L'ineguale umanità. Comunità, esperienza, differenza sessuale 8820720132, 9788820720131

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L'ineguale umanità. Comunità, esperienza, differenza sessuale
 8820720132, 9788820720131

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B. MORONCINI F.C . PAPPARO G . BORRELLO

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L'INEGUALE UMANITA Comunità, esperienza, differenza sessuale

~ LIGUORI EDITORE

Indice

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Premessa

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La comunità impossibile di Bruno Moroncini

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«Per più vedere e per più farvi amici» Su L'Esperienza interiore di G. Bataille di Felice Ciro Papparo Simone de Beauvoir e la differenza infranta di Giovanna Borrello

Premessa

Questo libro è ciò che resta di un progetto di ricerca sul concetto d'eguaglianza. Lo si intenda alla lettera: i saggi qui raccolti rappresentano lo scarto, o il residuo, dell'idea dell'eguaglianza quale si è andata configurando nel progetto del Moderno. Ne distillano l'essenza, quel che ne resta. E che non passa. L'essenza, dice Hegel, è l'essere che è passato, ma passato senza tempo, ciò che passa senza passare, e che per questo resta. Resta insistendo in ciò che passa, sopravvive al passare, è ancora quando tutto è passato, finito. Un passato che è anche un avvenire. La tesi di questo libro è che non si dà alcun possibile futuro per l'idea dell'eguaglianza se non si accetta preliminarmente il fatto che essa è passata, che è finita. Nella forma storicamente assunta nel Moderno essa è la carta che non serve al gioco e che si scarta. La carta che non ci farà vincere. Tuttavia solo se il pensiero riconosce che l'idea dell'eguaglianzza è tramontata, può, come l'uccello di Minerva, cogliere al volo in ciò che passa il passato che resta ed aprire un avvenire. Il resto dell'idea dell'eguaglianza è un certo lavoro della differenza: esito sconcertante, forse irrilevante, e tuttavia ne.:essario. Non era forse nella lotta contro le differenze, di ceto, di classe, di genere, che ilprogetto egualitario aveva riposto la propria legittimazione e la propria necessità storica? Non faremo qui la storia sociale, politica e teorica, dello scacco dell'idea dell'eguaglianza, degli effetti di neutralizzazione e di omologazione che essa ha provocato, effetti altrettanto devastanti di quelli prodotti dalle gerarchie contro le quali essa combatteva. Di questa storia il pensiero moderno da Marx a Nietzsche e Adorno se n'è già fatto carico. Ci basterà dire che la parola d'ordine dell'eguaglianza ha prodotto una miriade di contraddizioni perlomeno pari a quelle che ha risolto.

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Ciò che ci importa è l'aporia, l'indecidibilità propria del concetto. Il fatto, in altri termini, che l'eguaglianza, una volta realizzata, possa trasformarsi, e non per accidente, ma in nome di ciò che attiene al suo concett~-;ìn una-forma di domini o. Fino E}Lf!_~f__C!_f.!_q_gic!!_)eLc_q7!!.pg _cjL sterminio: J!:!!!} egual(tutti rìaottTzii cenere. E da qui, tuttavia, che si leva un resto, a iéstim~ni~nza che -~ella- distruzione totale qualcosa ancora resta, qualcosa che si ostina a fare differenza nella indifferenza cui, volente o nolente, conduce il progetto egualitario. Lo scarto della differenza o la differenza come scarto, è ciò che fa scartare l'idea dell'eguaglianza da una delle sue possibili destinazioni: la totalità mortifera e distruttiva. La differenza ne differisce l'esito. Eppure questo libro non è un libro sul pensiero della differenza (a meno che non sia accompagnata dalla qualifica di "sessuale"). E ciò non per snobismo, rigetto delle mode, che altro non è che una sottile astuzia per essere alla moda. Ma perché il pensiero della differenza, senza aggettivi, vale a dire senza resti, sembra agli autori solidale con ciò che essi si propongono di decostruire: "la" differenza non è una nuova, o più antica, comunque più vera ed autentica, essenza dell'uomo che debba essere sostituita all'eguaglianza. Per citare ancora Hegel, l'essenza del!' uomo è di non averne, cioè di fare differenza. E solo in questo senso la differenza è l'essenza, ma l'essenza come resto e scarto, come ciò che cade e non si raccoglie nell'unicità di un nome e di un concetto. Non dunque "la" differenza, bensì la differenza all'opera, e l'opera della differenza è il disfacimento di tutto ciò che si presenti con la pretesa di racchiudere l'essenza in una totalità compiuta. Il lettore di questo libro si troverà, quindi, di fronte non a degli esempi di pensiero della differenza, ma a dei pensieri differenti, ciascuno dei quali declina un certo modo di far differenza della differenza, ciascuno dei quali dice o iscrive la differenza in una delle sue innumerevoli ed infinite dizioni. L'opera della differenza è la disseminazione della differenza, non il suo raccoglimento. Di ciò gli autori sono consapevoli. Ed è in nome, appunto, della legge paradossale della differenza che hanno riunito qui le loro voci: per mostrare che non c'è comunità di ricerca che non sia quella che, raccogliendosi intorno al resto della differenza, testimoni anche e in primo luogo della differenza irriducibile di coloro che ne fanno parte. Bruno Moroncini

La comunità impossibile di Bruno Moroncini

A mio padre, fuori memoria

Vorrei provare a riprendere qui, ripetendo un incipit blanchotiano, concatenando le mie frasi con le sue, un'esigenza mai del tutto scomparsa: l'_~~ig~_g:z:a. d~!l,~ c::9mµnità,.Vorrei farlo nonostante il, ed a causa del, fatto che l'esigenza della comunità appaia oggi marginale e periferica, che essa sia più che rimossa, forclusa dal discorso dominante, e che, là dove si mostri, essa si manifesti, alle volte come lapsus o dimenticanza, ma più spesso come desiderio allucinato o costruzione ddirante. Iscrivendo il mio discorso in quello di Maurice Blanchot e di Jean-Luc Nancy, mi approprio ora sotto forma di citazione di una frase che decontestualizzo dalla Communautè desoeuvrée: «La testimonianza la più importante e la più dolorosa del mondo moderno, quella che riunisce forse tutte le altre testimonianze che questa opera si trova obbligata ad assumere, in virtù di non so quale decreto o di quale necessità, è la testimonianza della dissoluzione, della dislocazione, o della conflagrazione della comunità (. .. ) La parola comunismo emblemad.zza 1r des1derio di un luogo della comunità trovato o ritrovato al di là delle divisioni sociali sia dell'asservimento ad un dominio tecnico-politico e di colpo al di là del deperimento della libertà, della parola o della semplice felicità, da che questi si trovano sottomessi all'ordine esclusivo della privatizzazione, e infine, più semplice e decisivo ancora, al di là del rinsecchimento della morte di ciascuno che, per non essere più che quella dell'individuo, porta un carico insostenibile e sprofonda nell'insi-

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gnificanza»1. Come un'eco faccio risuonare adesso l'inizio de La communauté inavouable: «Vorrei riprendere, a partire da un testo importante di Jean-Luc Nancy, una riflessione mai interrotta sull'esigenza comunista, sui rapporti di questa esigenza con la possibilità o impossibilità di una comunità in un tempo che sembra averne perso fin la comprensione (ma la comunità non è al di fuori dell'intesa?), infine sull'indigenza di linguaggio che simili parole, comunismo, comunità, sembrano racchiudere, se sentiamo che portano con sè tutt'altra cosa da ciò che può essere comune a coloro che potessero pretendere di appartenere ad un insieme, ad un gruppo, ad un consiglio, [lQ un collettivo, pur nel proibirsi di farne 2 1 parte, sotto qualsiasi forma» • Vorrei che le frasi che sto per scrivere fossero a loro volta un'eco, una disseminazione innescata dalla sovrapposizione dei testi di Blanchot e Nancy (sovrapposizione su cui farò reagire a sua volta la scrittura di Bataille\ la risonanza dell'innesto testuale; e che prolungassero il discorso sulla (o della?) comunità secondo quella tonalità con cui esso mi giunge e mi parla. Con discrezione, ed insieme con l'inevitabile violenza che rende discreta la parola, che distende il bianco della spaziatura ed apre l'intervallo, prendo posto nel discorso unico continuo universale, partecipo all'infinito intrattenimento, dò inizio alla ripetizione. Ripetizione di un pensiero della comunità. E, tuttavia, addomesticherei l'esigenza che mi muove, esorcizzerei il pathos che mi spinge, se credessi che la ripetizione di un pensiero della comunità fosse resa possibile semplicemente dalla costanza di un contenuto, come se la comunità fosse soltanto l'oggetto di un sapere determinato, il dato di 1

Jean-Luc Nancy, La communauté desoeuvrée in "Alea", n. 4, 1983, p.11, ora rivista ed ampliata in Id., Paris, 1986, pp. 11-12 (il testo di Nancy sarà d'ora in avanti citato da questa edizione). ' M. Blanchot, La communauté inavouable, Paris 1983, p. 9. 3 Già l'aggettivo "inconfessabile" attribuito alla comunità proviene da Bataille. Un passo de L'esperienza interiore dal titolo "L'essenziale è inconfessabile" recita:· «Ciò che non è servile è inconfessabile: una ragione per ridere, per ... : è lo stesso per l'estasi. Ciò che non è utile deve nascondersi (sotto una maschera). Un criminale morente, rivolgendosi alla folla, formulò per primo questo comandamento: "Non confessate mai"» (G. Bataille, Oeuvres complétes, Paris, 1970, sg., vol. V, p. 196. D'ora in poi le opere di Bataille saranno citate con la sigla OC, seguita dall'indicazione del volume in numeri romani e da quella della pagina in numeri arabi).

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una scienza specifica, l'orizzonte circoscritto di un'ontologia regionale da reinserire in un secondo momento in un progetto totalizzante, in un'enciclopedia delle scienze. Ma esiste una scienza della comunità? Ora, se esistesse un tale sapere - istituzionale, codificato e trasmissibile - , coloro che ne parlano dovrebbero costituire a loro volta una comunità: la comunità filosofica, scientifica, politica, di quelli che fanno della comunità l'oggetto della loro comune ricerca. Già fra Jean-Luc Nancy e Blanchot, per non parlare di Bataille, si sarebbe dovuta formare una comunità fondata sul loro comune interesse per il senso della comunità, sulla loro comune domanda sulla possibilità o sull'impossibilità della comunità4 • E, tuttavia, il solo attardarsi su di una simile ipotesi avrebbe significato per loro tradire l'esigenza comunitaria e vietarsi l'accesso ad un pensiero della comunità. Se rileggo le frasi che la violenza propria del dialogo mi ha costretto a strappare al contesto cui appartenevano, mi accorgo che la loro tonalità, quella perlomeno che credo di cogliervi, evoca un paesaggio abolito, un'irreversibile perdita, la vertigine dell'impossibile. Che cosa può dire, infatti, un discorso sulla comunità se non che essa è perduta, irrimediabilmente perduta? Che la comunità è impossibile, anzi è l'impossibile stesso? Nancy scrive: la comunità è dislocata, conflagrata. Provo a concatenare: come una stella. Il pensiero della comunità ci giunge da u1;1 passato immemoriale come i raggi di una stella ormai morta. 1Come potrebbero allora coloro· che tentano un pensiero della comµnità illudersi anche solo per un attimo di formare una comunità, di trasmettersi un sapere, di poter decidere sulle regole, sul metodo, sulle condizioni di possibilità di un tale sapere, se la comunità è per essenza perduta, se ciò che è perduto della comi.mità è nient'altro che l'essenza stessa della comunità (e con essa l'essenza in generale)! e se la comunità è da sempre sprofondata nell'abisso della memoria;-'in quel lato della 4

Solo l'amicizia forse sarebbe possibile: «L'amicizia, questo rapporto senza dipendenza, senza episodio e in cui entra tuttavia tutta le semplicità della vita, passa attraverso il riconoscimento dell'estraneità comune che non ci permette di parlare dei nostri amici, ma solamente di parlargli, non di farne un tema di conversazione (o di articoli), ma il movimento dell'intesa, in cui, parlandoci, riservano, anche nella più grande familiarità, le distanze infinite, questa separazione fondamentale a partire dalla quale ciò che separa diviene rapporto» (M. Blanchot, L'Amitié, Paris 1971, p. 328).

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memoria che è fuori memoria, luogo senza dimensioni da cui nessuna riattivazione, nessuna ripresentificazione, potranno mai farla riemergere? :'Eppure sia Nancy, sia Blanchot, é Bataille prima di loro, hanno tentato la ripetizione della comunità, di un pensiero della comunità; ed io continuo a mio modo il loro dialogo, intreccio la mia voce con la loro, m'intrattengo a parlare della comunità. Ma mi chiedo: questo dialogo non è inutile, addirittura risibile?,Questa comunità che nonostante tutto finiamo per formare non è uno strano modo di esser comuni, di avere qualcosa in comune? Potremmo mai testimoniare per essa?lNon assomiglia forse ad un segreto tanto più inconfessabile quanto più inesistente, come se fossimo costretti a mantenere il silenzio proprio sul fatto che non c'è alcun segreto da nascondere, che non c'è nulla da confessare? Una tale comunità è priva d'intenzione, orfana di voler-dire, inoperosa, scioperata, senza opera di senso (come tradurre desouvrée?). Sarei tentato d'abbandonare l'impresa, di sottrarmi a questa ermeneutica insensata, quasi folle, se non fosse per un pensiero che, attraversandomi la mente, mi procura la vertigine dell'impensato: si parla della comunità solo a patto di condividerne l'assenza,\ si è parte di una comunità solo abbandonandùsi alla sua impossibilitf""'Ciò che si può trasmettere della comunità è solo la sua perdita ed il dialogo ripete la comunità nell'unica figura ad essa adeguata: come spazio vuoto, béance del pensiero. Parlare della comunità è come parlare di un morto; non solo: è parlare in nome di un morto, come fare un discorso alla memoria, in memoria della comunità. Che cos'altro potrebbe significare altrimenti l'interrogarsi sulla possibilità o l'impossibilità della comunità, oggi e qui, in questo tempo che chiamiamo "nostro" (ma possiamo appropriarci del tempo o non è forse vero che esso ci espropria?), se non parlare in nome ed a nome della comunità? Come se. la comunità ci precedesse infinitamente nel momento stesso in cui noi parliamo del suo possibile futuro: un pensiero della comunità non è forse costretto a retrocedere sempre in un passato che sembra sfuggire al tempo, in un'anteriorità mai stata presenJ,_e? Il futuro cui destiniamo la comunità non è un futuro anteriore?\ Debbo concluderne che il dialogo inutile e risibile, la ripetizione insensata di un pensiero della comunità, non dipendono da noi, perlomeno non soltanto da noi: è la comunità stessa che, irraggiando la sua assenza da un passato immemoriale, ci obbliga ed autorizza insieme,

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spogliandoci conternporanearnente di ogni autorità, di ogni volontà autoriale, a parlare in suo norne, a patto, tuttavia, di sottometterci al suo stesso decreto: parlarne nell'impossibilità di parlarne. La comunità è la legge; c'è una legge, la legge della comunità, legge indecidibile ed eccessiva,1incodificabile, che ci destina ad una destinazione priva di scopo, ad un ·invio sospeso nel tempo: la comunità è ciò che si dà senza apparire, che avviene senza essere un evento databile, situabile nello spazio e nel tempo, ciò che, costantemente presente, ci sostiene e ci fonda, tuttavia, attraverso l'assenza. Ma se parlare della comunità è corne parlare di e ad un morto, parlare in norne di un morto, fare un discorso in rnernoria che, corne tale, richiede sempre un'invocazione alla rnusa, a Mnernosine, corne se dovesse essere qualcun' altro a dettarci le parole, le frasi, allora il discorso della e sulla comunità avrà sempre il tono malinconico e triste di un elogio funebre, di una cornrnernorazione. Ma non quello del lutto, non quello della rnernoria viva: non c'è Erinnerung della comunità, sernrnai un ricordo pensante, un Gediichtnis ..Vale a dire un ricordo che, invece di essere il tratto cosciente di una rnernoria che, ancorché inconscia, funge in rnodo continuo ed ininterrotto, sia piuttosto una costruzione del pensiero, quasi una tardiva invenzione. Mi accorgo che l'ul• tirna frase - un'invenzione tardiva - è ancora una volta una citazione, proviene daJean-Luc Nancy; e se rni si è imposta quasi senza che rne ne accorgessi è perché rni rimanda ad una serie di questioni che si affollano intorno al terna della comunità. Questioni, sia detto subito, di cui conosco tutta la povertà teorica ed etica, rna che sembrano essere privilegiate dal discorso dominante. Appare inevitabile per quest'ultimo costringere il terna della comunità nelle maglie di un sistema di pensiero la cui articolazione poggia tutta sull'opposizione comunità-società. Quest'ultima ha i tratti del mondo moderno, è impersonale ed astratta, e si contrappone punto per punto alla comunità prernoderna caratterizzata dall'organicità, dall'intimità familiare e dall'affettività. Stupisce che non ci si sia rnai interrogati, non tanto sul carattere ideologico, anticomunista, di questa teoria tonnesiana (e ciò anche quando sia usata all'inverso, vale a dire contro la comunità ed a favore della società), quanto sulla sua economia complessiva: se essa contrappone un'economia domestica, guardata con nostalgia, ad un'economia politica, di

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cui si vogliono godere i vantaggi senza pagare il prezzo corrispondente, ciò avviene, tuttavia, pur sempre nei limiti di un'economia ristretta. Quel che non si comprende è che la comunità s'iscrive in un'economia generale, che essa eccede, non solo l'indifferente dipendenza reciproca propria della società contro la quale fa agire il desiderio della comunione estatica e fusionale, ma anche e soprattutto questo desiderio stesso qualora esso allucini il proprio oggetto in una qualsiasi configurazione empirica: comune domestica o Reich millenario. Comunità semmai è solo il nome del nostro desiderio eccessivo. Ma ecco la citazione completa: «Il pensiero o il desiderio della comunità potrebbe non essere altro che l'invenzione tardiva che tenta di rispondere alla dura realtà dell'esperienza moderna: che la divinità si ritirava nell'immanenza, che il dio-fratello era lui stesso il deus absconditus (tale fu il sapere di Holderlin), e che l'essenza divina della comunità - o la comunità in quanto essenza di dio - era l'impossibile stesso»5. La distanza dalla Gemeinschaft tonnesiana non potrebbe essere più grande e Nancy, infatti, precisa sUbito dopo: «La Gesellschaft non è venuta, con lo Stato, l'industria, il capitale, a dissolvere una Gemeinschaft anteriore (. .. ) La società non si è prodotta sulle rovine di una comunità. Essa si è prodotta nella scomparsa di ciò che - tribù o imperi - non aveva forse più rapporti con ciò che chiamiamo "comunità" che con ciò che chiamiamo "società". Sicché la comunità, lungi dall'essere ciò che la società avrebbe infranto o perduto, è ciò che ci accade 6 questione, attesa, evento, imperativo - a partire dalla società» • . Credere allora che il pensiero della comunità sia necessariamente l'espressione di un atteggiamento regressivo di fronte allo sviluppo della società moderna significa certo tradire l'esigenza comunitaria, ma anche aver preso troppo sul serio la tesi reazionaria, essersi fatti sedurre dal suo dispositivo feticistico; non essersi accorti, in altri termini, che essa contraffaceva l'istanza comunitaria ben più di quanto, stando al suo assunto, quest'ultima non venisse distorta da quella società cui si imputava la responsabilità della sua scomparsa. Al contrario, è esattamente dalla società che, come domanda, attesa, evento e imperativo, ci accade ' Jean-Luc Nancy, La communauté desouvrée, cit., p. 32. ' Ivi, p. 34.

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la comunità, ci accade cioè di doverla pensare, e non come un passato empirico che la società avrebbe abolito, bensì come quell' ad-venire, quell'oggetto del desiderio e dell'attesa, che può manifestarsi nella sua purezza e nella sua radicalità solo a partire dall'orizzonte aperto dalla società. Vorrei soffermarmi per un attimo su quel termine - imperativo - usato da Nancy a proposito della comunità; esso da un lato ci rimanda alla comunità come legge, decreto, ordine che viene impartito al pensiero perché si disponga ad un pensiero dell'impossibile; dall'altro evoca un altro discorso sulla comunità che, d'altronde, il nome di Holderlin già aveva annunciato: quell'idea della comunità come unione di liberi ed uguali che si fondava sulla categoricità dell'imperativo morale e che aveva informato di sé la riflessione di Kant e di Fichte. Non posso sfuggire ad una domanda (cui non sarà possibile dare qui una risposta, ma alla quale non voglio e non posso rinunciare): ciò che il pensiero della comunità dovrebbe tentare di pensare sarebbe il legame, il tratto comune e allo stesso tempo differenziante, tra questo progetto comunitario, cui la nostra stessa idea del comunismo deve ben più di quanto si pensi, e la comunità come evento impossibile, anteriorità immemoriale ed ad-venire senza futuro. Ma torniamo alla tesi di N ancy: che cosa vuol dire che il pensiero o il desiderio della comunità siano solo un'invenzione tardiva (invention tardive) di fronte alla realtà del mondo moderno? Una prima risposta l'abbiamo già data: la comunità diviene in quanto tale un oggetto per il pensiero solo a partire dall'avvento societario. La società, infatti -«l'associazione dissociante delle forze, dei bisogni e dei segni», come la 7 definisce Nancy - , può inaugurare un pensiero della comunità poiché ciò che distrugge non è una fantomatica Gemeznschaft, bensì le forme di società pre-moderne che solo una nostalgi'a interessata giunge a ricoprire dell'aura dell'autenticità. È l'esperienza desertificante del disincanto come tratto specifico della modernità ad aprire lo spazio per un pensiero radicale della comunità8 • Ma insisto ancora: che cosa vuol dire qui "tardiva"? Un'invenzione tardiva? Forse un'invenzione venuta tardi, aprés coup, quasi troppo tardi. Ed ancora: giunta come un supplemento, nachtrdglich, sempre ' Ibidem. E Bataille, come vedremo più avanti, definirà la comunità "un deserto".

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dopo, a cose fatte, simile ad una nottola di Minerva, simile al pensiero che arriva, accade, sulla soglia del tramonto, nel chiaroscuro del crepuscolo. Allora, se la comunità è un'invenzione tardiva, ciò vorrà dire che essa viene sempre posteriore a se stess"a, sempre già passata, perduta, irrimediabilmente perduta. Il solo parlarne indica che l'abbiamo mancata: il desiderio acquietato, l'estasi svanita, la fusione fallita, e noi di nuovo dispersi, disseminati, afferrati da un movimento centrifugo che ci allontana alla velocità della luce dal centro del nostro desiderio impossibile. Possiamo solo inventarla, pensarla: ed il pensarla non è poco, anzi è un resto prezioso. Aveva ragione Hegel quando diceva che il pensiero, la logica, son~ il regno delle ombre: il pensiero è, quando tutto è finito, lo spazio di una sopravvivenza. Al di fuori del pensiero non ci resterebbero che l' allucinazione e il delirio. Per questo noi non soffriamo per l'assenza della comunità - la comunità è l'assenza - , ma per la mancanza di un pensiero della comunità. Potremmo definire il pensiero come una cripta o un'urna in cui il morto, lungi dallo svanire, resta, ma non come risorto, piuttosto come il morente, come colui che differisce la morte continuando a morire. Non dunque il cadavere, la spoglia, ma la traccia che il morire lascia mentre si assenta. Per questo prima ho scritto, a costo di mettere Hegel contro Hegel, che non si dà Erinnerung della comunità, ma soltanto un Geddchtnis, non memoria, ma ricordo pensante. Il ricordo pensante è l'invenzione della comunità. Ma che cosa vuol dire inventare? Da un lato l'invenzione rimanda ad una strategia consapevolmente elaborata in vista di un risultato, implica, dunque, metodo, riflessione; da questo punto di vista è come se noi sapessimo già cosa dobbiamo cercare, ne avessimo, per così dire, una specie di precomprensione. Ma dall'altro l'invenzione si concentra nell'Eureka, nel grido di giubilo che esplode improvviso di fronte alla scoperta imprevista9; giacché è questo apparire del nuovo, del mai visto prima, del nemmeno immaginato, a costituire, per noi, lo statuto più proprio dell'invenzione. È come se l'invenzione non provenisse da noi, ma dall'altro: un evento inatteso ed improbabile accade, qualcosa di incalcolabile Su questo tema dell'invenzione si veda J. Derrida, Psyché. Invention de l'Autre, in Id., Psyché. Inventions de l'Autre, Paris 1987. 9

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ed imprevedibile giunge alla presenza al di fuori della nos.tra intenzione, al di là dell' attualmente dicibile. Più che essere inventata, l'invenzione s'inventa. E non è forse vero che si inventa qualcosa sempre senza volerlo, quasi a caso, anzi proprio quando eravamo co;nvinti di cercare dell'altro? Come quando si partì per le Indie e si inventarono le Americhe, quelle Americhe che, nonostante fossero lì da sempre, pronte a farsi scoprire, attendevano, tuttavia, di potersi inventare. Ed esistevano d'altronde le Americhe, per coloro che già le abitavano, p,rima che fossero inventate dall'altro? Ciò che s'inventa_ è sempre un di più rispetto all'intenzione, un di meno rispetto all'attesa. Un'invenzione è sempre tardiva: viene in ritardo, in differita. Sedò che si scopre era da sempre lì, perché non si è offerto subito, in carne ed ossa, in presenza? Perché esso attende dell'altro per poter essere quel che già è? L'invepzione giunge aprés coup, nachtrà'glich, aggira l'intenzione, ridicoHzza il.·progetto: differendosi, si deruba ad una presa immediata, si sottrae ad una visione originaria. Il pensiero tenta allora di andare a ritroso, di ricostruire una trama_, di ricordarsi dell'origine, ma scopre di essere sprofondato nella smemoratezza. L'invenzione, infatti, non presuppone un'origine presente .a se stessa, identica a sè, e per ciò stesso disposta alla ripresentificazione; presuppone piuttosto la differenza: la differenza che differisce se stessa e la sua venuta, che, se viene, viene in differita, altra a se stessa, differente da sè. Non c'è una memoria continua che dal passato giunga fino a noi di come fossero le Americhe prima della loro invenzione. Vi è anzi una rottura, una discontinuità, che nessuna memoria sarebbe in grado di colmare: vi è solo un ricordo che a fatica il pensiero produce, la commemorazione di una presenza abolit;i. Le Americhe erano lì senza esserci, non presenti a nessuno; e se ora esistono, esistono sohanto come il supplemento di impossibili Indie.

La temerarietà del pensiero della comunità mi spinge ora a formulare una frase la cui bellezza mi sembra risiedere nella sua stessa indecidibilità: '.'!a_fç>_gi.ynità è fipyerr~i2JJf_ dell'altro" TLa frase, infatti, sospende,--pone in bilico, la nostra volonìàè:H senso, il nostro bisogno

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d'univocità: l'altro è da un lato l'oggetto dell'invènzione, il telos del progetto, lo scopo della ricerca; dall'altro è ciò che s'inventa ed inventandosi inventa la comunità.! In altri termini, la comunità è ciò che viene dall'altro, e viene solo dall'altro perché, se la comunità è l'incontro con l'altro, l'alterità dell'altro può venirmi esclusivamente dall'altro. Queste, lo so, sono frasi difficili, che si derubano al ,senso, che derubano il senso, e tuttavia non potrei esprimere in nessun'altro modo l'idea della comunità. Il desiderio comunitario vuole l'altro, vuole la fusione, l' estasi, l'intimità assoluta con l'altro; vuole soprattutto che l'altro sia proprio il mio altro, in modo che fra me e lui non vi sia più alcuna distanza, alcuna differenza. Ma una volta mio, l'altro cess~ d'essere l'altro, diviene una semplice proiezione, un altro me stesso, il simile. Eppure è pr9PriO il desiderio del simile ciò che costituisce l'esigenza comunitaria. isi vede come il pensiero della comunità richieda la mise en abìme, prenda la forma del paradosso: il desiderio del simile si trasforma in_ angoscia. \;,ia _c~e voglia unirlo a_ me, fagocitarlo, oppure perd~rm~ in lu1, qualunqtie sta il modo della fusione, comunque ne va della mia vita; il desiderio di far tutt'uno col simile, con il mio altro, trapassa in rivalità, in lotta, È esattamente quanto Hegel ha mostrato in modo irripetibile neHa figura della lotta delle autocoscienze per il riconoscimento: proprio la rassomiglianza scatena il duello mortale, la lotta a morte fra i simili. Tuttavia, un pensiero della comunità non potrebbe riconoscersi, senza tradirsi, nella soluzione hegeliana che supera l'impasse della morte· comune iscrivendo i rapporti inter-soggettivi: nella figura gerarchica della "signoria-servitù": tosì risolta la rivalità immaginaria, non ne viene rimosso ed impedito anche il desiderio comunitario? Tornerò su questo punto. Ma allora di nuovo: come pensare la comunità, come pensare l'incontro col simile, evitando l'alternativa, su cui Hegel si attesta, fra la morte reciproca e simultanea e il dominio_ij Solo pensando la comunità come l'invenzione dell'altro, solo se essa, si potrebbe dire, è l'iniziativa dell'altro. Ma anche se l'altro resta l' albro: è lui che mi viene incontro, che si offre a me, ed io certo mi predispongo alla sua venuta, lo invento, preparo lo spazio a partire dal quale egli possa mostrarsi. E, tuttavia, il darsi dell'altro resta per me un'assoluta contingenza, è un evento incalcolabile e imprevedibile, un'alterità irriducibile. Ciò che viene dall' al-

La comunità impossibile

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tro, quando l'altro viene, è dell'altro. In altri termini, l'altro, vale a dire il simile, il prossimo, il fratello, mentre si avvicina e si mostra come il mio altro, il mio simile, il mio prossimo, allo stesso tempo si sottrae; mi sfugge, si rende inaccessibile: si rende altro. !Se voglio pensare l'altro non posso più attribuirgli il carattere dell'identità: non è sufficiente, infatti, determinare l'altro soltanto come altro rispetto a me, continuando a pensarlo identico rispetto a se stesso; debbo invece pensarlo prima di tutto come altro a se stesso: l'altro è ciò che si altera, ciò che differendo se stesso, si rende differente a se stesso; l'altro è ciò che si dimentica, vale a dire si smemora di se stesso: l'altro è sempre un altro. È questa indecidibilità dell'altro, l'incognita rappresentata dall' alterità dell'altro, a costituire il nucleo di un pensiero della comunità o, più in generale, della fondazione teoretica dell'intersoggettività (oppure è la dimostrazione dell'esistenza degli altri soggetti ad essere l'oggetto dir>un sapere regionale che acquista il suo senso soltanto a partire dalla comunità? Non è la comunità lo spazio di un'economia generale nel quale soltanto può essere iscritta una teoresi dell' intersoggettività?lJ Vorrei a questo punto richiamarmi ad una riflessione di Jacques Lacan secondo la quale l'unica possibile prova dell'esistenza d'altri consisterebbe in questo: che l'altro mente, che l'altro m'inganna. In altri termini, la parola o lo sguardo, o ancora il gesto, con i quali l'altro mi si rivolge possono sempre e per struttura - trascendentalmente potrei dire - significare altra cosa da quella che mostrano, e ciò indipendentemente dalla sua buona intenzione e dalla sincerità del suo voler-dire. È quanto Freud ha esemplificato ricorrendo ad una vecchia storiella ebraica: due stanno su di un treno. "Dove vai?", chiede il primo. "A Cracovia", replica il secondo. E l'altro arrabbiato: "Ma se mi, dici che vai a Cracovia, è per farmi credere che vai a Leopoli. Ma tu vai davvero a Cracovia. Perché menti?" 10 • La morale dell'apologo - giacché è di morale che si tratta, non più di teoresi, bensì di etica intersoggettiva - è presto detta: se Cracovia significasse solo ed univocamente Cracovia, che cosa potrebbe eliminare il dubbio d'aver di fronte un automa, una macchina, o addirit tura una ,replica di me stesso? In quest'ultimo caso l'altro sarebbe certa0

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S. Freud, Der witz und seine beziehung zum unbewussten, tr. it. in Opere, val. V, Torino 1972, p. 103.

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L'ineguale umanità

mente il mio simile (come l'effetto di una clonazione, secondo l'immaginario contemporaneo; comunque un doppio, un simulacro), ma allo stesso tempo esso cesserebbe d'essere l'altro; si ridurrebbe a quell'alter-ego col quale non può non scatenarsi il duello mortale, la rivalità paranoica del "o tu o io". Ora ciò che caratterizza l'altro è la "finta", vale a dire il poter far finta d'essere un altro; l'altro può sempre spacciarsi per un altro, fare il sosia dell'altro 11 • L'altro oscilla, cioè, fra l'estrema rassomiglianza - a me o a se stesso, o ad entrambi - e la totale irriconoscibilità; non potremo mai decidere se l'altro è proprio lui, il nostro altro, o un simulacro, lui in carne ed ossa o un fantasma. L'altro non è semplicemente il differente da me, ma l'opera stessa della differenza o la differenza all'opera (certo un'opera desouvrée): l'altro si diffe. renzia in se stesso e insieme differisce il suo venire; viene in ritardo, come un supplemento, un sostituto, un delegato privo di mandato, un messaggero che non sa più quel che deve dire: l'altro invia al suo posto sempre un altro. Ora tale discorso non è per nulla estraneo alla tradizione della filosofia del soggetto, che mi sembra d'altronde l'unica legittimata a sollevare la questione dell'origine dell'intersoggettività (e dell'intersoggettività