registi capirono quanto potesse giovare alla trama del racconto, alla sua fluidità ottica, alla sua tendenza drammati­ ca. Robison, per esempio, non usa didascalie in Ombre ammonitrici’, se oggi ci sono, le dobbiamo all’aggiunta di un distributore zelante. Per altri film ovviamente le di­ dascalie costituiscono delle pause ritmiche assolutamente necessarie, ciò che non accade per film di tendenza psicologica e le cui peripezie - tipiche del dramma inti­ mista - si avvicinano al «Kimmerspiel».

    Il «Kammerspiclfìlm» e la «Stimmung» tedesca

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    colpito dalla dimensione eterna dei motivi. E ho voluto tra­ smettere allo spettatore i sentimenti che ho provato in questa lettura. Nel corso della realizzazione, tuttavia, mi si sono aperte nuove prospettive, mi sono accorto che dovevo trattare un te­ ma eterno e vasto come il mondo, magistralmente condensato negli avvenimenti che si svolgono in quest’ora d’ultima ora del­ l’anno, appunto), che invece di essere dedicata alla riflessione, al ritorno su se stessi, non è che occasione di festa e di rumoro­ sa allegria.» Mayer ha scelto a scopo meramente simbolico - ciò che en­ tusiasmò Pick - la notte di San Silvestro, e questo arco di tem­ po fra le undici e mezzanotte dove l’anno che sta per finire ce­ de all’anno nuovo, quest’ora carica di promesse e di minacce la cui ambiguità (l’urto del presente con il «Werden», il divenire) aveva già sedotto i romantici. «Per la notte di San Silvestro, scrive Hoffmann, - il diavolo mi organizza ogni volta una fe­ sta tutta speciale. Al momento giusto sa conficcarmi nel petto gli artigli acuminati e poi, terrificante e beffardo, si pasce del sangue che mi sgorga dal cuore.» Non è forse l’ironia di un destino assurdo che Mayer e Pick hanno voluto sottolineare? Qual era lo scopo di questi registi tedeschi, che desiderava­ no realizzare film d’arte? «Questo libro, - dichiara Pick, - ri­ sponde ai requisiti di una sceneggiatura poiché, leggendolo, suggerisce sensazioni e sentimenti che ci commuovono, e non è composto solo di elementi visivi. Vedendo i tre personaggi con­ finati in uno spazio ristretto lacerarsi a vicenda, si prova per ognuno di loro il dolore particolare che suscita in loro il desi­ derio di manifestare benevolenza nei confronti dell’altro, e l’impossibilità di riuscirci. Vedendo questa ebbrezza, questa esplosione di gioia, questa celebrazione della “Umwelt” (del mondo che li circonda), si sentono tutte queste creature cosi di­ stanti le une dalle altre slanciarsi, fallire l’incontro e smarrirsi. In breve, si sente la maledizione che pesa sull’umanità: essere sottoposti al condizionamento dell’animalità ed essere capaci di

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    101. 102. Chiaroscuro violento di Fritz Lang in Il dottor Mabuse,

    11 “Kainnicrspiclfilm» c la «Srimmitng» tedesca

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    pensiero. Prende coscienza di tutto ciò chi vuole sentire e non solo vedere.» h parte quelle della cucina, della sala da pranzo, del cabaret, aggiunge Carl Mayer nella sua premessa, tutte le altre scene, tutti gli altri luoghi non sono che «Umwelt». Questa «Um­ welt», impregnata di una sorta di magia, assume un significato singolare: «La composizione di questo “gioco di luci”, - dice Pick dal canto suo. - mi sembra nuova in quanto racchiude l’azione in uno spazio ristretto, che accorda alla “Umwelt” una parte preponderante, senza mescolarla all’azione stessa, ciò che sarebbe banale. La “Umwelt” deve costituire la base e lo sfon­ do sinfonico di un destino particolare, diventando cosi l’emblema di un’idea dominante». Molte scene di questa «Umwelt» sono scomparse nelle copie conservate oggi all’estero. E il mare eterno e sconfinato, è il cie­ lo senza limiti, è un cimitero dove rami scheletrici e croci vio­ lentemente illuminate spiccano contro un cielo nero, è una lan­ da vasta c deserta che si distende a perdita d’occhio, è una fo­ resta dove ogni tronco erge la sua ombra nera in un’opacità soffocante; tutto ciò sembra divenire più illimitato anche quan­ do la macchina da presa arretra per abbracciare l’insieme in una panoramica. Questa «Umwelt» partecipa «sinfonicamente» al dramma: si scatena una tempesta, il mare s’infrange in onde gigantesche sulla scogliera, gli alberi si piegano. E alla fine, dopo il banale suicidio di un essere umano che la natura non si degna neppu­ re di registrare, tutto torna nell’ordine, tutto si placa, tutto ri­ trova l’equilibrio degli elementi eterni. «La multiforme “Umwelt” di un semplice incidente, - ag­ giunge Ernst Angel, — è intercalata non come un’azione o una reazione accessoria, bensì come un ritmo accessorio in cadenza o in contrappunto, come simbolo che rafforza e amplifica i dati del dramma: essa si frappone in modo tale che a tratti, in certi momenti decisivi, l’azione si trova apparentemente arrestata e non proseguirà se non passivamente, in modo quasi sotterra­

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    neo, attraverso un’intensificazione della “Umwelt”; questa non è realmente indipendente, ma si potrebbe dire disinteressata, e si attenuerà di nuovo con la ripresa dell’azione stessa.» La sceneggiatura di Carl Mayer merita di essere analizzata a fondo perché contiene in abbondanza altri elementi che facili­ tano la comprensione del cinema tedesco. Quasi in ognuna del­ le cinquantaquattro «immagini» che compongono la sceneggia­ tura Mayer descrive con molta precisione le illuminazioni desti­ nate a creare l’atmosfera. Sin dall’inizio, quando la scena del cabaret si apre in dissolvenza, troviamo l’indicazione: «Il caba­ ret. Piccolo, basso di soffitto. Pieno di fumo denso. E! Nella lu­ ce vacillante-, tavoli!». Dopo, alla fine di questa scena in cui un avventore punzecchia una giovane: «Ella ride sempre di più. E tutti quanti riprendono a ridere con lei. In mezzo al fumo, alla luce e ai bagliori torbidi». A più riprese, descrivendo i gesti dei suoi personaggi, Mayer intercala una piccola frase, di questo ti­ po: «Mentre tutto questo Betrieb (andirivieni) si svolge in una atmosfera fumosa», oppure «L’uomo. È indaffarato. Nel Betrieb fluttuante di una luce torbida». Ogni presentazione del cabaret porta indicazioni sempre identiche: «.Cabaret. Effluvi densi. Fumo. Luce torbida», mentre il locale elegante, suo contrappunto, situato dall’altra pane del­ la strada, porta le indicazioni: «Fumo. Balli. Musica. Luci», e si apre «in Glanz und Licht», ossia sfavillante di luci. La presenta­ zione del cabaret pieno di fumo è del resto ben più riuscita che non quella del locale elegante. Madame de Staél già osservava: «Le stufe, la birra e il fumo del tabacco formano intorno alla gente del popolo, in Germania, una sorta di atmosfera pesante e calda, da cui non amano uscire». La cucina dove si prepara il famoso punch di San Silvestro è descritta come «piena di una violenta illuminazione a gas»; la sala da pranzo è immersa nella penombra perché il gas è stato abbassato, o ancora in un altro passaggio la luce del lampada­ rio viene smorzata dalla giovane, che l’ha schermata con un fo­ glio di carta per attenuarne la luminosità, in modo da non di­

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    sturbare il sonno del bambino nella carrozzina. Ci sarà in que­ sta stanza una porta a vetri, ma il vetro sarà smerigliato perché la luce si diffonda dall’altra parte, nella cucina, perché ci si chieda con Mayer durante la lotta tra le due donne: «La luce qui dentro si è spenta? Si direbbe di si...», e perché possa mo­ strare le ombre dei due corpi che premono contro questo vetro diafano, fino a spezzarlo nel loro furore. Il primo gesto dell’uo­ mo che entra nella stanza per intervenire è di avvicinarsi al lam­ padario «perché la luce si diffonda di nuovo». Stesso gioco di luci sulle facciate esterne: quella del caffè «notturna e nera», mentre all’interno fluttua «una luce calda e torbida» che traspare dalle finestre coperte di brina. La faccia­ ta del locale elegante viene mostrata in una panoramica: le alte finestre sono illuminate a giorno e la porta a tamburo «gira sempre nella luce». La macchina da presa segue il movimento della porta girevole, dietro la quale si scorge una hall «illumina­ ta»; negli alti specchi del guardaroba si riflette «in Glanz» (in tutto il suo sfavillio) la clientela elegante, e un’altra porta a vetri lascia indovinare la presenza di una sala «tutta scintillìi e luci». Sotto questo medesimo aspetto appare la strada, assumendo una «funzione metafìsica» come in La strada di Karl Grune. Le indicazioni di Mayer in proposito valgono per tutti i film in cui la strada svolge un ruolo spesso tragico: «Si delinea una piazza. Co­ me un’ombra! Nei riflessi di molteplici luci. E traffico! Auto! Tram! Carrozze! Uomini! Insegne luminose! Auto! Un’unica massa confusa. I cui elementi si distinguono a fatica». Su questa piazza riluce il quadrante luminoso di un grande orologio che sot­ to la macchina da presa via via più vicina diventerà alla fine, qual­ che minuto prima di mezzanotte, «grande come il destino» e farà quasi scoppiare il riquadro dello schermo. (Stessa «funzione drammatica» venne attribuita ad una pendola che batte secondo un ritmo strano di vita artificiale nella camera dell’impiccato; il bilanciere oscilla e il martello batterà i dodici colpi definitivi.) Crescendo degli effetti luminosi man mano che si avvicina mezzanotte: sulla piazza la folla si addensa; scoppia un fuoco

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    «IMPRESSE )NISM< >» E «ESPRESSE >NISM( )» DELLA FOLLA

    103. Vz/r/r/c di E /\ Dupont 104. // Golefn.

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    d’artificio. Tutte le finestre si riempiono improvvisamente di luci e si vedono ombre che brindano. Simmetria simbolica: do­ po mezzanotte, dopo il suicidio, il diminuendo dell’illuminazio­ ne. Si vedrà di nuovo la landa dove oscilla una lanterna solita­ ria; un’altra immagine mostra la tempesta sul mare che si viene placando. Sulla strada, sulla piazza immersa nella penombra, il traffico si dirada, fino a cessare; le poche luci si spengono l’una dopo l’altra. La porta a tamburo ha smesso di girare, nell’om­ bra. Dalle alte finestre del locale elegante filtra lievemente un poco di luce, che mostra le sedie e i tavoli accatastati. Cosi, nel cabaret non brucia più che una sola fiamma opaca, unica luce a brillare sulla sua facciata. Poi, sulla piazza, si spengono le ultime luci. Strada e piazza nel buio; solo riluce ancora il quadrante dell’orologio, la mac­ china da presa arretra, il quadrante rimpicciolisce, finché non resta che un punto luminoso nelle tenebre. L’esame della sceneggiatura rivela meglio delle copie attuali di questo film, amputate di tante scene della «Umwelt», la fun­ zione della macchina da presa su carrello: essa è piena di indi­ cazioni come «scorrendo lentamente all’indietro, seguendo una curva verso sinistra, girando di nuovo all’indietro in panorami­ ca», o ancora «scorrendo di sbieco in avanti», indicazioni che del resto riguardavano soprattutto la «Umwelt» mentre ci si li­ mitò a inquadrature più comuni per l’azione principale. Per Mayer infatti l’impressione suscitata nello spettatore dalla «Umwelt» deve essere amplificata dagli spostamenti della mac­ china da presa, con cui il regista fa capire allo spettatore che ha davanti a sé un universo particolare. D’altra parte, sempre se­ condo Mayer, occorre che questi movimenti si sviluppino in profondità e in altezza mentre proseguono gli eventi, e questo per raffigurare la vertigine che coglie l’essere umano in mezzo alla natura e al mondo in cui vive. Queste annotazioni, nonché un bozzetto che rappresenta un carrello su cui sono montate due macchine da presa, «veicolo per

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    riprese» appositamente costruito per la realizzazione di questo film in modo da permettere l'esecuzione di movimenti combinati, ci provano che Pick fu il primo a usare in uno studio tedesco la «entfesselte Kamera», la «camera scatenata». (Tuttavia Boese cfr. le appendici - sostiene che Wegener aveva già usato per i fantasmi del Golem una macchina da presa mobile.) Certo Murnau, in Liultimo uomo, sfrutterà in modo più ac­ corto di Lupu Pick le indicazioni di Carl Mayer che sono alla base delle sue prodezze ottiche e delle sue penetranti esplora­ zioni nel dominio del visivo. La macchina da presa su carrello non gli basterà più: fisserà l’apparecchio al corpo del suo ope­ ratore con una specie di armatura, costringendolo a seguire Jannings passo passo, a piegarsi, chinarsi, contorcersi, per ri­ prendere le angolazioni più complicate. Pick tuttavia comprende benissimo la portata delle annota­ zioni tecniche del suo autore: «I nuovi movimenti della macchi­ na da presa, - egli precisa, - sono ricchi di significati e inse­ parabili dalla sceneggiatura. Essendo il film per eccellenza una immagine in movimento, i suggerimenti dell’autore sono tali che la scena dove si svolge l’azione appare tutta bagnata dalla “Umwelt” cosi come un’isola in mezzo al mare». (È la sua pre­ dilezione per il simbolo, più che per l’immagine, a impedirgli di raggiungere nell’uso della macchina da presa mobile una maestria uguale a quella di Murnau.) Il linguaggio di Carl Mayer, con le sue frasi brevi, rotte, piene di asperità, con la loro costruzione espressionista dai verbi inver­ titi, è curiosamente scandito, articolato da cesure impreviste. Gli «E!», gli «Adesso», i «Dunque» sparsi apparentemente a caso tra le frasi e sempre isolati su una riga, reiterati per accelerare l’a­ zione o rallentarla, rivelano in Mayer un acuto senso del ritmo2. Nel suo Expressionismus und Film, Kurtz ha colto la diver­ genza tra due intenti stilistici: un poeta espressionista non 2

    Questi inserti, dice ancora Pick, fanno sentire, come su uno spartito musicale, il «tempo» dei ritmi che Fautore desidera concretizzare nel film.

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    può andar d’accordo con un regista che ricerchi gli sviluppi psicologici, anche se stilizzati, in un’atmosfera borghese, a meno che non accetti una qualche modificazione del suo stile personale. Non è soltanto per il linguaggio di Carl Mayer che questo film è molto meno lontano dall’ideologia espressionista di quanto non pensasse Lupu Pick: l’espressionismo, ansioso di evitare i trabocchetti e le tentazioni del «particolare» caro ai naturalisti, soccombe alla soggezione dell’oggetto’. Cosi ritro­ viamo in Mayer e Pick questa esagerazione dell’oggetto che rappresenta l’elemento essenziale dell’ingranaggio del Destino: nella Notte di San Silvestro, ad esempio, ci viene mostrata con insistenza la tavola dallo stretto centrino su cui poggiano solo due coperti. Se Lang, nel suo M, ci fa vedere, con un rapido montaggio, la sedia libera e il piatto vuoto della bambina assas­ sinata, lo spettatore ne subisce immediatamente lo shock. Nel film di Pick, il procedimento richiede da parte dello spettatore un’attenzione più vigile: si suppone che guardi a lungo, insieme alla giovane (avvisata dell’intrusione imminente della suocera dall’ombra che si profila sulla finestra coperta di brina), la ta­ vola dove sta per essere distrutta l’intimità della coppia. Poi la giovane sparirà e svanirà anche, suo malgrado, un terzo coper­ to dalla parte lasciata libera dal centrino. Mayer e Pick se la prendono comoda, la giovane va e viene. Alla fine, dopo gli in­ serti di scene particolareggiate della «Umwelt» (compreso il ca­ baret), ci viene mostrata la provvisoria riconciliazione tra le due donne, che esagerano il loro zelo gioioso nell’apparecchiare la tavola, questa volta per tre. Con Mayer, Pick indugia sui labirinti dell’anima: mentre la nuora dorme, la vecchietta inoperosa si metterà a vagabondare ’

    La meticolosità dei tedeschi ha sempre amato porre l’accento sui particolari; ricor­ diamo le digressioni verbose dei loro scrittori, da Jean Paul a Thomas Mann passan do per Theodor Fontane; essi non seguono mai la maniera di uno Stendhal per il quale i particolari non mirano ad altro se non ad accrescere l’autenticità. Gli im­ mediati predecessori di Max Reinhardt hanno enfatizzato i particolari nelle opere di Gerhart Hauptmann o di Sudermann, come a suo tempo il duca di Meiningen che infarciva di «colore locale» i suoi drammi storici.

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    tra la carrozzina, che non osa toccare, e la stufa che attizza ti­ midamente. Pick gira metri su metri di pellicola prima di rive­ lare il punto culminante di questa tragedia piccolo-borghese: due ritratti di famiglia - la fotografìa del figlio ancora celibe ac­ canto alla madre gonfia d’orgoglio, e un’altra che mostra il fi­ glio e la sposa che ha saputo strapparlo alla sua devozione filia­ le - faranno scattare una scena di gelosia tra la suocera e la nuora. Alla fine, lacerato tra questi due amori egoistici, la men­ te sconvolta, intontito da abbondanti bevute di punch, l’uomo sarà spinto al suicidio. Per tutta la durata di questo film, è l’oggetto a regnare: la stufa, alla quale si aggrappa la vecchia madre quando il figlio si vede co­ stretto a cacciarla, diventa l’emblema stesso del focolare domesti­ co. H suo gesto meccanico, che spinge nella sala da pranzo (dove è già sensibile il vuoto lasciato dal morto) la carrozzina del bambi­ no ormai orfano, diventa intollerabile tanto è appesantito di signi­ ficati. Le stelle filanti, calpestate e spezzate all’alba per le strade, o che pendono intrecciate e strappate sulle sedie e sui tavoli del ca­ baret vuoto, l’ultimo foglio di un calendario che prima della usci­ ta degli avventori un signore ubriaco guarda a lungo da sopra il suo grosso naso di cartone, maschera di carnevale, decidendosi fi­ nalmente a toglierselo e ad appallottolarlo (scena assente dalla sceneggiatura di Mayer); tutto ciò fa parte del simbolismo delle «relazioni psicologiche» di cui parla Lupu Pick. Le scene della strada in festa, il locale di lusso con i suoi convitati eleganti, l’ebbrezza spontanea e rumorosa al cabaret, l’invasione di gaudenti mascherati, ubriachi, nella camera del­ l’impiccato, il vagabondo notturno ritardatario che bussa vana­ mente alla porta sbarrata del cabaret semilluminato in cui è en­ trata la disperazione, tutti questi passaggi, dominati dal povero fatto di cronaca di uno squallido suicidio, cozzano tra di loro grazie al taglio e al montaggio elaborati, e rivelano il gusto per i contrasti violenti cari agli espressionisti. La semplificazione estrema dei personaggi, attorno ai quali sbiadiscono le compar­ se di questa tragedia condensata nello spazio di un’ora, è con­

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    forme alle regole espressioniste secondo cui i personaggi non devono incarnare che dei «principi». Carl Mayer parla di «Gestalten», ossia di «forme, figure» c indica: l’uomo, sua moglie, sua madre, e con questo aggettivo possessivo priva le due donne di ogni esistenza individuale. D’altra parte egli indica che solo queste figure principali devo­ no apparire in primissimo piano, «dal momento che l’atmosfe­ ra generale del veglione non costituisce che lo sfondo sul quale si svolgono gli avvenimenti dell’azione». Le camere e la cucina devono essere piccole e basse di soffitto, in modo che anche quando siano riprese nella loro totalità le figure possano riem­ pire «intensamente» lo spazio. Notiamo il curioso ritorno a un naturalismo superato in cui traspare l’espressionismo. L’interpretazione di Klòpfer, che recita la parte dell’uomo sposato, è molto rivelatrice per il suo modo di gettare fortemente il busto all’indietro e di fianco; il suo riso un poco folle, quando, grande forma al tempo stesso molle e rigida, si dibatte tra le due donne amate, prefigura l’aspetto che gli ve­ dremo assumere nelle inquadrature dell’impiccato, ormai slegato, con la sua maschera rigida e gonfia come di un affogato. La maniera insinuante alla «Kammerspiel» intensifica la pe­ santezza dell’azione, ne accresce la greve lentezza. Può darsi, in effetti, che la nuora dopo aver scorto la suocera alla finestra esiti prima di avvertire il marito; ma sembra poco convincente che questi, anche se i suoi riflessi sono evidentemente intorpi­ diti, lasci passare tanti interminabili minuti prima di far entrare la madre rimasta al freddo^. Non lasciamoci ingannare: Lupu Pick, con le sue tragedie quo­ tidiane, non ha fatto dono del realismo al cinema tedesco. Se comLa lezione che Pick ricaverà dal «Kammerspiel», e di cui si serviranno altri cineasti, è che i suoi personaggi, la cui intensità di espressione si avvicina alla pantomima, non innoveranno più lelabbra in dialoghi resi inutili, e rispetto ai quali le didascalie erano sempre state deboli artifici. Le poche volte in cui, nella loro disperazione, i jwrsonagci del «Kammerspielfilm» hanno l’aria di gemere e sembrano lasciarsi sfuggire dalle labbra suoni incoerenti, lemozione dello spettatore è al culmine.

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    Oppure, come nel Violinista di Firenze, egli utilizza il rallen­ tatore, e qui la Bergner con il violino in mano scivola come in sogno attraverso il salotto, simile a un accordo musicale che si va spegnendo. Pure dobbiamo avanzare qualche riserva sul talento di Czinner e della Bergner: in Amore 6, ad esempio, la Bergner, attrice molto nervosa e spesso tesa, diventa largamente insopportabile specie quando vuol rendere la gaiezza, essendo negata al tono leggero. Quanto a Czinner, non appena cessa di assisterlo il fa­ scino del «Kammerspiel», si rivela assai mediocre.

    Nei film tedeschi, la volontà di esprimere un’atmosfera sug­ gerendo i «palpiti dell’anima» si allea al gioco delle illuminazio­ ni. Questa «Stimmung» è insomma sospesa tanto intorno agli oggetti quanto alle persone: è un accordo «metafisico», un’ar­ monia mistica e singolare in mezzo al caos delle cose, o anche una sorta di nostalgia dolorosa che, per i tedeschi, si mescola al benessere, una sfumatura imprecisa della «Sehnsucht», languo­ re colorato di desiderio, voluttà del corpo e dell’anima. Per lo più è un paesaggio «velato», malinconico, a diffonde­ re questa «Stimmung», o un interno dove la luce avara d’un lampadario, di una lampada a petrolio, di un candelabro o an­ che di una finestra attraversata da un raggio di sole crea la pe­ nombra. Cosi Lang cerca di suggerire l’atmosfera incerta del chiaroscuro nella scena dell’ospizio dei vecchi in Destino-, in M è il fumo delle sigarette misto alle vibrazioni luminose del lam­ padario di un salone. In Lultimo uomo Murnau crea la sua atmosfera soffocante accumulando, negli specchi dei lavandini, riflessi di oggetti che brillano nel vapore, luci di lampadine, luccichio di una griglia scura di bande metalliche a mo’ di per­ gola nella strada vicina. Arthur von Gerlach, in Lerede dei Grieshuus, accresce l’intensità dell’atmosfera con l’uso di luci U film ci dimostra che non è indispensabile, per un «Kammerspielfilm» prevedere un numero ristretto di personaggi, né che questi appartengano a un ambiente sem­ plice e quotidiano. Qui il silenzio e la riserva dei due appassionati amanti balzac­ eli i ani colpisce l’attenzione.

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    plica l’azione elaborando una psicologia approfondita, non per­ tanto i suoi personaggi sono sprovvisti dell’astrazione nebulosa a cui sono votate tutte le figure uscite dall’ideologia espressionista. E i mendicanti autentici di cui dispone qua e là le forme, dopo averli debitamente truccati sino a farli rassomigliare ai mendicanti fab­ bricati da Peachum nell’Opera da tre soldi, perdono ogni significa­ to sociale nella vaghezza dei simboli semplicistici e sentimentali Ricordiamo, della Notte di San Silvestro, un passaggio abba­ stanza insignificante in sé: quello della porta a tamburo del lo­ cale di lusso; e ciò perché annuncia certe scene essenziali delV Ultimo uomo. Carl Mayer, sceneggiatore di entrambi i film, ha sicuramente previsto gli effetti che si potevano ricavare da que­ sta porta girevole, ma Lupu Pick, spirito meno agile e meno ricco, non l’ha seguito fino in fondo. Se si confrontano gli effet­ ti visivi di questo passaggio con quelli che Murnau ha ricavato dalle scene riprese attraverso la porta a tamburo o le porte del ristorante e della hall, chi crederebbe che Pick, a cui era stato inizialmente affidato Lultimo uomo, avrebbe saputo fare altret­ tanto? Qui appunto si rivelano i limiti di un regista, certo perfetta­ mente sincero ma privo di genio.

    Paul Czinner sa trarre miglior partito dall’ambiguità del «Kammerspiel», a cui si adatta con tanta naturalezza la sua compagna Elisabeth Bergner, attrice straordinariamente dotata. In Nju, di chi la colpa? inquadra già dei personaggi posti l’uno di fronte all’altro, muti, e lo spazio è tutto riempito da questo silenzio. La sottigliezza di Czinner si affinerà ulteriormente quando, nei suoi ultimi film muti, inserirà primissimi piani: egli interpreterà allora l’atmosfera latente presentando dei volti, vi­ sti da vicino, in cui si riflette il passaggio di un’emozione come ima nuvola che attraversi un cielo limpido. È per «l'eterniti dei motivi» messa in risalto da Pick, e dove la «Weltanschauung» si mescola con il pittoresco, che il realismo tedesco subirà sempre necessariamente l’alterazione artistica di una stilizzazione più o meno forzata?

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    Oppure, come nel Violinista di Firenze, egli utilizza il rallen­ tatore, e qui la Bergner con il violino in mano scivola come in sogno attraverso il salotto, simile a un accordo musicale che si va spegnendo. Pure dobbiamo avanzare qualche riserva sul talento di Czinner e della Bergner: in Amore 6, ad esempio, la Bergner, attrice molto nervosa e spesso tesa, diventa largamente insopportabile specie quando vuol rendere la gaiezza, essendo negata al tono leggero. Quanto a Czinner, non appena cessa di assisterlo il fa­ scino del «Kammerspiel», si rivela assai mediocre.

    Nei film tedeschi, la volontà di esprimere un’atmosfera sug­ gerendo i «palpiti dell’anima» si allea al gioco delle illuminazio­ ni. Questa «Stimmung» è insomma sospesa tanto intorno agli oggetti quanto alle persone: è un accordo «metafisico», un’ar­ monia mistica e singolare in mezzo al caos delle cose, o anche una sorta di nostalgia dolorosa che, per i tedeschi, si mescola al benessere, una sfumatura imprecisa della «Sehnsucht», languo­ re colorato di desiderio, voluttà del corpo e dell’anima. Per lo più è un paesaggio «velato», malinconico, a diffonde­ re questa «Stimmung», o un interno dove la luce avara d’un lampadario, di una lampada a petrolio, di un candelabro o an­ che di una finestra attraversata da un raggio di sole crea la pe­ nombra. Cosi Lang cerca di suggerire l’atmosfera incerta del chiaroscuro nella scena dell’ospizio dei vecchi in Destino-, in M è il fumo delle sigarette misto alle vibrazioni luminose del lam­ padario di un salone. In Lultimo uomo Murnau crea la sua atmosfera soffocante accumulando, negli specchi dei lavandini, riflessi di oggetti che brillano nel vapore, luci di lampadine, luccichio di una griglia scura di bande metalliche a mo’ di per­ gola nella strada vicina. Arthur von Gerlach, in Lerede dei Grieshuus, accresce l’intensità dell’atmosfera con l’uso di luci U film ci dimostra che non è indispensabile, per un «Kammerspielfilm» prevedere un numero ristretto di personaggi, né che questi appartengano a un ambiente sem­ plice e quotidiano. Qui il silenzio e la riserva dei due appassionati amanti balzac­ eli i ani colpisce l’attenzione.

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    velate, con il gioco di riflessi sull’increspatura d’un vestito di velluto, con la suggestione di un’apparizione spettrale in so­ vrimpressione. Pensieri la cui presenza è quasi tangibile sembrano aggirarsi dovunque come anime morte, senza pace: sono «quei ricordi lontani» di cui parla Novalis, «desideri dell’adolescenza, sogni dell’infanzia, gioie brevi e vane speranze accumulate nel corso d’una vita, che si avvicinano vestite di grigio come la bruma della sera». (Il poeta osserva del resto che la nozione di «Stimmung» allude a «condizioni musicali dell’anima e che ad essa si collegano un’acustica psichica e un’armonia di palpiti».) Forse qualcuno ancora si ricorda il bel passaggio del film perduto di Murnau, Il campo rovente-, in una stanza immersa nella penombra la luce del giorno penetra in due lunghi fasci provenienti dal fondo a destra: questi fasci si arrestano prima di raggiungere due forme umane, un uomo e una donna, in piedi, pure sulla destra, vestiti di nero e quasi confusi con la se­ mioscurità che regna : uno dei fasci luminosi sfiora il piede del­ l’uomo, intensificando singolarmente il silenzio drammatico e misterioso. O ancora, dietro le fessure di una persiana s’indovina una luce sfumata davanti alla finestra che diffonde sul pavimento una rete oscillante, dove lo studente di Praga inginocchiato ai piedi della sua amata assapora un momento di quiete; nell’alto specchio che pochi attimi più tardi tradirà il suo funebre segre­ to si riflette il riverbero della finestra quadrettata. Ultimo tocco di «Stimmung», lo studente di Praga, dopo aver sparato al suo doppio, giace sul pavimento davanti allo specchio spezzato. Nella penombra si sente come l’aura della pace ritrovata. Evocare atmosfere suggerendo sentimenti vaghi, svelare a po­ co a poco il segreto di anime sensibili per mezzo di tocchi insi­ nuanti è in sé molto tedesco. Lang aveva già adottato questo stile nei Nibelunghi, per la famosa scena in cui Crimilde e Sigfri­ do si avvicinano l’uno all’altro, molto lentamente, in un tipico

    Il «Kammerspielfilm» e !a «Sdmrnung» tedesca

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    ritardando («Ausspielen», gioco intensificato, caro alla profon­ dità tedesca). Crimilde reca la coppa di benvenuto che offre a Sigfrido come il Santo Graal. Né Crimilde né Sigfrido vengono meno alla loro ieratica rigidità. Questo è «Kammerspiel» traspo­ sto in una opera wagneriana. Il gruppo araldico formato da Gunther e Sigfrido che bevono la coppa a sigillare la loro frater­ nità di sangue è presentato con minore religiosità di questo pri­ mo incontro fra i due amanti. Questa «Stimmung» inclina talvolta senza transizione alcuna al terrore: sarà allora lo scoppio della tempesta nello Studente di Praga, con le nubi che lacerano il cielo, gli alberi scossi, i ra­ mi piegati, accompagnamenti orchestrali di estrema violenza che ritmano la lotta interiore dell’eroe; saranno ancora i lampi sferzanti associati alla disperazione di Faust che evoca il demo­ nio; e sarà il fluttuante scintillio d’un temporale, con i rami dai contorni bianchi e scheletrici nella tenebra che rimbalzano qua e là, accentuando la fragile forma di Nju (l’eroina di Di chi la colpa?} che scende alla deriva verso un suicidio solitario, picco­ la figura patetica, travolta dai venti che agitano le pieghe del suo vestito. Si sa, l’anima germanica passa facilmente dal sublime al ridi­ colo: se certi passaggi ci fanno sorridere, se il ritmo dei film te­ deschi sembra talvolta intollerabilmente lento agli spettatori di altri paesi ciò accade perché i registi tedeschi si sforzano in ge­ nerale di esprimere tutta la «Stimmung» di una situazione, di esplorare le più riposte latebre dell’anima. «I tedeschi non domandano di meglio, - dice già Madame de Staci a proposito del teatro tedesco, - che sedersi tranquilla­ mente al loro posto e lasciare all’autore tutto il tempo che cre­ de per preparare gli avvenimenti e sviluppare i personaggi: l’impazienza francese non tollera questa lentezza.» E il peso dei dialoghi muti dell’anima, questa atmosfera chiusa da «Kammerspiel», ad essere soffocante.

    xn Mumau e il «Kammerspielfìlm»

    Quando, ragazzo, ri passavo accanto Ti ergevi infinitamente alto sul portone Il tuo tricorno sfiorava gli stemmi delle stelle Onnipotente si spandeva la tua barba» o uomo dallo scettro-bastone! Franz Werfel, Der gòttlìche Portier, 1913,

    Una porta girevole. Che gira in continuazione nella luce. E! Davanti: Un portiere! Di alta statura. Immobile come un lacchè. E ora: cosi Immobile saluta Poi: Un'automobile passa in continuazione... Carl Mayer, sceneggiatura di La notte di San Silvestro, 1924.

    Pubblicità per il film di Conrad Veidt Wahnwin iFollia).

    Luttitrio uomo, 1924

    La camera mobile Ancora una volta, l’assenza di didascalie dà luogo a una suc­ cessione di piani in cui l’azione progredisce per mezzi unica­ mente visivi. Ancora una volta e ancora in maggior misura que­ sto film è in contrasto con i precetti espressionisti. Edschmid non aveva forse denunciato violentemente il dramma dell’am­ bizione sociale e le mediocri tragedie ispirate al fatto di portare un’uniforme, «das Leid der Attrappe, des Kleides»? Mayer e Murnau1 si confrontano con questa tragicommedia che è il destino di un portiere d’albergo fiero della sua livrea gallonata, ammirato dalla famiglia e dai vicini di cortile come un generale. Divenuto troppo vecchio per portare bagagli pe­ santi, messo in pensione, viene fatto custode delle toilettes per signori: gli tocca perciò scambiare il suo costume d’apparato con una semplice giacca bianca. La sua famiglia si sente diso­ norata ed egli diventa lo zimbello dei vicini che prendono cosi la loro rivincita dopo l’adulazione che gli avevano un tempo Come abbiamo già osservato, un dissenso tra Pick e Mayer pose fine al loro pro­ getto di lare una trilogia di «Kainmerspielfìbne», una sorta eli trinità di cui La ro­ taia e La notte di San Silvestro avrebbero dovuto far parte. Lultimo uomo, che do­ veva esserne l’elemento centrale, fu in seguito realizzato da Murnau.

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    Lo schermo demoniaco

    prodigata. Ecco una tragedia tedesca per eccellenza, che non è comprensibile se non in un paese dove l’uniforme è sovrana, è Dio. Uno spirito latino stenta a concepirne la portata tragica. La forza di Murnau scavalca i limiti del «Kammerspielfìlm», e non solo perché questo film include un maggior numero di personaggi di quanto per lo più prevedano i film di questo ge­ nere. A parte il personaggio principale, che doveva essere inter­ pretato dallo stesso Lupu Pick e che Jannings impersona con tutta la disinvoltura di istrione ispirato che lo caratterizza (è qui tuttavia meno fastidioso che altrove, dato che la sua pomposa fatuità coincide con quella della parte), gli altri personaggi ri­ mangono singolarmente sprovvisti di rilievo: sembrano essere presenti solo per fare da spalla a questo patetico portiere d’al­ bergo. È l’ultimo vestigio della concezione espressionista, se­ condo la quale tutti i personaggi con cui l’eroe entra in conflit­ to sono privati di vita personale, e non sono (come ha osservato un critico drammatico contemporaneo a proposito di un dram­ ma espressionista, Il Figlio di Hasenclever) altro che «Ausstrahlungen seiner Innerlichkeit», ossia «irradiazioni della sua intima essenza». Fantocci indistinti, simili ai personaggi anoni­ mi dell’albergo, i vicini dell’«ultimo degli uomini» non esistono se non per spiare il loro eroe, non prendono vita se non quan­ do egli compare. Dopo che è salito in casa sua si potrà spegne­ re il gas sulla scala, e se al mattino tutta questa gente si agita al­ le finestre e ai balconi, per dar aria alle lenzuola e battere i piu­ mini, i loro gesti non sembrano avere altro scopo che di sottoli­ neare con un accompagnamento modesto e quasi meccanico l’azione principale, ossia la spazzolatura della sacra uniforme. Murnau accentua deliberatamente questo effetto nelle sue inquadrature: il portiere che si dirige verso l’albergo, rivestito del suo splendore gallonato, è filmato in modo che sembri al­ quanto più grande dei passanti che lo incrociano; durante la scena delle nozze egli appare al centro deU’immagine con mag­ gior rilievo e precisione e assai più grande dei convitati che lo circondano e che restano sfumati.

    Mumau e il «Kammerspielfilm»

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    E tuttavia i procedimenti espressionisti occupano poco spa­ zio in questo film. Se Mumau li utilizza nei passaggi del sogno è solo perché la portata fantastica di tale stile gli consente di otte­ nere gli effetti che reputa necessari in questo punto preciso. Be­ ninteso, avendo come tutti i suoi compatrioti un debole per i simboli, non si stanca di far emergere (spinto da Mayer), non appena se ne presenta l’occasione, il significato «metafìsico» di un oggetto: il parapioggia del portiere diventa in un certo senso il suo scettro, né egli lo cede a un inserviente dell’albergo se non in rare occasioni e con una magnanimità di cui si accentua la portata. H bottone, strappato alla livrea di cui il portiere viene spogliato, è ripreso mentre cade; grazie a questo dettaglio, l’a­ zione di svestire è equiparata a una degradazione militare. Tut­ tavia dal simbolo, in un’opera di Mumau, non emana mai quella falsa profondità sotto la quale tanti tedeschi nascondono un vuoto pomposo; trattato da Mayer e Mumau, il simbolo aderi­ sce all’azione: l’assenza di questo bottone, ad esempio, costrin­ gerà il portiere a ricordarsi, suo malgrado, dell’umiliazione che ha preceduto il suo sogno di trionfo. E il simbolo riveste al tem­ po stesso il carattere implacabile del destino: la discesa del por­ tiere verso le toilettes è la discesa agli inferi, e i battenti della porta si richiudono dietro di lui, implacabili. Anche Lubitsch, il cui spirito incline al vaudeville si compiace di quiproquo artifi­ ciali, manipola porte multiple che si aprono e si chiudono senza posa; ma esse sono ben lontane dall’assumere il significato che Mumau conferisce loro. In Nosferatu, la chiusura del portone ad opera di mani invisibili pone l’accento sul fatto che il giovane ormai non potrà piu liberarsi dall’incantesimo sotto cui sta per cadere un’intera città. Il carosello della porta girevole, il cui movimento il portiere è cosi fiero di dominare dirigendo le entrate e le uscite, diventa il turbine della vita in cui entrano ed escono gli uomini. Ancora un volta, viene conferito all’inorganico, a un oggetto assolutamente necessario per l’azione, un senso trascendentale, sottoli­ neato con solennità alla maniera tedesca. Ma Mumau, al con-

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    Lo schermo demoniaco

    111. 112. La deformazione in Lultimo uomo di F.W. Murnau. 113. 114. .. c nel cortometraggio Lincidente di Ernó Metzner.

    Murnuu e il «Kammerspielfilm»

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    Lo schermo demoniaco

    trario di Pick che scivola facilmente in un arido simbolismo, riesce a dare una vita propria alla porta a tamburo. L’oggetto può inoltre determinare o accelerare le peripezie tragiche: il movimento della porta che conduce alle toilettes ri­ vela alla vicina la degradazione del portiere. I battenti si agite­ ranno ancora quando il cliente ricco, indignato per non essere stato servito immediatamente, li scosta bruscamente per andare a protestare dal direttore; la macchina da presa coglie questo movimento, nascondendo e mostrando alternativamente la for­ ma accasciata deU’«ultimo degli uomini». E questa porta che oscilla ostinatamente ci rammenta il pendolare della lampada di cui non percepivamo che i riflessi nella cabina deserta del vascello fantasma di Nosferatu. Mumau approfondisce questi contrappunti simbolici al modo lento dei suoi compatrioti, ed è in questo campo che si sente mag­ giormente l’influenza di Carl Mayer: alla toilette il cliente bene­ stante si aggiusta i fieri mustacchi, si spazzola i capelli attorno a una scriminatura impomatata e compie esattamente gli stessi gesti improntati a fatuità del portiere ai tempi della sua gloria. Oppure la tensione estrema dell’atmosfera corrisponde ancora a uno stato d’animo: il portiere disperato rientra nella stanza vuota in cui gli oggetti esalano tutta la desolazione dell’indomani di una festa, fi­ nestre semiaperte dalle povere tende fluttuanti, disordine di sedie rovesciate, di vetri sporchi, odori stagnanti del banchetto che non sono altro se non il riflesso visibile dei suoi tormenti. (Pabst si è servito di un effetto analogo, con un’ellissi più marcata, nel Giglio nelle tenebre, mostrando il rovescio degli avvenimenti alla giova­ ne coppia che aveva ammirato con vaga invidia le nozze dei ric­ chi; egli fa loro vedere, ancora attraverso la finestra, la tristezza dell’indomani.) Murnau intensifica la portata dei suoi simboli moltiplicando le angolazioni delle riprese: il portiere risplendente nella sua uniforme e gonfio di fatuità è filmato dal basso, la pancia pro­ tesa, massa enorme, ridicola e ingombrante, simile a un genera­ le dello zar o a un capitalista cosi come fi rappresentano i russi.

    Murnau c il «Kammerspielfilm»

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    Il portiere caduto, al contrario, è ripreso dall’alto, schiacciato dalla sua degradazione, nelle toilettes.

    La macchina da presa diretta da Karl Freund passa instanca­ bile in rassegna le tribolazioni del portiere, penetra dovunque, lo segue lungo i muri, si slancia con lui per i corridoi dell’alber­ go, giocando con i riflessi della torcia elettrica del custode not­ turno che avanza, gira, si avvicina. I cineasti tedeschi ricercano questi effetti di scorrimento della luce sui muri, che danno pro­ fondità allo spazio. Sottolinea un effetto di questo genere il gesto con cui l’in­ ventore Rothwang in Metropolis incalza Maria, esasperata dal raggio luminoso che la perseguita. Nel Giglio nelle tenebre, ap­ punto attraverso le oscillazioni di una torcia elettrica che guida l’assassino nell’oscurità, Pabst ci fa scoprire a ogni passo i mo­ bili squallidi e l’ambiente sordido in cui è vissuto il detective. Infine, nell’Angelo azzurro, il cerchio luminoso d’una lanterna frugherà lentamente la tromba di una scala tenebrosa. Sotto la supervisione di Mumau, la camera «scatenata» (co­ me i tedeschi chiamano la camera mobile) non si presta mai a un gioco artificioso. Di conseguenza, ogni movimento, anche quando tradisce la gioia che prova il regista a liberare la mac­ china da presa dai suoi vincoli, risponde a uno scopo preciso, chiaramente definito. Cosi in Tabù egli moltiplicherà le parten­ ze delle imbarcazioni indigene che si lanciano incontro a un ve­ liero: accentuerà la diversità delle inquadrature, farà incrociare le barche attraverso un montaggio pieno di animazione, in cui vediamo l’eroe invertire il cammino con il pretesto di andare alla ricerca di un fratello minore che ritarda; cosi ha tutto il tempo per assaporare il flusso e riflusso delle strette imbarca­ zioni che filano sull’acqua limpida. La riuscita dell’ammirevole esordio dell’ Ultimo uomo è intera­ mente dovuta all’uso della macchina da presa: attraverso i vetri dell’ascensore in discesa noi abbracciamo tutt’intera, con un solo colpo d’occhio, la hall dell’albergo con la sua cinta di piani, awer-

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    Lo schermo demon caco

    damo subito l’atmosfera particolare che agita il flusso ininterrotto di visitatori mentre entrano ed escono sotto luci scintillanti, vi­ branti di un moto continuo; i contorni si spezzano e si ricompon­ gono subito, in una concatenazione di visioni che tolgono il fiato. Quando la macchina da presa è sotto la supervisione di Mur­ nau, tutte le risorse visive sono sfruttate: essa mette a nudo, len­ tamente, sapientemente, tocco dopo tocco, lo stato pietoso del portiere, che pochi minuti prima vedevamo ancora ben protetto dietro il riparo sontuoso e pesante della sua livrea. Essa rivela impietosamente il colletto spiegazzato di una misera giacca, il logorio di una camiciola di lana, e scende man mano, affinché nulla ci sfugga, lungo le gambe rattrappite dentro i pantaloni gualciti a fisarmonica. Murnau si compiace di unire alla mobilità della macchina da presa gli effetti ottenuti riprendendo le immagini attraverso uno specchio, cosi come fin dall’inizio del film ha mostrato la hall dell’albergo attraverso i vetri dell’ascensore in discesa. La scena che fa scattare il dramma - il direttore che annuncia al portiere la sua assegnazione a una mansione più modesta - è vi­ sta da lontano attraverso una porta a vetri. La «camera mobile» si avvicina, fissa lo sgomento del portiere e il dorso indifferente del direttore. Noi vediamo, ancora attraverso una porta a vetri, la direttrice, incaricata di condurlo al suo nuovo posto, che avanza verso Jannings; la rigidità del suo atteggiamento simbo­ lizza il «destino inesorabile», mentre nell’armadio riluce, anco­ ra un simbolo, lo splendore perduto dell’uniforme. Seguendo lo stesso procedimento, Pabst mostrerà attraverso i vetri di una porta, in 11 diario di una donna perduta, la scena decisiva tra Louise Brooks e Fritz Rasp, il suo seduttore, e allo stesso modo ancora scopriremo, nell’opera da tre soldi, Mackie Messer che domanda a Polly Peachum di seguirlo per sempre. Murnau predilige questa superficie levigata dei vetri, che tanto frequentemente sostituisce, per i registi tedeschi, un’altra superficie levigata, quella degli specchi. La sua macchina da presa si diletta di queste superfici opalescenti, sfavillanti di ri-

    Murnau e il «Kanirnerspielfilni»

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    flessi, di pioggia o di luce: vetri d'automobile, battenti vetrati di porte a tamburo che riflettono la sagoma del portiere rivesti­ to di un’incerata luccicante, masse scure di edifìci dalle finestre illuminate, lastricati bagnati, pozzanghere come specchi d’ac­ qua. È una maniera quasi «impressionista» di evocare l’atmo­ sfera: sotto la sua direzione, la macchina da presa sa fissare questa penombra smorzata che cade di notte dai lampioni ac­ cesi, gioca con le irradiazioni che sotto la spinta del movimento divengono vibrazioni, fessure luminose; tenta persino di affer­ rare, negli specchi delle toilettes, i riflessi di oggetti che brilla­ no o di una griglia nera posta nella strada. Il sogno del portiere ubriaco è il risultato immanente di tutte le impressioni ricevute nel corso della sua vita cosciente. I battenti della porta a tamburo, ingigantiti e allungati al modo espressioni­ sta, urtano il cervello del dormiente e lo fendono: immagine con­ creta che sta a significare la condizione schizoide del sogno. I contorni dei battenti si accentuano man mano che la loro forma reale si perde: poco dopo non ne resta più che il profilo, poi bru­ scamente solo gli angoli percorsi da un movimento perpetuo. Questi angoli sono i segni grafici con cui viene raffigurata la por­ ta a tamburo ideale? O stanno a indicare l’oscillazione della porta delle toilettes che a tratti si sovrappone a quella della porta gire­ vole? L’arte di Murnau amalgama, frammischia, incrocia gli ele­ menti, le visioni, il principio e la fine di un destino, cosi come condensa in questa hall d’albergo, attraverso sovrimpressioni sfu­ mate, salite e discese dell’ascensore fantasma, l’impressione di fretta, d’impersonalità, di mutamento incessante, di passaggio che non lascia traccia. Finalmente ci appare in tutta la sua evidenza il significato delle comparse anonime attorno a Jannings, sempre presentato in rilievo: la sua tragedia ci viene rappresentata cosi come si svolge dentro di lui. Murnau aveva mostrato il portiere nell’ufficio del direttore in un momento critico, quando non riusciva a issare sulle spalle in­ debolite una valigia troppo pesante, e il rapido montaggio ci per-

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    Lo schermo demoniaco

    LA STH.IZZAZU >NE DI FRITZ LANG

    115. 116. Destino. 117. Li morte di Sigfrido.

    Murnau c il «Kamxncrspielliliu»

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    metteva di percepire quasi simultaneamente il nuovo portiere, agi­ le e vigoroso, che manovrava con gesto sicuro un grande baule. Ora, nel suo «Wunsch traum» (sogno compensatorio), Jannings ringiovanito gioca da trionfatore con un enorme baule, che un’in­ tera schiera di inservienti non è stata capace di sollevare. Le esi­ genze dell’espressionismo trovano pieno appagamento in questa rappresentazione del sogno: da questo girotondo di domestici, lar­ ve dalle maschere livide e identiche, dai crani rasati, che s’affac­ cendano intomo al baule troppo pesante per la loro debole ener­ gia, si sprigiona potentemente quella «espressione più espressiva», ideale raramente raggiunto dagli espressionisti. La camera «scatenata» domina interamente questo sogno di ubriaco: movimento e visione si confondono cosi da formare un unico fattore drammatico che spinge in avanti l’azione, piut­ tosto statica al di fuori del sogno. Nel passaggio in cui il portie­ re comincia a ubriacarsi, quando non sa più se la sedia su cui si trova sia proiettata nello spazio o se sia lo spazio a girare intor­ no a lui, il contrappunto dei movimenti è organizzato in modo magistrale; la macchina da presa segue lo scivolare vertiginoso della sedia, cosi come filma la deformazione degli oggetti agli occhi del portiere. Certo Murnau, nei suoi film, ha sempre sfruttato con grande compiacimento tutte le possibilità di una panoramica, di una carrellata, di una ripresa dall’alto; ma qui la macchina da presa diventa il punto di partenza di uno straordi­ nario turbine visivo, senza che la composizione deH’immagine ne soffra minimamente. Egli incrocia i piani, muta direzione, grazie al montaggio, gioca con le proporzioni fino a che la ver­ tigine dell’eroe ci coinvolge a nostra volta e ci sentiamo travolti da questo risucchio. Mai il subconscio era stato evocato con una tale violenza costruttiva2. Già nel Fantasma Murnau aveva tentato di afferrare, come dice Balàzs, «la realtà sommersa nel sogno»: nel caos degli ogCosa sono, al confronto, i muri che si fendono intorno aU’effigie di cera di Jack lo squartatore? Persino le sovrimpressioni de! sogno psicanalitico in 1 misteri di un'a­ nima, queste barriere, micste impalcature che simbolizzano gli ostacoli con i quali si una il desiderio, non hanno lo stesso potere drammatico.

    Mumau e il «Kammerspielfilm»

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    getti, una tavola si mette a girare, sotto «una luce che vacilla» passano strade travolte in un fantastico maelstrom, i gradini salgono e s’inabissano sotto piedi che, nonostante la loro im­ mobilità, sembrano privi d’appoggio. In certi passaggi del film, fuori del sogno, si scorgono le tracce di un espressionismo piu maturo. Per far comprendere al suo pubblico, ancora abituato ai rapimenti e alla frenesia degli attori del teatro estatico, la disperazione del suo «ultimo degli uomini», Mumau lo mostra sul punto di fuggire, la livrea tra le braccia, ma fìsso per un istante, piegato sul fianco, simile a una nave che af­ fonda. La sua figura tragica si stende di sbieco, di traverso allo schermo, davanti a quel muro lungo il quale passava ogni giorno nel suo compiacimento pretenzioso di uomo in uniforme. Gli espressionisti hanno già fatto uso di questo atteggiamento obliquo del corpo allo scopo di mettere l’accento sul dinamismo esaltato che accompagna la frenesia dei gesti; cosi Wiene aveva mostrato il suo diabolico dottore eccitato davanti al libro che gli rivela il segreto dell’ipnosi; per un gioco di piani, Caligari ingigan­ tito si erge di sbieco, fissato in quella sorta di parossismo che si ri­ trova frequentemente, sulla scena, nella recitazione di attori diret­ ti da Karl Heinz Martin, Jiirgen Fehling o persino Piscator. E cosi ancora ci viene mostrato Nosferatu mentre esala l’ultimo respiro. Ricordiamo anche la dichiarazione di Kurtz, secondo cui la dia­ gonale provoca, con la sua violenza espressiva, una reazione inso­ lita nell’anima dello spettatore; Hans Richter precisa a sua volta che una diagonale può di per sé esprimere il grado estremo di un’emozione. Dall’espressionismo proviene ancora quell’effetto di riso gargantuesco, enormi bocche spalancate, immensi buchi neri, deformati in uno scoppio di riso infernale che sembra inondare il cortile in cui abita l’«ultimo degli uomini»’. La Ufa non man-

    Mostrare dopo il sogno di ebbrezza il volto di una vicina anamorfosato in uno spec­ chio deformante è ancora un effetto espressionista, effetto che verrà ripreso da Mctzner in Inadente. Nella scena de) riso nel cortile, Murnau, misogino, non ci rispar­ mia alcun particolare di queste orrende megere dai petti ballonzolanti.

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    cherà di cogliere la portata di queste risate di massa, e ne utiliz­ zerà gli effetti con molteplici varianti, fino a mostrare contem­ poraneamente, sulla stessa immagine, una dozzina di personag­ gi, mentre telefonano4. Oggi si rimprovera aW Ultimo uomo il suo ritardando. Ma se Murnau si è soffermato su ciascun particolare, se ha amplifica­ to il minimo gesto o suggerito con minuzia eccessiva le fasi di ogni espressione del suo eroe, questo è dovuto, a parte l’inter­ pretazione troppo calcolata di Jannings, al fatto che la «Stimmung» del «Kammerspielfilm» esige delle pause. Si aggiun­ ga - per quanto contraddittorio ciò possa sembrare - die l’uso della camera mobile, conferendo una maggiore fluidità al rac­ conto senza didascalie, permette di scrutare a lungo personaggi e soggetti. Questa storia, del resto, piccolo fatto di cronaca del­ la vanità umana, avvenimento quotidiano che affonda fino alle radici in un mondo tedesco, esige questa pesantezza ritmica, questa gravità statica che sole possono darle un senso.

    Già in Metropolis la brama degli spettatori che guardano la danza del robot viene espressa tramite una fila di occhi avidi.

    XIII L’occhio sulla folla

    La cultura faustiana è una cultura di volontà... È l'«io» che sorge nell'architettura gotica; le sommità delle torri» i contrafforti sono «io» e tutta l’etica faustiana è una ascensione. O. Spengler» Il tramonto dell'occidentet1918-1922.

    Pubblicità per il film di Conrad Veidt WlrA/rv///// (Follia)

    Metropolis di Lang, 1926

    L'influenza dei cori espressionisti c di Piscator Molti passaggi di Metropolis ci sembrano oggi antiquati e persino vagamente ridicoli, soprattutto nei luoghi in cui il sen­ timentale si aggiunge al monumentale, Lang non ha ancora rag­ giunto la semplicità di M, dove la realtà si carica in via del tutto naturale di strane risonanze Per apprezzare la bellezza plastica e luminosa delle scene di Metropolis occorre, come per tanti film tedeschi, saper andare oltre le scorie che l’ingombrano.

    La simmetria nella Morte di Sigfrido crea un ritmo lento, ine­ sorabile come la fatalità che incombe su questa epopea barba­ ra. Ma quando si tratta di dirigere le folle di Metropolis, allora Le scene che si svolgono nell’iininenso ufficio» con pochi attori sperduti nell'ampiezza dell’ambiente» non hanno una potenza uguale a quella delle masse operaie, il troppo soave giardino dove giocano i bambini dei ricchi e lo stadio molto hitle­ riano dove si esercita questa gioventù dorata, cosi come il luogo di divertimento dove imperversa la falsa Maria contrastano con la sobrietà della città sotterranea. Cosi pure la riconciliazione superficiale degli operai dalle mani callose con l’insen­ sibile padrone, ottenuta grazie all’intervento del figlio, sotto il motto del «cuore mediatore tra il cervello dirigente e le braccia laboriose», è direttamente ispirata dairUfa e da Thca von Harbou, allora collaboratrice, ahimè troppo invadente, di Lang. Il suo sentimentalismo, il suo gusto deplorevole per la falsa grandezza la fa­ ranno cadere ben presto nelle tenebre dell’ideologia nazista.

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    Lo schermo demoniaco

    questo ritmo diventa dinamico. Oltre al suo spirito d’osserva­ zione, Lang possiede il dono di assimilare in modo assai perso­ nale quanto ha avuto occasione di vedere: Max Reinhardt che dirigeva le sue schiere di comparse sulla vasta arena del Grosses Schauspielhaus, le rappresentazioni del teatro espressionista e del teatro di Piscator (l’agglomeramento dei corpi, la «Ballung» degli «Sprechchòre», cori parlati, e il dispiegamento delle masse sugli innumerevoli ponteggi della scena)*’. La folla degli «Sprechchòre» si trasformava in una massa compatta e scura, spesso quasi amorfa, sottoposta a un movi­ mento pesante e automatico dal quale, a intervalli ritmati, si di­ staccava un personaggio, sorta di corifeo come nelle tragedie greche. Per Piscator, fortemente influenzato dalla tecnica di scena russa, l’uomo anonimo degli espressionisti faceva parte di una collettività, il suo corpo esprimeva una volontà prorom­ pente e contenuta. Regista per antonomasia di un secolo votato alla tecnica e a una concezione essenzialmente costruttivista, Piscator giungeva persino a trasformare la comparsa in elemen­ to architettonico, prima di proiettarlo nuovamente in uno slan­ cio preferibilmente cuneiforme, solo o associato alla massa de­ gli altri corpi. Egli eccelleva nel farlo virare di sbieco, nel man­ tenerlo in una posizione di tensione esaltata, simile a quella ri­ cercata dai registi espressionisti, rispetto ai quali si distingueva soprattutto perché non evitava del tutto i movimenti intermedi. U suo film La rivolta dei pescatori (1934), girato in Urss, con­ serva qualche traccia di questo patetico espressivo: il personag­ gio principale, ad esempio, mentre discende una passerella in­ sieme alla squadra in sciopero, si arresta per un istante, le spal­ le irrigidite, il busto eretto, le gambe allargate in un atteggia­ mento eroico di riposo al tempo stesso energico e teso, quale si Lang era meno vicino a Karl Heinz Martin» la cui regia esplosiva faceva scoppiare le forme grazie a un gioco di illuminazioni violentemente contrastate e usava archi e ponti che s’interrompevano bruscamente sull’orlo di abissi. Scegliendo per La morte di Sigfrido un’architettura monumentale» celi subiva ^influenza di Leopold Jessner, che amava coordinare o subordinare in sobrie simmetrie le diverse parti di una scena su un palco dagli armoniosi gradini.

    L'occhio stilla folla

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    può ancor oggi vedere sui carteDoni pubblicitari tedeschi che vantano le virtù di qualche medicinale destinato a rendere vi­ gore ai nevrastenici. Kurtz lo aveva già detto: le comparse dei film tedeschi sono sempre «in geistiger Fechterstellung», ossia spiritualmente nella posizione d’attacco dello schermitore. Per quanto riguarda il trattamento delle folle sullo schermo, Lang aveva avuto tuttavia un predecessore, Otto Rippert, che nel 1916 aveva diretto il celebre Homunculus. Chi ritiene che il cinema tedesco cominci con Caligari dovrebbe vedere un epi­ sodio di questo notevole film passato quasi inosservato. Esso contiene, oltre al chiaroscuro, tutti gli elementi che caratteriz­ zeranno il cinema tedesco durante i successivi quindici anni. Gli atteggiamenti di Olav Foenss nella parte di Homunculus, questi gesti bruschi, questa maschera sogghignante, annuncia­ no l’interpretazione adottata da Kortner in La scala di servizio o in Ombre ammonitrici cosi come quella di Klein-Rogge in Me­ tropolis. Ma l’influenza di Homunculus su Metropolis si rivela soprattutto in certi movimenti di massa che richiamano molto da vicino la folla eccitata che si scaglia contro Homunculus per poi dispiegarsi a triangolo in ressa verso la scala. Queste analo­ gie tra Rippert e Lang balzano agli occhi: del resto, Lang ha la­ vorato per un certo tempo con Rippert, scrivendo le sceneggia­ ture dei suoi film. Per descrivere le masse degli abitanti della città sotterranea in Metropolis Lang fece un uso febee della stilizzazione espres­ sionista: esseri privati di personalità, con le spalle curve, assue­ fatti a piegare la testa, docili prima di aver lottato, schiavi vesti­ ti di costumi senza età. Notiamo l’estrema stilizzazione durante il cambio delle squadre, questo incontro di due colonne che marciano con un’andatura ritmica a scatti. O ancora, questo blocco di operai ammucchiati negli ascensori, sempre a testa bassa, senza esistenza personale. I cubi degli edifici, disposti ad angoli, le file uniformi di fine­ stre, o le poche porte di sbieco davanti alle quali c’è sempre lo stesso numero di gradini, rafforzano la monotonia della città sot­

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    Lo schermo demoniaco

    terranea; le «Mietskasemen» (abitazioni popolari simili a caser­ me) compongono imo sfondo perfettamente adeguato alla distri­ buzione meccanica delle masse prive d'individualità. Le macchine da presa di Freund o di Rittau le fisseranno attraversando il corti­ le in cui più tardi si svolgerà la celebre scena dell’inondazione. Ed ecco che le masse si dispiegano in una gradazione che segue le re­ gole dei cori espressionisti: muovendosi in più divisioni, rettango­ lari o romboidi, i cui contorni, di un'assoluta nettezza, mai vengo­ no turbati da un movimento individuale. Con la stessa perfezione meccanica si dispiega il corteo delle vittime di Moloch: la grande facciata della centrale delle mac­ chine si trasforma e offre alla vista il volto del dio divoratore (reminiscenza di Cabiria)-, questa sfilata di divisioni rettangola­ ri, disposte a uguale distanza Funa dall'altra, sarà trascinata verso le fauci voraci (spiegamento regolare che già avevamo os­ servato nei guerrieri in Sigfrido)'. Gli abitanti della città sotterranea sono degli automi, molto di più del robot creato dall’inventore Rothwang, l’intera loro persona si accorda con il ritmo di macchine complicate: le loro braccia diventano i raggi di un’immensa ruota, i loro corpi ran­ nicchiati nelle incavature alla superficie della facciata della cen­ trale rappresentano la lancetta animata da un movimento d’o­ rologio. La stilizzazione trasforma Fumano in elemento mecca­ nico: ai vani dei due piani, la diagonale di ogni corpo punta sempre in una direzione opposta a quella del vicino. Le leggi della «formazione dello spazio» si applicano anche al corpo, decreta Kurtz, poiché è anzitutto il corpo umano a prestare la sua plasticità alla struttura scenica4. A parte questi uomini-macchina, Lang cerca sempre più di far entrare i gruppi di comparse in cornici geometriche. Nella E che ritroviamo in Trionfo della volontà, film di Leni Riefenstahl su un congresso del partito nazista a Norimberga. I tedeschi non cercano di creare un tipo» fosse pure esagerandolo, bensì di rag­ giungere per via di stilizzazione una forma stereotipata. In questo si distinguono dai registi sovietici, più sobri.

    L'occhio sulla foil;i

    COMPARSE «ARCHITETTONICI IE»

    118. 119.

    Ld morte dì Sigfrido.

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    Morte di Sigfrido il corpo umano era spesso un elemento della scenografìa, in Metropolis diventa fattore costitutivo dell’archi­ tettura medesima, immobilizzato con altri corpi in un triango­ lo, in un’ellissi, in un semicerchio. Questa stilizzazione geometrica, ultimo residuo dell’estetica espressionista, non fa mai cadere tuttavia Lang nella routine. Le sue masse, per quanto «architettoniche», restano vive, come la piramide di braccia che si levano supplici durante l’inonda­ zione, grappolo di bambini che si afferrano al corpo di Maria, sull’ultimo isolotto di cemento non ancora sommerso dai flutti. Questo raggruppamento a piramide (che si ritrova nell’intrecciarsi accuratamente studiato delle mani avide tese verso l’ap­ parizione della falsa Maria sulla bestia apocalittica o nell’auto­ dafé del robot) è talora sostituito da un gruppo triangolare, che per un effetto prospettico allunga il suo vertice sullo schermo come nella scena della rivolta in un episodio di Homunculus. Lang ricorre più volte a questo procedimento: i bambini, ad esempio, che confluiscono verso l’isolotto, gli operai che fanno ressa per distruggere la centrale o per catturare il robot. Segna­ liamo infatti il corteo degli operai che marcia verso il portone della cattedrale, avendo alla testa (apice del triangolo) il capo­ mastro impersonato da Heinrich George’. A tratti l’estrema stilizzazione dei raggruppamenti si attenua un poco: quando nelle catacombe gli operai ascoltano la falsa Maria, per la prima volta, i personaggi assumono un aspetto più individualizzato, nonostante la violenta deformazione espressio­ nista dei volti. Accade anche che certi gruppi cristallizzati si ani­ mino sino a far parte integrante dell’azione, come nella scena in cui, muovendo dai cantieri, disposti a forma di mezza stella, gli operai della torre di Babele avanzano in cinque file convergenti. Il semicerchio formato dagli operai in rivolta intorno alle rovine fumanti delle macchine fa parte dell’azione; 1 inquadratura dall’alto della piazza dove eli operai fanno cerchio intorno al padre angosciato e dove si erge la forma rigida di Ra$p, a ino’ di accusatore anonimo, risponde a una concezione piu intenzionale. (Da nota­ re qui il prestito da Caligari’, Rothwang, divenuto pazzo, porta via Maria sul tetto, alla stregua di Cesare.)

    L'occhio sulla folla

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    Nello stesso passaggio l’immagine dei rivoltosi che si lanciano verso la cima delle scale dove l’eletto sta in estasi, le braccia al cielo, evoca l’urto delle masse dirette da Piscator6.

    In Metropolis, come in tutti i suoi film, Lang sfrutta le luci in modo ammirevole: la città futura appare, superba piramide, ac­ cumulazione di grattacieli che gettano fasci di luce. Splendido artifìcio di riflettori e di trucchi, in cui si disegnano, simili alle caselle nere e bianche di una scacchiera, le finestre illuminate e i pannelli di muri scuri; radiazioni luminose scoppiano dapper­ tutto, scintillanti e vaporose, o raggruppate in una pioggia fine di raggi. I bozzetti della città, con le sue strade e i suoi ponti gettati nel vuoto, diventano immensi. Grazie alla «Spiegeltechnik» (tecnica degli specchi) di Schùfftan, le case operaie, che solo per una parte della loro altezza totale sono edificate sulla scena, riflettono sullo schermo le loro facciate allungate. La luce giunge persino a creare l’impressione del suono: il sibi­ lo della sirena della fabbrica è rappresentato da quattro fari, i cui fasci luminosi si lanciano come gridi. La luce assume ancora un ruolo di primo piano nella creazione del robot, nonché nella sin­ fonia delle macchine, derivata dai film astratti di Leger e Ruttmann. In questo «incantesimo di laboratorio», qui cosi funziona­ le, alambicchi si riempiono di una luminosità fluorescente, tubi di vetro luccicano bruscamente, zigzag di lampi o di scintille si ac­ cendono, cerchi di fuoco salgono, leve e ruote di motori sembra­ no trasformarsi in cespugli fosforescenti. Grazie alle luci, alle so­ vrimpressioni, il turbinio delle macchine, insieme ai grattacieli al­ lungati, questi grattacieli fantasma, travolge in un incubo febbrile Frohlich-Freder che perde conoscenza. La geometrizzazione delle masse è Talvolta rafforzata da una quasi similitudine di gesti ulteriormente accentuata dal montaggio. La scena in cui Maria tenta di forza­ re un lucernario fa riscontro a quella in cui Freder martella la porta della casa mi­ steriosa dove Maria è tenuta prigioniera. (Cfr. anche nel Gabinetto delle figure di cera il gesto del visir mentre affila la scimitarra, prolungato grazie al montaggio in quello del fornaio che impasta il pane. In L’idttmo uomo il movimento della fidan­ zata che zucchera il dolce verrà associato a quello del portiere occupato a spazzo­ larsi i capelli.)

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    Lo schermo demoniaco

    Le rare volte in cui si attenua l’attenzione costante che Lang accorda agli effetti di luce, ci accorgiamo improvvisamente che queste macchine non hanno praticamente alcuna ragion d’esse­ re; esse costituiscono soltanto una specie di sfondo movimenta­ to, un accompagnamento, una sorta di rumore dietro le quinte; nella rumorosa orchestrazione visiva di Metropolis - film muto - le sentiamo quasi come sentiamo le sirene della fabbrica. Fumo luminoso che sale dal rogo, vapori delle macchine di­ strutte, fiotti di geyser e cascate d’acqua dove la luce s’infìltra sotto le strutture di ferro, effluvi brumosi della fabbrica sul cui spessore spiccano appena le sagome degli operai, madreperla dei ceri intorno a croci irte nella penombra della chiesa sotter­ ranea, cripta scura delle catacombe dove la torcia elettrica del­ l’inventore spia la figura in fuga di Maria e dove sogghigna qua e là sotto il cono luminoso un candido teschio: Lang si serve di tutto ciò per rafforzare l’intensità dell’atmosfera, e il pittoresco cede a un crescendo drammatico.

    XIV L’avventura nei film di Fritz Lang

    Quando il film poliziesco rinunciò al genere «romanzo d’appendice», esso dovette trovare una formula^suscettibile di piacere tanto a un pubblico colto quanto a una categoria di spettatori allettati soltanto dal lato eccitante delibazione, E cosi che la psicologia criminale fu introdotta nel Him poliziesco... Lang, citazione di Lue Moullei.

    Schizzo di Ernst Stern per il costume di Ivan il terribile nel Gabinetto delle figure di cera di Paul Leni.

    I ragni, Il dottor Mabuse, L’inafferrabile. Una donna nella luna.

    1919 1922 1927 1928

    In l ragni Lang rivela un altro aspetto del suo genio. Questo serial incompiuto, di cui non sono stati girati che due episodi, presenta una fioritura, una sovrabbondanza, persino, di incidenti variegati che eccedono e imbrogliano l’azione: queste complicate avventure, poste in forte rilievo, molteplici, si sovrappongono, s’incrociano, sfidano la comprensione. Nella copia che è rimasta le didascalie, allora giudicate indispensabili alla comprensione, sono illeggibili, il che non facilita certo le cose. È sorprendente che sin dal suo terzo film (i primi due sono andati smarriti) un giovane cineasta dimostri tanta maestria nella regia di certe sequenze. Le scene filmate dal vivo sul tre­ no, beninteso senza trasparenza, gli inseguimenti, con tutta la loro suspense, dove ogni particolare è calcolato, sistemato con quella logica e con quella precisione che ammiriamo nelle sue opere posteriori, l’atmosfera creata da illuminazioni e arredi, utilizzati con grande abilità, tutte queste prove del talento di Lang sono già presenti per chi sa vedere. È facile oggi notare soltanto quel che c’è di desueto, talora di ridicolo in certe situazioni o nell’interpretazione compassata, artificiosa di un’attrice come Ressel Orla, dal petto prorompen­ te. Costei fa rimpiangere Pearl White, più sportiva, o la Musidora, più snella, dei Vampiri.

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    E tuttavia, in certi attori secondari, si riconosce l’impronta di Fritz Lang; in pochi tocchi egli dà presenza scenica ai suoi personaggi, come quello del piccolo inserviente sul treno, che divora con golosità la sua banana. Se Lang sottolinea ancora troppo pesantemente la comicità del cantiniere e dei domestici che degustano il buon vino prima di servire gli invitati, in seguito maturerà uno stile assai più so­ brio, quando ad esempio mostrerà in Destino la tavola dei no­ tabili. (Ricordiamo a questo proposito la gag troppo calcata e molto tedesca del piccolo porco e del cantiniere in Aurora di Murnau.) Talora il comico assume un aspetto quasi fantastico: il biz­ zarro piccolo professore dal quale si reca l’eroe perché gli tra­ duca i caratteri incas prefigura il professore pazzo in Una don­ na nella luna. L’antro ingombro di libri polverosi dove vive in compagnia di una gazza sapiente prelude al misterioso labora­ torio del piccolo farmacista in Destino. Il gusto per il decorativismo fantastico contrassegna l'appa­ rizione delle figure in cappuccio nero nella hall sontuosamente esotica dell’eroe: sembrano emanare dalla spirale della rampa a giorno, si moltiplicano, si sovrappongono. Dietro le braccia multiple in bronzo di una divinità indù s’indovina un cappuccio le cui fessure lasciano filtrare lo sguar­ do penetrante di strani occhi, simili a quelli del robot di Metro­ polis. Un istante dopo Lang taglia corto deliberatamente con questo effetto ornamentale: il cappuccio vien tolto, scoprendo il volto camuso di Georg John, il capo dei «ragni». Cosi le figure incappucciate, che provengono direttamente da Vampiri di Feuillade, - questi ne faceva un uso sobrio, fede­ le all’intento documentario della «vita cosi com’è», - hanno una doppia funzione: parte attiva nell’azione del film, sono al tempo stesso elementi scenografici. Lang non raggiunge ancora la perfezione dei «guerrieri-colonne» dei Nibelunghi. Se l’eroe incappucciato, comodamente sistemato dentro la sua cassa in fonilo alla stiva del battello, evoca Fantòmas con le

    Lavventtira nei Him di Fritz Lang

    LA FOLLA «ARCHITETFONICA»

    120. Saffo di Dimitri Buchowetzki.

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    Lavventura nei him di Fritz Lang

    LA F< )LLA «ARCHITETTONICA» 121. Il dottor Mtibuse. 122. 123 Metropolis.

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    sue prodezze d’acrobata, ciò accade perché nell’aerea alberatu­ ra, dove le funi dell’attrezzatura costituiscono di per sé uno sfondo ornamentale, Lang ha scorto un’occasione particolar­ mente propizia al movimento dell’azione. Come nel primo Mabuse, l’ipotesi svolge un’importante fun­ zione; l’apparizione, in un ambiente dal lusso orientale, di uno scheletrico fachiro ricorda Der Yoghi di Paul Wegener; Lang prende quel che gli par buono dove lo trova; come in Feuillade, come in tutti i film ad episodi, i rapitori si portano via la lo­ ro vittima tutta legata. Il film volge per un istante al western, l’eroe sembra adottare la maschera impassibile di William S. Hart. Nell’assalto alla ca­ panna egli si issa sul tetto, salta su un cavallo e, inseguito dai «ragni», afferra all’ultimo minuto la corda di un provvidenziale aerostato. Le botole segrete, gli ascensori complicati sorvegliati da un cinese con la scimitarra affilata, il suolo che manca sotto i piedi, i sotterranei inquietanti dove sinistri gentlemen in cilindro ten­ gono spaventevoli conciliaboli, le grotte blindate, le pareti scor­ revoli, le cantine che si riempiono di gas asfissianti, tutti questi accessori sono evidentemente un’eredità del film a suspense. Lang sa farne uso accorto, e dato che nulla va smarrito in questo regista «cosciente e coscienzioso», per il quale «tutti i film, quali che siano, richiedono molte cure e riflessioni» egli se ne servirà ancora nei film successivi. Cosi lo specchio che «teletrasmette» in l ragni le scene che si svolgono nel sotterraneo, davanti agli occhi della bella vamp Lio Shah, prefigura i televisori multipli del Dottor Mabuse. La rapina alla banca da parte dei «ragni» presagisce parzial­ mente l’irruzione dei rapinatori nel caseggiato in M. Non man­ ca neppure il custode legato che tenta di liberarsi. Sul veliero dei «ragni» si stacca per un momento, in contro­ luce, la forma di un uomo dall’ampio mantello e dal grande *

    Citazione da un’intervista io un articolo) di Fritz Lang, apparsa nel 1946 e citata nel libro di Lue Moullet, Fritz Lang, Paris, Seghcrs, p, 104. senza indicazione di origine.

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    cappello floscio: questa comparsa, che non prende parte all’a­ zione, prefigura l’apparizione della «morte stanca» in Destino. Nel secondo Mabuse Lang riprenderà con ulteriori affinamen­ ti, nella scena dei due innamorati minacciati dall’inondazione, quella dei flutti che invadono la cantina dove è rinchiuso l’eroe. Lang ha da sempre una sorta di predilezione - quasi un’os­ sessione - per le cantine fantastiche nel cuore del mistero dei sotterranei. La fessura nella roccia che guida alla città favolosa degli ultimi incas (reminiscenza, con i suoi templi accuratamen­ te ricostruiti, dei grandiosi edifici del primo Sepolcro indiano, di cui Lang aveva potuto curare solo la sceneggiatura, poi rea­ lizzata da Joe May), le grotte con stalattiti nell’episodio dei pi­ rati, prefigurano la caverna luminosa dei tesori di Alberico nei Nibelunghi, o la caverna lunare scoperta dal professore pazzo in Una donna nella luna. Lang torna piti volte sulle sue invenzioni: la caverna in cui danzerà Debra Paget nell’ultimo Sepolcro indiano, i sotterranei tenebrosi da cui scaturirà la terribile valanga di lebbrosi, ne so­ no come un’eco. Cosi, la città degli incas nei Ragni è a sua volta un primo ab­ bozzo della cattedrale sotterranea di Metropolis. E quando l’eroe dei Ragni discende per la botola nelle canti­ ne di Chinatown, non c’è da sorprendersi se già qui s’imbatte nella tigre di Eschnapur. Lio Shah, la vamp enigmatica, sempre impassibile, tesse co­ me un ragno la trama dei suoi innumerevoli delitti, di cui igno­ riamo il movente. Agisce per amore dell’avventura o per desi­ derio di lucro? In II dottor Mabuse Lang introduce già qualche tratto psico­ logico: tenta di approfondire questa «master mind of crime» al­ la Edgar Wallace, autore di moda a quel tempo, di cui tutti persino Brecht - divoravano i romanzi polizieschi. Il dottor Mabuse cade in preda alla depressione nervosa se appena un suo tentativo va a vuoto; si ubriaca quando crede di

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    124. 125. Li/ morte dì Sigfrido. 126 127- Metropolis

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    128.-131. Metropoli^.

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    trionfare. È in breve un essere umano, non un mostro. È sotto­ posto a bruschi salti d'umore, è divorato dalla brama di regna­ re per mezzo del denaro (nel dottor Caligari, personaggio stiliz­ zato, questa sete di potere restava sempre nell’astratto). Stesse sfumature psicologiche nella bella tentatrice che Ma­ buse invia dal giovane miliardario: come la Gerda Maurus dell’Inafferrabile anche questo personaggio si dimentica della sua missione e s’innamora della sua vittima2. Lang utilizza la ricchezza delle sue scenografie in tutt’altra maniera. Non bisogna fraintendere: quella scenografia, nono­ stante certi tratti che ricordano l’espressionismo, soprattutto nelle sequenze del cabaret, non è stata creata secondo questo stile, solo evocato, a momenti, da illuminazioni violente. Her­ mann Warm, lo scenografo, si è semmai ispirato all’artigianato d’arte monacense, sorta di «modern style» tedesco, esso stesso vaga eco dello «Jugendstil»1. A conferire al primo Mabuse tutto intero il valore delle sue sfumature non sono soltanto i toni sottili e la plasticità lumino­ sa di una copia ricavata dal negativo originale (al contrario del­ la copia dei Ragni, controtipo di un controtipo). Come già in Destino le scene creano qui l’atmosfera, le dànno rilievo, fanno vibrare il chiaroscuro ammaliante della «Stimmung». Ad esem­ pio, Mabuse che medita davanti a un camino acceso, mentre sopra di lui si staglia, curiosamente illuminato, l’immenso ri­ tratto di un gigantesco Lucifero che gli assomiglia. O la vasta sala della dimora sontuosa del conte - Alfred Abel - che vaga di notte, disperato, ebbro, un candelabro in mano, tra le opere d’arte che ha accumulato. Qua e là brillano con insistenza, alla maniera espressionista, gli oggetti, anonimi ma come animati da una vita insidiosa, latente. Un’enorme statua primitiva, fluo-

    Questo tratto è già da addebitarsi al sentimentalismo di Thea von Harbou. Al vero e proprio «Jugendstil» corrisponde in Francia lo stile «Nomile» o «Metro».

    Lawenrura nei film di Fritz Lang

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    rescente, attira lo sguardo, scintillano i cristalli d’un lampada­ rio, una maschera immensa sembra far esplodere lo schermo. Tutti questi oggetti preziosi non sono più, come nei Ragni, ele­ menti scenografici, e meno ancora gli arabeschi ornamentali d’una sorta di fondale. La loro presenza luminosa rende il si­ lenzio sempre più opprimente, e sono come i geroglifici d’una solitudine, d’una disperazione indicibili. Il Lang di Destino già controlla pienamente gli effetti delle sovrimpressioni. Nel primo Mabuse crea, grazie ad esse, visioni allucinanti: il conte ripete nell’ipnosi, insieme ai suoi fantasmi, doppio protoplasmatico del suo essere altrettanto spettrale, i gesti miserabili del baro. Il fantastico confina sempre in Lang con il reale. Mabuse ve­ de sorgere le sue vittime dal fondo del delirio in cui è immerso; il meccanismo complicato d’un portone si trasforma in mo­ struosi artigli d’acciaio (cosi il gigantesco ingresso della centra­ le in Metropolis diventerà la bocca vorace di Moloch come nel­ la Cabiria di Pastrone). Notiamo altre influenze da cui il giovane regista sa magi­ stralmente ricavare nuovi effetti: quando Mabuse travestito da vecchio fugge dalla bisca perché il procuratore von Wenck resi­ ste al suo potere ipnotico, Lang lo filma di tergo, come Wiene filmava il dottor Caligari, gli affibbia la stessa mantella, e lo fa camminare con la stessa andatura meccanica. Quando Mabuse, nel corso di una conferenza, ipnotizza gli ascoltatori, appare un deserto con oasi e carovana, che ricorda curiosamente quello fatto sorgere dal rabbino Loew nel secon­ do Golem. E quando Mabuse travestito da operaio eccita la fol­ la per spingerla ad attaccare il convoglio della polizia, Lang si ricorda di una sequenza analoga in Homunculus. Come nei film precedenti, Lang moltiplica piccoli tocchi co­ mici che danno rilievo ai suoi personaggi. La megera del vicolo losco che si gratta i capelli unti con i suoi ferri da maglia, il vec­ chio entusiasta che sommerge di fiori la ballerina sulla scena (strappandoli anche a una spettatrice), il segretario scialbo, de-

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    1 52. I tronchi in cemento a Neubabclsberg per Sigfrido. 133. 13-4. Foto di lavoro di fj/7zz donna nella luna.

    L'aweniura nei I dm tit Britz Lang

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    generato, drogato, in preda a molteplici tic, il piccolo-borghese che smaltisce i postumi della sbornia nella camera 112, la gras­ sa signora con il suo gigolo al tavolo da gioco, o ancora un per­ sonaggio che incontriamo per un solo istante nella grande hall d’albergo, - il marito che soccombe sotto il peso dei pacchi che la moglie ha acquistato, - tutti questi esseri sono le creazioni di una tavolozza estremamente variata. Lang cura attentamente ogni particolare: ci mostra a lungo, dopo l’esplosione della macchina infernale dal procuratore von Wenck, il soffitto dell’ufficio ancora sostenuto da puntelli prov­ visori. La precisione di Fritz Lang, il suo gusto per il fatto di cronaca e il suo desiderio di una rigorosa autenticità si manifestano dalle prime sequenze, ad esempio l’attentato contro l’incaricato che de­ ve consegnare il contratto sul treno. A tre riprese tre persone con­ sultano in tre luoghi diversi le lancette dell’orologio. Passo per passo, con meticolosità ingegnosa, l’intrigo procede rigorosamen­ te, e il montaggio sottolinea la quasi simultaneità degli avveni­ menti. Se ancor oggi è possibile presentare per quattro ore filate i due episodi di Mabuse (un tempo presentati in due riprese) senza che il pubblico si stanchi, è grazie alla precisione del montaggio. Si sa che il giovane Ejzenstejn, ammirato, aveva scrutato, analiz­ zato, smontato e rimontato le inquadrature di questo film per in­ dividuarne tutti i meccanismi. H fatto è che tutto è stato previsto in questo montaggio inge­ gnoso, e che ogni immagine implica l’altra, dando senso a quel­ la, insostituibile, che sola può seguirla. Cosi si stringe la catena delle avventure, portando la suspense al suo apice.

    Dopo il primo Mabuse, un film come Linafferrabile ci delu­ de. Esso manca del rigore che tanto ammiriamo nei due episodi di Mabuse. Sarà perché Lang ha tentato d’introdurre troppi tratti psico­ logici? O non sarà piuttosto per l’influenza invadente di Thea von Harbou, e del suo gusto per il melodramma enfatico?

    ^avventura nei film di Frilz Lang

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    Thea von Harbou insiste sempre troppo sui sentimenti e le reazioni dei suoi personaggi straripanti di effusioni. L’azione ral­ lenta, si sovraccarica, e il vigoroso montaggio di Lang ne soffre. Per una sorta di lealtà, Lang respinge queste accuse mosse a Thea von Harbou. «Bisogna pensare che l’epoca stessa, - egli precisa, - era straripante di effusioni, che vi regnava un senti­ mentalismo senza limite. D’altra parte, il film muto era obbligato a esprimersi attraverso la mimica. Che cos’altro avremmo potuto fare quando per esempio, in Una donna nella luna, Gerda Maurus vuole esprimere il suo amore, se non rassegnarci a ricorrere a certi gesti che oggi ci sembrano ridicoli, come quando si reca la mano al petto e alla bocca inviando baci all’amato?» Lang ha un bel dire, ma le sue spiegazioni sono poco con­ vincenti perché Gerda Maurus, nonostante i suoi occhi da gat­ to, è solo un’attrice assai mediocre, e Willy Fritsch è ancor più insipido di Gustav Fròhlich. Persino Rudolf Klein-Rogge, l’attore preferito di Lang nelle parti di superuomo criminale, perde il suo vigore n&'inafferrabile. Lang non ritrova la sua forza visiva se non nell’apparizio­ ne dei tre emissari vittime della loro pericolosa missione, che sorgono avvolti da un alone brumoso alla maniera espressioni­ sta; come un rimorso atroce davanti a Lupu Pick, il diplomati­ co giapponese schernito, di cui Lang mostrerà più avanti, con una potenza che non lascia dubbi, il harakiri. Ritroviamo ancora il vero Lang quando le ombre che antici­ pano l’azione reale invadono a più riprese lo schermo con una sorta di magia nera, o ancora quando il regista mostra l’avanza­ re metodico dei poliziotti con il suo abituale scrupolo di auten­ ticità, ponendo l’accento sul «fatto di cronaca» del thriller. Certi passaggi (l’incidente provocato sul treno) ricordano inol­ tre la suspense del primo Mabuse. L’influenza di Thea von Harbou è evidente in Una donna nella luna. Nelle vaste distese di candida sabbia dei paesaggi lunari, la falsità dei sentimenti ampollosi oggi stona ancor più; la grandiosità del fantastico cede spesso al ridicolo.

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    Lo schermo demoniaco

    In tutta questa cianfrusaglia sentimentale il genio di Fritz Lang si rivela solo nelle scene della partenza del razzo, molto precise nella loro anticipazione, le scene, ad esempio, che pre­ cedono il decollo, il cui tono da «reportage» è più convincente delle invenzioni da pura fantascienza.

    XV Tragedie di strada. Il sociale decorativo

    Che necessità c'è di un «treatment» romantico? La vita reale è troppo romantica, troppo piena di fantasmi.

    G. W. Pabst, citazione da Close up, dicembre 1927.

    Umberto Boccioni Le forze dì iota strada (1911). Basilea, proprietà I làngi.

    I film di Grune (1923), Pabst (1925), Rahn (1927) e Joe May (1928)

    Nella visione metafisica degli artisti di lingua tedesca, siano essi Ludwig 'lìeck, Kubin o Meyrink, la strada appare piena di tenta­ zioni e di trabocchetti, ma senza alcun rapporto con la realtà. Nei film tedeschi, soprattutto di notte, questa strada rappresenta l’ap­ pello del Destino, con i suoi angoli deserti dove si sprofonda co­ me in un abisso, il suo traffico folgorante, i suoi lampioni accesi, le sue insegne luminose, i suoi fari di automobili, il suo asfalto luccicante di pioggia, le finestre illuminate delle sue misteriose ca­ se, il sorriso delle sue prostitute dal viso truccato; è questa l’esca enigmatica, la seduzione voluttuosa per i poveracci che, stanchi del grigio focolare e della monotonia della loro vita, vanno alla ri­ cerca dell’avventura, dell’evasione1il . Per Kurtz la strada è tanto una superficie tutta piatta quan­ to una macchia scura dai contorni frastagliati, vibrante di una 1

    A proposito di un quadro di Umberto Boccioni, Le forze di una strada 11911 ), dove il potere suggestivo della strada è simbolizzato da raggi e triangoli, lo scrittore tede­ sco Soergel spiega nel suo libro lui Banne dei Exprewamsmus (Sotto il fascino delTcspressionismo) che il pittore non ha voluto dipingere la strada in se, bensì le sue «Kraftlinien», e cioè «le linee di forza che gli oggetti irradiano nello spazio». Ed è in questa rete di «Kraftlinien» che l’uomo della strada viene catturato senza possi­ bilità di salvezza. 1 Him tedeschi sembrano seguire gli stessi precetti.

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    Lo schermo demoniaco

    «frenetica» luce dove si delineano, sfumate, figure spettrali. Si può anche, precisa Kurtz, ritagliare un settore di una di queste strade inesistenti per immergerlo in un contrasto di luce sfolgo­ rante e di ombre acute che lo fa sorgere dalla tenebra; si può inoltre illuminare di scorcio, ma molto violentemente, soltanto il profilo delle linee, fissare la loro rete abbagliante. Il piccolo cortile di La scala di servizio risponde già abba­ stanza bene a questa descrizione anche se qui la visione viene rafforzata dall’intervento di nuove nozioni architettoniche. Kurtz del resto sa benissimo che, se la scenografia del film non è del tutto espressionista, questo non sarebbe potuto tuttavia essere ciò che è se l’espressionismo non gli avesse aperto la strada. Di qui trae origine la costruzione dello spazio con arditi contrasti di ombre e di luci, spigoli luminosi che scompongono o unificano certi elementi architettonici. Questo «contrappun­ to» esercita la sua trascinante magia anche negli interni: una scena di La scala di servizio mostra la cameriera disperata (im­ personata dalla sentimentale Henny Porten, l’idolo del pubbli­ co tedesco), in basso, nella penombra, mentre in alto esplode in una luce violenta la virtuosa ipocrisia delle borghesi.

    Nel film dal titolo La strada, di Karl Grune, la strada assume una funzione piti complessa, entra direttamente nell’azione. Prima ci viene mostrata dall’interno di una sala da pranzo bor­ ghese, come una semplice tentazione luminosa, un richiamo che la vita fastosa lancia dalla finestra sotto forma di raggi va­ cillanti nella semioscurità, che disegnano sul soffitto un ricamo furtivo. Ed è il lieve riflesso che diviene nostalgia, sollecitazione provocante per Eugen Klopfer, il meticoloso borghese. Poi, nella strada, è questo vertiginoso risucchio d’impressio­ ni che toglie ogni appoggio, come nel Fantasma di Murnau, ai piedi esitanti; è l’avventura che sfugge dalle mani troppo mal­ destre per coglierla. Entra in azione il fascino dell’oggetto: l’in­ segna di un ottico si trasforma in due occhi da demonio enormi e scrutanti. È anche il miraggio di una vetrina dove si riflette,

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    insieme al transatlantico e alle sue promesse d’evasione, la sa­ goma altrettanto seducente della donna enigmatica. (Questo perpetuo riverbero degli oggetti o delle persone desiderate su una superficie di vetro si ritrova in M, in La donna del ritratto di Fritz Lang, nonché nell'Opera da tre soldi di Pabst.) Secondo Kurtz lo scenografo Ludwig Meidner, nella sua sce­ nografìa della Strada, traspone il dinamismo brutale di un’arteria di grande capitale in visioni luminose dove tutti i particolari pitto­ reschi distribuiscono qua e là note vivaci. L’architettura è ridotta al chiaroscuro: le sfere luminose delle lampade ad arco amplifica­ no lo spazio, forme si muovono, una scala mostra i suoi contorni frastagliati, porte si aprono e si chiudono in un misterioso andiri­ vieni. Grune crea «il dinamismo di uno spazio roso dal movimen­ to», la sua volontà costruttiva dà forma allo «spirito» di una capi­ tale mondiale vivamente illuminata. Questo «spirito», dice ancora Kurtz, non può essere colto dall’obiettivo se l’immagine non è plasmata da una consapevole «volontà costruttiva». Si ricorrerà dunque all’espressionismo ovunque siano necessari effetti diversi da quelli proposti dall’oggetto reale quale si presenta all’occhio fi­ sico, e cioè effetti che devono essere percepiti intellettualmente. Kurtz tuttavia non capisce che la visione della strada in que­ sto film non è sempre soltanto espressionista, e che si tratta tal­ volta di un espressionismo modificato, trasposto, che usa ele­ menti quasi impressionisti per rendere un’atmosfera. L’espres­ sionismo è rimasto più puro per quanto riguarda gli interni: ad esempio un salotto riempito di luce crepuscolare dove il fulgo­ re del lampadario fa spiccare soltanto le forme dei personaggi al centro. Oppure è l’immagine di una di queste scale divenute classiche nel cinema tedesco, dove la luce cade spettrale da una lanterna appesa a una volta, tromba di scale sempre equivoca di cui Pabst ci offre una variante nella Ammaliatrice. Il borghese dal tradizionale parapioggia, impersonato da Klópfer, attore pomposo con il suo corpo pesante e i suoi gesti molli, se ne va per la strada, sperando confusamente di venire strappato al suo grigio perbenismo di uomo sposato, sistemato

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    LA NATURA IN STUDIO F LA NATURA VERA

    135 La morte di Sigfrido. 1 36. 1 37. L'erede dei Grieshuus.

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    25?

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    per sempre. «Questa mattina, sono uscito in cerca di non so che cosa, - dirà il cassiere nel dramma di Georg Kaiser Dal mattino a mezzanotte - Qualcosa mi spingeva...». Quel qualco­ sa per un tedesco sarà sempre il Destino. La fuga del cassiere è definitiva, mentre il bravo borghese della Strada uscirà finalmente dalla fallace avventura che si ri­ duce in fine dei conti ad abiezione e delitto. Se ne torna a casa, alla minestra quotidiana, alla sua scialba sposa; la strada nottur­ na, abbagliante, si allontanerà da lui. Il fatto che qui la tragedia non sia totale, che il Destino non abbia l’ultima parola, non è forse un segno che l’ossessione dell’espressionismo comincia ad allentare la presa? L’Ammaliatrice di Pabst rappresenta la quintessenza delle vi­ sioni germaniche della strada, delle scale e dei corridoi immersi nella semioscurità; è anche la consacrazione definitiva dell’archi­ tettura «artificiale», da studio, derivante dall’espressionismo. Nelle scene di miseria della Ammaliatrice domina il cliché, tutto vi è troppo studiato, troppo composto, troppo sottolineato. I vi­ coli sono troppo loschi, la tromba delle scale troppo enigmatica, i contrappunti di ombra e di luce troppo aspri. Il viso di Werner Krauss (il macellaio dai baffi a zanna) è troppo marcato, la scri­ minatura dei suoi capelli troppo unta e la sua brutalità esagerata; le prostitute all’angolo della strada, il borghese nobilmente trali­ gnato, l’insinuante mezzana, tutta questa gente fa troppo «image d’Epinal» con didascalia «miseria e bassezza umane». H pittore­ sco prevale sul tragico, e per questo molti passaggi del film oggi ci deludono; il patetico di un’epoca dove tutti i destini erano sconvolti non ci commuove piu di tanto. Ricordiamo un film che dipingeva con ben altra sobrietà e umanità i disastri del dopoguerra: Isn't life wonderful? dove il grande Griffith, questo genio del cinema, ha saputo creare una vera epopea della disperazione e della fame senza mai cadere in un facile sentimentalismo. Queste tristi file di cittadini che la mi­ seria spinge a comprare e comprare prima che la merce si esauri­ sca, prima che il marco si svaluti ulteriormente, che si spingono,

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    s’invidiano, s’insinuano, si spiano a vicenda per impedire al vici­ no di occupare un posto più vantaggioso, sono ben più vere, più vitali che non le code decorative del film di Pabst, composte di comparse molto comprese del loro valore simbolico. Tuttavia, forzando all’estremo il pittoresco, Pabst ottiene a volte effetti sorprendenti, come quella mano del macellaio stor­ dito dal colpo, che si alza contro il vetro, aggrappandosi al vuo­ to. Questa scena è del resto più convincente di quella in cui ap­ pare il suo volto insanguinato, reminiscenza del passaggio pre­ cedente, quando la sua faccia, piena di compiacimento e di vo­ racità, si affacciava a quella stessa finestra, prima che aprisse la porta alle ragazze pronte a vendersi per un po’ di cibo. H contrasto, durante le scene di sommossa (piuttosto teatra­ li), tra le immagini della folla in rivolta che si precipita verso l’albergo a ore, e quelle in cui i trafficanti del mercato nero cor­ rono verso l’uscita, cercando di sfuggire al furore pubblico, presenta già procedimenti che sin da allora caratterizzano i film di Pabst. In un’intervista del 1927 frequentemente citata, pub­ blicata in Close up, Pabst dichiarava a proposito del Giglio nel­ le tenebre-, «Every shot is made on some movement. At the end of one cut somebody is moving, at the beginning of the adjoi­ ning one the movement continues»2. Ciò significa che Pabst ta­ glia una inquadratura nel momento in cui una persona è in mo­ vimento, per montare un’altra inquadratura dove il movimento continua. «Cosi l’occhio intento a seguire il movimento, non distingue i tagli.» L’intenzione di Pabst è di evitare in questo modo gli scontri di inquadrature nel corso del montaggio - ef­ fetto ricercato al contrario dal cinema sovietico - per ottenere una perfetta fluidità dell’azione. A volte siamo colpiti da inquadrature rivelatrici che annun­ ciano ciò di cui sarà capace il Pabst giunto alla maturità: è ad esempio l’inquadratura dall’alto di Werner Krauss, il macellaio, nell’albergo a ore, che ci mostra la sua testa impomatata in tut«Ogni sequenza è fatta di alcuni movimenti. Alla fine di una inquadratura qualcuno si muove; all’inizio della successiva il movimento continua.»

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    ta la sua laidezza, la nuca grassa in risalto, le spalle alte; la mac­ china da presa segue i suoi gesti, il suo compassato modo di se­ dersi. le falde dell’abito accuratamente rialzate. la mano in­ guantata che afferra una porzione di dolce e lo zucchero che insudicia il cuoio; tutta la vanità del nuovo ricco, a disagio nei suoi abiti da festa, viene messa in luce. Pabst usa d’altra parte i procedimenti alquanto logori del simbolismo espressionista: la mano enorme del venditore di ve­ tri si protende in sovrimpressione per reclamare gli arretrati a una Garbo sul punto di svenire e a cui non resta che una som­ ma irrisoria. O ancora il busto della Garbo si dissolve nello sfu­ mato sotto lo sguardo del macellaio vestito a festa, e questo sfu­ mato sta a significare che il suo desiderio, spontaneamente por­ tato verso forme più generose, si allontana da questa fragilità. E la brevissima inquadratura che mostra, appesi a due pioli, il cappotto logoro della miseria e la sontuosa pelliccia di petitgris, che bisognerà pagare «in natura», è davvero cosi esente di simbolismo come Kracauer vorrebbe farci credere? Pabst, che ricercherà in seguito l’obiettività realista, ha varie volte espresso la soddisfazione per avere già presentato il delitto della bella adultera come un latto di cronaca: la forma del cadave­ re rimane nel vago diventando cosi qualcosa di anonimo, d’im­ personale, di molto lontano sotto la luce soffusa che cade dalle persiane semichiuse. (Questa atmosfera particolare sarà ripresa nella scena di Lulù dove l’eroina in fuga torna per un istante nel­ l’appartamento deserto del marito che ha appena ucciso.) Come tanti registi tedeschi, Pabst si sofferma sulle immagini ri­ flesse in uno specchio: l’aiutante della mezzana costringe la Gar­ bo a indossare un abito da sera che la lascia quasi interamente nu­ da. Vediamo la giovane in piedi davanti a uno specchio dove si ri­ flette la sola immagine della donna che la tormenta’. Poi la Garbo Da notare l’uso particolare di uno specchietto, quando il gioielliere passa la collana intorno al collo di Asta Nielsen, immobile, completamente passiva; ella alza lo specchietto con un gesto meccanico, e sul suo viso, come privo di volume, per due volte appare il cerchio luminoso che vi proietta Io specchio.

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    LA «STJMMUNG»

    138t Wabnsinn (Follia) di Conrad Veidt. 1 $9. 1st studente di Praga di Galeen.

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    rivestita da questo abito appare in una specchiera a tre luci dove si delinea, anch’essa riflessa tre volte, la sagoma di un uomo ubriaco la cui presenza reale è rivelata soltanto da una mano avi­ da protesa verso la giovane. Pabst predilige questa mano enorme sul bordo dello schermo. Mentre si avvicina alla povera ragazza impersonata da Asta Nielsen, il ricco trafficante si annuncia a sua volta con una grossa mano che si alza sullo schermo. Quando Asta Nielsen tenterà di spiegare la scena al trafficante intontito, Pabst mostrerà soltanto i gesti delle sue nobili mani emaciate. Questo stesso delitto, raccontato poi ai poliziotti, sarà nuovamen­ te affidato alle sole mani di Asta Nielsen, simili a uccelli straziati. NdYAmmaliatrice, Pabst inventa giochi di specchi più raffi­ nati: lo specchio, ad esempio, dove si riflette per un momento l’orgia degli ufficiali russi e che, spezzato da una bottiglia, se­ guita a rinviare su uno dei frammenti i corpi ammucchiati; e la scena in cui gli amanti decidono di trascorrere la notte in alber­ go appare riflessa sul finestrino dell’automobile che avevano chiamato e che riparte vuota. YlAmmaliatrice rivela già quanto Pabst valorizzi le attrici più degli attori: certo, in questo film, egli dispone di due donne ec­ cezionali, una delle quali è Greta Garbo, che pur essendo allo­ ra molto giovane e inesperta aveva appena interpretato in mo­ do indimenticabile la parte della contessa nella Leggenda di Go­ sta Berlingy di Stiller. L’obiettivo coglie la linea perfetta di que­ sto viso dove si espande dolcemente la sua impaurita tristezza, e le poche volte in cui ella arrischia un flebile sorriso, è infinita­ mente più seducente della «Garbo che ride» che si è voluto lanciare in Ninotchka\ Queste sue esitazioni, dovute in parte al panico che coglie un attore, hanno giovato alla parte. Esse ar­ monizzano con l’arte compiuta di Asta Nielsen, che appare al­ l’inizio, prima dell’assassinio, remissiva e quasi infantile, appe­ na animata da un umilissimo desiderio di felicità; via via, però, la sua passività s’impregna di dolore, e la sua maschera di Pier­ rot malato assume una straordinaria potenza. Che per un istan­

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    te si chiudano le sue palpebre gravate di esperienza, che una delle sue mani, sempre segnate a quanto pare da una invisibile ferita, erri per lo schermo, il suo destino patetico ci colpisce al cuore. La sua andatura infinitamente stanca è goffa come se le sue gambe fossero di legno; ella sembra sconfitta in anticipo, vittima prescelta di tutte le disgrazie della terra. Tante scene di questo film che non sono altro che luoghi comuni della miseria umana prendono vita grazie alla sua presenza. In definitiva, Pabst è ben più abile a evocare questo mondo orrido nato dall’inflazione, dal desiderio dei facili piaceri, tutta questa sfrenatezza, questa fiera di trafficanti, che non a dare una descrizione cinematografica valida del tetro grigiore della miseria. Egli cederà sempre alla tentazione di imbellettarla, di ravvivarla con un tocco supplementare di pittoresco. Pabst rinunccrà alla fine a quest’architettura troppo lumino­ sa di gesso e cartapesta, a questa sovrabbondanza di arredi e di sentimenti artificiali, e girerà alcune scene àdk'Ammaliatrice in un quartiere di Parigi. Anche se torna all’uso dello studio per la Londra di Lulù> ciò che ha imparato durante le riprese delYAmmaliatrice lascerà la sua impronta. Come succederà più tardi nel Traditore di Ford, farà edificare una intera città in mezzo alla nebbia, e la potenza evocativa è tale che l’assenza della realtà non si avverte neppure; vi si legge invece una rinun­ cia motivata, sobriamente consentita. Ma si può veramente definire Pabst un «realista», com’è sta­ to fatto in seguito? Iris Barry mi pare abbia visto giusto quando dice che Pabst ha disposto le sue inquadrature, numerose e di­ verse, in modo che la loro successione venga a rafforzare «l’il­ lusione realistica». Eppure, anche se Pabst vuole spingere lo spettatore a escla­ mare «Quanto è vero!» piuttosto che non «Quanto è bello!», egli non saprà mai sacrificare una inquadratura dove il pittore­ sco si accosta al dinamico. Tragedia di meretrici è una realizzazione di Bruno Rahn, regi-

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    LA «STIMMI JNG» S< )TT( ì LA LAMPADA

    140. 141. 142. 14 V

    Destino, Torgus di I Ians Kobe. Di notte di San Silvestro. Di vtradii.

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    sta molto disuguale che ha girato film detti «di costume» piut­ tosto commerciali, per poi giungere improvvisamente a que­ st’opera aspra e violenta. Non si può negare che la qualità straordinaria di questo film sia dovuta essenzialmente alla pre­ senza di Asta Nielsen. È indimenticabile il suo volto, intriso di emozioni quando guarda l’uomo che le causa tanto dolore, cosi come il gesto stanco con cui si trucca nella speranza di ricon­ quistarlo, pur sapendosi sconfitta in anticipo dalla giovinezza della rivale. Questo sarà l’unico film di valore di Rahn, ed è questa la sua tragedia: deluso nelle sue ambizioni, ferito nel suo orgoglio, moti giovane. Rahn ha svolto la sua attività ai tempi dell’«incantesimo di laboratorio»; ritroviamo nel suo film la luce di un lampione che fruga gli angoli oscuri di una stradina, scorrendo su uno sca­ broso acciottolato, spingendosi furtivamente nel vestibolo di una casa dall’aspetto losco; vi troviamo anche il chiaroscuro di un bar equivoco, frequentato da prostitute che sfoggiano le lo­ ro opulente forme sotto la luce di un lampadario, e la macchia bianca del viso di una di esse balza come un grido sullo sfondo scuro; come nella Strada, le loro braccia nude divengono agli occhi degli uomini tentacoli madreperlacei e fosforescenti, fio­ riti sul fango. Tuttavia il «fantastico sociale» di cui parla MacOrlan, e che sarebbe più esatto chiamare il «sociale decorativo», non è più in primo piano. La strada si riduce ora a un frammento di sel­ ciato accidentato, pieno di buche dove innumerevoli inquadra­ ture saltellano su tacchi troppo alti e un po’ logori, o scivolano, trascinando le ciabatte, o camminano pesantemente, con scar­ poni, inseguendosi, fermandosi, riprendendo la loro corsa: al­ trettante rappresentazioni della seduzione a poco prezzo, del protettore, della stanchezza di una «peripatetica» in attesa, bat­ tendo il marciapiede. Questa strada è da un pezzo che ha divo­ rato le anime; risulta dunque impossibile evocarla attraverso vi­ si e corpi, ciò spiega perché, per metri e metri di pellicola, Rahn seguirà sui marciapiedi e sui gradini infangati di una scala

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    questi movimenti di gambe e di piedi, nei cui anonimato risie­ de la loro sorprendente eloquenza. Anche quando si saranno lasciati alle spalle l’astrazione espressionista, i tedeschi ameranno sempre combinare elementi impersonali, fare agire i simboli e i principi piu che non gli es­ seri umani. E anche quando durante l’azione questi piedi ano­ nimi si adattano a un corpo, a un viso determinati, il loro pos­ sessore conserva un non so che di automatico, come se fosse mosso da una molla nascosta. È possibile che Rahn abbia subito in questi passaggi l’in­ fluenza del film astratto, l’«absoluter Film» dei registi di avan­ guardia? Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann, Infla­ zione e Fantasmi del mattino di Hans Richter risalgono allo stesso anno di Tragedia di meretrici. Non si può negare l’influenza di questi registi di avanguardia in Asfalto, film girato un anno dopo da un abile regista, Joe May. E questo un esempio eloquente di come il film commerciale del­ la Ufa utilizzi le acquisizioni della ricerca artistica. May non se ne lascia sfuggire una; il chiaroscuro dell’alba che mostra gli operai mentre stendono l’asfalto, le inquadrature che lasciano vedere solo gambe, piedi e attrezzi che martellano la massa ancora liqui­ da, potrebbero far parte di un documentario realizzato con in­ tenti artistici. Il fumo che sale, l’ingranaggio di un rullo compres­ sore che avanza lentamente, i particolari delle ruote in sovrim­ pressioni variate, hanno la loro origine nella sinfonia delle mac­ chine di Metropolis. Ed ecco apparire a loro volta visioni frammi­ ste, sovrimpressioni simultanee che s’incrociano di sbieco; le di­ storsioni si confondono, si susseguono, si completano, come in Sinfonia di Ruttmann o in Sinfonia delle corse di Richter, film do­ ve si tentava di afferrare il significato della strada rappresentan­ dola come un vortice, quintessenza astratta del traffico. Deside­ rando realizzare il cantico dei cantici della strada indifferente do­ ve si annodano tragici legami, dove si tramano incontri fatali che il traffico ignora e di cui schiaccia le ingannevoli tenerezze, May

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    ANCORA «STIMMUNG»

    144. 145. 146. 147. 148.

    Baruch. La vecchia legge di E.A. Dupont. Varieté. Lùlii. / Buddenhrook (1923) di Gerhard Lamprecht. N/z/. di ehi la colpa' di Paul Czinner.

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    intercala più volte inquadrature di questo genere. Purtroppo, questo sfoggio di arte astratta rimane del tutto estraneo alla lus­ suosa strada di studio nello stile della Ufa, che non esita a noleg­ giare, quando c’è bisogno, qualche autobus e ad assumere un centinaio di comparse in più. Questa sedicente arditezza non fa dunque parte integrante dell’azione, una storia d’amore perfetta­ mente convenzionale. Nel corso di questa insipida vicenda, Joe May non manca a volte di ricordarsi delle sue ambizioni artistiche. Di qui la ri­ presa dall’alto della strada dove il giovane Fróhlich, «Fiihrer» di periferia, poliziotto di servizio, domina il traffico, inquadra­ tura da cui traspare di nuovo il gusto tedesco per l’ordinato omamentalismo*. Per indicare l'imbarazzo di Frohlich, che si sente a disagio nel salotto di una donna di facili costumi, Joe May si limita a presentare due gambe divaricate fasciate da ghette di spesso cuoio sopra enormi scarpe. Ma i movimenti esitanti della mac­ china da presa sono incapaci di creare l’atmosfera, di evocare la scipita eleganza del salotto. L’inquadratura di un frammento di tappeto soffice, che ci viene mostrato prima che entri la coppia ed è destinato ad informarci sul genere di vita li condotto, ri­ mane inefficace. Questo film è, d’altra parte, un «pot-pourri» di tutti i pezzi forti dei film precedenti: nella bettola parigina, il ladro gentiluo­ mo che si trasforma improvvisamente in operaio della Compagnia del gas viene mostrato solo attraverso un’ombra gigantesca sul muro. Facile gioco di ombre anche nella tromba deDe scale quan­ do il giovane poliziotto toma a casa barcollando, dopo il delitto M

    Uno «Schupo» cosi inquadrato appare già nella sceneggiatura di Carl Mayer per La notte dì San Silvestro:

    «Come ombre: Traffico. Auto. Passanti Macchine. Auto. E Un agente che si erge come di bronzo. Spesso fischiando. E seguitando sempre a dirigere. Alzando il braccio. Regolando cosi il traffico. Che si divide da una parte e dall’altra».

    Tragedie di strada. Il sociale decorativo

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    involontario; e il delitto stesso non sfugge alla tradizione cinema­ tografica tedesca: viene ripreso dentro uno specchio. In definitiva, Joe May ha la pretesa di fare un’arte di avan­ guardia, ma la sua abile imitazione si potrebbe sintetizzare con questa immagine molto rivelatrice nella sua irrilevanza: simile all’uccello nella sua gabbia, su cui piombano, dai quattro ango­ li dello schermo, quattro tram in sovrimpressione, questo regi­ sta sembra essere stato sopraffatto da mezzi la cui potenza su­ pera il suo modesto talento. (Basta rammentare con quanta maestria Stroheim giocava, non senza crudele insistenza, sul motivo della solidità della vita borghese, in Rapacità.) Occorre ribadire che i film «neri» dei tedeschi non saranno mai altro che film in bianco e nero?

    XVI

    L’evoluzione del film in costume

    L’arte, l’arte autentica è semplice. Ma la semplicità richiede la massima arte. La macchina da presa è la matita del regista. Essa dovrebbe avere la massima mobilità per poter registrare il più fuggevole accordo di atmosfera. È importante che il fattore meccanico non si frapponga tra lo spettatore e il film. F. W. Murnau citato da Ludwig Gesek, Gettatoci der Filmkunst. Wien, 1948.

    Schizzo di Otto Hunte per Langeln azzurro.

    Tartufo di Murnau, 1925

    C’è da temere che questa trasposizione della commedia di Molière, genio essenzialmente francese, non piaccia molto al pubblico latino. Dorine, servetta che ci si figurava agile e vez­ zosa, ci sorprende quando è l’imponente e grassa Lucie Hóflich ad impersonarla; questa robusta corporatura sarebbe piti adatta alla Minna von Barnhelm di Lessing, parte spesso recita­ ta da Lucie I lòflich nel teatro di Reinhardt. Il prologo e l’epilogo moralistici, aggiunti alla sceneggiatura, sono vagamente ridicoli: è la storia di una governante ipocrita che maltratta un vecchio rimbambito di cui concupisce l’eredi­ tà. Il nipote del vecchio rivela questa ipocrisia a suo zio facen­ dogli vedere il film tratto dalla commedia di Molière. Questo inizio e questa fine sono perfettamente inutili, ma sono riscatta­ ti da scene stupende. Per Murnau, come in seguito per il Pabst di Lnlù, il viso di un attore diviene una sorta di paesaggio che l’occhio inquisitore dell’obiettivo esplora instancabilmente, fi­ no nei suoi angoli più reconditi, scoprendo ogni volta nuovi punti di vista, inaspettati e sorprendenti, nuove superfici da il­ luminare. La macchina da presa di Karl Freund scruta per lui ogni sinuosità e sporgenza dei visi senza trucco, ogni ruga, in­ crespatura di labbra o scintillio di occhi, svelando, con le efeli­ di e i denti guasti, i vizi nascosti: monti e abissi alla superficie

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    di un viso assumono rilievo nella penombra, mentre la luce pla­ sma le curve e gli spigoli. Più tardi, nel 1928, in un’intervista per Close up, Karl Freund dirà: «Per quanto riguarda il ruolo della macchina da presa Tartufo era abbastanza interessante. Ho girato il prologo e l’epilogo in uno stile moderno, vietando ogni trucco agli atto­ ri e adoperando angolazioni di ripresa inaspettate, mentre l’a­ zione trattata da un capo all’altro con una ’’sfocatura artistica” appariva come velata di garza». Tale procedimento preannuncia certe inquadrature sfumate di Pausi (realizzato subito dopo) dove Murnau svilupperà la nuova plasticità scoperta durante le riprese del prologo e del­ l’epilogo di Tartufo.

    Da notare la mobilità della macchina da presa che segue un personaggio all’interno dell’azione principale: la schiena di Tar­ tufo, che vediamo procedere lentamente verso il fondo e presen­ tarsi sempre più larga, occupare l’intero vano della porta, vali­ cando la soglia, assume delle proporzioni gigantesche grazie al progressivo ravvicinarsi. Da notare anche l’incontro di Orgon e di Tartufo sulla scala, l’urto di due movimenti magistralmente contrapposti dalla macchina da presa. Dapprima è soltanto in parallelo: Tartufo spia Orgon che non lo scorge; a un tratto il primissimo piano del viso enorme di Tartufo si erge come una minaccia verso Orgon e verso lo spettatore che vede Orgon in­ dietreggiare, poi, in una inquadratura successiva, Tartufo, questa volta di tergo, avanza di nuovo verso Orgon che via via indie­ treggia. Queste due inquadrature (procedimento di campo e controcampo) costituiscono un avvertimento visivo di notevole efficacia: l’influenza esercitata dal bacchettone sul credulo Or­ gon diventa di un’evidenza clamorosa; lo prova l’ultimo primissi­ mo piano che ci mostra l’immenso viso di Tartufo, che occupa quasi tutto lo schermo, di sbieco, chinato su Orgon, totalmente sottomesso, il cui solo profilo appare in margine. Ogni inquadra­ tura, ogni controangolazione di ripresa viene dosata perché sia

    L’evoluzione del film in costume

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    partecipe dell’azione, il primissimo piano d’inizio è una specie di presa di contatto mentre l’ultimo conclude. In collegamento con il prologo e l’epilogo, un unico primis­ simo piano rivela l’abiezione del personaggio: la camera palesa l’ipocrisia dell’uomo dal cranio allungato i cui pochi capelli ri­ gidi e unti accrescono l’ignominia.

    La linea nobile di un’architettura semplice e sobria si adatta benissimo ai giochi della macchina da presa; le curve leggere delle scanalature, il disegno elegante di un pilastro, la rete a merletti di una ringhiera stile «Luigi XV» introducono una freschezza non priva di fascino. Mumau ricerca il contrasto animato delle diverse sfumature di nero, di grigio e di bianco-madreperla. Ogni ele­ mento dell’arredo svolge un determinato ruolo all’interno del dramma: un enorme candelabro che si staglia contro un muro chiaro e levigato diviene il contrappunto della grande sagoma ne­ ra di Tartufo, che va e viene davanti a questo muro; lo slancio di una ringhiera di scala farà da riscontro al volume di una crinolina che s’innalza sulle volute dei gradini'. La macchina da presa fìssa per qualche istante l’elegante archi­ tettura dei tre piani; all’ultimo piano una porta si apre al passag­ gio di Tartufo che corre in fretta verso il pianterreno. Subito do­ po si apre un’altra porta che lascia vedere Dorine; la macchina da presa si china con lei scoprendo, attraverso la ringhiera, insieme allo spettatore il pavimento nero e bianco sul quale appare di sfuggita la striscia di luce che filtra da una porta socchiusa. A Mumau e Carl Mayer basta questo per farci capire che Tartufo, intrappolato, è entrato nella camera di Elmire. Ecco che Dorine scende, a sua volta, tenendo in mano una candela la cui luce in­ certa oscilla per la scala; la servetta corre ad avvertire Orgon; Cari Mayer e Murnau non si lasciano sfuggire questo pretesto per aprire ancora una porta sulla luminosità di una camera maggior’

    Mumau ha fatto eseguire questo apparato scenico con la massima cura. Le moda­ nature degli ornamenti sono state favorate a mano c il ferro battuto della ringhiera c stato lavorato al martello da specialisti, alla maniera antica. (Scene di Herlth e Ròhrig.)

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    niente illuminata. Questo breve passo del film costituisce una ve­ ra e propria sinfonia di luci; ne rivela a un tratto il tema segreto: allegretto di porte che si aprono e si chiudono precipitosamente, da un capo all’altro del film; andirivieni sulla gamma leggera dei gradini a evocare un andantino-, glissando di una tenda trasparen­ te, di tendine che scoprono e nascondono di volta in volta i personaggi. Il Tartufo di Molière, travestito da commedia tedesca che ri­ corda stranamente Minna non Barnhelrn, assume allora riso­ nanze da intermezzo mozartiano; la grossa Dorine prussiana ri­ sulta meno pesante, acquista, non si sa come, il fascino di una figura di Chardin.

    Murnau sa sintonizzare in modo meraviglioso i personaggi in costume d’epoca con il loro ambiente. Talvolta, su sfondi va­ sti e lisci, vediamo muoversi l’abito nero di Tartufo o il dolce sfavillio di un vestito di taffetà ornato di pizzi dalle tinte cupe. Oppure è il velluto delle cortine dalle pieghe rotonde e soffici, è la filigrana di un copriletto sul quale irradia la seta tenera di una vestaglia leggera; l’incanto di tutti questi elementi avrà ul­ teriore efficacia quando quel rozzo di Jannings vi si adagerà so­ pra, insulto alla loro fragilità. Tutti i contrasti provocati da un’intimità forzata vengono fatti risaltare: snella e altezzosa, la bella Lil Dagover-Elmire si erge di fronte all’ilarità sguaiata di Jannings-Tartufo che si rovescia sul letto di merletti. Rendere la madreperla voluttuosa di una scollatura femminile, tutte le sfumature di un vestito di seta sotto una profusione di ombre e di luci - lontano ricordo di Watteau - entusiasma Mur­ nau, in cui questo dono è andato sviluppandosi insieme all’evo­ luzione del chiaroscuro. Il film in costume si è ormai liberato dal verismo che contrassegnava certe opere cinematografiche. In Manon Lescaut e in Cenerentola, Robison e Ludwig Berger ci mostrano il riflesso appassito del velluto e il fruscio fluente della seta. Per non dire di Lubitsch che, sin dagli inizi, non si lasciava sfuggire l'occasione di far vibrare le superfici della seta o di sfog-

    L'evoluzione del film in costume

    ATM(>SFERA DRAMMATICA

    149. G7g//o nelle tenebre di G.W. Pabst. 150. Li mandragora di Henrik Galeen,

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    27Lo schermo

    demoniaco

    DENSITÀ DJ AT.MC )S1 ERE

    151. Ld potenza delle tenebre di Robert Wiene. 152. Iaì rotata dì Lupo Pick.

    L'evoluzione del film in costume

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    giare sgargianti drappeggi. I registi tedeschi, ossessionati dal de­ siderio di forzare le profondità delio schermo e della vita trattan­ do le ombre, sono riusciti ad animare le superfici. Ma bisogna anche notare in Tartufo il gioco delle forme che si confondono, quando per esempio l’ipocrita, a quattr’occhi con Elmire, scorge nel luccichio della teiera rotonda il viso sconvolto di Orgon, che solleva la tenda dietro cui si nasconde". Ritroviamo un passo analogo in L''incidente di Ernò Metzner, la cui qualità ci consente di valutare molto meglio la differenza di concezione e di stile. Come Gance in L; jolie du docleur Tube, Metzner si limita a ricercare la distorsione strana, mentre per Murnau la minima su­ perfìcie luccicante è il ricettacolo del gioco impressionistico delle forme cangianti che si fondono come per anamorfosi. Le trasposizioni in tedesco delle commedie di Molière dànno strani risultati. Heinrich von Kleist ha lasciato la propria im­ pronta nel suo adattamento àeìVAnfitrione: la commedia ariosa di un adulterio divino diviene la storia conturbante e pressoché tragica dì una donna straziata tra due amori, c di un dio, in fondo molto povero e molto misero nella sua nostalgia di una esistenza umana che lo spinge ad invidiare Anfitrione, marito tradito ma per niente ridicolo. Cosi pure per Tartufo: il film ha appesantito la commedia, certo, ma vi si scorge contemporaneamente uno strano males­ sere, e si ha l’impressione che anche senza Tartufo le cose non andrebbero meglio tra Orgon e Elmire. Non c’è, in effetti, «happy ending» in questa tragicommedia di Murnau. Grabbe, scrittore tedesco, debitamente tormentato, ha dato a una sua commedia il titolo Scherz, Satyre, Ironie and tiefere Bedeulung (Scherzo, satira, ironia e più profondo significato). «Tiefere Bedeutung» potrebbe fare da titolo a parecchie opere tedesche, si tratti di poeti come Kleist o di registi come Murnau; infatti è sem­ pre l’altra faccia delle cose ad assillare la loro disperazione. Murnau, storico delhinc, si c ancora unii volta ricordato di un quadro: il viso di Krauss, a metà nascosto dalla tenda, assomiglia a un personaggio che si nasconde allo stesso modo ndl'to/c/w di Hieronymus Bosch.

    xvn L’occhio della camera nei film di Dupont

    GE uomini che, a cucchiaiate, ignari gli uni degli altri, avevano invaso u circo, una colossale sfera dello sbalordimento, sedevano confìtti in massa... Dalle ringhiere della galleria pendevano ornamenti tra mani eccitate, le lampade ad arco facevano oscillare le loro tinozze di latte energetico. Cari Einstein, Bebuauin oder die Wunder des Dilettante» (Romanzo espressionista).

    Una strada di Af» disegno di Enùl I iaslcr.

    Raruch.

    Lm

    vecchia legge. 1924 Varieté, 1926

    Se siamo rimasti delusi dai film sonori di E.A. Dupont sin dal primo, Atlantik, non è senza ragione: il sonoro danneggia Dupont più di altri cineasti, dato che, pur sapendo disporre gli attori, non sa ottenere da loro il massimo delle loro risorse espressive. La sua forza è altrove. Una vecchia copia di Baruch, felicemente ritrovata dalla Ci­ neteca francese, ci consente di valutare le qualità reali di Du­ pont che sapeva dare sfumature squisite alla sostanza delle sue immagini e variare all’infinito la sua tavolozza. Egli non ricerca l’immobilità dell’immagine ornamentale né la stilizzazione de­ corativa alla maniera tedesca, ma cerca di porre valore contro valore facendo risaltare, ora con una giacca scozzese o con un motivo ornamentale a righe, ora con un vaso fiorito o un pezzo di tappezzeria a disegni, il fluttuare del chiaroscuro. Fa vibrare negli interni l’atmosfera adatta alla stagione, armonizzando il velluto delle ombre con la seta delle miti illuminazioni. Senza sottolineare il lavoro preparatorio, dispone i suoi attori con una delicatezza, con una sensibilità estreme, come per esempio la fanciulla innamorata di Baruch, disperata, che si nasconde la testa sul letto, in un atteggiamento che fa risaltare la sua fragili­ tà sotto le grandi pieghe del vestito. O ancora, davanti alla fine­ stra, Dupont compone un’autentica scena da «Kammerspiel»

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    Lo schermo demoniaco

    tra Henny Porten e Ernst Deutsch, con riflessi nel vetro dove si scorge lo sfavillio attutito di un vestito di taffetà che si fonde nella penombra del salotto silenzioso. Il costume d’epoca non mostra piu il travestimento, sono da­ gherrotipi che si animano; le crinoline scivolano sull’impiantito di legno, ondeggiano con dolcezza sul fresco dell’erba. La ric­ chezza luminosa delle impressioni frammiste suscita meraviglia. E persino nelle scene del ghetto contadino dalle tinte scure, con quanta arte - aiutato dall’operatore Theodor Sparkuhl egli sa evitare i contrasti bruschi, le illuminazioni forzate, man­ tenendo al contempo il vigore e lo «sfumato» di un’incisione che ricorda la scuola di Rembrandt. Basta confrontare questi passi con le scene del Processo di Pabst, film che si svolge anch’esso in un ambiente ebreo ortodosso, per misurare il talen­ to, il garbo e il gusto straordinario di Dupont

    In Variété, l’intuito puramente estetico di Dupont andrà an­ cor oltre. Egli si serve con grande abilità degli ultimi vestigi dell’espressionismo e ne darà prova, per esempio, con la ripre­ sa dall’alto di un cortile di carcere dai muri obliqui e scuri che sono più intollerabili di quelli di Metropolis-, il cortile appare come un pozzo di miniera in fondo al quale si iscrive, bianco contro nero, il cerchio formato dai prigionieri che girano eter­ namente in tondo2. O ancora la schiena impersonale di un ergastolano, che è so­ lo il numero 28, occupa quasi tutto lo schermo, mentre viene 1

    La famosa scena tanto vantata tra il giovane Baruch, attore debuttante, e Heinrich Laub, il direttore del teatro dai modi bruschi, ma dal tradizionale cuor d oro, mo­ stra i limiti di Dupont. Certo era abbastanza nuova per i tempi questa presentazio­ ne dell’audizione, in cui Baruch appariva un secondo appena, mentre la macchina da presa subito dopo si concentrava esclusivamente sull'indifferente direttore occu­ pato a mandar giù il suo pranzo. Usando un procedimento molto ellittico, Dupont mostra soltanto Patteggiamento del direttore che smette improvvisamente di man­ giare mentre il suo viso esprime a un tratto un estremo interesse, per far capire il gran talento del giovanotto che lo spettatore non vede. Bisogna tuttavia dire che oggi un tale procedimento ci appare artificioso. Qui si tratta, evidentemente, di un procedimento espressionista, derivato però da un quadro di Van Gogh.

    L'occhio della camera nei film di Dupont

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    presentata, come vista da molto lontano, cancellata addirittura per qualche istante con uno sfumato, la piccola forma luminosa del direttore dalla barba bianca, mezzo papà Natale mezzo pa­ dreterno da oleografia. Alla fine non rimarrà sullo schermo che il cerchio astratto della cifra enorme. Dupont varia questo procedimento quando dirige la macchina da presa di Karl Freund su Jannings che prepara la sua rivincita: mostra soltan­ to una salda spalla e un cappello visti da tergo, e sopra la spal­ la, il seduttore sgomento, tremante, inebriato e spaurito. Di fronte alla passione elementare, il rivale - pur abbastanza alto e reso più alto ancora dalla sua snellezza - appare piccolo e stri­ minzito sotto questo angolo sfavorevole per lui, quando si chi­ na a raccattare con una mano incerta il coltello che sarà costret­ to ad adoperare in un combattimento disuguale. Dupont ha abbastanza garbo da non mostrare questa lotta, mentre tanti cineasti tedeschi si sarebbero compiaciuti delle sue diverse fasi. La macchina da presa fìssa per qualche istante, senza troppo insistere, il letto dove la ragazza è stata portata consenziente, poi si vede soltanto l’esito deUa lotta: un braccio alzato tiene il coltello e la mano si apre, inerte e molle, lascian­ do cadere l’arma. Cosi farà Pabst in Lulir. si vedrà, unico indizio della morte di Louise Brooks, solo la mano che scivola e ricade mollemente sotto la stretta mortale di Jack lo squartatore.

    I critici del tempo hanno parlato molto, e con grandi elogi, del modo convincente con cui Jannings «recitava con la schie­ na». Tuttavia, sebbene Jannings impersoni con notevole sobrie­ tà, dato il talento naturalistico, l’acrobata tradito dalla vamp, lo spettatore è ben presto infastidito da questo «gioco di schiena» che si ripete troppo frequentemente: schiena di Jannings pri­ gioniero che cammina accanto a quella del poliziotto lungo uno di quei famosi corridoi tedeschi immersi in un’ombra crepu­ scolare, subito prima della grande scena di schiena nello studio del direttore. C’è ancora, in mezzo alle innumerevoli impalca-

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    Lo schermo demoniaco

    LA VERA «STIM.ML’N(b>

    153. Ranch. La vecchia legge.

    L’occhio della camera nei film di Dupont

    LA FALSA «STIMMUNG»

    154. Il canto del prisoniero di Joe Mav.

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    Lo schermo demoniaco

    ture di una fiera, la schiena strabordante di vigore del saltim­ banco. Vediamo ancora, dopo la famosa scena con la bella in­ trusa, Lya de Putti, la schiena di Jannings mentre in preda a un amore semicosciente si avvia pesantemente verso le cortine del letto coniugale. La macchina da presa si servirà nuovamente della schiena di Jannings, che contempla a lungo sul tavolino del bar la caricatura denunciatrice, le mani dolorosamente irri­ gidite. Ed è infine Jannings, ancora una volta visto da tergo, che se ne va, dopo l’assassinio, per un corridoio d’albergo, tra­ scinando con sé fino alla scala la vamp che si aggrappa a lui. Questi piani di schiena, colti nelle situazioni più diverse, inde­ boliscono a lungo andare l’efficacia visiva di questa immagine. (Risulta molto meno suggestiva che nel Tartufo di Murnau, do­ ve la schiena di Jannings appare solo di rado.) All’attrattiva dell’ambiente fieristico Dupont tenta di ag­ giungere l’atmosfera del «Kammerspiel»: quando Jannings sot­ to la luce di un lampadario si sofferma a meditare nel suo ca­ merino di artista, o è seduto a un tavolino di bar, la luce oscilla dolcemente sulle superfici dei bicchieri. Una goccia d’acqua cade con atroce regolarità da un rubi­ netto. Mentre però nella Madre di Pudovkin questa goccia che cade raffigura in sé tutta la sorda disperazione di una scialba esistenza, Dupont guasta il suo simbolo: gli accosta, come con­ trappunto comico, l’immagine delle gocce che cadono sotto la culla del lattante. Come tanti suoi compatrioti, Dupont ha un debole per i simboli contrastanti: Jannings per esempio divora con gli occhi la schiena di Lya de Putti mentre danza, poi si gira con disgusto verso la schiena di sua moglie china al pianoforte. Allo stesso modo confronta le gambe voluttuosamente inguainate di seta della ballerina con le calze di lana rammendate e piene di grin­ ze sotto la gonna grossolana della pianista. La prima apparizione della vamp è anch’essa un simbolo, quel­ lo del destino: salendo i pochi gradini della roulotte, Lya de Putti dapprima mostra solo la fronte e gli occhi immensi, poi lentamen­

    L’occhio della camera nei film di Duponc

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    te, come un’aurora, appare il suo viso intero. Cosi il fatto di cro­ naca fieristico sembra trasmutarsi in parabola metafìsica. A volte, certo, il simbolismo è più discreto: il seduttore, mentre spia la donna che desidera, apre la finestra per poter poi, quando lei sarà li, chiudere la porta con il pretesto di un ri­ scontro d’aria. Sicuro della sua preda egli abbassa le persiane e - contrappunto breve ma nondimeno eloquente - le alza do­ po la scena decisiva.

    Se paragoniamo l’atmosfera del luna park di Variété con quella deUa fiera di Caligari o con quella assai più artificiale del Gabinetto delle figure di cera, scorgiamo finalmente il segreto del talento di Dupont: egli ha il dono di cogliere e di fissare for­ me fluttuanti che cambiano in continuazione sotto l’effetto della luce e del movimento. Sempre e ovunque egli è intento al vorti­ ce di luci, che accentua ulteriormente mostrando dietro il turbi­ nio di un ventilatore la scena di una festicciola animata di artisti di music-hall, o mostrando brevemente il viso di Jannings dietro l’agitarsi del tovagliolo con cui questo fa vento alla sua partner trafelata. Si tratta indubbiamente di un «impressionismo» che conser­ va le tracce del suo passaggio attraverso l’astrazione espressio­ nista: è evidente quando, per esempio, al di sotto del corpo, ri­ preso con uno scorcio grottesco, di un acrobata rannicchiato sul suo trapezio, mostra la folla come la vede l’acrobata mentre si dondola, screziatura ridotta ad innumerevoli macchie flut­ tuanti, a scie d’immagini simili a quelle prodotte da un fotomaton, oppure in altre inquadrature dove la disposizione geome­ trica della massa disegna un mosaico variabile a seconda del­ l’andirivieni. fl soffitto cosi volgarmente cosparso di stelle del Wintergarten, il celebre music-hall berlinese, si presenta come una pioggia di scintille. Una inquadratura ci fa vedere come tutte queste impressioni si confondono, turbinano intorno a Jannings, in piedi sul suo trapezio, preso dalla vertigine al co­ spetto del suo rivale felice.

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    Lo schermo demoniaco

    Dupont si servirà ugualmente di visioni animate da una sorta di risucchio per dipingere l’emozione del suo personaggio prin­ cipale: Jannings, scoprendo la caricatura sul marmo del tavoli­ no, non si muove, non vacilla, è il mondo intorno a lui a barcol­ lare, e davanti ai suoi occhi smarriti, cioè davanti agli occhi de­ gli spettatori, le immagini sfilano in una panoramica rapida e indistinta. Tutti questi effetti visivi «impressionisti» derivano dal caos tradizionale di un espressionismo assoluto; hanno guadagnato in vigore e si sono liberati da uno schematismo meramente espressionista. L’impressione di una fine di spettacolo di musichall è affascinante e addirittura piu allucinante di quanto fosse­ ro le trasposizioni dai contrasti forzati nei film precedenti. Qui, il traffico, le insegne luminose che si spengono e si riaccendo­ no, i lucori dei becchi le cui rifrazioni fanno vibrare l’oscurità, non hanno niente in comune con il labirinto astratto, dalle lu­ minose linee geometriche, contrapposto a forme scure cubiche. Allo stesso modo, l’ambiente del luna park, questo intrico di paletti e di pali, di raggi della grande ruota, di cordami da cui pendono lampioni, conserva la fluidità «impressionista» che i rapidi passaggi permettono. Ecco perché il bianco e nero di Dupont ha una tale intensità visiva, una vivacità cosi vicina al colore. Nel grande music-hall passano le figure bianche dei tre acrobati davanti a questo ma­ re ondeggiante e fosforescente composto dalle file di spettatori. Sullo sfondo scuro, i loro corpi sono plasmati dal raggio di luce di un riflettore a cui si aggiungono altri raggi di luce che seguo­ no l’ascensione aerea delle aeree creature disperse sulle scale. La macchina da presa, per un istante ferma su uno di questi corpi, ne segue quasi amorosamente tutti i movimenti, coglien­ done la forma contratta in uno scorcio fantastico che le dà alla fine la parvenza di una sorta di granchio bianco puramente ornamentale. Dupont ha realizzato una trasposizione visiva sorprendente del potenziale di tensione racchiuso in un’atmosfera di music-

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    hall. Si sente nelle sue immagini il palpito della follia collettiva che s’impossessa di un’arena nel momento della messa a morte; la folla in preda a una frenesia cieca diviene un mostro dalle mille teste, assetato di sangue e in attesa dei «salti mortali». (Non appena gli spettatori ridivengono personaggi visti da vici­ no, l’allucinazione del music-hall viene meno, cedendo il posto a una caricatura naturalista del tutto comune.) A un certo punto, la folla, sotto la trama di una pioggia di scintille, offre l’aspetto di una marea di occhi, marea viscida, specie di pantano melmoso in cui sbocciano, come da una cola­ ta di lava, bolle. Anche qui Dupont si adopera ad afferrare il movimento, mentre Lang, con mezzi analoghi, farà una presen­ tazione statica (le dozzine di occhi avidi che divorano l’appari­ zione della finta Maria in Metropolis). La macchina da presa di Karl Freund, questo grande opera­ tore, segue voluttuosamente le forme agili, i corpi che si slan­ ciano e volano per lo spazio, si capovolgono in perigliose ca­ priole o piombano a un tratto, travolti in una caduta quasi cer­ ta, poi riprendono a planare nella filigrana di cavi e funi. Persi­ no il music-hall dei Quattro diavoli, film girato da Murnau nel 1928 in America, non ha questo brio visivo. Nel turbine di luci e di movimento, quello dell’amore-passione passa in secondo piano: si tratta solo della scialba e trivia­ le vicenda dell’eterno triangolo, a cui si aggiunge il sentimenta­ lismo del «giovane ardito al trapezio volante».

    xvm Il trionfo del chiaroscuro

    Se sarebbe già abbastanza pericoloso gareggiare con un tale poeta disponendo degli stessi mezzi espressivi, quanto più rischiosa dovrebbe essere l’impresa, se si volesse scendere in lizza con armi disuguali! In realtà Wolfgang Goethe aveva a sua disposizione, per esprimere i suoi pensieri, tutto {’arsenale delle arti verbali... Io agisco solo con un magro libretto, nel quale indico molto brevemente come debbono comportarsi e atteggiarsi i ballerini e le ballerine e come io pressappoco mi immagino la musica e la scenografìa. E tuttavia io ho osato comporre un Dottor Faust in forma di balletto, rivaleggiando con il grande Wolfgang Goethe, il quale mi aveva tolto in anticipo persino l’originalità de! soggetto, e per elaborarlo aveva potuto impiegare la sua lunga vita fiorente come quella degli dèi - mentre a me, afflitto e malato, è stato posto da Lei, egregio amico, solo un termine di quattro settimane, entro le quali dovevo consegnarle la mia opera. Annotazioni di H. Heine per il suo balletto Dottor Faust, 1851.

    Manifesto per il film Al di là della strada, interpretato da Lissi Arna per la regia di Leo Miltier.

    di Murnau, 1926

    L'inizio di questo Film offre ciò che il chiaroscuro tedesco ha creato di piti notevole, di più sorprendente: la densità caotica delle prime immagini, questa luce che nasce nelle brume, que­ sti raggi che trafiggono l'aria opaca, questa fuga orchestrata vi­ sivamente come da organi che risuonino per tutta la distesa del vasto cielo, ci tolgono il fiato. La forma luminosa di un arcangelo conturbante si contrap­ pone al demonio i cui contorni, nonostante le tenebre, hanno un rilievo grandioso. Jannings stesso, che impersona questo de­ monio, rinuncia all’istrionismo, abbandona i suoi soliti artifici naturalistici, e per una volta è domato; il demonio appare vera­ mente primordiale come era al giorno della creazione del mon­ do. (Ciò non impedisce a Jannings, il demonio ridisceso sulla terra, di sfoggiare di nuovo le sue mimiche piene di fatuità e di esasperare come sempre lo spettatore straniero.)1 1

    Non c'c da stupirsi se questo film, interamente fondato sulla vicenda amorosa tra Faust c Margherita, come l’opera di Gounod (si potrebbe usare contro di es­ so il rimprovero ironico di Stendhal secondo cui Goerhe avrebbe messo in moto un sorprendente macchinario di stregoneria demoniaca per sedurre una sartina), rimane ciononostante privo di erotismo. La volgarità da vaudeville del flirt che si annoda tra Mefisto e Marthe, risulta tanto piu pesante. Da Camille Horn Mur­ nau ha saputo trarre una commovente ragazzina, invece Gòsta Ekman, efebo equivoco e dolciastro, stona in questo film dedicato all’amore di un uomo per una donna.

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    Lo schermo demoniaco

    Nessun regista, nemmeno Lang, ha saputo con uguale mae­ stria far sorgere il soprannaturale dentro a uno studio: è ancora un mantello del demonio che copre l’intera città con le sue enormi pieghe o non è invece forse una nube gigantesca che in­ combe su di essa? Le tenebre demoniache stanno per divorare il chiarore divino? Dove sono i limiti a questi fenomeni grandiosi?

    La macchina da presa di Carl Hoffmann darà alla parte ter­ restre del film questa plasticità straordinaria, capace di infon­ dere diabolicità persino alla stoffa di un vestito. Prima di tra­ sformare il suo Mefisto in cavaliere spagnolo frusciarne di seta, l’artista sottile che è Murnau si compiacerà di confrontare il poveraccio, sorta di contadino medievale in spolverino a fron­ zoli, con il ricco borghese Faust, rivestito dall’ampio mantello gallonato dove i riflessi giocano generosamente nelle vaste falde vellutate. A tratti la cotta di Mefisto dà l’impressione di una scorza sgretolata, rosa dalle ombre, e tale vestito, come impa­ stato nella creta, toglie a Mefisto ogni parvenza umana. (Il pic­ colo contadino appare improvvisamente, come lo Scapinelli dello Studente di Praga, come una creatura infernale.) Come Paul Wegener e Arthur von Gerlach, Murnau ha l’ar­ te di evitare, grazie alle sue luci, che i costumi nei suoi film ab­ biano quell’aria di stracci direttamente usciti dalla bottega del costumista. (Tranne nel caso del Faust ringiovanito, troppo bel­ lo, e un po’ insipido, e anche quando Jannings appare come ca­ valiere ossequioso al ballo mascherato.) Nella «Studierstube», lo studio di Faust, la luce nebulosa e fluttuante dell’inizio permane. Niente contrasto arbitrario, niente contorno troppo calcato e nemmeno quelle ombre artifi­ cialmente frastagliate cosi spesso ricercate dai registi tedeschi. Le forme escono dalle brume dolcemente luminose, opalescen­ ti. Se Murnau si ricorda della luce in cui è immerso Faust nel­ l’incisione di Rembrandt, egli interpreterà a modo suo il ruolo deUe luci. I contorni imprecisi si contrappongono ora all’evoca-

    Il trionfo del chiaroscuro

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    zione del soprannaturale dell’inizio; e gli accordi si stabiliscono come emanati da una tastiera invisibile, di cui un pedale invisi­ bile prolunga le risonanze. Nell’uditorio, il vecchio Faust si er­ ge immenso davanti all’emiciclo dei discepoli: qui le masse e i valori si equilibrano in una trasformazione perpetua, le forme si dileguano, una barba intrisa di raggi tremanti diviene mu­ schio, gli alambicchi luccicano in questo sfumato. Persino il movimento di una sagra, del resto sprovvista della minima allegria, si delinea solo indistintamente, non appare che smorzato; nessun raggio di sole filtra attraverso i baracconi del­ la fiera, i salti e le capriole dei saltimbanchi sono puramente meccanici, per niente più allegri della schiera dei festaioli. Tut­ to concorre al preludio del disastro che sta per colpire la città. A un tratto scatta il panico: la peste spazza via tutta questa gen­ te, la tormenta rovescia le impalcature, dilania le squallide ten­ de. Nel campo visivo giace, di sbieco, e facendo riscontro a un brandello di tela gonfiato in un ultimo sforzo, il cadavere ran­ nicchiato del giocoliere. L’estrema ricerca di questa composi­ zione non è pesante come nella scena della giovane in Torgus, per esempio, tanto domina nel film il ritmo peculiare di Mur­ nau. E ciò è più chiaro ancora nel passo in cui il monaco crolla mentre tenta di fermare il flusso dei festaioli avidi dei loro ulti­ mi piaceri. L’arabesco decorativo viene sostituito dall’incidente, il cui dinamismo rafforza l’intensità dell’azione. Per tutta la durata del film ritroviamo questa plasticità sottile e ricca che deriva da una sorta di ossessione del visivo propria di Mumau: nella visione dei corpi degli appestati, in quella della maschera marmorea cosi patetica della madre morta, in quella del monaco, che si erge agitando la croce davanti alla folla in delirio. Indimenticabili sono, nel gruppo che circonda la gogna dove Margherita è legata, i pesanti lineamenti di un villano assorto a masticare lentamente, nonché le teste dei chierichetti, la bocca spalancata, innocenti, inconsapevoli, simili ai begli angeli ambigui del Botticelli. (Dreyer, apparentato a Mumau per tanti aspetti sin dal suo Vampyr, si è ancora ricordato di queste immagini nel suo

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    Lo schermo dcrnoniuco

    Il trionfo del chiaroscuro

    APOGEO DEL ( I I1AR( )SCURO

    155. L’arrivo di Mefistofcle sulla terra nel prologo del Fcjz/v/. 156. Faust nel suo studio. 157. Emil burnings nel ruolo di Mefistofcle

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    Dies Irae.) A questa cerchia di volti dal rilievo marcato si contrap­ pone quello di Margherita, stranamente vuoto, colpito dai fiocchi di neve, immagine che evoca la Lillian Gish, anche se più com­ movente, del film Agonia sui ghiacci. A tratti la luce ondeggia sui visi; sulla maschera del monaco agonizzante si proiettano le ombre di coloro che si scostano da lui e rimangono invisibili. La luce sgorga da ogni direzione: su Faust che brucia grossi volumi polverosi, sul fantasma annerito di Mefisto che scongiura le fiamme, sulla nebbia di un crocic­ chio da dove sale una catena di cerchi luminosi, il cui chiarore oscilla sul viso di Faust intento a evocare il demonio. Brandelli di fiamme, lettere di fuoco s’inscrivono di traverso sullo scher­ mo, promettendo a Faust, come una volta al dottor Caligari, la potenza e il fasto. Dall’interno di una chiesa zampillano ondate di luce dolce e tenera che salgono su per le volte con i cantici, dilagando dal portone aperto e condensandosi poi in una sorta di muro contro cui vengono ad urtare coloro che sono condan­ nati alle tenebre. Queste sfumature delle luci partecipano al dramma: è il balenare delle torce che errano e s’incrociano nel­ la città notturna, quando la forma ingrandita di un Mefisto ri­ divenuto demoniaco si erge, gridando all’assassinio, o ancora è Margherita in mezzo alle fiamme del rogo che si piega verso Faust, che nella sua lucida follia ha riconosciuto sotto la sua fi­ sionomia invecchiata. Le fiamme invadono progressivamente tutto il cielo, un globo luminoso sospeso per l’eternità diviene il simbolo della grazia eterna, dell’apoteosi di una compiuta redenzione. Il movimento della camera mobile si segue più facilmente che nell’UZtówo uomo-, nei due anni trascorsi da questo film, Mumau ha imparato a dosare la profondità di campo del «tra­ velling» (carrellata) e l’apertura delle panoramiche, a subordi­ nare il suo slancio al ritmo complessivo del film collegando le inquadrature tra di loro. Il terreno accidentato della sua città medievale si presta alle riprese dall’alto, ma egli sa evitarne un uso eccessivo. Se la macchina da presa di Carl Hoffmann mette

    Il trionfo del chiaroscuro

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    in risalto la fessura profonda di una strada dai gradini ripidi, è perché di qui sorgerà per Margherita, tra i tetti dagli orli ta­ glienti, il destino tragico impersonato dal suo amante accompa­ gnato dal suo consigliere, il diavolo. Se Mumau mostra palese­ mente un gran piacere visivo per la celebre panoramica, è per­ ché questo viaggio aereo ha uno scopo preciso. Concediamogli del resto questo travelling di monti e valli in sovrimpressione che esprime il grido di angoscia che Margherita lancia dal fon­ do della sua miseria verso Faust, grido di angoscia espresso dal­ la sua bocca aperta.

    Le storie del cinema non cessano di ripeterci che Dupont è sta­ to l’unico, in Variété, a essere capace di filmare una scena come se fosse vista dall’attore, collocando la macchina da presa sopra la sua spalla. Però Mumau non ha avuto nessun bisogno della lezio­ ne di Dupont: già in Nosferatu la macchina da presa, e quindi lo spettatore, vede con gli occhi del folle che si aggrappa al tetto le piccole forme fluttuanti che si agitano per il vicolo. In Faust il procedimento è dato con tale discrezione che pas­ sa per cosi dire inosservato, eppure un critico americano aveva già fatto notare questa scena, in cui l’immagine di Margherita inseguita da Faust è ripresa cosi come la vede Mefisto, la cui as­ senza dallo schermo rivela il sarcasmo con cui il demonio assi­ ste a questi primi segni di degradazione. Il movimento delle immagini viene integrato da contrappunti ritmici: il chiaro corteo dei bambini che salgono lentamente i gra­ dini della cattedrale, tenendo in mano come ceri dei gigli, si con­ trappone per un effetto del montaggio alla folla dei lanzichenec­ chi irti di aste e di bandiere, che avanzano verso il portone2. Mumau varia con grande arte le inquadrature delle strade, che non sono altro che gradini di scale: uomini con il volto co­ perto da una buffa trasportano feretri in una notte carica di 2

    È un montaggio di inquadrature in campo e controcampo, come per l’incontro di Tartufo e Orgon. Il medesimo procedimento sottolinea, in un'altra sequenza, la contrapposizione della folla e del monaco che tenta di fermarla,

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    Lo schermo demoniaco

    miasmi, una folla vi porta malati. Se si guarda con attenzione questo continuo fluttuare delle masse, ci si accorge subito di quanto Lubitsch abbia meccanizzato i suoi movimenti di mas­ se; qui i corpi vengono spinti instancabilmente secondo un ri­ tmo ondeggiante e preciso verso la figura di Faust, guaritore per grazia del diavolo. I tetti dalle cuspidi appuntite, dalle tegole allineate a formare un disegno, sono gli unici elementi che sembrano ancora im­ prontati a un’architettura semi-astratta creata per Murnau da Herlth e Rohrig, gli scenografi di Destino. Questa architettura è ben diversa da quella della città autentica che vediamo in Nosferatu, e maggiormente apparentata nonostante la precisione del disegno alla scenografia che Poelzig fece realizzare per il Golem. Se la strada dai tetti scoscesi che conduce alla casa di Margherita evoca parecchi ricordi dell’architettura espressionista, la scena del duello, di notte, sulla piccola piazzetta dove il piano superio­ re in aggetto rafforza l’impressione di spazio chiuso, ne indica l’evoluzione. Qui niente di eccessivo, né le ombre che rodono le facciate, né la porta divenuta come l’ingresso di una misteriosa caverna; per quanto lento sia il ritmo di Murnau, la fluidità affa­ scinante che sa trarre dalla macchina da presa toglie ogni pesan­ tezza statica e ornamentale alle scenografìe.

    XIX Pabst e il miracolo di Louise Brooks

    Presentando Lulù, avevo soprattutto intenzione di dipìngere il corpo di una donna tramite le parole che ella pronuncia. Per ognuna delle sue frasi» mi chiedevo se fosse una frase da donna giovane e bella.

    F. Wedekind, prefazione a Die Buchse von Pandora.

    Nonostante l'avvento del « sonoro ». io rimango convinco che al cinema il testo di per sé è ben poca cosa. Ciò che importa è l'immagine. Cosi continuo a sostenere che il creatore di un film è il regista molto di più che Fautore della sceneggiatura o gli interpreti.

    G. W. Pabst, Le r&le infellectuelle du cinema, Paris, 1937.

    Il manifesto del film I misteri th un'anima (Psichoanalyse: Ratsel des Unbewussten, Psicanalisi: i misteri dell’inconscio) che nel marzo del 1926 venne presentato al Gloria Palast di Berlino,

    Ladii. 1928 // diario di una donna perduta, 1929

    Il caso di Pabst è estremamente curioso: è un regista al tem­ po stesso sorprendente c deludente; ci si chiede come mai l’au­ tore di Lutò o deirOpera da ire soldi abbia potuto girare un film pesante come II processo. Pabst presenta parecchie contraddizioni; i critici del tempo le hanno analizzate anche prima del 1930. Gli uni vantano il suo intuito, la sua perspicacia, la sua perfetta conoscenza dei fattori psicologici e del subcosciente, tale da fargli usare la macchina da presa come una macchina a raggi X. Alcuni lo ri­ tengono uno scrutatore appassionato dell’anima umana, travol­ to dalle sue scoperte; altri, Pasinetti per esempio, scorgono in lui un osservatore guidato da freddi calcoli. Potamkin dal canto suo deplora che Pabst non approfondi­ sca i problemi cinematografici e si limiti a sfiorare i suoi sogget­ ti. Cosa c’è di fondato in tante asserzioni così diverse? In un numero della rivista italiana Cinema, del 1937, un critico dichiara che se Pabst ama trattare un soggetto psicologico, lo fa per renderlo piu popolare possibile. Ecco un giudizio che mi sembra giusto e spiega perché ci appare un po’ facile la maniera in cui egli gioca con l’inflazione e con la rovina della borghesia in Ammaliatrice, quanto superficiale è il suo uso della psicanalisi in Misteri di un’anima, e ciò a dispetto delle sue grandi doti visive.

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    Lo schermo demonùrco

    del mascalzone impersonato da Rasp, per poi salire lungo le gambe e scoprire l’immediato contorno: una confusione di car­ te sudicie, mucchi di mozziconi, in breve tutto lo squallore di una camera d’albergo di terzo ordine, in modo da rivelare pro­ gressivamente la misera esistenza di un truffatore di bassa lega. Pabst trova d’ora in poi, e in particolare per // diario di una donna perdala, accenti più violenti grazie a un metodo più di­ retto: concentra, per esempio, l’attenzione della macchina da presa sul viso duro, vigile e sornione della nuova governante che non si lascerà sedurre come la precedente. Un’altra inqua­ dratura la mostrerà davanti al suo padrone in un atteggiamento umile, ma lo spettatore è già stato avvertito in precedenza. O ancora è il viso crudele di Valeska Gert, la sorvegliante della casa di correzione, che vediamo più tardi battere la bacchetta su un gong; la macchina da presa arretra facendo apparire la lunga tavola davanti a cui sono sedute le convittrici, che man­ dano giù in cadenza la scarsa minestra. 11 montaggio di Lulù è più scorrevole, forse perché qui pre­ vale l’inclinazione di Pabst per un'atmosfera fluttuante o per il chiaroscuro dai contrasti violenti (la nave illuminata nella not­ te, per esempio). Alla fusione di due opere teatrali si deve il fat­ to che, nonostante la scioltezza stilistica, certi passi del film spiccano dall’insieme, come già notava un critico di Close up. Ognuno di essi costituisce un dramma a sé, e le loro specifiche peripezie, il ritmo e lo stile si differenziano dal resto: per esem­ pio lo sfavillio impressionista delle scene di rivista, la bettola sulla nave illuminata alla maniera espressionista, e le immagini brumose della miseria a Londra. Nessuno come Pabst ha saputo fissare la febbre che regna fra le quinte quando va in scena la prima di una grande rivista; la fretta stordente, gli andirivieni apparentemente senza scopo, la promiscuità dei corpi fra gli arredi che vengono trasportati qua e là, l’aspetto del palcoscenico che sembra ruotare di sbie­ co, quando si mostra, nel corso di un numero, un’entrata, un’u­ scita. la fretta premurosa degli artisti che vanno a inchinarsi

    Pabst e il miracolo di Louise Brooks

    L’EVOLUZIONE DEL COSTUME

    160. Asta Nielsen in Ammaliatrice di G.W. Pabst, 161 Manon Lcscaut di Arthur Robison.

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    Lo schermo demoniaco

    sotto gli applausi, la rivalità, la compiacenza e lo scherzo, quel miscuglio incredibile di attività dei trovarobe e degli elettricisti, di aspirazione artistica, di pittoresco e di facili piaceri. Neppu­ re il famoso Quarantaduesima strada rende questo scintillio, questa atmosfera calda, questa sensibilità sommersa nei flutti di luce che si riverberano sulle tende di lamé, brillano sugli elmi e le armature, dànno i riflessi della madreperla ai corpi di donne quasi nude. Pabst dirige questa baraonda con una sorprenden­ te destrezza; tutto è previsto, accuratamente regolato: a inter­ valli calcolati con precisione, alcune figure attraversano lo schermo provenendo da tutte le direzioni e passando davanti o dietro a un gruppo principale, per dare un’impressione di ef­ fervescenza, di dinamismo. Tutto oscilla nello sfumato di uno sfondo dove Lulù appare come una sorta di idolo pagano, se­ ducente, scintillante di lustrini, di piume, di fronzoli e falpalà. Lulù è al centro dell’attenzione, e Pabst sa variare in conti­ nuazione le scene di seduzione che la mettono in risalto, per esempio quando il dottor Schón entra nell’appartamento di Lulù, non sapendo come fare a confessare alla sua amante che si sta per sposare. La macchina da presa riprende il suo sgo­ mento mentre cammina in lungo e in largo nella stanza; le ce­ neri della sua sigaretta bruciano un centrino, la sua mano gioca nervosamente con un soprammobile come quella di Jannings in Variété con un bicchiere di liquore. Un taglio, un montaggio sa­ piente di campo e controcampo ci mostra Lulù che sta a osser­ vare la sua crescente irritazione. Ella sprofonda nei cuscini, si muove, si corica sul ventre, a metà eretta in una posizione da sfinge, mentre Kortner le si avvicina e si siede. La macchina da presa si tuffa in avanti e scruta il viso impassibile di Lulù; l’o­ biettivo indugia, segue la linea perfetta del volto, la madreperla luminosa della pelle, la frangia di capelli laccati, l’arco nitido delle sopracciglia, l’ombra palpitante delle ciglia. Un’altra scena offre una variante più sottile: nello stanzino del trovarobe Lulù si butta sul divano, la macchina da presa si avvici­ na alla sua nuca bianca e scorre lungo le sue gambe che battono

    Pabst c il miracolo