Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano [Illustrated] 8891302708, 9788891302700, 9788891302670

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Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano [Illustrated]
 8891302708, 9788891302700, 9788891302670

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INCVNABVLA MENTIS Strumenti

LINEAMENTI DELLA STORIA DELLE FONTI E DEL DIRITTO ROMANO SALVATORE RICCOBONO

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

I N C V N A BV L A M E N T I S testi chiave per una formazione di giurista

Strumenti 6 collana fondata e diretta da Franco Casavola e Francesco Amarelli Maria Campolunghi Lucio De Giovanni Sandro-A. Fusco Carlo Lanza

SALVATorE rICCoBoNo

LINEAMENTI DELLA STorIA DELLE FoNTI E DEL DIrITTo roMANo

a cura di Maria Campolunghi e Carlo Lanza

«L’ErMA» di BrETSCHNEIDEr

Salvatore riccobono Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano © Copyright 2013 by « L’ErMA » di BrETSCHNEIDEr Via Cassiodoro, 11 – 00193 roma Progetto grafico « L’ErMA » di BrETSCHNEIDEr Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi ed illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore

Riccobono, Salvatore Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano - roma : « L’ErMA » di Bretschneider, 2013 - XL + 290 p., ill. ; 20 cm. (INCVNABVLA MENTIS - Strumenti ; 6) ISBN : 978-88-913-0270-0 (brossura) ISBN : 978-88-913-0267-0 (PDF) CDD 349.37 1. Diritto romano

P R es en tA zi o n e

Il lettore attento si potrebbe chiedere perché mai si sia optato per la riedizione, in una collana dedicata ai ‘Classici del Novecento’, proprio di un’opera come i Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano di Salvatore Riccobono che, almeno dal titolo, sembrerebbe trattare di argomenti ormai abbastanza scontati. Non sarà pertanto fuori luogo premettere qualche accenno relativo alla situazione degli studi sul campo in Europa nella prima metà del ventesimo secolo, cioè al tempo della venuta in essere del libro in questione. Basti qui rinviare a un paio di lavori rappresentativi. Nella primavera del 1953 usciva per i tipi dell’editore Holzhausen in Vienna il denso volume di Leopold Wenger sulle fonti del diritto romano1. Definirla un’opera monumentale non è soltanto giustificato dalle sue novecentosettantatre pagine in “quarto”; è piuttosto il coronamento della vita di lavoro di un «indagatore e storico eminente di tutti i diritti del mondo antico» – come lo definisce lo stesso Riccobono2: una vita dedicata allo sforzo di edificazione di una onnicomprensiva “Antike Rechtsgeschichte”; al margine dell’utopia per la mole di fonti multiformi la cui raccolta e valutazione non poteva che esserne l’ovvio presupposto. Wenger conosce, e dimostra di L. W enger , Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953. Nella Prefazione alla II edizione (Milano 1949, p. VII) dell’opera qui riedita, ora p. XVIII. 1

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VI

Presentazione

apprezzare citandolo ripetutamente (dodici volte), Riccobono, ma non con riferimento ai suoi Lineamenti di Storia delle fonti che pure erano apparsi per la prima volta nel 1941 e poi, in seconda edizione ampliata e corretta, nel 1949. La probabile ragione che trapela tra le righe del “Vorwort” – gli impedimenti dovuti al secondo conflitto mondiale e al susseguirsi di ostacoli negli anni immediatamente successivi – sembra trovare un parallelo, pur senza che ve ne fosse stata reciproca conoscenza, nella prefazione del Riccobono alla propria storia delle fonti (dedicata oltretutto proprio al Wenger!) in cui qualche anno prima parimenti si rifaceva alle «difficoltà di comunicazione durate pure nel dopoguerra»3. Diverso è invece il discorso per un altro lavoro d’insieme, anch’esso corposo (quattrocentoquarantaquattro pagine) quand’anche non direttamente paragonabile a quello di Wenger, la Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts di Paul Krüger, che nella sua seconda edizione – a ventiquattro anni (1888) di distanza dalla prima, di cui però, come ricorda lo stesso autore anch’egli nella prefazione, lasciava intatto sostanzialmente l’impianto – aveva visto la luce per i tipi di Duncker und Humblot (München und Leipzig) nel 1912. L’intento qui dichiarato era di offrire una panoramica, nel quadro di un delineamento di confini tra storia delle fonti e storia del diritto4, degli sviluppi nelle forme di produzione ed elaborazione del diritto romano all’interno della periodificazione corrente al tempo dell’autore. Fa da ineguale pendant l’operetta di Theodor Kipp5, quasi contemporanea ma assai più circoscritta (centosessantasei pagine), anch’essa dedicata alla storia delle fonti del diritto 3 Loc. cit. e infatti Riccobono propone nella Bibliografia i precedenti lavori wengeriani, in particolare di procedura civile, addirittura nelle evidentemente a lui disponibili traduzioni italiana e inglese: L. W enger , Institutionen des römischen Zivilprozessrechts, München 1925; I d ., Istituzioni di procedura civile romana, tr. it. R. orestano, Milano 1938; I d ., Institutes of the Roman Law of civil procedure, tr. ingl. o. Harrison Fisk, new York 1940. 4 P. K rüger , Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, München/Leipzig, 1912, p. VII: “Grenzscheidung zwischen Quellengeschichte und Rechtsgeschichte”. 5 Nell’ultima edizione: T h . K IPP , Geschichte der Quellen des römischen Rechts, 5a ed. Leipzig/Erlangen 1926.

Presentazione

VII

romano; un prodotto molto agile ma sufficientemente circostanziato che alla sua prima apparizione nel 1896 stimolava Giovanni Pacchioni, a fiancheggiamento del proprio già edito manuale in due volumi – e questo dà conto evidentemente di una sentita esigenza –, a metterne in circolazione un anno dopo una traduzione italiana. È un lavoro illustrativo che presupponeva le sistematiche raccolte di fonti che si andavano pubblicando in quegli anni (Bremer, Bruns, Girard, la riedizione del Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt di Huschke ad opera di Seckel e Kübler, Voigt) e che si presentava particolarmente adatto all’insegnamento universitario. Così come del resto, trent’anni più tardi, quello di Kübler6, ricco e agevolmete consultabile, e, ancor più perché espressamente dedicato alla didattica, quello di Siber7, molto concentrato ma esauriente anche se limitato alla storia della giurisprudenza. Il libro di Riccobono sul diritto romano e le sue fonti che qui si ridà alle stampe pur ponendosi in qualche modo sulla scia di questi lavori si presenta al tempo stesso molto diverso nella sua struttura di compromesso felice tra opera scientifica e compendio per lo studio universitario nonché per il suo spaziare, in scorrevole diacronia, dalla storia costituzionale alla giurisprudenza ed alla panoramica – davvero dettagliata e criticamente aggiornata – sulle fonti. Certamente dissimile dalle opere di storia e di sintesi, anche italiane, usuali negli anni Trenta e Quaranta8, esso aveva all’origine un intento preciso e dichiarato9 che era primariamente quello di venire incontro a chi avesse vero interesse allo studio con qualcosa che fosse idoneo ad ovviare a sviste e lacune di appunti frettolosamente presi a lezione senza cadere nella deleteria genericità delle consuete “dispense”. In parallelo però, come l’autore stesso sottolinea, c’era qualcosa che andava al di là di questo immediato obiettivo didattico: B. K üBLer , Geschichte des römischen Rechts, Leipzig 1925. h. S IBer , Römisches Recht in Grundzügen für die Vorlesung, I . Rechtsgeschichte, rist. Darmstadt 1968 [ma Berlin 1925]. h. S IBer , Römisches Verfassungsrecht, Schauenburg i. Lahr 1952. 8 Le indica egli stesso nella sua premessa bibliografica: da Ferrini a Bonfante, da Longo e scherillo a Chiazzese, ad Arangio-Ruiz. 9 Nella prefazione alla prima edizione del 1941. 6

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Presentazione

rispetto alle centocinquanta lezioni dedicate alla materia – è lo stesso Riccobono a dircelo – «il di più è nel carattere sintetico dell’esposizione, in cui i punti fondamentali ed i problemi più ardui … sono posti in grande rilievo in una forma rapida e facile a ritenere … con special riguardo ai fattori e caratteri del diritto, agli sviluppi e alle cause determinanti»10. È in ciò che si manifesta la originalità di Riccobono ed il pregio ancor oggi di questa sintesi funzionale che in effetti non trova riscontro nelle assimilabili opere allora contemporanee, molto più complesse e ponderose (ad es. Bonfante, de Francisci); nemmeno nella Storia del diritto romano dell’Arangio-Ruiz che forse maggiormente s’avvicina e che, sebbene di notevole successo nelle sue numerose edizioni, presenta ugualmente un impianto più ampio e meno articolato. E pure in tutt’altra direzione, anche se con notevoli tratti di parziale contatto, si muovono i quasi coevi lavori di Girard11 e di Schulz12 per citare solo alcuni dei più conosciuti. Non fa comunque meraviglia la sottesa vicinanza ideale del progetto alle sopra ricordate tendenze scientifiche, didattiche ed editoriali riscontrabili soprattutto nel mondo tedesco in considerazione del lungo periodo di studi in Germania (dal 1889 al 1893) che gli aveva consentito di ascoltare Maestri del calibro di Pernice, Lenel, Gradenwitz, Goldschmidt, Dernburg, ma soprattutto Windscheid i cui corsi ebbe occasione di frequentare assiduamente a Lipsia. Questo dà conto anche di certe iniziali tendenze formalistiche nella interpretazione delle fonti che si andranno poi via via attenuando al suo rientro in Italia con il riavvicinamento a Scialoja e all’indirizzo più storicizzante della Romanistica italiana. Nel momento in cui scrive i Lineamenti Riccobono esprime infatti ormai Ivi, p. 1 nella seconda ed. del 1949, ora p. XIX s. P. F. g Irard , Manuel élémentaire de droit romain, 8a ed. Paris 1929, ma già apparso in prima edizione nel 1896. Può essere interessante ricordare che anche di questo manuale si era sentita la necessità di apprestare nel 1909, dalla quarta ed. del 1906, una traduzione italiana a cura di C. Longo. 12 Nell’edizione disponibile al tempo di Riccobono F. S chuLz , History of Roman Legal Science, oxford 1946 (la tr. it. a cura di G. Nocera apparirà soltanto nel 1968). In realtà però egli ne cita un lavoro diverso: Prinzipien des römischen Rechts, München 1934 (nella tr. it. di Arangio-Ruiz, Firenze 1946). L’ambito di entrambe le opere di Schulz è comunque circoscritto alla giurisprudenza romana. 10

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Presentazione

IX

inequivocabilmente il principio che «il diritto come fenomeno sociale è fenomeno storico; il che vuol dire che esso non può essere ben conosciuto ed apprezzato se non alla luce del passato da cui proviene»13. E non è certo un caso che tra i suoi allievi emerga più tardi quel Riccardo orestano che tanto si adopererà per uno studio “storico” del diritto romano14. sostanzialmente l’opera si divide in tre filoni fondamentali: l’aspetto per così dire costituzionale che fornisce la cornice a tutto il discorso, poi la giurisprudenza e infine le fonti, il tutto non in forma rigidamente separata e susseguente, ma in modo compenetrato e discorsivo con una forte impronta storico-culturale. Questo permette al lettore, adeguatamente e conformemente ai suoi interessi, di ottenere un quadro esauriente ed equilibrato della materia (delle materie, ché molti e diversi sono gli aspetti presi in considerazione, dalla religione, alla filosofia, alla grammatica, alla retorica!) senza dover rinunciare alla presa di coscienza di quelle discussioni e controversie che hanno animato la Romanistica nel periodo contemporaneo all’autore a cavallo di XVIII e XIX secolo e in parte tuttora perduranti. In particolare questo risulta evidente dall’attenzione precorritrice dedicata, con lo sguardo rivolto al futuro degli studi romanistici, alla questione dello studio dell’opera della giurisprudenza romana, in ordine alla quale il Riccobono insiste sulla imprescindibile necessità, fin lì rimasta insufficientemente considerata, di indagarne il metodo, la lingua, il ruolo, legati spesso alla diversa provenienza e collocazione dei singoli giuristi nella fluida realtà socioeconomica del tempo con le influenze tra l’altro della montante cristianizzazione.

13 Lineamenti, 2a ed., p. 11, ora p. XXXIII. Questo progressivo e chiaro avvicinamento alla ‘storia’ del Riccobono maturo è ben colto da a. M an TeLLo , Salvatore Riccobono, in SDHI, 48, 2002, p. XXI. 14 Basti qui far cenno al crescendo, soprattutto nel dopoguerra e sotto l’influsso di Capograssi, dell’antiformalismo orestaniano dalla Introduzione allo studio storico del diritto romano (Torino 1953, poi di nuovo 1961) verso una Introduzione allo studio del diritto romano tout court (Bologna 1987). Cfr. anche M. B ruTTI , Antiformalismo e storia del diritto. Appunti in memoria di Riccardo Orestano, in Quaderni Fiorentini, 18 (1989), pp. 675-728, specie pp. 677 e 694 ss.; a. M anTeLLo , Nota di lettura, in r. o reSTano , Scritti, vol. 1, Napoli, 1998, pp. XV-LXXI, specie LXII ss.

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Presentazione

Nella prospettiva di realizzazione di questi compiti che a suo tempo Riccobono, in rapidi ma ripetuti accenni, additava alla Romanistica futura va visto appunto il legame, volutamente instaurato nell’attuale riedizione, con il volume di Franco Casavola che ha inaugurato questa collana: è lui infatti tra i primi ad assolverli circa tre lustri dopo15. S andro -a ngeLo F uSco

15 Così M. c aMPoLunghI , Il Giustiniano del prof. Casavola, in SDHI, 57, 2011, p. 4 s.

Av v eRten ze eD i to RiA L i

La riedizione è stata condotta sulla stesura 1949 con spirito di fedeltà al testo originario. Così, per facilitare il raffronto, si è dato conto della impaginazione originaria, indicando nel testo tra parentesi quadre il cambio pagina (allorché nell’originale il passaggio avvenga con parola spezzata da “a capo”, l’indicazione è premessa alla parola intera). Allo stesso fine, per le note, la nuova numerazione progressiva per capitolo – che sostituisce quella di pagina in pagina – è integrata dalla indicazione tra parentesi tonde, accanto al nuovo numero, del numero originario e della relativa pagina. Così, si è scelto di mantenere, salvo che nella Bibliografia, modalità tipografiche espressione del tempo: spazio prima di due punti e di punto e virgola; spazio dopo l’apertura e prima della chiusura di virgolette. Ed è stata mantenuta la punteggiatura anche nel complesso intrecciarsi di punti e virgola e di due punti (salvo rari interventi per migliorare l’intellegibilità). Così pure, è stata mantenuta l’iniziale maiuscola di alcune parole, come sensibilità dell’autore, salvo privilegiare l’uniformità in un medesimo contesto. Allo stesso modo, per i nomi solitamente in tondo di autori antichi e moderni (o anche di personaggi) è stata mantenuta, in linea generale, la scelta del maiuscoletto che li evidenzia. Ancora, è stata rispettata l’opzione di datazioni talvolta riferite a prima o dopo Cristo, talvolta alla fondazione di Roma (a. U.). Così, è stato rispettato il modo di citare le fonti, anche laddove, come nel Digesto e nel Codice, l’indicazione numerica del frammento o della costituzione è premessa a quella di libro e titolo, lasciando la sigla fr. se presente (es.: fr. 10, 4 D. 17, 1; 1 C. 2, 57); si è invece

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Avvertenze editoriali

eliminata l’abbreviazione par., o §, saltuaria. Per uniformità, e per comodità del lettore, si è ricorso alla citazione completa anche per il frammento di Pomponio in D. 1, 2, 2, mentre Riccobono segnala di fornire «la sola indicazione dei paragrafi» (così alla nota 2 di p. 46, ora p. 38, nota 6, dalla quale è stata perciò espunta la detta segnalazione). Si è altresì uniformata la citazione delle fonti antiche, utilizzando l’iniziale minuscola per le opere dei giuristi, comprese le raccolte postclassiche, e la maiuscola per le altre. Le diversità nelle citazioni di fonti non giuridiche ha indotto a uniformarle, indicando in sequenza libro, capitolo, paragrafo o riga (introducendoli ove assenti). Tutti i rinvii testuali e tutte le citazioni, sia nel testo sia in nota, sono stati sottoposti a controllo, intervenendo ove necessario. Il controllo non è stato tuttavia possibile in alcuni casi, o per difficoltà di reperimento del testo, o per l’impossibilità di individuare l’edizione utilizzata: se ne dà conto ricorrendo al corsivo nella numerazione della nota o delle pagine citate. Nei casi fortemente dubbi di legame fra rinvio a un testo (sia fonte sia dottrina) e correlativa affermazione dell’autore, si è preferito inserire un “cfr.”; negli assai rari casi di indicazione con tutta evidenza errata e non ricostruibile si è preferito cassarla. Ringraziamo vivamente Raffaele Basile per controlli di bibliografia e di fonti. (i curatori)

A

LeoPoLDo WenGeR Con RiConosCenzA e PeR RiCoRDo DeLL’AMiCiziA CostAnte eD AFFettUosA Di XXXXvii Anni

P R eFA zi o n e ALLA i i eD iz ione

Questa II edizione dei Lineamenti era da tempo necessaria ed urgente per togliere dalla circolazione la ristampa della I edizione, infarcita di errori di ogni genere, pure con mutamenti di nomi di autori e di indicazioni di importanza ; così per esempio : Schulz invece di Schanz, Dessau invece di Sachau, Basilici l. 50 invece di 60. Naturalmente la responsabilità è tutta mia, per non aver riveduto le bozze di stampa eseguite nel 1942, durante la guerra. In questa seconda edizione ho qua e là ampliato il testo, aggiunte note ed alcuni paragrafi (27 e seguenti del cap. II) per illustrare il bonum et aequum nuova fonte del diritto, argomento di singolare importanza. Lo schema dell’opera per altro è rimasto immutato, come esigeva l’economia di essa ai fini cui fu destinata, illustrati nella I edizione, come si legge nella premessa qui appresso. Roma, Gennaio 1949. –––––––––––– Dedico questo libro di scuola all’amico Leopoldo Wenger per sedare nell’animo mio il rammarico che negli Scritti in onore del Maestro, testé pubblicati, non figura il mio nome, a cagione delle difficoltà di comunicazioni durate pure nel dopoguerra. E se oggi il manualetto a Lui dedicato niente

XVIII

Prefazione alla II edizione

contenga di nuovo, che io, vecchio di LXXXV anni, non abbia già pubblicato, tuttavia esso riporta la dimostrazione più organica della grandezza della giurisprudenza romana, ritenuta dalla critica negli ultimi cinquant’anni una tradizione da leggenda. E perciò il tema della giurisprudenza classica è nel volume quello più largamente trattato. Rispetto a questo argomento il giudizio dell’Amico, indagatore e storico eminente di tutti i diritti del mondo antico, mi ha nella lotta sostenuta nel corso di un trentennio sempre sorretto e confortato con la Sua autorità, di che io Gli sono riconoscente. Nel nostro comune lavoro, infatti, sia pure in rami diversi della nostra scienza, noi fummo animati sempre dalla stessa fede sul valore inestimabile e sull’avvenire del diritto largito da Roma a tutte le genti, divenuto, nel corso dei secoli, fondamento e baluardo, insieme alle dottrine del Vangelo, della civiltà moderna. Così la nostra amicizia si è fatta nello scorrere degli anni sempre più salda e più viva, nella comune missione di diffondere nella scuola e negli scritti questa verità, che l’opera della giurisprudenza romana sia l’espressione più alta e più feconda dello spirito umano nel campo delle scienze morali e sociali. S. r IccoBono

aI

MIeI udITorI deI c orSI dI S TorIa deLLe FonTI e deL dIrITTo roMano e dI e SegeSI deL P onTIFIcIuM I nSTITuTuM u TrIuSque I urIS

Ho ceduto alle insistenze che mi avete fatto per una guida nello studio delle fonti e della Storia del diritto romano ed insieme per l’interpretazione del Corpus Iuris Civilis. Per convinzione io sono stato sempre contrario all’uso da parte degli studiosi delle così dette dispense, che ho considerato come causa prima della decadenza dello insegnamento superiore. Gli inconvenienti son ben noti, né occorre qui parlarne. Ma ben riconosco, d’altra parte, che gli appunti presi dai singoli uditori in iscuola non sono sufficienti, per le deficienze inevitabili di vario genere che essi presentano ; e cioè lacune, formulazioni a volte incomplete, a volte sbiadite o anche svisate, fissate rapidamente sulla carta da chi accosta la prima volta, spesso con insufficiente preparazione, un ordine di studi molto complesso ; mentre, ancora, difficoltà offrono le citazioni di nomi, di date, di opere che si odono per la prima volta, citazioni le quali, se non sono esatte, servono a nulla, divengono anzi, spesso, deplorevoli. Considerato tutto questo, ho trovato la vostra richiesta giustificata ; ma vengo a soddisfarla in una maniera alquanto diversa, offrendo questi « Lineamenti », dove c’è qualcosa di più e molto di meno dei corsi che ho svolti in quest’anno scolastico. Il di più è nel carattere sintetico dell’esposizione, in cui i punti fondamentali ed i problemi più ardui della materia sono posti in grande rilievo in una forma rapida e facile a ritenere. Il meno vi apparirà subito palese per le omissioni di parti, a volte appena accennate, come le forme del processo nei vari periodi, che avete studiato con maggiore intensità, elaborando anche sunti per iscritto del IV libro di Gaio ; come il contenuto della legge delle XII Tavole e degli istituti del diritto più antico, pubblico e privato, specie del periodo regio, e così di altri punti di storia e di dommatica.

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Lettera - prefazione

Il libro, dunque, offre soltanto una guida sicura per uno studio sintetico più accurato della materia, con special riguardo ai fattori e caratteri del diritto, agli sviluppi e alle cause determinanti : un libro infine che possa servire pure di consultazione per le opere della giurisprudenza, per nomi e date, che per essere utili debbono essere precisi. Nel raccogliere gli elementi che lo compongono, ho avuto riguardo più che ai Vostri esami alla Vostra preparazione di cultura storica e giuridica, memore sempre dell’aureo detto non scholae sed vitae discendum. I vostri appunti di scuola rimangono perciò sempre essenziali e necessari per tutti i problemi che abbiamo insieme trattati, nel corso di Storia e in quello di Esegesi, problemi di dommatica, di storia, di critica : per le esperienze fatte su esempi che offrono le fonti, che ci servirono per confermare, illustrare e integrare la esposizione storica. Voi sapete che io ho considerato i due Corsi come unità inscindibile, l’uno e l’altro in un’equilibrata intima fusione. Così è spiegato il titolo di Lineamenti, che è cosa diversa, nel senso or ora detto, di una riproduzione della vasta materia trattata in circa 150 lezioni, con l’esame approfondito di un numero considerevole di dottrine, sempre convergenti con la storia delle fonti e del diritto di Roma. Certamente avrei potuto soddisfare la vostra richiesta consigliando uno dei pregevoli libri di Storia del diritto romano, dei quali nella bibliografia troverete le necessarie indicazioni ; ma allora si sarebbe spezzata tra me e voi quella comunione spirituale che rimane, alfine, il supremo bene e l’unica gioia del magistero. Mi auguro, invece, che il libro possa anche per voi costituire un ricordo gradito del comune lavoro. Quod est in votis, Valete. Roma,1941. S. r IccoBono

INDICE Presentazione . . . . . . . Avvertenze editoriali . . . Frontespizio originario . . Dedica a L. Wenger. . . . Prefazione alla II edizione Lettera-prefazione . . . . Bibliografia . . . . . . . . Introduzione . . . . . . .

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c aPo I – L o SvILuPPo deL dIrITTo roMano . . . 1. Il Diritto Quiritario . . . . . . . . . . . . . . 2. Lex XII Tabularum . . . . . . . . . . . . . . . 3. Le legis actiones . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Ius gentium . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Ius honorarium. . . . . . . . . . . . . . . . . 6. La cognitio extra ordinem . . . . . . . . . . . 7. L’autorità dei magistrati precipuo fattore del rinnovamento del diritto . . . . . . . . . . . . 8. Illimitatezza del dominio nella tradizione teorica e limitazioni imposte dai magistrati. . . . 9. La forza della tradizione ed il grandioso sviluppo del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . C aPo II – L a gIurISPrudenza . . . . . . 1. Il Collegio pontificale . . . . . . . . 2. La Giurisprudenza cautelare. . . . . 3. Sviluppo della scienza del diritto . . 4. Summum ius summa iniuria . . . . . 5. La Filosofia . . . . . . . . . . . . . 6. La Grammatica . . . . . . . . . . . 7. Elaborazione sistematica del diritto . 8. Regulae iuris . . . . . . . . . . . . . 9. I giuristi della Repubblica . . . . . .

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XXII 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

I giuristi dell’Impero . . . . . . . . . . . . . . Consilium Principis . . . . . . . . . . . . . . Scuole di diritto . . . . . . . . . . . . . . . . Proculiani e Sabiniani o Cassiani . . . . . . . L’attività dei Giuristi. . . . . . . . . . . . . . I giuristi come scrittori. . . . . . . . . . . . . Caratteristiche delle opere dei giuristi . . . . Determinazione dell’età delle singole opere. . Libri e Codices . . . . . . . . . . . . . . . . . Lingua e stile dei giuristi. . . . . . . . . . . . Difetti e lacune nelle opere dei giuristi . . . . a - Etimologie . . . . . . . . . . . . . . . . . b - Definizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . Sviluppo e progresso del diritto . . . . . . . . La fama dei giuristi dell’epoca dei Severi . . . La favola dei giuristi Aramei . . . . . . . . . Difetto di attitudini teoriche . . . . . . . . . . I giuristi romani e l’avanzamento del diritto . Bonum et aequum e la definizione del ius di Celso al tempo di Adriano . . . . . . . . . . . Aequitas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Bonum et aequum ». Nuova fonte di diritto . Espansione del « bonum et aequum » . . . . . Origine del motto « summum ius summa iniuria » « Bonum et aequum » negli esempi. . . . . . . La definizione di Celso . . . . . . . . . . . . . « Bonum et aequum » e καλὸν καὶ δίκαιον . . .

p. 58 » 61 » 62 » 63 » 72 » 74 » 84 » 85 » 86 » 88 » 90 » 90 » 91 » 95 » 99 » 101 » 102 » 109

c aPo III – I L P rIncIPaTo . . . . . . . . . . . . . . 1. La Costituzione Augustea modello dello sviluppo del diritto pubblico . . . . . . . . . . . . . 2. La Constitutio Antoniniana . . . . . . . . . . 3. Lo « ius novum » . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Le fonti del diritto . . . . . . . . . . . . . . . 5. Raccolte di costituzioni imperiali . . . . . . .

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22. 23. 24. 25. 26. 27.

c aPo Iv – L a M onarchIa . . . . . . . . . . . . . 1. Cause del mutamento costituzionale. . . . . . 2. L’organizzazione dello Stato. . . . . . . . . . 3. Le costituzioni imperiali del periodo post-dioclezianeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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XXIII c aPo v – L a

FuSIone deI varI ordInaMenTI gIu rIdIcI In unIco corPo dI dIrITTo . . . . . . . .

1. 2. 3. 4.

L’abolizione delle « formulae ». La fusione . . . . . . . . . . . Esempi . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . .

c aPo vI – L a

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caduTa deLLe ForMe SoLennI

c aPo vII – L a

PraSSI neL BaSSo IMPero

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» 183

. . . . . » 191

c aPo vIII – L a coMPILazIone dI T eodoSIo II e Le codIFIcazIonI occIdenTaLI . . . . . . . . . . . » 195 1. Il Codice Teodosiano. . . . . . . . . . . . . . » 195 2. Raccolte post-teodosiane . . . . . . . . . . . » 197 caP . Ix – L e ScuoLe dI dIrITTo neI SecoLI Iv e v 1. Loro decadenza . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Scuole occidentali . . . . . . . . . . . . . . . 3. Scuole orientali . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . c aPo x – L’ InFLuenza deL c rISTIaneSIMo SuL dI rITTo roMano . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Cause che hanno impedito la retta visione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Stoicismo e Cristianesimo . . . . . . . . . . . 3. Esempi della influenza del Cristianesimo nei vari campi del diritto romano . . . . . . . . .

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201 201 202 202 205

» 207 » 207 » 213 » 215

c aPo xI – r eSIduI deLLa gIurISPrudenza cLaSSI ca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 223 1. Residui principali . . . . . . . . . . . . . . . » 223 2. Residui minori . . . . . . . . . . . . . . . . . » 232 c aPo xII – v aLore e crITIca deLLe oPere PoST cLaSSIche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 241 c aPo xIII – L a c oMPILazIone g IuSTInIanea . . . » 245 1. La Compilazione . . . . . . . . . . . . . . . . » 245 2. Manoscritti della Compilazione di Giustiniano » 249

XXIV 3. 4. 5. 6.

Edizioni del « Corpus iuris civilis » . . . . . . Valore della Compilazione . . . . . . . . . . Interpretazione del « Corpus iuris ». . . . . . . Interpolazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . Appendice al § 6. Interpolazioni. La critica del fr. 32 pr. D. 15, 1, di Ulpiano, 2 disput. . . . .

p. » » »

251 254 256 259

» 270

caPo xIv – vIcende deLLa coMPILazIone In orIenTe » 275 1. Le scuole post-giustinianee. . . . . . . . . . . » 275 2. Compilazioni orientali . . . . . . . . . . . . . » 279 caPo xv – vIcende deL corPuS IurIS In occIdenTe 1. Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La scuola di Bologna . . . . . . . . . . . . . 3. I post-glossatori . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Scuola storica italo-francese. . . . . . . . . .

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283 283 285 287 288

B i B Li o G R A F i A

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i n tR o D U zi o n e

Il Diritto Romano è ormai un diritto storico, non ha più direttamente vigore nei paesi d’Europa, ciò nonostante lo studio di esso viene considerato ancora come fondamentale per la scienza del diritto. Varie ragioni spiegano la vitalità del diritto creato da Roma. Anzitutto la struttura della organizzazione sociale e politica, come i principî, che formano il sistema morale dei popoli moderni più progrediti, si svolsero e assodarono in quel lungo periodo della civiltà latina. Vari fattori concorsero a produrre la perfezione raggiunta dal diritto romano : le stesse vicende sociali e politiche del popolo romano vi ebbero grande influenza, in quanto il piccolo comune rustico sorto sulla riva del Tevere pervenne nel corso dei secoli alla signoria del mondo. Ma in particolare si deve tener conto degli organi che ebbero nei vari periodi la cura del diritto, della natura speciale delle sue fonti, di certi tratti della organizzazione politica ; tutti questi elementi insieme fecero sì che il diritto poté in Roma formarsi e svilupparsi in maniera naturale ed organica, cioè grado a grado ed in piena armonia con lo sviluppo della vita sociale e della espansione di Roma. Ma oltre il contenuto di quel diritto ha pregio per noi l’elaborazione scientifica a cui lo sottoposero i giureconsulti dalla fine della Repubblica al principio del iii sec. dell’impero.

XXXII

Introduzione

Gli scritti dei giuristi romani hanno un carattere ed una forma tutta speciale : ci presentano il diritto fuso con la vita, la concezione giuridica materiata di fatti e vivificata. — in essi il diritto non è esposto per via di formule astratte o di definizioni, ma con riferimento di casi singoli tratti per lo più dalla pratica. I giuristi, con una tecnica meravigliosa, in tratti brevi e succosi fanno seguire al fatto la decisione, spesso coi motivi ci comunicano i loro dubbi e le controversie ancor vive negli autori ; altra volta, mettendo in evidenza gli inconvenienti sperimentatisi nella pratica, suggeriscono nuovi rimedi ; in una parola, noi vediamo nelle loro opere il diritto in movimento, nel suo graduale sviluppo, sempre a contatto colla vita. E non basta. Incomparabile è poi l’arte dei grandi maestri come scrittori. essi sanno con fine e sicuro discernimento porre in rilievo gli elementi [9/10] giuridici nei singoli casi e applicarvi le conseguenze senza sforzo, con tutta naturalezza ; i loro scritti sono modelli insuperati per precisione, forza di argomentazione, analisi e rappresentazione della realtà. E la giurisprudenza romana poté attingere tanta altezza per le seguenti peculiari condizioni : 1. — Per la continuità della elaborazione scientifica, in quanto fino ab antiquo la scienza del diritto appare come affidata ad una corporazione che lavora secondo i dettami di certe date regole, sviluppa e raffina sempre più una tecnica speciale, crea dagli elementi più vari e difformi un prodotto omogeneo ed organico. 2. — Per la precisione della lingua, che, con un vocabolario tecnico, costruito su basi solide e rigide, permette la formazione di frasi scultoree, evidenti nel significato e facili ad essere ritenute. 3. — Per l’ambiente, in quanto i giureconsulti romani vissuti sulla fine della Repubblica e nei primi tre secoli dell’Impero, si trovano nella condizione privilegiata di aver come campo di osservazione la vita febbrile di una grande metropoli, che era il centro del commercio di tutto il mondo, esposto alle influenze di civiltà diverse ; onde presentava una immensa varietà di rapporti, di idee e di bisogni materiali.

Introduzione

XXXIII

Così si spiegano le qualità singolari del diritto romano, sia pure riguardo alla forma ; ed in virtù di esse il diritto romano costituisce il vero ideale di una scuola scientifica del diritto. Ma lo studio del diritto romano è pure voluto da ragioni pratiche. L’influenza di esso è stata costante e quanto mai larga nei tempi posteriori, perché, come fu notato innanzi, tutte le forze politiche, sociali, morali, che danno forma organica alla vita, hanno nella sostanza subìto grandi svolgimenti ma ben lievi mutamenti. I libri dei giureconsulti e le costituzioni imperiali codificati una prima volta da Giustiniano nel secolo vi, studiati dopo, epitomati, commentati, trasfusi in articoli di codici, penetrarono a poco a poco in tutto il mondo, conquistando tutti i paesi civili. Così il diritto giustinianeo insieme al diritto canonico fu la base principale del diritto comune, che resse tanta parte dell’Europa e da cui direttamente derivano i codici moderni ; e non solo le codificazioni più antiche del secolo XVIII, e cioè il diritto bavarese e quello territoriale prussiano del 1794, e il codice civile napoleonico del 1804, il codice austriaco del 1811, ma anche le più recenti e le più progredite, come il codice [10/11] civile per la Germania del 1900, il codice spagnolo del 1889, il giapponese del 1898, lo svizzero del 1907 e così di seguito1. Anche portando, quindi, la nostra attenzione allo studio del diritto moderno, è certo che per arrivare alla conoscenza esatta di esso noi dobbiamo necessariamente attraversare la storia, ricercando come, per quali ragioni ed influenze quella norma assunse una forma determinata. E ciò è ben naturale. Il diritto come fenomeno sociale è fenomeno storico ; il che vuol dire che esso non può essere ben conosciuto ed apprezzato se non alla luce del passato da cui proviene, con la cognizione delle forme che attraversò nel suo processo evolutivo. 1 (1/11) Che il diritto romano costituisca largamente la base di tutti i codici moderni è illustrato con grande chiarezza da B. S chWarz nell’articolo inserito nel volume Symbolae Friburgenses in honorem Ottonis Lenel, Leipzig, 1931. Vedi anche P. K oSchaKer , Europa und das römische Recht, München, 1947.

XXXIV

Introduzione

Con ciò è detto che noi intendiamo come compito del nostro studio l’esposizione delle origini, delle vicende e della formazione storica del diritto romano. onde la storia degli istituti deve assumere qui una funzione prevalente alla esposizione sistematica. E questo metodo deve intendersi in modo che il diritto giustinianeo deve essere il punto d’arrivo in cui troviamo la forma ultima e definitiva degli istituti giuridici. Ma per apprezzare e approfondire questo momento della vita del diritto si deve avere cognizioni delle origini e delle varie fasi attraversate dagli istituti. Da ciò la necessità di studiare le istituzioni giuridiche nella forma primordiale, nel loro vetusto carattere nazionale del grave popolo di agricoltori. Nell’età poi dei grandi giureconsulti troveremo le forme più sviluppate, perfezionate dalla elegante elaborazione scientifica. infine, bisogna valutare tutti quei vari elementi che si sono aggiunti via via al fondo romano ed in particolare l’influsso del cristianesimo che si manifesta potente nella compilazione di Giustiniano. Così lo studio del diritto romano sarà veramente proficuo, integrato dall’osservazione diretta del suo processo di formazione. Il Diritto è norma di condotta degli uomini nella convivenza ed è sotto la tutela del potere pubblico. Nella sua essenza il diritto è una manifestazione reale della vita, così come i costumi, la lingua, la morale ecc., ed è destinato, quanto al fine, alla pratica applicazione. Ma i bisogni di un popolo che il diritto deve soddisfare variano nel tempo e secondo il grado di civiltà. Questi cambiamenti in dati momenti storici possono essere molto rapidi ; di consueto, però, e per [11/12] quanto ha rapporto agli elementi di base della civiltà – sistema di morale, istituzioni politiche, organizzazione familiare, sociale ed economica – il progresso è quanto mai lento ed impercettibile. osservando la civiltà latina nel corso di circa tre millenni, noi possiamo indicare con sicurezza due principî soltanto che rappresentano due notevoli conquiste dell’umanità : 1. — L’abolizione della schiavitù condannata già dall’etica cristiana.

Introduzione

XXXV

2. — La eguaglianza di tutti gli uomini e popoli. La natura del diritto, secondo la definizione della scuola Storica tedesca del secolo XIX, è oggi riconosciuta in modo generale. La Scuola Storica rivolse l’attenzione al diritto del passato, e sopratutto al diritto romano. Essa affermò che le norme del diritto si sviluppano nella vita stessa del popolo. Questo processo di formazione del diritto non è sempre incosciente come voleva il Savigny, non è sempre spontaneo e pacifico come lo stesso affermava ; ma, essendo un prodotto della vita sociale, ne segue le vicende e i caratteri ; il suo sviluppo avviene spesso con influenze straniere, con un processo di riflessione e spesso ancora fra lotte tenaci e violente. In una parola il diritto essendo parte della vita sociale è materia mobile e viva per se stessa. ora data la concezione storica del diritto è evidente che presupposto necessario per l’apprezzamento del fenomeno giuridico è la conoscenza di tutte quelle condizioni – sociali, politiche, religiose, economiche, morali – che caratterizzano la vita del popolo di cui si vuole studiare il patrimonio giuridico. Così può dirsi che il diritto è lo specchio delle condizioni tutte della vita di un popolo. I mutamenti quindi che avvengono nell’ordine politico, sociale, intellettuale, religioso si riflettono necessariamente, se non immediatamente, nelle istituzioni giuridiche. Nella storia politica di Roma si sogliono distinguere quattro periodi : il leggendario, il repubblicano, l’imperiale che si divide in due fasi, prima e dopo Diocleziano. Con questi periodi coincide perfettamente il processo di sviluppo del diritto romano ; non nel senso di una perfetta coincidenza di date, ché nell’ordine morale non si possono formare e stabilire limiti e date fisse, ma sibbene nel senso che i mutamenti nella costituzione politica, i rivolgimenti sociali, economici e religiosi, le mutate condizioni di vita del popolo, in quei vari momenti, han prodotto anzitutto nuovi organi per la formazione del diritto, ed hanno impresso una nuova direzione allo svolgimento delle istituzioni giuridiche, pubbliche e private. [12/13]

XXXVI

Introduzione

PRIMO PERIODO

Dalla fondazione di Roma (754 a. C.) fino al principio del VI sec. a. U. In esso il diritto è nella sua prima fase di sviluppo, allo stato di consuetudine ; ma del resto noi non abbiamo elementi autentici per ricostruire le condizioni del popolo romano nel tempo più antico e valutarne le istituzioni pubbliche e private. Livio appunto nota che fino al secolo quinto a. U. « parvae et rarae … literae fuere ». in questo periodo avviene la codificazione del diritto dei Quiriti con la lex XII Tabularum (304-305 a. U.). SECONDO PERIODO

Dalle guerre puniche ad Augusto. Dopo le guerre puniche si estendono i commerci, cresce la ricchezza ed il lusso, lo spirito romano si raffina ma insieme decadono i buoni costumi, si passa dall’economia patriarcale a quella capitalistica, ed in certo senso industriale, il commercio assume forme più complesse e più vaste, e tutto ciò si rispecchia notevolmente nelle leggi e nello spirito del diritto. Il diritto quiritario, diritto prettamente nazionale, rigido nel contenuto, solenne nelle forme, non si adatta più ai nuovi bisogni, né è applicato ai peregrini che vengono a contatto con i cittadini romani ; nell’organismo del diritto penetrano quindi, a poco a poco, nuovi elementi ; il complesso delle norme che ne risultano formano il ius gentium. Inoltre cade in questo periodo quella speciale attività del praetor nell’amministrazione della giustizia, la quale fu decisiva per l’ulteriore svolgimento del diritto romano. Questo magistrato non solo cura la applicazione del diritto vigente, ma attua e dirige la formazione di nuove norme, le porta alla pratica attuazione, colmando così le lacune del ius civile, ed in seguito anche ne corregge le asprezze e ne promuove con tutti i mezzi il progresso. TERZO PERIODO

Da Augusto a Diocleziano.

Introduzione

XXXVII

Il diritto romano riceve, per opera dei grandi giureconsulti, elaborazione scientifica con l’analisi e lo sviluppo dei suoi vari elementi risultanti dal ius civile, gentium, honorarium. Le norme del ius gentium acquistano sempre più preminenza ; il ius honorarium viene fissato in una forma definitiva sotto Adriano (129 d. C.) ; l’edictum perpetuum che ne risulta costituisce la più grande codificazione di Roma. Pure in questo periodo si viene svolgendo la cognitio extra ordinem, per la [13/14] quale l’amministrazione della giustizia è assunta come funzione dello Stato, esercitata da vari organi ed affrancata da tutto il formalismo antico. QUARTO PERIODO

Da Costantino a Giustiniano (306-565). In questa ultima fase non si hanno più grandi giuristi che trattano il diritto scientificamente. si suole indicare questo come il periodo della decadenza o delle codificazioni ; ed infatti mancando l’elaborazione scientifica del diritto si cerca di salvare il meglio della produzione del periodo antecedente, per via di compilazioni che servono agli usi ed ai bisogni della pratica. Ma noi vedremo meglio che il carattere precipuo di questo periodo consiste nel grande influsso che l’etica cristiana ha esercitato sul diritto pagano, onde mal si designa come periodo di decadenza ; ché piuttosto rappresenta un’era di grande progresso, in cui si forma il diritto moderno, con i suoi caratteri peculiari, che saranno in seguito determinati. La distinzione dei periodi or ora descritta era in uso nel secolo XIX fra gli scrittori di storia, anzi, si solevano ancora fare altre suddistinzioni, esempio inserendo nel primo il periodo regio e poi il periodo repubblicano prima e dopo le guerre puniche, e così di seguito ; ma suddistinzioni troppo minute per nulla giovano, anzi portano complicazione e confusione. Negli ultimi tempi è venuta in uso una diversa determinazione dei periodi dello sviluppo del diritto romano. Il Bonfante segna tre periodi. Il primo sino alla fine delle guerre puniche ; che può essere determinato con la distruzione di Cartagine e di Corinto

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Introduzione

(anno 608 a. U.) e che è il periodo del diritto quiritario o nazionale romano. Il secondo che va dalla fine delle guerre puniche fino ad Alessandro severo (circa 250 d. C.) indicato come il periodo del ius gentium o del diritto universale. Il terzo che va da Costantino a Giustiniano (306-565) indicato come elleno-romano o romeo. Secondo il Perozzi, invece, i recenti studi, come egli dice, impongono dì segnare nello svolgimento del diritto romano due soli periodi : il periodo romano ed il periodo romano ellenico, divisi con una data approssimativa dopo Alessandro Severo (circa 250 d. C.). Per reazione contro quest’ultima distinzione fatta dal Perozzi, io ho sostenuto che invece, ove si voglia dividere in due grandi ere la storia del diritto romano, bisogna segnare come momento critico della divisione la fine delle guerre puniche come fu ben indicato dal Bonfante, giacché da questo momento i rozzi agricoltori del Lazio divennero i signori del mondo antico e si inizia veramente la storia di Roma Imperiale. [14/15] I due periodi sarebbero perciò così indicati : dall’origine di Roma al 608 a. U., periodo del diritto quiritario, e poi dal 608 a Giustiniano, in cui si ha tutto lo sviluppo di nuovi ordinamenti giuridici (ius gentium, ius honorarium, ius extraordinarium) che alla fine nell’epoca post-classica, cioè da Costantino in poi, si fondono nella prassi in un unico ordine giuridico, che è codificato da Giustiniano. Come si vede da questo contrasto intorno alla distinzione dei vari periodi storici il punto essenziale, se non unico, di divergenza è costituito dal carattere che secondo il Bonfante e il Perozzi avrebbe l’ultimo periodo, che va da Costantino a Giustiniano. Secondo questi autori, infatti, dopo Diocleziano e Costantino il centro di gravità dell’Impero si trasporta dall’italia in oriente, da Roma a Costantinopoli (330 d. C.). ora lo spirito ellenico avrebbe impresso il suo carattere a tutta la successiva evoluzione del diritto, che, con la costituzione di Caracalla del 212, era stato imposto a tutto il mondo romano. Il Bonfante fa una descrizione molto vivace degli avvenimenti che, secondo lui, avrebbero da Costantino in poi determinato tutta una nuova e diversa orientazione del diritto.

Introduzione

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Lo sfacelo della familia romana si sarebbe attuato tutto di un tratto, le istituzioni fondamentali, che si riconnettevano all’antica vita dei campi e avevano radici nelle più tenaci tradizioni, sarebbero abolite o svisate nella pratica ; il più largo impero accordato alla volontà individuale e un gran lusso di scritture pubbliche e private subentrato al posto delle venerande forme romane. Così i due scrittori, ed oggi la maggioranza degli storici, attribuiscono al periodo come sopra indicato un carattere decisamente ellenico-orientale, nel senso che il diritto romano sarebbe stato dalla seconda metà del secolo III sopraffatto dalle correnti consuetudinarie che venivano dalla parte orientale dell’Impero. La critica di questo modo di vedere e giudicare lo sviluppo del diritto romano sarà fatta via via nel corso dell’esposizione. Per ora basterà soltanto, a svelarne il punto debole, notare che è cosa veramente sorprendente la rappresentazione dello sfacelo di tutto il mondo antico solo dall’epoca di Costantino in poi ; visione veramente superficiale e fallace, la quale non tien conto né di tutte le testimonianze della letteratura latina, giuridica e letteraria, né dei grandi rivolgimenti, economici sociali spirituali, che avvennero quando Roma conquistò la egemonia del mondo antico, cioè dopo le guerre puniche. Nella vita del popolo romano questa data è davvero decisiva, l’avvenimento più solenne da cui nacque l’impero, e per conseguenza la formazione di un nuovo diritto, che secondo il costume romano non fu opera legislativa, bensì della pratica nel mondo degli affari e nell’amministrazione della [15/16] giustizia ; dell’attività dei magistrati, in primo luogo del Pretore ; e poi degli Imperatori ; con la guida illuminata della grande giurisprudenza della fine della Repubblica e dei primi due secoli dell’Impero. Il periodo che va da Costantino a Giustiniano ha certamente caratteristiche speciali, ma sostanzialmente esso vive del patrimonio raccolto nelle opere dei giuristi, che, essendo straricco e complesso di ordinamenti e di forme, si assottiglia come la povertà dei tempi comportava. occorre non lasciarsi ingannare dalle apparenti soluzioni di continuità. Prima di Costantino, ed in seguito, la sostanza del diritto è la medesima ; quella contenuta nella immensa letteratura giuridica

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Introduzione

dell’epoca classica, che Valentiniano III e Teodosio II furono costretti, dal 426, a limitare per l’uso dei tribunali con la designazione delle opere di cinque giuristi, e nelle costituzioni degli imperatori. Ma la imponente massa delle opere dei giuristi ritorna ancora una volta tutta alla luce, all’epoca di Giustiniano, e offre la materia per la più grande codificazione che sia stata fatta nella storia. Tenendo, dunque, presenti per ora queste osservazioni noi possiamo dividere la storia dello sviluppo del diritto romano in tre periodi di cui ciascuno ha propri caratteri come segue. I. Dalla fondazione di Roma al 608 a. U. — periodo del diritto nazionale romano. II. Dal 608 a. U. al 305 d. C. — periodo del diritto universale, nel senso che il ius civile e gentium e tutti gli altri ordini romani si vengono via via avvicinando, per fondersi poi in un ordine giuridico universale in tutto l’Impero. III. Da Costantino a Giustiniano — che può indicarsi come il periodo del diritto romano cristiano. In realtà nella fusione di tutti gli ordini giuridici, che si compì rapidamente in questa epoca, l’elemento più attivo e vivificatore fu dato dall’etica cristiana, che infuse un nuovo spirito a tutte le istituzioni che venivano dalla tradizione romana.

c aPo I. Lo s vi LU P P o D eL D i R i tto Ro M Ano

§ 1. Il Diritto Quiritario. Nel millennio della storia più viva di Roma si videro sorgere successivamente varie forme di diritto pubblico e privato, si verificarono rapidi cambiamenti radicali negli ordinamenti giuridici, che mai si videro presso altri popoli. Quel che colpisce in questa ascensione continua e rapida verso istituzioni più progredite è la reale originalità del fenomeno, di cui una spiegazione non fu mai data. E non fu data perché il diritto di Roma attraverso i secoli è stato considerato sempre come una forza viva nel mondo, onde il suo valore pratico attrasse fino a pochi decenni addietro tutta l’attenzione degli studiosi ; e inoltre per il fatto, per altro preminente, che gli studi storici non hanno anche oggi raggiunto quel grado di maturità per risolvere problemi così lontani e complessi. Le cause più remote infatti di questa sorprendente originalità rimangono ancora occulte per difetto di quelle cognizioni necessarie intorno agli ordinamenti e allo stato di civiltà delle genti italiche nel periodo preromano. In questo senso la constatazione fu fatta già da Polibio. Per l’età storica possiamo dire che il segreto del fenomeno consiste soprattutto nell’aver Roma saputo mantenere il diritto sempre a contatto con la vita, in maniera immediata e diretta, tanto che gli ordinamenti giuridici rispecchiano, in qualsiasi momento, perfettamente, lo stato di sviluppo e tutta

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Lo sviluppo del diritto romano

la grande storia del popolo romano. Ed essendo stati gli sviluppi, le vicende e l’espansione del popolo romano giganteschi e rapidi, così di conseguenza anche gli istituti giuridici si mutarono con la stessa grandiosità e con moto rapidissimo. Infatti tre volte Roma mutò il reggimento della cosa pubblica ; tre volte creò nuovi sistemi processuali, e nel corso di appena sei secoli, a parte l’antico ius Quiritium, nel campo del diritto privato produsse tre nuovi ordini giuridici ; e cioè : il ius gentium, il ius honorarium e il ius extraordinarium ; il quale ultimo va meglio indicato col nome di diritto imperiale. [17/18] Dello sviluppo del diritto nell’ultimo periodo si tratterà più oltre. Qui ci riferiamo invece esclusivamente alla formazione del diritto nazionale romano sino a Diocleziano, cioè a quei secoli che hanno grande rilievo nella storia di Roma, in particolare rispetto alla formazione e all’espansione del diritto romano nel mondo antico. Per quanto concerne il detto periodo, la causa prima dell’aderenza così intima fra il diritto e la vita oggi può essere ben determinata. Essa è rivelata dalla esistenza di due elementi unici nella storia di tutti i popoli ; il primo consiste nella netta separazione tra il ius e il fas, tra il diritto umano e il diritto divino, che si riscontra in maniera sorprendente fin dall’apparizione di Roma ; e consiste il secondo nella esistenza di una casta di tecnici muniti di grande prestigio ed autorità, che curarono e plasmarono la materia del diritto con grande disciplina ed inflessibile rigore. Già è meraviglioso che la stessa leggenda fiorita attorno alla fondazione della Città rappresenti il ius separato dal fas. Romolo, figlio di un Dio, fondatore della Città, avrebbe dato al popolo ordinamenti politici, civili e militari. Soltanto il secondo Re, Numa Pompilio, avrebbe creato gli ordinamenti religiosi e istituiti i collegi sacerdotali. intanto il collegio dei Pontefici, che dicesi creato da numa, si trova subito in possesso di tutta la tradizione giuridica, che custodisce come un segreto impenetrabile (Livio, 4, 3, 9 ; 9, 46, 5). Questa rappresentazione è contraddittoria, evidentemente. onde l’attività dei Pontefici ed il monopolio ch’essi esercitano nel campo del diritto si spiegano meglio supponendo che sin dal tempo più remoto, come presso tutti gli altri popoli antichi, diritto, religione e morale furono congiunti

Il Diritto Quiritario

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anche in Roma e che dopo la separazione, avvenuta in un momento e per cause a noi ignote, tuttavia l’autorità dei Pontefici rimase intatta, anche nel campo del diritto, perché essi avevano la conoscenza del calendario, dei riti, dei formulari e della tecnica del diritto. L’importanza di questo fenomeno non si è abbastanza valutata, perché, separato il ius dal fas e dagli altri elementi affini, morali e religiosi, il diritto poté essere sottoposto ad una severa disciplina, onde si formarono in quel collegio una tecnica ed una terminologia giuridica precise. Furono fissate formule rigorose e immutabili, come riti religiosi, accumulata un’esperienza che permise a grado a grado la formulazione di principii fondamentali, che costituirono la base salda del progresso del diritto, e poi, in seguito, per la creazione della scienza del diritto. Da qui nacque e si sviluppò nelle forme più varie e sempre progredite un corpo di diritto assai complesso, in cui l’antico ed il nuovo apparirono sempre commisti, curati in ogni tempo da tecnici sapienti, che si aumentava ogni giorno di nuovi elementi secondo dettavano le esigenze della vita, donde scaturì il prodigio di istituzioni giuridiche sempre più perfette ed universali e [18/19] la creazione della scienza del diritto, per la sostanza e l’eccellenza della forma, veramente immortale. Diritto e scienza del diritto costituiscono, pertanto, il prodotto più eccelso del genio romano, il fenomeno più vistoso della civiltà latina, che Virgilio esaltò col deliberato proposito e con la perfetta consapevolezza della sua forza per tutti i secoli e della sua vera essenza di fronte alla civiltà greca : Tu regere imperio populos, Romane, memento. Da quale fonte divina e umana questa forza sia derivata, invano in ogni tempo ricercarono gli storici ; ed essa rimarrà un mistero, fino a che elementi sostanziali dell’epoca preromana non arrecheranno nuova luce. Certo è che il progresso e il grado di sviluppo sociale e politico in Roma si devono ritenere più antichi di quello che la critica del sec. XIX non abbia ammesso1.

1 (1/19). Cfr. F. a LTheIM , Epochen der römischen Geschichte, Frankfurt am Main, 1934, p. 128.

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Lo sviluppo del diritto romano

§ 2. Lex XII Tabularum. La famosa legge delle XII Tavole, che i Romani considerarono come fonte di tutto il diritto dei Quiriti, pubblico e privato, riproduce, non è dubbio, le prische consuetudini delle genti del Lazio. In essa non esiste alcuna traccia di diritto sacrale, perché l’unica disposizione relativa ai clienti è stata ben ritenuta dal Mommsen e dallo Heinze di carattere semplicemente teorico. Ma la religione ed i mores maiorum non perciò perdettero la loro forza, come norma per la condotta degli uomini nella comunità cittadina. La loro autorità piuttosto rimase viva e potente almeno nel periodo eroico della Repubblica. Religione e costumi pertanto continuarono ad esercitare la loro funzione di disciplina, nella vita pubblica e privata, considerati come ordini d’integrazione dell’ordinamento giuridico, aventi organi propri e sanzioni particolari, rispettivamente di carattere religioso e politico. È noto che la codificazione decemvirale, al principio del IV secolo, in un tempo così primitivo, destò fra gli storici del secolo XIX vivaci discussioni intorno alla credibilità della stessa tradizione, discussioni e dubbi che per fortuna oggi si sono acquietati. ora la legge fondamentale del popolo romano, per quanto nota solo in parte, in una forma spesso rammodernata e con evidenti aggiunte, tuttavia permette di individuare almeno i caratteri salienti dell’antico diritto dei Quiriti, il quale appare un ordinamento primitivo, semplice nei suoi principî, rigido nella sua struttura, solenne nella forma, intimamente legato alla vita agricola, e sopratutto dominato dall’organizzazione familiare sottoposta a una disciplina ferrea ; un diritto eminentemente personale, rigoroso, formalistico. Esso rispecchia ancora per molti aspetti la rigida struttura politica e sociale, [19/20] i rudi costumi e i riti vetusti di quelle stirpi indoeuropee che in remotissima età si erano stanziate nel Lazio, conservando gli ordinamenti preesistenti alla emigrazione ariana, che ebbero per altro sviluppi propri e svariati presso gli antichi italici, greci, germani, celti ed altri vari gruppi. Il Codice era generale. Esso conteneva tutto il ius civile nel senso romano : cioè procedura, diritto civile, diritto penale, diritto costituzionale. Ma ciò nel senso che le istituzioni fondamentali erano richiamate nelle XII Tavole per recarvi

Lex XII Tabularum

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particolari derogazioni. Le tavole quindi non hanno codificato tutte le consuetudini anteriori. Gl’istituti fondamentali vi sono presupposti ; così la patria potestas, la manus, il dominium, la hereditas, ricordati nella legge in alcune specialissime istituzioni o in massime generali. Il diritto rimane, pertanto, fondato sulle vetuste consuetudini, trasmesso oralmente di generazione in generazione ed osservato con scrupolosa religione. Così l’organizzazione della familia e della proprietà, il sistema dei contratti e dei delitti non ha la sua fonte nelle leggi, bensì nelle consuetudini anteriori alla fondazione della città. Le stesse cerimonie giuridiche, tutte improntate alla grave austerità, che è caratteristica del popolo quirite, provengono da antiche consuetudini. La più celebre è quella della mancipatio, la quale rivela un carattere primitivo. Essa consiste in una vendita simbolica alla presenza di cinque testimoni e di un altro cittadino che tiene una bilancia. L’acquirente tiene in mano un pezzo di bronzo, dichiara che la cosa è sua e che egli la compra con quel bronzo e quella bilancia. Indi getta il bronzo sulla bilancia, come prezzo della compra. Questa cerimonia indica che nell’origine il prezzo consisteva in verghe di metallo, che dovevano essere pesate, non conoscendosi ancora la moneta coniata. Quando questa venne in uso, la mancipazione si ridusse a mera forma, e via via fu applicata come solennità per i più vari effetti giuridici : cioè, oltre che per la trasmissione del dominio di res mancipi e per la costituzione di servitù o dell’usufrutto, anche per il testamento, per la emancipazione dei figli, come cerimonia per il matrimonio dei plebei, per il mutuo, atti che si dicono per aes et libram. Questa povertà di forme rivela una delle caratteristiche più spiccate del popolo romano, conservatore e tradizionalista in sommo grado. Tuttavia il formalismo, nel processo e nel compimento degli atti giuridici, fu il primo che risentì gli effetti della grande rivoluzione morale e sociale, successa alle guerre puniche. Esso fu distrutto dal graduale prevalere del ius gentium, che non esigeva alcuna formalità e riconosceva all’opposto la volontà delle parti come la energia produttiva di tutti gli effetti giuridici. Contemporaneamente l’uso della scrittura penetrato in Roma sotto l’influsso delle consuetudini dei paesi orientali, indebolì e via via corrose tutte le formalità orali proprie del mondo romano, che furono in ultimo sostituite dal documento scritto. [20/21]

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§ 3. Le legis actiones. Il formalismo domina pure il processo civile (legis actiones) ; « agere » nel senso tecnico più ristretto vale azione giudiziaria, che si svolge con la pronuncia di parole solenni e compimento di atti e riti simbolici dinanzi al magistrato in iure. Le parole e le formule sono immutabili, il minimo errore produce la nullità e la perdita della lite. La rappresentanza è esclusa ; le parti agiscono personalmente ; ed il processo è personale anche nel senso che la protezione giudiziaria è concessa solo ai cives romani. Pochi mezzi esistono per la tutela dei diritti privati. In principio, è ricordato, la legis actio era una sola, generale, quella sacramento, la quale nei riti rappresenta ancora vivacemente la lotta fra le parti, nella forma di un duello, i cui effetti sono moderati dalla presenza del magistrato. In essa prevale l’iniziativa delle parti, mentre l’ingerenza dello Stato, nella presenza del magistrato (rex, consul, praetor), è limitata a moderare la violenza, a controllare l’attività delle parti imponendo il compimento pacifico degli atti. non esiste quindi un potere giudiziario attribuito ad un’autorità pubblica ; piuttosto come nel diritto penale ha luogo la vendetta, la legge del taglione, così nel processo vige il diritto di farsi giustizia da sé. Necessario è soltanto, nell’esercizio di questo diritto, seguire le forme solenni stabilite dalla consuetudine. Per altro la decisione della contesa, secondo una riforma, che la tradizione attribuisce a Servio Tullio, il re democratico, non è data dal magistrato, ma da un privato cittadino scelto dalle stesse parti e confermato dal magistrato. Questo sistema appare una suprema garanzia del cittadino, quindi inviolabile. Questa forma di procedura ha una impronta arcaica ed ha viva rassomiglianza con quella delle genti celtiche, germaniche e di altri gruppi ariani. È brutale e dura. La in ius vocatio, se il convenuto non segue l’invito, può essere effettuata con la forza dall’attore ; il quale trascina nel foro il reo « obtorto collo ». Se il condannato non esegue la condanna è posto ai ceppi nel carcere privato che si trova nella casa del creditore, e se dopo tre nundinae egli non soddisfa il debito, o parenti e amici non lo riscattano, può essere venduto come schiavo o messo a morte e le membra divise tra i creditori : « si plus minusve secuerunt, se fraude esto » ; il che vuol dire : se i creditori hanno preso delle membra del debitore più o meno, non

Le legis actiones – Ius gentium

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ha importanza. Raffinatezza feroce della legge, la quale rende possibile in ogni caso, senza cavillamenti, la realizzazione della vendetta dei singoli creditori. La stessa impronta arcaica hanno altre due legis actiones, quella per manus iniectionem, stabilita, come sembra, per determinate forme di obbligazioni, come il nexum, e l’altra per pignoris capionem, per debiti che avevano una causa pubblica o sacrale. Ma due altre forme, la legis actio per iudicis arbitrive postulationem e [21/22] quella per condictionem, rivelano già un grande progresso, con una concezione e una struttura agile del processo in quanto, nell’una e nell’altra, le parti, compiuta in iure la solennità introduttiva della lite, ricorrono all’autorità del magistrato semplicemente per l’assegnazione di un arbitro o di un giudice che decida la controversia. In esse si manifesta un’energia potente di rinnovamento che ha superato d’un colpo, nel processo, la fase primitiva e barbarica del complicato formalismo. La prima, la legis actio per iudicis postulationem, è già nota alle XII Tavole. I frammenti di Gaio rinvenuti di recente (PSI XI, 1182) attestano che essa era applicata anche per la sponsio-stipulatio, cioè per la forma solenne di obbligazioni che costituisce il fulcro di tutto il sistema delle obbligazioni romane ; e non sappiamo, come già notava Polibio per tutte le antiche istituzioni, quali cause poterono determinare sviluppi così imponenti, quando, come e da chi furono attuati. Che siano un prodotto dell’attività dei Pontefici non c’è alcuno che possa negare con certezza. intanto qui si sorprende altra manifestazione potente del genio di Roma nel campo del diritto, che vedremo svolgersi sempre più nel periodo storico, seguendo lo stesso metodo, una medesima linea, con slancio vitale che mai si arresta verso istituzioni ognora più semplici e perfette. Questo processo di rinnovamento lo possiamo seguire con molta precisione a cominciare dal periodo storico. § 4. Ius gentium. il piccolo comune rustico ha rapido incremento ; Alba è presto sopraffatta, la confederazione latina è in potere di Roma, sotto il suo dominio è la bassa Etruria, ed al principio

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della prima guerra punica (490 a. U.) tutta l’Italia meridionale fino a Reggio è tenuta in pugno da Roma. In questo periodo, è ovvio, Roma si afferma pure come un grande centro commerciale a cui affluiscono le genti dei territori conquistati. È sorto, quindi, ben presto il problema del regolamento giuridico delle relazioni di affari tra cives e peregrini. Il sistema quiritario aveva un carattere troppo arcaico per provvedere ai nuovi bisogni creati dalla trasformazione economica e sociale del piccolo comune. L’ostacolo maggiore era costituito dal principio rigoroso della personalità del diritto. Si rendeva necessario altro ordinamento giuridico che si adattasse precisamente ai nuovi rapporti di natura commerciale, che si svolgevano sempre più intensamente tra Romani e le popolazioni soggette a Roma. Un indice prezioso di siffatta necessità è dato dalla istituzione del praetor peregrinus avvenuta nel 512 a. U., sul finire della prima guerra punica. [22/23] Ma questa data deve ritenersi non come l’inizio dello svolgimento del ius gentium, bensì come il momento in cui le nuove relazioni con i peregrini richiesero con urgenza un magistrato speciale per l’importanza che esse ormai avevano assunto. Sarà bene ricordare in proposito che il primo tronco della via Appia fino a Capua rimonta alla metà del v secolo e che questa via militare dovette pure promuovere un commercio più intenso con la città dominatrice. La istituzione della magistratura speciale è pertanto significativa nel senso che si dovette provvedere all’applicazione di nuove norme e ad una speciale forma di processo. Tutto il diritto dei Quiriti, materiale e processuale, come fu detto, era caratterizzato da forme solenni che potevano soltanto essere usate dai cives con la esclusione assoluta dei peregrini. oggi è riconosciuto universalmente che nella giurisdizione del praetor peregrinus si venne svolgendo una forma di processo più libera, che serviva a dirimere le controversie tra peregrini e anche tra cives e peregrini. Ed è pure da tutti riconosciuto che questa forma più libera fu adottata in seguito alla Lex Aebutia, nel principio del VII secolo, accanto alle forme solenni delle legis actiones, a libera scelta delle parti, nei processi tra i cives.

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In questa giurisdizione speciale del praetor peregrinus ebbe grande impulso e svolgimento il ius gentium. Il nome è caratteristico. Quel genitivo appartiene al latino volgare e significa mondiale, universale, riconosciuto da tutte le genti, come è usato da Plauto. Il ius gentium sarebbe quindi il diritto universale che si applica a tutti gli uomini liberi (Gaius 1, 1 ; fragmentum Dositheanum 1 ; D. 1, 1, 1, 4 e 1, 1, 4), in contrapposto al ius Quiritium, che è il diritto nazionale ed eminentemente personale. Tuttavia questo nuovo ordinamento giuridico che si veniva formando non era un diritto internazionale e forestiero, tratto dalle consuetudini dei popoli mediterranei, specialmente ellenici, come altri vollero intenderlo. Con ciò non s’intende escludere la penetrazione di usi e consuetudini mediterranee nel corpo del ius gentium, ma soltanto il carattere di un diritto forestiero. Singoli istituti, come per esempio l’arra, derivano certamente dai diritti orientali, penetrati in Roma per le vie commerciali. Ma nella sostanza complessiva esso è diritto romano universale, cioè applicabile a tutti gli uomini, cives e peregrini ; un diritto creato da Roma nella giurisdizione del praetor peregrinus e subito dopo anche in quella del praetor urbanus nelle liti fra i cives. Questa coincidenza è notabile, perché in essa si rinviene, forse, la ragione più immediata del fatto che le actiones derivanti dal ius gentium furono da tempo immemorabile considerate iuris civilis ed ebbero poi formule in ius conceptae. E che sia diritto di Roma e non forestiero si dimostra subito osservando [23/24] che tutti i principî fondamentali del ius civile si applicano anche allo ius gentium regolato in base all’organizzazione familiare romana. Di conseguenza i figli di famiglia non hanno capacità di agire in giudizio nè di essere convenuti ; non hanno patrimonio. Anche nel ius gentium è esclusa la rappresentanza diretta come nel ius civile. Ciò significa che Roma impronta il diritto universale dai principii fondamentali che scaturiscono dalla sua organizzazione giuridica e familiare. Sulla natura di questo ordinamento, dunque, non può essere dubbio. Esso si vien formando in Roma nelle consuetudini del commercio e nella prassi giudiziale, onde è tutto aderente alla vita. Il giudice esamina le convenzioni intervenute fra le parti, considera il caso nella sua figura concreta e trae

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il suo giudizio dalla stessa esperienza e dal modo di sentire comune nel mondo degli affari. Il ius gentium raggiunge così un alto grado di perfezione, come un prodotto spontaneo della natura. Tutti i giudizi sono fondati sulla fides che Cicerone (Cic., De off. 1, 7, 23) qualifica come il fondamento della giustizia ; fides è lealtà, comportamento onesto, tenere la parola ; e quindi esclusione e riprovazione di tutto ciò che contrasta o apparisce non conforme ad un comportamento leale e onesto. Nei negozi del ius gentium non si esige scrittura né testimoni. La convenzione senza alcuna forma è stabilita in piena libertà e viene eseguita con perfetta rettitudine. Tutto ciò destava la più grande meraviglia di Polibio, che osservando questo fenomeno straordinario della vita commerciale e pubblica di Roma scriveva : presso i Greci chi dà a mutuo anche un solo talento adibisce dieci scrivani, altrettanti sigilli, il doppio di testi ; ma non troverai presso di loro la fides. Invece la fides la trovi presso i Romani, che, pur trattando somme vistose, sono fedeli alla religione della parola data. E così, anche nel diritto pubblico, raro si rinviene che il magistrato che ha impegnato la sua fede sia sospettato di peculato (Polib., 6, 56, 13). E Valerio Massimo (Mem. 6, 6 praef. ) soggiunge che la fides « semper in nostra civitate viguisse et omnes gentes senserunt ». Così si spiega che le figure dei rapporti commerciali hanno assunto un grado di perfezione, di semplicità, di aderenza alla vita che non si riscontra in nessun diritto dei popoli antichi. Nella compravendita il consenso sulla cosa e sul prezzo è tutto ; l’accordo, senza nessuna formalità, su quei due punti rende il negozio perfetto. Da esso nascono obbligazioni reciproche : il compratore è obbligato a pagare il prezzo, il venditore a consegnare la cosa ed a garantire il pacifico possesso della medesima. Questo è essenziale ed è sufficiente. Non è necessaria l’obbligazione di trasferire la proprietà. È valida la vendita di cosa altrui, perché in ogni caso sussiste l’obbligazione del venditore di procurarsela e farne la consegna o di indennizzare il compratore per la mancata prestazione. [24/25] Non dobbiamo biasimare un grande stratega, un genio quale fu Napoleone, di non aver compreso la struttura di que-

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sto contratto, quando disse assurdo ammettere la validità della vendita in una cosa appartenente ad un altro ; onde nacque quella disposizione dell’art. 1599 del Codice Napoleonico, art. 1459 del Cod. Civ. 1865, che dichiarava nulla la vendita della cosa altrui. Ma Roma poté, con questa figura semplice e larga della compravendita, con il minimo mezzo attuare tutti gli scopi che le parti intendessero conseguire, in qualsiasi situazione. È possibile la vendita di cose indicate per genere, la vendita a credito, la vendita di cose future, la vendita di cose lontane, perché il contratto non determina altro che le obbligazioni assunte dall’uno e dall’altro dei contraenti, indipendentemente dal problema del trasferimento della proprietà. Concezione questa ovvia per noi e per il commercio di tutto il mondo moderno, stupefacente rispetto ai Romani, quando si consideri che anche il diritto greco, vuol dire il diritto di un popolo di alta civiltà, e sopratutto commerciale, conobbe soltanto la compravendita come contratto reale, che si perfeziona ed esaurisce con la consegna della cosa e il pagamento simultaneo del prezzo. onde per la vendita a credito era necessario aggiungere un altro contratto, il mutuo. La vendita di cose future, es. dei prodotti del fondo, si poteva solo ottenere con l’espediente della locazione del fondo e così via. Al confronto il genio di Roma si manifesta in questo istituto in tutta la sua luce, avendo saputo raggiungere con il minimo mezzo lo scopo essenziale che le parti avevano di mira nelle più svariate situazioni. E le esigenze e lo sviluppo della vita suggerivano ogni giorno nuove idee e soluzioni che si innestavano rapidamente nell’organismo del diritto. Un esempio perspicuo offre la societas. Quinto Mucio, nell’epoca di Cicerone, aveva ritenuto, secondo la tradizione antica, che nella società ciascuno dei soci dovesse avere partecipazione agli utili in perfetta proporzione al contributo da ciascuno portato alla societas. Servio sostenne per primo, contro Quinto Mucio, la possibilità che nella societas uno dei soci avesse parte agli utili e non alle perdite, o che pure fosse la partecipazione agli utili diversa dai contributi sociali, e ciò nei casi in cui uno dei soci apprestasse all’azienda sociale la sua opera, la sua perizia considerata come equivalente o anche più preziosa dei contributi di beni.

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La dottrina di S ervIo prevalse. oggi è diritto mondiale. Essa fu giudicata da Giuseppe Kohler come la più alta conquista della giurisprudenza di tutti tempi, per cui l’ingegno, la tecnica, la capacità individuale fin da questo momento furono posti in un piano più alto dei beni materiali, e, associati al [25/26] capitale, diedero nuovo e grande impulso allo sviluppo industriale e commerciale e perciò alla creazione della ricchezza. Forse questa dottrina fu determinata dalla causa svoltasi tra Roscio e Fannio, della quale si ha notizia nell’oratio di Cicerone, Pro Roscio Comoedo. Fannio aveva, come sembra, trasferito a Roscio la metà del dominio dello schiavo Panurgo, perché lo addestrasse nell’arte della scena. Il servo dotato di spiccate attitudini fu degno discepolo del grande attore. Ucciso da un terzo, la controversia fra i comproprietari verteva sulla divisione dell’indennizzo prestato dall’uccisore di Panurgo a Roscio. Cicerone difensore di Roscio dice nel par. 28 « Facies non erat, ars erat pretiosa » per significare che Fannio aveva apprestato alla società Panurgo, che come corpo valeva nulla, in lui soltanto l’arte appresa da Roscio era preziosa. L’orazione ciceroniana è molto lacunosa e molti particolari e l’esito della causa sono ignoti. Un altro esempio offre il mutuo, un tipo di negozio molto frequente in ogni tempo. La struttura del contratto in Roma è semplice : chi dà a mutuo cose fungibili, denaro o derrate, deve trasferire la proprietà delle cose medesime al mutuatario, il quale assume l’obbligazione di restituire altrettanto della specie medesima. Il trasferimento della proprietà è essenziale, perché l’accipiente consuma le cose ricevute ; secondo i Romani, il termine mutuum indicherebbe già questo requisito inalterabile del negozio : a meo tuum fit. Ma nell’Impero, in un mondo in cui domina l’attività delle banche, non era possibile tener fermo quel requisito che le cose fossero già in proprietà del mutuante e trasferite dal mutuante. Ed appunto g IuLIano , nel periodo adrianeo, conferma e sostiene la validità del mutuo anche se il banchiere avesse consegnato al mutuatario denaro proprio a nome e per conto del suo cliente. Qui l’obbligazione dell’accipiente nasce verso il terzo assente al contratto che figura come mutuante, quantunque il denaro ricevuto fosse di proprietà del banchie-

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re (D. 12, 1, 9, 8). Ed in questa decisione il rigoroso principio che nega l’ammissibilità della rappresentanza diretta era violato apertamente. Giuliano giustifica questa deviazione, essenziale nel contratto, dicendo che ciò era ogni giorno applicato nella pratica bancaria. E il mutuo ha dovuto subire altre alterazioni (fr. 15 D. 12, 1 ; fr. 10, 4 D. 17, 1), perché il tipo primitivo, forse derivato dal nexum, era troppo rigido ed insufficiente alle esigenze del commercio più largo nel vasto impero. Così si vien formando tutto questo ordinamento giuridico con intima aderenza alla vita, in quanto era dettato dalla prassi medesima e riaffermato dalla consuetudine. Il ius gentium raggiunge in siffatta maniera un alto grado di perfezione, perché nato quasi per produzione spontanea, imposto dall’uso e [26/27] dall’esperienza. La prassi giudiziaria sorveglia e conferma le consuetudini, che costituiscono la trama del nuovo ordinamento. Si tenga presente che il giudice chiamato a decidere la controversia fra le parti non ha norma prestabilita da seguire, ma considera il caso nella sua figura concreta con tutti gli elementi che esso presenta e trae il suo giudizio dall’esperienza, dal modo di sentire comune nel mondo degli affari, dalla sua coscienza di uomo probo ed esperto degli usi commerciali. La fides, come fu detto, la lealtà, l’onestà, la parola data nella sua reale significazione, è la norma suprema, unica fonte della decisione e del diritto giusto2. E questo diritto viene via via accolto pure dal praetor urbanus nella sua giurisdizione per mezzo di formulae in factum o ficticiae, le quali poi passano nel corpo del ius civile con formulae in ius. ora, esaminata la struttura ed il processo di formazione di tutto questo nuovo diritto mondiale, si nota che esso aveva caratteri del tutto opposti a quelli del ius Quiritium, i cui istituti, come sappiamo, avevano l’impronta indelebile dello stato primitivo di una comunità rurale, organizzata con una ferrea disciplina, politica e familiare, vivente una vita semplice priva di industrie e di commerci. Il ius gentium, invece, si svolge in un periodo di attività commerciale sempre più 2 (1/27). In questo senso cfr. ora W. K unKeL , Fides als schöpferisches Element im römischen Schuldrecht, in Festschrift Paul Koschaker, II, Weimar, 1939, p. 1 ss.

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intensa, in una organizzazione sociale che può dirsi di economia capitalistica. Esso sgorga perciò da nuovi aspetti delle relazioni sociali e commerciali. Notabile quindi il contrapposto fra il ius dei Quiriti e il ius gentium : il primo essenzialmente diritto personale, diritto rigoroso, diritto formalistico. Al contrario il ius gentium vale per tutti gli uomini liberi, è quindi diritto universale, dotato di grande elasticità e sempre aderente alla vita : e quindi privo di qualsiasi forma, sia scritta che orale. Certo, a questo punto sorge il problema intorno alla possibilità di una pacifica coesistenza di questi due ordinamenti giuridici così opposti per l’origine, la sostanza e la forma. L’uno, infatti, rappresenta il vecchio mondo, un’organizzazione sociale primitiva vivente in povertà di beni e di scambi ; l’altro, la vita nuova che si svolge in un territorio sempre più vasto e in un’attività più larga e più intensa di relazioni e di affari. È certo che, se ciascun ordine poté adempiere la sua funzione in un primo momento in maniera indipendente l’uno dall’altro, il ius gentium era fatalmente destinato ad una prevalenza assoluta sul ius civile, nel senso che i suoi caratteri di elasticità, di libertà da forme, di adeguazione perfetta alla volontà delle parti, come sopra determinati, dovevano necessariamente espandersi in tutto il campo del diritto. L’influsso del ius gentium sul ius civile doveva manifestarsi, in maniera inevitabile, in tutte le forme, e con un ritmo accelerato [27/28] compiersi una sempre più intima compenetrazione dei due ordini. Se il ius civile ben presto, nel suo significato più largo, riuscì a comprendere anche il ius gentium, ciò significa che l’avvicinamento, ed in parte la fusione dei due ordinamenti, nei modi detti più sopra, si venivano attuando con grande rapidità. Per la natura delle actiones, fu osservato dianzi, ciò avvenne in un tempo a noi ignoto e quindi forse nell’inizio medesimo. C’è un punto che merita di essere posto subito in rilievo e conferma in maniera evidente il fenomeno. La stipulatio, forma eminentemente del ius civile, divenne ben presto iuris gentium, cioè accessibile a tutti gli uomini liberi dell’impero. La sua comunicazione ai peregrini fu imposta subito dal commercio con gli Italici e poi più largamente con i peregrini delle provincie in occidente ed in oriente. or se si considera che nel mondo romano la spon-

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sio-stipulatio costituiva il mezzo per eccellenza di tutto il sistema obbligatorio, in quanto essa poteva rivestire di forza giuridica qualsiasi pattuizione, e l’obbligazione costituita poteva essere, mediante la stessa solennità, novata, rafforzata con garanzie, trasferita ad altri soggetti, e poi estinta, con la medesima solennità in senso contrario, allora si comprenderà facilmente che la comunicazione della stipulatio ai peregrini rappresentava un passo decisivo verso la penetrazione d’istituti e di forme del diritto dei Quiriti nel corpo del ius gentium, e quindi verso l’unificazione di tutto il diritto nel vasto impero romano. Ed è ovvio altresì che data la funzione così larga ed essenziale della stipulatio per il commercio, l’oriente doveva apportare il suo contributo con l’uso del documento, della scrittura, che in questo periodo appunto si introduce in Roma, e si estende poi e si afferma sempre più, ogni giorno, nel mondo degli affari e nella pratica giudiziaria. La stipulatio si semplifica, è certo, in questo momento. Il futuro creditore formula la interrogatio, ed il debitore si obbliga pronunziando una sola parola : promitto. Può essere fatta in latino in greco e forse in altre lingue, mentre per gli atti del ius civile la lingua latina è essenziale. Il documento allora agevola l’uso di stipulazioni complesse aventi vari capi ; ed esso assume tutto il contenuto del negozio, con tutte le modalità e condizioni volute dalle parti, mentre la solennità romana si assottiglia, richiedendosi solo la pronunzia della clausola orale dall’una e dall’altra parte come compimento e conclusione dell’atto : ea quae supra scripta sunt dari promittis ? promitto. Questa clausola è tutto per la perfezione dell’atto solenne. Il corpo della contrattazione, la sua sostanza, è inclusa nel documento. Questo meraviglioso connubio è attestato già nella Repubblica (Alfeno varo, nel fr. 71 D. 17, 2 ; cfr. Paolo, fr. 140 D. 45, 1). Ma anche qui non possiamo determinare né quando la stipulatio divenne iuris gentium, né quando si accoppiò sostanzialmente al documento con notevole ed agile semplificazione dell’atto. [28/29] or ognuno ben intende che il documento doveva a grado a grado logorare, corrodere e mettere fuori uso la forma solenne propria romana. Così avvenne nella stipulatio (Paolo, sententiae 5, 7, 2). Così nel testamento in cui le tabulae testamenti costituirono nel diritto pretorio la base per la concessione della bonorum possessio. La nuncupatio solenne del

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testamento può ora essere omessa senza danno, come attesta Gaio (2, 147-151 a). Anche la mancipatio si dirada di fronte al documento. Se non è eseguita, attesta Varrone, la stipulatio duplae basta a garantire all’acquirente l’efficacia del suo acquisto (Varro, De re rust. 2, 10, 5). Le esigenze del commercio internazionale si imponevano sempre più largamente. Si consideri che il commercio di schiavi era esercitato da peregrini, i quali non potevano usare la mancipatio ; e l’attestazione di Varrone riguarda appunto le vendite di schiavi. Ed in questa situazione di cose, trova pure facile spiegazione quella regola di diritto, accennata sopra, per cui nella compra-vendita l’obbligazione del venditore è limitata a garantire all’acquirente il pacifico possesso dell’acquisto e non la trasmissione della proprietà. Infatti per le res mancipi mancava ai peregrini la possibilità di compiere la mancipatio, onde l’istituto fondamentale del commercio si vien plasmando secondo la legge del minimo mezzo. Dunque il ius gentium incominciò subito a spiegare un grande influsso non solo nella formazione e nello sviluppo del diritto generale ma pure sul ius civile. Il detto « Roma parla, l’oriente scrive » sempre più si attenua come carattere differenziale fra il diritto romano e il diritto degli altri popoli dell’oriente. e l’influsso è più potente rispetto alla sostanza medesima del diritto. Infatti il diritto dei Quiriti considera soltanto la dichiarazione espressa con parole solenni : « uti lingua nuncupassit, ita ius esto ». Così si esprime la legge delle XII Tavole. Nel ius gentium invece la voluntas effettiva delle parti è la forza generatrice di tutti gli effetti giuridici. E la voluntas è considerata in tutti i suoi elementi costitutivi, interiori ed esteriori, e nello scopo che le parti intendono raggiungere nella espressione materiale della volontà medesima. Su questo principio fondamentale che si venne formando nella pratica del ius gentium poggia lo sviluppo grandioso del diritto romano dalle forme primitive arcaiche a quelle più recenti e più progredite della fine della Repubblica. il ius gentium era destinato ad assorbire tutto il ius Quiritium, distruggendone via via le forme solenni e rigorose, su cui poggiava tutto quel sistema arcaico ; mentre la decadenza del formalismo ed il prevalere della volontà dei singoli rendeva sempre più immediato ed attivo l’influsso energico della vita presen-

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te su tutto l’organismo del diritto. Il quale procedeva sempre più rapidamente, affrancato dalle pastoie delle forme, verso una più intima aderenza [29/30] alla realtà, per divenire il diritto universale dell’Impero, di tutti i popoli della terra ed eterno. § 5. Ius honorarium. Una funzione più caratteristica rispetto al ius civile fu esercitata dal ius honorarium che si svolse forse fin dalla creazione del praetor urbanus del 387 a. U. e che poi si intensificò grandemente con la riforma del procedimento solenne iniziata dalla lex Aebutia al principio del VII secolo. Si deve supporre che il formalismo e il rigore del diritto dei Quiriti dovette essere sentito intensamente dopo circa un secolo di svolgimento del ius gentium. Ho detto già che la coesistenza del ius civile e del ius gentium poté rimanere pacifica solo per poco tempo. il contrasto si dovette manifestare sempre più aperto. E la riforma avvenne in una maniera pronta ed opportuna, rispetto al formalismo nel processo con la legge sopracitata. La lex Aebutia introdusse, a scelta delle parti, accanto al vecchio sistema formalistico un nuovo sistema libero, che dicesi tecnicamente agere per formulas (Gaio, libro quarto delle institutiones). Ma è ovvio che il procedimento libero fu preferito perché già esperimentato da lungo tempo nella prassi del praetor peregrinus e probabilmente, a grado a grado, anche in quella del praetor urbanus. Le cause che hanno prodotto il primo attacco al sistema delle legis actiones con la lex Aebutia possono essere ora agevolmente individuate. Il disquilibrio tra la completa libertà dei giudizi nella giurisdizione del praetor peregrinus dovette essere sentito profondamente dai Romani del tempo. Le forme arcaiche dovevano ormai destare una forte opposizione. Sappiamo già che la tradizione è in questo senso molto espressiva. Gaio (4, 30) dice che quel sistema di procedura rigoroso e formalistico venne in odio ai Romani ed apparve intollerabile. Cicerone più volte si esprime negli stessi termini contro i formulari Maniliani e l’arcaismo della tutela delle donne e sopratutto in ordine all’attaccamento alla parola secondo l’interpretazione dei Pontefici, la quale non lasciava

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adito all’attuazione dell’equità (Cic., Pro Mur. 12, 27). Gellio inoltre sa dire che pubblicata la lex Aebutia tutte le antiquitates della lex XII tabularum svanirono come per incanto3. tutto ciò è significativo e non può essere effetto di una semplice riforma legislativa, ma rappresenta vivamente lo spirito nuovo dei tempi, che era in forte contrasto con la tradizione arcaica quiritaria, tutta dominata dalla tirannia dei verba e dalle forme solenni. oggi si ammette generalmente che anche prima della lex Aebutia il [30/31] pretore nell’esercizio della sua funzione aveva fatto uso della sua autorità, denegando a volte l’actio, fondata sul ius civile, ovvero con la in integrum restitutio, annullando un effetto del ius civile, come per esempio la usucapio dei beni di un cittadino che era stato assente rei publicae causa. Certo che la in integrum restitutio è conosciuta da Terenzio (Phorm. 2, 4, 14-15). Una siffatta attività del pretore, anche se non largamente attestata, indica sufficientemente che l’inizio di uno sviluppo verso forme più semplici del processo e una sempre più larga autorità e libertà del magistrato nell’amministrazione della giustizia si devono già riportare almeno al periodo delle guerre puniche. In seguito alla lex Aebutia il pretore divenne l’arbitro del processo. A poco a poco il rapporto tra la giurisdizione del pretore e il ius civile diviene singolare, unico nella storia. Il pretore assume una funzione sempre più libera di fronte al ius civile, sostituendosi alle fonti vere e proprie del diritto. L’esempio del ius gentium, le consuetudini che si venivano svolgendo naturalmente ed il nuovo sistema di procedura segnavano al pretore la mèta ed i mezzi per raggiungerla. Egli nell’esercizio della giurisdizione può negare la protezione garantita dal ius civile e, all’opposto, può concedere azione in casi non contemplati dal ius civile. In questo modo il pretore agevola l’ordine esistente, ne colma le lacune, e occorrendo ne paralizza l’applicazione. Così negli ultimi due secoli della Repubblica, nel periodo più fecondo dello sviluppo del diritto, questo si riforma e si svolge mediante l’attività dei ma3 (1/30). Gell., Noct. Att. 16, 10, 8 : « Cum proletarii et adsidui et sanates et vades et subvades et XXV asses et taliones furtorumque quaestio cum lance et licio evanuerint, omnisque illa XII tabularum antiquitas ... lege Aebutia lata consopita sit ».

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gistrati che attendono all’amministrazione della giustizia. Il risultato è stato meraviglioso. Nel II secolo dell’Impero, Papiniano poteva dire che il ius honorarium era stato introdotto adiuvandi, supplendi, corrigendi iuris civilis gratia, propter utilitatem publicam. La publica utilitas infatti consisteva nella necessità di adeguare l’antico sistema del diritto alle nuove esigenze della vita (D. 1, 1, 7). Questo punto merita di essere ben determinato. Considerato in sé, sotto l’aspetto costituzionale, l’ordinamento che si viene formando nella giurisdizione del pretore non costituisce ius, bensì opportuna applicazione di norme più convenienti nella pratica giudiziaria. Il ius civile restava teoricamente illeso, perché il diritto del popolo romano non poteva essere mutato dal magistrato. Così si viene a formare un profondo distacco fra il ius civile e le norme che erano applicate nella pratica, cioè il ius honorarium. L’effetto era inevitabile : la prevalenza assoluta anche qui del ius honorarium rispetto al ius civile, consolidatasi via via mediante la pratica giudiziaria e la consuetudine. Il portentoso sviluppo della vita pubblica e privata, nel campo economico, sociale e spirituale, dopo la distruzione di Cartagine doveva necessariamente portare profondi mutamenti nell’ordine giuridico, anzi, un generale sovvertimento nei principî fondamentali e nelle norme del ius civile. Ma Roma trovò la via più agevole a raggiungere la mèta, non nella legislazione ma nel pretore. Il vantaggio che questo sistema offriva era evidente. [31/32] La direzione suprema del diritto era affidata a un organo tecnico che aveva tutta la libertà e tutto il potere di innovare e che, nell’esercizio della sua funzione, giovandosi dell’esperienza dell’anno precedente, poteva proporre nell’albo la norma più adeguata e dettare la decisione più adatta per attuare l’equità. I mezzi più potenti di cui il pretore si servì per assolvere la sua funzione furono certamente : la denegatio actionis, la in integrum restitutio, le actiones in factum, le actiones ficticiae e le exceptiones, tra le quali la actio de dolo viene designata da Cicerone come la rete che raccoglie e reprime tutte le malizie nella vita del diritto4. Le formule de dolo furono proposte, come 4 (1/32). « Everriculum malitiarum omnium », Cic., De natura deorum 3, 30, 74 ; cfr. De off. 3, 14, 60.

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attesta lo stesso Cicerone, da Gallo Aquilio, forse nel 686 a. U. Così nella giurisdizione del pretore si attua nella maniera più semplice ed immediata l’aequitas. Certo l’aequitas non fu ignorata dal ius civile ; anche nelle legis actiones si hanno applicazioni di norme e decisioni equitative. Nella legis actio sacramento, quando si tratta della vindicatio in libertatem, la somma del sacramentum era di cinquanta, qualunque fosse il valore dell’uomo. E ciò, dice Gaio (4, 14), fu disposto favore libertatis. Ma tuttavia è innegabile che l’applicazione più costante ed energica dell’aequitas, riconosciuta come la suprema finalità del diritto, si riscontra nella giurisdizione del pretore. L’osservazione che altri ha fatto in contrario, e cioè che nell’editto non si trovi mai la parola aequitas è senza valore : perché le disposizioni di legge o edittali mai sono enunciate con i motivi che le determinano. Ma l’aequitas apparisce non solo in Cicerone, ma nei commenti dei giuristi come la forza più attiva che suggerisce e determina nuovi mezzi, nuove decisioni, spesso in contrasto con l’ordinamento giuridico che proveniva dal ius proprium Romanorum. A mostrare per altro tutta la fallacia di questi rilievi messi avanti da critici e da storici moderni basta la definizione del ius, data da Celso nel principio del II secolo : ius est ars boni et aequi (fr. 1 pr. D. 1, 1)5. La quale segna già il completo trionfo dell’equità sul ius strictum, e conferma che il diritto ormai ha come mèta e finalità l’attuazione in ogni caso del bonum e dell’aequum. E il bonum et aequum è dizione latina ed è concetto latino, come si riscontra anche in formule del periodo repubblicano, esempio nell’actio rei uxoriae. Soltanto l’infatuazione bizantina, che ha dominato negli ultimi tempi, ha voluto far credere che l’equità, specie nel senso di clemenza, moderazione benevola, sia un’idea ellenica, sorta ed applicata largamente soltanto nell’epoca bizantina, cioè dopo Costantino. [32/33] Invece si deve riconoscere che il compito di attuare l’equità fu assolto mirabilmente dalla più gloriosa magistratura di Roma.

5 (2/32).

Su questo argomento vedi in seguito, p. 116 ss., 135 ss.

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Le norme e le disposizioni del pretore si sovrapposero via via a tutti i principî e le norme del ius civile. Il pretore apparve come un legislatore rispetto alle esigenze della vita quotidiana. Egli rappresenta la viva vox iuris civilis, cioè la legge viva come già Aristotele aveva detto del giudice nel mondo greco. E questo nuovo ordinamento costituito dal ius honorarium apparisce già nell’epoca di Cicerone, cioè appena dopo un mezzo secolo dalla sua attuazione, come il sistema del diritto vivo in contrapposto al sistema del ius civile, che rimane bensì illeso, ma soltanto nell’ordine teorico. Il risultato è notabile, per quanto a prima vista appaia contraddittorio. Il ius civile rimane illeso, come ius proprium civium Romanorum ; ma tutta la vita del diritto, nella realtà, è regolata dal ius honorarium. onde apparisce in tutto il campo del diritto privato un dualismo che è veramente singolare e caratteristico. Vi è un duplex dominium, cioè il dominium dei Quiriti e una proprietà protetta dal pretore, spesso in contrasto non solo formale, ma pur sostanziale con le norme del ius civile. Si amplia il quadro delle servitù prediali, mediante la protezione pretoria di altre figure, le quali provvedevano in modo opportuno ai bisogni dell’agricoltura più intensa e progredita, es. col riconoscimento d’una servitù di aqua ex rivo, che era esclusa dal ius civile. Accanto all’hereditas il pretore crea l’istituto della bonorum possessio, che inizialmente funziona solo come un provvedimento provvisorio rispetto alla amministrazione dei beni ereditari, ed in seguito servirà ad attuare un nuovo sistema di successione ereditaria. Accanto alla agnatio o parentela civile il pretore riconosce la parentela del sangue, cognatio, agli effetti principalmente della successione ab intestato, per cui l’ordine della successione del diritto civile si trasforma con la chiamata anche dei cognati. Così tutti gli istituti fondamentali del diritto dei Quiriti sono superati dai provvedimenti e dai mezzi applicati dal pretore, imposti dalla disgregazione del gruppo agnatizio, dalle nuove condizioni sociali e commerciali ed in genere dal grandioso sviluppo di tutta la vita. Su questo punto giova insistere con altri esempi. Il pretore dovette, dapprima con molta cautela, in vista di urgenti necessità, riconoscere la capacità dei figli di famiglia a stare in giudizio considerandoli come patres familias aventi un patrimonio. I mezzi erano a disposizione del pretore : in

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primo luogo mediante actiones ficticiae 6. E con i medesimi mezzi egli concede protezione giuridica a fatti, i quali non essendo rivestiti dalla forma prescritta non avevano nessun riconoscimento nel campo [33/34] del ius civile. Sul proposito anzi, nell’editto fu in generale promessa protezione mediante exceptio a tutti i patti convenuti, non contrari alle leggi e ai buoni costumi ; la quale protezione è notevole anche per questo, che essa rappresenta il primo passo verso il pieno riconoscimento e la piena efficacia giuridica di tutte le convenzioni per sé stesse, che si riscontra già sostanzialmente attuata nella codificazione di Giustiniano7. Il pretore riconosce, come era necessario nella vita commerciale, la rappresentanza diretta. Infatti, data la costituzione della famiglia romana, i sottoposti alla potestas del capo acquistavano sempre per qualsiasi atto o fatto al pater familias, ma essi non potevano mediante atti propri produrre obbligazioni a carico dell’avente la potestà. Questo principio limitava grandemente l’attività dei sottoposti, con grave svantaggio del commercio, perché naturalmente tutta l’attività commerciale era nelle mani dei figli e degli schiavi, come coadiutori necessari del capo di casa. Perciò il pretore propose nell’editto le actiones exercitoria ed institoria, mediante le quali i terzi che avevano contrattato con i preposti all’azienda commerciale o al governo di una nave potevano convenire in giudizio il dominus dell’azienda e chiedere a lui l’adempimento delle obbligazioni poste in essere dai preposti. Ma qui il limite che il preposto dovesse essere un individuo soggetto alla potestà del dominus dell’azienda dovette essere ben tosto superato, per le esigenze stesse dell’azienda, la quale richiede sempre speciali attitudini e capacità delle persone. onde fu ammesso che il preposto alla nave o all’azienda fosse un uomo libero, estraneo alla famiglia (Gaius 4, 71). È evidente che questo sistema era tutto contrario ai principii del ius civile. Non solo il dominus o paterfamilias doveva assumere obbligazioni, mediante la protezione pretoria, per contratti commerciali conclusi dai sottoposti alla potestà, ma pure se attuati da persone estranee. La violazione del ius civile fu qui imposta in modo imprescindibile dalle ne6 (1/33). Nel fr. 13 D. 44, 7 è fatta menzione di actiones in factum : si tratta di una interpolazione formale in luogo di formulae ficticiae. 7 (1/34). Un esempio perspicuo nel fr. 2 D. 2, 15.

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cessità del commercio. E per altro rispetto, in determinati casi, dovette pure il pretore concedere al dominus negotii actiones ficticiae o in factum contro i terzi che avevano contrattato con i preposti ad un’azienda commerciale, qualora questi per fallimento, infedeltà, morte, fuga, non fossero in grado di esercitare le azioni derivanti dai contratti da essi conclusi con i terzi (cfr. D. 46, 5, 5). In tutte queste ipotesi la regola del ius civile della inammissibilità della rappresentanza diretta risulta violata apertamente. Sopra abbiamo notato altro caso rimarchevole nel commercio bancario ; in quanto si è visto che Giuliano ammise in forza della consuetudine bancaria che il contratto di mutuo si potesse effettuare tra mutuante e mutuatario con la numerazione del danaro, fatta dal banchiere ; cioè con denari d’altri e mediante l’attività di un terzo. La somma di queste applicazioni contrarie al [34/35] divieto assoluto della rappresentanza stabilito dal ius civile è di grande peso ed autorizza l’affermazione precisa e netta che già i Romani furono costretti ad applicare la figura giuridica della rappresentanza diretta per le necessità del commercio. Il riconoscimento fu attuato dal pretore, come di solito, con i mezzi più varii, lasciando intatto il principio del ius civile, che pertanto rimane nella pura teoria. Contro tutte le false rappresentazioni e deduzioni dei critici moderni si può qui riferire la mirabile sintesi del Savigny, il quale appunto in ordine all’esclusione della rappresentanza diretta scrive : « Un principio così restrittivo non poté mantenersi appena che il commercio divenne più attivo e più complicato. Si cominciò per conseguenza ad ammettere in alcuni casi anche la facoltà di farsi rappresentare da una persona libera. Per la prima volta ciò avvenne per l’acquisto del possesso e pei modi di acquisto della proprietà basati sul possesso ... Una simile facilitazione del commercio fu poi ammessa anche per le obbligazioni, solamente qui il cambiamento fu compiuto più lentamente e con maggior ritegno che nella proprietà. Si ammise dunque che nei contratti, come la compra e la locazione, si potessero per mezzo di rappresentante acquistare crediti e contrarre debiti ; la forma giuridica, a cui si fece ricorso, fu la concessione di utiles actiones »8.

8 (1/35). F. c. von SavIgny, System des heutigen Römischen Rechts, III, Berlin, 1840, p. 94 s. (trad. V. Scialoja : Sistema del diritto romano attuale, III, Torino, 1891, p. 116 ss.).

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Ed il Savigny sa pure notare che, se nella compilazione vi sono molti testi che negano la efficacia della rappresentanza diretta, essi possono considerarsi solamente come la storia della sviluppo della regola che poi fu affermata in una forma generale nella compilazione di Giustiniano. Le osservazioni del Savigny possono essere oggi formulate in una maniera più corretta, che risponde con maggior precisione a tutto lo sviluppo del diritto pretorio. oggi noi sappiamo che essa nella cognizione straordinaria fu ammessa in modo diretto dal praefectus annonae, in tutto il grande commercio (D. 14, 1, 1, 18 e 19). Questo processo di sviluppo del diritto è esemplare, onde meritava di essere considerato con maggiore ampiezza. Si tratta di un modello che spiega nella maniera più ovvia il superamento del ius civile formalistico e rigoroso, mediante i provvedimenti del pretore. Così è che durante la Repubblica il diritto pretorio si svolse liberamente in opposizione diretta ai principii e alle regole del ius civile proprium Romanorum, sotto l’impulso delle esigenze della vita. Questo rimase teoricamente illeso ma senza pratica applicazione. Gaio esprime efficacemente questo rapporto ; per esempio, a proposito del duplex dominium, egli dice che il dominus ex iure Quiritium ha soltanto il nudum ius, perché nella pratica domina l’ordinamento del pretore e tutte le facoltà e tutti i poteri sono passati al proprietario (in bonis habere) protetto dal pretore. [35/36] or questo contrasto è continuo in tutto il sistema del diritto privato, ed apparisce in grande rilievo in tutte le fonti, fin dall’epoca della Repubblica. Infatti, come ho notato sopra, non solo Cicerone (De leg. 1, 5, 17) sa dire che a suo tempo il ius honorarium aveva acquistato la prevalenza sul diritto delle XII Tavole, ma ancora nella stessa opera riferisce un fatto che è significativo e merita di essere qui segnalato come la più efficace illustrazione del rapporto tra ius civile e ius honorarium al suo tempo. Cicerone ricorda : « discebamus enim pueri XII tabulas ut carmen necessarium, quas iam nemo discit » (De leg. 2, 23, 59). ora è palese il motivo dell’abbandono di quella veneranda tradizione. I fanciulli imparavano nelle scuole le XII Tavole come il catechismo nazionale del popolo romano, il fondamento di tutto il diritto pubblico e privato ; e l’uso cadde secondo la attestazione di Cicerone verso l’anno 90 a. C.,

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cioè appena dopo circa mezzo secolo della attività più libera e autoritaria del pretore. Il quale in breve tempo poté paralizzare o anche far cadere in desuetudine gran parte del sistema del ius Quiritium, manifestatosi antiquato nella sostanza e nella forma, nei principii e nelle singole norme. Quel che avvenne di poi è stato oggi messo in piena luce. Caduto tutto il sistema del processo per formulas, già sotto Diocleziano, il ius honorarium divenne per se stesso ius civile, il quale per secoli aveva conservato solo valore teorico, rimanendo virtualmente inerte nella pratica. Perciò nell’ultima fase del diritto romano il diritto vivo rimane quello del pretore e fu il diritto codificato da Giustiniano. il diritto nuovo, pertanto contenuto nella codificazione del vi secolo, che i critici moderni han voluto gabellare come diritto di origine ellenistica, orientale, nelle sue linee fondamentali è tutto diritto romano, introdotto applicato ed elaborato nella giurisdizione del praetor, dalla più gloriosa magistratura di Roma. Questo, insieme al ius gentium, rappresenta il diritto romano di nuova formazione, più progredito, formatosi sotto la pressione di nuove esigenze e condizioni della vita del vasto impero, il diritto che dalla Codificazione di Giustiniano fu tramandato a tutti i secoli dell’avvenire. Mutarono le contingenze storiche e politiche, si sovrapposero l’una a l’altra le civiltà, si smarrirono i ricordi di quell’età lontana, dell’espansione di Roma nel mondo ed insieme la memoria dell’attività dei magistrati romani ; ma l’opera rimane, perché in essa è tutta la forza che può sfidare i secoli : il senso eterno della vita. § 6. La cognitio extra ordinem. Se si guarda lo stato del diritto nel I secolo dell’Impero quale apparisce nelle opere dei giuristi, il contrasto fra l’antico e il nuovo è innegabile ; ma [36/37] in esso è pure evidente il movimento accelerato di una trasformazione più radicale di tutto il diritto. Il segno più notabile è che i germi del nuovo, già molto sviluppati, van rompendo l’involucro delle forme antiche e insieme disorganizzando, apertamente ora, i principî fonda-

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mentali del diritto quiritario. Come sempre le innovazioni più gravi dovevano essere attuate soltanto mediante un ordinamento del processo del tutto nuovo : la cognitio extra ordinem. In questa forma di processo è attuata ormai l’idea che l’amministrazione della giustizia è una funzione dello Stato, in contrasto appunto con la tradizione repubblicana, nella quale il processo è ancora essenzialmente dominato dalla volontà dei privati, mentre l’azione del magistrato rimane moderatrice e regolatrice degli atti delle parti. In quella extra ordinem, invece, il processo si svolge al di fuori dell’ordo iudiciorum privatorum, cioè senza l’osservanza delle leggi e delle norme che regolano il processo privato, ed in particolare la divisione dei due stadi del processo, in iure, in iudicio, essendo la decisione della controversia data dal magistrato, il quale poi decide più che in base alla tradizione giuridica ed alle leggi, in forza della sua autorità : vi et potestate (Tac., Dial. de or. 19). Questa forma più agile e più moderna del processo, introdotta sotto Augusto, dapprima per rapporti che non avevano alcuna protezione, che erano fuori degli ordinamenti giuridici, sia del ius civile sia dell’honorarium, si va estendendo sempre più a rapporti nei quali vi era da proteggere un interesse pubblico, come la tutela, gli alimenti a persone bisognose della famiglia, ed infine si va a grado a grado sostituendo al processo formulare, finché con Diocleziano diviene il sistema processuale generale. Noi abbiamo un modello compiuto di tutta la evoluzione degli istituti giuridici attraverso la cognitio extra ordinem, nel fedecommesso ; il quale, preso in considerazione da Augusto come un istituto avente carattere solo morale, in seguito acquista grande importanza, sia nella pratica come nella formazione di nuove regole, e viene plasmando la struttura del nuovo diritto ereditario. Mediante il diritto del fedecommesso le forme delle disposizioni testamentarie, institutio heredis, legata, secondo il ius civile, perdono ogni giorno la loro importanza, mentre la volontà del testatore è considerata immediatamente decisiva e produttiva di tutti gli effetti giuridici. La cognitio extra ordinem, pertanto, si colloca in prima linea nel rinnovamento del diritto, attuando il concetto di giustizia al di fuori dei principî e delle norme del ius civile ed in modo adeguato alle condizioni e allo spirito dei nuovi tempi.

L’autorità dei magistrati precipuo fattore del rinnovamento del diritto

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La funzione che questa cognitio imperiale esercitò nel rinnovamento del diritto fu la medesima di quella del ius honorarium che due secoli avanti aveva cominciato a correggere il ius Quiritium. Senonché il ius honorarium [37/38] aveva adempiuto la sua funzione nella sola maniera che era allora possibile, cioè congiunta intimamente al ius Quiritium, agevolandolo o arrestandone gli effetti con i mezzi più vari. Invece la giurisdizione extra ordinem prescinde del tutto dagli ordinamenti più antichi, anche del ius honorarium, quando essi appariscono inadatti ad attuare la giustizia9. Nel corso di tre secoli, quando questa cognitio si surrogò interamente a quella ordinaria del periodo classico, ancora una volta il diritto apparve essenzialmente tutto trasformato dal lato processuale e materiale, libero da tutte le forme e norme del ius antiquum, ed avente in sé i migliori elementi introdotti ed affermatisi nella prassi del ius gentium e del ius honorarium. E, pertanto, in quel passaggio non si era mutato solo il sistema processuale, bensì tutto l’ordinamento giuridico. Ciò nel senso che il centro di gravità si era spostato dal ius civile arcaico a quel corpo di norme e di dottrine scaturite dalla prassi degli ordinamenti più recenti. E quindi dalle parole solenni alla voluntas, dal rigore del diritto antico alle forme più libere, dominate dalla fides, dall’aequitas, dalla utilitas. Si può dire, dunque, che i germi del ius gentium e del ius honorarium hanno fecondato tutta la struttura del nuovo diritto, come apparisce sostanzialmente nelle opere dei giuristi dell’impero. § 7. L’autorità dei magistrati precipuo fattore del rinnovamento del diritto. Ma a questo punto si può chiedere : quanta parte del ius civile proprium Romanorum rimase ancora in vita nel periodo della giurisprudenza classica ? 9 (1/38). Decisioni imperiali che rompono la tradizione giuridica si rinvengono presso scrittori e nella compilazione di Giustiniano, dove vi sono riferimenti anche a verbali di udienza : cfr. D. 4, 4, 38, D. 28, 4, 3 , D. 36, 1, 76 , D. 28, 5, 93 , D. 49, 14, 30 ; Paulus, decretorum.

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se si guarda alla superficie, tutto il sistema del diritto antico è ancora in vita con i suoi principî, con le sue norme assolute e le forme solenni e con tutto il peso della tradizione giuridica. Da questa visuale le deviazioni, per quanto innumerevoli, possono apparire come provvedimenti, decisioni contingenti, eccezionali, dettati dalla figura del caso speciale per soddisfare esigenze dell’aequitas o dell’utilitas. È questo il punto di vista della storiografia e della critica moderna, le quali hanno sentenziato che fino a Diocleziano il diritto dei Quiriti sia rimasto nei suoi principî fondamentali non solo saldo, ma intatto. or questa è un’assurda e pericolosa illusione. Perché intatta è rimasta bensì l’impalcatura esteriore, non la sostanza del diritto ; la quale apparisce tutta trasformata dalle nuove forze che avevano operato sulla vecchia società quiritaria, distruggendo prima l’organizzazione gentilizia e poi la familiare, [38/39] l’economia antica, tutta la struttura sociale e poi politica del popolo romano. Ed è assurdo supporre che il diritto antico, angusto e formalistico, avesse potuto dominare e reggere la vita nuova che si era venuta svolgendo negli ultimi due secoli della Repubblica e dell’Impero. Si deve dire, invece, che in questo periodo, or ora determinato, Roma virtualmente dovette ricomporre da sé il suo grande poema del diritto. Certo si può intendere la difficoltà di discernere con precisione questo fenomeno imponente di trasformazione, che si attuò lentamente per via della prassi di ogni giorno e non per via di leggi e di sovvertimenti istantanei degli antichi istituti fondamentali. Ma non si può intendere l’assoluta incomprensione del risultato, che apparisce in grande rilievo già nelle opere dei giureconsulti classici. Il quale risultato non giustifica per nulla quelle teorie portate agli ultimi estremi, con l’asseverare che il diritto quiritario sia rimasto saldo nelle sue basi di origine ; teorie che riescono così antistoriche e sversate e assurde che i primi a dubitarne sono quelli che le hanno promosse. Ma non è questo il luogo di parlarne. La verità è che quella visione superficiale nulla ha potuto verificare e nulla è in grado di spiegare. Bisogna invece raccogliere in uno tutte le forze che operarono in quell’epoca

L’autorità dei magistrati precipuo fattore del rinnovamento del diritto

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che ha aspetti veramente grandiosi ; rappresentare in armonico insieme tutte le condizioni della vita, tutte le forme e gli sviluppi sociali economici e culturali, che dovevano recare necessariamente nell’ordine giuridico non solo un movimento ma qualcosa di nuovo, di necessariamente diverso per ricondurre l’equilibrio tra le norme di diritto e la vita, tra la teoria e la pratica, tra la logica e l’utilità rispetto ai bisogni della convivenza sociale. Ma noi possiamo ora additare le cagioni di quelle incomprensioni, le quali sono le seguenti. Primo, che tutta la trasformazione del diritto avvenne, come è stato detto, in forma di un’esperienza lungamente vigilata e maturata, senza leggi e quindi con lentezza e senza per nulla distruggere il sistema giuridico antico. Questo è il segreto veramente geniale dello sviluppo del diritto nel mondo romano. Roma nulla distrugge se non ha prima costituito un nuovo ordine di cose. E quando questo è costituito tutto l’ordine cade da sé « per sostegno manco ». Questa legge è fondamentale per comprendere il genio di Roma nelle istituzioni giuridiche pubbliche e private. Essa fu affermata dal Jhering ; ma già era stata proclamata da Cicerone, là dove il grande scrittore esalta la superiorità, nel campo del diritto pubblico, delle istituzioni romane rispetto a quelle delle città greche : superiorità consistente nel fatto che Roma non opera per via di leggi, le quali sono superate dal moto incessante della vita, ma affida al moto stesso della vita, alla [39/40] vigilanza e all’autorità dei suoi magistrati la trasformazione del diritto che si compie e si afferma « usu ac vetustate » (Cic., De rep. 2, 1, 2). E il secondo punto è una conseguenza immediata del metodo sopra descritto. E cioè il rinnovamento delle istituzioni giuridiche è attuato in Roma, in via principale, per opera dei magistrati, i quali non hanno potere di creare diritto, e nemmeno di abrogarlo, ma nella sfera della loro competenza con l’imperium e l’auctoritas attuano la giustizia, decidono, nei singoli casi, secondo che le esigenze della vita attuale richiedano. i cittadini hanno fiducia nei magistrati, che essi hanno eletti come i più degni al governo della cosa pubblica, ed obbediscono con grande disciplina. E da questa esperienza accumulata per via di esperimenti e decisioni singole si viene formando una nuova tradizione

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giuridica, la quale consolidata dall’uso diviene sostanza di diritto. Ed in seguito come nuovo ordinamento compiuto si sostituisce, per forza di cose, alla tradizione precedente, alle norme singole o ai vecchi istituti, i quali, a grado a grado, cadono in desuetudine e svaniscono. Abbiamo dato già copia di esempi di questo processo lento di trasformazione attuato mediante esperimenti e decisioni su singoli casi, da ogni ordine di magistrati, in tutto il campo del diritto. § 8. Illimitatezza del dominio nella tradizione teorica e limitazioni imposte dai magistrati. Ma qui vorrei mostrare per l’evidenza del metodo e della sua grande efficacia un esempio caratteristico che ci viene riportato da Gellio, Noct. Att. 4, 12. Il concetto della proprietà romana è così fermo nella sua struttura che rimane ed è sempre ricordato come il modello dell’individualismo e dell’egoismo del diritto dei Quiriti. Si dice : data la proprietà libera individuale, il titolare del diritto può fare della cosa sua quello che vuole. Questo è in sintesi l’aspetto più essenziale della proprietà romana, che nel medio evo fu formulato nella celebre frase : uti et abuti. Concezione la quale è riferita non solo come caratteristica dell’individualismo romano, ma pure di tutta la tradizione giuridica quiritaria che si è proiettata fin nei codici moderni. Si sa che in base a questa concezione si è negato che il diritto romano avesse potuto conoscere il divieto di atti emulativi, affatto inconcepibile di fronte al principio qui suo iure utitur neminem laedit ; e si è esclusa financo la possibilità dell’espropriazione per pubblica utilità. Ma queste sono nient’altro che aberrazioni teoriche. Giacché è bensì vero, dal punto di vista teorico, che nessuna legge venne mai a porre siffatti limiti alla proprietà quiritaria. Ma non per ciò il problema si deve considerare risoluto. Perché rimane sempre da [40/41] indagare – secondo il metodo romano – l’azione e gli effetti dell’attività dei magistrati. L’esempio che offre Gellio è veramente perspicuo nel senso che qui voglio dimostrare. Gellio dice : se alcuno aveva lasciato il suo fondo incolto o lo curava con poca diligenza

Illimitatezza del dominio nella tradizione teorica

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o non lo arava e non lo purgava ; o se alcuno abbandonava il suo albero o la sua vigna, ciò non andava esente da pena, ma aveva luogo l’intervento dei censori che rendevano l’individuo aerarius. il che significa che i censori nelle operazioni di censimento iscrivevano il cittadino nell’infima classe dei cittadini, che era appunto detta degli erari, e per tal modo lo privavano dei diritti politici, dichiarandolo un cattivo cittadino e lo escludevano dalla lista dei proprietarii. Gellio adduce altri esempi analoghi, tra gli altri il seguente : il cavaliere romano che avesse un cavallo scarno e sudicio era notato dai censori per l’incuria con cui governava il cavallo suo, questo è riconosciuto da parecchie autorità e ne parla anche Catone. Qui sta dunque la singolarità e la genialità del sistema romano. Il principio assoluto individualistico della proprietà rimane fermo e illeso, perché esso discende dalla più antica tradizione ritenuta per sé inviolabile. Ma d’altra parte il magistrato eletto dal popolo ha autorità di ordinare al cittadino un dato comportamento, fare o non fare, al quale comando il cittadino deve obbedire. I magistrati, come è noto, fecero largo uso di questi poteri, con editti, decreti, interdetti per impedire atti o comportamenti contrarii agli interessi dello Stato e della collettività o dei singoli. Essi possono ogni volta costringere i cittadini ad ubbidire al comando o al divieto con i mezzi più energici e sanzioni gravi. Così l’intervento dei magistrati pone ai cittadini limiti che hanno un significato politico, sociale, giuridico, quantunque quei limiti violino apertamente l’ordinamento positivo, che viene dalla tradizione antica. Ma questa, per quanto sia venerata e immobile teoricamente, rimane senza vigore nella vita attuale e nella amministrazione della giustizia ; perché non solo i cittadini debbono ubbidire all’ordine del magistrato, ma l’opinione pubblica approva e rafforza quell’ordine che corrisponde alle esigenze e agli interessi della nuova società, sotto ogni aspetto più progredita ; e d’altra parte quell’ordine ripetutamente applicato vien formando la nuova tradizione e quindi la sostanza del diritto nuovo. Questa è la legge generale di tutto lo sviluppo e la trasformazione del diritto di Roma. [41/42]

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§ 9. La forza della tradizione ed il grandioso sviluppo del diritto. ora è facile intendere che la forza invitta ed invincibile del diritto creato da Roma sta tutta nella tradizione tenace che domina il suo sviluppo in ogni campo ed in ogni sua fase. Il diritto di Roma è sempre la diretta espressione della comune coscienza giuridica, formazione lenta e graduale che si aumenta e si trasforma ogni giorno traendo immediato alimento dalla esperienza, dalla vita in tutte le sue forme, e si espande via via come una forza di natura. i Romani fierissimi sempre delle loro istituzioni riconoscono la superiorità dei loro ordinamenti e la spiegano, come fa Cicerone, col fatto che essi non dipendono dall’arbitrio di alcun legislatore, bensì dalla esperienza quotidiana della vita medesima, dalla collaborazione di tutto il popolo, sotto la guida dei giuristi e sopratutto dell’autorità dei magistrati. Perciò riusciva inconcepibile alla mente romana il mutamento istantaneo delle istituzioni giuridiche, sorte quasi spontanee nella vita del popolo e consolidate via via usu ac vetustate. Il mutamento improvviso del diritto in ogni campo pubblico e privato doveva apparire come un attentato alla stessa maestà del popolo, alla veneranda tradizione che veniva dai maggiori. Da questo sentimento scaturisce quel rigido culto della tradizione giuridica, che è la più tenace fra le forze spirituali romane. Ancora nel i secolo Cassio Longino esprime in Senato la sua riluttanza alle frequenti innovazioni degli istituti antichi attuate con deliberazioni della assemblea. Ne segue che il diritto antico resta sempre in vita, anche se col mutarsi dei tempi perda tutto il suo vigore pratico. Istituti e norme non più conformi alle esigenze dei nuovi tempi non vengono aboliti, si lasciano cadere in desuetudine. I precetti più arcaici delle Xii tavole durano in vigore fino a Giustiniano, sono ancora riportati nel Corpus iuris, dove non rappresentano che reminiscenze storiche. Ma già fin dall’epoca di Cicerone l’antico ius civile solo formalmente apparisce intatto nella struttura e nei principî fondamentali, mentre in realtà esso si rinnova di continuo, internamente e con grande cautela per la attività dei magistrati nella pratica.

La forza della tradizione ed il grandioso sviluppo del diritto

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Così è che il nucleo fondamentale delle istituzioni più antiche rimane sempre come lo scheletro saldo di tutto l’organismo giuridico, attorno al quale per altro si viene svolgendo tutta la trama di nuove forme e istituzioni che la esperienza e l’autorità dei magistrati e l’opera illuminata dei giureconsulti sperimentavano prima nella pratica ed inserivano poi nel corpo del diritto. Il genio di Roma pertanto si è manifestato sempre uguale nel corso di un millennio, nella formazione, nello sviluppo e nel rinnovamento del suo diritto. Gli organi di produzione mutano nei tre periodi storici, ma il metodo rimane identico. [42/43] onde si può constatare che mentre i confini dell’impero si allargano nel corso dei secoli il genio di Roma s’innalza rinnovando di continuo il diritto, che sempre più supera la forza gli egoismi ed il formalismo, realizzando quel che è giusto, quel che è umano, quel che è utile ai singoli e sopratutto alla comunità. I fattori precipui della portentosa creazione possono essere ora determinati. nel primo periodo i Pontefici elaborano con rigorosa disciplina tutta la tecnica ed insieme l’arte dell’interpretazione creatrice. Nel secondo tempo i pretori raccolsero nell’albo tutta l’esperienza della vita nuova, e correggendo il diritto antico crearono il nuovo diritto, che a grado a grado acquistando di ampiezza da nazionale divenne universale, come l’Impero. Nel Principato l’opera fu continuata con maggiore libertà e indipendenza dalla antica tradizione, e con ritmo più accelerato, come esigevano le nuove condizioni economiche e spirituali del vasto impero. ed infine la giurisprudenza a partire dall’epoca di Cicerone, con mirabile analisi dei fatti, con sintesi sempre più vaste e potenti, con altezza di pensiero e perfezione di forma, creò la scienza del diritto. Così lo spirito del popolo romano, novatore ad un tempo e conservatore, ogni avanzamento del diritto pubblico e privato improntò col suggello del suo genio portandolo all’altezza della sua grande storia. Questa l’opera, la gloria di Roma nell’estensione dei secoli ; e l’opera rimane il capolavoro più prodigioso del genio umano, in quanto si è manifestata la forza più potente per la disciplina e la propagazione della civiltà nel mondo.

c aPo II. LA G i U R i s P R U D en z A

In un senso più generale la jurisprudentia abbraccia qualsiasi attività tecnica nel campo del diritto e quindi anche la produzione dei vari organi giurisdizionali di uno Stato ; nel significato romano più specifico, è scienza del diritto. Celebre è la definizione che si legge nelle fonti : « iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia » (Inst. 1, 1, 1 ; D. 1, 1, 10, 2). in essa soltanto l’ultima parte ha il valore di una definizione della giurisprudenza, nel senso che noi vogliamo illustrare, perché la prima parte ci riporta evidentemente al periodo primitivo, in cui presso tutti i popoli il diritto si trova confuso con la religione e la morale, onde costituisce elemento e parte della religione. Questo è il significato della frase : « divinarum atque humanarum rerum notitia ». E invero il diritto fu in Roma sino quasi al V secolo monopolio del Collegio dei Pontefici. Così Livio dice che era « civile ius repositum in penetralibus pontificum » (9, 46, 5 ; cfr. 4, 3, 9, e Cic., Pro Mur. 12, 25). Si può dubitare se la configurazione religiosa del diritto sia durata quanto è durato il monopolio dei Pontefici. Ma è certo che anche la pubblicazione della legge delle XII Tavole, avvenuta nel 303 e 304 a. U., non interruppe l’attivita dei Pontefici rispetto al diritto. La definizione sopra riportata dunque ci indica che è lo stesso organo, il Collegio pontificale, quello che ha la conoscenza del diritto divino e umano, fas-ius, onde il binomio

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La giurisprudenza

divini humanique juris si riscontra di continuo nelle fonti giuridiche, letterarie ed epigrafiche. Data la tradizione così costante e generale, l’origine romana della definizione della giurisprudenza or riferita dovrebbe essere fuori dubbio. Ciò è stato contrastato dal Senn1, il quale intese a dimostrare che essa sia di origine tarda, dalla fine della Repubblica, tratta dalla definizione della φρόνησις = prudentia la quale presuppone la cognizione e valutazione di tutte le cose divine ed umane ; onde nel campo del diritto presuppone essenzialmente la [44/45] conoscenza del giusto e dell’ingiusto, per praticare quel che è giusto ed evitare quel che è ingiusto. ora la grande diffusione di questo concetto nel mondo romano e la sua realtà esclude una così tarda apparizione della nozione di jurisprudentia. Si potrebbe solo investigare se essa non si debba riportare ad un tempo antichissimo nel quale contatti intimi con la cultura greca oggi sono sempre più accertati. Ma anche questa indagine riuscirebbe poco fruttuosa, considerata la sostanziale compenetrazione del fas e del jus nel mondo primitivo romano. In queste condizioni sarebbe ben difficile escludere un parallelismo. il culto, infatti, ebbe nella vita romana, pubblica e privata, importanza preponderante. La religio è un concetto cardinale del pensiero romano. Catone nota che i Romani erano religiosissimi. La religio, appunto, è l’osservanza di tutto quello che gli dèi possono esigere dagli uomini. Il volere degli dèi è comunicato per mezzo di segni e detti che debbono esser interpretati. I romani, a dire di c Icerone , hanno la consapevolezza che gli dèi guidano tutti gli eventi con la loro volontà. In proposito, anzi, è diffusa la credenza che gli dèi hanno conferito ai Romani la missione di costituire nel mondo un ordine sociale e politico. Perciò il ius sacrum - divinum - pontificium è parte essenziale dell’ordine giuridico. Ancora ULPIano (D. 1, 1, 1, 2) scrive « publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit »2 e C Icerone (Brut. 42, 156) : « ius nostrum pontiF. Senn , Les origines de la notion de jurisprudence, Paris, 1926. Si noti che QuInTILIano , Inst. or. 2, 4, 34, distingue, invece, il sacrum dal publicum e scrive : « genera sunt tria : sacri, publici, privati iuris ». Cfr. Cic., Pro domo 49, 128. Vedi F. SchuLz , Prinzipien des römischen Rechts, München - Leipzig, 1934, p. 19. 1 (1/44).

2 (1/45).

Il Collegio pontificale

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ficium qua ex parte cum iure civili coniunctum esset, vellem cognoscere ». La compenetrazione dei due ordini è particolarmente notevole nel diritto di famiglia. nella celebre definizione delle nuptiae di ModeSTIno (D. 23, 2, 1) ha appunto rilievo la frase « divini et humani iuris communicatio ». VeLLeIo P a TercoLo (2, 26, 2) indica Q. MucIo S cevoLa « divini humanique iuris auctor celeberrimus ». È quindi perfettamente intelligibile che i giuristi più antichi spiegarono la loro attività anche nel campo del diritto sacrale. TreBazIo scrisse 9-10 libri de religionibus ; ServIo S uLPIcIo un’opera de sacris detestandis ; LaBeone 15 libri de iure pontificio e CaPITone 7 libri. Dopo, l’attività dei giuristi in questo campo cessa del tutto3. § 1. Il Collegio pontificale. il Collegio pontificale ha grande importanza nella storia del diritto romano. Della parola pontifex erano riferite varie etimologie dai Romani. Varrone (De lingua Lat. 5, 1, 4) preferiva quella di pontem facere, e JherIng 4 la illustrava [45/46] osservando che presso tutti i popoli primitivi i sacerdoti appariscono come guidatori delle tribù nomadi, onde dovevano possedere tutte le cognizioni necessarie sia in ordine al culto, sia tecniche, in ispecie astronomiche e di ingegneria5. Ma l’etimologia più accettata è ora quella da “ponti” nota dalle Tavole Eugubine (6, 2) nel significato di sacrificare, onde il Pontifex Maximus ha ereditato i poteri sacrali del Rex. Il Pontifex Maximus è il primus inter pares ed ha la generale ispezione e sorveglianza sul culto con tutto ciò che al culto si connetteva. Così egli è detto « iudex atque arbiter rerum divinarum humanarumque » (Festo, v. ordo sacerdotum). In questo Collegio si elaborano i principî della giurisprudenza spirituale e temporale, viene compilata la lista dei dies 3 (2/45). Per il ius divinum, sacrum, pontificium, cfr. A. Berger , Ius divinum, in R. E. Pauly-Wissowa, X, 1, Stuttgart, 1918, c. 1212 ss. 4 (3/45). R. von j herIng , Vorgeschichte der Indoeuropäer, Leipzig, 1894, p. 426 s. 5 (1/46). JherIng , loc. cit., con altri trovava conferma di questa funzione nel rapporto che il Collegio ha con i ponti ; infatti il loro ufficio era presso il pons Publicius, costruito ancora in epoca storica in legno e senza chiodi.

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La giurisprudenza

fasti, nefasti e comitiales (Cic., Pro Mur. 11, 25 ; Varro, De lingua Lat. 6, 4, 29-32) la quale è così detta compositio anni. Così si spiega sino a un tempo inoltrato la funzione giuridica assunta in Roma dal Collegio dei Pontefici, che era il solo competente e conoscitore dei giorni forensi, delle forme solenni del processo e teneva memoria delle sentenze. I pontefici furono pertanto i primi annalisti e insieme i primi giuristi di Roma. Per quanto la Legge delle XII Tavole rappresenti il sistema del jus, la loro attività non rimase interrotta, appunto perché il Collegio avendo la conoscenza delle formule solenni per le azioni era in grado di dare alle parti le istruzioni necessarie per esercitare il loro diritto. Di conseguenza essi elaboravano i formulari dei negozi giuridici, testamenti, emancipazioni ecc., perché le parti nella formazione di tali atti non incorressero in nullità comminate dal rigore del diritto ; ed infine essi davano dei responsi in materia di diritto a coloro che li richiedevano. Così l’attività dei pontefici nel campo del diritto era in primo luogo pratica e può riassumersi nei tre termini : agere, cavere, respondere. Ma essendo il Collegio una casta chiusa, la quale aveva la conoscenza del diritto, dovette inoltre provvedere in quel primo periodo alla interpretazione delle leggi ; e in tal senso ha pure una funzione creativa del diritto. Al Collegio pontificale, si riporta pure la creazione di nuove legis actiones che P oMPonIo attribuisce a SeSTo e LIo 6. L’interpretatio antica, detta pontificale, era attaccata alla parola della legge, ma quando i vocaboli usati dalla legge non rispondevano ai bisogni e rapporti della lite, la giurisprudenza attribuiva a quei vocaboli significato più largo o più ristretto appunto per adeguare la legge alle necessità pratiche. Esempi celebri sono : [46/47] l’interpretazione della parola tignum della Legge delle XII Tavole, cui si diede un senso più lato, in modo da comprendere tutti i materiali da costruzione, così il ferro, il marmo, la calce (D. 47, 3, 1 ; D. 50, 16, 62). Così l’altra disposizione della Legge delle XII Tavole « si pater filium ter venum duuit, filius a patre liber esto » venne uti6 (2/46).

D. 1, 2, 2, 7, Pomponio, lib. sing. enchiridii.

La Giurisprudenza cautelare

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lizzata per liberare il figlio dalla patria potestas (emancipatio), istituto che non esisteva nella organizzazione patriarcale della famiglia. Come si vede dagli esempi sopra citati la interpretatio era attaccata bensì alla parola ma riusciva tuttavia con mezzi artificiosi, con finzioni a soddisfare le esigenze della vita pratica. Il diritto che viene dall’interpretatio dicesi jus civile in contrapposto a jus legitimum ; e cioè al diritto che deriva dalla lex (cfr. Pomp., D. 1, 2, 2, 12). La secolarizzazione della giurisprudenza avvenne dal 450 al 500 a. U. La tradizione attribuisce a Gneo F LavIo , figlio di un liberto e scriba di Appio Claudio Cieco, la pubblicazione d’un liber actionum in cui erano contenute le formule delle legis actiones che perciò divennero di pubblico dominio (Pomp., D. 1, 2, 2, 7). In seguito, nel 502 a. U. primo Pontefice plebeo, tIBerIo c orun canIo avrebbe iniziato una specie d’insegnamento pubblico del diritto (Pomp., D. 1, 2, 2, 35 e 38). Da questo momento, certamente, il monopolio del diritto da parte dei pontefici fu spezzato. § 2. La Giurisprudenza cautelare. Avvenuta la secolarizzazione della giurisprudenza, essa conservò ancora per un buon tratto di tempo il carattere di un ufficio riservato ad una casta. i nomi dei giureconsulti tramandatici da Pomponio appartengono pressoché tutti a famiglie senatorie, che hanno coperto le più eminenti cariche dello stato, e cioè pontefici, consoli, auguri, censori, pretori. In questo periodo si può dire che la giurisprudenza non è già considerata come una scienza a sé, ma come un elemento essenziale della cultura di Stato. Inoltre, il sistema di interpretazione del diritto procede sempre come presso il Collegio dei pontefici ; e così pure la assistenza dei privati nella formazione dei negozi o nell’agire in giudizio o nella consultazione per casi pratici : cavere, agere, respondere. Ed in relazione a questa attività pratica le opere giuridiche sono costituite di formulari, nei quali si fissavano gli elementi essenziali degli atti inter vivos o mortis causa, come se ne hanno esempi in Catone, De re rustica, o in collezioni di responsi e di formule per agire in giudizio, per tutti i casi contemplati dalle leggi.

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La giurisprudenza

Questo periodo della giurisprudenza perciò ha il nome di periodo « cautelare » ed è tutto riassunto nell’opera di SeSTo e LIo P eTo , console nel 556, censore nel 560 a. U., che porta il nome di tripertita, compiuta sulla fine del vi [47/48] secolo. L’opera conteneva la legge delle XII Tavole, la interpretatio, che costituiva a dire di PoMPonIo 7 il ius civile, e le legis actiones. Dell’opera sappiamo soltanto che interpretava le parole, come è ricordato da CIcerone . Si è discusso sull’ordine di quelle tre parti. Secondo l’opinione oggi più accreditata dall’autorità del LeneL 8, le tre parti erano costituite non, come si riteneva prima, in tre capitoli distinti, lex, interpretatio, actiones, bensì ad ogni norma della legge seguiva l’interpretatio e poi l’actio corrispondente. Di altre opere attribuite a SeSTo e LIo nulla si può accertare (Pomp., D. 1, 2, 2, 38) e si terrà conto che nell’antichità le falsificazioni letterarie erano frequenti9. I tripertita costituirono un prezioso commentario del ius civile derivato dalle leggi e dalla interpretatio. L’opera raccolse e conchiuse tutto il lavoro dei secoli precedenti. Essa ebbe molta risonanza, perché in confronto alla giurisprudenza pratica del tempo apparve notevole per l’indirizzo del tutto nuovo. § 3. Sviluppo della scienza del diritto10. Si sono indagate le cause dell’imponente progresso, che si verificò con l’elaborazione scientifica del diritto, nel periodo dopo la guerra punica, e subito dopo nell’Impero ; e si è voluto ciò attribuire all’influsso della cultura greca sul mondo romano. E bisogna riconoscere che questo è già un luogo

Pomp., D. 1, 2, 2, 38. o. L eneL , Das Sabinussystem, Strassburg, 1892, p. 8 ss. Cfr. Svetonio, Caesar 55. h. P eTer , Die geschichtliche Literatur über die römische Kaiserzeit bis Theodosius I und ihre Quellen, II, Leipzig, 1897, p. 435. 10 (4/48). Abbiamo ora un’opera eccellente dedicata allo sviluppo della scienza del diritto scritta da F. SchuLz , History of Roman Legal Science, oxford, 1946. 7 (1/48).

8 (2/48). 9 (3/48).

Sviluppo della scienza del diritto

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comune tra i Romani medesimi. Così CIcerone constata che dopo le guerre puniche : « influxit enim non tenuis quidam e Graecia rivulus in hanc urbem, sed abundantissimus amnis » (Cic., De rep. 2, 19, 34). e notissimo è il celebre detto di ora zIo : « Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio »11.

Già la tradizione dell’influsso delle leggi e della cultura ellenica si può dire che rimonti all’epoca della codificazione della legge delle XII Tavole. Infatti si parla di un’ambasciata che sarebbe stata inviata in Grecia per assumere informazioni sulle legislazioni che vigevano colà (Pomp., D. 1, 2, 2, 4). Se questa tradizione è poco accreditata, combattuta già da G. B. Vico, oggi non si può escludere l’esistenza di rapporti greco-campani-romani prima già delle guerre puniche. Ma l’influsso maggiore si è manifestato a cominciare dal sec. vii dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto, quando il centro della civiltà si venne a spostare dalle coste del Mediterraneo a Roma. [48/49] I Romani accolsero largamente le forme elleniche del pensiero e della parola, le raffinatezze di gusti della civiltà elegante dei Greci dell’Italia meridionale e d’oltre mare. La prosa storica, l’oratoria, la poesia si conformano ai modelli greci ; un centro vivo della propagazione dell’Ellenismo è il cenacolo di ScIPIone il giovane (morto il 129 a. C.) in cui maestri greci, esempio Polibio, lo stoico Panezio, furono attivi. E PanezIo con i suoi insegnamenti esercitò grande influenza sulla cultura di molti giovani patrizi, come scipione, Lelio, Q. Mucio Scevola (Cic., De or. 1, 17, 74 ss.), Q. Elio Tuberone (Cic., De or. 3, 23, 87 ; Pomp., D. 1, 2, 2, 40), Rutilio Rufo (Cic., Brut. 30, 113 ss.), Sesto Pompeo (Cic., De or. 1, 15, 67), Lucilio Balbo (Cic., Brut. 42, 154), il quale fu maestro di Servio Sulpicio. La diffusione della cultura greca e dei sistemi filosofici fu notevole. Gli schiavi greci erano ricercati come precettori e pedagoghi nelle case patrizie ; filosofi e retori venivano a Roma di continuo, e la lingua e l’educazione alla greca divennero di moda.

11 (5/48).

orazio, Ep. 2, 1, 156 ; cfr. Gellio, Noct. Att. 17, 21.

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La giurisprudenza

Da questo momento il processo di ellenizzazione del mondo romano dura ininterrotto fino al sec. ii d. C. Queste constatazioni possono ritenersi sicure ; soltanto che da esse non si deve trarre alcuna illazione rispetto ad un influsso sostanziale su i caratteri essenziali del popolo romano. Roma è abbagliata bensì dalla perfezione delle forme greche in tutti i rami del pensiero, ma le produzioni dell’ingegno si mantengono sempre romane nella sostanza e nel sentimento, perché Roma ha ancora tutta la forza di assimilare i vari elementi forestieri e piegarli al suo spirito nazionale. Tutta la produzione di Cicerone è caratteristica in questo senso. Per il diritto, poi, questo va affermato in modo speciale ed assoluto. Gli stessi Romani lo sentono. CIcerone fa dire a Scipione : « multa intelleges etiam aliunde sumpta meliora apud nos multo esse facta » (Cic., De rep. 2, 16, 30 ; Tusc. 1, 1, 1). E lo stesso dice ridicole tutte le legislazioni elleniche di fronte alla sapienza delle XII Tavole : « incredibile est enim, quam sit omne ius civile praeter hoc nostrum, inconditum et paene ridiculum, de quo multa soleo in sermonibus quotidianis dicere » (Cic., De or. 1, 44, 197). Nello stesso luogo (par. 195), CIcerone esprime tutto l’orgoglio romano per la legge decemvirale in confronto alle dottrine filosofiche, e fa dire a Crasso le parole : « fremant omnes licet, dicam quod sentio, bibliothecas mehercule omnium philosophorum, unus mihi videtur XII tabularum libellus, si quis legum fontes et capita viderit et auctoritatis pondere et utilitatis ubertate superare ». Dunque, né gli antichi né la critica moderna possono seriamente parlare di un influsso diretto della Grecia, in ogni tempo, tratto da leggi e consuetudini elleniche : queste non hanno per se stesse nessuna importanza. Siffatte derivazioni sono oggi accertate in numero non esiguo. E gli scrittori romani lo confermano. [49/50] SaLLuSTIo (Catil. 51, 37) riferisce il motto di Cesare su « maiores nostri » : « neque illis superbia obstabat quominus aliena instituta ... imitarentur ». Ma tutto ciò non può significare che l’elaborazione scientifica del diritto sia derivata dalla Grecia.

Summum ius summa iniuria

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Infatti è bene porre in rilievo che la Grecia non ebbe una scienza del diritto12. Di nessuna opera che avesse carattere di una trattazione sistematica o comunque approfondita del diritto abbiamo noi notizia13. È ovvio, pertanto, che non si può attribuire all’influsso greco lo sviluppo e il grande progresso che si manifesta nel breve periodo che va da Quinto Mucio a Labeone. Noi abbiamo visto, invece, che il progresso nella giurisprudenza è graduale, e che i suoi caratteri e la sua forza derivano dalla grande disciplina in cui il diritto fu tenuto sin dai primi tempi nel Collegio dei pontefici. Roma ebbe la vocazione del diritto, distinse fin dalla prima codificazione l’elemento giuridico da tutti gli elementi affini, religione e morale, donde derivò l’effetto meraviglioso della formazione della scienza giuridica, tutta costruita sull’esperienza pratica ; onde essa, come dissero gli stessi Romani14, e hanno confermato i moderni, rappresenta la filosofia nazionale del popolo romano. si nega, dunque, che si possa parlare di un influsso diretto della Grecia sullo sviluppo della Giurisprudenza romana. Ma con ciò non si deve negare un influsso indiretto, che riguarda specialmente il metodo della trattazione e tutti quei sussidi della cultura generale che poterono avvantaggiare l’elaborazione organica e sistematica del diritto. In particolare, gli elementi di cultura che giovarono allo sviluppo della giurisprudenza furono : la Rettorica, la Filosofia, la Grammatica. § 4. Summum ius summa iniuria. In primo luogo gli insegnamenti della rettorica ; messi oggi in bella luce specialmente dallo STroux, da cui abbiamo acquistato una più precisa intelligenza del celebre motto di Cicerone (Cic., De off. 1, 10, 33) : « summum ius summa iniuria ». 12 (1/50). u. von W ILaMoWITz -M oeLLendorFF , Aristoteles und Athen, I, Berlin, 1893, p. 380. 13 (2/50). L. MITTeIS , Storia del diritto antico e studio del diritto romano, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 12, 1929, p. 486 e 488. 14 (3/50). D. 1, 1, 1, 1, Ulp. : « veram nisi fallor philosophiam, non simulatam affectantes ».

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La giurisprudenza

Esprime quel motto un contrasto che si era manifestato appunto dopo le guerre puniche con il rigore del ius civile non più adatto per il suo formalismo rigido e i suoi precetti inflessibili di fronte alla vita nuova del vasto impero. Quei precetti erano ormai divenuti antiquati, in quanto alle antiche cerchie [50/51] sociali chiuse e per sé stanti, alla vita patriarcale organizzata sulla base dell’economia naturale, si erano sostituiti rapporti e scambi in larga scala con tutte le genti soggette all’Impero e con le terre più lontane. Il sistema quiritario con le sue norme anguste non poteva più rispondere alle nuove esigenze ed a rapporti così complessi ; onde via via esso dovette accogliere nuovi elementi per soddisfare le nuove esigenze, imposte dall’attività febbrile dei commerci. In breve, l’ordinamento giuridico doveva seguire le condizioni dell’economia e dello sviluppo spirituale e sociale, che erano conseguenza delle grandi conquiste di Roma. Il ius gentium, che ha appunto in questo periodo grande sviluppo, la lex Aebutia, che agevola le forme del processo civile, sono le manifestazioni più evidenti di cotali bisogni. Il summum ius, dunque, rappresenterebbe il diritto civile che discendeva dall’antica tradizione romana : mores maiorum e disciplina dei Pontefici. esso inadatto ormai ed intollerabile, in quanto i suoi principî angusti formatisi nella vita patriarcale, se applicati in concreto ai nuovi rapporti, arrecavano decisioni sommamente inique : summa iniuria. E l’iniquità più patente derivava dal fatto che i principî del ius Quiritium non tenevan conto in concreto delle particolarità del fatto che dava luogo alla lite e non tenevan conto, in particolare, della volontà delle parti, che avevan posto in essere un affare per raggiungere un determinato scopo. Il principio del diritto quiritario era assoluto e inderogabile, come era consacrato nella legge delle XII Tavole : « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ». La portata di questa massima è evidente. La parola era tutto. Le conseguenze giuridiche erano determinate rigorosamente dalle parole pronunciate dalle parti. Così nel mondo degli affari e così nei testamenti. Nessuna considerazione di elementi esterni o interni poteva essere valutata. Gli effetti venivano dalla pronuncia delle parole, senza che l’errore di chi le avesse pronunciate, la violenza o il dolo esercitati dall’altra parte potessero mutare le conseguenze che seguivano la pronuncia delle parole.

Summum ius summa iniuria

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ora appunto nella Retorica ArISToTeLe insegnava che le leggi dovevano essere interpretate non secondo il tenore delle parole, bensì tenendo conto della volontà del legislatore. Questa massima doveva applicarsi naturalmente anche agli atti privati, ai negozi del commercio e ai testamenti. Questo principio imparavano i giovani nelle scuole di rettorica nelle quali si esercitavano pure ai dibattiti giudiziari, sostenendo, uno il valore del fatto o dell’atto secondo la volontà degli agenti, altri il significato ed il valore dell’atto in base alle parole pronunciate. E questi insegnamenti passarono dalla scuola nel foro, nei dibattiti giudiziari. Il primo esempio giudiziario è riferito ripetutamente e con passione da CIce rone 15, la causa Curiana la quale [51/52] concerne una sostituzione pupillare. Il testatore aveva istituito erede il nascituro, nella credenza che la moglie fosse incinta. Sostituisce all’erede, nel caso che questi muoia impubere, M. Curio. Il testatore muore, ed il figlio aspettato non viene alla luce. M. Curio, il sostituto, pretende l’eredità. A lui si oppone il parente prossimo M. Coponio, come avente diritto alla successione ab intestato. La difesa di quest’ultimo fu assunta dal più celebre giurista dell’epoca, da Q. Mucio scevola, il pontefice ; la causa di Curio è nelle mani del più grande oratore : L. Licinio Crasso. L’aspettativa di questo dibattito innanzi il tribunale dei Centumviri fu grande in Roma. Crasso patrocinava la causa dell’equità, come si esprime CIcerone , sostenendo « defensionem testamentorum ac voluntatis mortuorum » (De or. 1, 57, 242), in quanto egli diceva « hoc voluisse eum qui testamentum fecisset ... quoquo modo filius non esset ... Curius heres ut esset » (Brut. 53, 197) . Il difensore dell’interpretazione letterale esigeva la più scrupolosa adesione al testo : « Quam captiosum esse ... quod scriptum esset neglegi et opinione quaeri voluntates et interpretatione disertorum scripta simplicium hominum pervertere ? » (Brut. 52, 196). Il tribunale centumvirale decise a voti unanimi a favore di Curio (Cic., Pro Caec. 18, 53) e creò così un precedente di grande importanza per il trionfo della volontà e dell’aequitas contro l’interpretazione letterale. 15 (1/51).

Cic., Brut. 52 ; De or. 1, 57, 242 ss. ; Topica 10, 44.

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Dalla scuola di retorica e dal foro il dibattito passò tra i giuristi. Esempi di controversie dello stesso tenore noi troviamo tra i giuristi dell’età ciceroniana. Nel fr. 7, 2 D. 33, 10, Tu Berone , un discepolo di Panezio, sostiene che nell’interpretazione del testamento la volontà del testatore deve prevalere al significato comune delle parole che egli ha usato. secondo questo giurista i vocaboli sarebbero un mezzo per manifestare la volontà, onde debbono assumere il significato che l’autore della dichiarazione ha inteso dare. Altri giuristi opponevano, secondo la tradizione, l’assoluto dominio dei verba, o almeno che, dove si abbiano dei termini che esprimono cose ben determinate, non è consentito intendere diversamente le disposizioni del testatore : « non enim ex opinionibus singulorum, sed ex communi usu nomina exaudiri debere ». Così noi assistiamo già sin dalla Repubblica al dibattito su questo punto fondamentale dell’interpretazione degli atti giuridici : dibattito che continua per molte generazioni. Nello stesso passo citato noi troviamo sul proposito una sentenza di CeLSo , giurista dell’epoca adrianea, il quale dice : « etsi prior atque potentior est quam vox mens dicentis, tamen nemo sine voce dixisse existimatur ». CeLSo riconosce, come si vede, con ArISToTeLe che la mens è prior atque potentior. Ma ciò significa che la giurisprudenza aveva riconosciuto che l’intenzione di colui che fa una dichiarazione in un atto giuridico solenne o non solenne ha importanza per la valutazione degli effetti giuridici. La mens, animus, voluntas, è considerata come l’anima della dichiarazione medesima. La dottrina, sempre con forti contrasti, si diffuse subito ; sostenuta da AquILIo GaLLo [52/53] e da ServIo S uLPIcIo divenne dominante nella prassi, dando impulso al rinnovamento e allo sviluppo del diritto16. Il motto ciceroniano sopra riferito, dunque, fu il grido di battaglia contro l’interpretazione letterale che ormai era riconosciuta antiquata e causa di inique decisioni. Infatti essa impediva l’applicazione della equità, specie in quell’ordine di negozi che si attuavano con forme solenni, con parole sti16 (1/53). Cfr. per Aquilio : Cic., Pro Caec. 27, 77 ss. Su Servio : Cic., Brut. 41, 151 ss. ; Philipp. 9, 5, 10.

Summum ius summa iniuria

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lizzate che provenivano da vecchi formulari. or l’equità esigeva appunto che nell’interpretazione si tenesse conto della volontà degli autori delle dichiarazioni e di tutte le circostanze le quali potevano rivelare lo scopo che le parti volevano conseguire. In questo momento, dunque, si veniva mutando il punto centrale dell’interpretazione delle leggi e dei negozi tra privati, la volontà entrava ora come un elemento essenziale in qualsiasi atto e per la valutazione degli effetti di esso. La vecchia tradizione giuridica si rinnovava. Con l’indagine della volontà in concreto in ogni singolo atto, entrava nell’organismo del diritto tutta la vita di ogni giorno, come elemento di importanza nella considerazione dell’atto giuridico posto in essere. Il nuovo metodo d’interpretazione fu lo strumento più efficace col quale la giurisprudenza romana sulla fine della Repubblica inaugurò la sua opera ricostruttrice del diritto. E qui bisogna tener conto dei poteri che dopo la lex Aebutia ebbe il pretore nell’amministrazione della giustizia. Si è detto, e si dice bene, che il pretore divenne l’arbitro del processo. Nelle formule egli segna al giudice gli elementi da valutare perché la decisione risponda all’equità. L’Editto si venne ampliando di un gran numero di norme e di mezzi ordinari e straordinari di cui il pretore si servì nell’amministrare la giustizia, perché la decisione corrispondesse sempre alle esigenze dell’equità. L’exceptio e l’actio quod metus causa ; l’exceptio doli e l’actio de dolo ; le actiones in factum, le formulae ficticiae, la in integrum restitutio furono gli strumenti più efficaci coi quali il pretore evitava le conseguenze inique che sarebbero derivate dall’applicazione dei principî e delle norme del ius civile. Le formule de dolo furono suggerite da GaLLo a quILIo forse nel 688 a. U. CIcerone le esalta come everriculum malitiarum omnium (Cic., De nat. deor. 3, 30, 74), cioè come una rete che raccoglie le malizie della vita. La exceptio doli ha esercitato una doppia funzione nello sviluppo del diritto romano : a) in primo luogo essa ha paralizzato, come è stato detto or ora, l’applicazione di norme del ius civile che non rispondevano più ai nuovi tempi ; b) essa ha ulteriormente, poi, promosso lo sviluppo del ius civile rendendo efficaci convenzioni, le quali, o non erano

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La giurisprudenza

considerate dal ius civile o, [53/54] per di più, erano contrarie ai principî ed alle norme del ius civile. In modo particolare la exceptio servì ad attuare, nei casi concreti, la volontà delle parti o del testatore, determinando l’allargamento del ius con la tutela di nuovi rapporti. In maniera correlativa essa determinò a poco a poco l’attenuazione e la paralisi delle forme solenni del ius civile17. § 5. La Filosofia. Rispetto all’influsso della filosofia sul diritto il contrasto tra gli storici è stato sempre vivace. Alcuni negano che dottrine filosofiche abbiano esercitato una qualsiasi azione sulle teorie giuridiche dei Romani. Anzi, nel sec. XiX gli scrittori seguaci del materialismo storico, come il Padelletti, non ammettevano nemmeno la possibilità di una qualsiasi penetrazione di insegnamenti filosofici od etici nel campo del diritto ; e per lo stesso motivo furono portati ad escludere l’influsso dell’etica cristiana più tardi, cioè nei secoli IV e V d. C. L’opinione dominante, oggi, riconosce una larga penetrazione filosofica iniziatasi appunto in questo periodo, e specialmente delle dottrine stoiche, propagate dagli insegnamenti di PanezIo , del circolo del giovane Scipione, per cui la più grande parte dei giuristi veteres sarebbero stati stoici. Da questa scuola deriverebbe pure il metodo della elaborazione scientifica, ed in particolare l’attività rivolta alla sistematica della materia, alla divisione in genera e species, alle definizioni e raccolte delle medesime eseguite secondo il modello degli stoici. E rispetto alle dottrine, un esempio perspicuo si rinviene già nella controversia tra i principes civitatis, come dice Cicerone, e cioè Bruto, Manilio e Scevola, a riguardo della natura giuridica del parto della schiava : Bruto, appunto, seguendo la dottrina stoica, negava si potesse considerare come frutto l’uomo mentre, d’altra parte, Manilio e Scevola difendevano la dottrina tradizionale18. 17 (1/54). Cfr. S. RIccoBono , La giurisprudenza dell’Impero, in Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo, Roma, 1938, p. 147 ss. 18 (2/54). Cic., De fin. 1, 4, 12 ; fr. 68 D. 7, 1 ; fr. 28, 1 D. 22, 1.

La Filosofia – La Grammatica

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La letteratura su questo grave tema dell’influsso della filosofia greca sulla giurisprudenza è molto larga, a cominciare dal CuIacIo fino ai giorni nostri19. [54/55] § 6. La Grammatica. Nel senso romano la grammatica comprende non solo la conoscenza e l’uso della lingua, ma in particolare delle etimologie e delle antiquitates, sia divine che giuridiche, sicché essa ha molti contatti con la giurisprudenza. Tra i giuristi di questo periodo appare molto progredita la cultura di queste discipline. In special modo GeLLIo (Noct. Att. 13, 10, 1-2) dà particolari notizie della larga preparazione letteraria di LaBeone nei termini seguenti : « ceterarum quoque bonarum artium non expers fuit et in grammaticam sese atque dialecticam litterasque antiquiores altioresque penetraverat Latinarumque vocum origines rationesque percalluerat eaque praecipue scientia ad enodandos plerosque iuris laqueos utebatur. Sunt adeo libri post mortem eius editi qui posteriores inscribuntur, quorum librorum tres continui ... pleni sunt id genus rerum ad enarrandam et inlustrandam linguam Latinam conducentium ». Da questo riferimento si vede con quanta cura e larghezza di studi si preparavano alla giurisprudenza i giuristi della fine della Repubblica e principio dell’Impero. CIcerone esalta ServIo S uLPIcIo con altissime lodi (Brut. 41, 151 ; Philipp. 9, 1, 1-3) ; onde il Bruns20 poté 19 (3/54). CuIacIo , Obs. XXVI, 40 ; XI, 37 ; M. VoIgT , Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, I, Die Lehre vom jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, Leipzig, 1856, p. 253 ; E. CoSTa , La filosofia greca nella giurisprudenza romana. Prolusione a un corso libero d’istituzioni di diritto romano nell’Università di Parma, Parma, 1892 ; P. SoKoLoWSKI , Die Philosophie im Privatrecht, I-II, Halle, 1907 ; altre citazioni in B. KüBLer , Griechische Einflüsse auf die Entwicklung der römischen Rechtswissenschaft gegen Ende der republicanischen Zeit, in Atti del Congresso Internazionale di Diritto romano (Bologna e Roma XVII-XXVII aprile MCMXXXIII). Roma, I, Pavia, 1933, p. 84 s., nt. 4 ; I. M. CorMacK e B. I. B roWn , Stoic Philosophy and the Roman Law, in B.I.D.R., 44, 1936-1937, p. 451 ss. 20 (1/55). K. G. BrunS, Geschichte und Quellen des Römischen Rechts, in Holtzendorff’s Encyklopädie der Rechtswissenschaft, 5a ed., Leipzig, 1889, p. 134.

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La giurisprudenza

dire che ServIo ha « utilizzato intera la cultura greco-romana per la scienza del diritto ». in particolare la cultura filosofica e delle antichità era necessaria ai giuristi per l’interpretazione delle leggi delle XII Tavole, e di somma importanza era poi la determinazione degli elementi essenziali degli istituti e figure di diritto mediante lo studio delle etimologie, come si vedrà più oltre. § 7. Elaborazione sistematica del diritto. È appunto sulla fine della Repubblica che si inizia l’elaborazione scientifica del diritto. Pomponio (D. 1, 2, 2, 39) dice che Bruto, Manilio e Publio Scevola fundaverunt ius civile. il significato di questa frase può essere dubbio, ma essa vuol dire che essi inaugurarono la nuova interpretatio (cfr. Pomp., D. 1, 2, 2, 5), non più attaccata ai verba. Altri intendono nel senso che quelli gettarono le basi della trattazione scientifica del diritto, la quale si manifesta subito dopo molto progredita nell’opera di Q. MucIo ScevoLa , libri XVIII iuris civilis. Lo sviluppo è stato graduale. il grande progresso sulla fine della Repubblica s’intende meglio ora con l’illustrazione e la considerazione di quelli stati culturali di cui fu detto sopra, da q. MucIo , da ServIo e da LaBeone , particolarmente, adoperati per la giurisprudenza. Con questi giuristi nasce in Roma la scienza del diritto. Q. Mucio scevola, figlio di Publio sopracitato, come dice Pomponio : « ius civile primus constituit generatim in libros decem et octo redigendo » (Pomp., D. 1, 2, 2, 41). Si tratta, dunque, della prima opera sistematica del ius civile, nella [55/56] quale la materia dei singoli istituti era organizzata in base a definizioni generali (genus), e divisioni di esso in varie figure (species), che hanno ciascuna caratteri differenziali e comuni. Questa forma dell’elaborazione scientifica, seguita da Q. Mucio, rimase costante in tutta la giurisprudenza romana. Se, infatti, provengono dall’opera di Mucio o da giuristi repubblicani i genera et species furtorum, possessionum, adoptionum, actionum, tutelarum, donorum, rinveniamo poi in PedIo (fr. 1, 3 D. 2, 14, e cfr. ivi fr. 5) sulla fine del sec. i dell’Impero la costruzione del genus e species conventionum,

Elaborazione sistematica del diritto

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in CeLSo (D. 12, 1, 1, 1) del genus credendi, di cui il mutuo è una species. Il metodo si manifestò fecondo di risultati nella scienza del diritto, in quanto, procedendo dalla nozione generale, che comprende varie figure, l’analisi particolareggiata dell’istituto e di tutte le partizioni di esso riusciva piena e profonda con i presupposti, gli sviluppi e le conseguenze relative al genere e alle specie singole. È ovvio che il processo di coteste partizioni, tutto fondato su di analisi penetranti degli elementi delle varie figure21, doveva suscitare divergenze e aspri dibattiti tra i giuristi, dei quali ci sono tramandati esempi memorabili, da GaIo (1, 188) rispetto alla tutela, e da PaoLo (fr. 3, 13 D. 41, 2) rispetto alla possessio. Il metodo penetrò in Roma da modelli stoici. Cicerone lo descrive con precisione additandolo come l’ideale della trattazione scientifica del ius civile (De or. 1, 42, 190) : « Si ... aut mihi facere licuerit, quod iam diu cogito, aut alius quispiam ... omne ius civile in genera digerat, quae perpauca sunt, deinde eorum generum quasi quaedam membra dispertiat, tum propriam cuiusque vim definitione declaret, perfectam artem iuris civilis habebitis ». CIcerone non si mostra soddisfatto dell’opera di Mu cIo , giacché egli esalta invece ServIo S uLPIcIo , come l’unico che avrebbe saputo dare impronta scientifica al ius civile : « artem in hoc uno » (Brut. 41, 152). Il termine ars significa sistema ; adoperato pure da CeLSo nella definizione « ius est ars boni et aequi », fr. 1 pr. D. 1, 1. Da GeLLIo (1, 22, 7) apprendiamo che CIcerone avrebbe scritto un’opera, De iure civili in artem redigendo, della quale non ci è pervenuta altra notizia22 da parte dei giuristi. Comunque sia, se il proposito non fu attuato, esso sta sempre 21 (1/56). SchuLz , History, cit., p. 94 ss. Vedi G. La P Ira , La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. Problemi generali, in Studi in onore di F. Virgilii, Roma, 1935, 159 ss. ; I d ., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. L’arte sistematrice, in B.I.D.R., 42, 1934, p. 336 ss. ; I d ., La genesi del sistema nella giurisprudenza romana. Il metodo, in S.D.H.I., 1, 1935, p. 319 ss. ; I d ., La genesi del sistema nella giurisprudenza. 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica, in B.I.D.R., 44, 1936-1937, p. 131 ss. 22 (2/56). E. CoSTa , Cicerone giureconsulto. Il Diritto privato, Bologna, 1911, p. 18 s.

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a dimostrare l’aspirazione ardente dell’epoca ciceroniana di ordinare in un sistema scientifico la materia del diritto23. La meta fu raggiunta dai giuristi del suo [56/57] tempo, particolarmente da Q. MucIo e da ServIo , i quali posero i fondamenti della scienza del diritto, portata poi a grande altezza dai giuristi dell’impero, da Augusto fino ad Alessandro severo. § 8. Regulae iuris. La formazione di regulae deve essere considerata come mezzo caratteristico del progresso nella scienza del diritto. Esse erano i capisaldi della trattazione sistematica24. La regola è fondata su precedenti decisioni, non creata in base a speculazione. Alcune di esse provengono certamente dalla giurisprudenza pontificale, esempio : nulla hereditas sine sacris ; più antica ancora, e da attribuire ai pontefici, è quella bis de eadem re ne sit actio (Quintilianus, Inst. or. 7, 6, 4, cfr. Gaius 3, 180). È ovvio, per quel che si è detto dianzi, che questa attività della giurisprudenza sia divenuta più vivace nel periodo Muciano, sotto l’influsso della cultura greca ; e a questo periodo infatti si deve attribuire il maggior numero delle regulae, che furono considerate sempre come principî fondamentali del ius civile, e come tali inderogabili. Ma sul proposito è opportuno ripetere che regulae iuris erano note nella tradizione giuridica anteriore, così in quella pontificale e più tardi, avvenuta la secolarizzazione della giurisprudenza. La testimonianza più sicura al riguardo è fornita dalla regula Catoniana (D. 34, 7) relativa alla validità dei legati, formulata, come sembra più probabile, da CaTone il minore detto Liciniano, figlio maggiore del Censore, e che premorì al padre nel 152 a. C.

Cfr. : i pregevoli studi di La P Ira , citati sopra nt. 21 ; S. RIcco Elementi sistematici nei commentari « ad edictum », in B.I.D.R., 44, 1936-1937, p. 1 ss. ; J. STroux , Griechische Einflüsse auf die Entwicklung der römischen Rechtswissenschaft gegen Ende der republicanischen Zeit, in Atti del Congresso Internazionale di Diritto romano (Bologna e Roma XVII-XXVII aprile MCMXXXIII). Roma, I, Pavia, 1933, p. 111 ss. 24 (1/57). Cfr. F. D. SanIo , Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig, 1867, p. 66. 23 (3/56).

Bono ,

Regulae iuris

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In questo campo, dunque, si osserva con tutta evidenza che lo sviluppo della giurisprudenza è graduale, e procede sempre dall’intima essenza della stessa cultura giuridica romana. Con q. MucIo , certamente l’attività rivolta a formulare regole e definizioni si fece più intensa, perché essenziale, come si è visto, per la costruzione sistematica del diritto. Nell’opera citata di q. MucIo dovevano essere numerose siffatte definitiones, e di esse fu fatta una raccolta, sotto il titolo ὅρων, dubbio se eseguita dallo stesso MucIo o posteriormente da altri. Tra queste definitiones, notevolissima è quella riferita nel fr. 73, 4 D. 50, 17, estratto dal libro ora citato, la quale è così formulata : « nec paciscendo nec legem dicendo nec stipulando quisquam alteri cavere potest ». L’importanza di questa regola consiste in ciò, che essa, per la prima volta, per quanto è a noi visibile, ricomprende nella formulazione tutti i vari ordinamenti giuridici che avevano vigore nell’ultimo periodo della Repubblica, e cioè il ius civile, il ius gentium, il ius honorarium. La regola nega qualsiasi effetto a convenzioni fatte a favore di terzi anche se al di fuori del ius [57/58] Quiritium. In paciscendo è contemplato il ius honorarium ; nella stipulatio il ius gentium, nella lex dicta il ius civile. Si deve supporre che nella frase, qui, sia stata soppressa dai compilatori la menzione della mancipatio (cioè : nec legem mancipio dicendo). Infatti, non è possibile credere che nella definizione di Mucio non fosse ricompreso il caso molto frequente di lex dicta, in occasione della mancipatio, con effetti reali, per ragion d’esempio per la costituzione di servitù sul fondo mancipato. Essa stabilisce una limitazione essenziale e necessaria alla legge delle XII Tavole : « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ». La regola, pertanto, nella struttura muciana doveva riferirsi alla totale esclusione sia di effetti obbligatori che reali, comunque fosse la convenzione intervenuta : per patto, per stipulazione, o nella solennità della mancipatio. Se così è, la regola merita grande rilievo. Più tardi, la giurisprudenza arriverà a siffatte sintesi in base a nuove e più larghe esperienze, e con effetti ancor più considerevoli. Così quella di PedIo , riferita da ULPIano , nel fr. 1, 3 D. 2, 14, in cui il termine conventio è rappresentato cone genus che si divide in

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tres species, ciascuna propria, per caratteri differenziali, ai tre ordinamenti : ius civile, ius gentium, ius honorarium. Regole si formano ancora nell’impero, così solo tardi appare quella « superficies solo cedit » onde critici hanno ricercato l’origine nel diritto greco o in quello egiziano, ma è certo che se formulata tardivamente essa è per la sostanza la più organica nella complessione del diritto dei Quiriti25. Queste sintesi della giurisprudenza romana rappresentano i vertici della elaborazione scientifica, della costruzione sistematica del diritto, la quale partendo dalle singole decisioni mediante l’osservazione di elementi comuni e differenziali, vien formando una catena di astrazioni, che si fa sempre più larga e complessa, tale da costituire la trama d’un sistema saldo del diritto privato. § 9. I giuristi della Repubblica. Qui non è necessario di riferire tutti i nomi dei giuristi che vissero nelle varie epoche della storia di Roma. Diciamo soltanto che per il periodo più antico l’unica fonte di cognizione è PoMPonIo nell’opera più volte citata e trasfusa in D. 1, 2, 2, sotto il titolo de origine iuris. Molti nomi, per altro, riportati da questo autore non vanno intesi nel senso di giureconsulti di professione, ma quali prudentes, sapientes, così Fabio Massimo che Cicerone cita insieme con i Fabricii, Curii, Coruncanii (Cic., Cato maior 6, 15). Si deve escludere anche Cicerone, malgrado la contraria [58/59] opinione del CoSTa 26, per quanto l’opera del grande oratore sia ricca di materia e cognizioni giuridiche, ed essenziale per la ricostruzione del diritto del suo tempo. I nomi dei giuristi che nel periodo della Repubblica vanno annoverati come tali sono 22, non tenendo conto dei nomi di personaggi leggendari o storicamente dubbi, quali PaPI rIo , che avrebbe raccolto le leges regiae, A PPIo c LaudIo , il decemviro, Gneo F LavIo , che avrebbe pubblicato un liber actionum. Ma ricordiamo invece quello di A PPIo c LaudIo 25 (1/58). 26 (1/59).

Così SchuLz , Prinzipien, cit., p. 87. Cfr. CoSTa , Cicerone, cit.

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c Ieco , al quale è attribuito un libro de usurpationibus e principalmente SeSTo e LIo P eTo già sopra mentovato, il quale con la sua opera riassunse e chiuse il periodo della giurisprudenza antica. Inoltre PuBLIo M ucIo S cevoLa , Pontefice Massimo, console del 621 a. U. ; Marco g IunIo B ruTo , che ricoprì la carica di pretore ; ManLIo M anILIo , console del 605 ; i quali tre giureconsulti sono spesso ricordati da scrittori e giuristi posteriori in controversie di diritto e da Pomponio, D. 1, 2, 2, 39, come fondatori della scienza del diritto. q uInTo M ucIo S cevoLa , cugino di PuBLIo M ucIo , soprannominato Augure, per distinguerlo dal celebre giurista posteriore, nacque nel 593, console nel 637, morì dopo il 665 ; Cicerone assisté da auditor alle sue consultazioni e lo celebra come consulente di grido (De leg. 1, 4, 13). TuBerone , stoico e discepolo di Panezio, console nel 636. q uInTo M ucIo S cevoLa , figlio di Publio Mucio sopraddetto, nato circa il 614, console nel 659, ucciso nel 672 dai partigiani di Mario, fu governatore della Provincia di Asia, Pontefice Massimo, e già fu detto che egli scrisse la prima grande opera sistematica del ius civile. TreBazIo T eSTa ebbe origine da Velia, amico di Cicerone, luogotenente di Cesare, già maestro di M. A. Labeone, e poi consigliere di Augusto. servIo S uLPLIcIo r uFo , già ricordato, console nel 703, morto nel 711, ritenuto da Cicerone il più grande giureconsulto del suo tempo. Certamente servio ebbe un influsso decisivo sul progresso della giurisprudenza. Il racconto di Pomponio, D. 1, 2, 2, 43, circa i rapporti tra Quinto Mucio e Servio, se può avere un nucleo di verità, ha assunto il colore d’una leggenda. Se Servio scrisse un’opera nella quale sottopose a revisione e critica dottrine di Q. Mucio, ciò risponde perfettamente alla intensità e attività scientifica di questo momento storico, che suscitava contrasti di opinioni e controversie su punti essenziali teorici e pratici. L’elaborazione scientifica, come sempre, mette in azione le varie forze e tendenze che operano in un’epoca ; da una parte la tradizione antica aveva i suoi sostenitori, mentre altri giuristi sentivano più vivacemente il bisogno di innovazioni e sviluppi richiesti dal progresso della vita e dai bisogni sempre [59/60] più larghi del commercio. Tra queste controversie, celebre è quella riferita da Gaio 3, 149 relativa alla societas, già illustrata sopra nel Capo I § 4.

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ServIo ebbe una grande scuola. Pomponio, D. 1, 2, 2, 44, riporta i nomi di molti suoi discepoli ; tra i quali emergono oFILIo , amico e familiare di Giulio Cesare, cui forse il dittatore aveva commesso la codificazione del diritto (cfr. svet. Caesar 44, 3), ALFeno v aro di Cremona. Questi, figlio di calzolaio, ebbe il consolato nel 715 a. U. e fu protettore di Virgilio, quando questi da Cremona, all’età circa di 18 anni, si trasferì a Roma per compiere i suoi studi. orazio27 ricorda Alfeno varo e dice che rimase calzolaio. si è ritenuto che il poeta volesse significare che l’opera di ALFeno , libri XL digestorum, conteneva soltanto gli insegnamenti di Servio, cosicché era stato semplice compilatore. Questo è stato accertato, in quanto nelle fonti greche, che riproducono i frammenti dell’opera di ALFeno , il traduttore (Doroteo, commissario della compilazione di Giustiniano) riporta spesso il nome di Servio, soppresso dai Compilatori nell’opera legislativa, dove fu conservato una sola volta nel fr. 16, 1 D. 33,7. Le dottrine di Servio furono sempre ricordate per tutto il periodo dell’epoca classica ; ed egli va annoverato certamente come uno dei più grandi giuristi di Roma, ed ebbe gran parte nella creazione della scienza del diritto. Contemporaneo e maestro di servio è C. AquILIo g aLLo , pretore nel 688 a. U., attivo come pratico e di grande autorità presso il popolo. Egli non volle accettare il consolato per dedicarsi alla giurisprudenza. A Cercina, dove spesso si ritirava, attendeva a scrivere opere giuridiche. Sono celebri le sue formule sulla stipulatio Aquiliana (Ist. 3, 29, 2), e quella sui postumi aquiliani (fr. 29 pr. D. 28, 2). Ma sopra tutto grande importanza ebbero le formule de dolo, che Aquilio propose, forse nel 688, e che determinarono il più grande progresso del diritto, nel senso che mediante l’exceptio doli, in tutti i casi, la decisione giuridica dovesse corrispondere all’equità. CIcerone , pertanto, dice che le formule de dolo costituiscono « everriculum malitiarum omnium »28, cioè la rete con la 27 (1/60). orazio, Sat. 1, 3, 132, sutor erat (cfr. Porfirio, Commentum in Horatium Flaccum, ad h. l.). W. K aLB , Roms Juristen, nach ihrer Sprache dargestellt, Leipzig, 1890, p. 42. 28 (2/60). Cicerone, De nat. deor. 3, 30, 74. Ma per la data vedi B. KüBLer , Geschichte des römischen Rechts, Leipzig, 1929, p. 138. Cfr. RIccoBono , La giurisprudenza dell’Impero, cit., e sopra p. 47.

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quale tutte le malizie sono nel campo del diritto raccolte e represse. È dubbio se TerenzIo v arrone debba essere annoverato fra gli scrittori di diritto. Nel catalogo delle opere varroniane riportate da S. Girolamo29 si fa menzione di un’opera libri XV de iure civile, ma di essa non si ha altra notizia. Certo è probabile che Varrone , lo scrittore più fecondo di Roma, la cui produzione abbracciò quasi tutti i rami dello scibile, avesse anche scritto [60/61] un’opera di diritto. Alcuno ha ritenuto che il celebre frammento di PoMPonIo , cui spesso ci riferiamo, sia stato appunto ricavato dall’introduzione storica dell’opera di Varrone , la quale si suppone avesse contenuto in succinto il diritto privato e il pubblico30. Filologi e giuristi hanno contrastato questa opinione. In un momento parve che una notizia più dettagliata sull’attività giuridica di Varrone si fosse ritrovata nel commento31 di Pietro Diacono alla Regula di S. Benedetto, dove si legge « et si M. Publius Terentius Varro Institutiones civiles compositas edidit ». Ma contro questa attestazione il ConraT 32 ha fatto notare che il passo fu aggiunto da LaTTanzIo (Inst. div. 2, 12 ; cfr. Isidorus, Etym. 5, 14, 1) e che il nome di Varrone vi fu aggiunto per lustro. I giuristi della Repubblica vengono citati da quelli dell’Impero con la denominazione di veteres33 ma è giusto avvertire che tra quelli vissuti nell’epoca di CIcerone e i giuristi dell’Impero non esiste un distacco, né rispetto al metodo né rispetto al valore della produzione scientifica. Anzi, come s’è visto, il contributo degli ultimi giuristi repubblicani deve essere valutato 29 (3/60). Cfr. F. RITSchL , Die Schriftstellerei des M. Terentius Varro, in Rheinisches Museum für Philologie, n.s., 6, 1848, p. 481 ss. 30 (1/61). SanIo , Varroniana, cit., p. 2 ; P. BonFanTe , Di un testo di Pietro Diacono relativo ai “Libri iuris civilis” di M. Terenzio Varrone, in B.I.D.R., 20, 1908, p. 254 ss., il quale valuta altissima la influenza di varrone sulla giurisprudenza e seguendo SanIo sospetta pure che l’opera varroniana abbia offerto il modello del sistema istituzionale quale si riscontra in GaIo : personae, res, actiones. 31 (2/61). G. MercaTI , Il libro perˆ staqmῶn di Dardano tradotto anticamente in latino ?, in Rend. Ist. Lombardo, s. 2, 42, p. 316 ss. ; cfr. BonFan Te , ibidem. 32 (3/61). M. ConraT , Institutiones civiles des Varro bei Petrus Diaconus, in Z.S.S., 30, 1909, p. 412 s.; v. contro già KaLB , Roms Juristen, cit., p. 88. 33 (4/61). Tutte le citazioni furono raccolte da F. P. BreMer , Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, II, 2, Lipsiae, 1901, p. 505 ss.

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in sommo grado, perché è appunto in questo periodo che ebbe principio quell’attività scientifica che fu poi proseguita dai giuristi dell’Impero. Nella categoria dei veteres si dovrebbe comprendere pertanto solo i pratici anteriori a Q. Mucio Scevola. § 10. I giuristi dell’Impero. Col Principato, si ha un nuovo slancio nella elaborazione del diritto e si sono indagate le cause che poterono determinarlo. Come si è detto sopra, l’influsso della cultura greca ebbe la sua parte ; ma solo nel senso che i giuristi si avvalsero della filosofia e della grammatica, come materie ausiliarie perfezionando e sviluppando il metodo della trattazione scientifica. Deve essere, invece, respinta quell’opinione la quale ha voluto attribuire il risveglio della giurisprudenza alla depressione delle pubbliche libertà portata dal Principato, nel senso che i migliori ingegni si sarebbero ora rivolti alla giurisprudenza, essendo del tutto preclusa la carriera politica. Questa opinione evidentemente riecheggia le nostalgiche recriminazioni di TacITo a proposito del [61/62] decadimento dell’eloquenza (Tac., Dial. de or. 19), ed è perciò stesso superficiale. La verità è che col Principato, ristabilitosi l’ordine e inauguratosi un periodo di pace, lo studio del diritto ne risentì grande vantaggio, giacché i giuristi poterono attendere nella quiete alla elaborazione della materia, la quale aveva sempre esercitato un grande fascino nel mondo romano. Si è già notato sopra che tra i giuristi vissuti nel periodo della guerra civile e quelli dell’Impero non c’è alcun distacco. Augusto mostrò in tutto fine senso politico, e diresse i suoi sforzi a ripristinare le migliori tradizioni della vita nazionale : onde favorì pure con tutti i mezzi lo sviluppo della giurisprudenza. È significativo che egli fondò pure una biblioteca giuridica nel tempio di Apollo al Palatino. vien riferito che presso il Tempio fu stabilita una scuola (statio) « aut quia iuxta Apollinis templum iuris periti sedebant et tractabant aut quia ibi bibliothecam iuris civilis et liberalium studiorum in templo Apollinis Palatini dedicavit Augustus »34. 34 (1/62). Scholia Iuvenalis 1, 128. sul sito del tempio, cfr. o. HIrSchFeLd, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, Berlin, 1905, p. 298 ss.

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Si osserva ancora che, come gli imperatori più illuminati, Augusto ebbe l’accorgimento di conciliare alla nuova costituzione la classe dei giuristi, che nella tradizione romana rappresentava insieme alla militia l’aristocrazia della nazione, ed esercitava per antica tradizione un grande ascendente sull’opinione pubblica. Egli concedette ai giuristi un privilegio di grande rilievo, lo ius respondendi. Il riordinamento del diritto era peraltro un grave problema che si era già imposto alla mente di Cesare. Ed invero il dualismo, costituito dal ius civile e dal ius honorarium, si veniva manifestando sempre più artificioso, per il contrasto tra antico e nuovo, l’uno ridotto ogni giorno più a una funzione teorica ; l’altro, ordine vivo e dominante nell’amministrazione della giustizia (Cic., De leg. 1, 17). — Questo stato del diritto non poteva essere che transitorio ed era necessario che fosse controllato dall’autorità imperiale e sorretto dalla tecnica dei giuristi. Augusto, pertanto, a dire di s veTonIo (Aug., 33) spiegò una incessante attività nelle funzioni giudiziarie, e ciò in forza dell’imperium proconsulare per tutto l’impero, e più ancora in virtù dell’auctoritas per cui egli venne assumendo la funzione generale di tutor reipublicae. La cognitio imperiale, di primo grado o in appello, fu decisiva, da Augusto in poi, per lo sviluppo e l’inizio della unificazione del diritto, privato e penale, in tutto l’impero35. L’attività della giurisprudenza nel periodo antico e nell’impero fu sempre essenzialmente pratica. Il formalismo rigoroso del ius civile, che si attuava con parole e forme [62/63] solenni negli affari come nel processo, rendeva necessaria la consultazione di giuristi. L’uso della scrittura era ancora raro, e, quindi, tutto dipendeva da formule verbali che dovevano essere usate con grande rigore. Per questa ragione si dovette ammettere in alcuni casi giustificato l’errore di diritto qualora la parte non avesse avuto la possibilità di consultare un giurista, copiam iuris consulti non habere (cfr. D. 22, 6, 9, 3 ; D. 38, 15, 2, 2 e 5). Perciò il giureconsulto in Roma, come dice CIcerone (De or. 1, 45, 200), è l’oracolo della città.

35 (2/62). Cfr. H. VoLKMann , Zur Rechtsprechung im Principat des Augustus, München, 1935.

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La giurisprudenza

I clienti36 nelle prime ore del mattino si affollavano nella casa del patrono. L’esercizio della consulenza, come di qualsiasi altra attività nel campo del diritto, era gratuito in Roma e tale si mantenne almeno nella forma, per tutto il periodo della giurisprudenza classica37. Ed invero la consulenza era il mezzo più potente per acquistare nella gara degli onori il favore del pubblico. Nell’opinione dei Romani le attività più nobili erano costituite dalla militia, eloquentia, iurisprudentia e quest’ultima è detta da CIcerone « urbana militia », per la quale si conquistano le cariche dello Stato ; ed infatti i giureconsulti di maggior fama hanno percorso tutta la scala degli onori. Nella Repubblica i pareri dei giureconsulti esercitarono semplice autorità di fatto sul decidente cui erano presentati, ed è naturale che il responso di un giurista di grido s’imponesse alla mente e alla coscienza del giudice (Cic., Top. 28 ; Pro Mur. 29). Questa tradizione così radicata nella pratica romana fu utilizzata da Augusto, il quale accordò ai giuristi più eminenti il privilegio di dare responsi ex auctoritate Principis. Non c’è dubbio che l’inizio del ius respondendi, come istituto giuridico, si deve riportare ad Augusto (Pomp., D. 1, 2, 2, 49), per 36 (1/63). Dubbia l’origine della parola : κλύω, cioè ob-audire, o come altri vogliono, da κρίνω, cioè appoggiarsi. erano individui semi-liberi che nell`organizzazione gentilizia si trovavano in un rapporto di dipendenza ereditaria verso una gens. Certo è che il momento caratteristico dell’istituto consiste in un rapporto di protezione come nel ius applicationis. E certamente nel racconto di Dionisio (2, 10) la protezione giudiziaria è posta in grande rilievo e conforta bene quella opinione, peraltro assai contrastata, che i clientes in origine fossero stranieri. Tutt’altra cosa è naturalmente la clientela politica della fine della Repubblica. Cfr. su ciò a. von P reMer STeIn , Vom Werden und Wesen des Prinzipats, München, 1937, p. 13 ss. 37 (2/63). È molto interessante in proposito ricordare che quando nell’Impero si concedette nella cognitio extra ordinem la facoltà di chiedere un onorario per prestazioni di opere liberali, questa concessione fu esclusa per i professori di diritto e per i filosofi : fr. 1, 4 e 5 D. 50, 13. i filosofi perché debbono mercenariam operam spernere ; i professori del diritto perché « est quidem res sanctissima civilis sapientia, sed quae pretio nummario non sit aestimanda nec dehonestanda ... quaedam enim tametsi honeste accipiantur, inhoneste tamen petuntur ». Il testo è ritenuto interpolato (vedi anche B. KüBLer , Rechtsunterricht, in R.E. Pauly-Wissowa, 2a s., I, 1, Stuttgart, 1914, c. 394 ss.), ma è gratuita l’asserzione che sia tutto di fattura bizantina.

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Consilium Principis

quanto oggi si discuta sulla forma e lo sviluppo dell’istituto medesimo fino ad Adriano38. [63/64] § 11. Consilium Principis. Ad Augusto si riporta anche la costituzione di un Consilium Principis, che assisteva l’imperatore sia nelle udienze dedicate alla decisione di controversie, in prima istanza o in appello, sia nella redazione delle varie forme di costituzioni emanate dall’Imperatore. In Roma, i giureconsulti erano sempre presenti ad assistere come tecnici giudici e pretori. Nei tribunali sedevano come adsessores (fr. 1 D. 1, 22) vicino al magistrato o al giudice. Avendo l’imperatore assunto la direzione suprema dello Stato, anche nell’amministrazione della giustizia, l’assistenza di un Consilium si rese necessaria. il primo ricordo per Augusto, riportato nel senatoconsulto di Cirene39 ; dove peraltro il Consilium è costituito di senatori scelti dal senato medesimo. L’imperatore Adriano rese permanente questa istituzione ed esclusiva per le materie giuridiche ; ne riformò la costituzione chiamandovi dei funzionari e diede ai componenti un assegno da cento a duecento mila sesterzi. Il Consilium prese il nome di Auditorium Principis. In esso erano chiamati i migliori giureconsulti del tempo ; onde fin da Adriano i corifei della giurisprudenza fecero parte del Consiglio Imperiale. L’istituto assunse da questo momento una grande importanza anche per il fatto, che, codificato da Adriano l’Edictum perpetuum, tutta la direzione del diritto è ormai riservata all’Imperatore. Da questo momento si viene fissando nella cancelleria imperiale la forma delle varie costituzioni, le quali elaborate da un Consiglio così illuminato, esercitarono un grande influsso sullo sviluppo del diritto privato, e nello stesso tempo si ven38 (3/63). Cfr. L. Wenger , Praetor und Formel, München, 1926, 101 ss., il quale ritiene che il responso dei giuristi mantenne sotto Augusto autorità solo di fatto, senza effetti giuridici, ma vedi F. de v ISScher , Le « ius publice respondendi », in Rev. hist. dr. fr., 4a s., 15, 1936, p. 615 ss., H. SIBer , Der Ausgangspunkt des ‘ius respondendi’, in Z.S.S., 61, 1941, p. 397 ss. 39 (1/64). Cfr. a. von P reMerSTeIn , Die fünf neugefundenen Edikte des Augustus aus Kyrene, in Z.S.S., 48, 1928, p. 481.

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ne affermando l’idea che tutte le costituzioni dei Principes, eccetto i mandata, avessero forza di legge (cfr. Gaio 1, 5), il che è espresso da ULPIano col celebre detto : « Quod principi placuit legis habet vigorem » (fr. 1 pr. D. 1. 4). § 12. Scuole di diritto. Secondo la tradizione raccolta da Pomponio la prima forma di insegnamento del diritto è riportata al Pontefice Massimo plebeo Tiberio Coruncanio, 502 a. U., di cui nei tempi posteriori erano ricordati numerosi responsi, quantunque non avesse lasciato opere. E Pomponio cura di dire che prima di Tiberio Coruncanio non ci fu in Roma nessun insegnamento del diritto. La notizia è importante, perché, se il diritto civile era stato, nel periodo precedente, in penetralibus Pontificum il Collegio non poteva essere proclive a diffondere la conoscenza del diritto nel pubblico. Invece al tempo di Coruncanio la conoscenza del diritto era già diffusa nel popolo. [64/65] L’inizio dell’insegnamento era naturalmente rudimentale, dato nella forma di responsi, ai quali assistevano i giovani patrizi che si addestravano nell’arte della consulenza. Venivano, dunque, esaminati casi pratici e messi in luce i principii fondamentali del ius civile, che fino allora costituivano la sostanza del diritto medesimo. L’insegnamento ebbe in un periodo successivo nuovo impulso dallo sviluppo della cultura generale ed in particolare dalla elaborazione scientifica e sistematica del diritto iniziatasi con Q. Mucio Scevola ed ebbe poi grande incremento nella scuola di Servio Sulpicio. Pomponio distingue i due verbi per caratterizzare l’insegnamento sulla fine della Repubblica, in instituere (Pomp., D. 1, 2, 2, 47) e instruere (Pomp., D. 1, 2, 2, 43). La prima voce è rimasta tecnica in tutta la tradizione scolastica, giuridica, religiosa e retorica, per indicare il primo avviamento alla scienza mediante una trattazione teorica e concisa, di cui è pervenuto a noi un modello inarrivabile nei commentarii libri IV di g aIo , redatti nel secolo II sotto Adriano e Antonino Pio. Instruere, invece, indica una forma di insegnamento più progredito, che ha luogo in occasione della consulenza, dinanzi a giovani auditores. In proposito anzi il verbo audire può dirsi tecnico.

Scuole di diritto – Proculiani e Sabiniani o Cassiani

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Nella scuola, pertanto, si esaminavano casi della vita pratica, se ne dava la soluzione, e poi, sempre più, l’insegnamento veniva ampliandosi con citazioni dei dissensi tra giurisperiti, ovvero mediante altre ipotesi ed illustrazioni più larghe su punti di diritto. Questo contenuto apparisce con molta chiarezza dalle quaestiones o disputationes raccolte dai discenti, o pubblicate dagli stessi maestri, che costituirono una categoria importante della letteratura giuridica romana. § 13. Proculiani e Sabiniani o Cassiani. sotto Augusto l’insegnamento ebbe un nuovo sviluppo con la fondazione di stabilimenti, che GeLLIo (Noct. Att. 13, 13, 1) indica come stationes ius publice docentium aut respondentium, forse nel senso come sopra illustrato a proposito delle voci instituere e instruere. Certo è peraltro che la statio corrisponde al termine più frequentemente usato di auditorium e forse trattavasi di edifici statali, destinati a questo scopo (fr. 1, 4 D. 40, 15). A questa notizia si è avvicinata quella data da PoMPonIo (D. 1, 2, 2, 47) cioè che al sorgere del principato avrebbe avuto inizio la divergenza fra due scholae o sètte, delle quali ciascuna ebbe a capo uno dei giureconsulti corifei del tempo di Augusto, cioè LaBeone e CaPITone . PoMPonIo usa il verbo successit per indicare la continuità delle due scuole, aventi ciascuna un capo riconosciuto, e dice che a Labeone successe Nerva e poi ProcuLo , da cui ebbe il nome la scuola dei Proculiani (D. 1, 2, 2, 48 e 52). [65/66] A CaPITone , invece, successe SaBIno , poi CaSSIo , onde quest’altra scuola fu detta dei Sabiniani o Cassiani. La denominazione collettiva delle scuole, come sopra, è stata messa in dubbio per il periodo classico40 ma che essa sia pressoché 40 (1/66). Possediamo un’eccellente monografia di G. BavIera , Le due scuole dei giureconsulti romani, Firenze, 1898. Ma il problema non ha avuto una soluzione soddisfacente. se ne sono occupati anche filologi. Così M. Schanz , Die Analogisten und Anomalisten im römischen Recht, in Philologus, 42, 1883, p. 309, crede di chiarire tutto per via indiretta, sulla base del contrasto nell’antichità nel campo della retorica tra analogisti ed anomalisti ; or Labeone, egli dice, era analogista per la lingua, lo dovette essere

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La giurisprudenza

coeva all’origine delle scuole è provato da PLInIo (Ep. 7, 24, 8), che di Cassio dice : « Cassianae scholae princeps et parens fuit ». Fino ad Adriano i giureconsulti di maggior valore seguirono una delle due scuole. Alla scuola sabiniana appartennero, oltre quelli citati, g IavoLeno P rISco , a LBurno v aLen Te e SaLvIo g IuLIano . Alla proculiana, invece, nerva filius, CeLSo padre e il figlio PuBLIo GIovenzIo c eLSo , NerazIo P rISco . Le controversie erano molte, si rinnovano e si moltiplicano di continuo, tramandate negli scritti e negli insegnamenti coi nomi dei maestri dell’una e dell’altra scuola. Questo si osserva bene in GaIo , dove ricorre continuamente la espressione nostri praeceptores, ovvero Sabinus et Cassius ; e per l’altra scuola l’espressione diversae scholae auctores ovvero Nerva et Proculus etc. Fino ad Adriano la tradizione delle due scuole è ininterrotta. Essa è rappresentata con grande vivezza in tutti i punti nel manuale di Gaio, che è appunto un sabiniano, e redasse l’opera nel periodo di Adriano e di Antonino Pio. Ma l’autorità di Giuliano, il grande giureconsulto dell’epoca adrianea, valse ad attenuare e quasi a far scomparire il contrasto fra le due scuole. Non tacquero però le controversie sui singoli punti, per la natura stessa della materia che ha per obietto fenomeni economici, sociali e morali, che si rinnovano nello sviluppo della vita, in ogni epoca. anche per il diritto ; Capitone invece seguiva gli anomalisti. Vedi anche I d ., Die Apollodoreer und die Theodoreer, in Hermes, 25, 1890, p. 36 ss., e Geschichte der römischen Literatur. Bis zum Gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian, II, 1a ed., 1911, p. 580 ss., dove si fanno i nomi dei giuristi da Karlowa a Lenel che hanno confutato cotesta soluzione che non solo è in contrasto con Pomponio, ma con le dottrine di Labeone. Se mai, vero potrebbe essere il contrario. Ai contraddittori citati da schanz si aggiunga KüBLer , Geschichte, cit., p. 261, v. ArangIo -r uIz , Storia del diritto romano, 2a ed., Napoli, 1940, p. 275 ss., P. de F rancIScI , Storia del diritto romano, II, 1, 2a ed., Milano, 1938, p. 476. Vi aderì invece E. BeTTI , Sul valore dogmatico della categoria “contrahere” in giuristi Proculiani e Sabiniani, in B.I.D.R., 28, 1915, p. 33. Per parte mia io trovo plausibile l’opinione di Pomponio, e come caratteristica iniziale delle due scuole esatta, giacché nella tradizione giuridica il contrasto tra conservatori e innovatori è eterno, come nella vita e nella storia del progresso umano ; vedi S. r IccoBono , La definizione del ius al tempo di Adriano, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 20, 1949, p. 74.

Proculiani e Sabiniani o Cassiani

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Rispetto alla tradizione del sorgere delle scuole, s’è trovata difficoltà ad ammettere la rappresentazione di Pomponio, il quale la riporta al contrasto fra LaBeone e CaPITone ; giacché, s’è detto, la posizione dei due giureconsulti dell’epoca di Augusto è assai ineguale. LaBeone ha un posto spiccato e di prim’ordine nel movimento scientifico del primo secolo dell’Impero ; laddove [66/67] CaPITone , cultore quasi esclusivamente di diritto sacro e pubblico, è ricordato dai giuristi posteriori appena di nome. In verità non è necessario di spiegare l’antagonismo delle scuole con diverse tendenze, che si siano manifestate con i due giureconsulti sotto Augusto ; ma piuttosto l’inizio delle due scuole si deve ricondurre alla esistenza di due stationes iuris docentium di cui parla Gellio. Le divergenze di opinioni si vennero naturalmente sviluppando nel tempo posteriore. Ed invero il dissenso nell’interpretazione di alcune regole o nell’applicazione di dati principî a casi pratici non è sorto per capriccio o per virtù di cultori del diritto ; ma il contrasto delle idee si manifesta inevitabile nell’approfondire ed elaborare scientificamente una disciplina. È vero, peraltro, che Marco Antistio LaBeone diede un grande impulso al movimento ed allo sviluppo delle dottrine. Nato forse nel 705 a. U. visse in tutto il periodo augusteo, senza che si possa determinare la data della morte. era figlio di Pacuvio Labeone, uno dei congiurati contro Cesare, anch’egli giurista, discepolo di Quinto Mucio. Antistio Labeone fu pretore, rifiutò il consolato offertogli da Augusto ; di vasta cultura e di sommo ingegno diede grande impulso allo sviluppo della giurisprudenza. Sdegnoso del nuovo ordine politico si diede tutto agli studi, intrattenendosi sei mesi all’anno a Roma per l’insegnamento e sei mesi in campagna per attendere alle sue opere. Non si è potuto determinare la villa dove egli si ritirava. Fu scolaro di Trebazio, ma udì inoltre i più celebri giureconsulti del tempo. LaBeone rappresenta nella storia della giurisprudenza un faro luminoso. I giureconsulti posteriori riportarono a dovizia dottrine e decisioni di lui, dalle sue opere che ammontano a 400 volumi. Si spiega bene, pertanto, che Labeone è rappresentato come il capo di una scuola cioè di un nuovo orientamento nella elaborazione degli istituti giuridici.

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Gellio ci descrive la personalità del grande giureconsulto e la sua larga preparazione letteraria, mediante la quale egli poté affrontare con nuove forze i più astrusi problemi giuridici. Pomponio (D. 1, 2, 2, 47) dice : « Labeo ingenii qualitate et fiducia doctrinae, qui et ceteris operis sapientiae operam dederat, plurima innovare instituit ». Egli sarebbe stato, quindi, un innovatore nel campo della scienza del diritto ; in contrapposto a Capitone, il quale, secondo il riferimento di PoMPo nIo , « in his, quae ei tradita fuerant, perseverabat ». Singolare la interpretazione della parola innovare data da Marchesi41 nel senso di ritorno all’antico. Nessuno degli argomenti che l’autore adduce ha per noi valore. Questa determinazione del carattere delle scuole, che viene da un giurista dell’epoca adrianea, dovrebbe avere un miglior fondamento di quanto non ne abbiano i caratteri escogitati dagli storici. In [67/68] proposito, le opinioni sono tanto varie da rappresentare tutta la gamma del possibile teorico. i proculiani si sono classificati ora stoici, ora idealisti, da altri anomalisti e da altri ancora sostenitori del ius strictum. In contrapposto, i sabiniani sarebbero stati epicurei o accademici, per altri naturalisti, per altri ancora analogisti42, o, infine, assertori dell’aequitas. La varietà delle opinioni non deve impressionare. Essendo le controversie sempre occasionali, nell’una o nell’altra di esse il contrasto può coincidere con quelle tendenze teoriche, assunte dagli indagatori come caratteri distintivi delle scuole. L’errore, dunque, consiste nel voler rinvenire un fondamento scientifico unico e costante in tutte le divergenze. Se questo non esiste, come è certo, la linea caratteristica segnata da Pomponio si manifesta più plausibile. È cosa certa che i sabiniani procedono con grande cautela e metodo nel promuovere l’avanzamento del diritto ; mentre i proculiani, specie Labeone e Celso figlio, si rivelano, più spesso, interpreti innovatori ed audaci, in aperto contrasto con la tradizione giuridica. Basterà qui ricordare il ius tollendi ammesso da Labeone e dalla scuola contro la disposizione delle XII Tavole, tignum iunctum aedibus ... ne solvito, ed il famoso constitutum possessorium creato da CeLSo (D. 41, 2, 18). C. MarcheSI , Storia della letteratura latina, II, p. 57. Ma vedi KüBLer , Geschichte, cit., p. 261, dove cita Schanz, e sopra p. 63 s., nt. 40. 41 (1/67).

42 (1/68).

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il materiale di controversie delle due scuole, messo finora in luce, quantunque non completo, permette l’affermazione precisa che tutte le divergenze fra le due scuole sono di indole positiva, non discendenti da tendenze varie teoriche o filosofiche. in particolare in alcuni casi si ricerca la soluzione di problemi complessi che presentano vari aspetti degni di considerazione e che possono far cadere la decisione in uno o in altro senso. Altre volte l’applicazione di un principio giuridico porta ad un risultato che non risponde ai bisogni pratici ovvero urta contro nuove correnti di idee o sentimenti più progrediti, ovvero ostacola il soddisfacimento di nuovi bisogni manifestatisi nello sviluppo economico e sociale. In tutti questi casi il contrasto è determinato dagli stessi fattori, dall’aspirazione ad una decisione più soddisfacente, la quale a volte contrastava fortemente la tradizione giuridica che veniva dall’antica giurisprudenza. Le controversie ancora visibili nelle fonti sono elencate dal LeneL 43. GaIo offre il materiale più abbondante e sicuro. Ma in realtà le controversie erano innumerevoli ; nelle opere dei giuristi nel Corpus iuris la maggior parte furono eliminate con tutti i mezzi ; a volte si scoprono mascherate dai comparativi verius est, magis est, o altre frasi di colore legislativo : ita utimur ; hoc iure utitur, placet, placuit. [68/69] oltre quelli già mentovati tenendo pur conto dei seguaci delle due scuole, i più celebri giuristi dell’epoca imperiale sono : MaSurIo S aBIno , che, primo fra gli equites, ebbe da Tiberio lo ius respondendi ; capo della scuola cui diede il nome, fu attivo come insegnante ed essendo povero visse delle offerte che gli venivano fatte dagli scolari (Pomp., D. 1, 2, 2, 48 e 50). Accanto a Labeone, sabino è il più grande giureconsulto del primo secolo ed ha per l’eccellenza delle sue opere una pagina d’oro nella storia della giurisprudenza. L’opera sua più celebre – libri III iuris civilis – fu fondamentale per tutta l’epoca classica, commentata ed elaborata dai giuristi del II e III secolo come un codice. Infatti i commentari di PoMPonIo , u LPIano e PaoLo ad Sabinum hanno per base quell’opera. 43 (2/68).

o. LeneL , Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae, 1889, c. 216.

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Si può quindi dire che tutta la giurisprudenza del I secolo è dominata dai due grandi nomi e dalle opere di Labeone e di Sabino. C. CaSSIo L ongIno , pronipote di Servio Sulpicio, era discendente del congiurato Cassio (Tac., Ann. 3, 76), fu console nell’anno 30, proconsole di Asia nel 41, governatore di Siria nel 49 ; esiliato da Nerone in Sardegna come rivoluzionario, morì sotto Vespasiano. Vivente ancora Sabino fu attivo come maestro, e, come fu detto sopra, da lui la Scuola trasse il secondo nome di Cassiana. SeSTo P edIo , vissuto sulla fine del I secolo e principio del II, scrittore elegante e teorico eminente, è più volte ricordato da Ulpiano con alta lode per le sue definizioni, tra le quali la più celebre riguarda la conventio riportata nel fr. 1, 3 D. 2, 14, e che può ben considerarsi come la più potente sintesi teorica della giurisprudenza nel campo delle dottrine civilistiche. GIavoLeno P rISco (Plinius, Ep. 6, 15, 2), console prima del 90, coprì uffici amministrativi e militari assai importanti ed è ricordato in un’iscrizione scoperta in Tunisia44. Successe a Celio Sabino come maestro e capo della Scuola Sabiniana. TIzIo a rISTone , amico di Plinio il Giovane, fu avvocato di grido, rispondente ricercato e consigliere di Traiano, apparisce scolaro di Cassio45 ma del resto nelle sue opere manifesta grande indipendenza di pensiero e una spiccata originalità. NerazIo P rISco , intimo dell’Imperatore Traiano che pensava di designarlo come successore al trono, fu membro del Consilium di traiano e di Adriano46, scrittore acuto e originale godette di molta autorità. GIovenzIo c eLSo figlio, console iterum nel 129, membro del Consilium di Adriano, uno dei più eminenti giuristi, insigne per sagacia, originalità e arditezza, celebre pure per le sue maniere rudi : un esempio in D. 28, 1, 27. SaLvIo g IuLIano , nato in Adrumeto, fu avo dell’imperatore Giuliano. Un’iscrizione rinvenuta il 9 luglio 1899 in Tunisia presso Susa ci dà [69/70] completi il nome e la carrie44 (1/69). Cfr. Un’iscrizione relativa a L. Javolenus Priscus, in B.I.D.R., 7, 1894, p. 202 [senza indicazione di Autore, ma v. scialoja, cfr. ivi, p. 320]. C.I.L. III, 2864. 45 (2/69). Cfr. fr. 40 D. 4, 8. 46 (3/69). Cfr. Hist. Aug. Hadriani, 18, 1.

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ra percorsa da Giuliano, di cui gli elementi principali sono i seguenti : L. Octavius Cornelius Salvius Iulianus Aemilianus : decemvir litibus iudicandis, quaestor Imp. Hadriani, tribunus plebis, praetor, praefectus aerarii Saturni et militaris, consul [forse nell’anno 148], pontifex, sodalis Hadrianalis, sodalis Antoninianus, curator aedium sacrarum, legatus Imp. Anton. Pii Germaniae inferioris, legatus Imp. Antonini Aug. et Veri Aug. Hispaniae citerioris, proconsul Provinciae Africae. Fu nel Consiglio di Adriano e l’ordinatore dell’editto perpetuo. Discepolo di Giavoleno, fu capo della scuola, celebrato con alte lodi dai contemporanei e da Giustiniano. L’opera sua nella storia della giurisprudenza è veramente poderosa, per larghezza di vedute, profondità di esame e logica vigorosa come in nessun altro giureconsulto. Capo della Scuola Sabiniana, con la sua rara dirittura di mente rompe i vincoli della tradizione di scuola, spesso accoglie dottrine dei Proculiani e determina con la sua autorità la cessazione di molte controversie tradizionali. La sua influenza presso i giuristi posteriori fu decisiva e direttrice e diede alla giurisprudenza grande impulso e più larghi orizzonti. Morì in tarda età, forse prima del 169. S. CecILIo a FrIcano fu scolaro di Giuliano di cui molte dottrine derivate dalla scuola pubblicò nella sua opera quaestionum libri IX. Fu giureconsulto acuto, apprezzato dai contemporanei tanto che GeLLIo (Noct. Att. 20, 1) lo fa disputare come rappresentante della scienza del diritto contro il filosofo Favorino sui pregi delle XII Tavole. Il suo stile fu giudicato oscuro e fa spesso difficoltà, onde presso i Glossatori si diffuse l’opinione e il detto : Africani lex, id est difficilis. in verità se il senso delle leggi di AFrIcano offre di sovente grandi difficoltà di interpretazione, ciò si deve in gran parte alle alterazioni e soppressioni operate dai compilatori nell’opera quaestionum, che conteneva ampie trattazioni di carattere dommatico sui vari istituti giuridici. or appunto in questo genere di opere la soppressione e lo spostamento di un periodo o di un qualsiasi elemento veniva a turbare la struttura e la concatenazione degli argomenti, rendendo la dimostrazione a volte monca ed altre volte contraddittoria ed anche incomprensibile. Altri giuristi possono essere ricordati più rapidamente. SeSTo P oMPonIo fu attivo soltanto come professore sotto

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Adriano fino ai Divi Fratres. Come scrittore raccolse in opere vaste responsi e dottrine dei giureconsulti più antichi di cui egli mostra di possedere una conoscenza diretta. Come giurista non fu di grande valore, ma il giudizio del MoMMSen 47, che lo qualificò ignorante, è esagerato, perché in ogni caso si deve considerare che le opere [70/71] dei giureconsulti sono a noi pervenute attraverso molteplici alterazioni e manomissioni. GaIo : la sua attività scientifica si svolse fino all’anno 178 ; compilatore come il suo contemporaneo Pomponio, le sue trattazioni hanno pure carattere storico e dommatico e per molti segni apparisce di sovente ignaro del movimento giuridico del suo tempo. Specialmente nelle institutiones, egli segue un esemplare del sec. I, e da alcuni si è voluto spiegare il fatto che egli mai è citato dai giuristi romani con l’ipotesi che abbia svolto la sua attività in provincia, secondo il MoMMSen in Asia. egli deve la sua celebrità all’opera suddetta che ha il pregio di essere piana, lucida e organica onde si diffuse in tutte le scuole dell’Impero. Specialmente nell’epoca post-classica fu ritenuto uno dei corifei della giurisprudenza romana. ULPIo M arceLLo fu nel Consilium di Antonino Pio e di Marco Aurelio, scrittore acuto, originale, molto chiaro. Appose note critiche ai digesta di Giuliano, per cui nel medio evo, e pur dal CuIacIo , fu ritenuto perpetuus censor del grande giureconsulto, ma senza plausibile fondamento. Q. CervI dIo S cevoLa fu nel Consilium di Marco Aurelio e si ritiene maestro di Settimio Severo e di Papiniano. Fu giureconsulto acuto, nei responsa molto conciso, formulati con un’arte meravigliosa nel riferire gli elementi essenziali del caso, in modo che la decisione ne discende in maniera naturale, contenuta per lo più in una sola parola o frase. EMILIo P aPInIano ebbe rapporti di parentela con l’imperatore Settimio Severo. Forse originario della Libia. Percorse splendida carriera e dal 203 fino alla morte fu praefectus praetorio. Presso la posterità Papiniano fu qualificato come il principe dei giuristi romani, primus omnium. Certamente fu un grande giurista. Sagace 47 (1/70). Staatsrecht, 3a ediz., vol. II, p. 163 ; v. anche Sextus Pomponius, in Zeitschrift für Rechtsgeschichte, 7, 1868, p. 474 ss. 48 (1/71). Su Papiniano scrisse un’opera vasta E. Costa, pregevole solo per la ricchezza del materiale.

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giureconsulto sa con incomparabile finezza porre in rilievo tutte le particolarità del caso, ha la percezione rapida e profonda, completa e precisa ; il suo stile è denso di idee, la lingua è nobile, la frase limpida e le sue decisioni sempre ispirate alla realizzazione della più perfetta equità48. Il suo carattere altamente morale si rivela anche nei suoi scritti, specialmente in un celebre testo, spesso citato, in cui egli scrisse : « quae facta laedunt pietatem existimationem verecundiam nostram et, ut generaliter dixerim, contra bonos mores fiunt, nec facere nos posse credendum est » (fr. 15 D. 28, 7). La critica odierna, sconsiderata come spesso, ha attribuito questo brano ai bizantini. senza riflessione, perché nessun giurista usa così di frequente la parola verecundia come Papiniano49 e così pure la parola pietas nel senso classico di ossequio, riverenza, dovere, benevolenza. La genuinità del testo è difesa ora da Beseler 49bis. [71/72] DoMIzIo u LPIano ebbe origine fenicia (Ulp., fr. 1 pr. D. 50, 15), pervenne sotto Alessandro severo alla carica di praefectus praetorio. Fu fido consigliere di Alessandro, funzionario rigido, ucciso dai pretoriani nel 228. Scrittore fecondo egli abbraccia nelle sue opere quasi intiero il campo del diritto. Compilatore brillante non solo per le doti dell’ingegno, ma pur per la chiarezza e l’accuratezza dell’esposizione. Il giudizio sfavorevole del PernIce 50 su questo giurista non è stato seguito. Meravigliosa è la sua attività di scrittore, che è contenuta nello spazio di appena un ventennio. Infatti tutte le sue opere, circa 287 libri, furono scritte o rivedute sotto il regno di Severo e di Caracalla. Egli trasse il materiale principalmente dalle opere di Celso, Giuliano, Pomponio, Marcello, con lo scopo evidente di presentare un quadro completo della scienza del diritto per i bisogni della pratica. Il suo disegno può ritenersi riuscito, anche per i pregi del suo stile spesso sovrabbondante, ma sempre agile ed elegante. Le sue opere ebbero nella pratica grande autorità, molto diffuse nei paesi di oriente, come è provato, oltre che dai frammenti siCfr. KaLB , Roms Juristen, cit., p. 108. In B.I.D.R., 53-54, 1948. 50 (1/72). A. PernIce , Ulpian als Schriftsteller (Sitzungsberichte der preuss. Akad. d. Wissenschaft, Berlin, 1885, p. 445). V. contro anche P. j örS , Domitius Ulpianus, in R.E. Pauly-Wissowa, V, 1, Stuttgart, 1903, c. 1456 ss. 49 (2/71). 49bis

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naitici, che provengono dalla Scuola di Berito, da residui delle sue opere rinvenuti in Egitto51. Ben a ragione, quindi, esse costituirono la base più larga della compilazione di Giustiniano nella quale furono raccolti 2462 frammenti estratti delle sue opere. GIuLIo P aoLo , cui una tradizione recente attribuisce per patria Padova, da altri ritenuto senza alcun fondamento d’origine fenicia, fu sotto Alessandro severo praefectus praetorio. Fu giurista di valore, pensatore acuto, più indipendente di Ulpiano, con tendenze teoriche spiccatissime. Il giudizio di JherIng 52, che lo disse fanatico costruttore, è esagerato. È il più fecondo scrittore di tutti i giureconsulti romani ; scrisse infatti più di 319 libri, e delle sue opere 2080 frammenti furono accolti nei Digesti. Il suo stile è spesso duro, ma si esagerò in ogni tempo qualificandolo come cattivo scrittore53. La sua produzione scientifica si inizia sotto Commodo e consistette dapprima in note apposte ad opere di pregio, in rielaborazioni ed epitomi di opere di giuristi più antichi, cui seguirono, poi, i vasti commentari ad edictum e ad Sabinum. Dopo ALeSSandro S evero non si riscontrano più nomi di giureconsulti degni di considerazione. [72/73] § 14. L’attività dei giuristi. Il numero dei giureconsulti romani che ci sono noti, del tempo della Repubblica e dell’Impero, a datare da SeSTo e LIo P eTo c aTo , ammonta a novantadue. L’elenco alfabetico e cronologico è contenuto nella Palingenesia del LeneL (II, c. 1241 ss. e c. 1245 ss.). Di essi ventidue appartengono alla Repubblica e settanta al periodo dell’Impero. La diffe51 (2/72). I più recenti residui venuti alla luce in questi ultimi anni furono già illustrati dal de zulueta, cfr. s. R[IccoBono ], Nuovi frammenti giuridici latini rinvenuti in brani di papiri, in B.I.D.R., 43, 1935, p. 408 ; F. de z uLueTa , P. Ryl. III, 474 Fr. B. Recto L. i , i Dig. XII, I De rebus creditis, ivi, 45, 1938, p. 380 s., e I d ., P. Ryl. III. 474 : New Fragments of Ulpian ad edictum, in Studi di storia e diritto in onore di E. Besta per il XL anno del suo insegnamento, I, Milano, 1939, p. 137 ss. 52 (3/72). R. von j herIng , Besitzwille, Jena, 1889, p. 274. V. contro SoKo LoWSKI , Die Philosophie, cit., I, p. 345. 53 (4/72). Invece è reputato scrittore elegante dal KüBLer , Geschichte, cit., p. 283 ; cfr. anche KaLB , Roms Juristen, cit., p. 135 ss.

L’attività dei giuristi

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renza a riguardo del numero dei giuristi, dato dagli storici, dipende dal fatto che alcuni nomi (es. quello di VITeLLIo ) è dubbio se debbano considerarsi come giureconsulti. Della loro vita sappiamo ben poco, ed in generale solo quel tanto che si può ricavare dalle loro opere. Gli storici, infatti, e le iscrizioni ricordano solo quelli che coprirono alte cariche dello Stato. Di altri in numero di circa cinquanta ci sono noti solo i nomi per citazioni di giuristi. Nella compilazione di Giustiniano furono utilizzate le opere di trentanove giuristi (per altri, di quaranta compreso VITeLLIo ), dei quali trentatré appartengono all’Impero. Data però la continuità dell’opera letteraria dei giuristi, che sarà illustrata più oltre, si può ben dire che a noi è pervenuto per mezzo della raccolta di GIuSTInIano il meglio della loro produzione. I giuristi furono in ogni tempo quasi tutti applicati alla pratica, sia come adsessores di decidenti o di magistrati, e ciò specialmente nell’inizio della loro carriera, sia come giudici o come avvocati : i migliori, nell’Impero, privilegiati del ius respondendi o chiamati nel Consilium Principis ; molti, attivi nella carriera politica, della quale percorsero i vari gradi, prima nei diversi rami dell’anministrazione e poi pretori, consoli, governatori di provincia, Prefetti del Pretorio (P aPInIano , u LPIano , P aoLo ) ; e infine come consulenti o docenti. i giuristi costituirono in Roma la classe più elevata nella vita pubblica. Il contrasto con la Grecia è in ciò rimarchevole. Questa, infatti, non solo non ebbe una scienza del diritto, ma di più i legisti di professione vi furono calcolati quali infimi homines mercedula adducti (Cic., De or. 1, 45, 198)54. La Giurisprudenza del periodo dell’Impero, continuando l’opera e le tradizioni dei giuristi repubblicani, ha compiuto il lavoro più arduo e fondamentale, sia riguardo alla classificazione sistematica della materia, ed ancora più per l’elaborazione delle teorie interne degli istituti giuridici. Essa ha via via elaborati e sviluppati non solo gli ordinamenti del ius civile o del ius honorarium, ma tutti i vari elementi che la prassi giudiziaria e quella della cognitio imperiale venivano assommando. [73/74]

54 (1/73).

Cfr. W ILaMoWITz -M oeLLendorFF , Aristoteles und Athen, I, cit.

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§ 15. I giuristi come scrittori. Ma sopratutto mirabile fu l’attività dei giuristi come scrittori ; per cui nel corso di tre secoli, da CIcerone ad ALeSSan dro S evero , essi crearono quella immensa letteratura giuridica, fulgida espressione del genio latino, la quale ha avuto nella storia vicende straordinarie e propagato nel mondo insieme alla scienza del diritto il senso dello Stato, la forza della disciplina pubblica e privata e tutta la civiltà di Roma. Le pubblicazioni dei giuristi veteres ebbero un carattere esclusivamente pratico e consistevano in raccolte di formulari e di responsi. Di esse abbiamo già segnalato alcuni esempi e l’opera di SeSTo e LIo , tripertita. Dall’epoca di CIcerone ebbe un grande impulso la trattazione scientifica del diritto, principalmente rappresentata da due grandi nomi, Q. MucIo S cevoLa e ServIo S uLPIcIo . Da questo momento in poi la produzione giuridica ha un grande sviluppo, che segue le vicende della storia, l’espansione della potenza di Roma, e l’accrescimento continuo della cultura e dei commerci. La grande varietà di opere giuridiche si può dividere nelle seguenti classi : a) Opere sistematiche del « ius civile ». Qui vanno annoverati i libri iuris civilis di Q. MucIo , i 3 libri di MaSSurIo S aBIno , i libri 15 di CaSSIo , opere che ebbero un grande influsso sulla giurisprudenza posteriore. Per la ricostruzione dei sistemi seguiti in quelle opere non si hanno elementi sicuri. Si è peraltro potuto constatare che l’ordine della trattazione presentava notevoli variazioni. Così il sistema dell’opera muciana si distacca da SaBIno , il quale a sua volta si differenzia da quello di CaSSIo 55. Alla stessa categoria appartengono i libri institutionum che offrono una breve e succinta esposizione sistematica del diritto civile per le scuole ; fra questi sono celebri i quattro libri di GaIo , a noi pervenuti quasi integri nel manoscritto veronese dove, peraltro, non è riportato il titolo dell’opera, che si suppone con buon fondamento, institutionum commentarii quattuor. 55 (1/74).

LeneL , Das Sabinussystem, cit., p. 93 ss.

I giuristi come scrittori

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L’ordine della trattazione è tripartito : personae, res, actiones. Si ritiene che questo eccellente sistema, in cui il diritto privato e processuale, il ius civile e praetorium sono esposti fusi in un solo corpo, non sia originale di GaIo , che scrisse sotto gli Antonini, ma tralaticio nella scuola sabiniana e, secondo alcuni, creato da CaIo c aSSIo . Scrissero inoltre libri institutionum, FIorenTIno 12, UL PIano 2, PaoLo 2, MarcIano 16. I libri regularum, affini alla classe or ora detta, contenevano una esposizione ordinata di principî fondamentali di diritto ; così l’opera di NerazIo in [74/75] 15 libri, di MarcIano in 5, di ULPIano in 1 libro, questo a noi pervenuto in un rifacimento post-classico. Dello stesso tipo sono i libri definitionum, raccolte di principî generali in forma concisa e senza un sistema prestabilito, così l’opera ὅρων che va sotto il nome di Q. MucIo e l’opera più larga di PaPInIano , definitionum, libri 2. Libri sententiarum erano manuali di diritto destinati, come sembra, alla pratica, di cui abbiamo quasi interamente, ricomposta dalla parte conservata nella lex Romana Visigothorum e da frammenti del Digesto, l’opera di PaoLo , sententiarum, libri 5, ad filium. LaBeone scrisse un’opera, pithaná, cioè una raccolta di principî ricevuti nella pratica, della quale nei Digesti sono riportati 34 frammenti con note critiche di PaoLo . b) Commentari di diritto civile. In questa classe prendono il primo posto gli ampi commenti ad Sabinum di PoMPonIo libri 36, di ULPIano 51, di PaoLo 16. I libri digestorum comprendono tutto il campo del diritto civile ed onorario esposto secondo un dato sistema : digerere infatti significa ordinare, esporre sistematicamente. ne scrissero AL F e n o v a r o libri 40, contenenti gli insegnamenti di servio sulpicio, e poi Au F I d I o n a M u S a , che secondo Pomponio (D. 1, 2, 2, 44) ordinò gli scritti degli auditores Servii in 140 libri, GI o v e n z I o c e L S o 39, Sa Lv I o g I u L I a n o 90, Ma r c e L L o 31, Ce rv I d I o S c e v o L a 40. L’ordinamento delle materia era vario prima di Adriano ; ma dopo la pubblicazione dell’Editto Perpetuo, in queste opere è seguito nella prima parte l’ordine dell’E-

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La giurisprudenza

ditto, che divenne la base di tutte le opere giuridiche romane56. Il contenuto di queste trattazioni abbracciava tutto il campo del diritto : ius civile, ius praetorium, leges e senatusconsulta. Ma non di meno è erronea l’opinione del MoMMSen , il quale ritenne in generale che il titolo libri digestorum indicasse la raccolta ordinata di tutti gli scritti di un giurista o di una classe di giuristi. c) Libri ad Edictum. Contengono commenti dell’Editto. Il primo commentario in 2 libri fu scritto da ServIo S uLPIcIo , altro più largo e molto accurato (diligenter secondo Pomponio, D. 1, 2, 2, 44) da oFILIo . Nell’epoca imperiale vanno ricordati quelli di LaBe one ad edictum praetoris urbani e ad edictum praetoris peregrini, quelli di CeLIo S aBIno ad edictum aedilium curulium ; di MaSurIo S aBIno ad edictum praetoris urbani e un’ampia trattazione di SeSTo P edIo forse in 25 libri. Dopo la codificazione dell’Edictum perpetuum fatta da AdrIano , i commentari prendono un grande sviluppo. GaIo scrisse ad edictum [75/76] praetoris urbani, libri 2 ad edictum aedilium curulium, libri 30 ad edictum provinciale. PoMPonIo ne fece una trattazione amplissima, della quale è ricordato il libro 83 ; PaoLo libri 78 ad edictum praetoris e 2 ad edictum aedilium curulium, ed inoltre un manuale più breve in 23 libri dal titolo brevis edicti, ovvero brevium57, ULPIano libri 81 ad edictum praetoris e 2 ad edictum aedilium curulium. I giuristi romani non poterono organizzare la materia dell’Editto sistematicamente, perché, come bene nota il LeneL 58, avendo assunto la funzione di un codice, era utile per la pratica che i commenti seguissero l’ordine dell’opera, quantunque sostanzialmente molto disordinata. d) Trattati su parti del diritto e monografie. Molto ricca la letteratura destinata ad illustrare singoli istituti o leggi o senatoconsulti. La lex XII Tabularum oltre 56 (1/75). Cfr. il quadro delle rubriche dei libri digestorum e così dei libri quaestionum responsorum sententiarum similiumque in LeneL , Palingenesia, cit., II, Indices, IV, c. 1255-56. 57 (1/76). Probabilmente si tratta di un’epitome post-classica. 58 (2/76). o. LeneL , Das edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig, 1927, p. 14-30.

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che da SeSTo e LIo nell’opera tripertita, sopra citata, fu illustrata e commentata da L. ELIo S TILIcone P reconIno da Lanuvio, maestro di Varrone e di CIcerone , che la commentò forse dal lato filologico ; e poi da servIo , da LaBeone , da GaIo , della quale opera in 6 libri sono riportati nei Digesti 20 frammenti. Dei commenti alle leges vanno ricordati specialmente quelli ad legem Iuliam et Papiam, di GaIo in 15 libri, di MarceLLo in 6, di MaurIcIano in 6, di TerenzIo c LeMenTe in 20, di PaoLo in 10, di ULPIano in 20. Del resto tutte le leggi furono commentate più o meno ampiamente e così tutti i senatusconsulta in opere speciali o generali, come quella di PoMPonIo de senatus consultis libri V. Dei commentari a singoli istituti vanno ricordati : ServIo , de dotibus ; SaBIno , de furtis ; PedIo , P oMPonIo , o TTaveno , de stipulationibus ; NerazIo , de nuptiis. Specialmente PaoLo scrisse un numero considerevole di trattati e monografie ; anche di un’opera de conceptione formularum si ha traccia nella iscrizione del fr. 20 D. 44, 1. e) Libri responsorum. Costituiscono un ramo perspicuo della produzione giuridica romana, contenente raccolte di pareri in casi pratici. Per lo più le consultazioni sono esposte in forma succinta, senza citazioni di contrarie opinioni e senza motivi della decisione. Caratteristici quelli di ScevoLa e di PaPInIano per la forma stringata. Questa forma di letteratura era già in uso presso i veteres, TIBerIo c oruncanIo , SeSTo e LIo , P. Mu cIo S cevoLa , ManILIo , CaTone il minore e BruTo ; e poi AquILIo g aLLo , Q. MucIo , ServIo , oFILIo , TuBerone , Ca SceLLIo , TreBazIo , tutti spesso citati. È naturale che col privilegio accordato nell’Impero ai giuristi di [76/77] rispondere ex auctoritate Principis, queste collezioni ebbero un grande incremento, onde le raccolte sono numerose e tutte di notevole importanza. Qui vanno notate raccolte di LaBeone , di SaBIno , di Ne razIo , di MarceLLo , di C. ScevoLa , 19 libri di PaPInIano , 23 di PaoLo , 19 di ModeSTIno . f) Libri epistularum. Contengono pure, di regola, responsi dati per lettera e spesso sopra quesiti anche teorici. L’uso delle epistole come

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forme di trattazione delle varie materie era molto diffuso in Roma59. GeLLIo ricorda quelle di Varrone su questioni grammaticali e antiquarie. Caratteristiche alcune lettere che leggiamo nei Digesti. Una scritta da un vecchio nel suo settantottesimo anno a PoM PonIo (fr. 20 D. 40, 5), in cui il buon uomo dice che la sola ragione di vivere a quell’età è la cupiditas discendi, e ricordando una sentenza greca soggiunge che pur avendo un piede nel sepolcro desidera di apprendere qualche cosa. Un’altra diretta a ProcuLo (fr. 13 D. 8, 2) nella quale il postulante prega il giurista di trattare col suo vicino, che aveva costruito un bagno attiguo alla parete comune, e persuaderlo a non fare cosa contraria al diritto. ScevoLa (fr. 61, 1 D. 44, 7) riporta una lettera di una donna scritta in termini troppo calorosi ad un suo liberto invitandolo ad assumere servizio presso di lei. ProcuLo (fr. 55 D. 41, 1) in una epistula tratta con grande originalità dell’acquisto del possesso del cinghiale caduto nei lacci disposti dal cacciatore. Celebre una lettera di CeLSo (fr. 27 D. 28, 1) per la durezza della risposta del giurista a certo Domizio Labeone nei seguenti termini : « non intellego quid sit, de quo me consulueris, aut valide stulta est consultatio tua : plus enim quam ridiculum est dubitare ... ». Da questo esempio si formò nel medio evo il detto : responso celsino = sgarbato ; domanda domiziana = stupida. Ma è curioso che interpreti moderni trovano che CeLSo aveva torto e che non avesse capito la domanda. Di epistole fra giuristi in rapporto a casi pratici si hanno pure esempi, così di Aristone a nerazio60. Raccolte di epistulae sono quelle di ProcuLo , libri 11, celebri per la larghezza delle indagini motivate. Altre volte le epistulae presentano casi proposti da auditores e assumono figure di trattazioni teoriche ; così i 14 libri di g IavoLeno ed i 20 di PoMPonIo . g) Libri quaestionum. Anche queste raccolte riportano responsi dei giuristi più celebri, e sono costituite da trattazione d’indole teorica so59 (1/77). Cfr. N. FeSTa , La letteratura nell’età di Augusto, in Augustus, cit., p. 253 s. 60 (2/77). Cfr. fr. 3 D. 20, 3 ; fr. 46 D. 40, 4.

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pra casi pratici o finti, con analisi e discussioni dei pareri contrari, citazioni di leggi, di costituzioni e di senatoconsulti. [77/78] Spesso il caso pratico viene ampliato con altri elementi, per mettere meglio in evidenza nell’indagine quelli che possono influire per la decisione in un senso o in un altro. Si ricordano quelli di CeLSo , di FuFIdIo , di a FrIcano libri 9, nei quali erano esposte questioni trattate da GIuLIano nella scuola, di ScevoLa 20, di TerTuLLIano 8, di PaPInIano 37. Tali trattati, che assumevano spesso carattere teorico, a volte vertevano su argomenti speciali, come quaestionum de fideicommissis libri XVI di MecIano . h) Libri disputationum. Hanno stretta relazione con i libri quaestionum sia per il contenuto come per il metodo della trattazione. La disputatio però è più particolarmente derivata dall’insegnamento e riproduce discussioni svolte nell’auditorium61. Ne scrisse TrI FonIno libri 21, ULPIano libri 10. i) Opere concernenti il diritto pubblico. oltre ai commenti alle leges che riguardavano più o meno direttamente istituti di diritto pubblico, i giuristi trattarono in numerose monografie : 1) il diritto amministrativo, giudiziario ecc., esponendo in maniera speciale la competenza dei singoli magistrati : così libri de officio proconsulis di PaoLo , di ULPIano , di VenuLe Io , de officio praefecti urbi di ULPIano e di PaoLo ; de officio consulis di MarceLLo , di ULPIano ; de omnibus tribunalibus di ULPIano . Alcuni titoli di queste opere passarono nelle rubriche del Digesto di Giustiniano62. È naturale però che i testi accolti subirono gravi alterazioni ed omissioni, in rispondenza al mutamento essenziale che era avvenuto, specie con DIocLezIano , rispetto alla competenza delle varie magistrature ed ai nuovi organi amministrativi e giudiziari. Specialmente il titolo de officio praetorum (D. 1, 14) fu reso affatto miserabile ;

61 (1/78). 62 (2/78).

Cfr. fr. 78, 4 D. 23, 3. Cfr. rubriche 10-22 D. 1.

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2) diritto militare : de re militari trattarono TarrunTenIo P aTerno in libri 4, Menandro e Macro ; 3) del diritto fiscale scrissero ULPIano nell’opera de censibus in 6 libri ; PaoLo , 2, de iure fisci ; CaLLISTraTo , 4 ; Ma cro , ad legem vicesimam hereditatium, 2 ; 4) le trattazioni di diritto penale sono naturalmente numerose. Specialmente la lex Julia de adulteriis fu oggetto di vari commenti da parte di giuristi dell’epoca dei Severi, che da Papiniano ricevettero impulso alla trattazione del diritto punitivo, anche di quello militare. Notevoli le opere di Pa PInIano , libri 2 de adulteriis ed inoltre un liber singularis ; P aoLo , 3 libri, ed inoltre un liber singularis ; ULPIano libri 5. Delle pene trattarono VenuLeIo , M arcIano , P aoLo , M odeSTIno con [78/79] distinzione delle pene militari e pagane, spesso in monografie separate. L’esposizione riguardava il diritto processuale e insieme quello materiale ; MecIano scrisse libri 14 de iudiciis ; PaoLo , de extraordinariis criminibus. l) Brevi manuali furono scritti in lingua greca63 determinati evidentemente dall’ufficio ricoperto dai giuristi nelle Provincie o per uso di funzionari provinciali o municipali ; così PaPInIano scrisse un libro ἀστυνομικός in cui il giurista trattava della sorveglianza di strade, fiumi, canali da parte dei magistrati municipali. ModeSTIno scrisse 6 libri de excusationibus in greco. Ma pure nelle opere di ScevoLa , di PaoLo e di Mode STIno ricorrono casi pratici in greco, riferiti naturalmente a interessi dei Greci o delle provincie orientali. De lege Rhodia : il diritto marittimo fu commentato da MecIano in lingua greca. Lo stesso giurista scrisse per Mar co a ureLIo , cui impartì l’insegnamento della giurisprudenza, un libretto sulla divisione dell’asse : assis distributio. m) Collezioni di costituzioni imperiali e decisioni del senato. Di ArISTone è ricordata un’opera dal titolo decreta Frontiana, che era probabilmente una raccolta di decisioni del Se63 (1/79). Ciò nega H. Krüger , Römische Juristen und ihre Werke, in Studi Bonfante, II, Milano, 1930, p. 314 ss., enunciando il sospetto che si tratti di raccolte e traduzioni bizantine.

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nato, rese in cognizione d’appello, durante il consolato di G. Frontone (100 d. C.) ; PaPIrIo g IuSTo , forse sotto Marco a ureLIo , fece la prima raccolta di costituzioni imperiali in libri 20 nei quali erano di regola riportate in sunto le decisioni dei divi fratres e di Marco Aurelio. PaoLo pubblicò libri 3 decretorum e libri 6 imperalium sententiarum in cognitionibus prolatarum. Delle udienze imperiali abbiamo nei Digesti esempi perspicui, con i verbali della cognizione imperiale e le decisioni64. n) Opere annotate ed Epitomi. Importante è l’attività dei giuristi rivolta ad annotare o commentare opere di giureconsulti precedenti, sia in forma di brevi note critiche o delucidative per il contenuto, sia in forma di commenti più larghi all’opera originale, con citazione di altri autori, di decisioni imperiali e aggiunte varie. Si avverta che nella compilazione di GIuSTInIano le note per lo più furono eliminate, fuse col testo, appunto per far scomparire nella codificazione le divergenze dottrinarie. Un esempio celebre si vede ancora dal confronto dei fr. 80 e 83, D. 23, 3, estratti dall’opera di g IavoLeno , ex posterioribus Labeonis. [79/80] Nel primo caso, cioè dell’aggiunta di semplici note, al testo annotato seguiva il nome dell’annotatore accompagnato dal verbo notat : es. Iulianus notat. opere di questa categoria sono : le note di ProcuLo a Labeone, le quali secondo il Bremer furono pubblicate a parte ; di MarceLLo e di PaoLo ai digesta di Giuliano ; di TrIFonIno ai digesta di Scevola65 ; di Paolo ai responsa di ScevoLa ; di ULPIano e di PaoLo ai libri responsorum di Papiniano66 e poi IuLIanuS ad Urseium Ferocem, IuLIa nuS , libri 6, ad Minicium. Dell’opera di ServIo , ricordata 64 (2/79). Cfr. fr. 3 D. 28, 4 di Marcello ; D. 28, 5, 93 (92) di Paolo. Rispetto alle raccolte ufficiali ed alla conservazione degli atti imperiali nel tabularium, notizie particolareggiate offre ora R. oreSTano , Il potere normativo degli imperatori e le costituzioni imperiali. Contributo alla teoria delle fonti del diritto nel periodo romano classico. Nota prima, Roma, 1937, p. 73 s. 65 (1/80). A torto lo schuLz , Überlieferungsgeschichte der Responsa des Cervidius Scaevola, in Symbolae Friburgenses in honorem Ottonis Lenel, Leipzig, 1931, p. 178 ss., ritiene queste note di origine post-classica. 66 (2/80). Sulle note di Paolo e di Ulpiano ai responsa di Papiniano, cfr. Krüger , Römische Juristen, cit., p. 303 ss.

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da Gellio e da Paolo67, dal titolo notata Mucii ovvero reprehensa Scaevolae capita, non ci è nota la forma. Nel secondo caso le aggiunte erano diffuse, con dilucidazioni critiche, nuovi esempi, autorità di giuristi e imperatori, per illustrare o combattere la decisione che trovavasi esposta nell’opera originale. Appartengono a questa categoria le opere di PaoLo , ad Neratium, e ad Plautium libri 18. Ma altre volte la pubblicazione assume la forma di un’opera originale del giurista, eseguita su di un modello più antico, non solo per l’ordine delle materie, ma anche per il contenuto delle dottrine. In questo caso il testo più antico è riferito, premesso il nome del giureconsulto, col verbo : ait, scribit, ovvero in forma diretta, premesso il solo nome : es. Labeo ..., cui seguono poi le osservazioni e aggiunte di elementi svariati del giurista. A questa categoria appartengono gli ampi commentari di P oMPonIo , ad Q. Mucium libri 39. S’intende che nella compilazione di Giustiniano sono di preferenza accolte più largamente le aggiunte inserite dai giuristi posteriori. In certo senso potrebbero anche qui essere annoverati i libri di PoM PonIo , di ULPIano e di PaoLo , ad Sabinum, avvertendo che in queste tre opere la trattazione è ordinata in modo così ampio, che l’esemplare di SaBIno , quantunque accolto nel testo, non domina l’esposizione. Epitomi. Altre volte i giuristi posteriori estraggono sunti dalle opere esistenti, riportandone i casi e le dottrine più salienti, i responsi più notevoli ; ed allora l’opera è designata dalla preposizione ex, così Iavolenus ex Cassio, libri 15 ; Iavolenus ex Plautio, libri 5. Lo scopo è evidente. L’epitomatore vuole estrarre dall’opera i punti più notevoli o adatti alla pratica o alla discussione. Le opere di questa classe sono molte : vi appartengono, oltre quelle or ora [80/81] citate, i Digesti di ALFeno epitomati da Paolo ; Iavolenus ex posterioribus68 Labeonis libri 10 ; Pomponius ex Plautio, libri 7. Gellio, Noct. Att. 4, 1, 20 ; Paolo, fr. 30 D. 17, 2. Quest’opera nelle iscrizioni dei frammenti dei Digesti di Giustiniano è citata pure in altra forma, Labeo libro ... posteriorum a Javoleno epitomatorum, onde il BLuhMe ritenne che Giavoleno avesse fatto due epitomi della celebre raccolta Labeoniana ; contra A. Berger , Contributi 67 (3/80).

68 (1/81).

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o) Repetitae praelectiones. Si hanno pure esempi di seconde edizioni delle opere giuridiche. Così GIuSTInIano (cost. Cordi 3) dà notizia d’una seconda edizione dei libri ad Sabinum di ULPIano 69, ed anche dei libri ad edictum è probabile che ULPIano abbia rielaborata l’opera sotto Caracalla e in parte dopo la morte di questo imperatore70. p) Opere postume. L’opera più celebre è quella di LaBeone , posteriorum libri, forse 40, ma s’ignora chi ne abbia curata la pubblicazione (Gellio, Noct. Att. 13, 10, 2). Schulz ora assume che anche il celebre scritto di GaIo , le institutiones, sia stato pubblicato dopo la sua morte. L’elenco completo delle opere dei giureconsulti romani nell’ordine alfabetico degli autori è riprodotto dal Lenel71. L’indice delle opere e dei libri adoperati nei Digesti di Giustiniano è dato nell’ordine alfabetico degli autori da Paul Krüger72. La ricostruzione di tutte le opere dei giuristi romani con i frammenti raccolti da tutte le fonti fu fatta dal LeneL 73. Le opere dei giuristi prima di Adriano furono raccolte dal BreMer 74. L’analisi più completa e progredita di tutte le opere dei giuristi, critica e vicende delle medesime, si trova oggi fatta dallo stesso Schulz nella History citata. La parte migliore di tutta la produzione giuridica romana fu conservata da Giustiniano nella compilazione del sec. vi. Alcuni residui delle opere originali sono a noi pervenuti direttamente spesso in forma di epitomi o di raccolte per uso della pratica. Completa e nella sua forma genuina ci è perve-

alla storia delle fonti e della giurisprudenza romana, in B.I.D.R., 44, 19361937, p. 91 ss., e autori ivi citati, ma vedi SchuLz , History, cit., p. 209. 69 (2/81). Cfr. LeneL , Paligenesia, cit., II, c. 1019, nt. 2. 70 (3/81). Cfr. T h . K IPP , Geschichte der Quellen des römischen Rechts, 2a ed., Leipzig, 1903, p. 122 s., nt. 53. 71 (4/81). LeneL , Palingenesia, cit., II, Indices, I, c. 1241 ss. 72 (5/81). K rüger nella edizione dei Digesta : Additamenta, II, p. 932 ss. 73 (6/81). Palingenesia, cit. 74 (7/81). B reMer , Iurisprudentiae antehadrianae, cit.

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nuta soltanto l’opera di GaIo , più volte mentovata, scoperta nel 1816 nella Biblioteca Capitolare del duomo di Verona, dove si conserva. La raccolta completa della letteratura giuridica antegiustinianea è stata curata pure in Italia75. [81/82] § 16. Caratteristiche delle opere dei giuristi. Come si vede dalla rassegna fatta, la letteratura romana presentava le forme più svariate di trattazioni giuridiche non dissimili né inferiori per la varietà da quelle del mondo moderno : trattazioni teoriche, manuali, collezioni di casi pratici, monografie su singoli istituti o parti del diritto, commenti a tutte le leggi ecc. La letteratura del tempo della Repubblica è andata perduta, e si disse già che essa in buona parte non pervenne nemmeno ai giuristi dell’Impero. Ma quella che circolava nel mondo romano era tuttavia immensa e Giustiniano usa l’espressione che delle opere dei giuristi si potevano caricare cammelli. Tutta la produzione, del resto, ha dal punto di vista formale una caratteristica che va posta in rilievo, e cioè la continuità della tradizione, dalla Repubblica al tempo dei Severi, onde si spiega che i giuristi posteriori copiano liberamente le trattazioni corrispondenti dei giuristi anteriori, aggiungendo poi il proprio contributo con citazioni di opinioni e decisioni più recenti, di controversie e di costituzioni imperiali76. Nelle materie giuridiche il copiare ad litteram un esemplare aveva un grande vantaggio e costituiva una necessità, appunto perché la relazione di casi pratici, le decisioni e i motivi dovevano essere riferiti fedelmente. Questo noi possiamo constatarlo nei casi in cui vari giuristi citano uno stesso punto di una 75 (8/81). Fontes iuris Romani antejustiniani. Ediderunt S. Riccobono, J. Baviera, C. Ferrini, J. Furlani, v. Arangio-Ruiz, 2a ed., I-III, Florentiae, 1940-1943. 76 (1/82). E per altro presso gli antichi era molto in uso il copiare senza citare gli esemplari. Cfr. PeTer , Die Geschichte der Literatur, II, p. 265 ss., dove sono anche riferiti (p. 234) esempi di storici. E così anche si spiega che molti testi ci furono conservati in redazioni parallele provenienti da opere diverse : cfr. L. ChIazzeSe , Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 16, 1931.

Caratteristiche delle opere – Determinazione dell'età

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trattazione precedente ; es. Ulpiano, 77 ad edictum, fr. 161 D. 50, 17, riproduce alla lettera il fr. 24 D. 35, 1, estratto dal libro 55 digestorum di Giuliano. Le variazioni fra i due testi furono apportate da Giustiniano. Si spiega anche così che la produzione di alcuni giuristi è impressionante per il numero delle opere e dei libri ; es., Servio, 180 ; Labeone, 400 ; Pomponio e Paolo, circa 300 ; Ulpiano, 287. § 17. Determinazione dell’età delle singole opere. A determinare l’età dei singoli scritti dei romani giureconsulti si hanno criteri sicuri, ma che soltanto allora soccorrono quando esista una certa quantità di frammenti estratti dalle loro opere. Un elemento più generale è fornito dalla cronologia dei singoli giuristi, analizzando sotto questo rispetto le citazioni che si rinvengono nelle singole opere. In questa maniera si può già stabilire, almeno approssimativamente, l’epoca [82/83] in cui visse un giurista di cui non si abbia altra notizia. Es., Fabio Mela è citato accanto a Labeone, conosce Servio Sulpicio ed è criticato da Proculo ; se ne deduce che egli fu quasi contemporaneo di Labeone. Lo stesso dicasi di Fulcinio Prisco77 e di molti altri nomi. Così, se in uno scritto sono riportati nomi di giuristi, si può desumere che la redazione di quell’opera si deve collocare in un momento posteriore o tutt’al più contemporaneamente ai nomi di data più recente. Ciò vale pure a riguardo delle altre citazioni relative a leggi, senatoconsulti, costituzioni di principi che rivelano, per lo meno, l’attività dello scrittore in un momento posteriore a quelle date che noi conosciamo. E per contrario il riferimento di una decisione in disaccordo con la massima stabilita dal Senato o da Imperatori può far conchiudere che la redazione dell’opera avvenne in tempo anteriore. Questo indizio deve, per altro, usarsi con molta circospezione ; perché non essendovi raccolte ufficiali di co77 (1/83).

Cfr. LeneL , Palingenesia, cit., I, c. 179 s.

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stituzioni dei principi, specie pel I secolo, i giuristi a volte le citano per sentito dire ; impressionante in proposito è l’esempio di Gaio, 2, 221 : « quae sententia dicitur divi Hadriani constitutione confirmata esse ». infine un sussidio molto più sicuro è fornito dalla cronologia degli Imperatori. Questo ha anche il pregio di essere in confronto a tutti gli altri il più preciso. Infatti la successione al trono, per fortunose vicende, si apriva il più sovente a brevi intervalli, e soltanto pochi Imperatori superarono i quattro lustri di governo. ora, i giuristi hanno l’occasione di citare i nomi dei principi molto spesso e, nello stile curiale, ricordano quelli viventi con frasi di reverenza o sudditanza, cioè imperator noster, optimus princeps, più raro Augustus ; i morti sono ricordati con l’epiteto di divus, perché anche questo titolo era ufficialmente attribuito dal senato all’imperatore morto. Così si è potuto determinare pure in una medesima opera il momento di redazione dei singoli libri, esempio, per i libri digestorum di GIuLIano e per le institutiones di GaIo . Col sussidio di tutti questi dati si può in un grande numero di casi precisare non solo il tempo in cui visse lo scrittore, ma anche quello della redazione delle opere, ed a volte pure dei singoli libri78. § 18. Libri e Codices. È utile dar poche notizie sulla forma esteriore del libro presso i Romani, e, per quanto può interessare in questo luogo, anche delle vicende ulteriori dei libri nel periodo della decadenza. [83/84] Liber come la parola greca βίβλος indica il materiale ricavato dal legno79, preparato per l’uso della scrittura prende il nome di charta. Sino al III secolo d. C. sono i rotuli di papiro unico materiale adoperato nelle pubblicazioni ; le tavolette 78 (2/83). h. F ITTIng , Alter und Folge der Schriften römischer Juristen von Hadrian bis Alexander, 2a ed., Halle a. S., 1908 ; T h . MoMMSen , Ueber Julians Digesten, in Zeitschrift für Rechtsgeschichte, 9, 1870, p. 82 ss. I d ., Die Kaiserbezeichnung bei den römischen Juristen, in Gesammelte Schriften, II, Juristische Schriften, Berlin, 1905, p. 155 ss. 79 (1/84). Servio, Aen. 11, 554, liber dicitur interior corticis pars.

Libri e Codices

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cerate servivano, invece, nel commercio, negli atti giuridici e nella corrispondenza. La pergamena serviva per gli usi più ordinari, per gli studenti, nell’azienda dei banchieri o in quella domestica, appunto perché, cancellando la scrittura, se ne poteva fare ripetutamente uso. Il termine codex80 fu dapprima adoperato per le tavolette cerate, unite insieme in forma di dittici o trittici, le quali erano in uso negli atti giuridici ; così nel testamento (tabulae testamenti), donde il termine codicilli ; ma il termine era anche usato per registri in pergamena (codex rationum, fr. 10, 2 D. 2, 13 ; codex accepti et expensi). È singolare che nella letteratura giuridica romana troviamo un’opera di NerazIo che porta il titolo libri membranarum, ciò per indicare che si tratta di appunti raccolti e pubblicati senza grandi pretese ; un titolo modesto, dunque. I rolli di papiro erano preparati dalle fabbriche e in varia grandezza, ma in complesso in misura limitata per agevolare l’uso del volumen (da volvere, revolvere). ogni rotolo conteneva un liber che si può valutare in media 40 pagine delle edizioni moderne in 8°. Così si può calcolare la estensione della produzione di un giurista e di Varrone in particolar modo che scrisse 620 libri. ogni rollo di papiro era formato in media da venti pagine insieme attaccate ; queste erano divise in colonne segnate con righe, in media 43, capaci di contenere ciascuna 35 lettere, la misura del verso esametro. Il numero delle righe in un liber era di circa 1500. Così ogni liber portava la numerazione delle righe. La sticometria serviva di base per il prezzo dei libri e per il pagamento della mercede ai copisti, e durò sempre in Grecia ed in Roma nel commercio librario. La scrittura nelle righe era continua, senza spazio tra le parole e senza interpunzione. Molte parole erano segnate con sigle seguite da punto o abbreviate con lineette sopra e altri segni distintivi, che si possono vedere nel manoscritto veronese di GaIo . Le colonne della scrittura nel rollo avevano margini sopra e sotto, adatti ad accogliere note al testo. ogni volume portava esteriormente attaccata in una striscia di pergamena l’indicazione del contenuto : index, titulus o inscriptio voluminis. Se la trattazione

80 (2/84). Seneca, De brev. vitae 13, 4, plurium tabularum contextus caudex apud antiquos vocatur : unde publicae tabulae codices dicuntur.

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si esauriva in un libro, questo si diceva liber singularis ; se l’opera si estendeva in più libri, il tutto si chiamava corpus. [84/85] La scrittura su papiro era poco durevole per la fragilità della materia. Plinio calcola la durata ordinaria a 100 anni. Così dal IV secolo in poi, ma più generalmente dopo il V secolo, a grado a grado, si passò alla pergamena. Intere biblioteche furono in questo periodo ricopiate su membrane, più tardi specialmente per opera di monaci81. Di molte opere furono fatte epitomi, e spesso nei monasteri lo stesso codice, fatta scomparire la prima scrittura, veniva adoperato una seconda volta, ed anche una terza volta, come in alcuni fogli del codice veronese di GaIo : codex rescriptus, palinsesto. Allora il volume prese il nome di codex. Del resto i primi esempi della denominazione di codex riferita a libri di diritto si hanno nelle raccolte di costituzioni di Principi : Codex Gregorianus, Codex Hermogenianus e Codex Theodosianus, certamente diffusi su pergamena. Così più tardi per antonomasia codex designò il volume contenente leggi. La divisione antica in libri rimase, ma in alcuni punti fu turbata e a volte divenne arbitraria. ISIdoro (Orig. 6, 13, 1) dice codex multorum librorum est. Mantenuta fu invece la sticometria, e nella pergamena spesso il foglio fu diviso in due colonne per conservare la misura delle righe. Così Giustiniano somma le righe dei libri dei giureconsulti adoperati dai commissari ed anche le righe dei Digesti che ammontano a 150 mila. § 19. Lingua e stile dei giuristi. Negli scritti dei romani giuristi al contenuto risponde perfettamente la forma. Il ragionamento sempre limpido segue le linee di una logica rigorosa, che arriva spesso alla precisione e alla evidenza geometrica. La lingua che essi adoperano, purissima negli scrittori più antichi, è poi sempre solenne, lo stile conciso, grave quale si addice alla scienza. 81 (1/85). Cfr. K. WendeL , in Forschungen und Fortschritte 1 oktober 1942. Con la trascrizione su pergamena molte opere furono salvate. Questa attività si iniziò a Costantinopoli per opera dell’imperatore Costanzo (337-361) ; così avvenne anche in Roma ad opera delle famiglie senatoriali romane nel IV secolo per i testi latini.

Lingua e stile dei giuristi

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i giuristi sono, quindi, fino al principio del iii secolo i migliori scrittori del loro tempo, adoperano una lingua viva e tengono alta la tradizione della latinità. Naturalmente dall’ultimo secolo della Repubblica al tempo di Ulpiano e di Paolo essa presenta notevoli differenze, determinate sia dallo sviluppo della lingua latina che dagli influssi provinciali. Pochi d’origine straniera, e fra i più recenti, come Callistrato, fanno sentire la loro lingua materna ; ma anche questi, avendo formata la loro cultura sulle opere dei giuristi latini e per lo più in Roma, ci appaiono scrittori sobri e chiari. Se GaIo , P aPInIano e u LPIano ebbero origine nelle provincie, la loro cultura è essenzialmente romana, [85/86] né i grecismi che si notano in alcuni scrittori, esempio in Gaio, possono avere gran peso per la soluzione di qualsiasi problema, perché dal secolo ii in poi l’influsso della cultura e della lingua greca si manifesta in modo notevole in tutti gli scrittori. Sopratutto si terrà conto che nelle materie giuridiche v’era una tradizione nobilissima. Un vocabolario tecnico della scienza del diritto, che formatosi fin dall’epoca del collegio pontificale e via via arricchito e perfezionato divenne un elemento essenziale dello stile e insieme sostanza della scienza giuridica. I termini giuridici, infatti, hanno basi solide e rigide, permettono di esprimere i concetti in frasi brevi e scultoree, sempre evidenti nel significato, mai dubbie, nemmeno nelle più sottili contrapposizioni. Gli è che la terminologia giuridica è precisa e conferisce grandemente a rendere il pensiero con esattezza matematica. Roma creò, dunque, con la scienza anche la lingua del diritto, che costituiscono il patrimonio più dovizioso di cui vive ancora tutto il mondo civile. Così anche i giuristi più tardi appariscono buoni modelli di stile ; GaIo e ULPIano per chiarezza e semplicità ; Scevo La e PaPInIano per la forma rapida e concettosa. Lo stile e la lingua dei giuristi romani sono stati poco studiati82 ; ed anche la personalità dei singoli giuristi non è stata

82 (1/86). Buoni saggi tuttavia ha dato il KaLB , Roms Juristen, cit. ; I d ., Das Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digea sten, 2 ed., Nürnberg, 1888 ; I d ., Die Jagd nach Interpolationen in den Digesten. Sprachliche Beiträge zur Digestenkritik, Nürnberg, 1897.

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finora convenientemente illustrata. sono questi compiti che le nuove generazioni sono chiamate ad assolvere83. § 20. Difetti e lacune nelle opere dei giuristi. si debbono anche notare le lacune e le deficienze nella produzione dei giuristi romani. È naturale che i giureconsulti nelle loro opere rappresentano la cultura dei tempi nei quali vissero, né potevano offrire di più. Essi non hanno alcun interesse per la storia perché la loro attenzione è tutta rivolta al diritto del loro tempo. E sappiamo già che dal lato storico nulla hanno prodotto. L’enchiridion di PoMPonIo , che contiene uno schizzo della storia del diritto pubblico, della magistratura e della successione dei giuristi, è povera cosa, e fu, in particolare, ridotto misero dai compilatori giustinianei. Fu detto sopra che la sua origine viene attribuita a Varrone . Nella compilazione fu inserito in D. 1, 2, 2 ; ed è il frammento più lungo della compilazione. Le cognizioni, inoltre, dei vari rami delle scienze ci appaiono scarse e imperfette ; [86/87] così per quanto riguarda nozioni di malattie mentali, di scienze naturali, di psicologia o di glottologia. § 21. a - Etimologie. nel campo difficilissimo delle etimologie essi non potevano offrire più dei grammatici. Come già i Greci, così i giureconsulti romani nella ricerca dell’origine delle parole non attendono a leggi morfologiche e fonetiche, ma al significato del vocabolo, riuscendo così ad imbastire una definizione rei ac nominis84. Es. mutuum deriverebbe da quod de meo tuum fit (fr. 2, 2 D. 12, 1), servus da servare (fr. 239, 1 D. 50, 16), soror ... quod ... seorsum nascitur (Gell., Noct. Att. 13, 10, 3), e così in moltissimi esempi. Né questa indagine etimologica è fatta per erudizione o per gioco ozioso, bensì i giuristi ricavano da essa la nozione centrale della figura giuridica e dell’i83 (2/86). 84 (1/87).

Vedi MITTeIS , Storia del diritto antico, cit., p. 492. L. CecI , Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino, 1892.

Difetti e lacune – Etimologie – Definizioni

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stituto, sviluppata poi in tutte le conseguenze nell’analisi e nelle applicazioni ai casi pratici. Ne segue che le etimologie, anche se sbagliate, apprestano notevoli elementi di informazione storica, servendo esse ad illuminare la concezione contemporanea della figura o dell’istituto cui si riferiscono. Così con l’etimologia, sopracitata, del mutuum i giuristi pongono in rilievo l’elemento principe del contratto, la cui esistenza presuppone si sia realizzato il trasferimento della proprietà delle cose fungibili dalla persona del mutuante al mutuatario. La alterazione di questo presupposto fu ammessa tardi sotto Adriano (fr. 9, 8 D. 12, 1) in forza delle esigenze pratiche, specie delle banche. Parimenti Labeone si parte dall’etimo della parola possessio, che fa derivare a sedibus (fr. 1 pr. D. 41, 2), per fissare il presupposto materiale per l’esistenza del rapporto, cioè una relazione fisica immediata dell’acquirente con la cosa, obietto del possesso. Notabile è la etimologia di testamentum, riferita da Gellio85 : testatio mentis ; la quale attesta che già nella Repubblica la considerazione della mens del testatore in confronto ai verba era già decisiva nei casi dubbi. b - Definizioni. I giuristi non abusarono di formulazioni di concetti astratti per definire, per esempio, la nullità, l’errore, la volontà ; e di ciò si è fatto grave appunto alla giurisprudenza romana che non avrebbe avuto attitudini teoriche. In proposito si richiama il detto famoso di g IavoLeno : « Omnis definitio in iure civili periculosa est » (fr. 202 D. 50, 17). [87/88] Ma si deve dire che questa nota che si fa alla giurisprudenza è affatto superficiale, in quanto non tiene conto di due elementi che meritano di essere valutati. In primo luogo, la giurisprudenza romana ha formulate numerose regulae iuris e definitiones e costruite categorie giuridiche delle quali molte sono rimaste vive e fondamentali anche nel diritto moderno.

85 (2/87).

p. 117.

Gellio, Noct. Att. 7, 12 ; cfr. STroux , Griechische Einflüsse, cit.,

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La giurisprudenza

Si mettano da parte quelle arcaiche, che erano scaturite dal formalismo primitivo, come « bis de eadem re ne sit actio », o quelle fondate sulla struttura patriarcale della famiglia, come la celebre definizione della tutela di servIo S uL PIcIo (fr. 1 D. 26, 1), o quella famosa dell’ususfructus, con la frase salva rerum substantia (Paolo, fr. 1 D. 7, 1) ritenuta ancora parecchio misteriosa ; ma tante altre, ed in numero perspicuo, rappresentano ancora la quintessenza dell’esperienza giuridica, racchiusa in formule, che sono esemplari per precisione e chiarezza. Basterà ricordare : la definizione delle impensae e le relative distinzioni, in rem, in fructus, necessariae, utiles, voluptuariae (Labeone, fr. 79 D. 50, 16 ; cfr. fr. 1 pr. D. 25, 1) ; la regola formulata dai veteres, « neminem sibi causam possessionis posse mutare » (fr. 19, 1 D. 41, 2) ; il principio « quod initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere » (fr. 29 D. 50, 17) e l’altro « superficies solo cedit » (Gaio 2, 73)86 e cento e cento formulazioni simili che abbracciano tutto il campo del diritto materiale e costituiscono ancora la nervatura dell’organismo del diritto privato. Non chiediamo ai critici della giurisprudenza romana se essi abbiano per caso da contrapporre a tanto dovizioso patrimonio simili invenzioni, costruzioni e formulazioni della scienza giuridica moderna perché la domanda sarebbe troppo imbarazzante. Più preme, invece, venire al secondo punto, che dissi non considerato su questo proposito. E qui è da dire anzitutto col PernIce 87 che non solo la giurisprudenza dei veteres, ma ancora quella dell’inizio del I secolo, specie con l’impulso dato da Labeone, fu molto attiva e feconda nell’elaborazione teorica e nelle sintesi, come fu accennato or ora. Dunque, l’arresto di quell’attività si manifesta nel corso del primo secolo, nel periodo in cui ferve l’opera delle due scuole ; e più penetrante e viva si fa l’indagine sulle singole fattispecie, punto di partenza di discussioni e di numerosi problemi che scaturiscono parte da nuove vedute ed esigenze 86 (1/88). Si è voluto cercare l’origine della regola in Egitto o in Grecia, ma senza risultato (Taubenschlag, Wenger). Vedi invece SchuLz , Prinzipien, cit., p. 87. 87 (2/88). a. P ernIce , Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit, I, Halle, 1873, p. 25 ss.

Definizioni

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pratiche, parte dall’analisi più profonda di nozioni, figure e categorie giuridiche. Questo momento è degno di essere posto in rilievo. Esso ci dà ragione, se non m’inganno, dell’arresto di quella attività che aspira alla sintesi ; espressa [88/89] appunto da GIavoLeno sulla fine del primo secolo, che nota il pericolo delle definizioni, le quali facilmente possono essere sovvertite. Il punto critico è qui, dunque. La giurisprudenza del I secolo ha dinanzi agli occhi un mondo nuovo, che diviene sempre più vasto e più complesso, e deve, per adempiere il suo ufficio, operare con due ordinamenti diversi ; rispettare per quanto possibile i principî del ius civile, con le sue regole e la sua rigida tradizione, ricorrendo in primo luogo alla interpretatio la quale fu perfezionata in una tecnica mirabile, strumento potente per lo sviluppo del diritto. Ma se ciò non era sufficiente per soddisfare le esigenze della pratica, doveva invocare gli ausilî del ius honorarium88. Essa ha fatto l’esperienza in tutto il territorio del diritto che le regole antiche e i principî fondamentali del ius Quiritium erano divenuti una camicia di Nesso, troppo angusti per le forme più svariate e complesse della vita nuova, arretrati sotto tutti gli aspetti per la funzione che il diritto è chiamato a compiere. Definizioni, regole, sintesi erano in questo stato del diritto aspirazioni irrealizzabili, premature. Il compito primo ed essenziale era appunto l’adattamento del diritto alle nuove condizioni. Si noti che l’attività imperiale, nella cognizione imperiale, nella cognizione giurisdizionale, esercitata direttamente o per mezzo dei funzionari, e ancora nella sua attività quasi legislativa, ogni giorno più con nuove decisioni e norme veniva scardinando il ius civile dalle sue basi granitiche. nessun principio essenziale resta più fermo. È significativo che i giuristi che siedono nel Consilium assumono spesso la difesa della tradizione89. Contro il ius civile si ammette la rappresentanza diretta (fr. 1, 18 e 19 D. 14, 1), si mantiene in vita il testamento di cui sia dichiarata nulla la institutio heredis (fr. 93 D. 28, 5 ; fr. 3 D. 28, 4) che la tradizione proclamava essenziale « caput et fundamentum ... totius testamenti » 88 (1/89). 89 (2/89).

cretorum.

Fr. 13 D. 1, 3, vel interpretatione vel certe iurisdictione suppleri. Un esempio perspicuo, in D. 14, 5, 8, riportato da Paolo, 1 de-

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La giurisprudenza

(Gaius 2, 229), si ammette la rappresentanza nei mutui bancari come si è detto sopra (fr. 9, 8 D. 12, 1), e così di seguito. GIavoLeno , dunque, veniva a constatare il pericolo della definizione : « parum (o rarum ? Haloander) est enim, ut non subverti posset » (fr. 202 D. 50, 17). In queste condizioni l’opera della giurisprudenza doveva tutta concentrarsi, per necessità, al lavoro di analisi, alla costruzione giuridica per le decisioni immediate, alla analogia per superare difficoltà opposte dal ius civile, di cui si hanno esempi numerosi e perspicui specie nell’opera di GIuLIano 90. onde tutta l’attenzione, lo sforzo e l’acume dovevano essere rivolti all’allargamento e all’adattamento del diritto, quasi materia incandescente ribattuta nella possente fucina da operai espertissimi. [89/90] E l’opera procede lenta, ma sicura e salda, temprata con la nuova esperienza, con la percezione esatta delle esigenze della vita e della correlazione delle figure giuridiche fra loro e con i principî del sistema del ius civile. In tale processo di formazione, in buona parte di trasformazione del diritto, si perviene certamente a stabilire nuovi principî e regole, poggiati su nuove esperienze che si sostituiscono alla antica tradizione. Richiamo qui, ancora una volta, l’esempio luminoso riferito da GIuLIano (fr. 24 D. 35, 1) che il grande giurista dell’epoca di Adriano ci rappresenta nell’atto in cui la nuova regola è tuttora in via di formazione, contrastata, più o meno, rispetto alle sue varie applicazioni : « quotiens per eum, cuius interest condicionem impleri, fit, quo minus impleatur, ut perinde habeatur, ac si impleta condicio fuisset ». Notevole anche il principio, affermato, come sembra, da PaPInIano (fr. 48 D. 6, 1 ; fr. 42, 1 D. 24, 3) che ammette in generale la compensazione tra le spese fatte sulla cosa e i frutti percetti dal possessore di buona fede. L’inattitudine, dunque, della giurisprudenza romana alle sintesi, alle definizioni e alla organizzazione della materia è una leggenda, inventata dai critici moderni, i quali sono pervenuti a conclusioni immature per difetto di apposite indagini91.

90 (3/89). 91 (1/90).

Cfr. fr. 5, 2 D. 18, 5 ; fr. 12 D. 28, 1 ; fr. 4 D. 24, 1 ; cfr. più oltre. Cfr. RIccoBono , La giurisprudenza, cit.

Sviluppo e progresso del diritto

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§ 22. Sviluppo e progresso del diritto. Sappiamo che varia e intensa fu l’attività dei giuristi romani nel campo della pratica del diritto e come scrittori. Ma a meglio comprendere il grande contributo che essi apportarono alla elaborazione ed all’avanzamento del diritto del loro tempo, occorre una più precisa conoscenza delle attitudini, dei metodi e della tecnica adoperati nella loro attività. I giuristi romani, è noto, vissero la vita del loro tempo, sempre a contatto con le esigenze della pratica della quale ebbero la percezione più completa. E questa percezione della realtà e il loro senso pratico diedero il ritmo a tutta la loro produzione, sia come consulenti sia come scrittori. La scienza del diritto, appunto, ha per campo di osservazione la vita reale. Nella formazione, quindi, delle norme giuridiche, come nell’applicazione di esse ai casi singoli, occorre grande potenza d’intelletto ed una chiara cognizione degli elementi vitali della complessa fenomenologia sociale. Ed i giuristi romani possedettero in sommo grado quelle facoltà intellettuali e le applicarono con un’arte inarrivabile. La produzione loro fu essenzialmente casistica. Anche nelle trattazioni che hanno un fine teorico domina l’esperienza pratica, onde la trama è sempre costituita da una catena di decisioni di casi realmente accaduti o supposti [90/91] tali. Mai essi intraprendono indagini per via di ragionamenti astratti, piuttosto dalla esperienza pratica attingono gli elementi per le sintesi teoriche. Essi sentono vivo nelle specie di fatto il lato giuridico, ne pongono in rilievo i punti più salienti e trovano di conseguenza con grande naturalezza e semplicità la decisione più consentanea a raggiungere il fine pratico. Nella interpretazione della volontà, nei testamenti o nei negozi del commercio, l’analisi è sempre acuta, finissima, in accordo mirabile col sentimento sociale e con le finalità degli istituti giuridici. inoltre, con grande maestria sanno mantenere, fino all’estremo limite possibile, le singole decisioni in armonia con i principî generali di diritto, inteso come un organismo di nozioni coordinate e connesse che costituiscono la scienza. Ciò avviene perché essi si rendono conto dell’essenza del diritto, che opera al di fuori del processo, nella vita reale, e al di fuori del contrasto delle parti, cioè nei rapporti commerciali e sociali. onde mai ammetto-

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La giurisprudenza

no conseguenze di logica pura che urtino contro interessi e bisogni reali. L’utilitas e l’aequitas costituiscono la mèta che sta sempre dinanzi al loro occhio vigile. Definizioni, regole, distinzioni e sintesi poggiano sempre saldamente sulla esperienza, su decisioni che hanno raggiunto generale riconoscimento. Certamente questa severa disciplina nella trattazione degli istituti giuridici fu loro possibile perché essi ebbero in ogni momento una influenza direttiva sui vari organi legislativi e giurisdizionali. Quello che non possono raggiungere con l’interpretazione delle norme esistenti, lo raggiungono con suggerimenti dati agli organi giudiziari. Questo significa ULPIano (fr. 13 D. 1, 3) : « bona occasio est cetera, quae tendunt ad eandem utilitatem, vel interpretatione vel certe iurisdictione suppleri ». Notevole nel testo l’importanza dell’avverbio certe, per significare che, in ogni caso, ad attuare quel che è utile, equo provvederà il magistrato, mediante i suggerimenti dei giuristi, con tutti i rimedi, ordinari o straordinari, che sono ben noti. In particolare rispetto all’interpretazione, i giuristi seppero sempre per mezzo di costruzioni finissime, stabilendo equazioni fra categorie o figure varie, raggiungere lo scopo che intendevano conseguire. Sono innumerevoli le costruzioni con quasi, quodam modo, perinde ac, ad instar, ad exemplum, che si incontrano ad ogni passo nei loro scritti, sia per correggere le decisioni che non rispondevano più alle vedute e agli interessi dei tempi, sia per applicare la tutela a rapporti che non erano considerati dagli ordinamenti giuridici. Si potrà forse chiedere come mai la giurisprudenza romana abbia potuto operare in maniera così larga e costante con la figura dell’analogia. La risposta a questa domanda può essere data, come io credo, dalle seguenti osservazioni. [91/92] Innanzi tutto l’interesse dei giuristi è tutto e sempre rivolto a trovare la decisione di casi pratici. Ma molto spesso i principî e le norme del ius civile erano insufficienti a suggerire in modo diretto una decisione. I giuristi rivolgono allora la ricerca nel campo dei casi già decisi secondo i principî del ius civile o pretorio per ritrovare in essi elementi similari che permettano di stabilire un’analogia fra questi e quelli che il caso in esame offriva per sottoporre quest’ultimo alla medesima disciplina.

Sviluppo e progresso del diritto

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Questo metodo d’indagine e di analisi essi lo avevano adoperato, in un primo tempo, largamente nel suggerire al pretore formule in factum o ficticiae, o altri mezzi richiamando l’esempio di norme esistenti, o di decisioni già ferme nella prassi. Si può, dunque, ben immaginare che nel periodo classico più avanzato, e specialmente con GIuLIano , la giurisprudenza, riscontrata l’analogia negli elementi di due casi diversi, ne abbia tratta direttamente la conseguenza ed applicata la medesima decisione per via d’integrazione. Questo metodo è così costante nei giuristi della scuola sabiniana che alcuni vollero vedere in ciò la caratteristica della scuola, detta perciò degli analogisti in contrapposto ai proculiani anomalisti. Esempi dell’uso dell’analogia nei due sensi sopra indicati sono innumerevoli nelle fonti. Nella actio Publiciana (Gaio 4, 36), la protezione del possessore di buona fede è fondata su una finzione, espressa nella formula, che GaIo descrive nei seguenti termini : « quasi ex iure Quiritium dominus factus esset ». Qui la costruzione analogica è assunta e imposta dal pretore. Altre volte, invece, essa opera direttamente in forza della autorità dei giuristi ; così GaIo pone accanto alla possessio la quasi possessio, cioè la figura del possesso del diritto, la quale è fondata sull’analogia osservata da GIavoLeno per l’usus della servitù, considerato nella sua realtà equivalente alla traditio, onde l’uso del diritto avrebbe lo stesso valore dell’elemento fisico nell’acquisto del possesso su cose corporali (D. 8, 1, 20). Con lo stesso processo la giurisprudenza volendo determinare la figura dell’indebitum osserva in esso un elemento comune col mutuo, cioè la dazione del denaro, onde vi applica la stessa formula « proinde ... ac si mutuum accepisset ». E questa figura è certamente la più tipica nella categoria di obbligazioni che nascono quasi ex contractu. E sempre in base all’analogia PaPInIano applica le norme e la formula dell’actio institoria a nuove figure che rimanevano fuori del tipo della praepositio di un institor, ma che erano assai prossime per la funzione esercitata, onde si accordò la medesima protezione a quei nuovi rapporti : ad exemplum institoriae actionis (Papin., D. 14, 3, 19). E GIuLIano , mentre presuppone che nella vendita il pericolo passa immediatamente al compratore, anche prima della tradizione della cosa, per giustificare

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La giurisprudenza

la violazione del principio – res perit domino – costruisce il [92/93] rapporto come se la tradizione fosse eseguita : « perinde habenda est venditio ac si [homo] traditus fuisset » (Giul., fr. 5, 2 D. 18, 5). Così la giurisprudenza opera sempre più largamente con elementi logici che traggono la loro forza dalla esperienza della vita più che dal ragionamento puro e con ricchezza di mezzi amplia l’ambito del ius che è reso sempre più vasto. Si noti ancora che lo sviluppo del diritto nelle forme così varie, in buona parte sempre ad opera della attività della giurisprudenza, non poteva procedere in maniera semplice, rapida e piana. Piuttosto, il più delle volte, il progresso è ritardato da dibattiti aspri fra i giuristi e da controversie di scuole, che rivelano il vivo contrasto con la tradizione che ha le sue premesse rigide e la sua logica inflessibile, mentre d’altra parte spiegano la loro forza i nuovi bisogni, vedute pratiche e una coscienza più progredita della collettività, che reclamano decisioni più rispondenti ai tempi : esempio insigne il contrasto fra Q. MucIo e ServIo rispetto alla divisione degli utili e alla partecipazione delle perdite nella societas (cfr. Gaio 3, 151) o rispetto alla controversia, agitata tra i grandi giuristi dell’epoca preciceroniana, che concerneva il parto della schiava, se si dovesse considerare nella categoria dei frutti alla stregua dei prodotti delle cose che sono in nostro dominio (Cic., De fin. 1, 4, 12 ; D. 7, 1, 68). Le controversie ed i dibattiti, su singoli punti, sono visibili negli scritti dei giuristi ed in parte ancora nella codificazione di GIuSTInIano , rivelate dalle espressioni plerique, quidam, alii (putant ...), verius est, magis est ecc. Naturalmente un numero considerevole di esse furono eliminate nell’opera legislativa. Così la giurisprudenza dell’impero, specialmente, assume tutta la direzione del diritto. Sono i giuristi che suggeriscono al Pretore nuove formule e rimedi ed, in generale, la tutela di atti e fatti che il ius civile non contemplava. onde si può dire che tutto il movimento del diritto è nelle mani dei giuristi, come era stato nei primi tempi nelle mani dei pontefici. È sempre una casta che ha pieno possesso dei mezzi tecnici e della tradizione, che cura l’applicazione e l’avanzamento del diritto nella maniera regolare. La communis opinio, formatasi coi responsi su di un punto di diritto, viene a costituire ius ci-

La fama dei giuristi dell’epoca dei Severi

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vile. Questo sviluppo del diritto è visibile negli scritti dei giuristi, designato con le frasi placuit, omnibus placuit, omnes in hoc consenserunt, receptum est, sententia ... prevaluit ecc. ovvero hoc iure utimur, et ita utimur, con le quali espressioni si denota la norma affermatasi nella pratica giudiziaria e poi nella scienza. Così la giurisprudenza esercitò il massimo influsso nella formazione del diritto dell’Impero. I giureconsulti che avevano il privilegio dello ius [93/94] respondendi furono designati come iuris auctores, iuris conditores92. Ma nella realtà tutti i giuristi meritano questo titolo. Infatti, con la loro varia e assidua attività, essi contribuirono tutti a rinnovare la tradizione del diritto, che proveniva dai veteres, formularono nuove regole, colmarono le lacune dell’ordine giuridico esistente, curarono in ogni senso il progresso del diritto. Essi, dunque, hanno assunto ed adempiuto splendidamente il compito di creare il diritto perfettamente rispondente alle condizioni del vasto Impero e nello stesso tempo di organizzarlo in un sistema ; il quale, se è mirabile nell’analisi dei singoli istituti, è tuttavia imponente pure nella struttura generale. § 23. La fama dei giuristi dell’epoca dei Severi. Fatta la delineazione dello sviluppo della giurisprudenza romana e dell’apporto imponente da essa dato alla formazione e all’avanzamento del diritto romano, non debbono in questo luogo esser passati sotto silenzio alcuni giudizi che riguardano la valutazione storica e scientifica dell’opera della giurisprudenza, in generale, e dei singoli giuristi in particolare. È molto diffusa fra filologi e storici la opinione che attribuisce agli ultimi giuristi vissuti nell’epoca dei Severi la eccellenza del diritto di Roma, i quali vengono perciò rappresentati pure come i creatori della scienza giuridica.

92 (1/94). Cfr. iura condere in Gaio 1. 7. Vedi sul testo, ritenuto oggi postclassico, F. de zuLueTa , Reflections on Gaius 1.7, in Tulane Law Review, 22, 1947-1948, p. 173 ss.

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La giurisprudenza

Noi sappiamo che questa credenza è totalmente destituita di fondamento. Tuttavia è opportuno spiegare come essa si sia diffusa. Essa ha radice nel fatto che noi conosciamo le opere dei giuristi romani attraverso la codificazione di GIu STInIano , nella quale opera, appunto, gli scritti di ULPIano e di PaoLo apprestarono circa due terzi dell’intero. Gli è che questi ultimi giuristi, vissuti sotto i Severi, furono in modo particolare operosi compilatori, avendo raccolto il meglio di tutta la giurisprudenza anteriore nei loro scritti e specialmente nei commentarii ad edictum e ad Sabinum. Nelle dette opere, infatti, si trova riunita tutta la tradizione giuridica, a cominciare dall’epoca della Repubblica. Questa continuità nella tradizione letteraria del diritto è una caratteristica ben nota. I commentari specialmente di ius civile e di ius honorarium si arricchiscono e si accrescono di continuo, in quanto gli scrittori posteriori assumono e copiano tutto il materiale delle opere precedenti e lo aumentano con aggiunte di nuove decisioni, dibattiti, citazioni di giuristi, provvedimenti imperiali e così via. Per citare un esempio, la celebre opera di SaBIno , del tempo di Nerone, posta a base dei commentari di ius civile dai giuristi posteriori, si distende in opere amplissime, come quelle di PoMPonIo , di ULPIano e di PaoLo , dove su ogni singolo punto di diritto è in primo luogo riprodotta tutta [94/95] la tradizione precedente desunta dalle varie opere, da QuInTo M ucIo agli ultimi giuristi, aumentata poi dalle più recenti decisioni, opinioni ed esperienze che erano in possesso dell’autore. Lo stesso si dica dei commentari ad edictum ; nei quali le trattazioni più raccolte di ServIo , di LaBeone , di PedIo , assunte e ricopiate da PoMPonIo , da GaIo , ULPIano e PaoLo prendono vaste proporzioni. Sopratutto, poi, a consolidare la fama degli ultimi giuristi contribuì la legge così detta delle citazioni emanata da VaLenTInIano III e TeodoSIo II nell’anno 426 (C.Th. 1, 4, 3). Era il periodo della confusione nella pratica del diritto. Tutte le forze vive che avevano creato e accresciuto il patrimonio giuridico si erano esaurite al tempo di Diocleziano. Non esistevano più giuristi, sparito il pretore, misere le scuole di diritto, onde la pratica dei tribunali andava avanti alla meglio, aiutandosi con esili manuali e raccolte di costituzioni e di responsi, tratti dalla massa delle opere dei giuristi classici.

La favola dei giuristi Aramei

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La confusione nell’amministrazione della giustizia era inevitabile. Il diritto contenuto in tutte le opere della giurisprudenza romana si considerava sempre vigente, ed innanzi ai tribunali si potevano portare e citare decisioni che rispondevano al caso in concreto, contenute in qualsiasi opera antica. Le falsificazioni dei testi dovevano anche essere frequenti. Il rimedio escogitato dagli imperatori, per quanto meccanico, era pure necessario, nel senso di limitare il numero delle opere che potevano essere citate dinanzi ai tribunali a sostegno delle conclusioni delle parti in lite. Queste opere erano naturalmente quelle degli ultimi giuristi, cioè di PaPInIano , u L PIano , P aoLo e ModeSTIno , alle quali si aggiunsero anche quelle di GaIo , giurista vissuto bensì sotto Adriano e gli Antonini ma che aveva acquistato già grande fama nella scuola per il suo aureo trattato delle institutiones, diffuso in tutte le scuole dell’impero, dall’egitto all’Asia, da Costantinopoli alla Gallia. Così le opere ed i nomi dei cinque giuristi citati costituirono, come fu detto, un tribunale di morti. Di conseguenza i manoscritti di queste opere si diffusero largamente nell’impero ; ed a preferenza degli altri più antichi, furono considerati come i libri contenenti il diritto imperiale in vigore. Così si è formata presso storici e filologi quella tradizione che riporta la creazione del diritto romano agli ultimi giuristi, specialmente ad ULPIano , P aPInIano e PaoLo . § 24. La favola dei giuristi Aramei. Appena occorre ricordare quella strana opinione, raccolta pure da cultori di diritto romano, di paesi stranieri, secondo la quale tutto il valore della giurisprudenza romana si debba al contributo dei giuristi provinciali del III [95/96] secolo. La quale opinione ha assunto una forma paradossale in oSWaLd S PengLer 93, il quale osò affermare che i creatori del diritto di 93 (1/96). o. sPengLer , Der Untergang des Abendlandes, II, p. 160 ss., seguito da uno scrittore italiano, giornalista, J. Evola, in un articolo inscritto nella R. Europaische Neue 1943, Heft 46, p. 81. Spengler non conosce le fonti giuridiche ed ha abusato del suo ingegno e delle notizie raccolte con poco discernimento.

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La giurisprudenza

Roma fossero Aramei. Così Papiniano, Ulpiano, Paolo. secondo questo autore la redazione dell’Editto pretorio costituisce la fine della creazione del diritto antico ed invece quella classica sarebbe l’epoca del diritto arabo iniziale ; e quindi un prodotto della cultura orientale l’opera stessa dei giuristi classici. Si tratta di una favola che è semplicemente insensata. Anzitutto perché questi giuristi, anche se nati in provincia, Ulpiano in Fenicia, Papiniano forse in Libia, sono per cultura romani. Così Giuliano nacque in Adrumeto, la quale città, dopo la distruzione di Cartagine, divenne la sede del Governo Imperiale in Africa. Ma Giuliano fu certamente figlio di un alto funzionario romano. Questi giuristi, ai quali si può aggiungere Gaio che si vuole di origine greca, ebbero cultura e spirito romani e non si distinguono affatto per la loro origine provinciale94. Ma a parte ciò, si deve tener presente che i giuristi sopracitati vissero nel periodo del declino della giurisprudenza e furono, come si è visto, compilatori intelligenti e fecondi. Papiniano è bensì una grande personalità, ma il suo profondo sentimento di equità è l’espressione della più perfetta intelligenza dello sviluppo del diritto che nei secoli anteriori aveva con ritmo sempre più largo e accelerato posto in maggiore evidenza l’aequitas di fronte al rigor iuris. E per altro non è dubbio che l’eccellenza materiale e formale del diritto, di tecnica e di scienza, è un prodotto della giurisprudenza, la quale raggiunse il vertice nell’età ciceroniana e poi nell’impero da Augusto ad Adriano. § 25. Difetto di attitudini teoriche. Ma due note più gravi, che riguardano la giurisprudenza romana, debbono essere più particolarmente chiarite. Da parecchio tempo, e cioè dalla fine del secolo XiX, si suol dire che i giuristi romani furono grandi come pratici, avendo essi avuto in grado eminente il senso del diritto, la più perfetta comprensione della realtà, ma non posseduto attitudini teoriche, donde la loro deficienza nella sistematica e nella dom94 (2/96). Cfr. SchuLz , Prinzipien, cit., p. 90 ; vedi anche E. VoLTerra , Diritto romano e diritto orientale, Bologna, 1937, p. 45 ss.

Difetto di attitudini teoriche

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matica giuridica. Un giudizio di questo genere è stato espresso di recente da un nostro autorevole scrittore, da Emilio BeTTI , il quale così scrive95 : « È noto che i giuristi di Roma non ebbero [96/97] molto gusto nelle definizioni astratte, ed in linea generale, che il loro talento scientifico fu di gran lunga inferiore sia alla loro produttività legislativa, sia alla loro facoltà di vedere le cose intuitivamente e dal punto di vista pratico. Maestri senza pari nel ritrovare la norma adeguata a comporre gli interessi contrastanti, i romani hanno poco risentito la necessità intrinseca di riflettere coscientemente sulla loro propria attività come legislatori e giureconsulti, ovvero sulla tecnica di tale attività, nonché di inquadrare le molteplici quistioni particolari, risolte attraverso questa attività, in un sistema di principî generali. Nelle loro soluzioni i romani, di solito, non applicavano coscientemente i principî. Spesso essi ricavavano la soluzione giusta piuttosto per comprensione intuitiva e la trovavano, come sembra, quasi in via accidentale (vero è che in questo processo attraverso cui viene ricercata la soluzione, accanto agli altri elementi, opera anche una norma giuridica fissa, la quale, però, non trova affatto espressione – il mondo del diritto che vige nella realtà non getta che di nascosto qualche isolato sprazzo di luce nella loro coscienza). Certo, talvolta essi si sforzano di formulare principî e di spiegare l’istituto, però la loro definizione, com’è formulata, si presenta quasi sempre inadeguata. Alle volte, essa è troppo ristretta, altre volte troppo larga ; ora il principio sembra legato ad un caso che spicca tra gli altri in modo speciale, mentre in verità, ha pure valore per tutta una categoria di casi ; ora, viceversa, la massima è formulata genericamente, senza far menzione di una particolare distinzione di specie ; altre volte, si mantiene persino il silenzio sopra i principî, sia perché essi non furono affatto pensati, sia per il motivo che essi furono considerati principî intuitivi (Jhering) ». A volere rintracciare il fondamento del giudizio così negativo del valore scientifico della giurisprudenza romana, occorre anzitutto dire che esso non ha riscontro negli interpreti

95 (3/96). E. BeTTI , Methode und Wert des heutigen Studiums des roemischen Rechts, in Tijdsch., 15, 1937, p. 145 s.

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fino alla seconda metà del secolo XiX ; i quali, all’opposto, esaltarono la giurisprudenza romana e i nomi dei giureconsulti con entusiasmo, e con la più alta ammirazione la precisione, la forza della logica, l’armonia di tutti gli elementi contenuti nelle loro opere, sino al punto da paragonarle agli scritti dei geometri. Così specialmente j herIng 96. I dubbi spuntarono nella seconda metà del secolo XIX. Aprì la via proprio J herIng , il quale nella seconda fase della sua attività scientifica, e specialmente nell’opera Der Besitzwille, attaccò il giureconsulto P aoLo ed anche CeLSo , che furono da lui qualificati come fanatici costruttori. Jhering intendeva reagire contro la così detta Begriffsjurisprudenz, secondo lui rappresentata dal SavIgny . Questo problema qui non ci interessa. Ma attorno a Jhering, gli attacchi contro i giuristi si fecero più frequenti, [97/98] e specialmente il BeKKer mostrò il più grande scetticismo rispetto agli elementi della produzione romana, ed in particolare a riguardo delle definizioni, delle costruzioni dommatiche e della coerenza logica delle decisioni nei varî istituti. il fenomeno può avere la sua giustificazione nel fatto – a parte i presupposti e i preconcetti da cui questi eminenti scrittori partivano – che essi trovavano numerose contraddizioni e disuguaglianze nei frammenti contenuti nella codificazione di Giustiniano, onde erano condotti a sbarazzarsi di tutti gli ostacoli attaccando i testi medesimi e gli autori cui erano attribuiti. Così agirono il M eIScheIder ed altri scrittori. E qui bisogna subito riconoscere che questi valentuomini, sulla fine del secolo XiX, non avevano, in verità, altri mezzi e cognizioni per uscire dal labirinto in cui spesso si trovano impigliate le dottrine giuridiche nella codificazione di Giustiniano. Ma oggi noi siamo in grado di superare quelle difficoltà, che per gli interpreti di quell’epoca erano divenute tormentose. Infatti, secondo la tradizione, essi dovevano considerare tutti gli elementi contenuti nella codificazione di Giustiniano come un tutto omogeneo, un corpo unitario di di96 (1/97). r. von j herIng , Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, III, 1, § 48, che è opportuno citare qui, perché citato dal Betti, non si sa perché e come egli lo riporti a sostegno del suo giudizio.

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ritto, secondo le dichiarazioni di Giustiniano, il quale, facendo suoi tutti gli estratti accolti nell’opera, li aveva muniti di eguale autorità, conferendo a tutti i testi forza di legge. Inoltre, quegli interpreti erano abituati a considerare i testi come prodotti del tutto genuini dei giuristi, il cui nome figura nelle iscrizioni dei frammenti. Era questa la tradizione che proveniva dall’alto, dal tempo e dalla forma della codificazione, considerata come un codice unitario costruito in complesso con testi romani. Lo studio storico e critico dell’opera non era incominciato. Le figure e le caratteristiche dei singoli giuristi non erano state sottoposte a nessuna indagine. Gli sviluppi del diritto nei vari periodi storici e l’attività più propriamente creatrice della giurisprudenza erano perfettamente ignorati. Date queste condizioni, non si aveva né l’occasione, né l’opportunità e nemmeno i mezzi per approfondire questo aspetto dell’opera legislativa. Col S avIgny si era bensì manifestato il bisogno di siffatte indagini storiche, ma la preparazione per compierle era appena iniziata, appunto per difetto di cognizioni storiche e della tecnica per l’analisi critica dei testi. Ricordo che i più gravi giuristi dell’epoca, i quali sentivano le difficoltà, e vedevano bene gli enimmi contenuti nel Corpus iuris, non ebbero mai la leggerezza di accusare per questo i grandi giuristi di Roma, pronunciando giudizi superbi, come sulla fine del secolo XiX fece e. BeKKer , il quale a proposito dei nodi apparsi finora insolubili, specie nella dottrina del possesso, scriveva : « se una spiegazione esistesse, questa si sarebbe dovuta trovare ». Egli non pensava che la incomprensione dei testi era causata dalla nostra ignoranza. [98/99] i più savi, dico, sapevano attribuire le difficoltà alle nostre scarse cognizioni storiche e critiche. Il WIndScheId , infatti, nel suo Corso di esegesi del 1891 a Lipsia, che ricordo con sentimento di venerazione, soleva spesso, di fronte a problemi dibattuti ed insolubili, avvertire, con un ingenuo sorriso : « Wir können in den Pandekten nicht alles verstehen ». ora riconosciamo, che quel detto rivelava l’alta coscienza del maestro, che aveva scrutato in tutti i sensi l’opera legislativa e la immensa letteratura che su di essa si era ammassata. in verità la scienza del diritto romano sulla fine del secolo XIX era arrivata ad un punto morto. Da una parte c’era

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una tradizione di studi e di dottrine che discendeva dall’uso del Corpus iuris come opera legislativa. D’altra parte il bisogno di scrutare l’opera dal punto di vista storico premeva fortemente. Grande impulso vi aveva dato il SavIgny , e nuovo slancio la scoperta del GaIo v eroneSe , che promosse un movimento di studi e di ricerche, specialmente sul processo e sul diritto dell’epoca classica. Ma in tanto fervore di indagini e di risultati, si erano naturalmente assommati problemi nuovi, più gravi ed innumerevoli, da far ingorgo all’avanzamento delle cognizioni storiche ed anche a nuove indagini. Il progresso era del tutto paralizzato. A schiarire ed allargare l’orizzonte venne in buon punto la ricerca delle interpolazioni del Corpus iuris. Il LeneL , l’EISe Le ed il G radenWITz avevano fatto le prime esperienze, con risultati che apparvero subito di gran rilievo. oggi abbiamo l’Index interpolationum che racchiude una messe così ricca, anzi, così esorbitante di analisi critiche, che è apparsa con ragione spaventevole. Tutto ciò premesso, gran parte della verità, se non tutta la verità, dovrebbe ormai apparire in buona luce. ora sappiamo che, se molte contraddizioni erano contenute negli scritti dei romani giuristi, determinate da divergenze degli autori classici sui singoli punti e dal tormentoso lavoro di adattare il diritto alle esigenze sempre nuove della vita dell’Impero, un numero poi di gran lunga maggiore di contraddizioni, incongruenze, disuguaglianze, sia nelle motivazioni, sia nelle dottrine contenute nell’opera legislativa, vi fu apportato dagli artefici della medesima, i quali, per adempiere il loro compito, dovettero estrarre frammenti da circa 2000 volumi, ridurre tre milioni di righe a 150 mila e quindi sopprimere esempi, nomi e interi brani, suntare, spostare elementi da un punto all’altro, fondere in uno vari frammenti, estratti da opere parallele, inserire nuovi esempi e motivazioni, definire, generalizzare, come appariva utile e necessario nell’opera legislativa. Tutto questo è stato messo in evidenza dalle indagini interpolazionistiche nel corso di più di 50 anni. onde non si sa vedere come mai vi siano interpreti e storici, i quali possano rinfacciare alla giurisprudenza romana, ai giuristi romani, tutte quelle gravi manchevolezze di cui fu detto sopra, senza [99/100] aver prima compiuto un’accurata revisione, sia dal lato formale, sia dal lato sostanziale, dell’ingente patrimonio giuridico a

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noi pervenuto. Le improvvisazioni non sono ammesse rispetto ad un argomento così grave. Ma c’è ancora di più. Anche giudicando la tradizione giuridica romana come appare nel Corpus iuris con tutti i difetti che essa presenta, mai si potrà giustificare il giudizio sfavorevole di questi critici, che qualificano i giuristi romani privi di attitudini teoriche e dommatiche, al punto che essi non avrebbero saputo applicare coscientemente i principî. Strana accusa, in verità, questa dell’incoscienza, quando l’arte mirabile dei giuristi è stata sempre esaltata nel senso d’avere essi saputo attuare i più grandi sviluppi del diritto angusto e rigoroso di Roma, in armonia con i principî generali, e ciò per virtù della tecnica dell’interpretazione, che costituisce tutta la forza e la gloria della giurisprudenza romana. L’eccellenza dell’arte dei giuristi romani destò appunto in ogni tempo ammirazione e stupore, pur nell’opera di Giustiniano, per la purezza della lingua e la forza dello stile, per l’armonia e la precisione dei concetti, nonché per il perfetto equilibrio dei ragionamenti. Giova in proposito di fronte a questi critici ricordare il giudizio di LeIB nIz 97 : « dixi saepius post scripta geometrarum nihil extare quod vi ac subtilitate cum Romanorum jurisconsultorum scriptis comparari possit, tantum nervi inest, tantum profunditatis ». Ed altrove98 ripete : « coeteroquin ego, digestorum opus vel potius auctorum unde excerpta sunt labores admiror, nec quidquam vidi sive rationum acumen sive dicendi nervos spectes, quod magis accedat ad mathematicorum laudem. Mira est vis consequentiarum certatque ponderi subtilitas ». Leibniz, matematico e grande filosofo, studiò a Lipsia il diritto negli anni 1667-1668. Ed il SavIgny 99 scriveva : « I concetti ed i detti della scienza appariscono ai giuristi romani, non come un portato del loro arbitrio, ma entità reali, la cui esistenza e genealogia 97 (1/100). G.W. LeIBnIz , Opera omnia, IV, 3, Genevae, ep. 1, p. 267. Vedi nello stesso senso JherIng , Geist, citato nella nota precedente e MITTeIS , Storia del diritto antico, cit., p. 492. 98 (2/100). L eIBnIz , Opera omnia, cit., ep. 15, p. 257. 99 (3/100). F. c. von S avIgny , Vom Beruf unsrer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814, p. 29.

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è loro divenuta familiare per prolungato e ripetuto uso, e perciò appunto tutto il loro metodo ha una sicurezza che non si trova che nella matematica ; e si può dire, senza esagerazione, che essi operano con i loro concetti, come se fossero grandezze matematiche ». Qui Savigny conferma il giudizio di Leibniz. E da un punto di vista più sostanziale e pratico il GoLd SchMIdT 100 insegnava che il diritto romano risponde alle esigenze della vita economica più [100/101] complessa del mondo moderno. Le sue norme, egli scriveva, hanno una grande elasticità, elaborate con una tecnica perfetta, esse si manifestano sempre rispondenti ai più elevati principî etici. Dato il sistema della formazione del diritto, la pratica in Roma era scientifica, e d’altro lato la teoria era perfettamente proporzionata all’applicazione pratica : « appunto perché essa scaturiva dalla profonda osservazione della vita reale. onde sebbene non si fosse costituito ancora un vero sistema di economia politica, si aveva un riconoscimento spesso più chiaro di oggi della natura economica del valore della moneta, dei contratti fondati sul credito, del cambio, dei prestiti di cose e di capitali, della società e così di seguito ». Dopo tutto si potrebbe chiedere se l’esperienza degli ultimi 50 anni, che viene dalle indagini interpolazionistiche, abbia potuto mutare in maniera così radicale il giudizio sul merito della giurisprudenza. Una simile affermazione sarebbe veramente paradossale ; quando la critica moderna è stata tutta impegnata ad attribuire ai Commissari la maggior parte dell’opera dei Digesti, mettendo a carico di triboniano tutte le deficienze sostanziali e formali. Ed invero a prescindere dall’esperienza più recente e cotanto clamorosa delle interpolazioni, è a tutti noto che i più grandi conoscitori delle fonti romane, come il SavIgny , mai dubitarono di attribuire tutte le manchevolezze e le storture e gli enigmi che si rinvengono nell’opera di Giustiniano ai compilatori del vi secolo. Qui basterà riportare quel che l’ALIBrandI , a proposito del concorso delle azioni, scriveva nel

100 (4/100). L. GoLdSchMIdT , Handbuch des Handelsrechts, 3a ed., I, Geschichtlich-literärische Einleitung und die Grundlehren, 1, Universalgeschichte des Handelsrechts. Erste Lieferung, Stuttgart, 1891, p. 58 ss.

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1870 : « Io dirò schiettamente, che in fatto di poca precisione ne’ vocaboli e di confusione che ne risulta, le presunzioni stanno più a carico dei rapsodi bizantini del secolo sesto che dei grandi maestri romani del secondo e del terzo »101. Il giudizio dunque del BeTTI sopra riferito, rispetto alla valutazione della giurisprudenza, apparisce ingiusto e sopratutto senza precedenti. Né può il BeTTI opporre in proposito una pagina del BrunS -P ernIce -L eneL 102, nella quale egli ha, forse, creduto di rinvenire uno spunto per la tremenda condanna della giurisprudenza classica. Infatti ivi si parla, è vero, di motivazioni che spesso sono false e di formulazioni di principî e di idee astratte che appariscono inadeguate (per BeTTI quasi sempre), ma si deve notare che quella pagina, in definitiva, contiene la più alta celebrazione del merito e del valore della giurisprudenza. Quell’appunto vi figura come una leggera nube in un cielo terso e luminoso. Secondo il BrunS , che è l’autore di quel brano, la giurisprudenza romana prende sempre le mosse dall’osservazione della vita e mira sempre a raggiungere la giusta soluzione nel caso concreto, la quale [101/102] risulta infallibile ; essa mai intraprende la ricerca di principî astratti o di sviluppi teorici ; ed essendo nel pieno possesso dell’arte creatrice del diritto, mira in primo luogo alle decisioni pratiche, e solo in seguito procede alle dimostrazioni teoriche. Si noti, per altro, che il Bruns, più che un dommatico, fu un eminente storico, e visse quell’età critica di cui fu detto sopra. Nel valutare, dunque, l’opera della giurisprudenza classica ogni interprete non dovrebbe mai prescindere dall’esperienza degli uomini che ebbero la più profonda conoscenza delle fonti giuridiche romane. § 26. I giuristi romani e l’avanzamento del diritto. È riconosciuto da tutti che il fattore principale dello sviluppo del diritto dell’Impero fu la giurisprudenza, la quale seppe con la sua opera dare al diritto un valore universale.

101 (1/101). i. ALIBrandI , Del concorso delle azioni, in Opere giuridiche e storiche, I, Roma, 1896, p. 201. 102 (2/101). BrunS -P ernIce -L eneL , Geschichte, cit., p. 358.

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or questo si e voluto negare negli ultimi tempi con l’affermazione precisa che nel periodo classico uno sviluppo del diritto che sia essenziale e notevole non esiste. Un nostro storico eminente in proposito si esprime come segue103 : « Ciò vuol dire che per il diritto privato il Principato non fu epoca di grandi sviluppi, ma soltanto di lievi e cauti ritocchi apportati dai senatoconsulti e dalle costituzioni, nonché dall’interpretazione blandamente evolutiva di una giurisprudenza severamente controllata ». E l’autore, elencati alcuni punti in cui, ad opera della cognizione imperiale, il progresso del diritto è innegabile, conchiude : « l’ossatura del diritto privato, in ispecie la materia dei diritti reali e delle obbligazioni, non ne è rimasta scossa neppure in piccola misura ». Questo giudizio del nostro storico non è del tutto nuovo, ma è espresso senza retorica e in una forma più cruda. Il BonFanTe forse dice nella sostanza la stessa cosa e così il PerozzI ; ma questi autori hanno usato formule certamente più caute, riconoscendo almeno sviluppi grandiosi in tutto il campo del diritto104. Sul proposto noi non dobbiamo aggiungere altro per giustificare l’affermazione perfettamente opposta. Abbiamo detto or ora che il contributo dei giuristi fu grande, non perché la giurisprudenza avesse poteri legislativi, ma per la speciale condizione in cui essa si trovò in Roma rispetto all’amministrazione della giustizia. [102/103] Si sa, infatti, che i giuristi contribuirono allo sviluppo del diritto con il ius respondendi e, poi, con la più larga attività esercitata nell’ambito della prassi e come guida di tutti gli organi adibiti alla amministrazione della giustizia e alla formazione del diritto stesso. Essi siedono nel Consilium Principis e ne dirigono tutta l’attività giuridica e amministrativa ; assi-

a rangIo -r uIz , Storia, cit., p. 246. Per questi autori cfr. S. RIccoBono , Nichilismo critico - storico nel campo del diritto romano e medievale, in Annuario della R. Università degli studi di Palermo, Estratto, Palermo, 1930. Qui basterà un periodo del Bonfante, il quale così si esprime : « Le influenze esteriori sono molteplici e vaste, le trasformazioni interne grandiose, ma tutto il sistema giuridico si muove, nondimeno, sulle antiche basi, sul perno delle tradizioni genuinamente romane » (Storia del diritto romano, 4a ed., Roma, 1934, I, p. 1 ; cfr. II, p. 36). 103 (1/102).

104 (2/102).

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stono l’imperatore nella funzione giudiziaria e nella redazione di tutti gli atti imperiali ; chiamati alle più alte cariche, ebbero a volte nelle mani la direzione del governo dell’Impero. In ordine a questo punto non occorrono esempi né autorità di storici ; perché gli elementi essenziali che attestano l’influsso e il risultato dell’attività dei giuristi dell’impero sono patrimonio comune. Quanto agli Imperatori, poi, il giudizio riferito non tocca direttamente il nostro tema. Ma esso è ben lontano dalla verità ; e se le cause della valutazione così divergente sono le medesime, tanto per l’opera della giurisprudenza quanto per quella degli Imperatori, è opportuno in questo luogo dire qualche cosa su questo problema. sino alla metà del secolo XiX l’influsso degli imperatori sull’amministrazione della giustizia e lo sviluppo del diritto non era stato messo in rilievo. Il RudorFF per primo, nella sua Storia del diritto romano, richiamò l’attenzione su questo tema e disse che nell’Impero, e precisamente nella cognitio extra ordinem, si era venuto formando un nuovo ordinamento giuridico, che poteva indicarsi come ius extraordinarium, costituito dagli atti imperiali, dalle decisioni emanate dai funzionari della cognitio extra ordinem, dai senatoconsulti ecc. Questo risultato, accolto in un primo momento con grande favore, fu subito dopo respinto con fermezza, per l’opposizione manifestata dal WLaS SaK in un libretto del 1884105. La dimostrazione del W LaSSaK apparisce oggi del tutto superficiale ; perché in sostanza in essa è posto in rilievo, con elenchi di testi, il contrapposto ius civile e ius honorarium, che egli ritenne, per quanto formale, ancora vivo net Corpus iuris ed unico nella tradizione romana, per escludere, di conseguenza, qualsiasi altro ordinamento nuovo. La dimostrazione è insufficiente, in quanto in essa non furono considerati né la progressiva compenetrazione dei due ordini, civile e pretorio, né il superamento dell’uno e dell’altro mediante la prassi della cognitio extra ordinem, l’attività del Senato e della giurisprudenza, che appariscono già nelle stesse Istituzioni di GaIo in luce abbastanza chiara. Il problema, dunque, do-

105 (1/103). M. WLaSSaK , Kritische Studien zur Theorie der Rechtsquellen im Zeitalter der klassischen Juristen, Graz, 1884.

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veva essere esaminato più a fondo e non con un banale elenco di passi. Del resto l’idea del RudorFF , se fu respinta, non morì. Cito, per es., il SohM , il quale impostò sul fondamento della formazione di un ius novum tutto lo sviluppo del diritto romano nell’impero ; [103/104] elemento essenziale questo che diede chiarezza ed efficacia al celebre manuale dell’autore106. Allo stato delle nostre conoscenze oggi nessuno nega e potrebbe negare l’influsso della attività degli imperatori sulla trasformazione del diritto, che si manifesta imponente in tutti gl’istituti di diritto privato come nel diritto penale ed amministrativo. Il BrunS 107 sul proposito scriveva : « tutta questa formazione del diritto va annoverata fra le pagine più splendide della vita del diritto romano ». La Palingenesia delle Costituzioni imperiali farà scomparire qualsiasi dubbio su questo argomento. Essa metterà in piena luce come e quanto l’attivita imperiale, specialmente a cominciare da Adriano, si venne sostituendo a tutti gli organi di produzione del diritto, al Senato, al pretore ed alla stessa giurisprudenza : la quale mantiene bensì la sua funzione di guida e consigliera, ma ormai in ordine subordinato all’autorità del Principe. La verità è che, rispetto a tutti questi problemi, partendo dalle nozioni costituzionali e dai principî e dal sistema tradizionale del ius civile si arriva ad un vicolo cieco, che impedisce la visione più larga di tutto il panorama dello sviluppo e della formazione del diritto dell’Impero. Certo è che la vita sociale, economica, le nuove esigenze morali premono da tutte le parti, e la pratica doveva seguire questo movimento e non arrestarsi a quella tradizione arcaica dell’epoca della Repubblica. Bisogna evitare l’assurdo che necessariamente deriva da quella supposta immobilità ed immutabilità della tradizione giuridica antica, mentre tutto attorno è movimento di idee, di traffici, di nuove esigenze che dovevano essere 106 (1/104). R. S ohM , Institutionen. Geschichte und System des römischen Privatrechts, 17a ed., a cura di L. Mitteis e L. Wenger, München - Leipzig, 1923, p. 113, così scriveva : « Die vornehmste Bedeutung des Kaiserrechts aber lag nicht in den Einzelschöpfungen, die es hervorbrachte, sondern in den Umgestaltung der Grundgedanken des gesamten Rechtslebens ». Vedi ora anche MITTeIS , Storia del diritto antico, cit., p. 492. 107 (2/104). B runS -P ernIce -L eneL , Geschichte, cit., p. 355.

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considerate nell’applicazione pratica delle norme giuridiche e poi, con matura esperienza e ponderazione, nella teoria. Diciamo, dunque, che la giurisprudenza e gli imperatori adempirono con efficacia il loro ufficio nel periodo del massimo splendore e della grande attività riordinatrice dell’Impero. La giurisprudenza, in particolare, poté elaborare la materia con tutta quell’arte e quella tecnica di cui la storia mai vide altro esempio. L’opus magnum, il grande portento compiuto dalla giurisprudenza romana consiste in ciò : che i giuristi romani, pur essendo solo interpreti del diritto vigente e non legislatori, seppero con cautela, con acutezza, con mirabile equilibrio, tener ferma la tradizione giuridica, per quanto era possibile, come freno potente all’irrompere di nuove idee e consuetudini del vasto Impero ; [104/105] ma, nello stesso tempo, seppero ricostruire giorno per giorno, pietra su pietra, lentamente nella prassi, tutto un nuovo ordine improntato ormai ai grandi principî della equità e dell’utilità. Il risultato non è visibile a prima vista, perché all’esterno il sistema del ius civile arcaico appare sempre presente e dominante. Ma, all’interno e nella realtà, quella tradizione rovinava ogni giorno in tutti i rami del diritto, non solo nell’ambito della famiglia e delle persone o nell’eredità, ma anche nel campo delle obbligazioni e dei diritti reali, in cui i principî fondamentali del ius civile erano nella pratica sostituiti da nuove norme, decisioni e categorie, con le quali si veniva tessendo la trama d’un diritto più largo, più equo, adatto alle esigenze dei nuovi tempi e di tutte le genti dell’Impero. La giurisprudenza operava con tutti i mezzi che l’arte dell’interpretazione, in primo luogo, e la tecnica e la prassi pretoria offrivano, ed in particolare mediante l’analogia e poi l’exceptio doli, actiones in factum, actiones ficticiae, e così di seguito. Per questo rispetto il risultato dell’attività della giurisprudenza fino al secolo ii appare immenso, e si concreta nello sviluppo, e nella più radicale trasformazione del diritto, dapprima nella pratica, cui segue a grado a grado la teoria. La verità è che Roma creò due volte il suo diritto, la prima volta con la forte disciplina del popolo di agricoltori e pastori, con rigore di forme e di principî. La seconda volta, dopo le grandi conquiste, dalla lex Aebutia all’epoca di Alessandro severo, lo rielaborò su altre

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basi, creò il diritto universale che aveva per sostanza di esperienza e per perfezione di tecnica i caratteri di verità eterne108. Più tardi apparve cosa sovrumana, e nel medio evo meritò la qualifica di ratio scripta. Per questi pregi, e principalmente per l’alto valore della sua elaborazione scientifica, il diritto creato da Roma ha compiuto nella storia il suo cammino trionfale, conquistando sempre nuovi territori ; onde poté divenire il diritto dei popoli civili. ed il suo alto valore pratico e scientifico è ancora una volta conclamato oggi. Il KüBLer 109 infatti scrive : « quanto più profondamente si scruta il patrimonio degli antichi romani tanto più si riconosce il suo valore. La sistematica del diritto, la quale è sino ai nostri giorni il fondamento di quasi tutti gli ordinamenti giuridici, e tale rimarrà per lungo tempo, è creazione di Roma » ; e soggiunge che il WILaMoWITz 110 dice : « Una scienza del diritto manca del [105/106] tutto agli Ateniesi e sopratutto agli Elleni. Il diritto degli Elleni è incorporato nella filosofia. Quello che per Roma era la logica del diritto, fu per gli elleni la filosofia ». Il giudizio del grande ellenista, sulla vocazione del tutto negativa dei greci per la scienza giuridica, ci consente venire alle conclusioni. in definitiva gli scrittori che negano oggi il contributo della giurisprudenza classica allo sviluppo e alla trasformazione del diritto vogliono dire, invece, che il diritto romano subì un profondo mutamento sotto ogni aspetto nell’epoca bizantina, la quale avrebbe preparato la codificazione di GIuSTI nIano , sia dal lato teorico che normativo. Di questo problema dovremo noi occuparci in seguito ; ma qui è opportuno fare qualche osservazione. Così il BonFanTe 111 riafferma che dopo DIo cLezIano « la corrente dell’ellenismo ... irrompe via via senza ritegno né direzione, travolgendo e rimescolando gli ordini della cultura antica ... Certo », egli soggiunge, « l’evoluzione 108 (1/105). S. RIccoBono , La definizione del « ius » al tempo di Adriano, in B.I.D.R., 53-54, 1948, p. 71 ss., poi in Annali Seminario Giuridico Palermo, 20, 1949, p. 5 ss. 109 (2/105). KüBLer , Philolog. Wochenschr., 57, 1937, n. 33-34. 110 (3/105). WILaMoWITz-MoeLLendorFF, Aristoteles und Athen, I, cit., p. 380. 111 (1/106). B onFanTe , Storia, cit., II, p. 36.

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interna e continuativa del diritto romano è finita ». La critica moderna ha creduto, in questo senso, di poter precisare le forme e gli effetti di codesta violenta invasione dell’ellenismo. I maestri greci avrebbero rielaborato tutto quel ricco patrimonio giuridico contenuto negli scritti dei romani giureconsulti, innestandovi, dal lato teorico, l’elemento psicologico, la voluntas ; mentre dal lato normativo avrebbero preso il sopravvento le consuetudini ellenistiche ed orientali, le quali dopo la costituzione del 212 di CaracaLLa , che diede a quasi tutti gli abitanti dell’Impero la cittadinanza romana, non solo resistettero al diritto romano, ma poterono vincerlo e sopraffarlo. Questi avvenimenti sarebbero stati rivelati dal gran numero di interpolazioni introdotte da GIuSTInIano nei passi estratti dalle opere dei giureconsulti, ed ancora dai documenti grecoegizi, i quali sotto alcuni aspetti con quelle coincidono. Su questi elementi si è ricostruito il processo di trasformazione del diritto nei secoli iv e v, esaltando l’influsso delle consuetudini delle provincie orientali. E su questi fondamenti i nostri storici si credettero autorizzati a immiserire il patrimonio giuridico romano rappresentato fermo nelle sue forme primitive, immobile sulle antiche basi, appunto per accrescere l’apporto delle scuole bizantine dal lato teorico, e delle consuetudini provinciali dal lato pratico. Ma la tradizione millenaria non è stata scossa da siffatte argomentazioni ; Roma mantiene intatta la gloria del diritto che essa seppe trasformare dall’angusto nucleo nazionale in un ordine universale : imponente risultato, questo, della sua azione unificatrice di tutte le genti dell’Impero, creazione superba del suo genio. E per altro è confortevole, nel chiudere queste note, dire che dopo un quarantennio di indagini e di tentativi laboriosi, di scoperte e di [106/107] affermazioni illusorie, i risultati ormai svaniscono nel nulla112 ! Delle scuole bizantine, in realtà, si è potuto accertare soltanto un’ammirevole attività recettizia, ma per altro una grande miseria di classificazioni, parafrasi e formulazioni di regole generali, quasi sempre difettose dal lato tecnico e sostanziale. Quanto alle interpolazioni esse risultano nella stragrande maggioranza di carattere formale, promosse dalle esigenze 112 (1/107).

Cfr. RIccoBono , La definizione del « ius », cit.

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dell’opera legislativa113. ed infine l’influsso delle consuetudini e dei diritti provinciali (es., dell’uso e del valore del documento) si manifesta sin dall’epoca della Repubblica, e con moto sempre più accelerato nell’Impero, rigorosamente controllato dalla grande giurisprudenza classica. Questo è il risultato degli studi più recenti. Ma è naturale che l’eco delle clamorose scoperte, di cui fu detto sopra, risuona ancora nelle opere dei nostri storici ; e ci vorrà del tempo perché si disperda del tutto. § 27. Bonum et aequum e la definizione del ius di Celso al tempo di Adriano. D. 1, 1, 1 pr., de iustitia et iure, Ulpianus, inst., « nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi » 1

Dagli ultimi quattro paragrafi che precedono, lo studioso del diritto romano avrà potuto rilevare che in virtù delle indagini più profonde sulle fonti romane e papirologiche, negli ultimi cinquantanni, tutta la tradizione giuridica, affermatasi nel corso di più che due millenni, è stata messa in dubbio e sconvolta nei suoi punti vitali ; onde, malgrado la più grande ricchezza di cognizioni storiche, ci troviamo nel momento presente disorientati ed in piena crisi storica rispetto all’opera della giurisprudenza, al suo valore ed ai precipui fattori della evoluzione del diritto. Molti problemi pertinenti all’argomento saranno ripresi e chiariti più oltre. Per ora intanto urge nel chiudere questo capitolo affermare due punti basilari. Il primo, che nella evoluzione storica il diritto romano si è sempre più allontanato da quei principî originari che costituivano la struttura organica del diritto delle XII Tavole, perdendo quindi progressivamente tutte le caratteristiche proprie al diritto dei Quiriti. In ordine a questo mutamento e al modo come si è compiuto, basti qui il richiamo alla formazione del ius gentium ed all’attività dei pretori, peregrino ed urbano, di cui abbiamo trattato so-

113 (2/107).

vedi Capo Xiii, Appendice al § 6 sulle interpolazioni, p. 270.

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pra. il secondo, che il diritto che si vien formando fin dal secolo VI a. U. è tutto fondato su nuove basi, sulla fides ed il bonum et aequum. [107/108] In questo secondo punto centrale la crisi odierna ha raggiunto il suo vertice, giacché autorevoli storici, tra i quali lo Schulz di recente, hanno voluto disconoscere la evoluzione del diritto in questo senso, sostenendo invece la continuità inflessibile, almeno fino a Diocleziano, della tradizione del diritto decemvirale. Assurdo patente questo, giacché essendo mutata, dopo le guerre puniche, tutta la struttura familiare, economica, sociale di Roma antica il diritto doveva necessariamente ricomporsi su nuove basi, in altra direzione, sotto l’impulso del mutamento radicale della vita medesima. Abbiamo così indicati i punti essenziali delle divergenze attuali nel campo dei nostri studi. Ed in questo senso ognuno deve riconoscere che la crisi è grave. Infatti lo Schulz, storico eminente della scienza del diritto romano, ha potuto non solo dubitare della definizione del ius formulata dal grande giurista Celso figlio114, al tempo di Adriano, ma pure affermare con grande sicurezza che quella definizione, riferita in testa al presente paragrafo, sia di fattura retorica e vuota di contenuto. Ecco, dunque, un problema che merita subito accurato esame. AeQUitAs i. — Aequitas è la medesima sostanza del diritto, onde aequum è = ius. Cicerone (Topica 2, 9) definisce ius civile est aequitas constituta. Anzi, in questa espressione l’aequitas ha rilievo, in quanto sarebbe la base del ius, quella che prepara e fornisce al ius la materia, che scaturisce con moto perenne da una sorgente viva, la vita del popolo. onde la congiunzione dei due termini, per es. iuris et aequitatis (CIc ., Pro Caec. 28, 81), ius et aequi bonique rationem (ivi, 80), sta a significare la perfetta compenetrazione dei due ordini della humana societas, quello giuridico e insieme quello etico, che insieme realizzano l’idea, come dice Seneca, del diritto 114 (1/108).

S chuLz , History, cit., p. 136.

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« giustissimo ». orazio (Sat. 1, 3, v. 98) ... utilitas, iusti prope mater et aequi. E Cicerone esalta perciò la grande virtù del suo amico Aquilio Gallo, dicendo (Pro Caec. 27, 78) qui iuris civilis rationem numquam ab aequitate seiunxerit, e di Servio Sulpicio dice (Philipp. 9, 5, 10) paene divina eius in legibus interpretandis, aequitate explicanda scientia. Cicerone vuol dire qui in primo luogo che ius ed aequitas sono in sé e per sé inseparabili ; e poi che Servio possedette in sommo grado l’arte di mettere in evidenza la aequitas, cioè il fondamento delle leggi per spiegarne la ragione e la forza. In codesti esempi ci viene rivelata la natura dell’aequitas che è uguale al ius e da questo indissociabile. Ius enim semper est quaesitum aequabile, neque enim aliter esset ius : Cic. De off. 2, 12, 42. [108/109] Ma ius ed aequitas non sono la medesima entità115. Ciascuna di esse ha propri presupposti e diverso raggio di azione. L’aequitas ha un fondamento naturale ; scaturisce immediata dalla natura medesima in ogni consorzio umano ed assume la sostanza dal complesso di abitudini e costumi stabiliti ; di sentimenti comuni profondamente radicati, come le proprietà fisiche della natura. onde l’aequitas s’identifica con quella comune esperienza e quell’insieme d’istinti morali ed intellettuali che costituiscono una specie di saggezza pratica empirica, più profonda e più densa di qualunque costruzione artificiale di uomini esperti. il diritto costituito si forma già da quell’ordine etico sociale più largo (aequitas constituta), o mediante la consuetudine, o con espressa dichiarazione di legislatore, ed ha come caratteristica propria la tutela da parte dello Stato che ne garentisce l’osservanza. Quando perciò si congiungono i due termini, ius et aequitas – iustum et aequum – ius et aequum, non si commette una tautologia come lo Schulz116 attribuisce ad Ennio, ius et aecum, bensì si afferma che il ius risponde perfettamente alle esigenze dei tempi ed alla coscienza del popolo, che è in definitiva la fonte viva di ogni diritto. Ciò è notato da Aristotile, come si vedrà subito. S chuLz , History, cit., p. 75, nt. 4. Ma vedi sul testo la interpretazione di E. Fraenkel, riportata da F. PrIngSheIM , Bonum et aequum, in Z.S.S., 52, 1932, p. 80, nt. 3. 115 (1/109).

116 (2/109).

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2. — Ciò posto, passando al secondo punto, si comprenderà ora con agevolezza che ius ed aequitas possono presentarsi in contrasto, nel senso che il diritto costituito si viene a trovare in disaccordo o anche in aperta opposizione all’aequitas, vale a dire con tutto quell’ordine economico-eticosociale come sopra spiegato. Questa eventualità merita particolare attenzione nella nostra indagine, perché mai si è riscontrata nella storia del diritto in maniera più profonda e durevole come in Roma. La causa evidente è data dalla sopravvivenza della lex XII Tabularum in un mondo del tutto nuovo. I testi che riportano il contrasto sono la maggioranza nelle nostre fonti, innumerevoli. Quelli che si trovano in Cicerone furono raccolti dal Voigt117 ; il più espressivo dice ex aequo et bono, non ex callido versutoque iure rem iudicari oportere (Pro Caec. 23, 65). Nelle fonti giuridiche il contrasto appare sotto le forme più varie : aequitatis ratione ; sed praetor ... ; sed exceptione doli ... subtilitate iuris... sed ; aequitas dictat ... ; aequitas suggerit ... ; aequum est ... Che in molti passi si dimostri evidente la mano dei compilatori o di annotatori post-classici non muta la sostanza delle cose. Non può mutarla, perché se, come è noto, fides e bonum [109/110] aequum avevano nel periodo classico corretto principî e norme del ius civile mediante l’attività del pretore, in maniera più di frequente indiretta, è ovvio che nel periodo postclassico, divenuto il ius praetorium per sé stesso ius civile, nella pratica e poi nei testi legislativi fides ed aequitas dovevano assumere altra posizione, quella di fondamento del diritto, ed emergere in maggiore evidenza. or la esatta proporzione tra ius ed aequitas può essere turbata o anche del tutto spezzata, come si è detto, principalmente per due cause : a) per l’imperfezione della legge, difettosa nella dizione ovvero troppo angusta nella sua struttura ; b) perché l’ordinamento giuridico è stato di gran lunga superato dalla vita, dopo avvenimenti straordinari o il lungo tempo trascorso dalla formazione della legge, onde si

117 (3/109). VoIgT , Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, I, cit., p. 41 ss.

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manifesta antiquato e disadatto a regolare i rapporti della vita attuale. Nell’uno e nell’altro caso entra in funzione la aequitas, appunto per ristabilire l’equilibrio tra i due ordini. A tal fine l’aequitas spiega la sua forza nei modi più vari secondo i tempi e la struttura degli ordinamenti giuridici. Compito del giurista è in primo luogo quello di integrare il ius o adattarlo alle nuove condizioni, se possibile per via della interpretazione o, in ogni caso, per correggerlo secondo le nuove esigenze della vita con quei mezzi che l’ordine giuridico permette. Noi sappiamo che nel mondo romano la funzione dell’aequitas correttiva del ius e insieme creatrice del ius novum è stata attuata da organi costituzionali, da magistrati, onde quella funzione assunse un carattere permanente e preminente, appunto, per la grandezza degli avvenimenti, dopo la codificazione delle Xii tavole, che, trascorsi due secoli, apparve già un ordinamento arcaico, inadeguato alle nuove condizioni sociali e soverchiamente gravoso per il suo formalismo. Appunto, l’adeguazione del ius ai nuovi tempi fu assunta e gradualmente compiuta dal pretore urbano e poi dagli imperatori, sotto la guida della giurisprudenza. Tutti codesti organi vi provvidero, particolarmente, sia a mezzo di meccanismi con i quali gli effetti iniqui del diritto arcaico erano paralizzati, sia con l’uso di vari rimedi ed in complesso poi con la creazione di un nuovo ordinamento, nell’amministrazione della giustizia, dove si vennero accumulando istituzioni, norme ed esperienze preziose che costituirono un patrimonio giuridico perfettamente consono ai nuovi tempi ed alla natura degli affari. Questo nuovo diritto era costituito tutto in modo omogeneo al ius gentium, fondato su nuove basi, sulla fides ed il bonum et aequum. Era fatale che esso doveva esercitare il suo benefico influsso sull’antico ius civile ; contrastarlo dapprima, ed alfine prevalere ed assorbirlo tutto nella sua orbita. Con ciò è detto che già nel periodo classico venne acquistando la prevalenza e funzione direttiva nel campo del diritto. Questa forza irresistibile del ius gentium e del ius praetorium procedeva, [110/111] come sappiamo, dal fatto che esso aveva un fondamento nella realtà ed alimento dalla vita stessa, cioè da quella nuova struttura di usi e costumi stabiliti, da nuove condizioni economiche ed intellettuali, da sentimenti comuni già in fermento, che

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costituiscono nell’insieme l’essenza della vita sociale in un dato periodo118. 3. — ecco il significato di bonum et aequum, fonte perenne del diritto, costituito da elementi vivi della vita, si può dire dettato dalla stessa natura. L’espressione sintetica di Cicerone (De off. 1, 35, 129), natura ipsa magistra et duce, rispecchia il fenomeno con precisione. onde il bonum et aequum rappresenta sempre, in ogni tempo, il diritto giusto. Di fronte al diritto costituito esso esercita funzione di controllo e correttiva, e questa apparisce in Roma attivissima, in una maniera caratteristica e permanente di fronte alla lex XII Tab., che rimase sempre in vigore. Questo è appunto il significato specifico dell’aequum bonum delle fonti letterarie e giuridiche romane. Se ci allontaniamo da questa intelligenza di quella formula, attribuendole il significato ideale e generico del « buono » e del « giusto », come usato da Socrate e da Platone, nei dibattiti filosofici, allora si corre il pericolo della tautologia, o ancora peggio, quello di dichiarare il detto del giurista incomprensibile ovvero, dirà G. Del Vecchio119, che bonum et aequum della definizione di Celso, come l’honeste vivere, non tanto sono concetti giuridici ma morali. or se tutto ciò è vero, si manifestano nello stesso tempo provate le affermazioni fatte sopra, sia a riguardo della prevalenza acquistata dal bonum et aequum già nel periodo classico, seppure sorretta ancora dai mezzi pretorii, sia quel maggior risalto del bonum et aequum nella compilazione di Giustiniano, dove, eliminato tutto l’apparato formale del ius civile, necessariamente esso appariva il fondamento diretto e caratteristico di tutto l’ordine giuridico rinnovato. 4. — Così la definizione di Celso pone in rilievo l’essenza del diritto secondo la nuova tradizione romana, che aveva nel corso degli ultimi quattro secoli mutato la sua base, ricostruendola sul bonum et aequum. 118 (1/111). Consideri l’osservatore del mondo moderno quel che avviene oggi dopo le due grandi guerre nel campo sociale, e quindi nello spirito e nel movimento del diritto. Il distacco in Roma, dopo le guerre puniche, fu, senza confronto, più profondo. 119 (2/111). Lezioni di Filosofia del diritto, 3a ed., Roma, 1936, p. 204.

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I romanisti moderni hanno rivolto tutte le fatiche e le forze dell’ingegno ad illustrare il lato storico del diritto romano con larga critica dei testi antichi e con la revisione di tutta la tradizione, e con tale spirito hanno affrontato il nostro problema, che di continuo stava dinanzi i loro occhi e si invischiava fra le loro mani. Il criterio di dichiarare interpolata in molti passi fondamentali quella formula era un rimedio che per sé non poteva risolvere il [111/112] problema, ove si consideri che il richiamo al bonum et aequum, non solo domina nelle fonti giuridiche, ma campeggia in tutta la letteratura latina da Plauto e Terenzio a Cicerone e Sallustio, per citare per ora soltanto poeti e scrittori dell’epoca repubblicana. Prima di venire pertanto alla critica dei testi classici era necessario chiarire in maniera certa, per quanto è possibile nella nostra materia, l’origine e la funzione di quelle parole nell’epoca della Repubblica. Questo compito poteva essere assolto dal Pringsheim, che, come ho notato, ha la maggiore e più sicura competenza in questo campo. Ed in realtà egli ha, nella citata dissertazione Bonum et aequum, diffuso una gran luce su molti problemi. Ma in complesso dobbiamo riconoscere che i risultati sono ancora molto insoddisfacenti, perché il problema delle interpolazioni è lo stesso problema della evoluzione del diritto, che ne costituisce la base ed il fine. La tecnica, invece, lessicale, statistica, logica ecc., con la quale si suol procedere nell’esame dei testi, ha importanza secondaria, nel senso che per sé nulla può risolvere. Potremo dire soltanto qui quel che Baldo degli Ubaldi scriveva dei pacta segnalati con la frase materia bona. Ma l’importanza del nostro problema è senza confronti, perché qui si tratta in definitiva di mettere in luce la sorgente più viva del diritto romano, dal momento in cui abbandonando l’antico angusto alveo si veniva trasformando in amplissimo fiume. 5. — vediamo dapprima le testimonianze che provengono dagli scrittori latini per accertare il significato del bonum et aequum. Magnifica, per l’espressione sopra tutte le altre viva, la rappresentazione che leggiamo in Plauto (Men. 580) e in Terenzio, dove ius e bonum atque aequum non sono in contrasto bensì in una certa graduazione. Riporto il testo di Terenzio

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(Heaut. 642 s.), perché più largo e quasi con commento : qui neque ius neque bonum atque aequom sciunt 120, meliu’ peiu’, prosit, obsit, nil vident nisi quod lubet. L’invettiva colpisce ignobili egoisti, gaudenti, dissipatori che ignorano il ius e ogni ordine morale, come la Semiramide dantesca che libito fe’ licito in sua legge121. Ius e bonum et aequum, non è dubbio, rappresentano qui i due ordini della humana societas, il giuridico da una parte e l’etico dall’altra, che mai può essere ignorato e meno che lo stesso ordine giuridico può essere violato. Identica invettiva scaglia Cicerone contro Verre (In Verrem actio secunda 1, 136) che governò in Sicilia da ladrone, apud quem non ius, non aequitas ... valeret, per significare che aveva spregiato il diritto e la morale ; in Sallustio (Catil. 15, 1) contra ius fasque ha lo stesso significato. [112/113] Adopero qui l’espressione « ordine etico » per indicare quel contenuto più complesso dell’aequum spiegato (p. 118) ; la quale intelligenza è autorevolmente confermata dal Fraenkel e dal Pringsheim122 giusto a proposito del bonum aequum di Plauto, che riecheggia certamente il tenore dei dibattiti giudiziari nei processi presso il pretore peregrino, in cui non argomentazioni tratte dalla legge e dalla logica giuridica avevano valore, bensì il rilievo di tutti gli elementi del fatto o del rapporto, « das anständige Verhalten, das, was sich gehört, was der ethischen Bürgerauffassung der damaligen römischen Gesellschaft entspricht, zur untechnischen Begründung von rechtlichen und anderen Ansprüchen des Lebens vorzubringen ». Tutto ciò è, come ho detto, non solo intellegibile ma luminoso se lo riferiamo alla giurisdizione del pretore peregrino, dove domina la fides ed il bonum aequum e non il ius. Nei processi celebrati secondo la tradizione della legge decemvirale sarebbe, invece, assurdo. D’altra parte, pensare alla derivazione del bonum aequum dal mondo greco, comunque, è congettura da scartare, perché trova subito ostacoli riconosciuti da tutti insormontabili.

Plauto ha colunt invece di sciunt (Men. 580). Inferno, V, v. 56. 122 (1/113). PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 80. 120 (1/112).

121 (2/112).

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« BonuM

eT aequuM

»

Nuova fonte di diritto

1. — Rimanendo dunque per ora nel campo romano, elementi degni di considerazione ci offre uno scrittore latino del VII secolo a. U. L’Auctor ad Herennium 2, 13, 20 enumera le fonti del diritto e fra queste annovera al quinto posto « aequum et bonum » e così illustra : Ex aequo et bono ius constat, quod ad veritatem [et utilitatem] communem videtur pertinere ; quod genus ; ut maior annis LX et cui morbus causa est, cognitorem det. Ex eo vel novum ius constitui convenit ex tempore et [ex] hominis dignitate123. Questa nuova fonte del diritto, dunque, che è una species fra le altre, si riporta alla considerazione della natura delle cose, dello stato delle persone, diciamo in generale degli elementi di fatto che offre la vita nella infinita varietà dei casi. Primeggia la ricerca della verità, vale a dire di tutte le circostanze ed elementi che caratterizzano le persone ed i fatti singoli, come li vede con gli occhi e valuta il popolo nel suo giudizio. Grande rilievo e dato poi all’utilità [113/114] comune, che nella convivenza sociale acquista sempre più importanza rispetto all’egoismo della natura umana, disciplinato in rigide formole dalla giurisprudenza pontificale. notevole già il detto di orazio, utilitas iusti prope mater et aequi, anche se dettato dalla dottrina di Epicuro. Nelle definizioni delle fonti giuridiche l’utilitas appare in rilievo in Dositeo, 1 : quod enim bonum et aequum est, omnium utilitati convenit. Che da questi elementi derivi la necessità di costituire anche nuovo diritto (vel novum ius constitui) è rilievo da notare. Negli sviluppi della giurisprudenza classica il motivo utilitatis causa è fondamento di decisioni ed istituti notevoli. 123 (2/113). Codesta benedetta dignitas, straziata dagli interpolazionisti, a cominciare da BeSeLer , che la espungono spesso dai testi classici, ritenuta indizio d’interpolazione, come se il tempo della repubblica o dell’impero di Roma fosse quello dell’ordine sovietico del secolo XX ! Una revisione di quei testi, che sono numerosi, è urgente. Vedi G. FunaIoLI , Studi di letteratura antica, II, 2a ed., Bologna, 1946, p. 87, dove cita la dissertazione di H. WegehauPT , Dignitas (Breslavia 1932).

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2. — Donde ha tratto l’anonimo scrittore, che gli storici della letteratura latina escludono sia Cicerone124, la dottrina di questa nuova fonte del diritto ? Ha essa relazione con i iudicia fondati sul bonum aequum e sulla fides, che si svolsero dapprima, come si è detto sopra, nella prassi del pretore peregrino ? La risposta dovrebbe essere affermativa. È ovvio che nella giurisdizione del pretore peregrino non poteva avere né efficacia né senso il richiamo di norme e di leggi romane, mentre la fides e il bonum aequum dovevano suggerire ed apprestare argomenti e decisioni di valore e prontamente intelligibili. Se il Pringsheim125, come io l’intendo, si riferisce, nel tratto sopra riportato, alla prassi del pretore peregrino, egli continua benissimo : « Nicht was die lex verordnet, sondern was das bonum atque aequum fordert, wird hier scheinbar bereits als ein Argument in der juristischen und der allgemeinen Sprache verwendet ». Ma se era naturale ed imprescindibile che nella giurisdizione del pretore peregrino l’aequum bonum e non la lex fosse riconosciuto come il fondamento immediato e generale per l’amministrazione della giustizia, risulta fin da ora accertato che quella nuova fonte del diritto non è una invenzione del retore del VII secolo a. U., del periodo ellenistico, né tratta da un modello greco, quindi senza alcun valore pratico, ma è piuttosto la semplice registrazione d’un fatto riconosciuto d’importanza fondamentale già nella prassi giudiziaria romana del secolo VI. Fides ed aequum bonum hanno assunto nella nuova giurisdizione la funzione della lex, sono perciò divenuti una fonte viva di diritto, rivelatasi subito di valore inestimabile. [114/115] 3. — e si potrà ancora dire che i Romani avevano antica esperienza di ciò nella vita pubblica e privata, in quanto rico-

124 (1/114). Vedi Schanz , Geschichte, cit., I, p. 295 e 466 ss., dove sono largamente riportati le varie opinioni ed i risultati delle indagini intorno alla paternità dell’opera, al valore e al tempo della redazione, che si ritiene non anteriore all’80-83 a. C. e secondo BrzoSKa , Cornificius, in R.E. PaulyWissowa, IV, 1, Stuttgart, 1900, col. 1605 ss., il libro IV dopo l’86 a. C. ; ivi ampia rassegna delle indagini eseguite. MarcheSI , Storia, cit., p. 173, propende per Cornificio, che avrebbe fatto largo uso di modelli greci. 125 (2/114). PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 80.

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noscevano l’ordine morale – aequum – come norma primaria e generale della condotta degli uomini. Così Varrone, De lingua Lat. 6, 7, 71, scrive : quod tum et praetorium ius ad legem et censorium iudicium ad aequum existimabatur126. Notiamo dunque – cosa che ha particolare importanza – che l’esperimento fatto dal pretore peregrino non era per sé stesso una novità, bensì una semplice applicazione di quella stessa disciplina usata dal censore nell’esercizio della sua importante funzione, che riguardava la cura dei costumi. È noto già127 che il controllo dei mores risale all’organizzazione gentilizia ed era esercitato con grande rigore. Nell’esempio citato da Varrone, il legame giuridico – sponsio della filia – era valutato secondo la lex nella giurisdizione del pretore, e, occorrendo, secondo il bonum aequum dal censore. Il pretore peregrino pertanto aveva subito trovato la via da percorrere segnata dalla stessa tradizione genuinamente romana, in cui la fides128 e l’aequum bonum erano riconosciuti come supremi regolatori della condotta dei singoli nella società romana129. e SPanSIone

deL

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»

1. — nella prima meta del secolo vi a. U. l’esperimento del bonum aequum nella giurisdizione del praetor peregrinus non solo si era affermato con i suoi risultati duraturi, ma ancora, per il grande valore pratico e giuridico, esso ave126 (1/115). Per le varie interpretazioni del testo di Varrone, a riguardo degli effetti della sponsio, di cui nel testo, vedi M. VoIgT , Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, II, Das jus civile und jus gentium der Römer, Leipzig, 1858, p. 234 ss., nt. 246, ed ivi citati. 127 (2/115). j herIng , Geist, cit., II, 1, § 26 ; P. de F rancIScI , Arcana imperii, III, 1, Milano, 1948, p. 81. 128 (3/115). Per la fides non occorrono, per fortuna, testimonianze speciali ; basti notare che la più antica formola che ne attesta l’importanza nel campo giuridico si legge in Catone, De re rust. 14, 3. Ma già nelle XII Tab., VIII, 21, il rapporto tra patrono e cliente era sotto la tutela della fides con sanzione sacrale ; cfr. de F rancIScI , Arcana imperii, III, 1, cit., p. 30 e ivi citati. 129 (4/115). Processi equitativi erano ab antiquo in uso ; vedi, L. MITTeIS , Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Grundbegriffe und Lehre von den juristischen Personen, Leipzig, 1908, p. 48, e Cato, De agricultura 144, 6 ; 146, 6.

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va richiamato, come possiamo ben supporre, l’attenzione dei giuristi del tempo come modello da seguire per il rinnovamento dell’antico ius civile. Da questo momento infatti s’inizia l’opera ardimentosa della giurisprudenza per una più larga applicazione del bonum aequum pure nel campo del diritto decemvirale. Cicerone, in uno dei più celebri passi delle sue opere (Top. 17, 66) scrive : illi [iurisconsulti] enim dolum malum, illi fidem bonam, illi aequum bonum ... tradiderunt. Sono naturalmente giuristi anonimi, perché la tradizione [115/116] rispetto all’attività della giurisprudenza nel sec. VI è confusa, come appare in Pomponio nel frammento de origine iuris. Ma gli esempi che adduce Cicerone sono vari con nuove decisioni o nuovi istituti, tutti, determinati dalla fides e dall’aequum, frutto dell’attività del pretore urbano, specialmente dopo la lex Aebutia. Tuttavia è certo che l’inizio della considerazione della fides e del dolus malus nel campo del ius civile si debba riportare a giuristi anteriori a Q. Mucio (fr. 66 D. 18, 1) e che l’impulso venga già dai giuristi della seconda metà del VI secolo, ed anteriori alla lex Aebutia, è manifesto da molti segni. Ho detto già in proposito che appunto da quel movimento di idee nel VI secolo è venuta la lex Aebutia, di cui sono ignoti i precedenti e la data. L’effetto comunque, nella prima metà del VII secolo appariva meraviglioso. Il diritto, anche nella giurisdizione del pretore urbano, porta decisamente l’impronta della fides, del bonum aequum. Questo risultato non può attribuirsi ad un miracolo, ma è evidentemente il prodotto d’una matura esperienza, di una intensa propagazione del sistema adoperato dal pretore peregrino e dell’attività dei giuristi pratici della fine del secolo VI. 2. — Cicerone ci rappresenta pertanto in quel passo dei Topica la prima e suprema conquista della giurisprudenza repubblicana, la quale in base alla esperienza, raccolta in primo luogo dalla prassi del pretore peregrino, era passata dalla norma generale prestabilita nella legge all’esame ed all’accertamento della verità nei suoi particolari specie nei negozi del commercio. E la verità è varia secondo le azioni degli uomini, che operano bene o male per conseguire il proprio fine, che spesso è quello di trar vantaggio dalla inesperienza o dalla debolezza degli altri. In questo esame rientra ormai

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tutta la vita, nei suoi aspetti più disparati e complessi, perché, essendo il diritto fatto per gli uomini, obbietto principale ed immediato dell’indagine deve essere necessariamente, per la giusta valutazione dei fatti, la intimità degli animi, le passioni, le frodi ed i mezzi adoperati al raggiungimento dei loro fini. Ma dire che cotesti elementi – fides bona, dolus malus, aequum bonum – sono già considerati e poi divenuti essenziali per la decisione adeguata al fatto, significa che nell’ordine giuridico quiritario era avvenuto un mutamento profondo, dal formalismo, che dominava tutta la tradizione arcaica del ius, trasfuso nella lex XII Tabularum, al prevalere degli elementi sostanziali che caratterizzano i fatti della vita e le azioni degli uomini. Era il superamento deciso ed inevitabile del ius Quiritium nel punto centrale. Ma si sa bene che la lex rimase intatta nel suo complesso, mentre il nuovo diritto si attua e svolge nella giurisdizione dei due pretori. [116/117] o rIgIne

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Di qui quel dualismo del diritto, di cui fu detto sopra, e quel grido di ribellione contro l’arcaica tradizione giuridica riferito già da Terenzio (Heaut. 796), ius summum saepe summast malitia, e ripetuto da Cicerone (De off. 1, 33) in una forma più vibrata ed assoluta : summum ius summa iniuria. Notevole che sia noto a Terenzio, morto nel 605 a. U., e posto nella commedia il « Punitore di sé stesso », rappresentata nel 591, cioè meno di un secolo dopo la istituzione della pretura peregrina, per dire, quel che a noi sopratutto interessa, che dopo circa mezzo secolo il nuovo ordine, che veniva formandosi nella prassi di quella pretura, apparve al popolo di Roma il ritorno del diritto giusto ed il trionfo della giustizia. Che l’origine del celebre motto possa derivare dai Greci è una stravagante congettura del Jörs130. Esso apparisce in una terza forma in Columella 1, 7, summum ius antiqui summam 130 (1/117). op. cit., p. 260. Vedi contro già g. S Troux, Summum ius summa iniuria.Un capitolo concernente la storia della interpretatio iuris (1926), in Annali Seminario Giuridico Palermo, 12, 1929, p. 651, nt. 8. Sul motto di Cicerone vedi sopra p. 43 ss.

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putabant crucem, e la varietà delle forme attesta, io penso, l’origine popolare non letteraria del motto. il pretore peregrino, può ben dirsi, fu l’Arcangelo del progresso del diritto. il significato di quel motto è ora tutto alla luce, grazie alla luminosa monografia dello stroux131, qualunque per altro sia il giudizio della critica più distruttrice che prudente132. ora sappiamo che il popolo romano, nelle mutate condizioni dei tempi, vedeva scomparire con viva soddisfazione e vantaggio per la giustizia, già nel secolo VI a. U., l’interpretazione angusta e pedante attaccata alla parola della legge, che discendeva dalla disciplina pontificale, riconoscendo come diritto giustissimo quello vivo che scaturiva dalla vita presente. Questo momento segna la cesura netta tra la giurisprudenza pontificale e la laica, la quale trova la sua nuova strada133. La crisi nel campo del diritto era aperta. A ciò, com’è noto, allude Cicerone (Pro Mur. 27) quando, riferendosi alla giurisprudenza dei Pontefici, scrive : in omni denique iure civili aequitatem reliquerunt, verba ipsa tenuerunt. Anche qui pertanto l’aequitas considera e scruta nei fatti, nelle azioni degli uomini tutti quegli elementi sostanziali che servono a stabilirne il valore da tutti i punti di vista, economico, etico, sociale e [117/118] sopratutto della utilità comune, come definisce l’Auctor ad Herennium sopra citato : ad veritatem et utilitatem communem. È la nozione del diritto, non solo di Roma, ma del diritto di ogni tempo, ché la sua sorgente viva è nella coscienza del popolo. Perciò il diritto che si forma per consuetudine, quale è in Roma il ius gentium od il ius naturale, è qualificato semper bonum et aequum134, perché rispecchia in ogni momento la vita attuale. 131 (2/117).

S Troux , Summum ius summa iniuria, cit. i nomi dei critici dello stroux sono riportati da F. PrIngSheIM , Römische aequitas der christichen Kaiser, in Acta Congressus Iuridici Internationalis, I, Romae, 1935, p. 128 s., nt. 17 ; si aggiunga SchuLz , History, cit., p. 76, nt. 6. Ma in ben diverso senso già L. Wenger , Der heutige Stand der römischen Rechtswissenschaft. Erreichtes und Erstrebtes, München, 1927, p. 103. Vedi ora L. ChIazzeSe , Introduzione allo studio del diritto romano, Palermo, 1948, p. 168, nt. 1, dove è da aggiungere G. von BeSeLer , Digestenkritik, in B.I.D.R., 53-54, 1948, p. 349 ss. 133 (4/117). Ma vedi SchuLz , History, cit., p. 11. 134 (1/118). Paulus, ad Sab., D. 1, 1, 11 : id quod semper aequum ac bonum est ... ius naturale. Cfr. Dositeo I. La pretesa che il semper sia interpolato è, come spesso, arbitraria (vedi PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 85, nt. 3, e ivi 132 (3/117).

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I giuristi inglesi ed americani, oggi, che vivono come i romani più a contatto con la formazione e lo sviluppo del diritto, hanno più profonda e viva nella mente la giusta nozione della natura del diritto. onde Roscoe Pound, il più alto rappresentante della scienza giuridica americana, scrive che il giurista « habitually looks at things in the concrete, not in the abstract ; ... puts its faith in experience rather than in abstractions »135. Cito ancora, occasionalmente, dal discorso pronunciato nella società dei professori di diritto dal presidente F. Raleigh Batt, il 13 luglio 1946, in Londra, le seguenti parole : « Law is the product of the community, reflecting its struggles, its passions, its prejudices, its conventions and its habits as well as its interests and ideals ... »136. Precisamente è la nozione di Cicerone, sopra ricordata : natura ipsa magistra et duce. Ma questo metodo d’interpretazione e creazione del diritto fu inaugurato in Roma nel secolo VI a. U., onde rimasero famosi tra i veteres i nomi di P. Mucio Scaevola, M. Manilio e Bruto137. « B onuM

eT aequuM

»

negLI eSeMPI

1. — Questi risultati intorno al significato ed alla funzione del bonum aequum nello sviluppo del diritto si possono illustrare con esempi. Perspicuo, come sempre, Seneca (De clem. 2, 7, 3) : Clementia liberum arbitrium habet. Non sub formula, sed ex aequo et bono iudicat ; et absolvere illi licet et, quanti vult, taxare litem. Nihil ex his facit, tamquam iusto minus fecerit, sed tamquam id, quod constituit, iustissimum sit. Sul testo Schulz scrive benissimo : « This is the true Roman attitude »138. Ma egli intende aequum uguale a ius. Io citazioni) giacché anche per ArISToTILe , Eth. Nikom. 5, 10 (1137a, 31 ss.), τὸ ἐπιεικές dura sempre e non muta ; vedi R. HIrzeL , ῎Αγραφος νόμος, in Abhandlungen der Königl. sächsischen Gesellschaft der Wissenschaft, philologisch-historische Kl. 20, 1, 1900, p. 7. 135 (2/118). Seminar, IV, p. 13 (1946). 136 (3/118). The Teaching of the common law and of its practice, riportato in The Journal of the Society of Public Teachers of Law, 1947, p. 13. 137 (4/118). PoMPonIo , D. 1, 2, 2, 39, e RIccoBono , La definizione del « ius », cit., p. 88 ss. 138 (5/118). History, cit., p. 75, nt. 1.

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ho detto dianzi che questa equazione non solo è accertata in molti testi, ma di più essa costituisce la gloria [118/119] dell’opera della giurisprudenza repubblicana, che di fronte alla tradizione delle XII Tavole è riuscita a porre il ius sulla nuova base del bonum et aequum. Ma sappiamo pure che tale effetto portentoso deriva da quel processo di rinnovamento del diritto, che possiamo seguire a larghe linee fin dalla istituzione della pretura peregrina. Esso non è originario nella tradizione giuridica romana ; di ciò ogni dubbio è escluso. L’inizio e lo sviluppo sono, come sappiamo, visibili, per cui l’aequitas ha operato con tutti i mezzi per paralizzare, rinnovandolo, l’ordine costituito. Seneca nel testo riportato ce ne dà un esempio perspicuo. Il bonum aequum rappresenta il diritto iustissimum di fronte al diritto semplicemente iustum che è quello costituito. In questo senso già Aristotele. Anche qui riapparisce il conflitto tra ius ed aequum, come in tanti altri testi, e l’inevitabile prevalenza del bonum aequum, che attinge dalla analisi della specie di fatto gli elementi sostanziali per correggere la decisione del ius. Tutto ciò emerge con precisione e grande evidenza dal testo di Seneca. Egli scrive che considerando l’aequum bonum il giudizio acquista tutta la libertà d’indagine. non si limita a valutare il fatto secondo i paragrafi della legge – non sub formula – ma attrae nell’esame tutti gli elementi essenziali della figura del fatto. La decisione rappresenterà il diritto « giustissimo » rispetto a quello fissato nella legge. Ecco il diritto rinnovato sulla base del aequum bonum, che ha la freschezza dell’acqua di fonte. Tutto rinnovato, giacché, il lettore ricorderà, mediante l’exceptio doli, anche nei iudicia stricta, la decisione è sempre fondata sul bonum et aequum. Seneca insegna, in altro luogo139, che la più pronta e facile illustrazione delle dottrine si ricava dagli esempi. Né questi mancano nella vita di ogni tempo, e specialmente in questo terribile dopoguerra carico di stranezze e scelleratezze, le quali pienamente giustificano la desolata filosofia del grande poeta siciliano, l’abate G. Meli (Palermo, 1740-1815), il quale scriveva : 139 (1/119).

Ad Lucilium 6, 5.

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Chi cosa vi nni pari ? Chiù chi li lumi criscinu, Ncanciu di migghiurari L’omini insalvaggiscinu140.

Una verità oggi amaramente sperimentata. Ecco un caso : Maria Pasquinelli uccise a Pola un generale inglese. La Corte Alleata il 10 aprile 1947 la condannò a morte. La condanna era consona ai paragrafi [119/120] della legge scritta ; il popolo invece l’assolve ex aequo et bono ed attua il diritto « giustissimo ». Perché se la premeditazione era innegabile, essa non fu alimentata da odio verso la vittima, che non conosce, non da dolo, non da vendetta, ma da esaltazione dello spirito, da angoscia profonda, alla vista dell’esodo immane di un popolo che abbandona il luogo nativo, invaso dallo straniero, che occupa quel lembo della patria, sotto la protezione delle armi vittoriose. Giustizia, dunque, della forza. onde la coscienza del popolo, depositaria del diritto giustissimo, assolve. ora la suprema Autorità Alleata ha nobilmente ascoltato la voce del popolo, concedendo la grazia. 2. — Un altro caso presenta sallustio141, che ha importanza nel campo del diritto internazionale. Bomilcare, fiduciario di Giugurta, nell’anno 664 a. U. ordì l’assassinio di Massiva, nipote di Massinissa, eseguito in Roma nel momento in cui la vittima usciva dalla casa del console Albino. La trama è svelata e Bomilcare accusato. Scrive Sallustio : Fit reus magis ex aequo bonoque quam ex iure gentium. Il ius gentium qui ha il senso di diritto internazionale142. Bomilcare che accompagnava Giugurta – qui Romam fide publica venerat – era di conseguenza protetto da immunità ; onde l’accusa, contro le norme di diritto, poteva solo essere sostenuta ex aequo bonoque, nel senso ormai a noi noto. Ben si capisce che il console, secondo riferisce Sallustio, principale sollecitatore dell’accusa, aveva con sé l’o140 (2/119). In italiano : « Che ve ne pare ? Più crescono i lumi ed invece di migliorare gli uomini inselvaggiscono ». 141 (1/120). Iug. 35, 61. 142 (2/120). MITTeIS , Privatrecht, cit., p. 62, nt. 3.

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pinione pubblica commossa per un assassinio eseguito con tanta audacia. Qui non è il luogo di illustrare questo esempio, che può avere notevole importanza nella materia del diritto internazionale. Ma è opportuno notare che l’aequum, nel suo significato originario, rimasto intatto certamente nel periodo repubblicano, mai importa attenuazione del giudizio, benignità, ma sempre, invece, giusta proporzione, perfetto equilibrio, quindi, occorrendo, giudizio severo, congruo al fatto. Ciò pone in rilievo seneca, come si è visto, nel passo citato. onde, fr. 10, 1 D. 24, 3, Proculo, considerando il caso del marito che uccide la moglie per lucrare la dote, avrà consigliato un’actio utilis o la condictio sul fondamento del bonum aequum, e scrive : non enim aequum est virum ob facinus suum dotem sperare lucrifacere143. 3. — e che la condotta degli uomini nella convivenza debba uniformarsi al modo comune di agire e di vedere, nel migliore equilibrio senza esagerare [120/121] né in meno né in più, è bellamente attestato da Terenzio (Adelph. 987) id non fieri ex vera vita neque adeo ex aequo et bono. Demea è il fratello che concepisce la vita in maniera dura e vuole severa l’educazione del figlio ; ma visto negli effetti fallire tutto il suo programma, cambia in modo repentino il suo sistema, ed esagera in tutto, in generosità, in larghezza ed indulgenza, come non avviene nella vita di tutti i giorni, né tampoco di coloro che hanno senno. 4. — Preme ora, per avviarci alla conclusione, considerare l’uso del bonum et aequum da parte dei giuristi. È naturale, dopo quanto esposto, che bonum et aequum e poi aequitas, aequum, aequissimum, sono vocaboli e motivi che campeggiano nelle fonti giuridiche. Della formula bonum et aequum il Forcellini nota, forse per primo, che è usatissima in iure. La riscontriamo infatti nella nostra fonte più autorevole, Gaius 3, 137 : « Item in his contractibus alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet ».

143 (3/120). Per la critica del testo vedi per altro PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 112.

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I contratti di cui si parla sono appunto quelli che costituiscono il nucleo fondamentale del ius gentium, protetti dapprima nella giurisdizione del pretore peregrino e dominati dalla fides. Nel quadro della presente esposizione quel fondamento e quella misura della reciproca obbligazione dei contraenti appariscono certi e incontestabili. Inoltre, il testo di Gaio è riprodotto, senza alcuna variazione, in D. 44, 7, 2, 3, e contiene una lieve modifica nelle istituzioni giustinianee, 3, 22, 3, garanzia suprema della sua autenticità. Tuttavia il Pringsheim144 mette in dubbio la derivazione classica, guidato in fondo da quella sua opinione che nega l’origine romana dell’aequitas. Gli argomenti del Pringsheim a proposito del testo gaiano sono vari e sottili, ma non insuperabili. Il confronto sostanziale del testo con Cicerone (Topica 17, 66) a me pare evidentissimo. Credo che abbiamo ora fondato motivo per non lasciarci sedurre da una tale dottrina. Né dicendo questo si vuole negare l’esistenza nell’opera di Giustiniano di interpolazioni riguardo all’aequitas e al bonum et aequum, ché la inserzione di quei termini, anche se provata largamente, mai può escludere l’origine romana del concetto, motivazione o formola, in quanto il legislatore opera spesso, bene o male, con quei concetti e mezzi che rinveniva nelle opere dei classici. L’esperienza in questo senso è ormai saldamente stabilita145. Esempio : nel fr. 17 D. 28, 3, di Papiniano resp., confermato in parte dal fragmentum Berolinense 4, 14, il richiamo al bonum et aequum può essere interpolato, ma ben giustifica la decisione favorevole al figlio praeteritus che [121/122] bonis se patris abstinuit, la quale decisione non solo è corretta ma può derivare da Papiniano, come pure il Pringsheim ammette. Così il problema delle interpolazioni nella nostra materia è ormai superato, nel senso che, seppure provate in gran numero, esse per nulla influiscono sull’origine e la funzione che il bonum et aequum esercitò, a datare dal secolo VI a. U., per la fondamentale trasformazione dell’antico diritto dei Quiriti, 144 (1/121). Ivi, p. 116 e 123 ; Pringsheim sospetta come glossa il tratto « de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet ». 145 (2/121). Basti ricordare l’opera magistrale di ChIazzeSe , Confronti testuali, cit.

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adattandolo in parte, ed in misura più larga surrogandolo, in base ai dettami imposti dalla vita rinnovata del popolo romano. Superato, ripeto, perché l’azione decisiva del bonum et aequum noi la rinveniamo già nel diritto della Repubblica, sia nella giurisdizione dei due pretori sia nell’attività dei giuristi. 5. — Dalla forma varia in cui appare bonum et aequum nelle fonti letterarie e giuridiche non si può trarre nessuna conseguenza, e nemmeno dall’ordine in cui i due vocaboli si presentano. A. s. Klotz146 notò che in Cicerone è costante l’ordine aequum et bonum. Invece la forma popolare bonum et aequum domina in tutte le fonti giuridiche147. L’uno e l’altro termine infine sono qua e là surrogati da sinonimi, iustum, verum : in iure aut in aequo verum (Cic., Brut. 39, 145) ; ius bonumque (Sall., Catil. 9, 1) ; verum bonumque (Sall., Iug. 30, 2) ; in Livio 39, 36, 12, iustum piumque bellum ha lo stesso significato, guerra fondata sul diritto e sulla morale, con accentuazione dell’elemento sacrale. La

deFInIzIone dI

c eLSo

1. — La definizione del ius data da Celso, vissuto sotto Adriano, è la conclusione del grande movimento del diritto compiutosi nel corso di più di quattro secoli. Nel suo significato sostanziale essa rappresenta il ius immediata espressione della vita del popolo, fondato su elementi naturali, che si riscontrano in tutte le azioni umane, che tendono al conseguimento di fini determinati. È questa la veritas posta in evidenza dall’anonimo autore ad Herennium. E la veritas è pure elemento essenziale della fides, nella spiegazione che ne dà Cicerone (De off. 1, 23). Perciò tra bona fides e bonum et aequum esiste un’affinità, la quale è sostanziale, fondata sulla veritas, elemento comune alle due espressioni148. Ma 146 (1/122). Praef. in CIc ., Oration. XXIX ; cfr. R. KLoTz , Handwörterbuch der Lateinischen Sprache, Braunschweig, 1879, sub v. Aequitas. 147 (2/122). PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 154 s., presenta un riassunto da tutte le fonti. 148 (3/122). Vedi per altro PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 79, 81, 96. Incredibile è la differenza che egli vorrebbe stabilire, ivi p. 96 s., sulle tracce di

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con ciò è stabilito il tramonto di tutto il [122/123] formalismo caratteristico del ius dei Quiriti. Qui sta tutto il valore della definizione e la sua precipua importanza. sono gli elementi sostanziali, che si raccolgono dalla realtà della vita, che vengono valutati dal diritto per distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, e non già le forme solenni, i verba, che oramai, esaurita la loro funzione storica, si manifestano corpi posticci e ingombranti. Altro elemento fondamentale che caratterizza il ius è la considerazione della utilitas communis, giacché la società umana ha le sue esigenze imprescindibili, le quali debbono essere soddisfatte a qualunque costo. Il tanto deplorato individualismo, anzi egoismo romano, deve cedere di fronte agli interessi vitali della humana societas. E che in Roma è stato superato, almeno nei limiti strettamente necessari, e provato dal continuo richiamo all’utilitas, all’aequitas, al bonum aequum, nel senso qui spiegato, su cui insiste sempre Cicerone, come l’anonimo autore. Schulz ha scritto benissimo149 che l’individualismo dei Romani è una leggenda. e qui è opportuno ricordare la definizione di Papiniano del ius praetorium quod praetores introduxerunt … propter utilitatem publicam (D. 1, 1, 7, 1). Dunque, l’utilitas communis è uno degli aspetti caratteristici del diritto pretorio, sul fondamento del bonum et aequum : forse Papiniano scrisse communem. E Giuliano, in un testo molto discusso dalla critica, scrive : multa autem iure civili contra rationem disputandi pro utilitate communi recepta esse innumerabilibus rebus probari potest (D. 9, 2, 51, 2)150. E questa

altri autori, tra iudicia bonae fidei e actiones in bonum et aequum, nelle quali ultime il criterio equitativo servirebbe solo per la valutazione della condanna, « nur die Bemessung der Kondemnationssumme ». Ma si deve pure contestare la possibilità di un siffatto giudizio. vedi in contrario anche v. ArangIo r uIz , Le formule con demonstratio e la loro origine, in Studi economicogiuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, 4, 1912, p. 75 ss. [= Rariora, Roma, 1946, p. 23 ss., spec. p. 75]. 149 (1/123). Prinzipien, cit., p. 161 ed ivi citati, con molto rilievo il giudizio di Biondi. 150 (2/123). Il testo ha evidenti giunture interpolate ; buone osservazioni ha u. von LüBToW , Cicero und die Methode der römischen Jurisprudenz, in Festschrift Wenger, I, München, 1944, p. 227, il quale pone giustamente l’utilitas communis (vedi sopra p. 124) in molta evidenza. Vedi ora S. S o LazzI , Pagine di critica romanistica, in B.I.D.R., 49-50, 1947-1948, p. 348.

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tradizione fu da Giustiniano assunta nella celebre massima formulata nelle Istituzioni 1, 8, 2 : expedit enim rei publicae, ne quis re sua male utatur. 2. — era superato così quel vanto tanto celebrato dagli Umanisti, che videro nel sistema del ius Quiritium la logica più rigorosa nei principî e nelle conseguenze pari a quella che opera nella geometria. Invece quella mirabile architettura arcaica è ora ridotta in frantumi. Se la vita è molto complessa, varia, illogica, anche il diritto deve per necessità adattarsi a tutte le circostanze e non può essere un sistema di logica matematica, una tavola di logaritmi. Notevole, che già nel VI secolo a. U. il foro ed il popolo hanno esperienza e coscienza di una tale verità, espressa nel motto : ius summum saepe summast malitia. Perciò le accuse di alcuni Umanisti e di qualche moderno scrittore contro la giurisprudenza classica, che avrebbe turbato l’armonia di tutto il sistema [123/124] giuridico, erano e sono insane, come le giudicò il Kübler nella recensione a Hägerström. 3. — Rimane a considerare la critica dello schulz, espressa in un giudizio distruttivo, come fu detto sopra. Avendo egli stabilito che aequum è uguale al ius, giudica la definizione di Celso una frase retorica vacua, e potrebbe designarla come una tautologia. Per esempio, ricordo che Vittorio Scialoja nel 1893 (tempi lontani !) col suo umore fine e spesso sarcastico mi riferiva il principio di un discorso accademico di B. Windscheid : « Die Rechtswissenschaft ist die Wissenschaft des Rechts »151. Evidentemente lo stesso tenore e valore, secondo schulz, avrebbe la definizione di Celso, perciò vacua ed attribuita ad un retore152. Ma il presupposto dello Schulz

151 (1/124). Cfr. B. W IndScheId , Recht and Rechtswissenschaft, in Gesammelte Reden und Abhandlungen, Leipzig, 1904, p. 4. 152 (2/124). È qui fuori causa nel confronto il nome del grande Maestro Windscheid. E per altro quella frase costituiva nel discorso del Windscheid il punto centrale : su cui dà ora chiarimenti P. KoSchaKer , Europa and das römische Recht, München - Berlin, 1947, p. 267 ss. Contro il giudizio dello schulz rispetto alla definizione di Celso, si è pronunciato già G. von BeSe Ler , Kapitel der antiken Rechtsgeschichte. Zweite Rehie, in B.I.D.R., 53-54, 1948, p. 95 ss.

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che aequum e ius siano sempre entità uguali non è possibile sostenerlo con le fonti alla mano, a cominciare da Aristotele. Su questo punto ho detto abbastanza nella esposizione che precede. Piuttosto vorrò aggiungere due osservazioni. La prima che motti e formole del diritto, esempio bonum aequum, melius aequius, ut inter bonos bene agier oportet, come quelle liturgiche, vivono di una loro vita propria, quasi segni autonomi, e non si spiegano attenendosi allo stretto significato letterale, perché ne hanno uno più ampio e più preciso che nel segno si sente e si riconosce. inevitabili perciò le difficoltà di interpretazione. A proposito della formula : « inter bonos bene agier », Cicerone (De off. 3, 70) scrive : « sed qui sint boni et quid sit bene agi magna quaestio est ». Così è che il più competente tra i romanisti ha ritenuto intraducibile quella espressione : bonum atque aequum153. La traduzione letterale è naturalmente semplice : il diritto è il sistema del buono e del giusto. « Ars » è nel significato di sistema154. Ma questa traduzione è per sé senz’anima. Il problema, quindi, si ripresenta : cosa intendevano i Romani per bonum aequum ? Quanto dice al riguardo l’Auctor ad Herennium, che in questa parte, [124/125] come il lettore sa, mi è stato di guida, corrisponde esattamente alla sostanza delle cose, come è rivelata dalla funzione che quel motivo ha esercitato in tutto il processo di rinnovamento del diritto romano. L’opera dei giuristi classici dovrà essere esaminata alla luce di questa esperienza. Da quella fonte, sotto ogni aspetto insostituibile, si potrà avere la rivelazione intera della verità. Ma, intanto, soggiungo che è grande fortuna rinvenire idee enunciate dagli antichi come guida sicura nei nostri studi. Il motivo per questa preferenza è ovvio. Uno scrittore, nel nostro caso un contemporaneo del grande Quinto Mucio, anche se retore,

153 (3/124). P rIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 95 ; anche VoIgT , Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, I, cit., p. 347, dice la definizione vaga ed indeterminata, e l’attribuisce ad influsso della filosofia stoica. Ma voigt pretende sapere ancora più : sotto l’influsso della filosofia greca, al tempo di Cicerone, si sarebbe trasformata tutta la concezione romana del diritto ; la definizione di Celso deriverebbe da καλὸν καὶ δίκαιον, identificazione di ius ed aequitas secondo gli stoici, onde egli la rifiuta. 154 (4/124). Così già la Glossa ; e vedi BeSeLer , Kapitel, cit.

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aveva certamente cognizioni più larghe ed esatte di quel che avveniva al suo tempo e cadeva sotto i suoi occhi, di quanto noi, a così grande distanza di tempo, possiamo ricostruire con la nostra fantasia. È in modo assoluto escluso che egli riproduca in questo punto una fonte greca. or l’anonimo autore, non solo annovera tra le fonti del ius il bonum aequum, che sappiamo già ben noto al popolo al tempo di Plauto, ma, di più, ne spiega il significato, che certamente desumeva dalla prassi del suo tempo, e che ha altissimo valore. Sopratutto quel riferimento alla « veritas », cioè alla natura stessa delle cose e dei fatti umani, alla ragione comune degli uomini, alla « natura » come ripete tante volte Cicerone, alla « naturalis ratio » come dice Gaio155, o anche all’« aequitas naturalis », che i critici moderni vogliono rifiutare, tra i quali basta ricordare il Pringsheim, l’indagatore più forte in questo campo di studi156. Da segnalare ancora che in alcuni scrittori, es. in Sallustio, si trova, invece della forma consueta, quell’altra « verum et bonum », il che pose in rilievo già il Cuiacio. Il verum qui è il presupposto essenziale, la realtà, e sappiamo già che la fides (Cic. De off. 1, 7, 23) ha come base pure la veritas157. [125/126] 4. — tutte queste espressioni o formole caratteristiche del bonum et aequum, noi sappiamo ora, erano estranee al diritto 155 (1/125). I testi di Gaio furono raccolti da VoIgT , Das jus naturale, aequum et bonum und jus gentium der Römer, I, cit., p. 272, note 425-426 : cfr. p. 280. 156 (2/125). Già in Jus aequum und jus scriptum, in Z.S.S., 42, 1921, p. 643 ss., e ancora più deciso in Bonum et aequum, cit., p. 141, nt. 4. Ma vedi P. BonFanTe , Istituzioni, p. 7 ss., dove bene contrappone « aequitas civilis o constituta » ad « aequitas naturalis » cioè quella che aspira a divenire ius mediante gli organi dell’evoluzione giuridica. Così anche Kübler, Maschi. In senso contrario, attribuisce sempre ai Bizantini questa terminologia PrIngSheIM , Römische aequitas, cit., p. 141 n. 110. 157 (3/125). Ivi, p. 149 s., riporta molte costituzioni d’imperatori, da Costantino in poi, che puntano sulla veritas, designata perciò come caratteristica del nuovo clima bizantino, Esempio da notare per il metodo usato dagli interpolazionisti, i quali non si sono curati di risalire alle fonti della Repubblica per valutare lo sviluppo del diritto, tenendo conto soltanto della tradizione quiritaria. Piace qui, in contrasto, ricordare alcuno dei nostri grandi giuristi del passato, es. G. D. RoMagnoSI , il quale seguendo gli insegnamenti degli autori dell’età repubblicana e classica, scriveva : « La giustizia sociale fa casa colla verità e coll’utilità comune » (Genesi del diritto penale, § 947).

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quiritario, anzi, inizialmente, stanno in opposizione al diritto formale dei Quiriti ; designano quella nuova formazione del diritto sostanziale nella giurisdizione del pretore peregrino propagatasi poi via via in virtù dell’attività intensa e costante di giuristi, di magistrati e di imperatori a tutto il complesso del diritto di Roma. Conosciamo, d’altro lato, il significato di quelle espressioni, le quali indicano che gli elementi vitali della formazione del diritto sono ormai tutti apprestati dalla vita medesima, e sono elementi economici, psicologici, etici ecc., in questo largo senso naturali, e perciò costanti, necessari e appropriati agli individui nella convivenza umana158. Se così è, la categoria del ius naturale in opposizione al ius civile è nata sul suolo di Roma, prima ed indipendentemente dall’influsso ellenico, che solo nell’età ciceroniana la assunse nell’ordine teorico, fuso o accanto al ius gentium. nella giurisprudenza Celso nel ii sec. d. C. ne trasse la definizione del ius riconoscendo nel bonum et aequum tutta l’essenza del diritto. Che questa non era visione falsa di un fanatico costruttore di dottrine è provato non solo dalle decisioni dei giuristi romani in maniera infallibile, ma ancora da circa due millenni della storia del nostro diritto. Ed invero nel lungo corso dei secoli, quando si sono ricercati e voluti determinare i fattori della formazione del diritto e degli sviluppi veramente grandiosi di esso nel primo periodo dell’impero, si è sempre richiamata la realtà della vita come fattore vivo e costante. Si sa che i giusnaturalisti, a cominciare da Ugo Grozio, ritrovarono nelle fonti romane i principii, gli argomenti e l’esperienza pratica del diritto naturale. Da quella scuola è venuto l’impulso alle codificazioni fin dal secolo Xvii, e nei codici di diritto privato del mondo civile l’assoluta prevalenza del diritto romano è un fatto incontestabile159.

158 (1/126). j herIng , Geist, cit., III, 1, § 59, p. 321 : « Nicht was die Logik, sondern was das Leben, der Verkehr, das Rechtsgefühl postuliert, hat zu geschehen, möge es logisch deduzierbar oder unmöglich sein ». Ivi, p. 305 : « Die letzten Quellen der römischen Rechtsbegriffe in psychologischen und praktischen, ethischen und historischen Gründen gesucht werden müssen ». 159 (2/126). KoSchaKer , Europa, cit., p. 275 ; L. Wenger , Naturrecht und röm. Recht, in Wissenschaft und Weltbild, 1, 2, 1948, p. 148 ss.

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Se H. Thieme160 ha voluto contrastare queste verità, con la rassegna di formole e dottrine di grandi pensatori, le sue idee evidentemente sono destinate ai filosofi e non servono ai giuristi. A lui possiamo indicare il nome di Rodolfo Jhering, cioè di un grande romanista, nel periodo più felice della sua attività scientifica, cioè quando elaborava la opera sua più celebre : Geist des römischen Rechts. Il problema era essenziale nel vasto programma della sua opera, in cui dovevano essere posti in luce il metodo dei giuristi ed [126/127] i fattori dello sviluppo del diritto. Jhering parla di « naturgeschichtliche Methode » che illustra in questi termini : « Es war ein ganz richtiges Gefühl, das einen Juristen des vorigen Jahrhunderts, den Germanisten Runde, bestimmte, die Natur der Sache als Rechtsquelle aufzustellen ; es gibt kaum einen Ausdruck, welcher der von mir im Bisherigen entwickelten naturhistorischen Anschauung sowohl der Sache wie dem Namen so nahe käme »161. Se l’autore dello Spirito del diritto romano non rimase fedele a quella dottrina e, sotto l’influsso dei Finalisti inglesi, disse « Lo scopo creatore di tutto il diritto », la differenza, forse, è più verbale che sostanziale. L’attività dei singoli infatti nella vita sociale trova immediata spinta dai più svariati interessi e pone in opera i mezzi adatti per il conseguimento di quei fini, i quali hanno la tutela dell’ordine giuridico in quanto ne è riconosciuta la utilitas communis. Se è cosi, noi sappiamo bene che tutte le vie conducono a Roma. Le formulazioni peraltro intorno ai fattori della formazione del diritto romano e al metodo dei giuristi sono varie e si possono opportunamente distinguere in due classi. Le più antiche, fino a Jhering nel brano sopracitato, si riferivano : al diritto naturale, alla natura delle cose, all’equità, allo spirito del popolo, alla coscienza del popolo, agli elementi economici ecc., fattori in gran parte ripudiati dai contemporanei, certamente perché in essi si rispecchiava in fondo lo spettro del ius naturale, eterno e immutabile, condannato dalla scuola 160 (3/126).

Basel, 1947.

Das Naturrecht und die europäische Privatrechtsgeschichte,

161 (1/127). Geist, cit., II, 2 [2a ed., Leipzig, 1869], § 41, p. 371. Non ho potuto verificare se Jhering ha mantenuto quel brano nelle successive edizioni dell’opera.

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storica del sec. XIX. Le più recenti si limitano ad indicare la intuizione che non ha regole, anche l’intuizione incosciente, di cui il giurista non saprebbe render conto (Betti), il geniale empirismo (De Francisci), il buon senso. Il problema è stato trattato dal Koschaker, nella sua poderosa opera Europa und das römische Recht, nel capitolo del Juristenrecht (p. 194 ss.) Il contrasto di idee e di formole su di un punto così essenziale per la valutazione dell’opera della giurisprudenza romana non sorprende. In primo luogo, perché i giuristi antichi non si occupano di tali problemi. Jhering (Geist, III, 1, § 59, p. 298) scriveva : « Es lag einmal nicht in ihrer Weise, auf dem Wege historischer oder rechtsphilosophischer Untersuchung bis zu den letzten Quellen des Rechts zurückzugehen oder auch nur einmal den Apparat mit dem sie arbeiteten, ihre allgemeinen Anschaungen, ihre Methode zum Gegenstand der Betrachtung zu machen ». in secondo luogo, e sopratutto se la storiografia e la critica hanno negli ultimi sessanta anni sconvolto tutta la tradizione scientifica contenuta nelle fonti, come volete esprimere un giudizio di tanto rilievo a riguardo della formazione di un diritto ridotto in frantumi ? È ovvio invece che l’indagine deve [127/128] cominciare a dare assetto alla materia e procedere poi alla ricerca del metodo e dei fattori che hanno quel diritto formato o anche trasformato. Quando si dubita della genuinità della definizione del ius tramandata dalle fonti, o si esclude addirittura, ogni giudizio rimane paralizzato. Nel dire questo intendo ripetere quanto è nella coscienza di noi tutti a cominciare dal Mitteis : che noi non conosciamo ancora l’opera dei giuristi romani. Metodo dei giuristi e fattori del diritto possono essere rivelati da una analisi accurata delle decisioni nei vari periodi, dai dibattiti delle scuole e dal numero considerevole di controversie ancora visibili nelle nostre fonti. Le controversie, specialmente, son come fari che illuminano l’aspro cammino della giurisprudenza. Agli esempi più oltre riportati giova aggiungere ancora un altro, quello caratteristico e direi singolare del ius tollendi, al fine anche di chiarire quel che si deve intendere compreso nella formula elementi naturali che offre la vita. La norma posta dalle XII Tavole, Tignum iunctum aedibus ... ne solvito, era perfettamente adeguata alle condizioni della vita primitiva di quelle popolazioni del Lazio, di pastori

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ed agricoltori, viventi in capanne formate con pali, assicelle e strame, o in case rustiche coperte da travi e tegole. Il divieto della legge era assoluto, opportunamente, perché il materiale ligneo costituiva la cosa essenziale di quelle costruzioni semplici. Ma questo primitivo stato della casa romana è solo un ricordo già nell’ultimo secolo della Repubblica, quando con lo sviluppo di una civiltà più raffinata i Romani cominciarono a rivolgere cure particolari alla costruzione della domus, dotata di tutte le comodità fino alla complessità e magnificenza di quelle signorili, di cui troviamo menzione negli autori, ed esemplari ritrovati negli scavi di Pompei, di Ercolano e di ostia. A parte la casa che rivela subito un ambiente ricco, molto frequenti sono quelle con un piccolo giardino, raccolto, intimo, dove erano coltivate con simmetria rose, viole e gigli, con zampilli d’acqua, con vestibolo decorato di statue, circondato da porticati sorretti da colonne, e poi nell’interno, nelle varie parti della casa, tavoli di marmo infissi al muro o al pavimento, vasche, lampadari pendenti dal soffitto, specchi, la cassaforte (arca) solidamente incastrata nel muro, porte di ferro per sicurezza e così via. In siffatte nuove condizioni poteva più mantenersi fermo il divieto assoluto della legge decemvirale ? Labeone, sotto Augusto, avvertì subito la incongruenza della interpretazione letterale della disposizione legislativa, estesa a tutto il materiale edilizio dai Pontefici, e sostenne che inseparabili dovevano ritenersi quelle cose congiunte all’edificio per causa perpetua e che nella congiunzione perdevano la loro individualità, ma non quelle che rimanevano integre come porte, statue, colonne di adornamento non di sostegno dell’edificio (D. 50, 16, 245 pr.)162. [128/129] L’interpretazione restrittiva era ragionevole e di evidente utilità per inquilini, usufruttuari e possessori di buona fede, i quali eventualmente avrebbero potuto togliere tutte quelle cose aggiunte per propria comodità e godimento senza temere il divieto della legge. Ma questa interpretazione fu fieramente contrastata dai capi della scuola sabiniana, anche da Giuliano, e la dottrina di Labeone, seguita dai proculiani, fu 162 (1/128). Cfr. S. r IccoBono , Dal diritto romano classico al diritto moderno. A proposito del fr. 14 D. X, 3 Paulus III ‘ad Plautium’, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 3-4, 1917, p. 445-507 (‘Ius tollendi’ e l’accessione di cose ad immobili).

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combattuta per tutto il periodo classico, come si desume da Ulpiano (fr. 15 D. 7, 1). Lo ius tollendi, nel senso stabilito da Labeone, fu affermato soltanto da Giustiniano ed è oggi diritto ammesso in tutti i codici di diritto privato. La ratio naturalis, vale a dire quella decisione dettata dalla natura delle cose, dalla utilità comune, evidente per sé stessa, poté trionfare solo dopo più che cinque secoli di contrasti. Né alcuno deve trarre da questo esempio argomento per ribattere la dottrina qui sostenuta, negando appunto che la giurisprudenza romana abbia seguito nella sua attività una idea fondamentale, quale sarebbe la considerazione della natura delle cose, la utilità comune, l’attuazione di quanto è conforme alla realtà delle cose secondo il modo di vedere degli uomini di una determinata epoca. Il contrasto dei Sabiniani, nell’esempio addotto, non è per sé negazione di quella dottrina, giacché altri esempi più appropriati in favore della medesima si ricavano dalla scuola di Sabino e Cassio. Invece, quell’esempio del ius tollendi dimostra che nella formazione e nello sviluppo del diritto romano noi troviamo il modello della lotta dura ed eterna in cui il diritto si svolge e compie qualunque avanzamento, sempre attraverso il contrasto fatale di due concezioni opposte, quella che viene dalla tradizione del passato, inesorabile, per quanto alle volte angusta e puerile, e quella del presente, che acquista ogni giorno più vigore nelle nuove generazioni, animate dalla vita attuale, aperte alle forme più progredite in qualsiasi campo dell’attività umana. È questo l’aspetto più interessante della storia del progresso umano, lotta perpetua tra due mondi : la tradizione custodita come cosa vitale, sacra ; e, d’altra parte, il progresso che ha una forza irresistibile che si accresce con ripetute esperienze e il rinnovarsi delle generazioni. Sul proposito mi si permetta un ricordo. Verso il 1880 si iniziava in Sicilia il movimento per la costruzione di ferrovie. Si poté assistere allora all’opposizione vivace, anche nel ceto intellettuale, di persone che vedevano come effetto dannoso delle ferrovie la disorganizzazione di tutta la struttura sociale e commerciale dei piccoli centri rurali, più o meno lontani dalle grandi città. Vedrete, essi dicevano con vivo rammarico, questi centri, oggi così prosperi, che servono come stazioni del commercio di tutti i prodotti del suolo, specie delle granaglie, rimarranno deserti e poveri con la scomparsa delle più

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svariate attività ; scompariranno fondaci, carrettieri, mulattieri, mediatori ed insieme tutti mestieri connessi. Scompariranno cavalli, muli, asini ; una grande [129/130] calamità, dunque. Dopo settanta anni, noi consideriamo quelle previsioni, non certamente fantastiche, ma del tutto puerili. A proposito delle scuole poi di diritto di Roma, su cui tante congetture hanno espresso i romanisti, io ho sempre ritenuto che la caratteristica che ne dà Pomponio (D. 1, 2, 2, 47), quella di tradizionalisti e progressisti, apparve, certamente in Roma, si intende nell’inizio, quella più propria. Si tratta dunque d’una legge universale che mai vien meno. or ritornando all’argomento dell’inizio di questa digressione, riconfermo che tutto il valore del diritto privato romano è dovuto appunto alla preminenza di tutti quei fattori naturali considerati come le forze vive da cui il diritto scaturisce. Le formole, si sa, possono apparire varie e imperfette, ma ciascuna di esse prospetta un lato vero del grande fenomeno della formazione e dello sviluppo del diritto. La intuizione, invece, o l’empirismo non sono che formole vuote, cui si ricorre come ripiego in mancanza di una spiegazione realistica. L’amico e collega Koschaker nella sua vigorosa e magnifica opera a me dedicata – altissimo onore di cui mi professo grato, come della più alta onorificenza avuta nella mia carriera scientifica – ha piuttosto riprovato tutte quelle spiegazioni che si riportano allo spirito del popolo, sentimento o coscienza del popolo, ed ha, direi appassionatamente, rievocato la funzione e l’opera dei giuristi, come fattore, se non unico essenziale, della formazione del diritto. Nessun romanista può dubitare dell’apporto dei giuristi al progresso del diritto, i quali, principalmente in Roma, sono celebrati e appariscono come il Prometeo che illumina e apre la via al progresso del diritto. Senza dubbio. Ma i giuristi direi sono come il chimico che ha la possibilità e la potenza di analizzare i corpi, scomporli e ricomporli, creare anche nuove specie con quegli elementi che si trovano in natura. Dal nulla il chimico non può creare cosa alcuna. Il giurista trova pure nella realtà della vita i fattori e gli elementi per esercitare la sua tecnica creativa di istituti e figure giuridiche. sopratutto trova nella coscienza del popolo la materia da elaborare. se le norme, figure o isti-

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tuti non sono sentiti dal popolo cadono in desuetudine come le foglie nell’autunno, prive della linfa vitale. La coscienza del popolo non è quindi una entità immaginaria : è una realtà che sprigiona in ogni campo grande energia. La recezione del diritto romano in Germania fu un avvenimento storico grandioso, cui certamente cooperarono i giuristi ; ma non fu mera opera dei giuristi. Essa avvenne dopo quattro secoli di uso ed espansione del diritto romano nei paesi della Germania. Avvenne per il valore, l’utilità che quel diritto offriva ai singoli e alle collettività nel commercio e nello sviluppo della [130/131] vita sempre più progredita. Le istituzioni romane si propagarono e passarono in larghissima parte nella coscienza delle popolazioni germaniche. Per queste considerazioni non so distaccarmi dalla concezione del diritto enunciata dal Savigny, il quale voleva indagare a fondo quanto del diritto straniero fosse passato nella coscienza del popolo. Aggiungo un’ultima osservazione. si hanno esempi imponenti di recezione di istituzioni giuridiche contro l’attività e l’opera dei giuristi. Anche Roma ebbe recezione di istituti ; esempio insigne, la scriptura in opposizione ai verba sollemnia. La recezione avvenne dopo l’uso di almeno quattro secoli. Avvenne contro l’azione dei giuristi, che difesero per il periodo classico con tenacia la tradizione romana, come si desume dal fr. 7, 12 D. 2, 14, riferito dai compilatori corretto in senso contrario. Avvenne ad opera dell’usus hominum nel corso del sec. III, prima di Costantino, come appare in Paolo, sententiae 5, 7, 2. Ma sul testo, che rappresenta una pietra miliare nella storia delle istituzioni giuridiche, attendiamo con ansia la illustrazione del Levy nella sua insigne opera in corso sulle sententiae di Paolo. È pertanto incontestabile che per questi grandi problemi storici e filosofici le fonti romane e le vicende del diritto romano nella storia potranno ancora offrire preziosi elementi di conoscenza per conseguire i più sicuri risultati. 5. — or appunto in questo ritorno del diritto alla sua fonte viva, al modo di vedere e di giudicare del popolo, consiste il prodigioso rinnovamento del diritto romano, passato dal primitivo formalismo, non più intelletto e sentito dagli uomini, alla considerazione della realtà vivente, scrutata a fondo ed in maniera sempre più larga sotto tutti gli aspetti. Fu l’opera ed il

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merito della giurisprudenza romana. Dopo due secoli dal nostro Anonimo, Celso, al tempo di Adriano, poté elevare quella specialissima fonte al grado sommo di fonte di tutto l’ordine giuridico, che dal bonum et aequum trae la sua sostanza. La definizione di Celso, dunque, rivela il profondo mutamento che il diritto aveva subito nei quattro secoli precedenti. Parafrasando il detto di Cicerone, più volte citato, « natura ipsa magistra et duce », possiamo illustrare la celebre definizione, dicendo : non la lex ed i verba reggono la vita, ma la realtà della vita domina il diritto. 6. — Una siffatta concezione a riguardo del rinnovamento del diritto ci spiega con agevolezza l’origine di molti istituti che la critica, usando il metro quiritario, trova anormali o difettosi nella compagine del sistema romano. Valga l’esempio delle condictiones di cui il fondamento è attribuito al bonum et aequum, come fa Papiniano, libro 8 quaestionum, fr. 66 D. 12, 6. Nessuna [131/132] ragione c’è di rifiutare questa nozione, come fa il Pringsheim163, adducendo la natura dell’actio, la quale cosa è del tutto estranea ed indipendente dal problema essenziale, che determinò dal VI secolo in poi nuovi provvedimenti contro acquisti non giustificati da una causa effettiva, riconosciuta dall’ordine naturale, come ne offre un magnifico esempio Celso in D. 12, 1, 32. Piuttosto, al di sopra di siffatte argomentazioni tecniche, qui fuori luogo, noi intendiamo ora bene la causa dell’eccellenza del diritto romano, la sua vita perenne nei tempi e la sua universalità. Tale fenomeno, più che straordinario, portentoso, non avrebbe potuto esercitare un’azione così profonda e così duratura attraverso la cultura mondiale per uno spazio così vasto di tempo. Il vero è che il diritto di Roma, che tutto si rinnova dal sec. VI a. U. in poi sul fondamento del bonum aequum, assume sempre più gli elementi essenziali della vita : esso rispecchia la natura degli uomini e delle cose, che, pur nell’incessante mutare dei tempi, rimane sempre la stessa. 163 (1/132). Bonum et aequum, cit., p. 153. Ma il iudicium strictum spiega agevolmente perché la condictio ha per obbietto la ripetizione integra della cosa o di quantità certa dalle mani dell’acquirente, il quale non ha o ha cessato di avere una causa sostanziale per quell’acquisto ; es. dote, indebito, causa turpe, possesso invaso con violenza. Così nel mutuo.

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Perciò, ben disse il Mitteis164, con cui concordava il Wenger , il diritto romano « sta a sé » per la sua essenza e per il suo sviluppo di fronte a tutti i diritti dei popoli del mondo antico. La sua originalità appunto è incisa nella definizione data da Celso nel periodo adrianeo. 165

« B onuM

eT aequuM

»

e καλὸν καi` δί΄καίον

1. — il risultato, che scaturisce dagli elementi testuali e storici posti in rilievo nella esposizione che precede, mi sembra ben fondato e coordinato nel quadro dello sviluppo del diritto romano nell’epoca della Repubblica. Ma è opportuno ancora tener conto delle contrarie opinioni, che potrebbero ridestarsi per insistere sull’origine greca del concetto e della funzione dell’aequitas. Se il testo fondamentale che offre elementi concreti per chiarire il significato sostanziale del bonum aequum è soltanto quello dell’anonimo autore ad Herennium, questo fatto, trattandosi di un retore di grande valore dell’epoca ellenistica, potrebbe essere usufruito per dar colore al sospetto già da tempo enunciato dal Pringsheim, che solo la fides fosse concetto romano – rendiamo grazie ancora una volta a Polibio per questa ammissione – mentre l’aequitas deriverebbe dal mondo greco. E di conseguenza, potrà alcuno esprimere non il dubbio ma grande meraviglia di quell’aequum bonum annoverato [132/133] tra le fonti del diritto in Roma, proprio nel secolo VII, nel tempo in cui Quinto Mucio Scevola costruiva il sistema fondato sulla lex XII Tabularum e sugli sviluppi del ius civile. Certamente in considerazione di ciò, a chiunque si attribuisse per altro la paternità di quella operetta, il passo citato (p. 124) doveva essere ritenuto senza alcun valore, rispetto agli elementi costitutivi del ius civile al tempo della Repubblica ; senza dire inoltre che quell’attestazione rappre164 (2/132). Discorso di Vienna (MITTeIS , Storia del diritto antico, cit.). Cfr. S. r IccoBono , Punti di vista critici e ricostruttivi. A proposito della dissertazione di L. Mitteis ‘Storia del diritto antico e studio del diritto romano’, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 12, 1929, p. 610. 165 (3/132). Der heutige Stand, cit., p. 2 ss. In un senso ancora più generale e per il diritto quiritario, P. BonFanTe , Teorie vecchie e nuove sull’origine dell’eredità, in B.I.D.R., 27, 1914, p. 123.

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senta un unicum nel vasto campo delle fonti giuridiche romane. Il Pringsheim166 nota appunto che la retorica fu la potente propagandatrice del bonum aequum. 2. — Ma cotesti argomenti, dubbi e sospetti sono di colpo tutti eliminati dal fatto che l’aequum, nella sua funzione e relazione molto intime col diritto, non solo è noto a Plauto ed Ennio, non solo è già allora popolare nel mondo romano, ma di più, come riferisce lo stesso Pringsheim167, secondo i risultati degli studi e della esperienza di Edoardo Fraenkel168, il brano in Plauto (Men. 580), « neque aequom bonum usquam colunt », sarebbe certamente una aggiunta plautina al modello greco che egli utilizzava. Niente da speculare, dunque, per questa via. Lo stesso Pringsheim lo riconosce, senza tuttavia che si decida ad ammettere esplicitamente che come il mondo greco ha ἐπιείκεια, che significa conveniente, opportuno, appropriato, così quello romano ha aequitas, che nella sua etimologia vale eguaglianza, unità, equilibrio. I due termini non hanno etimologicamente alcun rapporto. Quello romano è chiaro ; esprime in maniera viva il principio informatore del diritto, uguale per tutti, tenuto conto delle circostanze nei casi singoli, e quindi sempre in un rapporto di giusta proporzione e di equilibrio ; « aequitas constituta eis qui eiusdem civitatis sunt » (Cicero, Top. 2, 9). Rispetto invece alla sostanza, i due termini, il greco ed il latino, si sono sempre più avvicinati e fusi in quanto l’uno e l’altro, per la funzione che esercitano sul diritto costituito, derivano la loro forza da una medesima fonte, cioè da consuetudini stabili, sentimenti e tradizioni, che formano l’ordine etico sociale di qualsiasi comunità umana e che esercitano di continuo il controllo sul diritto stabilito e lo correggono. Tale rapporto si manifesta in maniera evidente e direi caratteristica nel mondo greco, dove l’ordine etico apparisce il fondamento della legge, e lo stesso vocabolo νόμος, che in origine designa le consuetudini stabilite, serve, dopo il VI secolo a. C., anche come termine tecnico della legge169. Bonum et aequum, cit., p. 82, e nt. 6. Ivi, p. 80, nt. 1. Plautinisches im Plautus, Berlin, 1922, p. 160. 169 (4/133). Cfr. de F rancIScI , Arcana imperii, cit., II, p. 296 ss.

166 (1/133).

167 (2/133).

168 (3/133).

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In Roma accanto al ius = diritto umano, sta il fas = diritto divino, che [133/134] ricomprende postulati etici, richiamati qua e là pure dai giuristi romani in contrasto o in appoggio al diritto costituito170. Ancora, in Roma accanto al ius hanno grande considerazione i mores maiorum, il retaggio comune del popolo romano, che riassume la tradizione di idee, usanze e sentimenti della vita patriarcale, e conserva una funzione integrativa rispetto al ius : la sacra legge morale incisa nella coscienza delle generazioni, più valida di qualsiasi norma scritta. Quando questa funzione col decadere dei costumi perde ogni forza, la legge ne assume la tutela171. Il censore, che custodiva la osservanza dei mores, non considerava la lex, bensì il rispetto di quella tradizione come dovere morale che Varrone172 designa con la parola « aequum ». Notiamo, perché ha rilievo, che se il censore, custode dei mores, giudica secondo l’aequum, non solo si spiega l’origine romana risalente di quei termini ed il loro significato preciso e differenziato dal ius, ma ovvia pure si manifesta la intelligenza popolare di essi, a tal punto che Plauto, il maestro della lingua parlata173, poteva usarli con grande efficacia nelle sue commedie. D’altra parte il parallelismo del fenomeno, in Grecia come in Roma, della rilevanza dell’ordine etico rimpetto e dentro la complessione medesima dell’ordine giuridico, è tutt’altro che straordinario. Notava appunto G. B. Vico, che cause identiche producono effetti analoghi in popoli diversi, sia rispetto alla formazione della lingua come delle istituzioni. L’ordine etico, nel senso lato qui usato, forma la base larga del diritto costituito e ne è la fonte perenne. onde esso esercita sempre una funzione di controllo e via via lo corregge174. 170 (1/134). MITTeIS , Privatrecht, cit., p. 24, nt. 5 ; R. oreSTano , Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in B.I.D.R., 46, 1939, p. 197 ss. 171 (2/134). Vedi KaSer in vari scritti citati da ChIazzeSe , Introduzione, cit., p. 160, nt. 1, e già JherIng , Geist. 172 (3/134). De lingua lat. 6, 7 ; vedi sopra p. 126. 173 (4/134). Cfr. E. BIgnone , Storia della letteratura latina, I, Originalità e formazione dello spirito romano. L’epica e il teatro dell’età della Repubblica, 2a ed., Firenze, 1946, p. 212 e 271. 174 (5/134). onde Catone il Censore, il ferreo paladino della romanità, primo nella letteratara romana, poté esprimere quella verità : Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt.

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La dottrina della ἐπιείκεια in Grecia fu stabilita in maniera magistrale da Aristotele175, seguita da scrittori romani, come Cicerone e Seneca, senza quasi nessuna variazione. Secondo Aristotele τὸ ἐπιεικές è pure ius, ma non costituito ; è migliore di certo diritto : καὶ βέλτιόν τινος δίκαιον ; e correttivo del ius ; quindi non del tutto lo stesso, né di altro genere. Questa ultima nota si intende bene per il mondo greco, in cui diritto e ordine religioso e morale non hanno confini ben determinati. In Roma, invece, essendo ius, lex, ben distinti dall’ordine etico, l’aequitas o è già ius costituito, che i giuristi (es. [134/135] Aquilio, servio) sanno con la interpretazione porre in evidenza, ovvero rimane fuori l’ordine giuridico, ed occorre ogni volta l’intervento del magistrato, con i suoi poteri e mezzi speciali, perché essa sia considerata176. Perciò la funzione dell’aequitas fu in Roma certamente molto più larga ed importante a riguardo del movimento e del rinnovamento del diritto, che si effettua nel corso di secoli in virtù soltanto della pratica giudiziaria. L’esperienza romana, più ricca sul proposito di quella greca, appunto in grazia della tecnica più elaborata, poté esercitare il suo influsso anche sul diritto ellenistico, in particolare nel senso che la terminologia romana « bonum aequum » s’impose pure nel mondo greco. Niente di straordinario in ciò. Nel periodo ellenistico, ben come tale designato ora dallo Schulz177, se la voce dei romani è unanime nell’esaltare la grande sorgente d’energia che la cultura greca arrecò a Roma, potenziandone le native attitudini, non è men vero che nel campo del diritto il genio di Roma, col suo realismo libero da aride astrattezze, fecondò pure per sempre il mondo ellenistico. 3 — A stabilire l’origine del bonum et aequum, il significato e la propagazione nel mondo romano e nel greco ha dedicato il Pringsheim il suo più notevole studio, che ho dichiarato fondamentale nella nostra materia. L’ansia dell’autore per rinvenire prove dell’origine greca dell’ae175 (6/134). Eth. Nikom. V, 10, 1137a, 31 ss. Altrimenti giudica schuLz , History, cit., p. 75. 176 (1/135). Cfr. sopratutto D. 1, 3, 13. 177 (2/135). History, cit., p. 38 s., e cioè dalla fine della seconda guerra Punica ad Augusto.

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quum è evidente, ma il risultato sempre negativo, come egli stesso dichiara ogni volta in omaggio alla verità storica178. Solo un punto appare accertato, il momento in cui l’unione di quelle due parole, col suo significato giuridico, apparisce in forma greca nei termini καλὸν καὶ δίκαιον. Ciò avviene nella iscrizione di Magnesia, che riporta in greco un senatoconsulto, col quale la città di Mylasa è nominata dal Senato romano a decidere una controversia tra Priene e Magnesia179. Il senatoconsulto si riporta al periodo tra il 190 e il 160 a. C. e fu illustrato ad altro fine dal Partsch180 nel 1905. Il testo latino doveva dire, come nella formola romana dell’actio iniuriarum – quantum bonum et aequum videbitur – ed è reso in greco con le parole ὅσον ἂν καλὸν καὶ δίκαιον φαίνηται. Giustamente si suppone che l’interprete greco, espertissimo della sua lingua, non trovando una frase corrispondente per rendere quella clausola latina, abbia adoperato quell’espressione che nella letteratura greca, a cominciare da omero181 (Odis. 20, v. 294) esprimeva, senza alcun riferimento al diritto, [135/136] sempre al di là dei limiti di esso, quel che è bello, decoroso, giusto, onesto, conveniente. Questo significato è costante nei classici greci e nelle iscrizioni182 ; in Aristotele183 anche al plurale καλὰ καὶ δίκαια = honesta et iusta. E pertanto si ha l’impressione ben fondata che l’associazione di καλόν e δίκαιον sia stata prescelta dal traduttore come la più adatta a rendere il concetto romano « bonum et aequum ». Da quel momento si può datare la recezione nel mondo greco della figura giuridica romana del bonum et aequum. Da notare la data del senatoconsulto, che ci riporta alla fine del VI secolo a. U., alla actio iniuriarum nella giurisdizione del praetor peregrinus. Il Pringsheim ha pure illustrato l’ulteriore sviluppo, come si osserva nelle fonti bizantine, principalmente nei Basilici, dove la traduzione corrente del bonum aePrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 93 e passim. W. d ITTenBerger , Sylloge inscriptionum Graecarum, II, 3a ed., Leipzig, 1917, n. 679, rigo 60. 180 (5/135). j. P arTSch , Die Schriftformel im römischen Provinzialprozesse. Inaugural-Dissertation, Breslau, 1905, p. 27 s. 181 (6/135). Mai per altro nell’Iliade, mi avverte il collega Lavagnini. 182 (1/136). Cfr. PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 86 ss. 183 (2/136). Eth. Nikom. 1, 3, 2, 1094b, 14. 178 (3/135).

179 (4/135).

Bonum et aequum e la definizione del ius di Celso

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quum delle fonti latine è sempre καλὸν καὶ δίκαιον184, e mette anzi in rilievo la predilezione dei bizantini per quella figura giuridica divenuta strumento efficace e fondamento di nuove dottrine. Naturalmente rispetto a questa ultima affermazione la critica è chiamata ora, in base alle risultanze di queste note, a rivedere le sue posizioni. Ma qui interessa soltanto il problema della penetrazione nel mondo greco della formola latina col suo significato giuridico. Per questo riguardo è fuori dubbio che nello sviluppo del diritto la formola latina diede l’impronta giuridica a quell’unione dei due vocaboli greci καλὸν καὶ δίκαιον, fino al punto, come mi fa notare il collega Lavagnini, che καλός via via passò a significare « bonus », sostituito nel senso di « bello » da ὡραῖος ed εὔμορφος. Fenomeno che non è unico nella vita delle parole, ma qui ha rilievo il fatto che vi cooperò certamente, sia pure in un secondo tempo, l’influsso della formola latina, la quale, conferendo il crisma giuridico a quell’unione di parole greche, ne ha pure mutato la individualità. L’originario termine greco ἐπιείκεια nella tradizione giuridica è scomparso quasi del tutto. Così il termine fides, che ha tanto rilievo morale e poi giuridico nel mondo romano, poté arricchire e rendere più intenso il significato del vocabolo πίστις nella filosofia stoica e nel diritto185. Siffatti prodigi sono propri alla lingua e alle formole giuridiche romane, effetto della potenza del loro contenuto di verità eterne, rivelate da sicura esperienza della vita. Aequitas, bona fides, bonus pater familias, bonus vir sono termini e figure giuridiche romane, che hanno un senso preciso, intelligibile a tutti, divenuto universale nel mondo civile, come i termini della geometria. Non si possono mutate o sostituire senza [136/137] evidente svantaggio. L’esperimento fatto dal Codice civile tedesco del 1900 è istruttivo. La figura del bonus paterfamilias, derisa dai germanisti186, fu sosti184 (3/136). Anche nel passo Dositeano 1, il testo greco porta i due termini, traduzione certa del bonum et aequum del passo del giureconsulto romano. PrIngSheIM , Bonum et aequum, cit., p. 86, manifesta dubbi eccessivi rispetto alla certezza dei termini qui considerati. 185 (4/136). Cfr. R. HeInze , Fides, in Hermes, 64, 1929, p. 163 ss. 186 (1/137). È noto che otto Gierke con un esempio spiritoso mise in ridicolo la figura del bonus paterfamilias che il Windscheid aveva mantenuta nel Progetto. Ne trattarono in Italia il Fadda ed il Ferrini, dimostrando la perfetta inutilità di quel mutamento.

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tuita da una frase sciatta di stile novecento, al solo effetto di spezzare una maglia di quell’organismo spirituale europeo, plasmato dalla gloriosa tradizione della civiltà greco-romana. Noi sappiamo che il mondo occidentale ha trovato la sua unità in questo retaggio comune187. Questo fenomeno portentoso, l’abbiam detto sopra (p. 121), dipende dal fatto che nel suo svolgimento storico, e mediante l’analisi profonda dei giuristi, il diritto di Roma rappresenta lo specchio della vita, con i suoi elementi naturali ed i suoi valori eterni, che pur nel mutare di tempi e di eventi rimangono stabili. onde il Carducci con perfetta comprensione ed appassionata ammirazione per la grandezza di Roma poté scrivere quella stupenda Preghiera sul Campidoglio, nell’annuale della Fondazione di Roma : e tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora. Salve, dea Roma ! Chi disconosceti cerchiato ha il senno di fredda tenebra, e a lui nel reo cuore germoglia torpida la selva di barbarie. [137/138]

187 (2/137). Cfr. C. FerrInI , Lotte antiche e recenti contro il diritto romano, in Opere, IV, Studi vari di diritto romano e moderno (sui diritti reali e di successione), Milano, 1930, p. 413 ss. Ma questa verità è ora largamente e con vigore dimostrata nell’opera di KoSchaKer , Europa, cit.

c aPo III. i L P R i n C i PAto

§ 1. La Costituzione Augustea modello dello sviluppo del diritto pubblico. Anche il diritto pubblico si è trasformato tre volte senza grandi rivolgimenti, bensì per lenta evoluzione nel corso della storia di Roma. Una prima volta nel passaggio dal periodo regio alla Repubblica, e poi della Repubblica al Principato ed infine dal Principato alla Monarchia assoluta. Il Principato può essere annoverato come l’opera politica più importante del genio romano. Perciò è molto difficile fissarne lo sviluppo, i caratteri e la natura. Augusto con i suoi fidi consiglieri fu l’artefice della nuova forma dello stato. Ma più potevano le forze stesse della vita romana che si mostrarono ancora idonee a reagire alla distruzione che appariva inevitabile. Un’idea fondamentale spicca nella restaurazione augustea, il richiamo alla più antica tradizione romana, alla semplicità dei costumi, le quali virtù spiegarono la loro forza perché rivestite delle forme repubblicane : « res publica conservata ». Senza di ciò la tradizione non avrebbe avuto alcuna forza e la politica di Augusto sarebbe apparsa una finzione. Già è sorprendente che gli sviluppi più notevoli delle istituzioni imperiali nacquero mediante la più repubblicana delle istituzioni politiche, cioè per via della potestas tribunicia. Lo attesta Augusto (Res gestae col. 1, 41), il quale avendo rifiutato poteri straordinari, che non erano nella consuetudine

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repubblicana, poté eseguire tutte le riforme ed attuare tutti i provvedimenti necessari per mezzo della tribunicia potestas : « Quae tum per me fieri senatus voluit, per tribuniciam potestatem perfeci ». Lo conferma Tacito (Ann. 3, 56)1, il quale giudicò : id summi fastigii vocabulum Augustus repperit, ne regis aut dictatoris nomen adsumeret ac tamen appellatione aliqua cetera imperia praemineret. Tutto ciò non può essere effetto di un programma prestabilito ; piuttosto appare adattamento intelligente e cauto delle vecchie istituzioni alle nuove necessità. È assurdo dire, come storici moderni affermano, che l’arte politica romana in questo periodo era stata impregnata delle teorie greche di Platone, [138/139] trasmesse da Cicerone in forma romana. Quest’influsso si vuol vedere nell’idea greca che l’optimus civis deve predominare nello Stato, la quale si vuol ritenere attuata nella figura del princeps in Roma. Sul proposito si è voluto utilizzare il fatto che nel decennio precedente al 27 a. C. la fama di Cicerone si ravvivò e si diffuse grandemente nella società romana e che l’anno 30 a. C. il figlio di Cicerone fu console suffectus. Questi richiami non hanno nessuna forza persuasiva, dacché l’opera si è compiuta more Romano, e lo stesso Cicerone in tutta la sua trattazione nei libri della Repubblica dice espressamente che egli trae gli insegnamenti non dagli esempi greci o dalla logica, bensì dalla grande esperienza romana : De rep. 2, 1, 3 : Facilius autem quod est propositum, consequar, si nostram rem publicam vobis et nascentem et crescentem et adultam et iam firmam atque robustam ostendero, quam si mihi aliquam, ut apud Platonem Socrates, ipse finxero. onde è stato ben osservato che se Cicerone parla di custos, curator, tutor rei publicae si riferisce sempre alle magistrature repubblicane, alla potestà che esse esercitano collegialmente nel reggimento della cosa pubblica (Heinze). e noi sappiamo che Augusto ha sempre presente ed invoca la tradizione e l’esperienza romana, perché esse costituiscono il punto di partenza, il modello e la forza delle nuove istituzioni e forme imposte dalle condizioni del vasto impero.

1 (1/138). Cfr. Ann. 1, 2 ; e F. De v ISScher , La « tribunicia potestas » de César à Auguste, in SDHI, 5, 1939, p. 117 ss.

La Costituzione Augustea – La Constitutio Antoniniana

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Così con uno sforzo magistrale si poté costituire un nuovo reggimento in cui la Repubblica appare conservata non nella sua forma pristina, ma in quella sviluppatasi fin dall’epoca dei Gracchi con le esigenze del nuovo impero. onde tutte le antiche magistrature furono conservate, e via via assunte dal Principe senza l’ufficio, bensì in astratto, quanto al potere e alla funzione. Così poté Augusto operare con ferma fede nella ricostruzione politica e civile della Repubblica, ne raccolse tutte le forze, e con la potenza dell’antica tradizione la trasformò in una Monarchia, che poté assicurare per tre secoli la pace e la prosperità dell’Impero2. § 2. La Constitutio Antoniniana. Già alla fine della Repubblica Caio Giulio CeSare , nella nuova organizzazione dello Stato Romano, che egli andava attuando, aveva progettato di dare la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Ma, si sa, egli non poté portare a termine il suo programma. il suo grande successore, AuguSTo , continuò sì l’opera di Cesare, ma cambiò l’indirizzo della politica di Roma nei riguardi delle provincie, perché egli tenne ad affermare la prevalenza dell’Italia sulle altre terre. La [139/140] repubblica non era che un’ombra, ma era pur temibile, come aveva dimostrato la morte violenta del grande dittatore. Il programma di Cesare si doveva compiere nel corso della storia con l’unità dell’Impero. Il processo di espansione del diritto di Roma nelle provincie si dovette maturare in modo più lento. Penetrava infatti ovunque per mezzo delle coloniae civium Romanorum, che erano sparse in ogni dove, con la civitas elargita ai veterani, per gli scambi e gli affari che i cives Romani operavano in tutto il territorio dell’Impero.

2 (1/139). Letteratura sul Principato : cfr. il volume Augustus della R. Acc. d’Italia, 1938. Vedi inoltre : H. SIBer , Führeramt des Augustus, Hirzel, 1940, p. 74 ss., E. S TaedLer , Über Rechtsnatur und Rechtsinhalt der Augustischen Regesten, in ZSS, 61, 1941, p. 77 ss.

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Per altro, per quanto riguardava l’applicazione del diritto dei provinciali tra loro, Roma, di regola, permetteva che ogni popolo continuasse a far uso dei propri ordinamenti giuridici. Il diritto di Roma si estendeva anche con l’insegnamento e la divulgazione delle opere dei giuristi e con l’editto provinciale che era modellato su quello urbano. In tal maniera, il processo di fusione di tutte le genti soggette al dominio di Roma e le comunicazioni rapide e continue fecero che dopo oltre 2 secoli il programma di CeSare poté dirsi maturo al tempo di Antonino CaracaLLa . Questo Imperatore con una costituzione del 1° luglio 212 d. C., estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero. Tale concessione segnò un grande avvenimento : l’unità dell’Impero nel campo politico e del diritto ; in quanto da quel giorno il diritto di Roma diveniva comune a tutti i sudditi. Avevamo notizia di questa costituzione in un frammento di Ulpiano nel Digesto che è del tenore seguente : « In orbe Romano qui sunt ex constitutione imperatoris Antonini cives Romani effecti sunt » (fr. 17 D. 1, 5, Ulpianus, 22 ad edictum). Di essa parlavano anche storici e padri della Chiesa. Ma fra i papiri che l’Egitto ci ha rivelato la Constitutio Antoniniana è riapparsa in una forma più completa, seppure non nella originale e nemmeno integra. Essa è riportata nella collezione dei papiri di Giessen n. 40. Molte controversie sono quindi sorte per integrare le lacune e per l’interpretazione del nuovo documento. L’opinione più accettabile è quella che ritiene negata ai peregrini dediticii l’estensione della cittadinanza romana in base all’integrazione della linea 9 : κώρ[ις] τῶν [δεδ]είτικίων. Da questo momento non vi è più distinzione fra le varie genti e i loro diritti ; e lo ius Romanum diventa il diritto di tutti i popoli dell’Impero, salvo la esclusione ora detta. Su questa peraltro nulla di preciso si è potuto determinare, onde le opinioni sono molto divise e le discussioni sempre vive. Si suol dire che Caracalla si fosse deciso a fare la concessione per ragioni fiscali, cioè per rendere possibile l’applicazione anche ai provinciali della tassa del cinque per cento sulla eredità, la « vicesima hereditatum ». [140/141]

La Constitutio Antoniniana

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Ma questa spiegazione, data da DIone c aSSIo , deve attribuirsi alla malevola opposizione dello storico alla casa dei Severi. In verità la concessione della cittadinanza avviene quando i tempi possono dirsi ormai maturi e il provvedimento addirittura necessario per ragioni politiche, onde livellare le condizioni di tutte le genti soggette a Roma. Se Papiniano era ancora in vita il 1° luglio 212, come sembra, la costituzione potrebbe derivare dal grande giureconsulto. Molto si è disputato sugli effetti di questa costituzione nel campo del diritto. Nel 1891 fu pubblicata un’opera, Reichsrecht und Volksrecht, di Ludovico MITTeIS , che mise in campo problemi assai gravi per il retto intendimento della evoluzione storica del diritto romano. Egli sostenne che le Provincie dovendo, dopo la costituzione Antoniniana, servirsi del diritto di Roma, si trovarono in grande difficoltà. Il diritto di Roma divenuto universale avrebbe dovuto soppiantare i vari diritti provinciali e così anche quelli ellenistici, molto progrediti. Ma ciò non avvenne né era possibile : in primo luogo perché il diritto romano con le sue forme solenni non poteva esser compreso e applicato, onde si delineò il contrasto fra i due mondi, romano e provinciale, sovrattutto romano e greco-orientale. Le provincie, secondo Mitteis, continuarono in sostanza a far uso del proprio diritto. Ma il Mitteis, si può dire, posto il problema, lo lasciava insoluto, additando lo studio di questo contrasto come assai interessante e meritevole di grande considerazione. Egli incitava pertanto ad intraprendere pazienti ricerche perché si potesse trarre una conclusione sicura non solo per il problema posto, ma per quello più ampio che ne scaturiva, cioè quale fosse stata la condizione del diritto nei secoli IV e V, quale il rapporto fra il diritto romano e i diritti provinciali, e le influenze di questi ultimi sul diritto contenuto nella compilazione Giustinianea. Come dicevamo le conseguenze dell’opera del Mitteis furono assai gravi, perché i seguaci di lui credettero in pochi anni di poter rispondere in maniera definitiva ad ambedue i problemi.

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Si disse così che il diritto Giustinianeo era più diritto orientale, provinciale, bizantino, che diritto romano ; un diritto appunto influenzato dai diritti provinciali nei secoli iv e V e rielaborato nelle scuole orientali, specie in quelle di B erITo . Dopo cinquant’anni di studi si può dire che questi risultati non sono accettabili. Lo stesso Mitteis in una conferenza tenuta nel 1917 in Vienna alla associazione dei professori delle scuole medie, dal titolo Storia del diritto antico e studio del diritto romano, concludeva il movimento da lui iniziato dicendo che tutto ciò che sui diritti provinciali noi avevamo appreso, sopratutto [141/142] dai papiri, non poteva essere sufficiente a svelarci le leggi dell’evoluzione del diritto in quei secoli, perché tutte le nostre cognizioni rimangono monche e non ci rappresentano su nessun istituto un quadro compiuto dello sviluppo del diritto. La compilazione Giustinianea, egli concludeva, rimane sempre la fonte più ricca e il vero centro degli studi romanistici. Lo SchönBauer in varii studi riprende la reazione contro la tesi originaria del Mitteis, che volle vedere il periodo seguente alla emanazione della Constitutio Antoniniana caratterizzato dal conflitto fra il diritto romano e i diritti provinciali, ed afferma invece che tale lotta, tale conflitto con la prevalenza dell’elemento greco non vi fu. Anzi, attraverso un’ampia documentazione di fonti giuridiche e letterarie, egli mette in evidenza il grande entusiasmo di tutti gli scrittori d’Africa, d’Asia e della Grecia, nel magnificare la eccellenza e lo spirito universale del diritto romano. Lo Schönbauer inoltre in un recente lavoro ha dimostrato che Roma, anche dopo la Constitutio Antoniniana, non impose ai provinciali il diritto romano, ma li lasciò liberi di usare il proprio diritto o quello romano3.

3 (1/142). E. SchönBauer , Reichsrecht gegen Volksrecht ?, in ZSS, 51, 1931, p. 277 ss. ; Reichsrecht, Volksrecht und Provinzialrecht, ivi, 57, 1937, p. 309 ss. ; C hIazzeSe , Introduzione, cit., p. 303 ss. ; R IccoBono , La definizione, cit. ; K oSchaKer , Europa, cit., p. 299 ss. ; v. A rangIo -r uIz , L’application du droit romain en Egypte après la constitution Antoninienne, in Bulletin de l’Institut d’Egypte, 29, 1946-1947, p. 83 ss.

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Lo « ius novum »

§ 3. Lo « ius novum ». La ragione della falsa prospettiva sotto cui viene considerata l’evoluzione dal diritto romano classico al diritto Giustinianeo, che indusse ad ammettere un conflitto fra diritto romano e diritti provinciali, va ricercata nel fatto che giuristi e storici ritennero che l’applicazione dei principi del diritto quiritario (ius civile) fosse rimasta immutata per tutto il periodo classico fino a Diocleziano. Questa dottrina per altro proveniva dalla scuola storica degli Umanisti del secolo Xvi. La quale, nella deficienza di cognizioni storiche, aveva ricostruito il diritto come una unità compatta dalle XII tavole a Giustiniano, rigettando tutti quegli elementi contraddittori che si rivelavano introdotti dal legislatore del secolo VI. Nel contrapporre perciò il diritto classico, inteso come puro diritto quiritario, come si trova nella tradizione della lex XII Tabularum, al diritto Giustinianeo, si riscontrava una opposizione profonda di principi e norme, e per spiegarla era giocoforza attribuire questa divergenza all’influenza di nuovi elementi, i quali sarebbero stati appunto i diritti provinciali con il predominio di quelli elleno-orientali. [142/143] Il presupposto di questa spiegazione è però errato ; poiché l’applicazione dei principi dell’antico ius civile non rimase affatto dominante per tutto il periodo classico. Nuovi ordinamenti giuridici e processuali si vennero creando e sviluppando sin dalla fine della Repubblica, talché nei primi secoli dell’Impero si era formato un vero e proprio ius novum. Ed è questo ius novum, che venne esteso con la Constitutio Antoniniana a tutti i sudditi dell’Impero, che formò poi la base del diritto codificato da Giustiniano. Venne quindi ad essi applicato non il rigido ed arcaico sistema dello ius Quiritium, bensì questo diritto nuovo più agile equo e progredito, del tutto rispondente alle esigenze di una società che aveva una struttura ben diversa dalla primitiva comunità romana. onde, per quanto riguarda il contenuto della compilazione Giustinianea, esso va considerato non in rapporto immediato con lo ius civile, ma con questo diritto nuovo ; e così facendo cessa l’apparente enorme distacco che taluni hanno voluto vedere fra il diritto romano e la codificazione di Giustiniano.

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Questo ius novum è il prodotto di vari fattori, a noi ben noti, i quali si possono ridurre a quattro principali : a) ius gentium ; b) ius honorarium ; c) cognitio extra ordinem ; d) giurisprudenza. Sarà forse utile richiamare ancora una volta alla memoria questo processo del rinnovamento del diritto che ha una grande importanza per comprendere la compilazione di Giustiniano. Col profondo sovvertimento delle condizioni della vita romana, quando l’antico comune agricolo assunse il dominio delle genti attorno al bacino del Mediterraneo, dopo la seconda guerra punica (202 a. C.), si rileva l’insufficienza dello ius Quiritium a regolare rapporti della vita nuova, che era tutta trasformata dal lato economico, sociale, familiare e spirituale. E così per prima cosa comincia in questo rivolgimento a venire in odio l’antico sistema della procedura per legis actiones e si viene introducendo una nuova procedura più agile nelle sue forme e che concede al Magistrato autonomia nella valutazione di ogni rapporto giuridico (procedura per formulas). È Gaio che ci spiega assai chiaramente perché ciò avvenne (inst. 4, 30) : « ... istae omnes legis actiones paulatim in odium venerunt. Namque ex nimia subtilitate veterum qui tunc iura condiderunt eo res perducta est, ut vel qui minimum errasset, litem perderet. Itaque per legem Aebutiam et duas Julias sublatae sunt istae legis actiones, effectumque est, ut per concepta verba, id est per formulas litigemus ». Ius honorarium. Questa procedura formulare trova la sua estrinsecazione nell’Editto. Con esso il Pretore toglie tutte le asperità dello ius civile, ne [143/144] corregge le iniquità, dà mezzi ove esso non corrisponde più alle esigenze sociali, pone nuove norme ove si manifesta lacunoso o insufficiente. Dunque anche nel campo del diritto sostanziale le forme solenni, le sottigliezze e il rigore dell’antico diritto, vennero in odio perché ormai paralizzavano lo sviluppo delle relazioni più rapide e intense, che la vita nuova esigeva. Papiniano così definisce questo diritto : « Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam » (fr. 7, 1 D. 1, 1).

Lo « ius novum »

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Enormi furono le innovazioni che questo ordinamento apportò all’antico diritto. Soltanto che costituzionalmente esso non creava diritto vero e proprio (ius), ma un sistema supplementare che lasciava teoricamente in vita il sistema dello ius civile, mentre nell’applicazione pratica il Pretore apportava tutte le modificazioni che credeva necessarie o utili. Tale ordinamento prende nome di ius honorarium e già al tempo di Cicerone è considerato come il vero diritto vigente in Roma. Perciò il Pretore fu detto viva vox iuris civilis, nel senso che esso vivifica e attua il diritto in conformità alle esigenze della nuova società. Ius gentium. oltre a ciò il fatto che il diritto quiritario era applicabile solo fra cittadini romani rendeva necessaria la formazione di un nuovo sistema di diritto. È questo lo ius gentium, che regola ormai tutti i rapporti commerciali dei cittadini fra loro e con i peregrini. Ed è naturalmente un diritto libero da tutte le formalità dell’antico ius Quiritium, improntato alla buona fede e all’equità. Dal secondo secolo, però, fissato in forma immutabile l’editto del Pretore con la compilazione di Salvio GIuLIano per ordine dell’imperatore AdrIano , mentre declina la forza veramente creativa della giurisprudenza, il diritto nuovo trae origine dalle costituzioni imperiali (rescripta, decreta, epistulae, mandata). Cognitio extra ordinem. — sin dai tempi di Augusto si venne formando a poco a poco un terzo ordinamento che aveva la sua base nelle decisioni che gli Imperatori in forza dell’imperium, o magistrati e funzionarii da loro incaricati, emanavano nelle controversie che venivano sottoposte ad essi. Questi, nella procedura speciale di cui si servono (cognitio extra ordinem, cioè fuori dell’ordo iudiciorum privatorum), giudicavano indipendentemente da quelle che erano le norme di diritto secondo la tradizione, attenendosi a principî di equità e cercando di attuare norme adatte agli sviluppi e alle esigenze della vita a seconda dei tempi. onde tacito (Dial. de orat. 19) dice che i giudici non giudicavano iure et legibus ma vi et potestate. In questo ordinamento si viene formando tutto il nuovo diritto imperiale contenuto nei rescritti e nelle costituzioni

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degli Imperatori e nelle decisioni [144/145] dei Consoli, Pretori speciali, Prefetti ecc., sicché la cognitio extra ordinem come forma di procedura si va sempre più estendendo, mentre quella formulare dal secolo II subisce sempre più un processo di involuzione, finché con Diocleziano la procedura straordinaria diviene l’unica in uso. Ciò non avviene per opera di una legge, ma perché la prassi l’aveva sostituita gradatamente a quella dell’ordo iudiciorum privatorum. Giurisprudenza. — Un altro fattore, assai importante nel quadro della formazione di questo ius novum, è costituito dalla elaborazione scientifica del diritto ad opera dei giureconsulti del periodo classico. L’opera della giurisprudenza fu grandemente agevolata e promossa da un nuovo metodo di interpretazione delle leggi e dei negozi che s’introdusse prima del tempo di Cicerone, per influsso della dottrina rettorica aristotelica. secondo questa dottrina, le leggi non venivano interpretate attenendosi alla lettera, bensì scrutando la volontà del legislatore. Così per i negozi giuridici si deve guardare alla volontà delle parti. E cosi ancora il fatto giuridico, per es. un delitto, che arreca danno non deve essere considerato solo nella sua oggettività ma in rapporto all’animo di colui che lo commise. Ciò che ora viene posto in luce è l’elemento volitivo, onde i negozi giuridici debbono interpretarsi non secondo le parole ma secondo la voluntas. Fra i due metodi d’interpretazione vi è un’enorme differenza. Mentre prima ciò che veniva considerata era la parola (verbum), come elemento essenziale e incontrovertibile del negozio, il nuovo metodo di interpretazione induce ad un attento esame dell’elemento soggettivo ed interiore del negozio, la voluntas delle parti. Quindi nel diritto viene ora in considerazione l’errore, la violenza, il dolo in quanto le dichiarazioni fatte in queste circostanze, non essendo conformi alla reale o libera volontà degli autori delle stesse dichiarazioni, non debbono avere effetti giuridici. Il negozio è nullo per causa dell’errore. E per la violenza o il dolo i Pretori diedero dei mezzi per annullare il negozio fatto in quelle circostanze (actio metus, exceptio quod metus causa, actio de dolo, exceptio doli).

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Le fonti del diritto

Il diritto giustinianeo, sotto questo punto di vista, è il coronamento di tutta una evoluzione che ha avuto un ampio sviluppo attraverso parecchi secoli. Del precetto delle XII tavole « uti lingua nuncupassit ita ius esto » non resta che la memoria. esso era stato sovvertito fin dalla fine della Repubblica, per via del nuovo metodo d’interpretazione. Non è necessario avvertire tuttavia che nella codificazione di Giustiniano rimangono pure molti elementi antiquati. [145/146] § 4. Le fonti del diritto. Assai significativo per giudicare lo stato del diritto nell’Impero in confronto all’antico ius civile è un paragrafo delle Istituzioni di Gaio in cui si considerano le varie fonti del diritto vigente già al suo tempo : Gaio 1, 2, Constant autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis eorum qui ius edicendi habent, responsis prudentium. Non ritorneremo su queste singole fonti che furono trattate sopra ; diremo solo che il diritto non è una entità immobile, in ogni tempo, ma una creazione continua che si rinnova come l’acqua fluente. Quindi prima ancora di giungere alla compilazione Giustinianea, durante un lunghissimo volgere di tempo, l’antico diritto di Roma si è trasformato in modo così essenziale e generale, che ben si può dire sia restato di esso solo l’architettura, l’impalcatura esterna. Ma, quel che poi è più significativo, è che ogni epoca della storia di Roma presenta un nuovo sistema di procedura e nuovi fonti che servono alla produzione di nuovo diritto. E questo diritto è sempre nuovo non solo ratione temporis ma nella sostanza, nelle sue direttive e nelle forme. In tutto il corso abbiamo insistito su ciò, mostrando in ciascun periodo come ciò sia stato attuato ; e come Roma ha formato e trasformato sempre il suo diritto, secondo le esigenze dei tempi, tenendo ferma la tradizione la quale si viene rinnovando a grado a grado, in modo quasi impercettibile, come avviene di tutti gli organismi viventi secondo le leggi della biologia. La consuetudine. — Si disputa presso gli studiosi se anche la consuetudine debba essere annoverata fra le fonti del diritto romano classico.

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Taluni credono di doverlo negare, basandosi sul fatto che né nel frammento citato dalle Istituzioni di GaIo , né in altre fonti del genere, esso apparisca espressamente fra le sorgenti del diritto. Esiste però, a questo proposito, un importantissimo frammento di GIuLIano , 84 digestorum, in D. 1, 3, 32, 1 : « Inveterata consuetudo pro lege non immerito custoditur, et hoc est ius quod dicitur moribus constitutum. Nam cum ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit, tenebunt omnes : nam quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et factis ? Quare rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio legis latoris, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur ». Giuliano scrive sotto Adriano, e se questa dottrina non corrisponde interamente alle condizioni del tempo, bisogna tener presente che la tradizione repubblicana della sovranità popolare e del potere legislativo del popolo non era [146/147] stata abbandonata, ma teoricamente mantenuta. Ma ciò, come sappiamo, non è nuovo anzi è la regola generale. Tuttavia qualche scrittore, in maniera davvero audace, ha ritenuto che questo frammento sia largamente interpolato e di stampo bizantino, onde la dottrina in esso espressa rispecchierebbe non il pensiero di Giuliano, ma di quelle scuole bizantine in cui insegnavano giuristi-filosofi, per cui la spiegazione data sopra del testo di Giuliano sarebbe senza valore per affermare la forza della consuetudine al tempo dei giuristi romani. Questa ipotesi si è voluta sostenere in base ad uno Scolio del XIII secolo, che si trova nel Laurenziano, che il FerrInI ebbe l’infelice idea di collocare come inizio della Parafrasi greca delle Istituzioni, che si attribuisce a TeoFILo . La notizia di quei giuristi-filosofi è nel nostro problema senza alcun valore. A qual fine Giustiniano e i compilatori avrebbero introdotto nel Digesto un frammento contenente una teoria che non aveva più valore nel loro tempo, dato che con l’Impero assoluto unica fonte del diritto e della interpretazione di esso era l’Imperatore ? L’unica spiegazione plausibile è invece che il frammento di Giuliano contenesse il pensiero classico quale era nella tra-

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dizione giuridica, onde nella compilazione esso trovò posto come notizia di carattere storico. Laonde su questo proposito è giusto ammettere che la desuetudine ha la sua importanza nel mondo romano. Gran parte dell’antico diritto civile si è mutato appunto per desuetudine, sicché molte istituzioni del periodo arcaico, come dice anche Gellio, caddero così in oblio. Tra gli istituti sorti per consuetudine si annovera il divieto delle donazioni fra coniugi (fr. 1 D. 24, 1), giacché l’opinione che esso sia stato introdotto per legge, come sostenne l’Alibrandi, non è provata4. Per la funzione della consuetudine come creatrice di diritto, bisogna invece dire che se è indubbiamente esagerata la teoria radicale che vuole negarle ogni valore, tuttavia essa non poté mai esercitare in Roma quella funzione diretta e preminente, come in altri diritti ; perché vi erano organi e sistemi che, non appena una consuetudine germogliava, la assumevano e la trasformavano in diritto positivo5. A questa funzione infatti servivano ottimamente lo ius gentium, e il diritto onorario, e la cognitio extra ordinem, ed inoltre la giurisprudenza ; la quale con i responsi che avevano vim legis attuava quello che si manifestava come uso o bisogno della pratica. Un esempio perspicuo in D. 12, 1, 8 e 9. [147/148] Da un certo punto di vista, dunque, e con la detta spiegazione, si potrebbe dire che tutto il diritto romano più progredito, non badando agli organi che lo attuano, è un prodotto della consuetudine. § 5. Raccolte di costituzioni imperiali. Lo spostamento del diritto e delle fonti d’origine di esso dagli antichi ordinamenti ai nuovi e in ispecie a quelli imperiali è attestato dalla necessità sempre crescente di raccogliere i rescritti e le decisioni degli Imperatori in collezioni che servissero ad agevolare la conoscenza e l’applicazione.

4 (1/147).

Servio.

5 (2/147).

Vedi il fr. 38 D. 24, 1, nel quale Alfeno riferisce un responso di Vedi sul proposito l’attestazione di CIcerone , De invent. 2, 22, 67.

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Il principato

Abbiamo cosi i libri decretorum di Paolo, i libri imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum dello stesso giureconsulto, e infine, sotto Diocleziano, le prime due grandi collezioni private di rescritti e costituzioni nelle quali per la prima volta fu assunto il nome di « codex » a indicare una raccolta di leges : Codex Gregorianus e Codex Hermogenianus. Il Codex Gregorianus conteneva rescritti da Adriano fino a Diocleziano ordinati cronologicamente in non meno di 19 libri, divisi in titoli. La collezione fu fatta in oriente da certo GreGorius di cui non si ha altra notizia, e sotto il regno di Diocleziano e Massimiano, come si rileva dal fatto che in una costituzione del 290 sono designati domini nostri ; dovette essere compiuta nell’anno 295. L’opera molto estesa non pervenne a noi, ma una considerevole quantità di costituzioni in essa accolte sono riportate dai fragmenta Vaticana, dalla collatio, dalla consultatio, dalla lex Romana Visigothorum e Burgundionum, o citate negli Scolii Sinaitici e nei Basilici. E questa diffusione dell’opera rende molto probabile l’opinione che, quantunque essa fosse stata ordinata da un privato, dovette essere riconosciuta da Diocleziano e dovette acquistare nella pratica autorità di legge. E di fatti in tutto il periodo post-classico il vigore nella pratica di tale raccolta è presupposto (cfr. C. Th. 1, 1, 5) ; ma esso ebbe fine con Giustiniano, il quale ricavò appunto dal Codice Gregoriano tutto il materiale più antico per la sua codificazione6. Codex Hermogenianus, composto pure in oriente da certo ErMogenIano , che potrebbe anche essere il giurista autore dell’opera libri iuris epitomarum, conteneva, forse in un unico libro e distribuite in non meno di 69 titoli, costituzioni di cui la più antica è del 291, le più recenti degli anni 364-365. La raccolta, forse meno estesa di quella del Codice Gregoriano, era pure considerevole perché del titolo 68 è citata negli Scolii Sinaitici la costituzione 120. [148/149] La data della collezione è incerta. tenendo conto delle ultime costituzioni che vi figuravano, si suole riportare dopo il 365 ; ma un esame più diligente 6 (1/148). Edizioni : G. HaeneL , Corpus iuris Romani anteiustiniani, II ; P. Krüger , Collectio librorum iuris anteiustiniani, III ; Fontes iuris Romani antejustiniani, II.

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dei diversi gruppi di costituzioni e il fatto che le più numerose tra quelle note appartengono agli anni 293-294 rende plausibile l’opinione che almeno la prima edizione dell’opera sarebbe quasi contemporanea al Codice Gregoriano e pubblicata verso l’anno 295, allo scopo d’integrare con il materiale più recente la raccolta di Gregorio. E negli anni successivi poi, lo stesso collezionista o altri, dovettero in ripetute edizioni aggiungere nuovi gruppi di costituzioni con materiale tratto anche dall’occidente. Le costituzioni del Codice Ermogeniano ci furono tramandate in piccola parte da quelle stesse collezioni che riportano quelle del Gregoriano ; ebbero nella pratica la stessa autorità e furono utilizzate da GIuSTInIano . L’atteggiamento dell’Imperatore DIocLezIano si presenta come essenzialmente conservatore talché può dirsi che la sua opera legislativa in questo campo tenda alla restaurazione della tradizione classica. Tale è il carattere dei suoi rescritti, raccolti nei Codici Gregoriano ed ermogeniano. È significativo il fatto che la maggior parte di essi siano diretti a provinciali specie dell’oriente, come si può rilevare dai nomi dei destinatari. Il loro contenuto è spesso rivolto contro le usanze delle provincie ed a ristabilire la stretta osservanza delle norme romane, particolarmente in tutto ciò che concerne le forme solenni degli atti. Nel Codice di Giustiniano si trovano più di mille costituzioni di questo Imperatore, e pure attraverso le molte interpolazioni è sempre rilevabile il carattere fondamentale di quelle costituzioni. Così, ad es., per ciò che riguarda le donazioni, il trasferimento delle proprietà, la costituzione di dote, egli impone l’osservanza delle forme solenni romane in tutti gli atti giuridici. Ma l’atteggiamento dell’Imperatore nel senso ora detto non fu commendevole. Non era infatti una politica legislativa del tutto lodevole quella di riaffermare l’osservanza di forme arcaiche e superate, laddove, specie nelle provincie orientali, vi erano in uso forme progredite basate sulla scrittura e sui documenti notarili anziché sul rigorismo verbale. Questa visione esatta della politica legislativa, che mancò a DIocLezIano , era mancata anche ad a nTonIno CaracaL La ed ai suoi successori, i quali non seppero aiutare con provvide disposizioni la attuazione più agevole del programma di diffusione del diritto romano nelle provincie.

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Cosi è che Diocleziano, in omaggio alla sua politica, dichiarò costantemente la nullità degli atti eseguiti nelle forme scritte. Naturalmente questa [149/150] situazione di cose non durò a lungo. Con c oSTanTIno le forme solenni romane cominciarono a declinare, molte cadono in desuetudine, abolite quasi del tutto poi da T eodoSIo II. Perciò i rescritti di Diocleziano, quanto alle forme sono tutti interpolati da Giustiniano, il quale accoglie la funzione costitutiva della scrittura e trasforma in positive molte costituzioni negative di Diocleziano. Abbiamo ricordato i caratteri e l’indirizzo della legislazione dioclezianea perché è proprio su essa che il Mitteis si appoggia per affermare il grande conflitto tra diritto romano e diritti provinciali ed orientali. E ciò è innegabile per quanto concerne il conflitto tra forme solenni romane e forme scritte dell’oriente ; per tutto il resto cioè per il diritto materiale, invece, le divergenze tra i rescritti dioclezianei e il diritto codificato da Giustiniano sono sporadiche. Questo risultato è confermato da una monografia speciale di R. Taubenschlag. [150/151]

c aPo Iv. LA M o n A R C H i A

§ 1. Cause del mutamento costituzionale. La costituzione dell’Impero conteneva già negli inizii con AuguSTo i germi della monarchia i quali si svolgevano e si affermavano gradatamente. Le magistrature repubblicane perdono via via la loro importanza, divengono ombre finché sono annientate. specialmente dopo Alessandro severo fino a Diocleziano, il disordine militare, il disastro finanziario provocarono la dissoluzione dell’Impero. Le agitazioni interne, la rapida successione degli imperatori, cancellarono le ultime vestigia dell’antica Repubblica e la costituzione prende decisamente il carattere di un dispotismo militare. Per quanto concerne il diritto pubblico, Diocleziano infatti ci si presenta come un innovatore. Il profondo cambiamento arrecato da Diocleziano alla costituzione dell’Impero non si deve però attribuire, nonostante il colore orientale del fasto e del cerimoniale, anche nella sostanza ad influenze orientali, ma costituisce uno stadio della evoluzione costituzionale iniziatasi con Augusto, quando le magistrature repubblicane decadute furono bensì mantenute nella forma ma profondamente vuotate nella sostanza. La costituzione di Diocleziano era necessaria per salvare lo stato romano, che dopo la morte di Alessandro severo era caduto nella più grave anarchia. Rivolte e spopolamento col-

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La monarchia

pirono l’Italia, ed anche l’Egitto che si credeva immune fu, come ci hanno rivelato i papiri recentemente scoperti, vessato dalle stesse calamità. Il marasma in cui si trovava l’impero ebbe gravi ripercussioni anche dal lato dell’economia. Come fenomeni connessi si aveva da una parte l’abbandono delle terre, dall’altra miseria e brigantaggio1. [151/152] Fra tante tenebre una sola luce risplende, l’idea cristiana, che reca la speranza di una vita migliore al di là di quella terrena. A questo periodo risale l’origine del colonato, vale a dire di quei lavoratori della terra che, pur non essendo in condizione servile, erano glebae adscripti. Si tratta di un istituto del tutto singolare di cui si discute molto l’origine e che per noi va ricercata nelle condizioni del tempo. Si discute se i coloni erano dei liberi oppure degli schiavi. Il Mommsen e altri ritengono che il colonato sia stato costituito da schiavi, i quali venivano così ad avere migliorata la loro condizione primitiva. Noi siamo propensi a ritenere che ambedue le tesi abbiano un fondo di vero in quanto alla formazione di questa classe hanno contribuito tanto i liberi quanto gli schiavi. La classe dei nobili nel terzo secolo si andò ampliando ma in correlazione diminuì grandemente la sua importanza politica. ora si è formata una categoria di persone, potentiores, le quali attraverso vessazioni di ogni genere affermavano la loro supremazia di potenza e di denaro. Questi potentiores esercitavano la propria influenza anche sull’amministrazione della giustizia, solendo acquistare da una delle parti i crediti e i diritti di essa (redemptores litium) e poscia costringere i giudici a giudicare in loro favore. Tutte queste categorie di uomini delle classi più elevate vengono designate nelle fonti col nome di honestiores cui si contrappongono gli humiliores, cioè il popolo minuto che 1 (1/151). Rispetto alle condizioni sociali ed all’economia dell’impero abbiamo un’opera monumentale : M. RoSTovTzeFF , Social and Economic History of the Roman Empire, oxford, 1926, della quale c’è la traduzione italiana. Per il periodo dioclezianeo e del Basso impero vedi il brillante articolo di A. PIganIoL , L’économie dirigée dans l’empire romain au IVe siécle ap. J. - C., in Scientia, 81, 1947, 95 ss.

Cause del mutamento costituzionale – L’organizzazione dello Stato

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si trova, specie nel campo del diritto penale, in una condizione d’inferiorità rispetto agli altri, dovendo sottostare per uno stesso reato a pene più gravi di quelle che colpiscono i nobili. § 2. L’organizzazione dello Stato. Progressivamente, tutte le vestigia repubblicane della organizzazione dello Stato vanno scomparendo ; quasi tutte le antiche magistrature cadono. Fra quelle che resistono più a lungo v’è il Senato che conserva non soltanto i poteri amministrativi, ed a lungo ancora quelli politici. Il Senato si viene a costituire anche a Costantinopoli, ove naturalmente non raggiunse mai l’importanza di quello di Roma. il nuovo ordinamento è fissato con linee semplici quanto rigide da DIocLezIano (284-305), svolto ed affermato da CoSTanTIno il Grande (306-337). La somma dei poteri si accentra nella persona dell’imperatore che si circonda di tutta la pompa esteriore delle corti asiatiche. Egli è formalmente eletto dal Senato, ma di fatto è assunto al trono per diritto ereditario, per diritto divino ; e della divinità assume gli epiteti : Deus, Aeternitas, Numen ; sacro e divino è tutto ciò che a lui si riferisce ed ha la prerogativa della adoratio. [152/153] Con la monarchia assoluta avviene in seguito una divisione amministrativa, non politica, dell’Impero in due grandi circoscrizioni amministrative : pars Orientis e pars Occidentis. Ciascuna di esse è retta da un imperatore (Augustus) che ha sotto di sé un coadiutore (Caesar). Quest’ultimo rappresenta l’imperatore designato, il successore al trono, una specie di principe ereditario scelto dall’Augustus, onde il potere che il Senato ha di eleggere l’imperatore viene ridotto a una semplice ratifica. Come abbiamo detto, nonostante questa divisione, l’Impero manteneva ancora la sua unità politica. Volendo richiamarsi a un istituto del diritto privato, il rapporto in cui si trovano i due imperatori, rispetto all’impero diviso in due parti, può essere paragonato al condominio pro indiviso, nel quale « concursu partes fiunt » ; cioè ciascuno degli imperatori ha il pieno potere su tutto il territorio.

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C oSTanTIno trasferisce la sede a Bisanzio (330), che trasformata prende il nome di Costantinopoli e diviene il centro dell’Impero. Nell’epoca post-dioclezianea le due parti dell’impero tornarono per periodi più o meno lunghi a riunirsi sotto la sovranità di un solo imperatore (cioè sotto : Costantino dal 323 al 337 ; Costanzo II dal 353 al 361 ; Giuliano dal 361 al 363 ; Gioviano nel 363-364 ; Teodosio I dal 394), ma dal 395 con la morte di TeodoSIo I la divisione dell’impero doveva diventare definitiva. L’occidente fu assegnato ad onorIo e comprendeva la Gran Bretagna, la Germania, la Gallia, l’illiria, la spagna, l’italia e l’Africa settentrionale ; l’oriente fu assegnato ad ArcadIo ed abbracciava la Penisola Balcanica, cioè la tracia e la Macedonia, la Grecia, l’Asia Minore, la Siria, la Palestina, l’Egitto e la Cirenaica. La conseguenza di tale divisione fu che le due parti, a poco a poco, andarono allontanandosi e assumendo caratteri diversi. La tenacia e la resistenza che si oppose a una rapida e completa divisione dell’Impero è l’indice più sicuro della forza unitaria che aveva avuto l’impero di Roma. § 3. Le costituzioni imperiali del periodo post-dioclezianeo. Passiamo ora ad esaminare il potere legislativo nel periodo dell’impero assoluto. Tutto il vasto sistema di organi che erano precedentemente preposti a questa funzione sono spariti. Unico legislatore è il Monarca, assistito dal Quaestor Sacri Palatii, che rappresenta un vero e proprio ministro della giustizia e che è a capo del concistorium principis, che in materia di diritto, cioè per la redazione di leggi, nelle udienze giudiziarie o nella formazione dei rescritti, assiste e consiglia l’imperatore. La legislazione restava comune alle due parti dell’impero, sia in ordine [153/154] alle norme contenute nelle fonti antiche, come per le disposizioni nuove (leges novellae) le quali emanate da uno o dall’altro imperatore portano i nomi di entrambi, e ogni costituzione comunicata dall’uno all’altro ha o dovrebbe avere vigore nelle due parti. Le costituzioni imperiali seguono per le forme i modelli precedenti e quindi conservano l’antica terminologia pur avendo subìto costituzionalmente notevoli trasformazioni.

Le costituzioni imperiali del periodo post-dioclezianeo

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Fra esse si possono annoverare : 1. La oratio sul modello della oratio in senatu habita, che era originalmente la proposta dell’imperatore che provocava un senato-consulto. ora l’attività del senato si è ridotta ad una semplice approvazione formale. La oratio veniva letta al Senato di Roma o di Costantinopoli ed aveva valore di legge generale. 2. Gli edicta. Essi dell’antico editto non conservano che il nome, in quanto ormai sono delle leges generales le quali per lo più vengono rivolte a tutto il popolo, ma anche agli abitanti di una città o della capitale, oppure agli alti funzionari dell’impero. essi vengono resi pubblici per affissione che a volte avviene, secondo gli ordini, con la iscrizione in bronzo della legge. e questi precetti generali fino all’anno 429 ebbero valore in entrambe le parti dell’Impero ipso iure ; ma in quell’anno TeodoSIo II stabilì che le leggi emanate in una delle parti dell’impero acquistassero forza nell’altra solo in seguito all’invio e all’accettazione da parte dell’altro imperatore e alla pubblicazione consueta. 3. I rescripta, cioè quelle decisioni in diritto date dall’imperatore per un determinato processo (consultatio ante sententiam) dietro domanda di una delle parti. Prima venivano elaborate da giuristi, ma in questo periodo non è più grande la cura con cui vengono compilati, onde è spiegabile che ad essi venga tolto il valore legislativo che prima avevano. Quindi non hanno più, una volta emanati, valore generale per ogni caso simile, ma esauriscono la loro efficacia nel caso particolare. In questo ordine di idee è una costituzione di CoSTan TIno , il quale nel 315 sancisce che non si possano emanare rescritti che vadano contro le leggi e che deviino dai principî del diritto ufficiale. L’imperatore ArcadIo nel 398 ne limitò l’autorità al caso speciale per cui furono emessi ; e questa norma, confermata nel 425 da Teodosio e Valentiniano, li contrappose decisamente agli edicta o leges generales. Quindi venne meno l’uso della propositio (cioè l’affissione nell’albo che rendeva la costituzione di pubblica ragione) ma erano consegnati in originale alla parte e sottoscritti dall’imperatore. 4. Decreta, cioè quelle sentenze che l’imperatore, sia in primo grado, sia in grado d’appello, pronuncia nel suo auditorium.

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5. Adnotatio, che indica in origine la nota apposta dall’imperatore al [154/155] margine di una supplica, in conformità della quale la cancelleria doveva formulare il rescritto ; essa è quindi citata come equivalente al rescritto stesso, ma doveva acquistare autorità maggiore del documento redatto dalla cancelleria, essendo vergata dalla sacra mano imperiale. 6. Mandata. Tali costituzioni hanno profondamente mutato il loro contenuto. Mentre prima avevano sovente carattere legislativo, ora hanno per oggetto esclusivamente regolamenti amministrativi a funzionari, città, provincie. 7. Sanctio pragmatica. È un nuovo genere di costituzione che si viene creando in questo periodo (pragmaticus - il segretario dell’imperatore). Può avere vario contenuto, ma sempre riguardante affari di interesse pubblico. È una legge generale emanata dall’imperatore su richiesta di un alto funzionario. Celebre fra tutte è quella che prende nome dalle prime parole « Pro petitione Vigilii » con cui Giustiniano nell’anno 554, dietro richiesta del Papa Vigilio che sedeva in Roma, estende anche all’italia riconquistata la sua codificazione quale legge universale.[155/156]

c aPo v. LA F U s i o n e Dei vA R i o R D i n A M en ti G iUR iD iC i i n U n i C o C o R P o D i D iRit to

Le fonti del diritto in questo periodo sono due : iura e leges. Col primo termine si indicano tutti i diritti dei periodi precedenti, contenuti nelle opere della giurisprudenza classica, e cioè lo ius civile, lo ius honorarium, lo ius gentium e il diritto formatosi nella interpretazione giurisprudenziale. Le leges invece sono costituite da tutte le costituzioni generali o particolari emanate dagli imperatori. Dire che il diritto da applicare è quello contenuto nelle opere della giurisprudenza era facile ; non altrettanto doveva essere il rinvenire fra tanta sterminata quantità di opere la norma da applicarsi nei singoli casi. Quindi è comprensibile come vengano assumendo sempre maggior valore le leges rispetto ai iura. Abbiamo visto come il processo formulare sia con Diocleziano soppiantato interamente dalla cognitio extra ordinem. Il processo è ormai un ordine di diritto pubblico ed è divenuto una funzione dello Stato. § 1. L’abolizione delle « formulae ». Nell’anno 342 l’Imperatore CoSTanzo proibisce l’uso delle formulae perché esse venivano ad impacciare l’amministrazione della giustizia. Egli lo fa anche con parole vivaci ed aspre dicendo che esse debbono essere tagliate via dalle

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radici : cost. 1, C. 2, 57 « Iuris formulae aucupatione Syllabarum insidiantes cunctorum actibus radicitus amputentur ». Ciò sarà stato necessario per esigenze della pratica, ma non appare del tutto giustificato lo sdegno con cui la disposizione fu dettata. Le formulae avevano infatti plasmato in un modo inarrivabile le singole figure giuridiche dando a ciascuna di esse una individualità distinta e inconfondibile ; onde ancora oggi per indicare alcune figure si suole parlare di azione de dolo, de societate, Pauliana ecc. [156/157] § 2. La fusione. La abolizione dell’uso delle formule da parte di Costanzo provocò una grande confusione nella pratica, di cui diremo più oltre. Ma intanto nella pratica in questo periodo si manifestarono i seguenti effetti. 1) la fusione di tutti gli ordinamenti giuridici del periodo classico ; 2) la caduta delle forme solenni. Abbiamo già detto come nelle opere dei giuristi classici erano dedicate spesso trattazioni separate allo ius civile, allo ius gentium e allo ius honorarium : i tre sistemi che ebbero vigore nel periodo classico. Scomparse che furono le formulae tale divisione non poteva conservare ancora un’importanza pratica (formulae in ius conceptae, utiles, in factum, ficticiae, mezzi pretorii, quali l’in integrum restitutio, la missio in possessionem ecc.). Infatti, ai giudici e agli avvocati del tempo interessava solamente la soluzione da applicare al caso pratico, e solamente questa andavano a cercare nelle opere dei giuristi. Ma poiché trovavano differenze tra diritto civile e diritto pretorio, essi prescelgono la norma più adatta e progredita, quindi più consona allo spirito del tempo, senza far più alcun conto dei differenti mezzi di attuazione. Avviene così un processo di fusione tra i varii ordinamenti e di semplificazione. In tal processo caddero : 1) tutti gli istituti, i principî, le forme, le norme dello ius civile che erano stati paralizzati dallo ius honorarium ; 2) un gran numero di quegli istituti e di quei mezzi creati dal Pretore in opposizione o come ausiliari allo ius civile,

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La fusione – Esempi

quale per esempio la in integrum restitutio, la missio in possessionem etc. Restano invece in vigore : 1) gli istituti dello ius gentium e gli elementi sostanziali dello ius honorarium i quali si sostituiscono a quelli dello ius civile e a volte si fusero con gli elementi sopravissuti dello ius civile stesso. 2) tutto il diritto formatosi nella cognitio extra ordinem che assunse una funzione direttiva nel nuovo ordinamento processuale. Inoltre in tale processo emersero al primo piano naturalmente quegli elementi sostanziali elaborati dalla giurisprudenza romana e cioè : la volontà nei testamenti e nei negozi inter vivos, la causa, la convenzione, che appariscono ora direttamente generatori degli effetti giuridici. L’equità ora, divenuta la stessa sostanza del diritto, si manifesta dominata dall’etica cristiana. [157/158] § 3. Esempi. Esaminiamo qualche esempio di questa fusione. In integrum restitutio. Questo istituto pretorio aveva varie applicazioni fra cui importanti quelle per la rescissione dei negozi viziati da dolo, metus. Quando il Pretore riscontrava in un negozio la lesione di gravi interessi per opera del dolo esercitato da una delle parti, disponeva con un decreto che la posizione giuridica del rapporto ritornasse ad essere tale quale era prima della effettuazione del negozio viziato ; in altri termini annullava il negozio viziato da dolo. Ciò avveniva in opposizione al ius civile, nel senso che per questo sistema il negozio era valido e non impugnabile, perché si erano espletate le formalità necessarie, per il diritto civile, a costituirlo. In questo periodo invece, quando un negozio viziato da dolo viene portato innanzi al giudice, questi, visto quale era il risultato effettivo che si otteneva con l’applicazione della procedura anteriore, pronuncia la nullità diretta, senza ricorrere al mezzo pretorio. Exceptio. Così nel campo delle eccezioni processuali. Queste nella procedura formulare paralizzavano la richiesta

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dell’attore, ma non facevano nascere nel convenuto stesso un diritto ad agire. Nel diritto post-classico invece molte di tali eccezioni si mutarono in diritti autonomi aventi piena efficacia giuridica. Pigliamo l’esempio della stipulazione senza valuta. È il caso di colui che ha contratto un’obbligazione a mezzo della stipulatio, ancorché l’altra parte non avesse dato in prestito la somma che egli si era obbligato a restituire con la stipulatio. Egli restava egualmente obbligato per il diritto civile. Per il diritto onorario tuttavia, a mezzo dell’exceptio doli, poteva paralizzare l’effetto della richiesta dell’avversario. Avvenuta la fusione, quell’effetto che si otteneva con l’exceptio è realizzato direttamente, onde chi contrae un mutuo nella forma della stipulatio e non riceve i denari, non è, per il diritto nuovo, affatto obbligato : fr. 30 D. 12, 1, Paulus, 5 ad Plautium, Qui pecuniam creditam accepturus spopondit creditori futuro, in potestate habet, ne accipiendo se ei obstringat. Un altro esempio, sempre riguardante l’exceptio, si può dedurre dal confronto tra 134 D. 45, 1, e il fr. Sinaitico 4. Per il diritto romano qualunque penale che si stabilisse per costringere taluno a contrarre matrimonio non era valida e veniva considerata contra bonos mores, perché il matrimonio romano basato puramente sull’affectio maritalis non ammetteva costrizione di qualunque genere. Quando la penale fosse stata stabilita per mezzo di una stipulatio, l’effetto di essa veniva paralizzato, mediante la concessione di una exceptio doli mali [158/159] contro l’attore, perché contrario ai boni mores ; e questo è il contenuto del testo del Digesto che ci conserva in questo punto la pura dottrina classica come era esposta da Paolo. È interessante come in questo testo sia posta in evidenza la funzione paralizzatrice di un mezzo pretorio, la exceptio doli, contro un istituto dello ius civile, la stipulatio. Vale a dire, in questo testo è serbata chiaramente l’antitesi fra i due sistemi giuridici. Negli scholia Sinaitica si ha un responso relativo allo stesso caso. La decisione è identica. E in esso, come fonte della soluzione viene richiamato proprio il sopra ricordato passo di Paolo. Ma gli Scolii parlano ormai solamente di nullità della stipulatio, senza accennare affatto alla exceptio doli. È quindi chiaro che nella prassi del tempo, cui appartengono

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Conclusioni

gli scholia Sinaitica, per l’avvenuta fusione tra diritto civile e ius honorarium, quello che del testo classico aveva valore era il risultato della decisione e non già il mezzo con cui ad essa si perveniva. Altri esempi che si possono addurre riguardano le missiones in possessionem nelle successioni universali, casi nei quali il pretore concedeva mezzi propri contro lo ius civile. Nel diritto post-classico, tali missiones sono cadute poiché è ora il giudice che deve vedere quali sono i mezzi più adatti per risolvere equamente una determinata controversia, e tali mezzi vengono da lui applicati nella sentenza. Ciò che prima veniva attuato per mezzo dell’imperium del pretore, ora viene attuato per opera dell’officium iudicis ; e questa è la ragione di numerose interpolazioni nel Corpus iuris. § 4. Conclusioni. La conseguenza di questa fusione per quanto concerne il diritto pretorio è quindi che esso è diventato ius civile. Questa fusione è avvenuta senza alcun ordine, potremo dire quasi tumultuariamente, in modo meccanico, e le fonti sono in proposito molto esplicite. Così per quanto riguarda le actiones, troviamo nella compilazione giustinianea un testo rimaneggiato dai compilatori, in cui si afferma che la distinzione fra actio directa e actio utilis non ha più alcun valore, perché ormai nei giudizi straordinari, dato che il sistema del diritto civile non è più tenuto distinto da quello del diritto onorario, l’impiego dell’una o dell’altra azione ha il medesimo effetto, perché hanno uguale forza. Fr. 46, 1 D. 3, 5, Paulus, 1 sentent., Nec refert directa quis an utili actione agat vel conveniatur, quia in extraordinariis iudiciis, ubi conceptio formularum non observatur, haec suptilitas supervacua est, maxime cum utraque actio eiusdem potestatis est eundemque habet effectum. [159/160] Il fatto che Giustiniano abbia detto questo, vuol dire che nel periodo giustinianeo è differente adoperare i termini actiones directae, utiles etc. ; tali termini, che sono passati anche nel diritto moderno, non hanno ai suoi tempi più alcuna importanza per il diritto sostanziale, ma restano come espres-

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La fusione dei vari ordinamenti giuridici in unico corpo di diritto

sioni provenienti dall’antica tradizione, senza che abbiano più alcun valore sostanziale e pratico. Di tale processo di fusione Giustiniano e i suoi contemporanei hanno chiara coscienza ; e TeoFILo , che pare il redattore dei primi due libri delle Istituzioni di Giustiniano, ci dà di ciò una attestazione preziosa. Dopo avere esposto nel II libro delle Istituzioni tutte le forme di testamento in uso nei vari periodi antichi del diritto romano, soggiunge che a poco a poco, sia per la pratica, sia per le emendazioni apportate al diritto dalle costituzioni degli imperatori, gli ordinamenti giuridici civile e pretorio si sono congiunti in un unico corpo da cui è venuto fuori il testamento in uso al tempo di Giustiniano (Inst. 2, 10, 3) : « Sed cum paulatim tam ex usu hominum quam ex constitutionum emendationibus coepit in unam consonantiam ius civile et praetorium iungi ». È fuori dubbio dunque, per le stesse attestazioni dei compilatori e per le prove che oggi si possono a piene mani desumere sia dall’opera di Giustiniano, sia dalla letteratura ante-giustinianea, che, cadute le formulae delle azioni, e scomparso il pretore, il diritto si venne organizzando come un organismo unitario. [160/161]

c aPo vI. LA C AD U tA D eLLe F o R M e soL e nni

Abbiamo visto il primo dei fenomeni avvenuti nel periodo post-classico, la fusione dei vari ordinamenti giuridici. Il secondo fenomeno, strettamente connesso per altro col primo, è, come abbiamo già accennato, la caduta delle forme solenni. Sappiamo che lo ius civile adoperava per qualsiasi negozio riti e forme solenni che si compivano d’ordinario mediante la pronuncia di determinate parole. Si può dire che tali parole erano la sostanza del diritto medesimo, nel senso che gli effetti giuridici erano un prodotto diretto della pronuncia delle parole. Tutto ciò era fondato sulla massima delle XII Tavole : « Cum nexum faciet mancipiumque uti lingua nuncupassit ita ius esto ». Questo avveniva nei più svariati istituti, quali la sponsio, la stipulatio, la dotis dictio, la mancipatio, la aditio hereditatis, la in iure cessio, la confarreatio, la coëmptio, l’acceptilatio etc. Al contrario, presso i popoli orientali il mezzo in uso per la costituzione dei più svariati rapporti giuridici era la scrittura. Il contrapposto fondamentale fra questi due grandi diritti si esprime col detto : « Roma parla, l’Oriente scrive ». Nel periodo che va da Costantino a Giustiniano tutte le forme orali caddero e la scrittura ne prese il posto. Ciò av-

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La caduta delle forme solenni

venne sia per desuetudine, sia per espresse disposizioni legislative degli imperatori. La critica e la storiografia moderna dicono a questo proposito che noi ci troviamo davanti a un fenomeno che rivela in modo tipico ed esemplare l’influenza del mondo orientale e greco sul diritto romano. Sarebbe uno degli esempi più evidenti della sopraffazione che il mondo orientale avrebbe esercitato sul mondo romano. Questa dottrina non è accettabile e ad essa noi opponiamo quanto segue. Che le forme scritte abbiano avuto ad un certo momento la prevalenza sulle forme orali è un fatto innegabile ; ma la questione è vedere quando questo fenomeno si è verificato. È vero che disposizioni positive contro le forme orali romane noi non le troviamo che nell’epoca del Basso Impero. Ma ciò [161/162] è avvenuto perché durante il periodo classico il conservatorismo, una delle caratteristiche più sicuramente accertate del popolo romano, ha lasciato in piedi le forme solenni in omaggio alla tradizione dello ius Quiritium. Il fatto di questa legislazione contraria alle forme solenni prova soltanto questo : che la lotta ebbe una fase ultima, più aspra e risolutiva, la quale cade appunto nell’epoca che va da Costantino a Giustiniano. Nulla di più può provare. Nessuno ha potuto asserire, tanto meno dimostrare, che il trionfo della scrittura sulle forme orali sia avvenuto senza un precedente sviluppo nel periodo classico. Bisogna infatti notare che nel periodo classico se queste solennità esistono in teoria, vanno però perdendo via via tutto il loro vigore. È per questo che generalmente esse vanno cadendo per desuetudine. Indice del nuovo spirito sono la lex Aebutia e le leges Iuliae iudiciariae che hanno abolito l’uso delle forme solenni della procedura per legis actiones. Queste, come molte altre solennità arcaiche, caddero senza più lasciar traccia. È Gellio che ce lo narra (Noct. Att. 16, 10, 8). Restavano le forme solenni del diritto privato. Alcune caddero ben presto, come ad esempio quelle del matrimonio (confarreatio, coëmptio). Per quelle ancora in vigore rimediava il pretore. Questi attenuava tutte le asperità, tutte le difficoltà e le iniquità che potevano nascere da una applicazione troppo rigida delle forme solenni.

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Così, mentre per lo stretto diritto civile l’obbligazione perfezionata con una forma solenne vincola in ogni caso assolutamente i contraenti, il pretore, quando la stipulatio non corrisponde alla essenza del negozio e all’effettivo rapporto svoltosi fra le parti, con una exceptio doli elimina l’ingiustizia che dall’applicazione dello ius civile potrebbe nascere. Parimenti, se taluno per inesperienza compie un negozio senza far uso delle forme solenni per esso prescritte, mentre questo negozio non avrebbe valore per lo ius civile, il pretore può soccorrerlo fingendo che il rapporto sia stato contratto nelle forme debite (formula ficticia : ac si stipulatio interposita fuisset). Si può quindi dire in generale che le forme solenni, se rimaste formalmente in vita, non hanno mai nell’Impero portato effetti iniqui nella pratica appunto per l’intervento vigile del pretore. Inoltre nel periodo dopo le guerre puniche si venne formando, come abbiamo visto, un ordinamento nuovo, lo ius gentium, più agile, più semplice, privo di formalità e tutto improntato all’equità, alla fides bona. Ed esso agisce anche sulle forme solenni dello ius civile, corrodendole. E la stipulatio, ad esempio, viene attratta da questo nuovo ordinamento, trasformandosi, da istituto iuris civile, in istituto iuris gentium.[162/163] Per seguire le varie tappe della evoluzione dalle forme orali del periodo arcaico alle forme scritte del periodo postclassico esamineremo dappresso due istituti. In primo luogo l’atto più esclusivamente ed essenzialmente romano, cioè il testamento ; e poi la stipulatio, il più tipico fra i negozi romani, essendo il più diffuso e il più popolare nella vita del diritto di Roma. Rispetto a questi atti solenni e caratteristici, Cicerone ripeté costantemente che nella pratica sorgevano controversie per discrepanze tra lo scritto e la volontà dello scrivente : Topica 26, 96, Discrepantia scripti et voluntatis ... non magis in legibus quam in testamentis, in stipulationibus, in reliquis rebus, quae ex scripto aguntur, posse controversias easdem existere. Cicerone ritorna spesso su questo punto e adopera sempre le stesse frasi. Se ne deve dedurre che nei Tribunali la discus-

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sione e il contrasto si svolgeva attorno alla scrittura e alla sua interpretazione. Si potrà obiettare che in quei casi la solennità dell’atto, compiuto verbis, era presupposta e fuori discussione. Ma anche se così fosse, noi avremmo precisamente nell’uso della pratica un elemento di prim’ordine per scrutare la vita del diritto. Il documento (cautio-instrumentum) serve per la prova ; ma se esso costituisce di più nella contestazione fra le parti l’elemento vivo e presente del negozio e dell’atto, è innegabile che in esso esiste già il germe del nuovo diritto, in cui il documento verrà a costituire il corpo stesso dell’atto. Testamento — Una delle forme del testamento romano avveniva per mezzo delle tabulae sigillate con i sette suggelli dei testes (septem signis signatae), in cui il contenuto del testamento stesso veniva scritto, e di una mancipatio (emptio familiae) nella quale con parole solenni si compiva una specie di vendita di tutta l’hereditas. Se uno ha compilato soltanto le tabulae, e non ha fatto la mancipatio, per il diritto civile compie un atto di nessun valore ; ma in seguito l’atto è reso efficace dal pretore. infatti se colui che era segnato nelle tavole si recava dal pretore presentandogli le tabulae con i suggelli in regola, questi gli concedeva la bonorum possessio secundum tabulas. Il bonorum possessor non acquistava l’eredità, non era heres, ma aveva la protezione pretoria, finché non si presentasse un erede legittimo. Ma lo sviluppo dell’istituto pretorio fu rapido. Una costituzione di Antonino Pio rese definitiva la bonorum possessio secundum tabulas, la rese, come si dice tecnicamente, cum re. Infatti il bonorum possessor può ora respingere anche gli eredi legittimi con una exceptio doli fondata sulla volontà del testatore. Così questo testamento pretorio, che aveva come base le tabulae, aveva surrogato perfettamente il testamento civile che richiedeva la solennità della mancipatio con la nuncupatio (pronunzia della formula solenne), sicché può dirsi che dalla fine della repubblica il testamento è divenuto un atto scritto. [163/164] Grande evoluzione dunque, ben documentata e coordinata nelle cause e nel tempo. E così si giunge al testo delle Istituzioni di Giustiniano in cui l’imperatore dichiara che il testamento in uso al suo

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tempo risulta dalla fusione fra i diversi ordinamenti (diritto civile, diritto onorario, diritto delle costituzioni imperiali). non è quindi l’oriente con le sue forme scritte che ha annientato il testamento quiritario, ma una lunga prassi che attraverso una evoluzione di secoli lo ha trasformato. Stipulatio — Essa è l’atto verbale per eccellenza del mondo romano. Essa si compie ex interrogatione et responsione, mediante una domanda ed una risposta ; quindi utroque loquente. E la stipulatio si mantenne sicuramente più a lungo perché era di una grande semplicità e naturalezza, perciò agevole e popolare. Nel periodo più antico essa era rigorosa nella sua terminologia, « Spondes ? », « Spondeo ». Domanda e risposta si corrispondevano in questa unica forma possibile. L’istituto diviene in seguito, come abbiamo già accennato, iuris gentium, e assume una forma più semplice cui vengono perciò ammessi a partecipare anche i peregrini. Il rigorismo terminologico si attenuò e altre parole vennero accolte : « promittis ? », « promitto » ; « dabis ? », « dabo » ecc. Non solo, ma può essere fatto anche in greco. Da questo tempo cominciò a entrare nell’uso di scrivere, quando si trattava di stipulazioni molto complesse nel contenuto e nelle modalità, un atto particolareggiato e poi di confermare con la stipulatio il contenuto di esso. Le parole usate potevano essere le seguenti : ea quae supra scripta sunt promittis ? (cfr. fr. 140 pr. D. 45, 1). Esaminando a fondo quale sia il carattere della stipulatio così intesa, si rileva che ormai in tali casi essa è divenuta una clausola finale e orale di un atto scritto. Cosicché noi possiamo dire che la stipulatio romana è divenuta quel che in un atto pubblico moderno corrisponde alla firma. Infatti oggigiorno per compiere un atto pubblico valido, esso, dopo essere stato compilato dal notaio, viene letto alle parti, le quali sottoscrivendolo lo rendono efficace. Per il diritto romano si può dire che la stipulatio nella sua sostanza era divenuta un tutto corporeo con l’atto scritto. Siamo con ciò alla prima fase della evoluzione dell’antica stipulatio. Se poi si pone a mente al fatto che la stipulatio era divenuta iuris gentium, cioè usata da tutte le genti dell’impero,

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si comprende come si doveva dare una importanza sempre maggiore alla scrittura. Più tardi le parole solenni, quando non siano state pronunciate, ma si sia compilato l’atto scritto, vengono presunte iuris et de iure come pronunziate. [164/165] si finge infatti che colui che si obbliga abbia in realtà riposto ad una interrogazione precedente. Ce lo dice Paolo nelle sententiae 5, 7, 2 : Quod si scriptum fuerit instrumento promisisse aliquem, perinde habetur, atque si interrogatione praecedente responsum sit. Noi riteniamo che il contenuto di questo frammento sia post-classico, in quanto, pur attraverso tutte le attenuazioni possibili, il requisito della conferma orale è richiesto da tutti i giureconsulti contemporanei di Paolo, e dovette essere abbandonato solo prima di Costantino, quando si manifesta matura la semplificazione delle forme solenni. Ma la dottrina dominante su questo testo è ancor più larga, perché ritiene genuina l’attestazione che proviene dal testo di Paolo. Volendo ammetterla essa torna ancora più di ausilio alla nostra tesi generale. Ad ogni modo, classico o post-classico, questo testo rappresenta il secondo grado dello sviluppo della stipulatio, e la differenza rispetto al tempo non può essere maggiore d’un mezzo secolo. Quel che avvenne poi nel periodo post-classico è alla luce del giorno. La pratica fino ab antiquo era abituata a vedere nel documento scritto il corpo della stipulatio che riceveva bensì tutta la forza dalla oralità, ma nondimeno nel processo e nella vita esso rappresentava la fonte del diritto del creditore, con tutte le modalità e limiti che potevano costituire obbietto di esame e di discussione. Quando le solennità verbali cominciarono a decadere, il documento continuò a compiere la sua funzione precisamente come per lo innanzi. Il trapasso dall’uno all’altro sistema si dovette compiere nella prassi in maniera impercettibile. I documenti, che di regola portavano già fin dal periodo classico la clausola stipulatoria, furono nel periodo post-classico ritenuti come stipulazione senza che la formula orale fosse stata in verità recitata.

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Questa cadeva così in desuetudine e la prassi reputò che la scrittura avesse per sé forza obbligatoria. In seguito si ritenne che nemmeno la clausola fosse necessaria nel documento ; finché i dubbi e le controversie furono risolti da Leone con la cost. 10 C. 8, 37. Questo imperatore stabilì nel 472 che per la creazione del vincolo non fosse necessaria la forma solenne ma il consenso che può manifestarsi in qualunque modo. E questo principio venne ribadito da Giustiniano nel 531 (cost. 14 C. 8, 37). Si compie così il terzo periodo della evoluzione della stipulatio. Le forme solenni del diritto privato dovevano cadere assieme a quelle della procedura. E se Cesare avesse compiuto il suo programma di dare a Roma una nuova codificazione per sostituire quella decemvirale, senza [165/166] dubbio esse sarebbero cadute sin da allora. Infatti si può con certezza affermare che il movimento contrario allo ius civile e favorevole all’uso della scrittura nei negozi giuridici cominciò verso la fine della repubblica, quando l’uso e il rigorismo delle forme solenni sono stati attenuati dalla giurisprudenza e dalla pratica. Quando col Basso impero queste forme caddero definitivamente, può ben dirsi che esse erano ormai corpi morti, come un albero corroso all’interno divenuto vuoto. Nel campo della procedura, per addurre un esempio significativo, le formulae sono già cadute dal tempo di Diocleziano, eppure bisogna giungere fino a Costanzo per averne l’abolizione legislativa. Ugualmente per le forme solenni : esse non vengono tolte appena divengono incomode ma si conservano per qualche tempo come sopravvivenze. Finché lo ius civile infatti si mantenne distinto dallo ius honorarium e dagli altri sistemi le forme solenni, quantunque attenuate, restarono in vigore. Ma, iniziatasi la fusione dei varii ordinamenti, come si sarebbe potuto tener distinto l’effetto di un negozio solenne da quello di un negozio che non lo era ? Caduto quindi questo elemento di divisione anch’esse cadono. Possiamo a questo proposito addurre delle prove. Se la forma è sparita per la stipulatio, ogni convenzione ormai co-

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munque fatta deve costituire obbligazione ; non si può più distinguere insomma tra convenzione formale e patto nudo che abbia avuto luogo fra presenti. La unificazione legislativa di queste due figure non è mai avvenuta, poiché anche nel diritto giustinianeo non si è abolito formalmente il principio che il patto nudo non genera obbligazioni. Ma nella sostanza è ben altra cosa, perché nel Corpus iuris non vi è mai, come afferma Bartolo, un patto che non costituisca obbligazione. Viene a sparire anche la distinzione fra le obbligazioni iuris civilis e quelle iuris gentium e del diritto pretorio ; si crea così un organismo unitario nel campo delle obbligazioni, senza forme solenni e liberato da tutte le difficoltà e strettoie primitive. Tutto questo movimento, di cui noi abbiamo dato qualche esempio ma che si svolge in ogni campo del diritto, avrebbe richiesto una direzione molto illuminata, quale si era avuta nel periodo classico ad opera del pretore, della giurisprudenza e degli imperatori. Invece pretori e giurisprudenza non vi sono più ; rimangono solo gli imperatori, i quali, non assistiti da grandi giuristi, emanano una legislazione fiacca, priva di una visione esatta dei problemi e delle esigenze giuridiche dei tempi. onde si verifica quello che abbiamo ripetutamente detto, cioè che l’unificazione degli ordinamenti giuridici, la caduta delle forme solenni dello ius [166/167] civile e quindi la semplificazione di tutto il diritto si compie in maniera irregolare, tumultuaria e sempre incompleta. Ancora nella codificazione di Giustiniano, quindi, sopravvivono tracce cospicue degli antichi ordinamenti, principî generali e norme particolari, che in proposito non avevano più ragione di esistere. Basta in proposito ricordare che ancora nella compilazione di Giustiniano apparisce spesso vivo il contrasto tra ius civile e honorarium, che era in verità sparito da due secoli. [167/168]

c aPo vII. LA P R A s s i n eL B A s s o iM Pe R o

Abbiamo detto che in questo periodo il movimento del diritto si svolge tumultuoso e senza una guida ferma e oculata. L’unico organo veramente attivo è la prassi. Essa si aiuta come meglio può, cercando di desumere dagli iura (cioè dal complesso del diritto raccolto nelle opere dei giureconsulti passati) la norma necessaria per la decisione delle controversie. Cadono così frattanto, come abbiamo già visto, tutti quei mezzi specifici della procedura formulare e la distinzione tra ius civile e ius honorarium, fra ius civile e ius gentium. il diritto si era ridotto insomma ad una massa fluida da cui la pratica doveva trarre gli elementi necessari alla soluzione di ogni caso. Ma essa, data la mancanza di una vera forza creatrice, non fu in grado di dominare un campo così vasto e precipitò in una grande confusione. A superare questo stato caotico in cui il diritto era caduto, gli imperatori fecero ricorso a mezzi meccanici. Uno dei primi atti in questo senso è dato da CoSTanTIno nel 321 col togliere ogni valore alle note aggiunte da PaoLo e da ULPIano ai libri responsorum di PaPInIano . Quest’ultimo giurista era considerato « primus omnium » e il provvedimento di Costantino era necessario per evitare incertezze e dubbi quando vi era disparità di opinioni fra gli autori e gli annotatori.

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La prassi nel basso impero

Un altro provvedimento riguarda un’opera che venne compilata in questo periodo e che ci è giunta sotto il nome di Pauli sententiae. Si discute se essa sia il sunto di una più vasta raccolta portante il medesimo nome, fatta da questo giureconsulto, o se non si debba considerare invece come una specie di antologia di passi tratti da varie opere di Paolo o di autori classici. Nel periodo post-classico si dubitava se queste sententiae dovessero avere valore nella pratica. Costantino decise che, data la perfetta corrispondenza sostanziale esistente fra quest’opera e l’origine, donde era stata tratta, essa dovesse avere valore nella pratica del tempo. [168/169] Le costituzioni riguardanti queste opere ci sono state conservate nel Codice Teodosiano (C. Th. 1, 4, 1 e 2). Nell’anno 426 gli imperatori Valentiniano III e Teodosio II emanarono come rimedio più generale ed energico, ad ovviare l’inconveniente di dover ricercare la norma in tutte le opere dei giureconsulti, una legge nella quale stabilirono una specie di Tribunale dei morti e che oggi si suole indicare come « Legge delle citazioni ». Non tutte le opere dei giureconsulti dovevano aver valore nella pratica, ma solo quelle di cinque. Sono essi i quattro più recenti fra i grandi giureconsulti dell’epoca dei Severi, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino, cui si aggiunge Gaio, dell’epoca degli Antonini. L’inclusione di questo ultimo giureconsulto, che in vita non fu munito dello ius respondendi, non deve meravigliare perché egli ebbe divulgazione e fama sempre maggiori con l’andare del tempo, come si rileva dal fatto che frammenti delle sue istituzioni riaffiorano in tutte le parti dell’impero. Per quanto concerneva l’uso di questi pareri nei casi di disparità di opinione fra tali giureconsulti, il criterio era il seguente : vinceva l’opinione seguita dalla maggioranza e, qualora la maggioranza non vi fosse stata, doveva accogliersi l’opinione seguita da Papiniano. La costituzione si occupava anche delle opinioni dei giureconsulti più antichi che erano citate nelle opere dei cinque. Queste opinioni dovevano essere confrontate ogni volta nell’opera originale ; ma tale disposizione rendeva pressoché inutile la legge delle citazioni, perché, specie nelle opere di Paolo e di Ulpiano, che avevano compilato, può dirsi, tutta la

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giurisprudenza romana, la citazione dei giureconsulti più antichi era così frequente da rendere assolutamente ardua l’opera del pratico consultatore. Ben si poteva dunque chiamare Tribunale dei morti questo strano consesso di giudicanti, il quale non poteva rappresentare che un rimedio ben misero, in quanto il diritto è cosa viva sicché può dirsi che nella serie dei casi giuridici non se ne presentano mai due perfettamente analoghi in tutti i loro presupposti. La consultazione delle opere dei predecessori è utile al giudice per trarre da essa la scienza del diritto e per affinare l’acume giuridico. Ma pretendere di trovare bello e risolto il caso pratico da risolvere, di potere copiare la soluzione di esso dalle opere di giureconsulti morti, è cosa che spesso non corrisponde alle esigenze del diritto. La prassi si aiutava anche con collezioni miste di leges e iura, estraendo quest’ultimi dalle opere più note dei giuristi classici. Fra queste collezioni la più importante è quella che porta il nome di fragmenta Vaticana e di cui ci occuperemo più oltre. [169/170]

c aPo vIII. LA C oM P i LA zi o n e D i teoDosio ii e Le C o D i F i C A zi o n i o C C iDe ntAL i

§ 1. Il Codice Teodosiano. Per ovviare agli inconvenienti che si verificavano ancora nell’applicazione del diritto, ove gli sviluppi avvenivano tumultuariamente e senza chiarezza, Teodosio II si assunse nell’anno 429 il compito di dare all’impero una codificazione. Il bisogno, cui soddisfece Giustiniano un secolo dopo, era già profondamente sentito. Il piano di Teodosio era il seguente. Raccogliere in un unico corpo tutte le leggi, vale a dire le costituzioni imperiali di portata generale da Costantino sino ai suoi giorni. La raccolta doveva iniziarsi con Costantino perché per le costituzioni precedenti vi erano i Codici Ermogeniano e Gregoriano. Una seconda raccolta doveva comprendere la compilazione dei iura cioè delle massime estratte dalle opere dei giureconsulti classici. Con una costituzione del 26 marzo 429 fu nominata una Commissione di 8 alti impiegati dello stato e di un avvocato, ma il piano non fu eseguito. Il 21 dicembre 435 fu nominata una nuova commissione di 16 impiegati con a capo Antioco, la quale ebbe soltanto l’incarico di codificare le leges generales da Costantino a Teodosio. In poco più di due anni la raccolta fu pronta. Pubblicata il 15 febbraio 438, entrò in vigore come legge dal 1°

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La compilazione di Teodosio II e le codificazioni occidentali

gennaio 439. inviata in occidente a valentiniano iii, fu da questi confermata anche per quella parte dell’Impero e noi possediamo il protocollo del Senato Romano cui il Codice fu presentato il 25 dicembre 438. La raccolta ebbe il titolo ufficiale di « Codex Theodosianus », e, formato di sedici libri divisi in titoli con rubriche, conteneva, disposte secondo l’ordine dell’editto perpetuo, cronologicamente per ogni titolo, le leges generales da Costantino in poi riferentesi per lo più al diritto ecclesiastico, amministrativo, penale e, in piccola parte, anche al diritto privato. ogni costituzione recava in testa il nome degli imperatori che l’avevano emanata e l’indicazione del destinatario. [170/171] Questi due dati che precedono la costituzione formano la « inscriptio ». Alla fine della costituzione segue la data in cui la costituzione era stata o firmata (signata abbreviato in S.) o emanata (data = D.) o proposta (cioè affissa in luogo pubblico, proposita = PP.) o ricevuta (accepta = A.), il luogo della emanazione, e l’indicazione dell’anno espressa con il nome dei Consoli, che talvolta erano gli Imperatori stessi. tutti questi dati finali formano la « subscriptio ». Esempio : Impp. Theodosius et Valentinianus AA. Florentio pp. (Testo della costituzione)

Inscriptio

D. prid. id. Sept. Costantinopoli Theodosio A. XVII et Festo conss.

Subscriptio

Le lettere A dopo il nome degli imperatori che possono essere una, due o tre, a seconda del numero di questi, indicano il titolo di « Augustus ». Le due P dopo il nome del destinatario indicano la sua carica : praefectus praetorio (altra abbreviazione in uso pu. = praefectus urbi) ; i nomi delle altre cariche sono posti per intero. Altri destinatari possono essere il popolo intero, il popolo di una città o di una provincia, gli appartenenti ad una religione, il senato, o singoli cittadini ; il numero romano dopo il nome del console (che in questo caso è proprio l’imperatore stesso) rappresenta il numero di volte che la persona ha gerito il consolato.

Il Codice Teodosiano – Raccolte post-teodosiane

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Le costituzioni non accolte nel Teodosiano furono private di ogni efficacia. secondo gli ordini ricevuti, i commissari manipolarono le leggi ai fini della codificazione in vari modi : dividendo una legge in più disposizioni, eliminando i riferimenti a casi particolari, mutando o sopprimendo parole e periodi. Le date stesse delle leggi furono spesso poste arbitrariamente, le iscrizioni e sottoscrizioni sono riportate con molti errori e talvolta mancano. Il Codice Teodosiano fu molto utilizzato nelle due parti dell’Impero, anche nella letteratura e nelle raccolte private e ufficiali. Abolito da Giustiniano, si mantenne ancora per molto tempo nell’occidente specialmente in Gallia e spagna, cioè in quelle regioni non più appartenenti all’Impero, alle quali non fu possibile perciò la estensione della legislazione Giustinianea. A noi è pervenuto in parte ; cioè dal libro 6, titolo 2, costituzione 12, al libro 16, in originale e in vari manoscritti. Dal libro primo al quinto, in epitome, riportata dalla Lex Romana Visigothorum. In complesso due terzi dell’intera opera. Fra le edizioni merita di essere ricordata al primo posto quella di Jacopo GoToFredo , fornita di un commento meraviglioso per dottrina ed acume critico. Sono inoltre da ricordare quella di HaeneL (1842) e quella critica del MoMMSen (1904-1905). [171/172] § 2. Raccolte post-teodosiane. Dopo la emanazione del Codice Teodosiano, TeodoSIo II e gli imperatori seguenti continuarono a emanare leggi di cui vennero fatte delle raccolte. Una di queste comprende le leggi posteriori di TeodoSIo II, quelle di MarcIano (450-457), e di Leone (457-468) ; essa fu fatta in occidente e ci è giunta in una epitome inserita nella Lex Romana Visigothorum e viene riportata nelle edizioni come appendice al Codice Teodosiano (Novellae post-teodosiane). In appendice al Teodosiano nell’edizione del Mommsen, anche una breve raccolta di leggi, composta di 16 costituzioni, riferentisi per lo più al diritto ecclesiastico, compilata forse in Gallia, appena dopo il 425. Pubblicata per la prima volta completa nel 1631 da Jacopo SIrMondo , ha preso da lui il nome di Constitutiones Sirmondianae.

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La compilazione di Teodosio II e le codificazioni occidentali

Le leggi romano-barbariche. Le già gravi condizioni del diritto in occidente furono peggiorate dalle invasioni barbariche. E in alcune parti si rese necessario emanare leggi per il regolamento dei rapporti dei romani soggetti, fra loro, e talvolta con i barbari. Sono fra esse principalmente da ricordare : 1. La Lex Romana Visigothorum (più tardi, sec. XIV, nota col titolo di Breviarium Alaricianum) fu compilata da una commissione di « prudentes » per incarico di ALarIco II nell’anno 506. Contiene amplissimi estratti dal Codice Teodosiano, 22 costituzioni del Codice Gregoriano, 2 costituzioni del Codice Ermogeniano, 1 epitome in 2 libri delle Istituzioni di Gaio, frammenti delle sententiae di Paolo e un responso di Papiniano. Molte costituzioni della Lex Romana Visigothorum seguite da brevi parole di commento (interpretatio Visigothica) sono assai importanti per la conoscenza del modo come le norme romane venivano interpretate1. 2. Edictum Theodorici. Fatto compilare da Teodorico, forse dopo il 512, in 154 articoli ricavati forse dai 3 Codices e dalle sententiae di Paolo, ma la cui origine è appena e non sempre riconoscibile2. 3. Lex Romana Burgundionum, compilata verso il 500 per i Burgundi, contiene in 47 titoli, elaborati pur con elementi barbarici, degli estratti dai tre codici, dalle Novelle post-teodosiane, dalle sentenze di Paolo, dalle istituzioni di Gaio3. [172/173] Grande è l’importanza di queste leggi per la cognizione del diritto pregiustinianeo, quantunque in parte raffazzonate barbaramente. Per quanto concerne il modo come esse sono state composte, la Lex Romana Visigothorum fu eseguita con il metodo allora più in uso, cioè composta mediante la raccolta di costituzioni, vale a dire nello stesso ordine di idee di TeodoSIo , e di parti di opere della giurisprudenza classica. A ogni costituzione e a ogni parte veniva lasciata la sua individualità. Ediz. G. F. HaeneL , Lex Romana Visigothorum, Lipsiae, 1849. Ediz. Monumenta Germaniae Historica, Leges, V (1875) ; Fontes iuris Romani antejustiniani, II. 3 (3/172). Ediz. Monumenta Germaniae Historica, Leges, III ; Fontes iuris Romani antejustiniani, II. 1 (1/172).

2 (2/172).

Raccolte post-teodosiane

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L’Editto di Teodorico invece e la Lex Romana Burgundionum sono redatti in forma di articoli di legge tratti dagli esemplari. La Lex Romana Visigothorum è molto importante per noi, perché attraverso essa ci sono state tramandate parti notevoli di opere giuridiche e gran numero di costituzioni dai Codici Gregoriano, Ermogeniano, Teodosiano, che altrimenti sarebbero andate perdute. [173/174]

c aPo Ix. L e s CU oLe D i D i R i tto n ei se Co L i iv e v

§ 1. Loro decadenza.

Abbiamo visto quale fosse la condizione del diritto dal secolo IV in poi : stato tumultuario e senza una guida. Il disordine e l’ignoranza imperavano nel campo delle discipline giuridiche e quando, ad esempio, Teodosio II volle procedere alla sua codificazione, non gli fu possibile trovare il testo di molte leggi, neppure nell’archivio della Cancelleria Imperiale di Costantinopoli sicché dovette ricercarlo in quello di Roma. Una delle ragioni del decadimento degli studi del diritto va ricercata nel mutato clima spirituale. Durante il paganesimo l’attività più alta cui si potesse aspirare era quella di giureconsulto. Ad essa tutti gli ingegni migliori si rivolgevano, come la più importante e degna, e che meglio apriva la via agli onori e alle più elevate cariche. Dopo, invece, per l’influenza del cristianesimo, le attività pratiche e liberali vengono trascurate in quanto non utili alla vita dello spirito e gli intelletti più forti si rivolgono alla vita contemplativa, allo studio della religione. E così, mentre le discipline teologiche in questo periodo sono nel massimo rigoglio, quelle giuridiche languiscono miseramente. Noi sappiamo quale fosse il grande sviluppo delle scuole nell’epoca classica e come attraverso esse si fosse sviluppato e rigenerato tutto il diritto. Sappiamo i loro nomi e quelli dei giureconsulti insigni che le componevano. Del basso Impero

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Le scuole di diritto nei secoli IV e V

invece nessun nome di giurista è giunto a noi. Sarebbero occorsi uomini superiori per dominare il vasto complesso organico del diritto che si trasformava nella prassi, per organizzare questa materia fluida e multiforme, per discernere cosa vi fosse di vivo o di morto in essa. or per quanto riguarda una attività di scuole, attività creatrice di un nuovo diritto, in questo periodo nessun elemento è a noi pervenuto che ne accerti l’esistenza. § 2. Scuole occidentali. Per l’occidente noi abbiamo solo dei miseri sunti delle istituzioni di Gaio fatti in Gallia (frammenti di Autun). se a ciò si aggiungono le attestazioni [174/175] pervenuteci abbiamo per l’occidente un quadro assai grave. Ci dice ad esempio Ammiano MarceLLIno che l’ignoranza giuridica era così profonda che taluno credeva che PaPInIano e ULPIano fossero nomi di pesci. In questo vi doveva essere senza dubbio della esagerazione, ma rappresenta vivacemente lo stato della cultura del tempo. In base a queste testimonianze, sulle condizioni, dal secolo iv in poi, della scienza giuridica nell’occidente si è tutti d’accordo ; l’epitome di GaIo in 2 libri è sicuramente opera di scuola ed è cosa ben misera. § 3. Scuole orientali. il dissenso nasce per l’oriente. vi sono molti infatti che ritengono che in questa parte dell’Impero le cose andassero diversamente, cioè che le scuole abbiano avuto una vita intensa e che abbiano elaborato e riplasmato il diritto romano. Ciò sarebbe avvenuto specie ad opera della scuola di Berito. Ma fino all’anno 438 sicuramente, l’oriente, rispetto alla scienza giuridica, non doveva trovarsi in condizioni migliori dell’occidente. L’attestazione più autorevole in proposito ci viene infatti da TeodoSIo II ed essa è tanto sconfortevole quanto è solenne. Nell’emanare il Codice Teodosiano egli descrive le condizioni degli studi sino allora. Il quadro non potrebbe essere più squallido e non differisce da quello dise-

Scuole occidentali – Scuole orientali

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gnato da Ammiano Marcellino. Ma l’imperatore ci fornisce elementi più precisi. Malgrado i premi e gli incoraggiamenti, egli dice, il campo degli studi giuridici rimane deserto. La confusione nella pratica è desolante ; la selva delle costituzioni, la varietà e le difficoltà delle azioni sono avvolte da fitte tenebre. Ma, messe in chiaro le leggi, soggiunge l’Imperatore, non sono più da temere le male arti dei giuristi ed i loro terribili responsi, perché ormai è messo in bella luce e come possa compiersi la donazione e con quale azione chiedersi l’eredità, come formularsi una stipulatio certa o incerta. Questi esempi che l’Imperatore adduce con tanta soddisfazione per l’opera compiuta sono più tremendi dei mali sopra descritti. Dunque era a tal punto arrivata la confusione nella pratica e nei giudizi nella parte orientale dell’impero ? Era questa la luce che le Scuole orientali avevano diffuso sul diritto romano ? Alle constatazioni di teodosio ii corrispondono perfettamente i fatti. il programma iniziale di una codificazione più ampia non poté essere eseguito ; e parve opera sovrumana raccogliere e ordinare leggi emanate appena nel corso di 150 anni. Notevole come testimonianza è pure il fatto che, tra i 16 commissari chiamati da Teodosio II alla esecuzione dell’opera nel 435, non v’è un solo insegnante di diritto. Meno di un secolo più tardi noi abbiamo la codificazione di Giustiniano. [175/176] Si deve forse concludere che l’attività scientifica nel senso più alto, cioè rielabolatrice e creatrice delle scuole di diritto, si sia tutta d’un tratto sviluppata dopo Teodosio II e prima di Giustiniano ? Ma non abbiamo alcun documento, alcuna prova di ciò che queste scuole fecero in questo senso, nessuna attestazione in proposito. Il silenzio di Giustiniano rispetto al contributo portato da esse alla chiarificazione e ricostruzione del diritto contemporaneo è significativo. e d’altra parte, se non corrispondesse alle reali condizioni delle cose, questo silenzio sarebbe inesplicabile, addirittura doloso. Possibile che Giustiniano e gli antecessores (professori) beritesi e costantinopolitani, membri della commissione legislativa, non abbiano trovato occasione di legare ad una nuova dottrina o soluzione o elucubrazione giuridica il nome di una scuola o d’un « eroe » ?

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Le scuole di diritto nei secoli IV e V

GIuSTInIano non è parco di parole di lodi. Il suo romanticismo non poteva giungere a tal punto da esaltare i giuristi romani e trascurare ingiustamente i nomi della posteritas bizantina. Se li ha omessi, è segno che non aveva nulla da dire. La vanità personale dell’Imperatore non potrebbe spiegare il suo silenzio. E questo sarebbe apparso ridicolo ai suoi contemporanei, come ben dice il LeneL . Vi è invece un’attività puramente recettizia delle scuole orientali in questo periodo. Ma essa nulla ha da vedere con quella attività creatrice o ricostruttrice di cui tanto si parla. Come prova di questa attività recettizia, abbiamo un documento assai importante per noi, costituito dai fragmenta Sinaitica. Nella biblioteca di un convento di frati sul monte Sinai, vennero rinvenuti nel 1880 18 strisce di papiro, contenenti dei frammenti di un commento bizantino all’opera di UL PIano ad Sabinum. Si riporta in greco la massima espressa nel testo latino, facendola seguire da brevi parole di commento e confrontandola con altri passi delle opere classiche ; ma nessun elemento di diritto nuovo appare da questi frammenti. Quelli che vi si trovano, sono derivati dalla Compilazione di Giustiniano come si dirà più oltre. Taluno invece, fantasticando su questa pretesa attività creatrice delle scuole, oltreché attribuire la differenza tra diritto classico e diritto giustinianeo all’opera di esse, specie a quelle di BerITo e CoSTan TInoPoLI , ha voluto dire che GIuSTInIano in sostanza non fece nulla rispetto alla sua codificazione. il PeTerS , infatti, sostenne che la elaborazione di tutte le opere dei classici era già avvenuta nel periodo pregiustinianeo. Le scuole avrebbero già composto, per la pratica e per lo studio, una raccolta così ampia di frammenti della giurisprudenza classica tale da costituire, come lo chiamò il r oTondI , un predigesto, introducendo anche in esso tutte le modifiche. Giustiniano per la compilazione del suo Digesto non avrebbe fatto altro che aggiornarlo con la legislazione più recente. Vedremo meglio [176/177] tutto ciò in seguito. Intanto diciamo subito come le congetture del Peters siano da scartare senz’altro, oltre che per le ragioni generali esposte, anche perché è dimostrato in maniera inconfutabile che la commissione giustinianea, per comporre il Digesto, ha proceduto ad una lettura diretta di tutte le opere dei giuristi classici da cui furono estratti i singoli frammenti. Questa dimostrazione fu data già nel 1821 dal

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Conclusioni

BLuhMe , e tutti gli studi posteriori hanno confermato la sua fondatezza, talché può dirsi uno dei risultati meglio acquisiti alla nostra scienza. § 4. Conclusioni. Concludendo su questo punto, per comprendere la differenza che c’è fra diritto classico e diritto giustinianeo bisogna ricorrere ad altra spiegazione e non a quella pretesa attività creatrice delle scuole orientali di cui non abbiamo né documenti né prove né attestazioni. Per noi, come si è detto, essa va ricercata in primo luogo nella fusione tra i vari ordinamenti giuridici, ius civile, ius gentium, ius honorarium, cognitio extra ordinem, che nel periodo classico si erano ancora mantenuti distinti, ma che nel periodo post-classico, caduta la procedura formulare e il pretore, si vanno fondendo nella prassi. Non si può parlare affatto di scuole nel senso che esse avrebbero costituito un fattore preminente per la formazione del diritto apportando il contributo di nuove dottrine in ogni campo durante il IV e il V secolo. GIuSTInIano costruì la sua compilazione direttamente, traendo gli elementi che le opere dei giuristi gli offrivano, recandovi tutti gli accomodamenti e rammodernamenti possibili, resi necessari dalla fusione e dalla prassi degli ultimi due secoli. Escluse pertanto le scuole e di regola anche le consuetudini orientali, l’unica vera e grande forza, che ha importanza di un nuovo fattore nella trasformazione del diritto del tempo, è l’etica cristiana, come si vedrà nel capitolo che segue. [177/178]

c aPo x. L’ inF LU en zA D eL C R i s tiAne siM o s U L D i R i tto R o M Ano

§ 1. Cause che hanno impedito la retta visione del problema. Lo sviluppo del Cristianesimo, anche come fatto storico e come dottrina, e la penetrazione dell’etica cristiana fin dall’epoca dei romani sulle successive trasformazioni del diritto, è uno dei fenomeni più grandiosi della storia. Si dovrebbe perciò supporre che il sec. XIX, che fu il secolo dello storicismo, avesse scrutato a fondo questo problema così capitale e messo in chiaro quanta parte si debba attribuire propriamente alla religione in quel processo d’intensa formazione e trasformazione del diritto, che ebbe luogo nei due ultimi secoli del mondo antico, cioè nei secoli IV e V d. C. Tutto al contrario ; la scuola inaugurata dal SavIgny nei primi anni del secolo XIX e che porta il nome di Scuola storica tedesca, non solo non rivolse alcuna attenzione a siffatte indagini, ma, appena si presentò l’occasione, respinse nella maniera più categorica l’idea che il diritto romano codificato da Giustiniano avesse subito un qualsiasi influsso cristiano. Nei secoli anteriori, invece, non si era mai dubitato di ciò. Il medio evo è tutto dominato dall’idea e dalle dottrine cristiane ; e DanTe rappresentò Giustiniano come il legislatore cristiano che, seguendo i precetti della Chiesa, aveva con l’aiuto divino compiuta l’opera per l’attuazione della giustizia terrena e per il conseguimento della grazia celeste.

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

Il primo che nel secolo XIX tentò di segnare le grandi linee dell’influsso del Cristianesimo sul diritto fu il troPLong , civilista francese, che scrisse nel 1843 una monografia sull’argomento. L’opera suscitò critiche aspre e fu subito sopraffatta. Il Troplong per altro aveva affrontato il tema dal lato più facile, mettendo in luce l’azione esercitata dalla Chiesa sul diritto delle persone, e specie sui costumi, sul matrimonio, sulle seconde nozze, sugli schiavi, sull’usura e così via. La dimostrazione, in verità, offriva il fianco alla critica, perché in quel tempo non si conosceva ancora l’analisi storica e filologica dei testi di legge. Anche il troplong fu tratto a raccogliere le testimonianze dappertutto, alla [178/179] rinfusa ; e aveva attribuito un grande influsso cristiano già sui giureconsulti del II e III secolo dell’Impero. La Scuola storica dichiarò assurda questa asserzione, osservando che non potevano essere dominati dallo spirito cristiano quei giureconsulti vissuti nel II e III secolo che erano stati consiglieri degli Imperatori, i quali avevano ordinato le feroci persecuzioni contro i cristiani. La opinione del Troplong fu perciò derisa e tutto il problema fu messo a tacere. In questo stesso periodo parlò lo storico che fu ritenuto l’oracolo del secolo rispetto alla storia delle origini del Cristianesimo : Ernesto r enan ; e questi, specie nella vita di Marco Aurelio, sostenne che l’azione del Cristianesimo sul diritto era stata nulla, e credette di provare ciò nella maniera più decisiva dicendo che il Cristianesimo nulla fece per la redenzione degli schiavi, non ne infranse le catene, ma disse soltanto ai derelitti parole di rassegnazione affinché sopportassero con fede tutte le tribolazioni terrene, confortandoli con la promessa che a loro precisamente era riservato il Regno dei Cieli. A queste osservazioni del Renan risponderò più oltre. Per ora constatiamo il fatto che giuristi e storici furono nel secolo XiX concordi nel negare un influsso dell’etica e delle dottrine cristiane sul diritto. Si può in proposito consultare il BonFanTe nelle « Istituzioni » e nella « Storia ». L’opinione del Renan, naturalmente, non poteva per se stessa avere gran peso perché egli non conosceva le fonti giuridiche dalle quali la soluzione del problema doveva venire. Ma quella dei giuristi e dei grandi storici del diritto del secolo XIX è grave,

Cause che hanno impedito la retta visione del problema

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in quanto questi avevano una profonda conoscenza dei libri di diritto e li avevano scrutati a fondo, sotto i più vari aspetti. In verità, i più illuminati tra essi non ardirono pronunziare una esclusione totale di quell’influsso dell’etica cristiana ; così JherIng aveva ammesso che la Chiesa avesse debellato l’atteggiamento ostile del diritto verso le donazioni – che era una caratteristica del diritto romano – e avesse così favorito il sorgere del patrimonio delle chiese e dei monasteri e il meraviglioso sviluppo delle pie opere (piae causae). Naturalmente questa parziale limitata ammissione non poteva avere gran peso. Il problema ha una ben più vasta importanza ed è imponente. Infatti la storia del diritto è la parte più saliente della storia civile di un popolo nel senso più largo, e deve abbracciare perciò tutta la vita della nazione, le varie manifestazioni dello spirito e della vita sociale – religione, costumi, morale, condizione economica – le quali tutte si rispecchiano nel diritto che è il fenomeno più possente e complesso fra i fenomeni sociali. E la religione esercitò sempre, nei popoli antichi, una azione di prim’ordine. I romani stessi si dicono « religiosissimi mortalium ». PoLIBIo ed altri autori greci videro in ciò la grandezza di Roma, nella romana εὐσέβεια. Tutta la vita privata e pubblica era compenetrata nella religione. Il pater [179/180] familias entrando in casa saluta i lari e poi visita il campo. I sacra e l’hereditas sono regolati dal diritto pontificale, e le sanzioni sono non di diritto civile ma del diritto sacrale. Perciò nell’epoca più antica il Collegio dei Pontefici ha un’importanza preponderante in tutta la vita privata e pubblica, specie nel campo del diritto e della amministrazione della giustizia. La religione Cristiana doveva assumere un’importanza e una funzione ancor più intensa e più larga dal terzo secolo in poi, in un’epoca cioè in cui, sulle rovine del mondo antico, risplendette unica la luce dell’etica e del pensiero cristiano. Ci debbono essere pertanto delle cause generali, estranee al valore e al contenuto delle fonti, per spiegare questa strana dottrina dei giuristi e degli storici. Su queste cause dobbiamo rivolgere anzitutto la nostra attenzione per renderci conto di una visione storica così ferma e così falsa. I. La prima è riposta nello stato degli studi e nella tradizione umanistica del diritto romano. La scienza del diritto

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

romano ha avuto nella storia varie vicende. Due volte caduta in uno stato di grave crisi : nei secoli XVI e XVII e poi nel secolo XIX e al principio del secolo XX. La prima volta nel periodo dell’u ManeSIMo , cioè con la scuola dei giuristi che rivolsero tutta la forza del loro intelletto e le più sottili indagini verso il diritto più antico che ammirarono come prodotto caratteristico dello spirito e dell’opera dei classici. Questa scuola idolatrò la forma al di sopra del contenuto e nel valutare le leggi, gli ordinamenti e l’opera della giurisprudenza classica esaltò il pregio formale, la rispondenza matematica tra i principî e le conseguenze, la inflessibilità e l’armonia del sistema in tutte le sue parti. Perciò essa si orientò verso il diritto quiritario, il diritto più antico di Roma che, appunto, come un diritto primitivo, era formalistico, inflessibile, rigoroso in ogni sua parte, specchio della grande disciplina privata e pubblica del popolo romano. Questa scuola, pertanto, spregiò tutto quello che nei libri di Giustiniano si distaccava da quella linea classica. Il FaBro , che di essa fu uno dei principali rappresentanti, chiamò facinora Triboniani tutte le deviazioni e le alterazioni della logica pura dello ius civile. Tutti i seguaci di questa scuola cercarono di espellere dai testi gli elementi nuovi ispirati al sentimento di equità, alla moderazione, alla pietà, al perdono, alla generosità e alla libertà, ritenuti come degenerazione della salda e rigida struttura del diritto romano. Essi perciò dissero barbari i Glossatori, cioè i maestri della scuola di Bologna, che dal secolo XII al XIII avevano con mirabile acume rivelato e ricostruito tutto il contenuto dell’opera di Giustiniano, salvando il diritto romano dall’oblio. I g LoSSaTorI , invece, furono i veri interpreti del Corpus iuris, mai superati. Essi ne eliminarono comunque gli elementi antiquati e fondarono il « ius [180/181] commune », aprendo così con la lingua e con le leggi dell’antico Impero le fonti della civiltà nuova. La scuola degli umanisti non ebbe per fortuna nessuna azione sulla pratica e sulla formazione del diritto comune. essa andò a concludere l’opera sua in olanda con la scuola dei « culti », i quali diedero alle loro indagini un indirizzo lessicale, letterario e critico. Ma è ovvio che con un siffatto indirizzo e con tale spirito gli umanisti non ebbero né attitudini né capacità di scoprire la trasformazione del diritto nei vari

Cause che hanno impedito la retta visione del problema

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periodi storici, tanto meno di vedere e apprezzare gli elementi dell’etica cristiana che vi si erano innestati e che avevano elevato grandemente il valore del diritto romano. Quel che è più strano è che nella seconda metà del secolo XIX, dopo il TroPLong che aveva formulata la tesi del grande influsso del Cristianesimo sul diritto romano, e dopo il Marx che aveva enunciato la legge del materialismo storico come si vedrà subito, la scienza romanista non fece un passo avanti. Ciò si spiega anche perché essa, in seguito alla scoperta del prezioso manoscritto delle Istituzioni di GaIo nel 1816, si era orientata ancor più decisamente verso il diritto classico, ed a poco a poco si impelagò tutta in quello stesso indirizzo umanistico del secolo XVI. Le conseguenze questa volta furono ancora più funeste. Perché non solo si ritornò all’amministrazione della logica formale del diritto antico, non solo, come già il FaBro nel secolo XVI, si cominciò a inveire contro Giustiniano che aveva, come si disse, deturpata la mirabile opera della giurisprudenza classica, ma di più, in un secondo momento – che è quello attuale – si volle vedere nell’opera di Giustiniano una forte corrente greco-bizantina’orientale, e si disse e si sostiene che il carattere precipuo della codificazione del secolo VI sia l’orientalizzazione del diritto, l’impronta ellenisticobizantina che vi sarebbe stata impressa dalle scuole di diritto del IV e V secolo d. C. specialmente in Berito. In questa condizione è ovvio che non si è potuto né percepire né indagare l’influsso dell’etica cristiana. La negazione è stata precisa come lo fu da parte dei contemporanei di Carlo Marx e di Renan. Inoltre la Patristica e tutta la letteratura cristiana del periodo imperiale non furono mai attratte nell’orbita delle indagini storiche. Riassumendo quindi tutto quanto concerne questo primo motivo, diremo che esso investe tutta la visione dello sviluppo del diritto romano stesso e la valutazione del contenuto dell’opera di Giustiniano, l’una e l’altra viziata da un errore essenziale per scarsezza d’indagini e per preconcetti infondati. II. La seconda causa è riposta nel materialismo storico del secolo XIX. Secondo questa dottrina, l’economia sarebbe l’u-

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

nico fattore della storia della civiltà da cui pertanto dipenderebbero : le modificazioni nella costituzione [181/182] giuridica e sociale, l’organizzazione politica (lo Stato), la morale dei popoli, le stesse manifestazioni più spirituali, come la religione, l’arte, il pensiero. Tutto sarebbe dominato dal fenomeno economico. Ma questa dottrina è fallace nel modo più patente. Storicamente tutte le comunità che acquistarono grande influenza e raggiunsero un alto grado di benessere e di civiltà furono sostenute da grandi ideali e dal sentimento religioso. Il moderno semplicismo economico, come spiegazione della storia, è ormai superato. È accertato che i fatti sociali sono il risultato di coefficienti diversi, percettibili o invisibili, e tra essi tiene un posto eminente quello religioso ; onde il materialismo prende le mosse da un postulato non solo non dimostrato, ma in aperto contrasto con la fenomenologia storica più certa. Nella psiche umana si rivelano tendenze altrettanto vivaci e primigenie le quali ricercano la loro soddisfazione indipendentemente dai bisogni economici. Si comprende ora come il secolo dello storicismo, dominato nella sua seconda metà dalle dottrine marxiste, doveva deridere la posizione del problema intorno all’influsso del Cristianesimo sul diritto. In nome della scienza storica si era proclamata la oziosità e la assurdità di simili ricerche con la asserzione dogmatica della più assoluta mancanza di ogni influsso del Cristianesimo sul diritto romano. e se la dottrina marxista è oggi superata, tuttavia gli effetti permangono nelle opere degli autori più gravi del secolo passato. La voce è spenta, ma l’eco risuona ancora. A sradicare errori così vasti non basta il lavoro di una generazione, perché occorre distruggere e ricostruire. III. Il terzo motivo è di indole esclusivamente tecnica. Sino a 60 anni fa la critica dei testi era quasi del tutto sconosciuta. I passi si attribuivano agli autori indicati nell’opera di Giustiniano, senza alcun sospetto delle gravi alterazioni che essi avevano subito ai fini legislativi per opera dei commissari di Giustiniano. in queste condizioni l’indagine sulle fonti era difficile, anzi impossibile. Infatti il TroPLong , nella sua monografia

Stoicismo e Cristianesimo

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sopra ricordata, aveva dovuto attribuire sentimenti e tendenze cristiane ai giuristi del secondo secolo ; e questo metodo, di cui per altro egli non aveva colpa, svalutò il risultato delle sue indagini. Contro di lui, come ho detto, la critica fu aspra e inesorabile e riuscì trionfalmente, sino al punto che si credette definitivamente chiuso l’adito a qualsiasi credenza dell’influsso dell’etica cristiana sul diritto romano. Si disse pertanto che qualsiasi affermazione contraria non aveva valore scientifico. Questo stato di cose si doveva mutare nell’ultimo mezzo secolo. La critica filologica e storica ha avuto ora un grande sviluppo : anzi caratterizza la [182/183] scienza romanistica contemporanea. oggi sappiamo che tutti i testi del Corpus iuris, decorati dei nomi dei giureconsulti e degli imperatori, furono alterati per ragioni legislative. Il problema pertanto si presenta in altre condizioni e può essere risoluto nel senso affermativo per via di una nuova analisi dei testi di legge. Dobbiamo pertanto riconoscere che i grandi scrittori del secolo XIX nella valutazione storica del Cristianesimo e della formazione del nuovo diritto nel periodo dell’Impero cristiano hanno preso un tremendo abbaglio, perché hanno dato grande rilievo al diritto quiritario, senza considerare le forze più vive che avevano determinato l’evoluzione del diritto. E questa evoluzione appare ora tutta chiara, pronta a smentire tutte le teorie e le ricostruzioni finora escogitate, malgrado siano esse uscite da alti intelletti e proclamate da uomini sapienti. Quel che resta a determinare è il processo e l’intensità di quest’azione della etica cristiana sul diritto. Qui naturalmente sorgono altri problemi che sono preliminari affinché l’indagine proceda con quella gravità che l’argomento richiede. § 2. Stoicismo e Cristianesimo. Il primo problema da chiarire è quello che riguarda l’azione dello stoicismo sullo sviluppo delle dottrine del diritto romano. Anche questo è un tema ancora non perfettamente esplorato. Che le dottrine stoiche esercitarono sulla giurisprudenza romana un grande influsso è innegabile. L’influsso risale già agli

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

insegnamenti di PanezIo in Roma sulla fine della Repubblica. L’uguaglianza di tutti gli uomini per nascita, e che il nato dalla schiava non possa essere considerato come i frutti delle cose, sono verità già riconosciute nel periodo repubblicano. Nell’epoca degli AnTonInI , e già nel primo secolo, l’azione dello stoicismo sulla vita e sul diritto si manifesta intensa. Seneca dice : Lo schiavo è il nostro umile amico. PLInIo IL g Iovane parla dei servi come familiari, permette ad essi di fare testamento e dice che la domus è per loro quasi civitas. Con Marco a ureLIo lo stoicismo ascende il trono. Il principio di equità è attuato largamente. I giuristi spesso motivano le decisioni invocando la « humanitas », la « pietas » evidentemente sotto l’influsso delle dottrine stoiche, che appare potente già in CIcerone . Ed il progresso è pure in questa direzione visibile. Così mentre nel mondo romano il lavoro manuale è ritenuto meno degno degli uomini liberi, noi ritroviamo che nell’epoca degli Antonini esso è tenuto in onore, come provano le iscrizioni sepolcrali. Non occorrono altri esempi al nostro scopo, che è quello di chiarire il problema che vengo a indicare. [183/184] Infatti da questi esempi e da altri della specie medesima si vuol trarre argomento per dire che una distinzione netta tra l’influsso esercitato dallo stoicismo e quello esercitato dall’etica cristiana è difficile farla. in questo modo taluni sostengono che il molto che si vuole attribuire al Cristianesimo è pura applicazione e sviluppo delle dottrine stoiche nel campo del diritto. Questa osservazione poté essere considerata grave solo nel passato. In realtà è ovvio che, anche dove dottrine e precetti cristiani coincidono con quelli stoici, è innegabile che l’etica cristiana animò le impassibili ed aristocratiche dottrine della filosofia col soffio potente di un ideale, e le diffuse nel popolo e le rese attive nella vita con la forza del sentimento. Ma, in secondo luogo poi e principalmente, io dico che quella obiezione poteva avere un qualche valore nel passato quando la critica dei testi non era ancora nata, onde tutte quelle decisioni si attribuivano ai giureconsulti che figurano come autori. Ma oggi questo equivoco è smaltito. Se le decisioni sono nuove, inserite dal legislatore del VI secolo o da pratici dopo CoSTanTIno , l’origine stoica è esclusa in modo assoluto. Ciò vuol dire dunque che nella indagine bisogna prima stabilire la provenienza nel testo della dottrina o de-

Esempi della influenza del Cristianesimo

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cisione che sia. E vuol dire, inoltre, che non tutto quello che appare opposto o diverso dal diritto quiritario si deve ritenere di origine Cristiana. onde non si deve riportare a l’etica Cristiana sic et sempliciter tutto quello che è ispirato a principî e sentimenti di equità, di umanità, di pietà, di fratellanza. Questo non si pretende. Lo sviluppo del diritto fu intenso già nei primi tre secoli dell’impero precisamente nel senso che esso si veniva affrancando, con moto largo e accelerato, dal rigore delle forme, dalla logica dei principî del diritto arcaico. Questo fenomeno è stato già illustrato più sopra nel Capo II. Il riconoscimento della equità come essenza del diritto proviene già dalla Repubblica ; diffusa da CIcerone e formulata da CeLSo nel celebre detto « ius est ars boni et aequi » (fr. 1 pr. D. 1, 1). Vuol dire, dunque, che l’indagine da fare è complessa e deve procedere cauta ; ma, affermato ciò, noi riusciamo a isolare gli elementi cristiani con grande certezza, sia mediante i criteri formali, già accennati, sia per la sostanza delle dottrine. E da principio bisogna procedere con metodo rigoroso senza eccedere nel senso contrario. il controllo scientifico è oggi maggiore e esclude le declamazioni per ogni verso. Ed io dico che anche in un primo esame, condotto con tutto rigore, l’influsso cristiano si manifesta potente. Il criterio che io seguo nella indagine è il seguente : ammettere l’azione dell’etica cristiana in quegli istituti e rispetto a quelle decisioni o motivazioni che sono in aspra contraddizione con i principî più fermi del diritto civile ed assieme degli sviluppi di esso già attuati nell’epoca classica. Questo sistema, se seguito con rigore, non può generare equivoci. [184/185] § 3. Esempi della influenza del Cristianesimo nei vari campi del diritto romano. I. Diritti delle persone. — Nel territorio dei diritti delle persone la dimostrazione si presenta abbastanza agevole1. 1 (1/185). J. VogT, Zur Frage des Christlichen Einflusses auf die Gesetzgebung Konstantins des Grossen, in Festschrift Wenger, II, München, 1945, p. 119 ss. ; L. ChIazzeSe, Cristianesimo e diritto, in B.I.D.R., 51-52, 1948, p. 222 ss.

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

Qui l’influsso fu certamente più immediato e più largo, né occorre in proposito addurre esempi. Solo un punto vorrei riprendere accennato sopra, in confronto alla opinione del Re nan il quale negò perfino che il Cristianesimo avesse migliorata la condizione degli schiavi. Il Renan avrebbe voluto vedere infranta la schiavitù tutta d’un tratto, per imperio di legge. Questo è un assurdo. La schiavitù è una caratteristica spiccata dell’economia antica. Essa adempie nel mondo antico la stessa funzione del lavoro libero. La grande industria antica era una organizzazione fondata sull’elemento schiavo, non altrimenti che la grande industria moderna ha a base la macchina. Se così è, si deve dire che se la schiavitù si è attenuata nel mondo antico ed è poi scomparsa, ciò si deve essenzialmente a cause etiche e non a cause economiche. E il merito principale spetta al Cristianesimo. Questo si è voluto negare con argomentazioni ingenue, col dire che il Cristianesimo non abolì la schiavitù immediatamente nel momento del suo trionfo, e che perciò non si curò della sorte di essa. È ovvio invece che la forza delle condizioni economiche non poteva essere superata ad un tratto. occorreva uno sviluppo lento e secolare. Ma la nuova fede era venuta in difesa dei servi, degli oppressi, dei miseri con tutti i mezzi. L’uguaglianza di tutti gli uomini, già riconosciuta dallo stoicismo, era rimasta soltanto teorica nel mondo pagano. S. Paolo aveva, invece, proclamato : « non c’è più né schiavo, né libero ... tutti siete figli di Dio ». E la Chiesa non solo diede conforto spirituale a tutti i miseri, ma cercò di alleviare con tutti i mezzi le miserie della vita attuale. Essa riconobbe subito nei Concili il matrimonio di schiavi cristiani, consigliò anzi che i genitori dessero le fanciulle in matrimonio a schiavi cristiani piuttosto che a liberi pagani ; ammise lo schiavo alla dignità vescovile, favorì in tutti i modi le manomissioni, favor libertatis che se era già diffuso nel diritto dell’epoca degli Antonini, ora, nel periodo cristiano, è usato con tutta larghezza. In un bassorilievo di un sarcofago rinvenuto a Salona in Dalmazia sono rappresentati due sposi ai lati del Buon Pastore, entrambi circondati da una folla di uomini e donne.

Esempi della influenza del Cristianesimo

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Questi rappresentano schiavi che gli sposi avevano [185/186] manomessi morendo, ed essi ora assistono le anime dei loro benefattori nel momento in cui compariscono dinanzi a Dio. Qui si vede la forza che la fede spiegò a favore degli schiavi. La legislazione pagana, preoccupata delle condizioni sociali e dell’ordine pubblico, aveva imposto limitazioni di ogni specie alle manomissioni degli schiavi, a cominciare dall’epoca di AuguSTo . Tutte queste limitazioni caddero nell’Impero Cristiano, perché la fede ha posto al primo piano i valori spirituali, ravvivando il sentimento e la coscienza degli uomini. Le manifestazioni di queste tendenze etiche sono svariate e numerose nelle fonti giuridiche. Così, per citare ancora un esempio : si vieta che il padrone possa alienare (o comunque allontanare) lo schiavo separandolo dalla moglie e dai figli, dacché ciò sarebbe inumano2. Già è meraviglioso che vi sono testi che indicano la schiava come uxor. Vuol dire che la famiglia naturale degli schiavi era riconosciuta in tutti i suoi effetti e protetta dalla pietà cristiana. Un altro istituto sul quale il Cristianesimo ha avuto una grande influenza è il divorzio. È noto come presso i romani il divorzio fosse completamente libero ed era una diretta conseguenza della struttura del matrimonio stesso. Infatti, essendo indispensabile per la esistenza di esso la continuità dell’affectio maritalis, col cessare di questa il matrimonio si scioglieva automaticamente. Elevato che fu questo istituto giuridico per opera del Cristianesimo, la legislazione da C oSTanTIno a G IuSTInIano fu tutta volta a limitare i divorzi, non impedendoli espressamente, ma comminando pene contro i coniugi che ad esso ricorrevano. Limitazioni furono disposte anche per il concubinato3. Così, per quanto riguarda il celibato, è noto come esso fosse considerato antisociale dalla legislazione Augustea, sicché furono presi provvedimenti di vario ordine contro i celibi. Il Cristianesimo invece considerò il celibato come lo stato perfetto, e conseguentemente la legislazione giustinianea favorì questa condizione che facilitava l’entrata nei conventi.

2 (1/186). 3 (2/186).

26, 1.

Cfr. D. 33, 7, 12, 7. Costantino nell’anno 326 vietò ai mariti di avere concubine : C. 5,

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L’influenza del Cristianesimo sul diritto romano

Assai importante è anche l’influenza dei principî cristiani riguardo ai fanciulli esposti. Una legge di CoSTanTIno , seguendo l’esortazione dei padri della Chiesa, vieta e commina pene contro l’esposizione dei fanciulli. II. Diritto penale. — Il Cristianesimo nella sua missione di pace e di amore inculcò le massime della carità, del perdono, della moderazione ; inibì quindi la violenza, la vendetta e limitò anche il diritto di legittima difesa. Perciò nei libri di diritto si leggono precetti e massime che oggi ancora sono nel campo del diritto penale molto discusse. Così ancora quella massima : che la reazione [186/187] contro colui che aggredisce deve essere fatta inculpatae tutelae moderatione (C. 8, 4, 1). La frase barbara vuol dire che la reazione dev’essere moderata, fatta per la tutela della persona e senza eccedere in modo colposo. E si prescrive – quel che è più impressionante a chi non si collochi dal punto di vista del Vangelo – che l’aggredito può uccidere solo « si aliter periculum effugere non potest », Inst. 4, 3, 2 (cfr. D. 48, 8, 9). Qui s’impone dunque che l’uomo deve fuggire di fronte ad una aggressione, e, se può così liberarsi, non ha diritto di reagire e di uccidere. La massima fu svolta da S. T oMMaSo . Se ne dedusse, e se ne deduce, che l’individuo non può reagire con l’offesa alla persona dell’aggressore per difendere i beni. Questa opinione ha buon fondamento nelle fonti giustinianee ; specie nel fr. 3 D. 1, 1, di FLorenTIno , nel quale a me sembra sia stato dal legislatore ristretto il principio vim vi repellere licet soltanto alla tutela della persona e non dei beni. Questi problemi sono ancora oggi discussi nelle dottrine penali e furono risoluti soltanto dal nuovo codice penale che ammette espressamente la legittima difesa anche per la tutela dei beni e di qualsiasi diritto. Ma nei contrasti sopra indicati si rispecchiano, come ora sappiamo, due correnti etiche opposte : quella romana e quella cristiana. Un altro caso molto affine è illustrato da s. AMBrogIo , il quale dice : « vidi a foeneratoribus teneri defunctos pro pignore et negari tumulum dum foenus exposcitur » (De Tobia 10, 36 ; cfr. 10, 37). Dunque i creditori impedivano il seppellimento del cadavere del debitore e lo tenevano in pegno. s. Ambrogio attesta

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ancora l’uso in Italia, vivo al suo tempo. Esso si riscontra in vari diritti primitivi per la natura stessa del vincolo di obbligazione, che si considera un vincolo della persona del debitore (cioè del corpo). L’uso è riprovato e vietato da TeodorIco (Edictum 75) e ripetutamente da GIuSTInIano . Ma già in tutto quello che si riferisce al diritto dei sepolcri le innovazioni sono profonde nella codificazione di Giustiniano rispetto al diritto pagano, fino al punto che il seppellimento dei cadaveri, che era ritenuto nel mondo classico un dovere semplicemente familiare, ora è ordinato come un dovere di umanità (fr. 14, 7 D. 11, 7). Si ebbero così le istituzioni dei cimiteri in modo generale ed obbligatorio, ed il culto dei morti si ispira ora ai dommi della novella religione. A questo proposito anzi, noi riscontriamo nei Digesti una massima che fu inserita in un testo di P aPInIano e che rivela il rapporto che il legislatore cristiano stabilisce tra diritto e religione : ius et religio. Il testo, fr. 43 D. 11, 7, dice : nam summam esse rationem, quae pro religione facit. Dunque la religione va avanti al diritto. Mentre nel sistema del diritto classico, rispetto al caso esaminato, è lo ius civile che vince ; giacché se [187/188] il proprietario del suolo non aveva consentita la tumulazione, il luogo non diveniva sacro, e il cadavere poteva essere buttato via senza alcuna considerazione. III. Commercio. — nel commercio l’influsso cristiano si manifestò su di un punto centrale. I Cristiani, dice TerTuLLIano (Apol. 42, 3), bandiscono dal loro cuore la cupidigia. EuSeBIo soggiunge che i Cristiani non rifuggono dal commercio, ma giusti e modesti evitano la passione delle ricchezze. s. AMBrogIo (De off. 3, 9, 57) inibisce quell’attività che possa riuscire di detrimento al patrimonio di altri. Questi precetti ci vengono già rappresentati e confermati nelle figurazioni cimiteriali cristiane. In una pittura della seconda metà del secolo IX della basilica primitiva di S. Clemente in Roma, Cristo siede da giudice in mezzo agli Apostoli. nella parte destra si vede una bilancia e un moggio, con il detto « modium iustum » il che vuol dire che la misura dev’essere giusta. Il precetto proviene certamente dal periodo cristiano più antico.

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In una costituzione di VaLenTInIano , C. Th. 13, 1, 5 = C. 1, 4, 1, noi leggiamo il monito : Christianos, quibus verus cultus est adiuvare pauperes et positos in necessitatibus ... or in tutta la legislazione Giustinianea si riscontra le cento volte – congiunto ai sostantivi « aestimatio », « pretium » – l’aggettivo « iusta », « iustum ». L’etica Cristiana ha dunque imposto il giusto prezzo e la giusta misura. Ciò in opposizione al principio del diritto pagano, tante volte ricordato dai giureconsulti, che suona : in emptionibus et venditionibus licet contrahentibus naturaliter se circumvenire. Ciò vuol dire che nel commercio si riteneva lecito vendere a più o meno, quando ciò avvenisse senza dolo, ma con quell’arte che si suole usare nel comprare o vendere, svalutando o esaltando il valore della merce, con il risultato che nella gara vince il più abile e scaltro. L’etica cristiana riprova ciò. Ed il nuovo precetto fu accolto nell’ultimo svolgimento della legislazione dopo Costantino. ora si esige il « iustum pretium ». Un’ulteriore importante conseguenza del precetto nell’ordine giuridico si ebbe nel rimedio accordato al venditore di far rescindere la vendita per lesione enorme. La lesione enorme si ha quando la cosa viene venduta a meno della metà del suo giusto valore. La lesione, nella codificazione di Giustiniano, è repressa in tutti gli istituti ; non solo nella vendita ma nella costituzione di dote, nella transazione, nella divisione. Tutto questo ora è fatto palese mediante la critica dei testi. La quale ha [188/189] accertato che sia il iustum pretium come la laesio enormis furono inseriti nei testi dei giuristi e nelle decisioni imperiali mediante interpolazioni dell’epoca postcostantiniana. IV. Dominio. — Il concetto assoluto della proprietà, che poggiava saldamente sul principio dell’individualismo, doveva essere attenuato col riconoscimento dei doveri che incombono al proprietario, imposti da interessi sociali. In particolare doveva cadere il principio del diritto quiritario qui suo iure utitur neminem laedit, il quale doveva cedere il posto ad un principio socialmente ed eticamente superiore, che nega al proprietario l’esercizio del suo diritto per nuocere ad altri. Nella compilazione di Giustiniano questo è affermato con vi-

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gore, giacché si fa divieto di usare del proprio diritto animo nocendi. Le scuole degli umanisti, nel secolo XVI ed oggi ancora nel secolo XX, vollero negare con tutte le forze questa massima. Ma noi ora sappiamo che la negazione è fondata sulla falsa visione storica del diritto romano, di cui ho fatto cenno sopra. Ciò è tanto vero che nella compilazione di Giustiniano il principio è stato svolto fino alle estreme conseguenze. Giacché in essa è anche affermato il lato positivo di esso, in quanto si ammette che il proprietario non si deve opporre a che il vicino entri nel suo fondo per riparare l’argine distrutto dalla piena del fiume. Questa decisione è così motivata : fr. 2, 5 D. 39, 3 « qui factus mihi quidem prodesse potest, ipsi vero nihil nociturus est : haec aequitas suggerit, etsi iure deficiamur ». La massima ebbe nel medio evo grande risonanza. Evidentemente essa ha una spiccata impronta evangelica ; come tale è in perfetta contraddizione col principio dell’assolutezza del dominio quiritario, onde fu svalutata e non intesa dalla scuola degli umanisti. Ma il divieto dell’abuso del diritto, in qualsiasi forma, è entrato oggi in tutti i codici, così in quello tedesco, svizzero, giapponese, e fu accolto fin nel progetto di un codice unico delle obbligazioni tra la Francia e l’Italia, malgrado le energiche proteste di quella scuola che noi conosciamo, e che è ancora infatuata della logica inesorabile del diritto quiritario. In Inghilterra e nella dottrina americana la discussione è ancora viva. Perciò potrà essere utile questa rappresentazione della genesi storica della massima. ora sappiamo che questi problemi non scaturiscono da elucubrazioni dottrinarie dei giuristi, ma da forze vive che hanno operato sullo sviluppo della civiltà. V. Donazioni. — Così rispetto all’impulso ed al favore che la legislazione diede alle donazioni che nel mondo romano erano malviste. PoLIBIo dice : « i romani non donano per niente ». [189/190] I divieti delle donazioni sono caratteristici del diritto romano e furono in vigore per tutta l’epoca classica. Celebre in materia la lex Cincia del 550 a. U. Invece dopo Costantino la donazione è incoraggiata, e poi resa efficace anche per semplice pactum. Ciò, tenendo di mira sopratutto le donazioni alle chiese.

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La dimostrazione, pertanto, che l’etica cristiana esercitò una influenza decisiva tanto sui diritti delle persone quanto su quelli patrimoniali, è esauriente. Essa è messa fuori contestazione dalla critica dei testi che risolve così le contraddizioni che le fonti presentano in tutto questo campo. La scuola degli Umanisti deve piegarsi di fronte alla evidenza di questi risultati, i quali spiegano la evoluzione del diritto e rimettono ordine e chiarezza là dove c’era il caos. ognuno vede, inoltre, che le posizioni si sono ora invertite rispetto a tutti questi problemi. I testi che erano svalutati dagli umanisti, antichi e moderni, acquistano maggior risalto come fonte preminente del diritto nuovo ; e quelli genuini, del diritto quiritario, vanno composti nel sepolcro, come punti morti che nella compilazione hanno soltanto un valore storico. S’intende che per una trattazione larga della materia è ancora necessaria un’adeguata preparazione e ripetute indagini sulle fonti. Ed in primo luogo occorre indagare tutto quel che possono offrire in proposito le opere letterarie, religiose dal secolo III dell’era cristiana in poi. tutto questo territorio è appena sfiorato. Certo l’influsso del Cristianesimo sul diritto si è dovuto manifestare in modo largo ed efficace nella giurisdizione dei vescovi (episcopalis audientia), la quale certamente ebbe larga applicazione da Costantino in poi. Né importa che la costituzione di CoSTanTIno ad Ablavio del 333, che si trova nella raccolta delle costituzioni fatta da SIrMondo nel 1631, sia falsificata o alterata sostanzialmente ; ma è certo che i Cristiani, secondo il precetto di S. Paolo, avevano l’obbligo di portare le loro liti dinanzi al vescovo. In un’epoca cotanto triste i vescovi dovevano offrire maggiori garanzie che i tribunali, sui quali i potentiores avevano facile presa. Il largo uso della giurisdizione vescovile si può desumere pure dal libro di diritto siro-romano (§ 21) dove si dice : « melius est ut liberet vir servum suum vel ancillam suam coram ἐπισκόποις et presbyteris etc. ». [190/191]

c aPo xI. ResiDUi DeLLA GiURisPRUDenzA CLAssiCA

Degli scritti dei giureconsulti romani è pervenuto a noi poco nella forma originale. La parte più rilevante ci fu tramandata nella compilazione ordinata da GIuSTInIano e compiuta nei primi anni del suo Impero (528-534), e della quale tratteremo in seguito. Le raccolte od opere tratte dagli scritti dei giuristi antichi, eseguite o ricopiate avanti Giustiniano, vengono invece, per comodità di esposizione, descritte in questo Capo. § 1. Residui principali. Tengono il primo posto Gai institutionum commentarii quattuor, l’unica opera genuina completa a noi pervenuta. Fino al 1816 si conosceva di essa solo un’epitome in due libri accolta nella Lex Romana Visigothorum, poche citazioni dalla collatio, da PrIScIano e da BoezIo , ed un tratto del libro quarto, cioè dal par. 134 al par. 144, rinvenuto nel 1713 e pubblicato più volte da Scipione Maffei (così Istoria teologica, 1742) e poi da Haubold. Ma tutta l’opera fu scoperta nel 1816 nella biblioteca capitolare del Duomo di Verona dal NIeBuhr . Viaggiando lo storico illustre diretto a Roma per incarico del Governo Prussiano e fermatosi a Verona, gli fu presentato nella biblioteca capitolare quello stesso manoscritto da cui,

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in tempo remoto e prima che il codice fosse stato riscritto, era stato staccato il foglio n. 128 pubblicato poi dal MaFFeI . Il codice, composto di 129 fogli, di cui tre mancanti, conteneva copia di scritti di S. Girolamo (epistole, polemica). Ma il Niebuhr si avvide che era un palinsesto, anzi per un tratto di 62 pagine doppio palinsesto. La scrittura più antica riportava l’opera di un giureconsulto. L’Accademia di Berlino inviò a verona dapprima il Goe Schen e il BeKKer , cui si associò il BeThMann -h oLLWeg per decifrare il testo antico e così apparve nel 1820 la prima edizione di Gaio curata dal Goeschen. Nel 1821-22 il BLuhMe riesaminò il manoscritto, ma lo ridusse con forti reagenti chimici in cattivo stato, [191/192] ottenendo pochi risultati nuovi. Da allora in poi le edizioni di GaIo si susseguirono in numero considerevole, specialmente in Germania, e tutte con lo stesso testo. Dal 1866 al 1868, lo studemund, filologo, intraprese un nuovo esame del codice, che condotto con grande perizia dette risultati nuovi ed inaspettati ed inoltre molte correzioni delle letture primitive. Così egli poté nel 1874 pubblicare un facsimile dal titolo « Gai institutionum commentarii quattuor codicis Veronensis denuo collati apographum ... edidit G. Studemund ». Negli anni 1878 e 1883 lo STudeMund poté ancora ripetere le sue investigazioni sul manoscritto dando gli ultimi risultati sensibili sinora conseguiti. Il tentativo fatto di recente dal CaPoccI nella Biblioteca Vaticana di leggere con mezzi più perfezionati i fogli rovinati ha dato risultati minimi. Tutte le edizioni moderne hanno a base il facsimile dello Studemund. Il manoscritto veronese di GaIo (Codex Veronensis rescriptus) è del secolo V, scritto in lettere unciali, con abbreviazioni dei termini giuridici che erano prima ignote ; è molto difettoso nella ortografia, la quale è pure incostante. in esso ogni pagina ha generalmente 24 righe con ciascuna 39 lettere. La scrittura posteriore vi fu sovrapposta nel secolo VI. Nel codice mancano tre fogli, ma le lacune, anche dopo la lettura dello Studemund, sono varie, più frequenti e notevoli nel libro quarto. Il testo ha spesso delle glosse brevi, di carattere dilucidativo che si riconoscono agevolmente nella struttura del periodo o dal confronto con il testo giustinianeo ricavato da Gaio.

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Il manoscritto veronese, l’unico libro a noi pervenuto di tutta la letteratura classica, è un vero tesoro per la nostra scienza. Esso ci offre un quadro succinto del diritto civile e pretorio del secolo II d. C. ; una esposizione organica del processo civile del periodo formulare con brevi cenni sulle legis actiones, la quale diede un poderoso impulso durante il secolo XIX alla trattazione della procedura civile romana. La scoperta di Gaio ha inoltre arrecato un valido sussidio per controllare, mediante il confronto dei passi accolti nei Digesti, il sistema dei compilatori giustinianei nelle manipolazioni varie compiute sui testi classici. Dell’originale dell’opera, del sistema in essa seguito e del rapporto che ebbe con la scuola fu detto avanti ; soltanto è da notare che il DernBurg espresse l’opinione che l’opera a noi pervenuta fosse un quaderno di scuola compilato sulle lezioni raccolte dalla viva voce dell’insegnante. Ma questa congettura poggia su elementi molto leggeri ed essa è poi contraddetta dalla forma limpida della esposizione, onde è generalmente respinta. Parimenti non è da accogliere l’opinione che pretende sia stata scritta in provincia, perché molti elementi provano la sua origine romana. L’affermazione dello Schulz che sia opera postuma è arbitraria. [192/193] E l’opera di Gaio ebbe una singolare fortuna nel periodo post-classico, in oriente come in occidente, e dominò in tutte le scuole di diritto fino a Giustiniano. Questo imperatore la scelse a modello per la formazione del nuovo libro di Istituzioni e ricorda spesso con affettuosa dimestichezza il maestro usando la frase « Gaius noster », legandone per sempre il nome alla scuola. Dell’opera di Gaio fu fatta in oriente una traduzione in greco della quale si dirà più oltre. Epitome. in occidente si fece delle istituzioni di Gaio una epitome in due libri, omessa la parte storica e il libro quarto relativo al processo, il secondo e il terzo riassunti in uno. L’epoca in cui il sunto fu ricavato è assai dubbia. L’opinione oggi più diffusa l’attribuisce alla fine del secolo iv o principio del V. Esso sarebbe stato fatto per uso delle scuole ; oltre agli argomenti interni ricavati dal contenuto questa opinione si fonda pure sulla constitutio Omnem 1 nella quale Giustiniano dice che nelle scuole si studiavano due libri di Gaio riferendosi appunto all’epitome.

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Ma in seguito il Cohn con un esame assai particolareggiato del contenuto volle rimettere in onore la vecchia opinione attribuendo la formazione dell’Epitome ai commissari della Lex Romana Visigothorum, che avrebbero quindi estratto direttamente dall’originale quello che si adattava al loro mandato legislativo. E certamente la forma del sunto, la coesione con le altre parti della legge, le omissioni, che a volte hanno importanza notevole rispetto alla configurazione degli istituti giuridici ed ai presupposti delle azioni, e sopratutto il fatto che manca nell’epitome l’interpretatio curata dai prudentes per tutte le altre parti della lex possono essere valutati a sostegno di questa ipotesi. In ogni caso la epitome fu fatta ben tardi, probabilmente in Gallia e adattata allo scopo legislativo. Essa però non è priva d’importanza dal punto di vista storico e conserva inoltre un certo pregio per l’integrazione dei punti lacunosi del manoscritto veronese. Frammenti di Autun. Nell’anno 1898 E. ChaTeLaIn rinvenne nella biblioteca di AuTun 15 fogli del VII secolo, riscritti con gli Instituta Cassiani ; altri quattro fogli dello stesso manoscritto si trovarono a Parigi. L’antica scrittura si è potuta decifrare più o meno bene in otto dei fogli esistenti in Autun. A primo aspetto era sorta la speranza del rinvenimento di un nuovo manoscritto del testo di GaIo , che si dileguò ben tosto alla lettura dei primi tratti. La scrittura più antica semiunciale, attribuita dal MoMMSen alla metà del secolo V, riporta una parafrasi prolissa e piatta del testo gaiano delle Instituzioni, del quale, con caratteri più grossi, sono riferiti dei periodi e una volta, nel par. 56, il nome di Gaio. [193/194] Il lavoro va senza dubbio attribuito ad un insegnante provinciale, probabilmente del secolo V. Il testo non fornisce d’altronde elementi per determinare l’età e il luogo. Nel 1927 nella collezione dei papiri di oxyrinco sotto il n. 2103 fu pubblicato uno squarcio del quarto libro di Gaio (paragrafi 57, 68-72a) del tutto corrispondente al testo veronese di cui completa alcune lacune. Nel 1933 dalla Sig.na NorSa furono acquistati in Cairo altri fogli che riportano squarci dei libri terzo e quarto di Gaio, anche questi corrispondenti col testo veronese, mentre

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inoltre vi si leggono brani perduti nel manoscritto veronese, e uno che era stato soppresso nel libro terzo. Questi fogli si trovano ora a Firenze pubblicati nella collezione « Papiri Società Italiana » P. S. I. XI, n. 1182. Un elenco completo delle edizioni di Gaio dal 1820 è contenuto nell’edizione Barbèra, Firenze, 1940, Fontes iuris Romani antejustiniani, pars altera, curata da G. Baviera, p. 5 ss. Ulpiani liber singularis regularum, contenuto in un manoscritto redatto in Gallia nel secolo X o XI è oggi conservato nella Biblioteca Vaticana n. 1128. Pubblicato nel 1549 da G. TILLIuS (Du Tillet) e consultato dal CuIacIo nel 1576 se ne perdettero le tracce finché fu segnalato dal S avIgny . Il manoscritto non riporta l’opera intera ma una epitome di 29 titoli e un proemio, in appendice alla Lex Romana Visigothorum, con l’intestazione incip. tituli ex corpore Ulpiani. I frammenti rappresentano circa un terzo dell’opera intera che è di poco integrata dai passi accolti nei Digesti o riferiti nella collatio. L’estratto fu eseguito, secondo il MoMMSen , dopo la costituzione di Costantino del 320, con la quale si abolivano le pene per i celibi e orbi ; HuSchKe invece lo riporta arbitrariamente alla fine del secolo v. il testo riferito non è sempre genuino ma alterato da interpolazioni e fortemente mutilato in quanto l’epitomatore ricavò solo dall’esemplare quello che poteva servire per gli usi della pratica, omettendo specialmente il principio in cui si esponevano le divisioni del ius e inoltre la teoria dell’obbligazione, delle azioni e la fine del trattato. La redazione del manoscritto è assai mendosa, pure nello scioglimento delle sigle, le rubriche premesse non sono originali, ma provengono da manoscritti anteriori all’epitome. L’opera conteneva una esposizione succinta dei principî fondamentali del diritto privato, civile ed onorario, secondo il sistema delle Instituzioni gaiane, colle quali coincide a volte anche nelle parole, oltre che nell’ordine della trattazione. Vi erano però aggiunti alcuni punti non considerati da GaIo , quali [194/195] gli istituti de dotibus, de iure donationum inter virum et uxorem, il nuovo diritto ex lege Papia Poppaea. Delle edizioni va specialmente ricordata quella del BoecKIng

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del 1855, che riporta un autografo del manoscritto curato da H. Brun . Un’edizione critica è stata ora curata dallo SchuLz (1926) il quale ha dimostrato che l’Epitome post-classica fu tratta dal liber singularis regularum di ULPIano e da altre fonti, principalmente dall’opera di Gaio institutiones, da quella stessa redazione a noi nota dal manoscritto veronese. Questo risultato è più attendibile che quelli messi innanzi dall’ArangIo -r uIz e dall’ALBerTarIo . Il primo, infatti, ritenne l’Epitome eseguita su di una seconda edizione delle istituzioni di Gaio elaborata in forma più ampia dallo stesso Gaio ; mentre il secondo considerò l’Epitome come una crestomazia post-classica compiuta su varie opere di Ulpiano. Altri frammenti di ULPIano corrispondenti al fr. 1, 1 D. 12, 1 (Ulp., 26 ad ed.) sono pubblicati nel Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 1935, p. 408. Pauli sententiarum ad filium libri V. Questa importante opera di PaoLo ebbe nel periodo post-classico molta autorità e diffusione. Infatti una costituzione di CoSTanTIno dell’anno 327 toglie i dubbi che s’erano elevati sul valore pratico dell’opera, appunto perché era un rifacimento dell’originale, e la legge delle citazioni dell’anno 426 ne conferma espressamente l’autorità nei tribunali. Così si spiega che tutte le raccolte di diritto di questo periodo ne riportano dei frammenti ed a volte, ad esempio in consultatio VI e in alcuni codici della Lex Romana Visigothorum, è citata col titolo sententiarum receptarum. Di essa pervennero a noi : circa 1/6 dalla Lex Romana Visigothorum in forma di Epitome ricavata dai Commissari della Legge, e di cui vari estratti furono posteriormente in alcuni manoscritti completati col confronto dell’opera più antica o aggiunti a parte in appendice ; altri frammenti sono riportati dai Vaticana fragmenta, dalla collatio, dalla consultatio o sono citati nella Lex Romana Burgundionum, e infine 141 frammenti da Giustiniano nei Digesti. Da tutte queste varie fonti si è potuta ricostruire quasi al completo l’opera intera. Ma il testo così ottenuto non è del tutto genuino. oltre i sunti e le alterazioni, che possono provenire dalle più antiche redazioni, anche i commissari visigoti vi hanno eseguito non solo mutilazioni ma pure frequenti modificazioni. L’opera destinata alla pratica era divisa in cinque libri e titoli, con rubriche (le quali però ci pervennero in varie

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guise alterate o rimosse dal loro posto) e conteneva i principî fondamentali del diritto privato, penale, processuale esposti secondo l’ordine dell’editto. La critica moderna ha voluto negare che l’opera sententiae derivi da PaoLo e l’ha attribuita piuttosto ad un compilatore del III secolo o post-classico, il quale avrebbe composto un’antologia ricavata dalle opere di Paolo, o [195/196] secondo altri (Lauria) da scritti di vari giuristi : Paolo, Ulpiano, Papiniano e forse Modestino. Queste congetture sono sfornite di qualsiasi fondamento. Sulle sententiae di Paolo ha compiuto un esame profondo E. Levy , già professore dell’Università di Heidelberg, ora in America. il Levy ha già pubblicato un primo volume illustrando 83 sententiae del primo libro1. Egli ha potuto, con quella massima probabilità che è possibile in siffatti lavori, ricostruire le alterazioni che le singole sententiae hanno subito nel corso di tre secoli. Levy crede fermamente che le sententiae di Paolo siano un’antologia fatta sotto Diocleziano. Egli ha illustrato la sua opinione in uno scritto particolare2. Io credo che si debba escludere l’idea di una antologia con brani tratti da varie fonti classiche, perché essa in quel tempo avrebbe dovuto riportare la indicazione delle opere da cui erano estratti i singoli passi. La costituzione di Costantino dell’a. 328 (C. Th. 1, 4, 2) conosce l’opera di Paolo « sententiarum » come un sunto : « libros ... succinctos ». Una falsificazione, come il Levy suppone, è in quell’epoca incredibile. Vaticana fragmenta. Rinvenuti dal Cardinale Angelo MaI nel 1821 in un palinsesto della Biblioteca Vaticana n. 5766 che conteneva, nella scrittura più recente, le Collationes Cassiani copiate su cento fogli di pergamena. Di questi solo 57 erano stati nuovamente scritti : e cioè in 22 fogli la prima scrittura si riferiva al Codice Teodosiano ; in due alla Lex Romana Burgundionum ; in 33 ai nostri frammenti. Ma i fogli 1 (1/196). Pauli Sententiae. A Palingenesia of the opening titles as a specimen of research in west Roman vulgar law, by e. Levy, ithaca, new York, 1945. 2 (2/196). Vulgarization of Roman Law in the Early Middle Ages. As illustrated by successive versions of Pauli Sententiae, in Medievalia et Humanistica, 1943, p. 14 ss.

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erano stati ripiegati dal nuovo amanuense in maniera che di ogni doppio foglio dell’antico manoscritto se ne erano formati tre, due parti connesse, la terza separata. Essendo andate perdute di queste singole parti ora 1/3 ora 2/3, i 33 fogli del nuovo manoscritto corrispondono a 28 dell’antico. La scrittura antica è del secolo IV o V uguale nella forma a quella del manoscritto Gaiano Veronese, stendentesi su 32 righe in ciascuno dei fogli, senza divisione in colonne. ogni verso ha, se intero, da 50 a 60 lettere. I 28 fogli rappresentano però una parte esigua dell’opera intera, perché alcuni dei quadernoni, di otto pagine ciascuno, portano nel margine inferiore dell’ultima pagina la numerazione non consecutiva VI, XV, XXVII, XXIX, dalla quale si può computare che il manoscritto sino al punto recuperato conteneva in origine 232 pagine. La raccolta, di cui non si conosce l’autore né il titolo, fatta per ordine di materia, senza alcun sistema, divisa come sembra solo in titoli con rubriche, fu certamente destinata alla pratica, e le glosse marginali, e interlineari in alcuni punti, ne attestano l’uso forense. [196/197] Essendo la compilazione privata, i testi sono riportati in una forma abbastanza genuina, ma con frequenti mutilazioni (cfr. p. es. fr. 149) e qua e là pure con alterazioni determinate dalla prassi del tempo (cfr. fr. 50). La raccolta fu curata certamente in occidente : secondo il MoMMSen , nell’anno 320 sotto CoSTanTIno ; secondo gli elementi che si traggono dal contenuto stesso dell’opera tra l’anno 372 ed il 426-438. Gli estratti sono ricavati dalle opere di Papiniano, Ulpiano e Paolo, da rescritti imperiali da Severo e Caracalla (205) a Valentiniano, Valente e Graziano (372). I Vaticana fragmenta furono pubblicati da Angelo MaI nel 1823 e poi di frequente ; una edizione molto più progredita ne fu fatta dal MoMMSen con apografo dietro accurato esame del manoscritto disimpegnato da Detlefsen e pubblicata dalla Accademia Berlinese nel 1860, in edizione minore nel 1861, e finalmente col sussidio di nuove investigazioni sul manoscritto fatto dal Krüger nel 1890. ora la migliore edizione è quella curata da secKeL e Kü BLer . I testi lacunosi del manoscritto sono dal MoMMSen e dal K rüger espletati con i passi corrispondenti dei Digesti, nei casi in cui questa collazione può soccorrere ; ma su questo

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proposito è inutile avvertire che quella fonte non può dare sicuro affidamento per la restituzione del testo genuino e spesso trae in inganno (cfr. fr. 70 nella edizione Seckel e Kübler). Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, riportata principalmente dal manoscritto berlinese del secolo IX con la iscrizione applicata di certo posteriormente : « incipit Lex Dei quam Deus praecepit ad Moysen », e da due manoscritti del secolo decimo esistenti uno a Vercelli e l’altro a Vienna. Il titolo dell’opera non è noto, e nemmeno l’autore. Ma certamente questi fu un ebreo che si accinse a dimostrare la derivazione delle norme del diritto romano dal Pentateuco, stabilendo volta a volta la coincidenza delle disposizioni del Vecchio Testamento con i passi estratti da buoni esemplari delle opere di Gaio, Papiniano, Ulpiano, Paolo, Modestino e dai Codici Gregoriano, Ermogeniano, più una costituzione del 390 di Teodosio. Queste fonti cui attinge il compilatore danno sicuro elemento per la determinazione del tempo in cui l’opera fu fatta : cioè dopo il 390, e secondo il MoMMSen dopo il 394 e prima del 438 ; il fatto anzi che sono adoperati tutti i giureconsulti autorizzati dalla legge delle citazioni è significativo per attribuire la redazione dell’opera appena dopo il 426. Se si può affermare con sicurezza che la compilazione fu eseguita nell’occidente (e ciò principalmente per il fatto che i Testi Sacri riportati sono estratti da una versione latina, non sempre attendibile, della Bibbia dei Settanta), non si ha invece alcun dato per scoprire l’autore di essa ; si era infatti attribuita a RuFIno di Aquileia, ad AMBrogIo di Milano e a S. GIroLaMo , sempre senza [197/198] fondamento. Ma l’opinione che l’autore fosse stato un ebreo era corrente fino alla metà del secolo XIX ed ora è stata ripresa e dimostrata largamente dal VoLTerra . Tuttavia l’opinione del Volterra confermata dal SoLazzI è stata combattuta dal Padre HohenLohe in varî scritti. I manoscritti riportano la compilazione come appendice dell’Epitome Juliani delle Novelle Giustinianee, ma non danno l’opera completa e si interrompono nella chiusa in punti diversi. Forse la compilazione riguardava tutto il campo del diritto, ma a noi è pervenuto soltanto il libro primo, dedicato ai delitti. I titoli conservati sono 16 con rubriche originali.

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La prima edizione fu quella di P. PIThou del 1573, in base al manoscritto ora berlinese ; seguì nel 1833 altra del BLuhMe sui Codici Vercellese e di Vienna ; la migliore del 1890 del MoMMSen . Uno studio sulle dottrine esposte nella collezione, impostato assai largamente, è stato fatto da TrIeBS nel 1905-1907. Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti. Questo titolo fu applicato dal CuIacIo ad una raccolta di pareri che, da un manoscritto di Antonio LoISeL , rese di pubblica ragione nel 1577 ; e già nel 1564 e nel 1566 egli ne aveva riportate alcune citazioni, ed infine nel 1586 ne curò un’edizione più completa. Del manoscritto non si ha più notizia. La raccolta presenta dei pareri dati da un cultore di diritto a persone legali. A parte il merito dei consulti stessi, essa ha uno speciale valore per i passi estratti dalle sententiae di PaoLo e dai Codici Ermogeniano, Gregoriano e Teodosiano adibiti per illustrare i responsi ; nell’ultimo capitolo poi, in appendice inserito posteriormente, sono riferite delle costituzioni imperiali dei tre Codici. L’operetta fu redatta probabilmente sulla fine del secolo v o al principio del vi. § 2. Residui minori. Scholia Sinaitica scoperti dal BernadaKIS l’anno 1880 nella biblioteca del chiostro sul monte Sinai in 17 fogli di papiro che contengono frammenti di un commentario greco ai libri ad Sabinum di ULPIano . Il commento presenta vari strati e dovette formarsi nel corso del v secolo nelle scuole d’oriente, forse in Berito, ed essere riveduto e ampliato certamente dopo la compilazione di Giustiniano, della quale sono riportati testi interpolati. Questa opinione non è seguita dai critici delle fonti, i quali piuttosto ritengono che il testo Sinaitico abbia offerto l’esemplare per le interpolazioni introdotte da Giustiniano nei frammenti 3 e 11 D. 25, 1. Altri, come il LeneL , tende a considerare sia il testo Sinaitico come quello dei Digesti derivato dall’opera di Ulpiano, quindi, almeno sostanzialmente, genuino. Ma queste due soluzioni incontrano ostacoli insuperabili. Anzitutto non è possibile considerare quei due passi come genuini, perché essi hanno impronta

Residui minori

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legislativa e per la lingua e lo stile [198/199] caratteri spiccatamente bizantini (come nos generaliter). Ma anche l’origine scolastica del periodo anteriore a Giustiniano è inammissibile. infatti il testo greco riporta ad Ulpiano la definizione del fr. 3 cit. che vi corrisponde. Ciò poté fare, come usava, GIuSTInIano , ma non un maestro o scoliaste privato, cioè di attribuire una nuova dottrina all’antico giurista. Per superare questa difficoltà, l’ALBerTarIo ha dovuto supporre che il testo, in quei punti, abbia attraversato due fasi ; in una prima, sarebbe stato redatto come annotazione da un maestro bizantino e poi, in un secondo momento, altro interprete, credendo quella aggiunta derivata da Ulpiano, la avrebbe incorporata col nome del giurista nella raccolta ; donde sarebbe passata nell’opera legislativa. Ma queste supposte stratificazioni dei testi non c’è modo di provarle. E se il GradenWITz si accinse alla ricerca di esempi di siffatte stratificazioni nei passi interpolati, quelli addotti furono dimostrati inconsistenti, così in special modo per fr. 45 D. 24, 33. senza valore infine l’argomento che le vecchie carte dopo la codificazione di Giustiniano non potevano essere in alcun modo utilizzate per divieto del legislatore ; giacché è ingenuo supporre che i maestri di diritto avessero subito, per i divieti di Giustiniano, abbandonati i loro appunti di scuola, che contenevano le traduzioni in greco dei testi latini, confronti e formulazioni di regole che bene potevano servire ancora per l’intelligenza dell’opera legislativa. onde concludendo l’opinione più probabile è che il testo Sinaitico fu tenuto in uso anche dopo la compilazione, e in esso furono trasportati passi inseriti dal legislatore ex novo nei Digesti, che avevano un particolare valore legislativo4. Leges saeculares (libro di diritto romano-siriaco). Raccolta di diritto romano della quale furono fatte traduzioni dal greco in varie lingue orientali ; così in siriaco, arabo, armeno. Di queste versioni si hanno varii manoscritti : a) Codice siriaco nel museo britannico scoperto dal filologo olandese Land nel 1858 ; b) Codice siriaco del secolo XIII 3 (1/199). Cfr. S. RIccoBono , Lineamenti della dottrina della rappresentanza diretta in Diritto Romano, in Annali Seminario Giuridico Palermo, 14, 1930, p. 428 ss. 4 (2/199). Cfr. S. RIccoBono, Gli scolii Sinaitici, in B.I.D.R., 9, 1896, p. 217 ss.

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della Biblioteca di Parigi ; c) Codice arabo del secolo XII della Biblioteca Bodleiana di oxford ; d) Codice armeno del secolo XIV, oggi nella Biblioteca di Berlino ; e) Tre manoscritti ancora più recenti, insieme connessi, della Biblioteca Vaticana e indicati nel 1903 dal Sachau con le lettere R I, R II, R III. Il libro contiene una assai imperfetta elaborazione del diritto romano antico con misti elementi di consuetudini locali dei paesi d’oriente e di diritto giustinianeo. Per questo rispetto esso offre quindi un particolare interesse storico. Il libro non dovette avere grande importanza nella pratica. I manoscritti [199/200] sono di varie epoche, ampliati via via con aggiunte. Il più antico è il londinese che il Sachau riporta al principio del secolo VI, cioè tra il 510 e il 520 ; esso è pure il più disordinato, in seguito forse a rimaneggiamenti subiti per adattarlo alla episcopalis audientia. Ma quest’uso dell’opera è negato dal NaLLIno . L’epoca della prima redazione del libro è incerta, ma interessa notare che il manoscritto della Vaticana contiene il titolo seguente : leggi secolari dei romani raccolte da Ambrogio confessore per ordine di Valentiniano. Questa iscrizione, in sostegno della quale si è richiamata l’altra notizia fornita da ÉBed -YeShû , metropolita di Nisibis, morto il 1318, ha fatto ritenere che l’opera fu redatta in Italia e nel secolo iv, in lingua latina, da cui sarebbe stata in oriente tratta una versione greca. E certamente per datare la prima redazione della raccolta non si può, come fu fatto dal BrunS , usufruire della mitigazione della pena al duplum nell’arrha sponsalicia, nei casi di mancata promessa della sposa, perché questa nuova prescrizione è di GIuSTInIano , interpolata in una costituzione di Leone del 472, e appare nella nostra raccolta solo nei manoscritti più recenti. Il MITTeIS ed il Sa chau da elementi tratti pur dal contenuto vollero attribuire all’opera una data più remota : contemporanea con l’attività di s. AMBrogIo , secondo il Mitteis ; più antica, secondo il Sachau. Il Nallino la colloca invece tra il 476 ed il 480 circa. L’opera, giudicata miserabile dal BrunS , appare alla luce della critica più recente interessante da varii punti di vista, e anche il sistema, osservato specialmente nel manoscritto parigino, rivela l’uso di un esemplare classico. Il contenuto riguarda in maggior quantità il diritto privato, con preferenza diritto ereditario, ma anche diritto penale e procedura. Il libro

Residui minori

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diffuso largamente nell’oriente, dopo la compilazione di Giustiniano, rimase in vigore fino ai tempi più recenti in varii paesi dall’egitto sino in Armenia e con il titolo improprio « leggi dei Re Cristiani vittoriosi Costantino, Teodosio e Leone », ebbe inoltre diffusione in Georgia e in Etiopia. La storia e la critica dell’opera è stata recentemente ripresa dal Nallino, il quale, con la sua speciale competenza del mondo orientale, è venuto a conclusioni diverse ed opposte, ritenendo che l’opera composta per uso puramente didattico contenesse l’antico ius civile ed il ius novum, senza far menzione dello ius honorarium, e con elementi di consuetudini provinciali5. Una versione del manoscritto londinese fu curata dal F er rInI e riveduta ora da FurLanI , il quale ha adoperato gli studi del Nallino sul celebre libro, pubblicato nella raccolta delle Fontes, ed. Barbèra, sopra citata, p. 759 ss. Fragmenta Dosithei. Così detti perché, in un manoscritto della Biblioteca di S. Gallen, alla Ars Grammatica di Dositheus grammatico del secolo [200/201] IV seguono interpretamenta, cioè una raccolta di esercizi per traduzioni dal latino in greco e viceversa ; e tra questi si trova un tratto di un’opera di diritto senza alcuna indicazione dell’autore. Questo frammento è anche riportato da altri due manoscritti della Biblioteca di Leyda. Ma l’attribuzione anche degli interpretamenta a DoSITeo è arbitraria e deriva dal CuIacIo . Il testo ricavato dall’opera di diritto è assai corrotto e a volte senza senso perché non è l’originale, ma un prodotto di varie versioni dal latino in greco, e poi in latino. Il LachMann poté restituire, per quanto era possibile, il dettato primitivo che è oggi seguito nelle edizioni del testo latino. I frammenti trattano della divisione del ius in civile, naturale e gentium ; del ius civile e honorarium e delle manumissioni ; in questo proposito la manumissio censu (par. 17) è considerata come vigente. In nessun modo quindi lo scritto originale potrebbe riportarsi, come si è fatto, ad uno degli ultimi giuristi, PaoLo e u LPIano ; considerando invece che i nomi dei giuristi citati sono ProcuLo , o TTaveno , n erazIo e GIuLIano , si deve 5 (1/200). Sul libro Siro-Romano e sul presunto diritto siriaco, in Studi in onore di P. Bonfante, I, Milano 1930, p. 203 ss.

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piuttosto attribuire ad uno scrittore assai vicino al tempo di AdrIano e che adoperava un esemplare più antico. GaIo e PoMPonIo , tra i giuristi noti, hanno seguito tale sistema. Nel par. 3 la trattazione è designata come regulae. Un frammento del liber regularum di PoMPonIo è riferito da Arnoldo Ferrando come estratto ex libris Pomponii. La provenienza è così descritta dal referente : « ex vetustissimis quibusdam fragmentis carie corrosis ; quae nobis dono dedit Iulius Caesar Scaliger ... excepta e bibliotheca Petri Criniti Florentini ». Il CraMer congetturò che provenisse dalla opera regularum di Pomponio. Papiniani responsa. Dell’opera responsorum di PaPInIa sono pervenuti resti esigui in brani di pergamena scritti nel secolo IV o V e rinvenuti in Egitto nell’anno 1876 o 1877. Di essi tre brani contengono frammenti del libro quinto e si trovano in Berlino nel Museo di Antichità egiziane ; quattro brani riportano squarci del libro nono e sono conservati fin dal 1882 nel Museo del Louvre. Con i responsi sono pure riportate note di PaoLo e ULPIano e in quelli del libro quinto i margini inferiori del foglio e le intercolonne contengono scolii greci. I resti del libro quinto furono editi prima dal Krüger nel 1879, ma ne fu con sagacia restituito il nesso dall’ALIBrandI ; il quale con lo stesso sistema riuscì in parte a congiungere i brani del libro nono pubblicati dal DareSTe nell’anno 1883. Nella chiusa della Lex Romana Visigothorum è riferito un frammento di Papiniano estratto dal libro primo dei responsa, titolo de pactis inter virum et uxorem. Notevole è che il passo di Papiniano, in un codice del secolo X conservato a Parigi, venne sostituito, come appare evidente dalla forma e dal contenuto, dal proemio di una costituzione di tarda età. [201/202] Identica sostituzione o alterazione avvenne in un altro passo che si legge nel manuale Legum di ArMenoPuLo , il quale riporta in 2, 4, 51 una sentenza in materia di costruzioni di edifici con la citazione di Papiniano, 3 quaestionum. La citazione è certamente genuina, ma la massima in essa riferita è d’origine bizantina, posteriore alla costituzione di zenone, 12 C. 8, 10. no

Dal libro 32 ad edictum di PaoLo sono pervenuti due brevi frammenti in un brano di pergamena egiziana con scritture

Residui minori

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nel recto e nel verso forse del secolo V. Quei residui corrispondono alle leggi 65, 16 e 67, 1 del libro 17, 2 dei Digesti, estratti appunto dal libro 32 di Paolo ad edictum e contengono delle citazioni omesse dai compilatori giustinianei. Dell’opera institutiones in due libri di Paolo sono riferiti : un frammento da BoezIo nel commento a Cicerone, Topica 2, 4, 19, e due altri testi in un commento inedito su Cicerone, De inventione, conservato in un manoscritto del secolo XII della Biblioteca di Bruxelles, e quivi rivelati e pubblicati, la prima volta dal ThoMaS nell’anno 1878. Il commento stesso è opera medioevale di certo Teodo rIco ; il che prova che l’opera di Paolo si doveva trovare utilizzata largamente da qualche antico commentatore di varie opere di Cicerone. Il fragmentum de formula Fabiana, detto così perché nel suo contenuto è fatta menzione della formula Fabiana accordata al patrono per le alienazioni tra vivi fatte dal liberto in frode dei diritti del patrono stesso. Contenuto in un foglio di pergamena egiziana della raccolta dell’Arciduca RaynerI in Vienna, fu pubblicato nel 1888 da PFaFF ed HoFMann . Il foglio è scritto nel recto e nel verso, con caratteri unciali del IV e V secolo ; presenta leggibili undici righe complete e cinque in parte. I primi editori attribuirono il brano ai libri ad edictum di PoMPonIo , ma il GradenWITz ha riconosciuto nel par. 8 una citazione di MarceLLo e lo ha riferito al libro 8 ad Plautium di Paolo ; il FerrInI invece al libro 42 ad edictum dello stesso giureconsulto. Ulpiani institutiones. oltre la citazione di BoezIo , il quale più o meno letteralmente riproduce un tratto delle Istituzioni di ULPIano sulle forme del matrimonio, ed i riferimenti dalla collatio, residui dell’opera furono ritrovati nel 1835 da EndLIcher su 6 strisce di papiro adoperate nella rilegatura di un manoscritto esistente nella Biblioteca Imperiale di Vienna. Dei libri Ulpiani ad edictum vengono riferite due brevi citazioni, una riportata dall’ecclesiastico PacaTo , pubblicata dal PITra , e l’altra corrispondente [202/203] a D. 38, 8, 1, 8, ri-

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ferita da PrIScIano che scrive avanti Giustiniano. A quest’ultima citazione si può avvicinare l’altra dello stesso autore : D. 10, 2, 14 (cfr. D. 7, 9, 12, ove è invocata l’autorità di Ulpianus ad Sabinum per la forma del futuro « fruiturum »). Fragmentum de iudiciis, contenuto in un foglio mutilo di pergamena proveniente dal FayuM in egitto e conservato fin dal 1877 nel Museo di Berlino. La scrittura su due colonne delle quali una è quasi interamente perduta è attribuita al secolo VI e porta in calce la rubrica de iudiciis lib. II. L’autore del frammento non si può determinare, ma non deve essere molto lontana dal vero l’opinione di coloro che attribuiscono il frammento al commentario ad edictum di ULPIano . Il passo più importante si riferisce ad una legge, che ingiungeva al Pretore di accordare azioni relativamente ai beni di certe persone, come si dediticiorum numero facti non essent. Ma questo punto è molto controverso. Di Ulpiani disputationum libri sono pervenuti vari residui tra i documenti egiziani acquistati dalla Biblioteca di Strasburgo : un mezzo foglio di pergamena assai rovinato scritto sul recto e sul verso con lettere unciali e diviso in origine in due colonne ; della scrittura della seconda colonna del recto e della prima del verso rimangono soltanto tracce esigue ; le altre due colonne hanno 29 righe ciascuna sufficientemente leggibili. il foglio fu decifrato e pubblicato con riproduzione fotografica, nel 1903, dal LeneL il quale riconobbe appartenere i frammenti all’opera disputationum di ULPIano e precisamente al libro terzo. Dal X, poi, che si legge in calce alle 29 righe della prima colonna, il Lenel argomenta che il manoscritto derivasse da una copia di tutta l’opera, riferendo la cifra al numero del quadernone. Questa ipotesi venne corroborata dal rinvenimento di altri due brani di pergamena della stessa provenienza e identica forma decifrati e pubblicati dal Lenel nell’anno successivo, 1904 ; questi constano di una striscia con 27 righe di scrittura per lato, e di un piccolo brandello con residui di sette righe, e cioè le prime lettere delle righe in un lato che si riferiscono all’originale del celebre frammento 32 D. 15, 1, da molti e specie da Schulz ritenuto interpolato.

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Fragmentum de iure fisci in due fogli di pergamena ritagliati nella parte superiore, ritrovati in Verona insieme al palinsesto gaiano, e probabilmente adoperati sin da tempo remoto per copertura dello stesso manoscritto. La scrittura stessa su 2 colonne è semiunciale, del V o VI secolo. il contenuto si riferisce a diritti del fisco, ma non presenta elementi per determinare il carattere dell’opera e l’autore. La coincidenza letterale del par. 19 [203/204] con il brano del libro 5, 12, 1d delle Sentenze di Paolo aveva fatto pensare a PaoLo . Ma d’altra parte il par. 9 è in contraddizione con Sentenze 1, 6a, 2 ; altri inclina ad attribuirlo a ULPIano , ed altri infine ad un’epitome del periodo ultimo fatta su varii esemplari classici ; in ogni caso le forme linguistiche ci riportano a scrittori del periodo dei Severi. I frammenti furono pubblicati la prima volta nel 1820 dal GoeSchen , assieme a Gaio ; un apografo fu curato dal K rüger nel 1868 dopo una investigazione sui fogli riuscita molto infruttuosa. Un periodo estratto dal libro terzo regularum di Mode STIno è riportato da Pietro PIThou da un manoscritto oggi perduto ; e dell’opera differentiarum, forse dal libro primo, riferisce un passo di Isidoro, Differentiae. Due rubriche di un’opera di diritto penale scritte in lettere unciali del V o VI secolo si leggono nei due lati di un papiro della collezione viennese dell’Arciduca RaynerI e pubblicate nel 1898 da WeSSeLy . Tractatus de gradibus cognationum in cui si delineano i gradi di parentela con le relative denominazioni, di autore incerto, ma del periodo classico, come si rileva dal confronto con il libretto di Paolo riprodotto in parte in D. 38, 10, 10. Lo specchio è inserito in fronte ai codici della Notitia dignitatum e fu pubblicato la prima volta in base al manoscritto parigino 9661 del secolo XV ed al Monacese 10291 del secolo XVI dal BoecKIng . Del De notis iuris di VaLerIo P roBo , grammatico vissuto sotto Nerone e Domiziano, sono pervenuti dei frammenti restituiti dal MoMMSen con l’aiuto principalmente dei due manoscritti della fine del secolo Xv o principio del Xvi, am-

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Residui della giurisprudenza classica

brosiano l’uno, romano (Chigi) l’altro, con correzioni e aggiunte ricavate da un codice del secolo X di Einsideln n. 326. Il trattato faceva parte di un’opera più estesa ; la parte conservata ha nei manoscritti il titolo De iuris notarum (sic), cioè la spiegazione delle parole e formule giuridiche indicate nei documenti (legis actiones, atti legislativi, editto) con le iniziali (notae). Le abbreviazioni furono pure ricavate dai libri ad edictum di Sesto Pedio. Notitia dignitatum utriusque imperii. Un manoscritto rinvenuto in Speier riproduce un elenco degli alti impiegati delle due parti dell’impero ordinati secondo il grado con figurazione delle insegne e con tutto il personale d’ordine e militare dipendente. il lavoro fatto in occidente circa l’anno 411-413 da un [204/205] privato, è condotto su fonti ufficiali e sul modello di una notitia dignitatum della parte orientale dell’impero. Edito con largo commentario da BoecKIng nel 18391853 e poi dal SeeK nel 18766. [205/206]

6 (1/205). Tutte queste opere e parti di opere si possono trovare oltre che nelle edizioni citate in quattro raccolte principali di fonti : Collectio librorum iuris anteiustiniani, edita a cura di vari autori (Mommsen, Krüger, Studemund, ecc.) a Berlino, con varie ristampe; P. F. GIrard , Textes de droit romain, Paris, 1923; P. E. HuSchKe (riveduta da E. Seckel e B. Kübler), Iurisprudentiae anteiustinianae reliquiae, Lipsiae, 1911-1927; Fontes iuris Romani antejustiniani, cit.Quest’ultimo manuale è il più diffuso in Italia.

c aPo xII. vA Lo R e e C R i ti CA DeLLe o P eR e P o s t- C LA ssiC H e

Conosciuti i residui delle opere e collezioni giuridiche a noi pervenute al di fuori della compilazione di Giustiniano, è opportuno far seguire alcune osservazioni d’indole generale, destinate a mettere in risalto il valore e l’importanza di esse nel campo della storia e della critica. 1) Ed in primo luogo è notevole il fatto che quei rifacimenti o collezioni di testi ricavati da opere giuridiche provengono quasi esclusivamente dalla parte occidentale dell’Impero, il che dimostra che, fino a teodosio ii certamente, la tradizione giuridica romana, se è in tutto l’Impero in grande decadenza, tuttavia dà qualche segno di vita nell’occidente meglio che nell’oriente. e ciò è, peraltro, agevole a spiegare sia per la continuità di essa nella sede sua naturale, sia per il vantaggio della conoscenza della lingua latina, la quale invece nell’oriente si veniva sempre piu assottigliando. 2) In secondo luogo, rispetto alla genuinità di queste fonti, è da notare quanto segue : a) fino al 1900, quei residui della giurisprudenza classica e delle costituzioni imperiali furono ritenuti del tutto genuini ; si riconosceva bensì che molti passi avevano subito mutilazioni, ma si escludeva che essi fossero stati alterati sostanzialmente. Ed, inoltre, tra questo gruppo di opere ed il contenuto della compilazione di Giustiniano non si avvertiva un gran distacco. Le contraddizioni o divergenze più notevoli tra questa e quelle si spiegavano supponendo un rapido sviluppo

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Valore e critica delle opere post-classiche

del diritto, per esempio nel periodo che intercede da Gaio ad Ulpiano e Paolo. Naturalmente questa credenza è pregiudizievole per una visione piu reale della evoluzione del diritto romano. b) negli ultimi anni la critica ha potuto dimostrare che la credenza nella genuinità assoluta di quei testi era infondata ; come si è visto, essa ha sottoposto a revisione tutti i giudizi tradizionali concernenti l’origine di quelle opere. E la tendenza più recente è arrivata a conseguenze estreme, ritenendo tutte quelle fonti inquinate da gravi interpolazioni, formali e sostanziali, investendo cosi con questo indirizzo anche l’opera di GaIo nota dal manoscritto veronese. La inopportunità di un siffatto metodo è evidente, e si è manifestata nei risultati eccessivi che la critica ha offerto, specialmente rispetto all’opera di [206/207] Gaio. Ma l’errore del metodo apparisce subito, quando si consideri che la critica ha adoperato nell’analisi di queste fonti quegli stessi criteri che aveva usati nelle indagini interpolazionistiche dell’opera legislativa. Errore manifesto, giacché Giustiniano nel proporsi il riordinamento e la semplificazione del diritto doveva procedere con tutta libertà nella manipolazione dei testi antichi, ed aveva tutto il potere di fare ciò, mentre gli epitomatori ed i compilatori dei secoli precedenti come privati non avrebbero avuto alcun potere di alterare le fonti giuridiche, ché piuttosto, insegnanti o pratici, si sarebbero esposti alle pene comminate contro i falsificatori dei testi di legge. Da questa ovvia osservazione scaturiscono con naturalezza norme e criteri che è necessario adottare nella critica delle fonti pregiustinianee. c) In generale è accertato che glosse ed alterazioni, nelle forme più varie, si rinvengono pure in questa categoria di fonti. Ma in proposito bisogna tener conto di alcuni elementi storici fondamentali, e distinguere : c1) In tutte queste opere o compilazioni, destinate alla scuola o all’uso della pratica, possono rinvenirsi glosse aventi carattere esplicativo : id est ... e simili. Aggiunte di questo genere passate poi nel contesto delle opere, nelle successive ricopiature, non hanno peraltro alcuna importanza per il lato giuridico, attestano se mai il livello della cultura del tempo e il grado di comprensione di chi usava l’opera.

Valore e critica delle opere post-classiche

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c2) L’opera institutiones di Gaio contiene certamente glosse nel senso or ora detto, ma non aggiunte o alterazioni sostanziali. In proposito il testo veronese ha avuto la conferma più solenne nei frammenti venuti alla luce dall’Egitto. Ciò è ben intelligibile, ove si consideri che la tradizione di scuola è naturalmente conservatrice e ferma, tanto più dovette essere tale in un manuale elementare, insigne per l’antichità e la semplicità, diffuso in tutte le parti dell’Impero sempre integro anche nelle parti più arcaiche, come dimostrano i frammenti di Autun e gli ultimi testi rinvenuti in egitto. il libro di Gaio può ben dirsi aver acquistato l’importanza del libro di scuola per eccellenza, come un libro sacro. Perciò allo stato delle nuove conoscenze l’opera è intangibile, ed è certo poi che tutte le interpolazioni sostanziali finora pretese dalla critica sono arbitrarie ed asserite con ragioni soggettive sempre infondate. c3) Ben diversa è la condizione rispetto alle opere confezionate per la pratica, come i Vaticana fragmenta, le sententiae di PaoLo , le regulae di U LPIano e così via, nelle quali si riscontrano alterazioni di ogni genere. Ma tuttavia queste hanno caratteri ben definiti, perché tutte giustificate o spiegabili con le condizioni del diritto del tempo. E pertanto le alterazioni che esse presentano sono : a) Mutilazioni degli squarci classici, con omissioni degli elementi antiquati. [207/208] b) Variazioni nella terminologia degli istituti sia del processo che del diritto materiale. c) Alterazioni determinate dalla fusione del ius civile e del ius honorarium, con la prevalenza di quest’ultimo e similmente del ius gentium e del ius extraordinarium come si veniva attuando nella prassi giudiziaria. d) Innovazioni determinate dalla legislazione imperiale da Costantino in poi. e) Alterazioni rese necessarie per la caduta delle forme solenni romane e per l’importanza che aveva ormai assunta la scrittura nella pratica giuridica. f) Sunti tratti da testi classici più larghi, e particolarmente al fine di estrarne una semplice regola per la pratica. Esempi di siffatte alterazioni sono stati segnalati ora in numero considerevole e sono tutti attendibili. Ma in ogni caso si esige una dimostrazione documentata, e questa è resa oggi possibile.

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Valore e critica delle opere post-classiche

oltre i limiti indicati, una più larga attività riformatrice sui testi antichi non si può ammettere. Mentre poi tutte le pretese innovazioni, rispetto a dottrine e teorie d’origine scolastica orientale, non hanno avuto finora alcuna conferma documentata. Si tenga sempre presente che il diritto dell’Impero era ormai consacrato nelle opere dei giuristi classici, le quali non potevano essere alterate sostanzialmente né dai pratici né dai docenti. infine è ancor utile avvertire che nel complesso le opere e collezioni pregiustinianee rimangono sempre meno alterate e quindi più aderenti agli esemplari classici, che non siano i testi tramandati dalla compilazione di Giustiniano. L’opinione dello Schulz, nella History, che attribuisce ai post-classici una attività intensa specialmente nell’annotare le opere degli antichi giuristi, è incredibile e non dimostrata. Sul proposito si terrà conto del fatto accertato che i Compilatori avevano interesse ai fini legislativi di fondere le note col testo1. Da ciò sono derivati difetti ed incongruenze d’ogni genere. Sono incline a ritenere per altro ed ammettere una vivace attività di giuristi dopo Alessandro severo e Modestino (240). In questo momento con grande sorpresa cessa la produzione dei giuristi. onde si può supporre che essi cominciarono a comporre note, alle opere precedenti per chiarire dubbi della pratica, ed epitomi, con formulazioni più progredite di norme ed istituti finora molto controversi ma già maturi per una soluzione. In queste condizioni sarebbe stata mutata l’opera di Paolo sententiae al tempo di Costantino. [208/209]

1 (1/208). Cfr. un esempio insigne nei fr. 80 e 83 D. 23, 3 : Iavolenus libro sexto ex posterioribus Labeonis. Vedi sopra, capo V.

c aPo xIII. LA C oM P i LA zi o n e G i U s t iniA ne A

§ 1. La Compilazione. Come abbiamo già detto la conoscenza più diffusa del diritto romano noi la ricaviamo dalla codificazione ordinata da Giustiniano nel principio del secolo VI. Questa è dunque la fonte principale per lo studio del diritto romano. La compilazione intera è oggi nota col titolo « Corpus iuris civilis » ; ma questo fu adottato da Dionisio GoToFredo nel 1583, e non è proveniente da Giustiniano, che designò ogni singola parte con denominazioni speciali. 1. Institutiones seu Elementa, pubblicate con la costituzione « Imperatoriam Maiestatem » del 21 novembre 533 con vigore di legge dal 30 dicembre dello stesso anno. 2. Digestorum seu Pandectarum libri L, ordinati con la costituzione « Deo auctore » del 15 dicembre 530, pubblicati con la costituzione « Tanta » (nella versione greca « Δέδωκεν ») il 16 dicembre 533, con forza di legge dal 30 dicembre dello stesso anno. 3. Codex Iustinianus, di cui fu ordinata una prima edizione con la costituzione « Haec quae necessario » pubblicato il 7 aprile 529 con la costituzione « Summa rei publicae » con vigore di legge dal 16 aprile. Ma questa prima redazione di-

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La Compilazione Giustinianea

venne ben presto antiquata, perché fino al 530 Giustiniano dovette emanare varie costituzioni, per decidere molte controversie riportate nelle opere dei giuristi e di 50 di queste nuove costituzioni fu fatta una raccolta ufficiale « quinquaginta decisiones » ; altre leggi poi furono fatte durante la formazione dei Digesti per coordinare gli estratti delle opere dei giuristi con lo spirito e le esigenze di nuovi tempi. Ad integrare quindi la prima edizione del Codex, Giustiniano dopo la pubblicazione dei Digesti nominò una commissione per comporre una seconda edizione del codice. [209/210] Il nuovo codice « repetitae praelectionis » fu dato alla luce con la costituzione « Cordi » il 16 novembre 534, con forza di legge dal 29 dicembre dello stesso anno. 4. Novellae leges, sono le costituzioni, per lo più in greco, emanate da Giustiniano dal 535 al 564, che contengono in parte riforme fondamentali, per esempio nel diritto ereditario, nel diritto matrimoniale ; ma di esse, per quanto sappiamo, non fu fatta una collezione ufficiale. se Giustiniano diede il suo nome alla codificazione del diritto romano e ne porta la gloria, il merito di aver tradotto in atto il vasto disegno si deve a TrIBonIano , quaestor sacri palatii, uomo di larga cultura e dotato di singolare energia fattiva. In quanto al contenuto delle varie parti è utile notare : Institutiones, offrono in quattro libri divisi in titoli una succinta esposizione del diritto privato, ricavata in buona parte dalle institutiones e dalle res cottidianae di GaIo , da altri libri di istituzioni, come quelli di Marciano, Fiorentino, Ulpiano ecc., da Ulpiano ad edictum e dalle costituzioni giustinianee. L’adattamento fu fatto da due professori, teofilo e Doroteo, sotto la direzione di Triboniano. Digesta, contengono una gran massa di frammenti cioè 9142 corrispondenti a 150 mila versus, estratti dalle opere di trentanove giuristi, per lo più vissuti nei primi tre secoli dell’Impero. Giustiniano computa i libri adoperati a due mila con tre milioni di linee. Un elenco delle opere fu redatto dai compilatori, ma è riuscito assai imperfetto perché fu forse compilato prima, nella preparazione del materiale. Nei singoli titoli i frammenti furono distribuiti con lo stesso ordine in cui erano stati estratti dai libri dei giureconsulti. Sembra

La Compilazione

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infatti che la Commissione, composta di 17 membri, cioè TrIBonIano che aveva la presidenza, CoSTanTIno , capo della Cancelleria Imperiale, 11 avvocati e 4 professori tra cui TeoFILo, DoroTeo , a naToLIo , si sia suddivisa in tre sezioni per compiere i lavori preparatorii. I libri da consultare furono divisi in tre masse, raggruppati intorno ad alcuni scritti principali, aventi carattere e contenuto speciale, e cioè i commenti ad Sabinum, i commenti ad edictum e le opere di Papiniano. Questa organizzazione del lavoro fu scoperta dal Bluhme nel 1820. Quindi si ebbero : 1) La massa che noi indichiamo col nome di Sabiniana, che comprende la trattazione del ius civile ; 2) La massa Edittale, relativa alle opere scritte sull’editto ; 3) La massa Papinianea di opere pratiche e di commento a singole leggi o senatoconsulti, cui si aggiunse un’appendice (Appendix) di scritti forse ritrovati nel corso dell’elaborazione. [210/211] Al lavoro di raccolta dei frammenti dovette seguire probabilmente quello di coordinamento ad opera di una sezione costituita a questo scopo ; di questa fecero parte probabilmente Triboniano e pochi giuristi, cioè quelli stessi che elaborarono le costituzioni durante la formazione del Digesto. ogni frammento porta una inscriptio, cioè l’indicazione dell’autore, titolo dell’opera, numero del libro da cui fu ricavato. Tutto il materiale fu ordinato in 50 libri, divisi in titoli con speciali rubriche ; soltanto i libri 30, 31 e 32 non hanno altri titoli e portano un’unica rubrica, de legatis et fideicommissis. I frammenti sono 9142, versi 150 mila ; il numero delle rubriche 408. Il sistema delle opere è, nelle linee fondamentali, quello dell’edictum perpetuum, che era già in uso nelle opere dei giuristi da Adriano in poi. Codex. Soltanto la seconda redazione pervenne a noi. Della prima nulla si conosce1. Il codice è formato in 12 libri, divisi in titoli con rubriche. vi è seguito sostanzialmente, fino al libro ottavo, titolo 45, il sistema dell’editto. Contiene in complesso 4600-4700 costituzioni imperiali, disposte nei singoli titoli in ordine cronologico. La più antica 1 (1/211). Soltanto l’elenco delle rubriche 11-16 del primo libro è pervenuto ora nel Pap. Oxyr. XV, 1814. Cfr. P. De FrancIScI , Frammento di un indice del primo Codice Giustinianeo, in Aegyptus, 3, 1922, p. 68 ss.

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accolta è una di AdrIano, le più numerose di DIocLezIano, le più recenti del 534 dello stesso GIuSTInIano. ogni costituzione porta una inscriptio, col nome dell’Imperatore e del destinatario e una subscriptio. Il contenuto e la spiegazione di queste due parti furono dati sopra quando abbiamo parlato del Codice Teodosiano (cfr. p. 196). Modi di citazione. Per quanto riguarda i modi con i quali si sogliono citare le varie parti della compilazione di Giustiniano, bisogna distinguere tra Istituzioni e Novelle da una parte e Codice e Digesto dall’altra. Le prime due opere hanno un sol modo molto semplice. Le Istituzioni si indicano con la lettera « I. ». Talvolta l’indicazione può essere più ampia : Inst. Vengono indi segnati successivamente il libro, il titolo e il paragrafo. Esempio : I. 3, 1, 4. Questa citazione corrisponde al passo : « Interdum autem, licet in potestate … ». Le Novelle si indicano con la sigla « Nov. ». I passi di esse vengono citati enumerando successivamente il numero della novella, il numero del capitolo (quando son divise in capitoli) e il paragrafo. Esempio : Nov. 22, 29, 1. Questa citazione corrisponde al passo « Reliqua vero quaecumque in talibus lucratus est … ». Il Codice (C.) e iI Digesto (D.) hanno i modi di citazione comuni ; essi sono varî ed i più usati al giorno d’oggi sono i seguenti : [211/212] a) Si indicano dopo la sigla C. o D., a seconda che si tratti del Codice o del Digesto, successivamente il numero del libro, del titolo, del frammento e del paragrafo. Esempio : D. 41, 2, 1, 3. Questa citazione corrisponde al passo : « Furiosus et pupillus sine tutoris auctoritate … ». b) Si indicano prima il frammento ed il paragrafo, indi l’opera (C. o D.), il libro e il titolo. Per cui lo stesso frammento citato dianzi verrebbe così indicato : 1, 3 D. 41, 2. c) Da alcuni autori, specialmente il LeneL, si sogliono citare frammenti del Digesto e del Codice indicando il libro e il titolo tra parentesi e successivamente frammento e paragrafo. Per cui lo stesso frammento verrebbe citato : D. (41, 2) 1, 3. Talora alcuni autori sogliono fare precedere l’indicazione della citazione in uno dei modi sopradescritti dal nome del giureconsulto e dall’opera da cui il frammento è stato estratto

Manoscritti della Compilazione di Giustiniano

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per il Digesto, e dal nome degli imperatori che hanno emanato la costituzione per il Codice. Si suole talvolta accompagnare l’indicazione del libro e del titolo con la rubrica abbreviata ; per es. il frammento citato per il Digesto risulterebbe così : 1, 3 D. de adq. vel am. poss. 41, 2. § 2. Manoscritti della Compilazione di Giustiniano. 1. Institutiones. I manoscritti delle Istituzioni non sono antichi, ma numerosissimi. Finora se ne conoscono 312. A prescindere da pochi frammenti, i manoscritti più importanti sono il Bambergense e il Torinese che rimontano al IX o al X secolo ; gli altri all’epoca dei glossatori. 2. Digesta. Per questa parte della compilazione abbiamo un manoscritto che è forse il più pregevole del mondo : Littera Florentina, perché trovasi fin dal 1406 in Firenze e dal 1786 nella Biblioteca Laurenziana ; prima fu posseduto da Pisa, Littera Pisana, e giunse a Firenze dopo la tragedia di Pisa, per cui quel potente Comune fu assoggettato ai Fiorentini con la capitolazione del 26 ottobre 1406. A sua volta Pisa l’avrebbe avuto, secondo una tradizione infondata, da Amalfi nel 1135. Per la sua perfezione fu ritenuto per lungo tempo uno degli esemplari ufficiali di Giustiniano. esso è del secolo vi o principio del VII, ma che sia stato scritto a Bisanzio non può affermarsi. Il MoMMSen suppone a Messina o a Tessalonica. Certo gli amanuensi erano greci, come si osserva pure dall’imperizia della ortografia latina, dalla divisione delle sillabe in fine di rigo, cioè le due consonanti che all’uso greco vengono ascritte alla sillaba posteriore (pa-ctus, fru-ctus). [212/213] oltre alla Fiorentina si hanno sparuti frammenti di manoscritti pure antichi in Napoli e Pommersfeld o conservati in papiri egizi2. 2 (1/213). Cfr. Pap. Ryland, v. 3 (1938) n. 479. Si tratta di strisce di papiri nelle quali si leggono poche lettere che corrispondono ai frammenti 11-12, 13-22, 22-24, 25-26, D. 30, ricostruiti dall’editore RoBerTS. Al contrario, la costruzione fattane da F. SchuLz, Fragmente des liber singularis de legatis?, in Tijdschr., 17, 1941, p. 19 ss., che ritiene i frammenti pregiustinianei, è inaccettabile. Vedi contro anche R. DüLL - e. SeIdL, Ein Digestenfragment aus Ägypten, aber kein « predigesto de legatis », in ZSS, 61, 1941, p. 406 ss.

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Di fronte a questi preziosi manoscritti, se ne contano numerosi altri, più di 500 computati insieme i manoscritti relativi a singole parti. Questi manoscritti sono detti Vulgata (Littera Bononiensis) perché noti o scritti dalla fine del secolo Xi in poi, al tempo dei glossatori in Bologna. Ma fra questi manoscritti e la Fiorentina è un intimo rapporto ; anzi il MoMMSen ha dimostrato che dipendono tutti da un manoscritto del secolo X o XI derivato dalla Fiorentina. Infatti i Volgati riproducono numerosi errori da quella e presentano nell’ordine lo stesso sbaglio che si presenta nella Fiorentina, per spostamento del foglio 463 che è posposto al 464. Ma è più probabile che le tre parti dei manoscritti della Vulgata, venute alla luce in tempi diversi non abbiano una stessa derivazione e che il « Novum » dipenda dalla Fiorentina, mentre le altre parti, specialmente il « Vetus » che ha le varianti più notevoli, provengano da altra fonte. Il MoMMSen ha pure notato che i volgati, fino al libro 34, offrono in singoli punti, quantunque sporadicamente, lezioni migliori della stessa Fiorentina, il che si spiega col supposto che essi vennero integrati e migliorati sino al libro 34 da un altro manoscritto pure antico, indipendente dalla Fiorentina. Di più i Volgati rendono i testi greci di solito tradotti, dalla versione del pisano BurgundIo (morto nel 1193) o da altra più antica, e le iscrizioni dei frammenti con molti errori. E questa classe di manoscritti presenta un’altra particolarità, la divisione dei Digesti in « tria volumina », cioè : Digestum vetus, dal principio sino al libro 24, tit. 2 fr. 2. Digestum infortiatum, dal libro 24, tit. 2 fr. 3 alla fine del libro 38. Digestum novum, dal libro 39 al 50. Come sia sorta questa partizione non è noto. odoFredo (†1265) dice che IrnerIo avrebbe conosciuto prima il Digestum vetus, poi il novum, e infine l’infortiatum, ma è possibile che nella scuola dapprima si adoperasse, come presso i greci, solo la prima parte, e che quindi di essa occorrevano citazioni più frequenti. 3. Codex. I manoscritti completi del Codex sono bolognesi del secolo XII, difettosi per le inscriptiones e subscriptiones e senza le costituzioni greche. Non possediamo quindi la originaria compilazione del Codex, ma un’opera di [213/214]

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ricomposizione più recente. Le costituzioni greche furono restituite specialmente dai Basilici, sino dal secolo XVI (leges restitutae), per merito specialmente di Antonio AuguSTInuS , giureconsulto spagnolo, e di Jacopo CuIacIo (1522-1590). Annoveriamo inoltre il palinsesto veronese che è del secolo VI, il pistoiese del X, ma sono entrambi frammentari. Dei primi nove libri si hanno anche manoscritti che rimontano al secolo XI, ma il più corretto di questi è quello di Montecassino ; degli ultimi tre libri (tres libri), manoscritti che vanno fino al secolo XII. Per la critica è anche importante un’epitome che rimonta al secolo VIII che ci viene da un manoscritto del secolo X della Biblioteca capitolare di Perugia, perciò detta Summa Perusina. 4. Novellae. Di queste non fu fatta una collezione ufficiale. Sono quindi a noi pervenute varie raccolte. 1) La più antica, fatta al tempo di GIuSTInIano in Costantinopoli, da un professore di nome Iulianus, contiene l’Epitome latina di 122 costituzioni che furono emanate dal 535 al 555 ; è nota sotto il nome di Epitome Iuliani. 2) Authenticum : come dice il titolo, questa raccolta (detta anche Vulgata) fu ritenuta come ufficiale, quindi autentica, dai glossatori della Scuola di Bologna. Di fatto anche questa era una collezione privata d’origine forse italiana. Le costituzioni latine sono riprodotte nell’originale ; le greche, tradotte da un testo assai difettoso, riescono in vari punti inintelligibili. Nemmeno quindi è probabile, come è stato ritenuto, per primo dallo zacharIae , che la traduzione fosse stata curata per ordine di Giustiniano per l’Italia e avesse carattere ufficiale. Contiene 134 novelle dall’anno 535 al 556. 3) Altra raccolta di 168 Novelle tutta in greco fu conosciuta in occidente nel secolo Xvi per opera degli umanisti. Fu fatta in oriente, forse in Costantinopoli, fra GIuSTInIano e TIBerIo II (556-582) e subì delle aggiunte da altre collezioni. § 3. Edizioni del « Corpus iuris civilis ». Si è detto che la compilazione di Giustiniano ricevette il titolo complessivo nella edizione di Dionisio GoToFredo del 1583. Il titolo fu ben scelto e desunto dal latino classico.

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Le edizioni più antiche presentano l’apparato delle glosse della scuola di Bologna, raccolte da AccurSIo . Esse sono divise, come i manoscritti bolognesi, in 5 volumi : 1) Digestum vetus ; 2) Infortiatum ; 3) Digestum novum ; 4) Codex, dal libro primo al nono ; 5) Volumen parvum contenente : Institutiones, tres [214/215] libri del Codice (X, XI, XII), Novellae, e poi anche i Libri feudorum del diritto longobardo. A questi si aggiunse un sesto volume contenente un indice generale : Thesaurus Accursianus. L’ultima edizione glossata è del 1627. La prima non glossata di Rob. STePhanuS , Parigi 1527. Ma il Rinascimento esercitò la sua benefica influenza anche sulla restituzione delle fonti del diritto romano. Gregorio ALoandro pose ogni studio ad ottenere un testo quanto più corretto, esercitò largamente la critica delle iscriptiones e diede le Novellae per la prima volta in greco con versione latina ; la sua edizione (1529-1531) acquistò grande autorità e si credette che l’insigne critico avesse avuto altri manoscritti autorevoli. Lelio ToreLLI da Fano (1489-1569) pubblicò i Digesti della Fiorentina con inarrivabile correttezza e senso critico (1553). L’edizione già ricordata di Dionisio GoToFre do , ripetuta moltissime volte, dominò sino al sec. XVIII e rimane sempre pregevole per le ricche note, nelle quali sono richiamati i passi di confronto, o in qualsiasi modo notevoli per la intelligenza del testo ; questo apparato è ricavato dalla glossa Accursiana e dagli interpreti posteriori. Nel secolo XIX ebbe molta diffusione l’edizione dei fratelli KrIegeL arrivata alla diciassettesima edizione (1887) nella quale il Codice fu curato da HerMann e le Novellae da oSSenBrüggen (Lipsia, 1828-1843). Ma tutte queste edizioni sono state poste nell’ombra dalle edizioni più recenti a cura del MoMMSen (con revisione del Krüger) per i Digesta ; Krüger per il Codex e le Institutiones ; Schöll e, dopo la morte di questi, Kroll per le Novellae. Tutte le parti sono dotate di ampie prefazioni e di ricco apparato critico. Notevoli quelle del Digesto e del Codice. Per il Digesto il MoMMSen nelle note fa molte proposte di correzioni del testo, in parte ardite e inaccettabili. Importante fra le edizioni del solo Digesto è anche quella curata dal MoMMSen detta « Editio maior » (Berlino 1870) in due volumi. È l’edizione critica più completa tenuta presente dallo stesso MoMMSen per l’altra (minor) edizione di

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cui abbiamo parlato. Alle pagine di questa Editio maior e alle righe di ciascuna pagina si riferiscono i dati del « Vocabolarium iurisprudentiae romanae », che si pubblica sotto gli auspici della Fondazione Savigny, e che serve a rintracciare tutti i testi in cui si trova una determinata parola. L’indicazione è fatta appunto con due numeri, uno più grosso e uno più piccolo, il primo indica la pagina, il secondo il rigo in cui tale parola si trova. Per indicare poi che si tratta del secondo volume sul secondo numero è posta una barretta ¯ = volume (es. : 27, 15 = volume I, pagina 27, riga 15 ; 27, 15 II, pagina 27, riga 15). Per rendere però possibili le ricerche anche nella edizione più diffusa, quella minor, a cura di MoMMSen -K rüger , nelle più recenti edizioni sono [215/216] poste a margine coppie di numeretti che indicano la corrispondenza della pagina e delle righe di essa con quella della « Editio maior ». Inoltre nell’edizione MoMMSen -K rüger sono segnate anche le interpolazioni giustinianee più note, poste tra piccole parentesi uncinate. In nota, al principio di ogni titolo sono segnate inoltre : 1. Le varie masse come sono rappresentate nel titolo stesso (Sab. = Massa Sabiniana ; Ed. = Massa Edittale ; Pap. = Massa Papinianea ; App. = Appendice) secondo gli schemi del Bluhme riveduti. 2. Il titolo dei Basilici cui il testo del Digesto corrisponde. 3. Tutte le indicazioni relative alle diverse dizioni de vari manoscritti ; le correzioni proposte dai vari critici e tutte quelle note esplicative della lezione accettata del testo. Merita di essere ricordata anche la edizione del PoThIer : Pandectae Iustinianae in novum ordinem digestae (1748), nella quale l’autore tentò riordinare i testi sistematicamente. Raramente il sistema del PoThIer arreca all’interprete un reale vantaggio. A cura di vari professori di diritto romano italiani e cioè lo Scialoja, il Bonfante, il Fadda, il Ferrini, il Riccobono è stata ultimata nel 1931 una edizione (Milano) del Digesto dal titolo Digesta Iustiniani Augusti. Inoltre le Institutiones furono edite dal HuSchKe (1868) ; dal Krüger (terza ed., 1921) ; le Novellae dallo z acharIae von LIngenThaL (1881) soltanto nel testo greco originario e ordinato cronologicamente.

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§ 4. Valore della Compilazione. L’opera di GIuSTInIano , « in tribus annis consummata », è veramente meravigliosa e fa onore ai greci malgrado i difetti non pochi e gravi che contiene. Gli errori erano inevitabili, data la brevità del tempo, il piano di esecuzione e la cultura generale dell’epoca. HoFMann , nell’opera postuma pubblicata da PFaFF col titolo « Die Compilation der Digesten Justinians » (Vienna 1900), si vale della brevità del periodo di tempo impiegato per la compilazione, come argomento principale per dimostrare infondata l’ipotesi del BLuhMe sull’ordine e la distribuzione dei lavori della Commissione. Egli asserisce che il lavoro proficuo si dovette ridurre effettivamente a poco più di un anno e viene alla conseguenza che la constitutio « Tanta » (vale a dire quella in cui Giustiniano asserisce che i frammenti per la sua compilazione furono ricavati da quella ingente quantità di volumi) contiene un cumulo di mostruose bugie, perché i compilatori avrebbero scelto di fatto una via più sbrigativa giovandosi di una edizione di Ulpiano ad edictum e ad Sabinum, con glosse ed aggiunte, e di un numero scarso di opere originali, che adattarono allo scopo. [216/217] ed un altro scrittore, A. ehrenzWeIg , già congettura che i compilatori avessero utilizzato una compilazione che ampliarono di circa 6 volte con l’aggiunta di lunghi frammenti, e l’ampliamento di quelli già offerti, per via di collazione con le opere originali. Ma questo assunto di Hofmann è stato generalmente respinto, sicché si può affermare che nei tre anni a loro disposizione i compilatori hanno compiuto opera veramente mirabile. Buone osservazioni circa la rapidità con la quale l’opera fu compiuta si trovano già in Alberico GenTILI 3. Quanto alle manchevolezze, Giustiniano non le conobbe, sicché presenta l’opera sua come perfetta, come un corpo di leggi unitario, adatto ai bisogni della pratica, senza ripetizioni, senza antinomie e senza elementi inutili o superflui (Deo auctore 8 ; Tanta 14). 3 (1/217). De iuris interpretibus, Londra 1582 ; cfr. De iuris interpretibus dialogi sex. Ad exemplar prioris editionis edidit prolegomenis notisque instruxit G. Astuti, torino, 1937.

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Invece è facile scorgere che le ripetizioni vi abbondano. Tali ripetizioni vengono indicate col nome di « leges geminatae », di cui è stata fatta una raccolta dal BLuhMe . Inoltre vi sono le cosiddette « leges fugitivae » o « erraticae » che sono quelle che si leggono spostate in titoli nei quali non hanno alcuna connessione. Delle « leges geminatae », se alcune figurano di proposito in vari titoli per l’importanza del principio che contengono ed altre erano inevitabili per non turbare il contesto di lunghi frammenti, come dice lo stesso Giustiniano, molte altre invece si debbono ascrivere a svista dei commissari. Le contraddizioni o antinomie sono pure frequenti, non solo fra passi contenuti nelle varie parti della compilazione, ma pure fra testi accolti negli stessi Digesti, o nel Codice, anzi nello stesso titolo o in frammenti consecutivi. Gli elementi arcaici sono pure abbondanti, per quanto i compilatori abbiano fatto per eliminarli, sopprimendo dei brani, mutando termini, rivestendo di nuove forme molti tratti. L’imperatore avverte che furono operate trasformazioni varie nei testi antichi. Vietò quindi in modo assoluto che si confrontassero i passi come si leggevano nell’opera sua con le fonti genuine ; perché egli li promulgò, in quella forma, in forza della sua autorità. Ai giuristi è conferito pari valore a tutti, perché ogni brano ha valore di legge, come se fosse stato dettato dall’imperatore. I nomi dei giuristi furono conservati nelle inscriptiones dei frammenti dei Digesti con carattere puramente decorativo, per un omaggio all’antichità, per tramandare ai posteri la memoria dei grandi giureconsulti romani. Lo stesso deve dirsi per i nomi degli imperatori preposti alle costituzioni da loro emanate che si trovano nel Codice. Noi dobbiamo osservare che la compilazione come opera legislativa era [217/218] veramente poco adatta, perché troppo voluminosa, perché composta come un mosaico da brani di vari autori e di periodi diversi, ed infine perché divisa in tre parti con molte sconcordanze. Invece essa ha molto pregio se la si considera come un’antologia giuridica, come una raccolta cioè di scrittori antichi, di tutto il fiore della giurisprudenza romana. E sotto questi due aspetti più particolarmente dobbiamo ora considerarla.

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§ 5. Interpretazione del « Corpus iuris ». La compilazione di Giustiniano si può considerare da due punti di vista ben diversi : come diritto ordinato dall’Imperatore e vigente nel suo Impero, o come una raccolta della produzione scientifica romana e delle costituzioni imperiali. I metodi di interpretazione, i mezzi che ha a disposizione l’interprete sono, nei due casi, diversi secondo che miri all’uno o all’altro scopo ; cioè, nel primo caso, a stabilire il significato e la portata di un brano considerato come una disposizione di legge ; nel secondo caso a indagare quale sia il significato originario del brano, quale aveva nell’opera genuina del giurista, o, se si tratta di una costituzione, nel caso particolare per cui essa fu emanata. Quindi noi parliamo, per la compilazione di Giustiniano, di interpretatio duplex nel senso testé spiegato. 1. La compilazione considerata come un corpo di leggi. Considerati come un corpo di legge, i Digesti, le Istituzioni ed il Codice valgono, secondo la volontà di Giustiniano, come una sola opera (Tanta 12 ; Omnem 7 ; Cordi 3), quantunque le singole parti siano state composte e pubblicate in tempi diversi. Nel Codex del 534 fu accolta appunto la cost. Tanta che fu emanata, come prefazione delle Pandette, il 16 dicembre 533 ed in essa è detto : « leges autem nostras, quae in his codicibus, id est institutionum seu elementorum et digestorum vel pandectarum posuimus, suum obtinere robur … sancimus ... et una cum nostris constitutionibus pollentes … ». I testi contenuti in quei tre volumi formano quindi un tutto organico ed ogni brano è e si suole indicare col nome di Lex. Le Novelle sono invece leggi posteriori, hanno quindi la precedenza su tutte le altri parti, per il principio lex posterior derogat priori. Il caso quindi di un’antinomia può presentarsi solo fra testi delle Istituzioni, dei Digesti e del Codice ; e allora la difficoltà è grave. Come si risolverà la contraddizione esistente tra due testi di legge ? Giustiniano non previde l’astruso problema, perché egli assicura che vere antinomie non esistono nella compilazione, anzi, prevedendole appunto, consiglia l’interprete a ben indagare il contenuto delle leggi. Da questo esame, egli dice, si farà palese la diversità dei presupposti e quindi delle decisioni :

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c. Tanta 15 « Contrarium autem aliquid in hoc codice positum nullum [218/219] sibi locum vindicabit, nec invenitur, si quis suptili animo diversitatis rationes excutiet : sed est aliquid novum inventum vel occulte positum, quod dissonantiae querellam dissolvit et aliam naturam inducit discordiae fines effugientem ». Veramente in molti casi la contraddizione è apparente, e allora è ottimo consiglio quello di Giustiniano ; da un esame ponderato dei vari testi emergerà che là dove una categoria di passi enunciano una regola, negli altri si ha riguardo a casi eccezionali ; ovvero sono considerate ipotesi in sostanza diverse che giustificano le diverse decisioni. Ma altre volte, anzi in molti casi, il suggerimento dell’Imperatore riesce vano, perché l’esame acuto, sottile, induce a mettere meglio in rilievo l’antinomia. In questo caso l’interprete deve affermare senz’altro la contraddizione. La funesta tendenza, che dominò fino ai giorni nostri, di ristabilire ad ogni costo la conciliazione dei passi discordanti mediante sottili esegesi delle volte strane e anche ridicole, è da riprovarsi. Essa poteva spiegarsi solo in quei tempi in cui il diritto romano era un diritto vigente e nell’interpretazione di esso non si aveva alcun sussidio storico ; oggi è un anacronismo ricorrere alla conciliazione come metodo a sé per porre in armonia passi contraddittorii. Invece, riconosciuta l’antinomia, l’interprete deve osservar se altri argomenti estrinseci o intrinseci portino a preferire l’una o l’altra delle leggi. I criteri da seguire sono i seguenti : 1) il passo che tratta l’argomento ex professo merita la preferenza di fronte agli altri che si trovino nel contesto di frammenti riguardanti materie diverse ; 2) si preferirà la legge collocata in sede materiae in confronto di testi sparsi qua e là e inseriti probabilmente per svista ; 3) infine non è vietato di indagare se un testo contenga soltanto una notizia storica, di fronte all’altro che esprime una norma di diritto vigente. La considerazione che fa valere l’interprete in tutti questi casi è ben quella, che di fatto nelle Istituzioni, e nei Digesti principalmente, si trova, senza dubbio, molto materiale storico ; e che quando ciò sia, in un modo o in un altro, accertato, è conforme alle buone regole di interpretazione eliminarlo per mettere in evidenza la norma giuridica.

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4) Ma, se anche questi mezzi si appalesano insufficienti, l’interprete è autorizzato a scegliere fra le varie decisioni quella che corrisponde meglio all’indole dell’istituto, nel sistema della compilazione. Così facendo egli agisce in maniera conforme alla volontà del legislatore, perché è sicuro che questi, ove la contraddizione gli si fosse manifestata, avrebbe seguito lo stesso metodo per arrivare allo stesso risultato. La regola invece posta da scrittori anche moderni, che in simili casi « i passi si eliminano a vicenda e in quel punto di diritto nasce una lacuna che va colmata con i principî generali » può giustificarsi soltanto storicamente, ma essa è inesatta, perché se la compilazione [219/220] è considerata come fonte del diritto vigente è appunto al contenuto di essa che si deve aver riguardo4. Nell’interpretazione delle singole leggi poi si avrà riguardo al significato delle parole, al valore dei termini tecnici, nonché al titolo in cui la legge è riportata ed al nesso che ha con le altre che la precedono o la seguono. tale nesso fu di frequente creato artificiosamente da TrIBonIano e non sempre con risultato felice. Le particelle congiuntive, nam, enim, sed, autem, vero, item, itaque, et ideo, ergo, immo, in principio di frammenti furono inserite appunto per coordinare un passo all’altro e di ciò deve tenersi conto. Fra i sussidi per l’interpretazione delle fonti giustinianee hanno speciale importanza le elaborazioni bizantine di cui si dirà in seguito. Queste infatti furono in buona parte compiute da autori coevi a Giustiniano e parecchi di essi commissari nell’opera legislativa ; le loro opinioni hanno quindi valore di una interpretazione quasi autentica. È ancora costante l’uso degli interpreti di ricorrere per l’interpretazione dei testi legislativi al significato che aveva il testo nell’opera originale del giurista. Ciò è ora molto spesso possibile per mezzo della iscrizione del frammento nei Digesti e con l’aiuto della Palingenesia del Lenel. Già di questo metodo abusarono gli Umanisti e specialmente Cuiacio. Ma il metodo è pericoloso, perché molto spesso, anzi di regola, il significato del testo nella Codificazione ha altro valore. Per4 (1/220).

Cfr. c. F errInI , Il Digesto, Milano, 1893, p. 77.

Interpretazione del « Corpus iuris » – Interpolazioni

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ciò si deve far uso della duplex interpretatio, cioè quella originale e quella legislativa5. La compilazione considerata dal punto di vista storico. Per questo rispetto il Corpus iuris ha per noi il valore di una antologia. Quel che importa veramente è rintracciare il significato che ogni frammento aveva nell’opera genuina da cui fu estratto ; e tutti i mezzi, tutte le cognizioni storiche giovano allo scopo. E prima di tutto il testo deve essere riguardato nella connessione che esso aveva nello scritto del giureconsulto e restituito, dove è possibile, al suo dettato originario, depurandolo dalle modificazioni che poté subire per opera di Giustiniano. § 6. Interpolazioni. L’Imperatore infatti, come aveva fatto Teodosio II nel 435, investì di pieni poteri i commissari, autorizzandoli ad apportare, modificare, inserire delle aggiunte e ordinare il tutto secondo le esigenze dei nuovi tempi (c. Deo auctore 7 ; c. Tanta 10). [220/221] Questi poteri furono dati ai compilatori anche nella formazione del Codice (c. Haec quae necessario 2 ; c. Summa reipublicae 1 ; c. Cordi nobis 3). E le varie Commissioni fecero largo uso di quella facoltà. I passi estratti dalle opere dei giuristi e le costituzioni dei Principi furono accolti con notevoli alterazioni o rimaneggiamenti ; cioè : fusione di più brani in uno, mutamenti di parole o frasi o periodi ; soppressioni di elementi antiquati o procedurali o formali già aboliti o caduti in disuso ; e poi aggiunte, dove di una parola, dove di un periodo o anche d’interi frammenti. In complesso si può dire che nessun testo rimase esente da alterazioni più o meno estese, e lo stesso GIuSTInIano l’ha

5 (2/220). Sul problema vedi ora il mio articolo Interpretatio duplex del fr. 2 D. de transactionibus II, 15, in B.I.D.R., 49-50, 1947, p. 6 ss.

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avvertito dicendo multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt (c. Tanta 10) ; e nella costituzione greca parallela dice che le modificazioni introdotte nei passi degli antichi sono molte e non facili a contarsi. E ciò è vero. Le alterazioni dei testi erano un postulato dell’opera legislativa per adattare alle esigenze del nuovo diritto, in complesso profondamente mutate, tutta quella letteratura che si riferiva al diritto vigente al tempo dei giureconsulti. Altre volte però i Commissari modificarono vocaboli e frasi per semplice chiarezza o perché altre forme suonavano meglio al loro orecchio, oppure inserendo delle aggiunte soltanto esplicative ; in questi casi si parla di interpolazioni formali o anche voluttuarie in contrapposto a quelle sostanziali. tutte queste alterazioni, consistenti in omissioni, modificazioni o aggiunte si dicono con vocabolo latino « interpolationes », con voce greca « emblemata » e si sogliono attribuire a TrIBonIano , che ebbe la direzione dell’opera. Ma effettivamente esse dovettero esser fatte, in parte dai commissari che raccolsero i passi, in maggior proporzione poi dall’intera Commissione nel lavoro di coordinamento ; infatti in frammenti derivati dalle tre masse diverse, si riscontrano interpolazioni che coincidono perfettamente per i vocaboli, le frasi e lo stile. E i Commissari diedero prova di singolare abilità nelle manipolazioni dei testi, tanto che per molti secoli, quantunque il Corpus iuris fosse oggetto di profondi studi, di analisi minute e sagaci, pure le alterazioni giustinianee passarono inosservate ; il contenuto dei frammenti si attribuiva intero ai giuristi segnati nella inscriptio ; ed anche oggi, con tutti i progressi della scienza, molte ne restano inesplorate e scrittori eminenti si comportano avanti a queste indagini da scettici, dimostrando una ingiustificata riluttanza ad ammettere alterazioni dei testi antichi. Altre volte però le interpolazioni furono inserite grossolanamente e storpiano la forma e la sostanza del testo classico cui sono attaccate. Lo studio delle alterazioni dei testi non fu fatto dagli antichi interpreti, i quali del resto consideravano il Corpus iuris come un corpo di leggi ed avevano tutto l’interesse a interpretare i passi nella forma tramandata da [221/222] Giustiniano. La ricerca cominciò per l’influenza degli umanisti nel corso

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del secolo XVI, nonostante che già nel secolo XV il PoLIzIa no , l’ALcIaTo , A. AuguSTIno , avessero esplorato con acute indagini le fonti ; ma ciò per stabilire la correttezza del testo e la sua autenticità, purgandolo dalle glosse o corruttele. Era il genio dell’epoca. Il culto per l’antico incitava a ristabilire il dettato genuino dei libri o frammenti dei classici per ammirarne la perfezione formale ; e quella feconda attività degli umanisti venne a vantaggio pure delle fonti giuridiche. Il CuIacIo ne colse i migliori frutti : con la sua vasta e solida cultura, col suo ingegno sovrano poté chiarire molte interpolazioni. il suo discepolo A. FaBro (1557-1624) mostrò in queste indagini singolare acutezza ; ma esagerò facilmente, ed in definitiva, anche per il tono polemico ed acre del suo stile che trascorre ad invettive contro TrIBonIano , nocque alla causa della scienza. La ricerca poté essere ripresa nei tempi più recenti dopo circa tre secoli di trascuranza. I nuovi materiali venuti alla luce, specialmente l’opera di Gaio, i Vaticana fragmenta ecc., le scienze storiche e filologiche, progredite, vi apprestarono solida base, nuovi lumi e valido sussidio6. Di più le codificazioni dei vari stati di europa fecero perdere al diritto romano la importanza pratica, come base del diritto comune, e il Corpus iuris rimase un monumento storico, con una missione più strettamente scientifica. Per tutte queste favorevoli condizioni oggi le indagini si compiono con criteri ponderati e sistematici, e già si sono ricavati buoni frutti. I principî che si sono affermati per la ricerca delle interpolazioni dai più recenti scrittori si possono riassumere nelle seguenti proposizioni. 1. — Confronto dei passi giustinianei con quelli originali, che sono noti dalle reliquie dell’antica giurisprudenza. Varie costituzioni del Codice ci sono note dal Teodosiano, e quindi anche per esse è possibile una collazione. Il risultato è indiscutibile per la sua evidenza ; ma i materiali di paragone in complesso sono scarsi ; si sono potuti per tale mezzo con6 (1/222). Vedi Bibliografia per le opere essenziali sotto Interpolazioni, p. XXVII s.

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frontare poco più di 200 passi dai Digesti e dal Codice ricavandone però molto utili esperienze 7. Anche nei casi in cui le reliquie pregiustinianee ci pervengono dimezzate, disarticolate o altrimenti lacunose, servono bene di controllo ai passi accolti nella compilazione, investigando quelle poche lettere leggibili e la loro distribuzione nel testo lacunoso. [222/223] 2. — Le costituzioni di Giustiniano, in primo luogo le quinquaginta decisiones, ma anche le altre emanate durante la formazione dei Digesti, contengono notizie spesso dettagliate sulle riforme introdotte in molti istituti giuridici, inserite poi da commissari nei frammenti delle Pandette. In questi casi può dirsi che i rimaneggiamenti dei testi sono enunciati in modo ufficiale dall’imperatore : tuttavia questo criterio non è stato apprezzato a sufficienza, forse perché finora si è rivolta poca attenzione allo studio critico del Codice. 3. — Impossibilità storica che il giureconsulto avesse potuto scrivere il passo in quella forma che ha nei Digesti ; così nel caso che troviamo fatta menzione di forme o di istituti nuovi nei frammenti tratti dalle opere degli antichi. 4. — Contraddizioni fra vari testi, e delle volte fra i passi estratti dalla stessa opera di un autore. Certamente le controversie erano abbondanti nella antica letteratura giuridica ; né i compilatori poterono eliminarle tutte ; ma è pure provato che essi nell’introdurre le loro riforme crearono nuove antinomie, perché non potendo dominare tutta quella massa di frammenti raccolti, ne ritoccarono alcuni lasciando per svista intatti molti altri. 5. — Vizi logici e sconcordanze più o meno gravi che emergono nei testi per omissioni di periodi interi e brani o per fusione di due frammenti in uno. Rimaneggiamenti siffatti sono più visibili nelle opere che contenevano delle note fatte dai giuristi posteriori, o nei casi in cui i compilatori vollero

7 (2/222). Sul riguardo esiste un’opera magistrale : c hIazzeSe , Confronti testuali, cit. sopra e nella Bibliografia.

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sopprimere nomi di giuristi, relazioni di controversie ovvero opinioni non accolte. 6. — La lingua e lo stile possono rivelare le alterazioni subite dai testi. Il criterio è allora infallibile se troviamo l’uso di vocaboli estranei al latino dei primi secoli e propri, delle volte soltanto per il nuovo significato, del lessico dei bizantini ; come pure nel caso di dissonanze sintattiche, di frasi turgide proprie dei compilatori greci, nell’uso dei superlativi che rendono la forma enfatica senza che poi nulla si aggiunga in realtà al significato del grado positivo. in lunghi periodi non possono mancare indizi caratteristici di forma per qualsiasi riguardo. 7. — Il vocabolario e lo stile dei commissari giustinianei si sono potuti studiare e mettere in evidenza, in base alle costituzioni latine contenute nel Codice e nei tratti delle Istituzioni formulati da TeoFILo e da DoroTeo ed apportano oggi preziosi elementi di confronto. Ma indipendentemente da questi indizi i brani interpolati si manifestano spesso, com’è naturale, per certe forme proprie dello stile legislativo o aulico della cancelleria imperiale, quali : a) I verbi alla seconda e terza persona singolare o plurale nel [223/224] comunicare o esporre precetti di diritto : qui ... facere ... vellet, sciet se (D. 8, 2, 11 pr.) ; si quis ... velit ... sciat (D. 34, 1, 14, 1), o l’uso del participio futuro scituris eis (Ist. 3, 3, 6) che preannunzia addirittura l’ira imperiale, laddove i giuristi, come quelli che ben sanno di non essere legibus soluti, adoperano costantemente le forme scire debemus, dummodo sciamus, o quelle impersonali, sciendum est, meminisse oportet, dicendum est etc. b) Le definizioni generali che rivelano la tedenza generalizzatrice dell’epoca e del legislatore a formulare regole di diritto. Questa tendenza si manifesta già nei frammenti Sinaitici ed è una delle caratteristiche del lavoro delle scuole incessantemente seguita fino a noi. inoltre le decisioni dei casi singoli rese con frasi robuste e con tono di autorità come a troncar controversie, e spesso appunto inserite con tale funzione legislativa : nos generaliter definiemus (D. 25, 1, 3, 1) ; constituimus vero (D. 6, 1, 38) ; nos etiam ... aequitatem admisimus (D. 39, 3, 2, 6) ; auxilium sibi implorare non denegamus (D. 49, 1, 15).

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c) Le frasi che attribuiscono ai giuristi il potere di dare o creare azioni : Varus et Nerva utilem in rem actionem dabant (D. 6, 1, 5, 3) ; Sabinus disposuit, ut diceret (D. 23, 3, 33) ; exceptionem ei senatus consulti Marcellus non daret (D. 16, 1, 8, 2). d) L’uso dei pronomi e dei verbi alla prima persona plurale nelle espressioni sentenziative : placet nobis (D. 5, 3, 13, 1 ; D. 1, 6, 6) ; nos existimare (D. 6, 2, 7, 17), nos … probavimus (D. 9, 4, 2, 1) ; nos probamus (D. 19, 1, 11, 3) ; et nos putamus (D. 4, 8, 17, 4) ; laddove i giuristi anche qui adoperano le forme dei verbi al singolare : probo, dico, arbitror, puto, mihi videtur, placet etc., a meno che non intendano con queste espressioni collettive riferirsi ad una Scuola o al ceto dei giuristi o anche a tutti i cittadini. Altre volte le forme proprie delle annotazioni bizantine, quali le conosciamo dai Basilici e dagli scholia Sinaitica, rivelano la mano dei compilatori, essendo affatto estraneo all’uso dei giureconsulti rivolgersi al lettore o uditore con la seconda persona singolare scias, accipias. Ma se la stilistica e la fraseologia dei bizantini porgono spesso un efficace sussidio per siffatte indagini critiche, è d’altra parte giusto notare che esse delle volte non soccorrono e altre volte sono fallaci. Non soccorrono dove le alterazioni furono compiute con brevi tratti o anche con la soppressione o inserzione di una semplice particella, es. « non » ; non soccorrono nei casi in cui i compilatori adoperano frasi classiche, es. « quo iure utimur », « alio iure utimur », « ita utimur » etc., ovvero termini ricavati dallo stesso giureconsulto di cui rimaneggiavano il testo. Ma possono anche essere fallaci, perché noi non conosciamo di ogni parola o costrutto della lingua latina la esatta formazione ed il momento di origine. inoltre manca finora il lessico generale delle voci contenute nei Digesti : l’Accademia [224/225] di Berlino ne ha cominciata la pubblicazione, ma procede assai lenta e con un sistema poco comodo. Quindi i dubbi s’ergono invincibili ad ogni passo. Si aggiunga che i giuristi vissuti in varie epoche sono anche spesso, dal secondo secolo d. C. in poi, d’origine straniera, d’Africa, di siria, di Grecia, e non si è ancora con diligenza studiato il modo di scrivere dei singoli giuristi. E da queste osservazioni appare evidente che le prove ricavate

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dalla forma dei testi non possono essere considerate sempre come esaurienti, né tanto meno poi come le sole aventi forza decisiva. 8. — La connessione che il frammento aveva nell’opera genuina del giureconsulto dà quasi sempre molta luce sul contenuto originario del testo. Così se nei Digesti s’incontrano i termini giuridici traditio (D. 6, 1, 20) ; legatum (D. 30, 82 pr. ; D. 5, 1, 38) ; fideiussor (D. 46, 7, 7 ; D. 17, 1, 48) ; procurator (D. 46, 7, 7) ; pignus (D. 13, 7, 22, 2) ; ad libertatem proclamatio (D. 40, 13, 4) ; in matrimonium convenire (D. 23, 2, 15 ; D. 45, 1, 121, 1), noi possiamo facilmente indovinare che il giureconsulto spesso, delle volte necessariamente, avrà scritto : mancipatio, legatum per vindicationem o per damnationem etc., sponsor, fideipromissor, cognitor, manumissio inter amicos etc., fiducia, in libertatem adsertio, in manum convenire, osservando il testo nella sua connessione originaria. E questa constatazione è poi sempre utile anche nei più ardui problemi. A questo scopo serve mirabilmente l’opera del LeneL , Palingenesia iuris civilis, il quale ha ricostruito le opere dei vari autori giovandosi delle inscriptiones dei singoli frammenti accolti nei Digesti. Ma il Lenel tien conto pure dei frammenti dei classici a noi pervenuti per altra via, per esempio per citazioni di autori latini. Ha inoltre cercato di ripristinare l’originario ordinamento, il sistema di ogni singola opera, quindi con sufficiente sicurezza ha determinato le rubriche dei singoli libri e emendate, per questa via, molte inscrizioni. Dove poteva segnò anche le interpolazioni di Triboniano ; rendendo così, per quanto era possibile allora, il contenuto genuino del testo. Ma si avverta quanto fu detto sopra circa la necessità di badare alla interpretatio duplex (v. sopra p. 258 s.). 9. — Le fonti greche, delle quali sarà tenuto discorso più oltre, possono in alcuni punti dar lumi per le dottrine del diritto classico, per la struttura e la forma genuina dei passi dei giureconsulti romani. Perché le versioni, gli indici e le paragrafe ordinati dai giuristi coevi di Giustiniano sulla compilazione riproducono qua e là i lavori compiuti dai maestri beritesi sui libri dei

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giureconsulti romani. Questo sussidio, però, finora è stato del tutto trascurato. [225/226] 10. — Le interpolazioni giustinianee, o in ogni caso postclassiche, sono evidenti nei casi in cui si può stabilire eseguita nel testo innovato la fusione tra ius civile, honorarium e extraordinarium. Ciò appare evidente dove con certezza fu soppressa la exceptio (30 D. 12, 1) ovvero la menzione delle forme solenni (fr. 1, 3 D. 2, 14) o la fusione di istituzioni del ius civile e del ius extraordinarium, es. legata e fideicommissa (fr. 1 D. 30), e così di seguito. 11. — Le nuove tendenze del diritto più recente, in opposizione al diritto esposto dai giureconsulti, possono, quando sia bene accertato, dar molta luce per la critica dei testi, anche là dove la ricerca, per difetto di indizi esteriori, presenta difficoltà gravi. Questo criterio a me pare legittimo quanto gli altri e forse più degli altri. Infatti le indagini critiche, compiute con quei mezzi meccanici della collazione, lingua, stile, ecc. ci danno come risultato certo che una data decisione o un determinato principio furono inseriti da TrIBonIano al posto della decisione o del principio enunciato dal giureconsulto. Ebbene la somma di tutte queste esperienze raccolte con le indagini più sicure autorizzano l’interprete a determinare alcuni principî generali che furono applicati dai compilatori greci in opposizione al diritto classico. Con la scorta di essi si possono risolvere molti problemi difficilissimi che presentano i testi, per decisioni delle volte discordanti da altri passi, o per contraddizioni evidenti nei frammenti di uno stesso autore. S’intende che nell’uso di questo criterio occorre molta circospezione. e finora si può dire che esso non è entrato in campo, perché mancano i lavori riassuntivi delle interpolazioni dal punto di vista del loro contenuto. Ma tuttavia si possono fin da ora indicare come accertati i principî, che figurano nella compilazione come le linee direttive del nuovo diritto, e che in gran parte sono da attribuire all’influsso del Cristianesimo, come fu sopra dimostrato : a) la speciale considerazione per i deboli, gli schiavi, gli umili, i debitori, le donne, in favore dei quali si fanno valere piuttosto precetti evangelici che argomenti di indole giuridi-

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ca, in nome della pietas, della humanitas. Già progredendo per questa via si arriva a porre un principio che non si può negare, quello che « mihi quidem prodesse potest, ipsi vero nihil nociturus est » (D. 39, 3, 2, 5), e ad apporre un limite intrinseco all’esercizio dei diritti ; soltanto nel diritto giustinianeo è proclamata la massima che non si deve abusare del proprio diritto unicamente per danneggiare l’altrui (cfr. D. 39, 3, 1, 12), e questo principio di socialità è fatto valere con insistenza in varie direzioni e forme, negli istituti giuridici. b) una nuova concezione dell’ideale di giustizia, che mira a ristabilire l’equilibrio economico tra due patrimonii in base a computo semplicemente materialistico ; e senza considerazioni dei fatti giuridici o del demerito della [226/227] persona che ebbe a soffrire una diminuzione nel suo patrimonio. GIuSTInIano a conseguire questo ideale formulò la massima : non enim debet ... ex aliena iactura lucrum facere (D. 5, 3, 38 pr.), di cui si hanno applicazioni innumerevoli in tutti gli istituti giuridici, specialmente nel campo dei diritti reali e d’obbligazione. c) scriptura, instrumentum : la prevalenza della scriptura sulle forme orali illustrata più sopra, che è naturalmente uno dei caratteri del nuovo diritto. 12. — si disse già avanti che le interpolazioni hanno nella stragrande maggioranza soltanto carattere formale, non importano variazioni nel contenuto del diritto. Ciò si deve intendere nel senso che i compilatori non crearono, interpolando i testi antichi, nuovo diritto ; bensì accomodarono quei testi allo stato del diritto del loro tempo, mutato, come si è detto sopra, per la fusione dei vari ordinamenti giuridici, per la caduta delle forme solenni orali, per l’influsso dell’etica cristiana, delle condizioni economiche e così di seguito. In questo senso non sono innovazioni le regole generali formulate dai compilatori ; e nemmeno quelle aggiunte limitative o in generale interpretative, che occorrono molto di frequente. Una considerevole categoria di queste era richiesta dalla natura dell’opera, che doveva rappresentare un Codice. Infatti le decisioni dei giuristi erano per lo più date sui casi particolari, pratici ; nella compilazione quelle stesse decisioni venivano ad assumere tutt’altra importanza, il valore cioè di norme generali, da ciò la necessità di mettere sull’av-

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viso l’interprete con brevi aggiunte del seguente tenore : nisi evidens sit contraria sententia (o mens, o voluntas) testatoris (D. 30, 17, 1 ; cfr. D. 33, 9, 3, 2 e 3) ; nisi contrarium ab herede approbetur (D. 32, 33, 2 ; cfr. D. 7, 1, 58, 2) ; nisi haec fuit voluntas (D. 32, 55, 9) ; nisi aliud voluisse (o sensisse) testatorem probaretur (D. 40, 5, 41, 15 ; D. 32, 93, 3) ; nisi specialiter id actum est (D. 3, 5, 9 (10) pr.). A volte, nelle aggiunte, si mettono in rilievo altri elementi di fatto cui la decisione del giurista espressamente o tacitamente non si riferiva, es. : nisi aliqua culpa interveniat ; nisi forte cum posset res comodatas salvas facere suas praetulit (D. 13, 6, 5, 4). I compilatori furono facilmente tratti ad eccedere in codeste avvertenze circa gli elementi specifici del caso risoluto, tanto che alcuni critici hanno potuto constatare come caratteristica del diritto nuovo il riguardo eccessivo alla volontà concreta in contrapposto alla disciplina generale degli istituti classici. Determinati così i criteri che debbono guidarci nella ricerca delle interpolazioni, è ovvio notare che il risultato, in ogni singolo caso, sarà tanto più sicuro quanto più larga e completa sarà l’indagine e quanto più elementi varî coincidono a confermarlo. [227/228] È opportuno ancora aggiungere che i risultati che si ottengono dall’esame critico dei testi servono bensì, in primo luogo, per lo studio scientifico del Corpus iuris, ma hanno anche importanza per il diritto giustinianeo ; perché siffatte indagini mettono nella giusta luce e in maggior rilievo i nuovi principî codificati da GIuSTInIano in opposizione al diritto antico, e giovano allo scioglimento di antinomie per altra via insolubili. Altra questione è quella relativa alle fonti delle interpolazioni giustinianee. Alcuni scrittori moderni, con una certa insistenza, sono proclivi a ritenere che TrIBonIano trasse non solo le linee direttive di quei cambiamenti, ma anche le singole innovazioni ai testi, dagli stessi manoscritti che si trovavano largamente glossati. Ma su questo problema, e sulle pretese elaborazioni scolastiche, noi abbiamo dato nei capitoli precedenti tutti gli elementi per un giudizio più adeguato, escludendo in modo as-

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soluto qualsiasi attività creatrice delle scuole, e ammettendo invece, con certo discernimento, le interpolazioni che potevano trovarsi nelle opere distinate alla pratica. Cfr. Capo XII, p. 241 ss. Glosse. — Dalle interpolazioni sono da tenere ben distinti i glossemi, cioè le annotazioni poste dagli studiosi nel margine dei manoscritti antichi, e che via via s’infiltrano nei testi nelle successive ricopie. Nei manoscritti dell’antichità, di qualsiasi natura, le glosse marginali abbondano, tanto più poi nei libri di diritto, che erano obbietto di studi per i bisogni della pratica. Molte di esse dovevano esistere nelle opere genuine dei giureconsulti e passarono poi nella compilazione, inosservate o accolte di proposito8. Un numero ancora maggiore s’insinuò nei testi ufficiali giustinianei dei secoli successivi. Anche in egitto furono glossati i Digesti, come ci venne rivelato da un foglio di papiro frammentario posseduto dall’Università di Aidelberga n. 1272. La distinzione dell’una categoria dall’altra è più che difficile ; ma tuttavia, anche qui, la versione greca del testo, ove ci sia conservata, offre il miglior argomento per un giudizio nell’un senso e nell’altro. Però anche questo confronto non deve ritenersi infallibile ; infatti se la versione greca proviene dal periodo pregiustinianeo la discordanza col testo latino può derivare tanto da una glossa antica sul testo latino, quanto da un’aggiunta insinuatasi dopo la compilazione in occidente e infine da interpolazione tribonianea. Per fortuna le glosse non hanno ordinariamente nessuna importanza, perché hanno di consueto una funzione esplicativa or di una parola, or di tutto un periodo, or di un principio di diritto. Il LeneL , per altro, assai spesso [228/229] designa nella Palingenesia come glosse frasi e periodi che contengono il nuovo diritto e sono facilmente interpolazioni giustinianee. Queste caratteristiche peculiari delle glosse non sono poi unica guida per distinguerle dalle interpolazioni ; ma serve anche allo scopo l’osservazione della lingua e dello stile che non presentano quelle particolarità notate più avanti.

Vedi ad es. i glossemi nel libro 29 ad edictum di Ulpiano in Le Palingenesia, cit., II, c. 608, nt. 1.

8 (1/228).

neL ,

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L’argomento dei glossemi meriterebbe uno studio da tutti i punti di vista ; il confronto con i testi greci, l’osservazione delle glosse rilevatesi nelle fonti pregiustinianee e nelle opere letterarie latine, e, più di tutto, l’analisi, per il contenuto e la forma di tutto il materiale, dovrebbero dare insegnamenti proficui9. Appendice al § 6. Interpolazioni La critica del fr. 32 pr. D. 15, 1, di Ulpiano, 2 disput. Si è detto che la grande maggioranza delle interpolazioni sono formali e non sostanziali, ciò nel senso che seppure rinnovano i testi classici ed il punto di diritto ivi trattato, tuttavia esse non creano nuovo diritto, ma mettono i testi in armonia con lo sviluppo del diritto nella sua evoluzione. Si è detto che l’entusiasmo, o lo sdegno, degli scopritori d’interpolazioni (es. gli umanisti che le condannavano tutte come facinora Triboniani) aveva diffuso ed affermato l’idea che le stesse avessero creato tutto un diritto nuovo sotto l’influsso delle dottrine dei Bizantini e delle consuetudini dei paesi orientali. Quest’errore è stato ormai superato e l’opinione dominante è ferma nella valutazione di esse qui enunciata. È bene che di questa lo studioso abbia un esempio chiaro e tra quelli più notevoli e dibattuti ; perché il problema è di quelli fondamentali. Inoltre il testo di Ulpiano citato rappresenta una pietra miliare nello sviluppo del diritto romano. Nella valutazione del testo ci troviamo ormai irretiti in un labirinto da cui non riusciamo a liberarci. Ma la importanza storica e dommatica della decisione, che è riportata a Giuliano, è così grande che la insistenza per venire ad una decisione chiara e definitiva è giustificata, trattandosi, come io stimo, del testo sotto certi aspetti più notevole del Corpus iuris civilis. Si noti che l’Index interpolationum segna sei autori gravissimi del secolo passato, tra i quali l’Alibrandi, che attaccarono il testo ; e poi, dopo il rinvenimento della perga-

9 (1/229). Uno studio delle glosse negli scritti a noi pervenuti dei classici è stato eseguito da Edoardo Volterra.

Appendice al § 6. Interpolazioni

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mena di Strasburgo, ancora diciassette, in contrasto, senza contare quelli degli ultimi tre lustri, tra i quali primeggia lo Schulz nella celebre opera testé edita10. È bene pertanto avere sott’occhio il testo legislativo : [229/230] sed licet hoc iure contingat, tamen aequitas dictat iudicium in eos dari, qui occasione iuris liberantur, ut magis eos perceptio quam intentio liberet : nam qui cum servo contrahit, universum peculium eius quod ubicumque est veluti patrimonium intuetur. Nessuno vuol contrastare la soppressione nel principio del passo della parola « civili » dopo « iure » bene indicata da Schulz ; dico anzi che i Compilatori hanno eliminato una seconda volta nel passo la stessa parola, nella frase « occasione iuris » : l’originale doveva dire « iuris civilis » (cfr. Paolo fr. 1, 1 D. 44, 4, « per occasionem iuris civilis »). Ma siffatte eliminazioni nelle fonti giustinianee sono ormai bagattelle nel quadro delle nostre esperienze interpolazionistiche e si riscontrano nella Compilazione cento volte. Esempi : nel fr. 36 D. 45, 1, « suptilitate iuris » era nel testo « iuris civilis » ; nel fr. 91, 3 D. 45, 1 (Celsus) , « sub auctoritate iuris scientiae » era nell’originale certamente « iuris civilis scientiae ». Cfr. Cicerone, De orat. 1, 50, 216, perché la « scientia iuris » per i giureconsulti romani è soltanto quella del ius civile11. Ma lo Schulz insiste nel dire che il termine « civili » mancava pure nella pergamena di Strasburgo12, come risulterebbe dal computo delle parole nel rigo. Egli dice appunto che la parola « civili » non entrava nel rigo. A ciò rispondiamo che siffatti argomenti tratti da computi di un documento distrutto sono sempre pericolosi ; ma di più, nel caso nostro, si osserva che nei manoscritti giuridici avanti Giustiniano l’uso delle sigle è costante e la frase « iure civili » segnata con la sigla ıc̅ ̅ entrava nella cruna di un ago. Ma, inoltre, Schulz attacca l’espressione « aequitas dictat » che, egli dice, non ha riscontro nella letteratura latina, tranne che in Ammiano Marcellino che scrive « aequitate History, cit., p. 240 s. Ma è pure da notare per nostra esperienza nella critica dei testi che a volte i Compilatori senza andare per il sottile hanno sostituito « iure civili » dove era altra indicazione più particolare : cfr. 24 D. 35, 1. 12 (2/230). Cfr. sopra p. 238. 10 (2/229).

11 (1/230).

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La Compilazione Giustinianea

dictante ». Argomento nuovo questo e gravido di pericoli, giacché finora si segnavano frasi e vocaboli come interpolati perché aventi un significato nuovo, ignoto ai classici, mentre con questa nota lo Schulz aggiunge e sospetta frasi e vocaboli soltanto perché attestati una sola volta, per quanto siano appropriati. E dove si va con siffatto metodo ? Nell’esperimento pratico, quante espressioni di poeti, di filosofi, di storici, di oratori bisognerebbe rinviare all’esame di un ufficio di statistica per accertarne la genuinità, applicando la massima « unus testis nullus testis ». Ma contro una pretesa siffatta si prova col Thesaurus alla mano che il verbo dictare nell’uso traslato si legge nella letteratura latina in un elenco ricchissimo con tutti i possibili soggetti : natura, anima, domini auctoritas, ratio, occasio, fatum, tempus, ira, laetitia, dolor, animus, antiquitas, legum auctoritas, dictantes iura Latinos, veteres dictaverunt [230/231]. Si deve riconoscere che nessuna frase è più appropriata di « aequitas dictat ». Stando cosi le cose, bisogna uscire dal pelago per altra via. Vuole lo Schulz seguire l’opinione più radicale, sostenuta da alcuni, che sospettano l’origine post-classica del brano intero ? Naturalmente, egli deve essere proclive a questo giudizio, avendo nella sua eccellente opera attribuito una larghissima attività ai post-classici nell’epitomare, annotare, rimaneggiare le opere dei giuristi antichi, in una proporzione che apparirà incredibile a tutti. Ma sia pure, perché bisogna semplificare l’imbrogliata matassa alla più semplice espressione, a quel che è necessario e certo ai nostri fini, e prendere finalmente una soluzione chiara e decisa. Diciamo dunque con lo Schulz che lo squarcio in esame derivi tutto dalla mano di glossatori post-classici. In questa ipotesi la redazione del brano dovette avvenire necessariamente in tempo assai vicino a Diocleziano, come prova il rimedio rescissorio invocato. Allora quel dettato rappresenterebbe il compimento necessario dello sviluppo del diritto segnato già dai classici. Nulla di più ; niente di nuovo, tranne il riconoscimento concreto in un altro esempio che la litis contestatio è ormai senza alcun effetto sostanziale, un momento qualsiasi del processo, onde la conseguenza che soltanto il pagamento, e non l’atto formale nel processo, estingue il rapporto obbligatorio. In questo senso Gaio (3, 168 ; 4, 114) ha esempi più avanzati, nel senso che

Appendice al § 6. Interpolazioni

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attribuisce ai suoi maestri sabiniani estinzione del rapporto obbligatorio, dopo la litis contestatio, al semplice pagamento del debito, ovvero ritiene estinta l’obbligazione col pagamento di cosa diversa da quella in obbligazione, e ciò senza il rimedio della exceptio doli. Il contrasto dei Proculiani è già molto significativo nell’indagine storica rispetto all’avanzamento così deciso del diritto sostanziale in confronto a quello formale. Né si deve dire, come si è fatto, che in tale ipotesi tutto il formalismo romano nella prima metà del secolo II sarebbe dovuto sparire in modo completo. Rispetto ai Romani siffatte conseguenze sono assurde, perché la giurisprudenza lavora col metodo del caso singolo, lentamente e non trae subito conseguenze teoriche e generali. Posto così il problema, cioè dal punto di vista sostanziale, tutte le altre note, osservazioni, congetture, raffinatezze critiche diventano quisquilie. Raggiunta una conclusione dal lato storico e dommatico, tutta codesta erudizione diventa zavorra, perché lo storico o il dommatico poggia i piedi saldamente su terra ferma. Ecco dunque un esempio preclaro, in cui, pur ammettendo l’interpolazione di tutto il testo, quella non rappresenta una innovazione creata dai post-classici, bensì il compimento dello sviluppo del diritto, se così piace, subito dopo i classici. [231/232]

c aPo xIv. viCenDe DeLLA CoMPiLAzione in oRiente

§ 1. Le scuole post-giustinianee. I. Il più grande legislatore della terra, fatte le leggi, emise delle prescrizioni molto severe per assicurarne l’osservanza e la tradizione incontaminata. Egli riserbò a sé il compito di interpretare, 12 C. 1. 14 ; vietò che si scrivessero commenti alle sue opere e impose determinate forme ai lavori dei giuristi, cioè permise soltanto le traduzioni letterali (κατὰ πόδας), sunti (indices) e sommari dei singoli titoli con citazioni dei passi paralleli (παράτιτλα), c. Deo auctore 12 e c. Tanta 21. Queste limitazioni riguardavano anzitutto la parte più essenziale della codificazione, i Digesti : ma secondo il pensiero dell’Imperatore, esse dovevano senza dubbio valere anche per il Codice e le Istituzioni. In caso di trasgressione, minacciò gli autori della pena di falsari, confisca e distruzione dei libri. Ma questi divieti furono ben tosto violati, lui regnante, dagli stessi redattori di quelle costituzioni che fulminavano le pene. Né poteva essere altrimenti. Poiché se l’attività scientifica da questo momento in poi si dirigeva necessariamente verso i libri di Giustiniano, se forse le forme esteriori delle elaborazioni corrispondevano in massima ai voleri dell’Imperatore, è certo però che nel contenuto di esse si nascondeva il contrabbando ; e di più vennero fuori subito commentari del testo εἰς πλάτος, parafrasi, dilucidazioni esegetiche e dommatiche dette παραγραφαί,

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Vicende della Compilazione in Oriente

che violavano apertamente gli ordini imperiali. La tradizione scientifica non poteva essere spezzata d’un colpo dalla nuova codificazione e non lo fu di fatto. noi l’abbiamo osservato a proposito degli scholia Sinaitica, rimasti in uso anche dopo la codificazione. Del resto il vero significato e la portata dei divieti di Giustiniano, di cui s’è detto, è chiarito ora dal Berger, nel senso che i commentarii non erano esclusi, ma dovevano seguire rigorosamente il testo legislativo. Ciò si desume osservando con maggiore attenzione il testo greco della c. Tanta, che costituì come è probabile la prima redazione della costituzione [232/233]. Se quindi il lavoro dei primi interpreti è assai attivo e fecondo, esso si adagia su tutta la produzione scientifica preesistente. Le versioni, gli indici, le paragrafe ordinate dai coevi di Giustiniano riproducono in buona copia il lavoro compiutosi sui libri dei giuristi romani in oriente, nel periodo aureo della scuola di diritto, cioè dal sec. III al V. Così la letteratura giuridica degli antichi maestri greci, con abili ritocchi, di solito per via di note marginali, fu messa in concordanza con la compilazione, e formò il sustrato di nuove opere ; certo in un modo o in un altro essa fu ampiamente utilizzata. ii. Dal secolo terzo in poi l’attività scientifica si concreta nelle scuole di diritto d’oriente. BerITo è il nuovo centro degli studi giuridici ; ivi fiorì, nel tempo più vicino a Giustiniano, una schiera eletta di Maestri, che vengono ricordati dai coevi di Giustiniano con altissimi nomi e grandi lodi, cioè eroi, maestri dell’universo. Soltanto di alcuni di quei maestri sono a noi pervenute notizie e tracce della loro attività. 1. CIrILLo , il più antico tra i celebrati, insegnò a Berito, compose un commentario definitionum di cui si cita il titolo de pactis ; 2. DoMnIno ; 3. DeMoSTene ; 4. PaTrIcIo più vicino alla compilazione di Giustiniano e menzionato nella c. Tanta - Δέδωκεν insieme a EudoSSIo . Del carattere delle loro opere e dei sistemi d’insegnamento sappiamo appena qualcosa. Commentarono le Istituzioni di GaIo in una versione greca che fu in uso fino a Giustiniano, i libri di ULPIano ad Sabinum, come abbiamo appreso dagli scholia Sinaitica.

Le scuole post-giustinianee

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E da questi frammenti appare che la letteratura giuridica romana più recente del secolo II e III vi era nota e studiata in forma di commenti scolastici, ridotta in sunti, in massime con illustrazioni e copiosi confronti. I tre codici pregiustinianei, tutti compilati in oriente, erano poi obbietto di studio, commentati e tradotti e epitomati in greco. Questa attività delle scuole orientali ha dunque un carattere eminentemente recettizio non creativo, sul quale argomento abbiamo insistito ripetutamente. Di tutti questi lavori abbiamo cenni e tracce nella letteratura posteriore che passiamo a considerare. III. Già al tempo di Giustiniano la conoscenza della lingua latina era quasi perduta in oriente. Da ciò la necessità di avere versioni o sunti in greco del testo latino per la scuola e per i bisogni della pratica. A questo lavoro si dedicarono i coevi di Giustiniano ed in buona parte esso fu compiuto da quelli stessi antecessores che furono adibiti alla commissione legislativa. A) SULLE ISTITUZIONI

1) TeoFILo ordinò una parafrasi del testo delle Istituzioni detta oggi paraphrasis graeca Institutionum. Si servì all’uopo di un κατὰ πόδας di GaIo che adattò al nuovo testo imperiale. Questa opera è pregevolissima per [233/234] ogni riguardo, sia perché rappresenta ininterrotta la tradizione della scuola, sia perché offre molte notizie storiche e tracce copiose del diritto antico, ed infine per la lucida esposizione. L’edizione del Ferrini è del 1884-97. Fu compiuta appena dopo la codificazione e forse prima del 536. 2) D’altre elaborazioni greche delle Istituzioni, si hanno sparute tracce, ma sicure. B) SUI DIGESTI

I lavori sui Digesti sono naturalmente più numerosi : a) Lo stesso T eoFILo , sopraricordato, compose un index che arrivava forse fino al libro 17. b) DoroTeo elaborò dopo il 542 tutto il Digesto in un indice più conciso che porta notizie della condizione originaria dei testi classici. Si deve quindi supporre che egli abbia utilizzate traduzioni anteriormente eseguite nelle scuole d’oriente sui testi latini. c) ISIdoro fece altro indice del Digesto, incompleto.

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Vicende della Compilazione in Oriente

d) STeFano curò un sunto dei primi 36 libri, che erano obbietto d’insegnamento nella scuola. Al sommario seguivano numerosissime paragrafe con molti elementi antichi tratti da lavori pregiustinianei. e) AnonIMo , ignoto autore, forse discepolo di Stefano, così indicato, vissuto verso la fine del regno di GIuSTInIano e sotto GIuSTIno II ; fece una summa dei Digesti alla quale nel sec. VII furono aggiunte illustrazioni. f) CIrILLo , contemporaneo al precedente, scrisse un’Epitome ancor più concisa. C) SUL CODICE

1) TaLeLeo , professore beritese, fece la illustrazione più importante sul Codice. Nel suo lavoro utilizzò le versioni greche dei codici pregiustinianei, come egli stesso accenna, spesso quindi egli riporta nel κατὰ πόδας le costituzioni genuine, senza le alterazioni dei compilatori. La versione è preceduta da un index e seguita da illustrazioni. 2) ISIdoro elaborò un indice con brevi osservazioni in vari luoghi. 3) AnaToLIo , forse lo stesso antecessore beritese che fece parte della Commissione per i Digesti, fu autore di una summa del Codice, cospicua per stringatezza. 4) STeFano , sulla fine del regno di Giustiniano, scrisse una Epitome del Codice, di cui rimangono poche tracce. 5) Teodoro , scolaro del precedente, fece un compendio anche esso molto conciso [234/235]. D) SULLE NOVELLE

Essendo queste per lo più in greco, non richiedevano speciali elaborazioni, ma ne furono fatte delle epitomi. Di queste, due sono pervenute fino a noi ; una dello stesso teo doro , ora ricordato, desunta dalla raccolta di 169 Novelle, e fatta probabilmente sotto MaurIzIo (582-602), l’altra di ATanaSIo , sotto GIuSTIno II (565-578), in un’epitome ordinata per materia e divisa in 22 titoli. Il compendio in latino di 122 Novelle, curato da GIuLIano , è stato ricordato di sopra (p. 251). Di tutti quei lavori o commentari sulle parti della compilazione di Giustiniano, noi conosciamo direttamente solo la parafrasi delle Istituzioni di TeoFILo ; di tutto il resto, quel tanto

Compilazioni orientali

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che ci pervenne dalle compilazioni posteriori, principalmente dai Basilici, nel testo ufficiale e nell’apparato degli scholia. § 2. Compilazioni orientali. Per ordine degli Imperatori Bizantini, dopo GIuSTInIano , furono fatte varie epitomi della legislazione Giustinianea. Con introduzione, fu compilato per ordine dell’Imperatore BaSILIo IL M acedone (867-886) un manuale detto πρόχειρος che poi fu rielaborato sotto Leone col titolo ἐπαναγωγὴ τῶν νόμων. Ma una revisione più ampia dei libri di Giustiniano, già iniziata per ordine di Basilio il Macedone tra 883 e 886, e compiuta dal figlio Leone IL F ILoSoFo (886-911), fu pubblicata come Codice col titolo τὰ βασιλικά in 60 libri, divisi in titoli, nei quali erano ordinate le leggi in capita. Quindi tutte le parti della compilazione furono fuse in un unico corpo. L’ordine seguito fu quello del Codice. Nel secolo X ai capita furono aggiunti scholia con illustrazioni, confronti, richiami di passi paralleli o divergenti. Il materiale in complesso dei Basilici, sia per il testo come per gli scholia, fu ricavato da lavori privati cioè da commentari greci del secolo VI, descritti più sopra. Per le leggi dei Digesti fu preferita la somma dell’a no nIMo per la sua concisione ; per il Codice la versione di Ta LeLeo . Quindi i testi Giustinianei sono riportati nei capita in sunto, senza opinioni discrepanti, con i nomi dei giuristi eliminati, e, in buona parte, senza le motivazioni che erano nei brani originali. Del resto i compilatori dei Basilici non alterarono i testi tratti dalle somme, soltanto tradussero in greco pure i termini tecnici latini, che erano dagli interpreti del secolo vi conservati con flessione grecizzata, e omisero quei tratti in contraddizione con nuove leggi [235/236]. in seguito furono aggiunti, dal secolo X fino al secolo Xii, scholia, nei quali si rinvengono commisti elementi tratti dai giuristi contemporanei di Giustiniano ed altri d’origine più recente e di poco valore. Dei Basilici a noi è pervenuto il testo quasi completo, gli scholia in parte, misti, come fu detto, gli antichi e i più recenti. L’edizione di Heimbach è ora insufficiente.

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Vicende della Compilazione in Oriente

Ma verso il 950 anche i Basilici furono rielaborati in uno specchio conciso, dal titolo Synopsis Basilicorum che rappresenta in ordine alfabetico i capi estratti dai Basilici, senza gli scholia. Il cosidetto Tipucito (da τὶ ποῦ κει˜ται) contiene un repertorio tratto dai Basilici nel secolo XI ; il suo valore è molto scarso. Finalmente la più moderna compilazione del diritto romano bizantino è lo ἑξάβιβλος di c oSTanTIno a rMenoPu Lo giudice di Tessalonica (Salonicco) ; il lavoro fu compiuto verso il 1345 in base alle collezioni precedenti, anche di manuali più antichi. Esso fu munito di forza legislativa per il Regno di Grecia con decreto del 23 febbraio 1835. Le fonti greche descritte hanno per noi importanza di primo ordine. Anzitutto, per stabilire il testo latino giustinianeo ; giovano, nei casi che i manoscritti noti siano lacunosi, a ricostruire frammenti o costituzioni perdute, o anche singole parole ; in altri casi a correggere la lezione dei testi latini1, in altri a confermarla ed allora, malgrado la parola o la frase faccia difficoltà, la coincidenza dei testi greci e latini toglie ogni dubbio relativamente alla lezione giustinianea. Il valore dei testi greci in questa direzione fu riconosciuto nel secolo XVI dal CuIacIo ed ai tempi moderni convenientemente apprezzato dal MoMMSen e dal Krüger nella edizione del Digesto e del Codice. Nelle edizioni più moderne del Corpus iuris sono segnati in calce ad ogni singolo frammento o in nota al titolo i luoghi corrispondenti dei Basilici 2. in secondo luogo, esse apprestano in vari punti efficace sussidio per la cognizione del diritto classico e per la struttura dei frammenti nelle opere originali dei giureconsulti, appunto perché, come si è detto, molti elementi in esse incorporati hanno origine vetusta, derivano dalle elaborazioni giuridiche pregiustinianee. 1 (1/236). Così nell’opera legislativa si sono potuti correggere moltissimi nomi : Maecianus per Marcianus D. 3, 2, 22 ; Priscus et Neratius per Proculus et Neratius D. 7, 8, 10, 2 ; Neratius per Trebatius D. 41, 10, 4. Quest’ultimo, per altro è molto dubbio. 2 (2/236). Così nella edizione del MoMMSen .

Compilazioni orientali

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In terzo luogo, essendo quegli interpreti coevi a Giustiniano ed alcuni collaboratori nell’opera della codificazione, le spiegazioni che danno dei testi hanno un valore particolare ; specialmente per quel che ha tratto alle nuove teorie e concezioni giuridiche, la loro interpretazione è quasi autentica. [236/237]

c aPo xv. viCenDe DeL CoRPUs iURis in oCCiDente

§ 1. Medioevo. Non è improbabile che un edictale programma abbia estesa la legislazione giustinianea all’italia fin dal 538 : certo l’estensione di essa è presupposta e confermata dalla pragmatica « pro petitione Vigilii » del 554. E anche in Italia fu oggetto di una discreta elaborazione scientifica di cui son testimoni : la Glossa torinese alle Istituzioni (interessante quel suo riallacciarsi a una letteratura giuridica anteriore che si riflette anche nella parafrasi di teofilo), alcune parti della Glossa Bambergense alle Istituzioni, alcuni scolii o summarii o parati all’Epitome Juliani, il dictatum de consiliariis e la collectio de tutoribus. Già in quegli scritti era manifesta la inferiorità della cultura giuridica italiana di fronte alla bizantina e la decadenza si aggravò in seguito. Pochi decenni dopo il Pontificato di Gregorio i, nel cui epistolario vi sono tracce notevoli di uno studio non superficiale delle fonti giustinianee, la rovina degli studi legali si palesa, entro i confini stessi di Roma, nelle Adnotationes codicum note sotto il nome di Summa Perusina e negli scolii dell’Epitome Juliani. Le Pandette erano già dimenticate ed il Codice ridotto ad un magro compendio che, soppressi i tre ultimi libri, riduceva ad un quarto o poco più le costituzioni comprese negli altri : né a questo lavoro di riduzione sfuggirono la Epitome Juliani

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Vicende del Corpus iuris in Occidente

e le Institutiones. Da noi la cultura scese fors’anche ad un livello più basso che non in Francia, ove intorno al Breviarium Alarici si ebbero delle glosse non spregevoli e dei compendi come l’Epitome Egidii, l’Epitome Monachi, la Scintilla, la Lugdunensis e la Guelpherbitana ; significativo sopratutto il confronto con la cosidetta Lex Romana Rhaetica Curiensis, un’epitome della stessa fonte, la cui paternità è disputata tra la Rezia e l’Italia Settentrionale. L’attività illustrativa dei testi si ridusse allora a scarse glosse lessicali e grammaticali, compilate col sussidio dei glossari tralaticî ; ma ai primi del X secolo un certo progresso si manifestò nella Glossa Bambergense alle Istituzioni e nella Pistoiese al Codice [237/238]. La Chiesa che nel diritto romano trovava la sanzione dei suoi privilegi ne aiutava lo svolgimento ; già nel secolo IX il Codice aveva dato materia agli Excerpta Bobiensia e alla Lex Romana canonice compta ; verso la fine del secolo medesimo la cosidetta Collectio Britannica accolse anche gli excerpta delle Istituzioni e delle Pandette, la cui prima citazione si trova fatta in un placito toscano del 1096. Così nelle collezioni canonistiche del tempo il diritto romano acquista sempre terreno : copiosissimi elementi offrì poi alle opere di Anselmo da Lucca, di Bonizone, del Cardinale Deusdedit, del Cardinale Crisogono, di Ivo di Chartres ecc. Il diritto giustinianeo era ormai studiato in tutte le sue parti a Ravenna, a Pavia, a Mantova ; serviva a plasmare il diritto longobardo nella Expositio e nel Liber Papiensis ed era oggetto di speciale esegesi nelle glosse di Colonia alle Istituzioni e alle Epitome Juliani che il FITTIng vorrebbe attribuire al GuaLcoSIo . E vi erano anche dei tentativi di trattazione sistematica ; sulla base del libro di Tubinga e del libro di Ashbournham si redigevano infatti, probabilmente in quei tempi, le Exceptiones Petri, e, forse, sul modello delle Istituzioni si componeva il Brachylogus. Ad età più recente si devono invece attribuire i più fra gli Juristische Schriften des früheren Mittelalters che il FITTIng volle già scaglionare fra il VI e XI secolo, la Glossa di Monteprandone al Codice, la Glossa Torinese delle Istituzioni nella parte più recente, le Quaestiones de iuris subtilitatibus e la Summa Codicis di Troyes.

La scuola di Bologna

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§ 2. La scuola di Bologna1. Una nuova èra per il diritto romano comincia nel secolo XI nella scuola di Bologna con i glossatori : cioè i maestri di diritto, dalla fine del secolo Xi alla metà del Xiii secolo, della università di Bologna. In questo momento si inizia un’attività scientifica nuova, non limitata più, come per lo innanzi, ai manuali di scuola foggiati sulle Istituzioni giustinianee e in forma di regole nude, ma che si estende a tutte le parti della compilazione di Giustiniano, che ora è oggetto di studio profondo. L’origine della scuola bolognese è, per vari riguardi, incerta ; si indicava IrnerIo come fondatore, e certamente questo grande maestro ebbe molta influenza per il risveglio scientifico di questo periodo. Ma egli ebbe dei precursori, tra questi PePo verso il 1070 ; mentre già il lavoro più intenso sui libri del diritto era cominciato in Roma e in Ravenna nel tempo immediatamente precedente. Così si spiega come già Irnerio abbia conoscenza di tutte le parti della compilazione e domini tutta la materia [238/239]. Il metodo di studio era esegetico. Si studiavano i testi nell’ordine con cui si trovano nella Compilazione (cosidetto ordine legale), interpretandone il senso, facendo dei confronti con passi paralleli o analoghi, componendo le antinomie con il sistema delle conciliazioni. Il risultato di tali indagini veniva annotato con glosse, da prima tra le righe del testo (glossae interlineares) poi nel margine dei manoscritti (glossae marginales) e da questo metodo deriva il nome di glossatori. Il merito dei maestri bolognesi è immenso : con un acume mirabile, con una conoscenza profonda di tutto il Corpus iuris, mai più raggiunta, essi misero alla luce tutto il tesoro della scienza del diritto civile contenuto in quei libri. Così essi gettarono le basi solide della scienza del diritto civile moderno. Soltanto in una direzione la scuola bolognese fu manchevole ; essa non curò la ricerca storica per l’aiuto della esegesi ; né del resto lo poteva. Infatti sotto questo riguardo le tenebre

1 (1/238). Le vicende e la fortuna del diritto romano in Europa sono descritte da K oSchaKer , Europa, cit.

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Vicende del Corpus iuris in Occidente

sono quanto mai fitte nel Medioevo ; in secondo luogo poi i glossatori studiavano la compilazione come un Codice, quindi si preoccupavano soltanto di ricavare il contenuto delle singole leggi. Se l’attività esegetica è dominante presso i glossatori, tuttavia in questo periodo si hanno pure delle trattazioni sistematiche del diritto romano. Si elaborarono : summae sopra titoli speciali dei Digesti o su parti della Compilazione, così è celebre la Summa ad Codicem di Azone ; dissensiones dominorum, cioè raccolte delle controversie sorte e dibattutesi fra i glossatori ; l’esposizione sistematica del diritto processuale, ordo iudiciarius. La scuola di Bologna acquistò ben presto fama in Europa ; gli studiosi di tutti i Paesi, Francia, Germania, Polonia, olanda, spagna ed inghilterra, vi accorrevano ; indi sorsero altre università in Italia, Francia ecc. e così la scienza del diritto romano si diffuse sul finire del Medioevo per tutta l’Europa. I più grandi tra i glossatori furono : IrnerIo (Lucerna iuris) nel principio del secolo XII cui seguono i quattro doctores, cioè BuLgaro , M arTIno , j acoPo , u go . Tutti contemporanei di Federico Barbarossa. I primi due furono aspri avversari politici e nelle questioni giuridiche. Martino certamente il giurista che meglio sentì lo spirito della codificazione di Giustiniano, e parve un innovatore audace, aspramente combattuto da Giovanni e da Azone. PIacenTIno , morto nel 1192, fondatore della scuola di Montpellier. Giovanni BaSSIano , morto alla fine del secolo Xii. Azone , discepolo del precedente, che acquistò splendida fama come maestro e come scrittore. Sotto di lui la scuola di Bologna è nel periodo del massimo splendore ; morì dopo il 1220. Francesco AccurSIo fiorentino, morto nel 1260, è l’ultimo dei glossatori. Egli riunì tutte le glosse dei suoi predecessori formando così un importante [239/240] apparato al Corpus iuris. La compilazione fu fatta in modo poco critico e negligente, ma essa mise fuori d’uso le originali, che andarono poi perdute, ed acquistò grande autorità nella pratica (cosidetta Glossa ordinaria). Le edizioni della glossa sono divise in cinque volumi come fu già detto innanzi (p. 252).

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I post-glossatori

§ 3. I post-glossatori. La glossa ordinata da AccurSIo fu oggetto di studio, ma mise fuori uso i testi delle leggi ; ormai non si studiano più i passi dei giureconsulti romani, ma la glossa. E sotto questo punto di vista il periodo dei commentatori o post-glossatori suol essere indicato come un periodo di decadenza. Ma l’opera dei commentatori, dalla seconda metà del secolo XIII al secolo XV, è della più alta importanza, perché lo studio e la conoscenza dei testi è ancora notevole. I commentatori partendo dal diritto romano sono andati oltre il diritto romano ; operarono nei loro commenti la fusione dei vari elementi, cioè del diritto romano, del canonico e degli statuti delle città italiane. Così i vecchi istituti di diritto ricevevano nuova vita e forme moderne ; sotto l’impulso dei bisogni, suscitati dal fiorente commercio delle città italiane, nuove figure e categorie giuridiche venivano create ; ed in questo momento, come DanTe e PeTrarca creavano i primi monumenti della letteratura nazionale con gli elementi della cultura antica e medioevale, così BarToLo e BaLdo creavano un diritto nuovo, rispondente alle esigenze della vita moderna, largamente fondato sui testi romani e sulle interpretazioni delle glosse. E questo diritto, che aveva la sua larga base nel diritto romano, divenne il diritto comune, il diritto cioè che, elaborato in Italia, doveva per la seconda volta conquistare il mondo. Di fronte a questo merito altissimo, i difetti di forma dei commentatori passano in seconda linea. Essi seguono il metodo scolastico dominante in quel tempo ; nei loro scritti le argomentazioni si svolgono in fila, con distinzioni sottili, formulazioni di regole che erano poi svolte e completate con innumerevoli ampliationes. Ma anche questo metodo ebbe il suo pregio, in quanto agevolò la formulazione astratta dei concetti giuridici, che appena si era tentata dai Greci [Bizantini], e si ponevano così i principî fondamentali del diritto esplicati deduttivamente. i commentatori fiorirono nelle scuole di Perugia, Padova, Pavia ecc. ; le loro opere hanno vari titoli : commentarii, lecturae, consilia, speculum etc. I piu celebrati fra essi sono : odoFredo , morto il 1265 ; DuranTe , autore dello Speculum iuris, che ebbe grande influenza nella pratica, morì nel

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Vicende del Corpus iuris in Occidente

1296 ; CIno da P ISToIa , che morì nel 1336 o 1337 ; BarTo Lo da S aSSoFerraTo , che meritò il nome di Monarcha iuris [240/241], fu il più grande e il più influente nella pratica : spirito indipendente, fu di una magnifica attività, morì a 44 anni nel 1357 ; BaLdo degLI u BaLdI , più giovane ed emulo di Bartolo, morì nel 1400 ; FuLgoSIo , morto nel 1427 ; PaoLo de c aSTro (1441) ; G IaSone deL M aIno (1519). § 4. Scuola storica italo-francese. La rinascenza infuse nuova vita alla giurisprudenza, che nel sec. XVI si rivolse di nuovo allo studio indipendente delle fonti. Infatti l’u ManeSIMo ripristinava il culto per l’antico, ed il diritto romano si riprese a studiare come parte della cultura classica, per se stesso, indipendentemente dal suo valore pratico-giuridico. L’esegesi ebbe ora il poderoso aiuto della filosofia e della storia, ed è condotta con metodo critico. In questo lavoro l’attenzione dei dotti è rivolta alla giurisprudenza classica ; le riforme di GIuSTInIano passano in seconda linea e sono acerbamente criticate, come profanazione della venustà classica. Si curano quindi i testi per la correttezza della lezione, si cercano nuove fonti latine e greche, si confrontano, si paragonano i vari documenti con illustrazioni storiche. Precursori di questo nuovo indirizzo furono : a ngeLo Po LIzIano , che studiò dal lato filologico la lectio Florentina delle Pandette ; L orenzo VaLLa ; a ndrea a LcIaTo , morto nel 1550 ; c arLo SIgonIo (1524-1584) ; in Germania u LrI co zazIo (1461-1535), g regorIo ALoandro (1501-1531) ; in Ispagna a nTonIo AgoSTIno , vescovo (1517-1586). Ma il nuovo metodo ricevette sviluppo completo in Francia, ove il diritto romano aveva avuto una splendida elaborazione sotto la protezione di F ranceSco I. I corifei della scuola francese sono : j acoPo CuIacIo , nato il 1522, morto il 1590 ; fu professore a Bourges. Filologo elegante, storico ed il più grande esegeta del diritto romano, pubblicò fonti del diritto antegiustinianeo, utilizzò i lavori dei Greci [Bizantini], lasciando in tutti i rami l’impronta del suo ingegno sovrano e d’una cultu-

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ra mirabile. Le opere di Cuiacio sono anche oggi indispensabili per la critica e l’interpretazione dei testi. Ugo d oneLLo , nato nel 1527, insegnò a Bourges, a Heidelberg ed in altre Università, morì nel 1591. Avversario del Cuiacio, esplicò la sua attività nella trattazione dogmatica del diritto romano ; i suoi Commentarii de iure civili rappresentano la prima vasta elaborazione sistematica del diritto romano e rimasero un modello inarrivabile per dottrina e robustezza di concezione. [241/242]