L'evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. TEORIA, RICERCA, CLINICA 886030931X, 9788860309310

Argomento centrale del libro è la comprensione del ruolo delle emozioni nella vita mentale, considerate come aspetti del

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L'evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. TEORIA, RICERCA, CLINICA
 886030931X, 9788860309310

Table of contents :
Parte prima
Teoria

Capitolo 1
Lo studio della motivazione
nella prospettiva evoluzionistica: cenni storici
e concetti di base (G. Liotti, C. Ardovini) 3

Capitolo 2
I concetti di gerarchia, eterarchia
e pennacchio nello studio evoluzionistico della motivazione
(G. Liotti) 27

Capitolo 3
L’aggressività distruttiva
nella relazione interumana: una prospettiva evoluzionistica
(G. Liotti, L. Pancheri, C. lannucci, E. Costantini,
R. Esposito, G.M. Pollani, E. Belfiore) 51

Capitolo 4
La teoria motivazionale di Lichtenberg:
un confronto con la Teoria Evoluzionistica della Motivazione
(A. Ivaldi) 71

VIIParie seconda
Ricerca

Capitolo 5
Uno strumento per la ricerca in psicoterapia
basato sulla Teoria Evoluzionistica della Motivazione:
la nascita dell’AIMlT (G. Passone)

Capitolo 6
L’evoluzione deH’AIMIT: considerazioni metodologiche
e proposte in corso d’opera (M. Brasimi, G. Passone,
L. Tombolimi, P. Scarcella)

Capitolo 7
11 metodo AllMlT nella ricerca in psicoterapia
(G. Passone, M. Brasimi, L. Tombolimi, P. Scarcella)

Parte terza
Clinica

Capitolo 8
Comprensione delle emozioni in psicopatologia e psicoterapia:
il contributo della Teoria Evoluzionistica della Motivazione
(G. Piatti)

Capitolo 9
L’alleanza terapeutica e la teoria evoluzionistica
della motivazione (F. M onticelli)

Capitolo 10
Rottura e riparazione dell’alleanza terapeutica:
esempi clinici nella prospettiva della teoria evoluzionistica
della motivazione (F. Monticelli)

Capitolo 11
Le perversioni sessuali tra psicoanalisi e Teoria Evoluzionistica
della Motivazione (L. Pancheri, F. Monticelli)
Bibliog

Citation preview

D al ca ta lo go G. Liotti, B. Farina Sviluppi traumatici Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa V. Lingiardi, G. Amadei, G. Caviglia, F. De Bei (a cura di) La svolta relazionale Itinerari italiani G. Liotti, F. Monticelli (a cura di) I sistemi motivazionali nel dialogo clinico Il manuale AIMIT J.D. Lichtenberg Psicoanalisi e sistemi motivazionali

L’EVOLUZIONE DELLE EMOZIONI E DEI SISTEMI MOTIVAZIONALI TEORIA, RICERCA, CLINICA

a cura di Giovanni Liotti, Giovanni Fassone, Fabio Monticelli

R affaello C ortina E ditore

www.raffaelIocortina.it

ISBN 978-88-6030-931-0 © 2017 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2017 Stampato da Press Grafica SRL, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 0 1 2 3 4 5 2017 2018 2019 2020 2021

Indice

Autori

ix

Introduzione (G. Liotti, G. Passone, F. Monticelli)

xill

Parte prima Teoria Capitolo 1 Lo studio della motivazione nella prospettiva evoluzionistica: cenni storici e concetti di base (G. Liotti, C. Ardovini)

3

Capitolo 2 I concetti di gerarchia, eterarchia e pennacchio nello studio evoluzionistico della motivazione (G. Liotti)

27

Capitolo 3 L’aggressività distruttiva nella relazione interumana: una prospettiva evoluzionistica (G. Liotti, L. Pancheri, C. lannucci, E. Costantini, R. Esposito, G.M. Pollani, E. Belfiore)

51

Capitolo 4 La teoria motivazionale di Lichtenberg: un confronto con la Teoria Evoluzionistica della Motivazione (A. Ivaldi)

71

VII

Parie seconda Ricerca

Capitolo 5 Uno strumento per la ricerca in psicoterapia basato sulla Teoria Evoluzionistica della Motivazione: la nascita dell’AIMlT (G. Passone)

Capitolo 6 L’evoluzione deH’AIMIT: considerazioni metodologiche e proposte in corso d’opera (M. Brasimi, G. Passone,

L. Tombolimi, P. Scarcella) Capitolo 7 11 metodo AllMlT nella ricerca in psicoterapia

(G. Passone, M. Brasimi, L. Tombolimi, P. Scarcella) Parte terza Clinica

Capitolo 8 Comprensione delle emozioni in psicopatologia e psicoterapia: il contributo della Teoria Evoluzionistica della Motivazione

(G. Piatti) Capitolo 9 L’alleanza terapeutica e la teoria evoluzionistica della motivazione (F. M onticelli)

Capitolo 10 Rottura e riparazione dell’alleanza terapeutica: esempi clinici nella prospettiva della teoria evoluzionistica della motivazione (F. M onticelli)

Capitolo 11 Le perversioni sessuali tra psicoanalisi e Teoria Evoluzionistica della Motivazione (L. Pancheri, F. M onticelli) Bibliografia

Autori

('.ristiano A rdovim è medico-chirurgo, specialista in psicologia clinica e psicoterapeuta cognitivo-evoluzionista. Da tempo si occupa del trattamento dei disturbi dell'alimenta­ zione, affiancando alle sue competenze psicoterapeutiche quelle di natura nutrizionale. E socio della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimen­ tare (SISDCA). E autore e coautore di numerosi articoli e capitoli di libri su vari aspetti della terapia dei disturbi dell'alimentazione. Si occupa inoltre, in ambito di ricerca e di clinica, di disturbi psicopatologici legati ai traumi. Erika Belfiore, psicoioga clinica, collabora con il Centro di Ricerca, Formazione e In­ tervento in Psicologia Clinica (CERPSIC) dell’Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo”. Cultrice della materia di Psicologia delle dipendenze presso l’Università di Urbi­ no, svolge la professione di psicoioga presso la cooperativa sociale Vivere Verde Onlus e il centro di psicoterapia cognitiva integrata InPsico. Maurizio Brasimi psicologo,' dottore di ricerca in psicologia sperimentale, psicotera­ peuta sistemico-relazionalc e cognitivo-evoluzionista, è anche socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (su a:). 1 la insegnato all'U­ niversità “Sapienza” eli Roma (Metodologia della ricerca psicologica) e all'Università dell'Aquila (Psicoterapia individuale e di gruppo). È didatta e docente della scuola di specializzazione Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) e della Scuola di Psicote­ rapia Cognitiva (SPC). Enrico Costantini, psichiatra e psicoterapeuta, è docente presso l'Associazione per la Ricerca sulla Psicopatologia dell’Attaccamento e dello Sviluppo (ARPAS), di cui è socio fondatore, e presso le scuole di specializzazione Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) e Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC). È socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SUCCI ed Eye Movement Desensitization and Reprocessing (l.MDR), e direttore facente funzione della Unità Operativa Complessa di Psichiatria presso l’Azienda Sanitaria Roma 2. È autore di diversi articoli su riviste nazionali e internazionali. Rosario Esposito è psicologo e psicoterapeuta, didatta della scuola di specializzazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) rii Napoli e socio didatta della Società Italiana ili Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCc). Formatosi in Schema Therapy e in psicoterapia Sensomotoria per il trattamento dei sistemi di difesa e del trauma, è an­ che istruttore dei corsi di Mindfulness Based Stress Reduction (Center lor Mindfulness

IX

Università del Massachusetts). Da oltre vent’anni si occupa dello studio delle variabili psicologiche individuali per favorire l’integrazione dei vari tipi di psicoterapie e mi­ gliorare l’efficacia degli interventi. Su queste tematiche ha presentato numerosi lavori e pubblicato diversi articoli. Giovanni Passone, psichiatra, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze del com­ portamento, è didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cogniti­ va (SI IC C ). I la lavorato come ricercatore nell'ambito del Progetto Nazionale Salute Mentale, interessandosi allo studio di fattori eli rischio per i disturbi dissociativi e di personalità e collaborando successivamente in diversi studi di valutazione degli esiti in psichiatria e nella psicoterapia dei disturbi gi ac i. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, è docente presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SEC) di Napoli. La­ vora a Roma presso il Sesto Centro di Psicoterapia Cognitiva. Claudio latinucci, psichiatra e psicoterapeuta, dirige un centro di salute mentale pres­ so la ASI, Roma 3. E socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (S1TCC) e tra i soci fondatori dell’Associazione per la Ricerca sulla Psicopa­ tologia dell’Attaccamento e dello Sviluppo (ARPAS). Nel campo delle teorie multimotivazionali si interessa di psicopatologia della personalità e delle condotte estreme. È docente in diverse scuole di indirizzo psicoterapeutico cognitivista. Antonella Ivaldiè psicoterapeuta, psicoanalista relazionale, gruppoanalista, didatta presso la scuola di specializzazione in psicoterapia dell’Università I.UMSA di Roma, l’I­ stituto di Psicoanalisi Relazionale e Psicologia del sé (ISIPSÉ) e la Scuola di Psicoterapia Cognitiva (s p c ). È socia didatta della Società Italiana eli Terapia Comportamentale e Co­ gnitiva (SITCC), dellTnternational Association for Relational Psychoanalysis & Psychotherapy (lARPP) e della Society for thè Exploration ol Psychotherapy Integration (SEPl). Giovanni biotti, psichiatra e psicoterapeuta, insegna nella scuola di specializzazione in psicoterapia APC di Roma e in diverse altre scuole di formazione post-laurea. È socio fondatore della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e ne è stato presidente dal 2000 al 2006. Si è interessato per oltre trent’anni alle applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento e allo studio dei processi motivazionali in chiave evoluzionistica, con particolare riguardo alla psicotraumatologia. Su questi argomenti ha pubblicato diversi libri e oltre cento articoli scientifici, in Italia e all’estero. Per que­ sti contributi gli sono stati conferiti il Pierre Janet Writing Award (International Socie­ ty for thè Study ot Trauma and Dissociation, 2005) e l’International Mind and Brain Award (Università eli Torino, 2006). Fabio Monticelli, psichiatra, psicoterapeuta, è didatta della Società Italiana di Tera­ pia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e docente della scuola di specializzazione di Ancona, è docente e supervisore nell’ambito della psicoterapia e dell'alleanza terapeutica presso l’ospedale eli Bolzano. Già dirigente medico presso il servizio psi­ chiatrico di diagnosi e cura del San Filippo Neri di Roma fino al 2009, si occupa in particolare delle applicazioni cliniche della Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM), dello studio dell’alleanza terapeutica e delle perversioni sessuali. È inoltre so­ cio fondatore del centro clinico De Sanctis di Roma. 1 la curato con Giovanni Liotti altri due volumi editi da Raffaello Cortina sul tema dell’alleanza terapeutica e dell’a­ nalisi del dialogo clinico. SPC

Lucia Punchen, psicoioga e psicoterapeuta, è membro associato della Società Italiana di Psicoanalisi e socia ordinaria della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). Già docente di Psicopatologia presso l’Università “Sapienza” di Ro­ ma, è autrice di diverse pubblicazioni su test mentali, disturbi psicosomatici, effetto placebo e fattori terapeutici in psicoterapia e psicopatologia.

X

Giuseppe Maria Pollarti, psicologo clinico, cultore di materia in Psicologia clinica II, Psicologia clinica nei servizi psichiatrici e Psicologia delle dipendenze presso l'Univer­ sità degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Collabora nel Centro di Ricerca, Formazione e Intervento in Psicologia Clinica (CERPSIC) dell’Università di Urbino. Franca Scarcella, psichiatra, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-evoluzionista, si­ stemico-relazionale e Ève Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR). E socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (srrcc), della Società Italiana di Terapia familiare (s it e ) e della Società Italiana di Psichiatria (SU'). E attualmente direttore sostituto della u o c Salute Mentale Distretto A - ASL di Viterbo. Lucia Tomholini, psichiatra, analista junghiana, psicoterapeuta a orientamento cogniti­ vo-evoluzionista, didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cogniti­ va (sn ec), docente presso PAssociazione di Psicologia Cognitiva (apc ) di Roma, è tra i soci fondatori dell’Associazione per la Ricerca sulla Psicopatologia dell’Attaccamento e dello Sviluppo (AKPAS).

XI

Introduzione Giovanni biotti, Giovanni Fassone, Fabio Monticelli

La teoria di Darwin e i successivi sviluppi del pensiero evoluzionistico, sostenendo che non solo le strutture anatomiche ma anche gli schemi comportamentali e le emozioni delle varie specie animali sono selezio­ nati dall’evoluzione, offrono una base concettualmente semplice e allo stesso tempo empiricamente solida per lo studio dei processi motiva­ zionali. Gli schemi comportamentali ed emozionali che si osservano, invarianti, in tutti gli individui di una specie sono infatti rivolti a conse­ guire mete che corrispondono a valori evoluzionistici di sopravvivenza e di adattamento all’ambiente: sono, in altre parole, intrinsecamente motivati, diretti cioè a finì specifici. La Teoria Evoluzionistica della Motivazione (тем) è il fondamento di un volume (Liotti, Monticelli, 2008) a cui hanno contribuito molti degli autori i cui scritti sono raccolti in questo libro. NeH’opera prece­ dente, finalizzata a discutere la rilevanza clinica della Teoria Evoluzio­ nistica della Motivazione e a mettere a punto un manuale per l’Analisi degli Indicatori delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti (aimit), era mancato lo spazio per una discussione attenta di una serie di aspet­ ti - storici, teorici e clinici - della ТЕМ. A tale lacuna tenta di porre ri­ medio il presente volume, che inoltre dedica una sua parte all’aggior­ namento su alcuni progetti di ricerca basati sull·AIMIT messi a punto negli ultimi otto anni. Nel capitolo 1 il lettore troverà una sintetica storia delle principali teorie evoluzionistiche sulle emozioni e sul rapporto fra emozioni e mo­ tivazioni, assente nel precedente libro. Troverà inoltre una descrizione generale dei sistemi motivazionali e del loro rapporto con le funzioni cognitive superiori grazie alla quale potrà evitare ogni consultazione del XIII

INTRODUZK )Ni:

citato precedente volume, e alcuni aggiornamenti su recenti contributi allo studio della motivazione in chiave evoluzionistica. Infine, ili cani tolo dedica maggiore attenzione, rispetto al libro del 2008, ai sistemi motivazionali arcaici, non legati alla relazione sociale о interpersonale che intervengono nella genesi delia psicopatologia. Il capitolo 2 am plia e approfondisce da un lato i pochi accenni aliarchitettura generale com posta dai m olteplici sistem i motivazionali, che erano presenti nel libro curato da Liotti e M onticelli, c dall’altro lato le precedentem ente scarne considerazioni sulle differenze fra gli adat­ tamenti darw iniani classici e le proprietà em ergenti d all’insieme di essi (i pennacchi evoluzionistici). A p artire da questi approfondimenti, il capitolo 2 mette a fuoco Futilità della ТЕМ nel ridim ensionare il contra­ sto fra le teorie costruttiviste (dim ensionali) e quelle evoluzionistiche (categoriali) sulle emozioni. Il cap ito lo 3 è d ed icato a ll’an alisi d el fondam entale problema d ell’aggressività distruttiva che l ’uomo può, assai più facilmente dei m embri di ogni altra specie anim ale, rivolgere verso i propri simili о verso se stesso. L a spiegazione offerta d alla ТЕМ differisce in modo interessante da ogni altra teoria (da quella d ell’istinto di morte alle teorie am bientaliste) che abbia tentato di indagare questa tragica ca­ ratteristica della nostra specie. Il capitolo illustra dunque le peculiari­ tà dei contributi evoluzionistici n ell’indagine delle basi motivazionali di condizioni psicopatologiche particolarm ente perturbanti, come la psicopatia. Nel capitolo 4 si pongono a confronto due teorie multimotivazionali: quella basata su concetti evoluzionistici e quella psicoanalitica di Lichtenberg, che non ha il suo fondamento nella teoria dell’evoluzione. Certe sorprendenti somiglianze fra le due teorie, che riguardano alcuni sistemi motivazionali indagati da entrambe, dimostrano la possibilità di fertilizzazioni reciproche sia per quanto riguarda l ’identificazione dei principali sistemi motivazionali, sia per quanto concerne le pur distinte prassi terapeutiche che ne derivano. Il capitolo 5 apre la seconda parte del libro, dedicata alla ricerca che ha utilizzato il metodo AIMIT, il cui obiettivo è l ’indagine empirica delle dinamiche motivazionali interpersonali, così come si manifestano nei trascritti di sedute di psicoterapia о in altri tipi di scambio clinico. Vie­ ne descritto il percorso seguito per trasformare in procedure operati­ ve l’articolato impianto teorico di quella parte della ТЕМ che riguarda i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMl), e in prim is il processo di validazione del metodo Л1М1Т. Sono discusse altresì alcune importanti

INTRODUZIONE

implicazioni metodologiche e procedurali, come paradigma della com­ plessità degli stimoli che il gruppo di lavoro ha incontrato nel corso di questa prima fase della ricerca suITaimjt.

Il capitolo 6 descrive alcune prospettive di sviluppo del m etodo AIMIT, apertesi successivamente alla prim a fase di messa a punto e va-

lidazione. Tali prospettive riguardano sia le potenzialità del m etodo in clinica e nella ricerca, sia il suo consolidamento e affinam ento sul piano metodologico. Particolare attenzione è stata prestata, negli o t­ to anni trascorsi dalla pubblicazione del m anuale AIMIT (Liotti, M on­ ticelli, 2008), a individuare i principali lim iti del m etodo attu ale e a elaborare possibili linee di soluzione alle criticità evidenziate. Il cap i­ tolo 6, dunque, discute fra l ’altro alcune proposte di sem plificazione delle procedure di rilevazione delle sequenze m otivazionali, tra cui la possibilità di aggregare le rilevazioni per intervalli di tempo om oge­ nei c l ’uso di criteri dimensionali accanto a quelli categoriali d escrit­ ti nel precedente volume. Lo scopo principale degli studi sintetizzati nel capitolo 6 è ottimizzare tempi e risorse nella procedura di sig la­ tura dei trascritti. Il capitolo 7 presenta una panoramica degli studi che hanno utilizza­ to il metodo AIMIT per valutare diversi ambiti per lo studio del proces­ so psicoterapeutico, in particolare il ruolo giocato d all’attivazione dei diversi SMI nella genesi delle disfunzionalità del paziente nella propria vita di relazione e nel rapporto con il terapeuta. Un considerevole n u ­ mero di ricercatori e collaboratori è stato mobilitato per prom uovere diverse linee di ricerca, tra cui lo studio dell'assetto m otivazionale in terapia e delle interazioni tra attività dei SMI e funzioni superiori com e la metacognizione e la funzione riflessiva. Nel capitolo vengono in o l­ tre illustrati alcuni studi in cui sono stati approfonditi i rap p o rti tra Tattivazione disfunzionale dei diversi sistemi m otivazionali e specifi­ che dimensioni psicopatologiche come la dissociazione o i disturb i di personalità. Infine vengono discusse le implicazioni em erse dallo stu­ dio di alcuni casi singoli, nei quali il metodo AIMIT è stato utilizzato da solo e in associazione con altri strumenti di valutazione. Le principali applicazioni cliniche della TEM a temi gen erali d ella psicopatologia e della psicoterapia sono oggetto della terza parte del volume, che si apre con il capitolo 8, dedicato alla com prensione dei principali disturbi emozionali. Ansia e forme diverse d e ll’em ozione di paura, malinconia e aspetti patologici della tristezza, collera srego ­ lata, colpa, vergogna e sequenze emozionali com plesse com e q u elle spesso osservabili nei disturbi conseguenti a traum i psicologici sono XV

vantaggiosamente esaminate e comprese nei contesti motivazionali in cui compaiono e in una chiave concettuale evoluzionistica. Questo ti­ po di comprensione è, a nostro avviso, di notevole interesse per ogni psicoterapeuta, a prescindere dalla scuola di appartenenza, perché facilita l’empatia e offre buone basi per interventi di validazione emo­ zionale. Chiude il capitolo 8 il confronto fra due metodi di raccolta di informazioni e di pianificazione dell’intervento terapeutico nelle tera­ pie cognitive, noti come ABC {Antecedente Belief, C onsequence ) e CEPA (Contesto, Emozioni, Pensieri, Azioni) o CESPA (se si vuole specifica­ re la Sensazione somatica che si aggiunge o sostituisce all’emozione percepita). Simili nel loro concentrarsi sull’interdipendenza di pro­ cessi cognitivi e dinamiche emozionali, i due metodi differiscono per quanto riguarda il bersaglio degli interventi: l ’ABC è più utile quando la strategia terapeutica è rivolta all’identificazione e revisione di cre­ denze patogene, mentre il CEPA è più utile se la strategia terapeutica è finalizzata a rafforzare la capacità di conoscenza autobiografica spe­ cifica, e il lavoro clinico volto a identificare e integrare fra loro stati mentali dissociati. Un altro tema generale di grande interesse per tutti gli psicoterapeu­ ti, al quale la TEM può dare un contributo significativo, è quello dell’al­ leanza terapeutica. Il tema è di tale importanza e complessità che a esso sono dedicati due capitoli. Il capitolo 9 descrive il contributo della TEM alla comprensione del costrutto di alleanza terapeutica. In particolare, il capitolo propone di leggere in una chiave motivazionale le fasi di co­ struzione, rottura e riparazione dell’alleanza, e sostiene da un lato che costruzione e riparazione dell’alleanza si fondano sulla prevalente atti­ vità del sistema motivazionale cooperativo, e dall’altro che si possono distinguere diversi tipi di rottura dell’alleanza sulla base dei differenti sistemi motivazionali alternativi alla cooperazione implicati in ciascu­ no di essi. I tipi di rottura dell’alleanza terapeutica, definiti ciascuno da uno specifico assetto motivazionale, sono ulteriormente descritti nel capitolo 10 attraverso una serie di esempi clinici. Il capitolo 10 si sofferma in particolare su due temi relativamente poco trattati nella letteratura sull’alleanza terapeutica. 11 primo tema riguarda la possibilità offerta dalla TEM di identificare tempestivamente le fasi di impasse del processo terapeutico che preludono a incipienti rotture conclamate dell’alleanza, permettendo di prevenirle oppure di predisporre interventi volti a ripristinare l’attivazione del sistema co­ operativo qualora l’impasse si trasformasse in una conclamata rottura dell’alleanza. Il secondo tema riguarda invece uno degli ostacoli più XVI

gravi che possono impedire l ’alleanza terapeutica: quello basato sul pervasivo sentimento d ’impotenza. Il sentimento pervasivo d’impossi­ bilità a conseguire un qualsiasi cambiamento desiderabile attraverso la psicoterapia può manifestarsi nel paziente, nel terapeuta о in entrambi, e di solito è legato all’esperienza di traumi interpersonali cumulativi nel corso dello sviluppo della personalità del paziente. La ТЕМ permette di ricondurre l’emergere di tale sentimento di impotenza durante la psicoterapia alle dinamiche di due sistemi motivazionali, il sistema di attacca­ mento e il sistema di difesa per la sopravvivenza, nonché al fallimento di quelle strategie controllanti che, usando altri sistemi motivazionali, consentono di tenere a freno l ’esperienza di impotenza nel corso dello sviluppo della personalità. In tal modo, la ТЕМ offre un contributo ori­ ginale e rilevante alla comprensione e al superamento di un problema clinico particolarmente difficile. Il contributo della ТЕМ alla comprensione della relazione e in parti­ colare dell’alleanza terapeutica non è confinato a una specifica forma di psicoterapia, ma è potenzialmente fruibile da parte di psicoterapeuti ! ormatisi a scuole diverse e che utilizzano prassi cliniche anche note­ volmente differenti fra loro (fruibilità già discussa nel capitolo 4). Per illustrare quest’affermazione, abbiamo deciso di dedicare il capitolo conclusivo (capitolo 11) alla descrizione di un percorso psicoterapeu­ tico che ha visto impegnati una collega psicoanalista e un paziente con un complesso disturbo parafilico. La decisione di ricorrere alle con­ cettualizzazioni della ТЕМ, per comprendere tanto l ’esperienza della parafilia nel paziente quanto le dinamiche della relazione terapeutica, è stata presa dalla psicoterapeuta in una fase relativamente avanzata del trattamento, e tale ricorso non è apparso in contrasto con il pre­ cedente processo psicoanalitico. La vitalità del processo di riflessione e scoperta inerente a questa esperienza clinica la rende, a nostro avvi­ so, particolarmente adatta a illustrare le potenzialità della ТЕМ come terreno di confronto e forse d’integrazione fra teorie e prassi diverse della psicoterapia. A nostro avviso, l’emergere della ТЕМ da un conte­ sto scientifico neutrale rispetto alle diverse tradizioni psicoterapeuti­ che - neutrale nel senso che il pensiero evoluzionistico non è mai sta­ to determinante nella genesi di alcuna fra le principali scuole di cura psicologica - pone la teoria nella posizione ideale per essere conside­ rata senza pregiudizi dagli esponenti di tali tradizioni. Mostrare che la considerazione priva di pregiudizi del pensiero evoluzionistico può già avere interessanti ricadute a livello della pratica psicoterapeutica ci è parso un modo per concludere il volume con l ’implicito auspicio

INTRODUZIONE

che la rivoluzione concettuale avviata da Darwin centosessant’anni fa possa rivelarsi uno stimolo potente per il progresso dell’intero ambito delle cure psicologiche.

XVIII

Parte prima Teoria

1 Lo studio della motivazione nella prospettiva evoluzionistica Cenni storici e concetti di base

Giovanni Liotti, Cristiano Ardovini

Lo studio delle motivazioni umane condotto nella cornice concettuale della teoria dell’evoluzione ha origine con il libro di Charles Darwin The Expression o f thè Emotions in Man and Animals (“L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”), la cui prima edizione appar­ ve a Londra nel 1872. In quest’opera, Darwin prendeva le mosse dallo studio dei movimenti che esprimono alcuni fondamentali stati emozio­ nali, per sviluppare e argomentare due tesi: 1) esiste una continuità evoluzionistica fra le espressioni delle emozioni nell’uomo e le condotte emozionali osservabili nelle specie animali ■più vicine a Homo sdpiens , a dimostrazione che le emozioni umane hanno una base innata e universale; 2) l’espressione di ciascuna emozione fondamentale, tanto negli anima­ li quanto nell’uomo, è da considerare come parte di un’azione più complessa, diretta a perseguire uno scopo preciso, dotato di valore evoluzionistico (Darwin, 1872). Una sommaria rassegna degli sviluppi storici di queste due tesi, pur se incompleta, varrà a illustrare i concetti fondamentali della Teoria Evoluzionistica della Motivazione (tem ).

I contributi di Paul Ekman e di John Bowlby Nonostante le tesi darwiniane sulle emozioni abbiano suscitato, fin dal­ la loro pubblicazione, grande interesse, si è dovuto attendere quasi un secolo perché si accumulassero prove empiriche e sperimentali capaci 3

di suffragarle in maniera convincente. Fra queste prove, vanno ricorda­ te anzitutto quelle raccolte da Paul Ekman in un libro che, celebrando il centenario di The Expression o f thè E motions in Man and Animals , passava in rassegna ricerche capaci di confutare la teoria allora domi­ nante e rivale di quella di Darwin (Ekman, 1973). Secondo la teoria al­ lora dominante, non esisterebbero espressioni universali delle emozioni perché tutte le emozioni, e dunque anche le corrispondenti espressioni, sono determinate da fattori culturali e cognitivi, frutto di apprendimen­ to. Con i suoi studi sulle espressioni facciali delle emozioni, Ekman ha grandemente contribuito a offrire sostegno empirico alla teoria darwi­ niana, secondo cui esistono invece emozioni fondamentali basate su schemi espressivi universali, invarianti rispetto alla varietà delle culture umane. I dati delle ricerche di Ekman vertono soprattutto sul sorpren­ dente accordo con cui ogni emozione fondamentale è riconosciuta, da membri di culture diverse, nei volti di membri di altre culture con cui le prime non hanno avuto alcun contatto: le emozioni fondamentali sono dunque da considerarsi primarie rispetto alle storie individuali di ap­ prendimento (per una sintesi di questi studi, vedi Ekman, 2007). Nei suoi primi scritti Ekman considerò sei emozioni come primarie: colle­ ra, disgusto, paura, tristezza, sorpresa e gioia. Nel corso dei suoi studi successivi Ekman giunse ad allungare considerevolmente la lista delle emozioni primarie, aggiungendovi orgoglio, disprezzo, imbarazzo, ver­ gogna, colpa, sollievo, soddisfazione, piacere sensuale e divertimento (Ekman, 1999). Il numero delle emozioni primarie, secondo Ekman, è dunque superiore a quello stimato in base ad altri studi pur ispirati dalle tesi di Darwin, che varia fra cinque e nove (Plutchik, 1994, p. 71 ). Va sottolineato che posizioni evoluzioniste come quella di Ekman non negano l’influenza di variabili culturali sull’espressione delle emo­ zioni: esse affermano soltanto che tali influenze sono secondarie rispetto al loro fondamento innato. Per esempio, alcune culture sono caratte­ rizzate da prescrizioni specifiche riguardanti quali membri del gruppo sociale possono esprimere determinate emozioni, a chi possono rivol­ gere tali espressioni, e quando. Tuttavia le prescrizioni culturali - e le influenze cognitive sulle emozioni legate alla storia individuale di ap­ prendimento - non annullano mai l’esistenza e l’operatività dei processi emozionali primari, frutto dell’evoluzione, la cui espressione è limitata o proibita. Oltre a mascherare, inibire o incoraggiare l ’espressione di alcune emozioni, le influenze culturali e gli apprendimenti individuali possono anche spostare alcune emozioni da uno stimolo ambientale a un altro (per esempio, possono spostare il disgusto da un tipo di cibo a 4

un altro così che un alimento appetibile per la maggior parte dei mem­ bri della cultura A può essere avvertito come disgustoso dalla maggio­ ranza dei componenti della cultura B). In nessun caso, però, il fonda­ mento primario e universale delle emozioni può essere eliminato da variabili culturali o di apprendimento. Contributi di ricerca basati sui metodi delle neuroscienze (vedi, per esempio, Panksepp, 1998) hanno fornito ulteriori prove a sostegno del­ la prima tesi di Darwin, che almeno alcune fra le emozioni umane sono universali. In queste ricerche e nelle relative riflessioni teoriche si è an­ che tentato di trovare sostegno alla seconda tesi di Darwin, collegando ogni emozione primaria non solo al comportamento che la esprime, ma anche a una precisa funzione di adattamento, cioè a un valore evolu­ zionistico. L’esempio più ovvio è offerto dalla paura, facilmente colle­ gabile non solo al comportamento di fuga e al nascondersi, ma anche alla funzione primaria di protezione dal pericolo (per altri e meno ovvi esempi, vedi Plutchik, 1994, pp. 114-115). Cercare il valore evoluzionistico di una singola emozione (paura) nel comportamento diretto a una meta (protezione dal pericolo) è utile per illustrare la concezione darwiniana dei rapporti fra emozione e motiva­ zione, ma non dà ragione di alcune importanti osservazioni etologiche. Gli etologi hanno osservato sequenze emozionali invarianti, in cui emo­ zioni diverse si susseguono con regolarità, in coincidenza con molteplici azioni che, componendo uno schema di comportamento complesso e articolato, sono volte a perseguire una singola meta dotata di eviden­ te valore evoluzionistièo. Queste osservazioni suggeriscono l’esistenza di sistemi sovraordinati rispetto ai processi implicati nella genesi delle singole emozioni. In altre parole, nel cervello/mente (Panksepp, Biven, 2012) dovrebbero esistere sistem i ch e organizzano diverse em ozioni (e

le corrispondenti azioni ?notorie) in sequenze tipiche p er ciascuna meta dotata di valore evoluzionistico. L’esistenza di tali sistemi di controllo e organizzazione, sovraordinati funzionalmente a emozioni e azioni, renderebbe semplicistica l ’idea che a ogni singola emozione primaria corrisponda un’unica rete neurale la cui funzione è il perseguimento di una specifica meta di adattamento. L’esistenza di tali sistemi funziona­ li sovraordinati potrebbe spiegare alcuni risultati recenti delle neuro­ scienze affettive, che sembrano contraddire l’ipotesi secondo cui a ogni emozione primaria corrisponda una specifica rete neurale funzionale (Touroutoglou, Lindquist, Dickerson et al., 2015). Piuttosto, una spe­ cifica rete neurale potrebbe corrispondere a ciascun sistema di organiz­ zazione e controllo di emozioni e condotte il cui insieme organizzato è 5

rivolto a perseguire una precisa meta dotata di valore evoluzionistico (Hein, Morishima, Leiberg et al., 2016). Se una data emozione prima­ ria può essere implicata nelle operazioni di diversi sistemi di controllo, si spiegherebbero i risultati in parte contradditori di alcuni studi volti a ricercare la rete neurale funzionale corrispondente a tale emozione (Touroutoglou, Lindquist, Dickerson et al., 2015). Un esempio di sistema funzionale sovraordinato che regola il susse­ guirsi di molteplici emozioni mentre un individuo persegue una singola specifica meta è fornito nel primo volume della trilogia di John Bowlby Attachment andL oss (“Attaccamento e perdita”; Bowlby, 1969). In esso l ’autore esamina, sulla scorta delle osservazioni degli etologi, la condotta che in tutte le specie di mammiferi manifesta la ricerca di vi­ cinanza protettiva, da parte di un piccolo, a chi gli dà usualmente cura. Bowlby si sofferma sul susseguirsi regolare di alcuni tipi di comporta­ mento e delle relative emozioni: a uno specifico comportamento di se­ gnalazione (noto come pianto da separazione, separation cry) seguono energiche azioni di avvicinamento, di sequela e di aggrappo {clinging), e infine una condotta di rilassata sicurezza. A questa sequenza comporta­ mentale, approssimativamente invariante attraverso le diverse specie di mammiferi e anche di alcuni uccelli, corrisponde un’altrettanto precisa sequenza emozionale di paura e collerica protesta quando è ostacola­ to il raggiungimento della vicinanza protettiva. Se la meta perseguita dalle condotte che compongono il sistema comportamentale di attac­ camento si rivela irraggiungibile, le azioni della fase finale virano verso l ’accasciamento e la riduzione di attività, fino aH’immobilità impotente. In corrispondenza, lo stato emotivo vira verso la tristezza e alla lunga verso una sorta di distacco emozionale. Bowlby propose di chiamare sistema di controllo del comportamento di attaccamento (brevemen­ te, sistema comportamentale di attaccamento) il processo funzionale che può spiegare l ’invarianza, in tutti gli individui di ciascuna specie di mammiferi e di uccelli, delle sequenze comportamentali ed emozionali correlate sia al perseguimento della vicinanza protettiva sia alla diffi­ coltà nel conseguirla. Un aspetto di grande importanza dell’opera di Bowlby (1969) ri­ guarda la differenziazione fra il sistema di attaccamento e altri sistemi comportamentali pure rivolti a perseguire mete di vicinanza fra un in­ dividuo e un altro membro del gruppo sociale, dove però la vicinanza cercata non è di tipo protettivo, ma sessuale o ancora di altro genere. Essendo l’opera di Bowlby interamente dedicata allo studio dettagliato e minuzioso del sistema di attaccamento, non vi si trovano che accenni

alle caratteristiche funzionali di questi altri sistemi comportamentali. Tuttavia, Bowlby (1969) espresse chiaramente e ripetutamente l’idea che esistono diversi sistemi di controllo del comportamento, tutti frut­ to dell’evoluzione e ciascuno diretto al perseguimento di una specifica meta di adattamento. Ciascuno di questi sistemi è capace di coordina­ re fra loro, in maniera caratteristica, sia diverse emozioni sia sequenze di schemi di condotta (per una sintesi degli accenni a sistemi compor­ tamentali diversi dall’attaccamento rintracciabili nell’opera di Bowlby, vedi Liotti, 2015, 2016a). Rispetto allo studio dell’espressione di sin­ gole emozioni che aveva caratterizzato il capolavoro di Darwin (1872) e l’imponente ricerca ultratrentennale di Ekman (2007), l’idea che, per ogni meta della condotta dotata di valore evoluzionistico, esista un si­ stema che coordina fra loro comportamenti complessi accompagnati da una specifica sequenza di emozioni primarie, è alla base di un note­ vole sviluppo all’interno dello studio evoluzionistico della motivazione.

Il tema della motivazione nella teoria di Bowlby Bowlby (1969) concepì il sistema di attaccamento, e gli altri sistemi di controllo del comportamento diretti a mete diverse dall’attaccamento, come sistemi cibernetici “corretti rispetto alla meta” (goalcorrectedS y­ stems)·. di qui la centralità del tema della motivazione latente nella sua teoria. L’idea di base era che alcune disposizioni o tendenze compor­ tamentali innate e universali, capaci di facilitare il raggiungimento di obiettivi dotati di valore evoluzionistico, si organizzano durante le espe­ rienze di vita in modo da costituire sistemi che valutano continuamente, e ove possibile riducono attraverso il comportamento, le discrepanze fra a) lo stato attuale di relazione organismo-ambiente e b) la meta dotata di valore adattativo. Una specifica meta (goal), dotata di valore evolu­ zionistico, costituisce allora il perno intorno al quale prende forma, si mantiene e si sviluppa ognuno dei sistemi fondamentali di controllo del comportamento. La teoria cibernetica dell’informazione fornì a Bowlby gli strumenti concettuali per definire operativamente la meta (univer­ sale per tutti gli individui della specie), le tendenze comportamentali innate che progressivamente si organizzano intorno a essa, i processi (pure universali) che le coordinano in sistema, nonché l’arricchimen­ to individualizzato delle prime e dei secondi grazie all’apprendimento. Chi ricorda le tappe fondamentali dello sviluppo della psicologia negli ultimi sessanta anni noterà il debito di questa concezione verso 7

l ’opera di Miller, Galanter e Pribram (1960). Il libro di questi tre auto­ ri, Plans and thè Structure ofB eh a vior (“Piani e struttura del compor­ tamento”), segnò la transizione dal comportamentismo a modelli di psicologia generale capaci di tener conto di processi mentali inconsci sottostanti al comportamento visibile, nonché deH’esperienza sogget­ tiva di emozioni e cognizioni che possono accompagnare tali proces­ si. Basandosi sui contributi dell’evoluzionismo, della psicologia spe­ rimentale e delle neuroscienze, questa transizione non solo condusse al superamento del comportamentismo, ma offrì anche una concezio­ ne delle motivazioni e dei relativi processi mentali inconsci diversa da quella sostenuta da Freud (e forse più vicina a quella di Pierre Janet: Liotti, 2014b). Tre principali caratteristiche descrivono tale differen­ za: la rinuncia ai concetti di istinto e di scarica pulsionale, l ’abbando­ no dell’idea che due pulsioni (gli istinti di vita e di morte) bastino a descrivere i fondamenti di quel che Freud chiamava Es, e il ridimen­ sionamento dell’attenzione prestata alle difese dell’Io come fondanti l’Inconscio individuale. Nella forma che Bowlby diede alle intuizioni di Miller, Galanter e Pribram (1960), esiste un’attività mentale inconscia costituita dalle operazioni dei sistemi motivazionali (alcuni dei quali sono rivolti a mete primariamente relazionali e non riconducibili alla diade libido e mortido) precedenti all’emergere di esperienze emozio­ nali. Le emozioni, nella teoria di Bowlby (1969), sono le prime fasi del­ le operazioni di un sistema comportamentale che possono acquisire la qualità della coscienza: in altri termini, l ’emozione viene a costituirsi come ponte fra le attività non coscienti con cui iniziano le operazioni di un sistema comportamentale, e le esperienze coscienti individuali.

Sistemi comportamentali, emozionali o motivazionali? Considerando i concetti di base, sopra riassunti, della teoria di Bowl­ by, appare plausibile ritenere che la scelta di espressioni come sistema emozionale o sistema motivazionale sarebbe stata legittim a quanto quella di sistema comportamentale. A sostegno di questa affermazione, si potrebbe citare il fatto che, nel riferire le sue osservazioni e teoriz­ zazioni psicobiologiche basate sugli stessi principi darwiniani su cui si basa l’opera di Bowlby, Panksepp ( 1998) ha usato come quasi sinonimi le due espressioni, sistemi emozionali e sistemi motivazionali (anche se il primo è quello che decisamente predilige: vedi anche Panksepp, Biven, 2012). Bowlby e Panksepp condividono essenzialmente la tesi 8

centrale dell’esistenza di sistemi psicobiologici frutto dell’evoluzione, omologhi1negli animali e nell’uomo, che regolano sequenze caratteri­ stiche sia di comportamenti sia di emozioni, in vista del perseguimen­ to di specifici obiettivi adattativi. Sembra dunque legittimo scegliere di denotare questi sistemi con ciascuno dei tre termini possibili: com­ portamentali, emozionali o motivazionali. In questo libro, dato che in esso il fuoco dell’attenzione è sulla motivazione, si è scelta l’espressio­ ne “sistema motivazionale”.

Quanti sistemi motivazionali frutto dell'evoluzione esistono in Homo sapiens? Come si è ricordato sopra, Bowlby non dedicò particolare attenzione al compito di elencare sistematicamente i sistemi comportamentali di cui l’evoluzione ha dotato le diverse specie di mammiferi, e fra queste Ho­ m o sapiens. Concentrandosi su ogni possibile aspetto dell’attaccamen­ to, per quanto riguarda gli altri sistemi Bowlby (1969) studiò con cura le interazioni fra sistema di attaccamento e sistema di esplorazione nelle prime fasi dello sviluppo, fornì preziose riflessioni sull’itinerario evolu­ zionistico che ha condotto le specie di mammiferi ad aggiungere il siste­ ma di attaccamento al sistema di attacco/fuga per gestire la protezione dai pericoli ambientali, e segnalò con qualche dettaglio le differenze fra sistema di attaccamento e sistema sessuale. Agli altri sistemi com­ portamentali Bowlby dedicò solo alcuni fuggevoli cenni (Liotti, 2015). Trascorsero vent’anni dal primo volume di A ttachm ent and Loss (Bowlby, 1969) prima che uno psicologo clinico molto attento agli stu­ di etologici dedicasse un volume alla descrizione accurata di quattro sistemi organizzati intorno a mete selezionate dall’evoluzione e diverse da quella (vicinanza protettiva) che definisce l’attaccamento (Gilbert, 1989). Grazie al libro di Gilbert, gli studiosi interessati allo studio evo­ luzionistico della motivazione giunsero a disporre di descrizioni suf­ ficientemente dettagliate, in termini di sequenze comportamentali ed emozionali tipiche, dei sistemi rivolti a perseguire quattro mete dotate di valore evoluzionistico e quindi primarie rispetto all’apprendimento individuale: difesa dai pericoli ambientali (sistema di difesa per la so­ pravvivenza), definizione del rango di dominanza/subordinazione nel 1, Si chiamano omologhi i sistemi anatomici o fisiologici che, oltre a somiglianze formali nelle varie specie animali, hanno un'origine evoluzionistica comune.

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TEORIA

gruppo sociale (sistema agonistico o di rango), offerta di cura (sistema di accudimento) e condivisione di obiettivi (sistema cooperativo). Nove anni dopo la pubblicazione del libro di Gilbert (1989) appar­ ve il già citato volume dove Panksepp, sempre nella prospettiva evolu­ zionista, affrontò il problema con gli strumenti delle neuroscienze, ar­ rivando a definire sette sistemi emozionali o motivazionali (Panksepp, 1998; vedi anche Panksepp, Biven, 2012). Panksepp denomina tali si­ stemi utilizzando lettere maiuscole al fine di distinguerli da compor­ tamenti o stati emozionali singoli e semplici: RICERCA (SEEKINC System, analogo al sistema di esplorazione), RABBIA (RA(,E System, indirizzato a difendersi da predatori con la contro-aggressione), PAURA (FEAR System, indirizzato alla difesa dai pericoli attraverso il fuggire o il nascondersi), BRAMOSIA sessuale (EUSTFUL System ), CURA (NURTURANCE System , carat­ terizzato da gesti ed emozioni di amorevolezza e protezione offerta), PANICO (PANIC System, in risposta alla separazione da figure di attacca­ mento) e GIOCO {PLAYSystem). Notevole pregio del lavoro di Panksepp è il tentativo di fornire una prima, affidabile traccia per affrontare il complesso problema della mappatura cerebrale dei sistemi motivazio­ nali (per altre considerazioni sugli aspetti neuropsicologici della Teoria Evoluzionistica della Motivazione vedi anche Bernard, Mills, Swenson et al., 2005). La complessità di questo problema è ben descritta nella rassegna critica di Coan (2008) sui diversi tentativi di delincare sia le aree cerebrali attive durante le operazioni del sistema di attaccamento, sia la neurochimica eli questo sistema. Panksepp, e questo ci appare un suo grande merito, non si è lasciato scoraggiare da tale complessità e ha fornito una visione generica, ma affidabile, della rappresentazione nel cervello delle operazioni di base dei diversi sistemi motivazionali. Grazie all’opera di Panksepp, possiamo discriminare i sistemi che coin­ volgono principalmente le strutture cerebrali più evoluzionisticamente antiche (tronco-encefaliche) da quelli che implicano principalmente le strutture evoluzionisticamente più recenti. In anni successivi a quelli in cui hanno scritto le loro opere Gilbert (1989) e Panksepp ( 1998), anche alcuni studiosi di psicologia sociale hanno fornito contributi teorici e di ricerca volti a indagare la motiva­ zione in una prospettiva evoluzionistica. Kenrick e i suoi collaborato­ ri, per esempio, hanno combinato teoria dell’evoluzione, teoria dei si­ stemi dinamici e dati di ricerca controllata nell’ambito della psicologia sociale, giungendo a ipotizzare l’esistenza di sei ambiti di interazione sociale: formazione di coalizioni (o affiliazione), definizione di status o rango sociale, protezione da pericoli, formazione di coppie sessuali 10

[mate chotee), mantenimento di relazioni, e cure parentali (Kenrick, Li, Butner, 2003; Kenrick, Griskevicius, Neuberg et al., 2010; vedi anche Bernard, Mills, Swenson et al., 2005). Ognuno di questi ambiti d’intera­ zione sociale è associato dagli autori a una specifica meta evoluzionisti­ ca e considerato un sistema dinamico. Essi vengono quindi a costituirsi concettualmente come formalmente analoghi ai sistemi motivazionali identificati con metodi etologici (Bowlby, 1969; Gilbert, 1989) e neuro­ biologici (Panksepp, 1998). Le somiglianze fra le descrizioni dei sistemi identificati da Kenrick e collaboratori (2003,2010) e quelle dei sistemi identificati da Gilbert e da Panksepp sono anch’esse notevoli; fatto si­ gnificativo, visto che gli scritti sopra citati del gruppo di Kenrick non contengono alcun riferimento alle opere di Bowlby, Gilbert e Panksepp. Sembra che una prospettiva darwiniana, se applicata ai sistemi moti­ vazionali, conduca a risultati finali simili fra loro indipendentemente dai metodi di studio: etologici, neurobiologici o di psicologia sociale. Oltre a quelli della psicologia sociale, vanno qui ricordati i contri­ buti dell’antropologia evoluzionistica che hanno grandemente appro­ fondito lo studio della cooperazione come sistema motivazionale a sé stante, suggerendone il ruolo cruciale nell’emergere dell’evoluzione cul­ turale dall’evoluzione biologica. L’aspetto notevole di queste indagini è che l’evoluzione culturale sembra fondarsi sull’evoluzione biologica del sistema cooperativo attraverso la mediazione della comunicazione complessa, del linguaggio, della coscienza di sé e dell’intersoggettività. Tomasello e collaboratori hanno così studiato, anche attraverso ri­ cerche empiriche (Tomasello, 1999; Tomasello, Carpenter, Cali et al., 2005; Warneken, Tomasello, 2006), il potenziamento della capacità di cooperare in maniera paritetica come caratteristica cruciale dell’evo­ luzione di Homo sapiens, specie che di conseguenza è stata da loro de­ scritta come ultracooperativa rispetto alle altre antropomorfe (orango, gorilla, scimpanzé, bonobo). Dall’eccezionalmente intensa motivazio­ ne alla cooperazione paritetica che caratterizza Homo sapiens emerge­ rebbero comunicazione complessa, linguaggio e coscienza di sé. Hrdy (2009), nell’esplorare la genesi della capacità cosciente di rappresentare la mente dell'altro oltre alla propria, ha messo a fuoco un particolare aspetto della motivazione cooperativa, espresso nella propensione di più adulti a condividere azioni di cura verso i piccoli. Altri contributi dell’antropologia evoluzionista allo studio della cooperazione sono di­ scussi da Cortina e Liotti (2014). I contributi degli antropologi evoluzionisti allo studio del sistema motivazionale cooperativo come antecedente evoluzionistico della co­ ll

scienza umana e del linguaggio sembrano armonizzarsi con quelli di altri studiosi, volti a indagare la possibilità che esista un sistema moti­ vazionale dell’intersoggettività (per una sintesi, vedi Stern, 2004, pp. 88-92, oppure Stern, 2005; per una discussione della possibilità di in­ tegrare la teoria multimotivazionale evoluzionista con lo studio psico­ dinamico dell’intersoggettività, vedi Cortina, Liotti, 2010). A questo riguardo, è utile qui ricordare un altro importante contributo di ma­ trice psicoanalitica che, pur non essendo basato su un modello teorico evoluzionista, fornisce notevoli spunti di riflessione per ogni indagine sulla molteplicità dei sistemi motivazionali umani e dunque anche per la Teoria Evoluzionistica della Motivazione. Lichtenberg e collabora­ tori, nella teoria multimotivazionale che hanno proposto come sosti­ tuto della classica teoria psicoanalitica basata su due opposte pulsioni, affermano l’esistenza di un sistema di affiliazione al gruppo sociale da considerare accanto alle altre motivazioni primarie relative ad attacca­ mento, avversione, sensualità/sessualità, esplorazione e regolazione dei bisogni corporei (Lichtenberg, 1989; Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 2011). Il sistema di affiliazione sarà oggetto di particolare attenzione nel capitolo 4, dedicato al confronto fra la Teoria Evoluzionistica della Motivazione e quella di Lichtenberg. La considerazione degli studi sulla motivazione basati sulla teoria dell’evoluzione o con essa compatibili, citati in questo paragrafo, con­ duce a un elenco, per quanto riguarda hlom o sapiens , di poco più di una dozzina di sistemi motivazionali primari, riguardanti; gestione dei biso­ gni corporei omeostatici (incluso il procacciarsi il cibo attraverso raccol­ ta e predazione), esplorazione dell’ambiente (e territorialità), difesa per la sopravvivenza, sessualità, attaccamento, accudimento, competizione per il rango sociale, gioco sociale, affiliazione al gruppo, cooperazione paritetica, comunicazione complessa, intersoggettività e costruzione di significati coscienti condivisibili attraverso il linguaggio. L’organizza­ zione complessiva dei sistemi motivazionali, le interazioni e le tensioni dinamiche fra essi, le modalità principali della loro comparsa nel corso dell’evoluzione, e alcuni problemi aperti della teoria multimotivazionale evoluzionista, saranno oggetto di attenzione nei prossimi tre capitoli. In questo è utile ora riassumere (in maniera sommaria e limitata ad alcuni dei principali sistemi, scelti a titolo esemplificativo), le modalità dell’in­ nesco dei singoli sistemi motivazionali, le loro mete, le sequenze emo­ zionali e comportamentali caratteristiche, i rapporti fra queste sequenze non verbali e le rappresentazioni cognitive coscienti, e quanto è gene­ ricamente noto circa la mappatura cerebrale dei sistemi motivazionali. 12

Modalità di innesco e operazioni dei sistemi motivazionali La definizione classica di motivazione include l’idea di un cambia­ mento nella linea di condotta osservabile di un organismo che si diri­ ge verso un nuovo obiettivo. Essa implica che i processi motivazionali siano attivati o innescati da discontinuità o variazioni inerenti a fisiolo­ gia corporea, interazione con l’ambiente ed esperienza soggettiva. Tali variazioni o discontinuità possono essere di tre tipi: - cicliche (esempi sono i ritmi corporei come sonno-veglia e le neces­ sità di alimentazione); - fa sich e e determinate da contingenze ambientali (come le fasi di at­ tività del sistema di attaccamento, che iniziano per una percepita vulnerabilità personale e terminano con il raggiungimento di una condizione di sicurezza); - tuniche (per esempio, l’esplorazione sembra accompagnare l’attività di molti altri sistemi con livelli progressivamente crescenti o decre­ scenti di intensità, ma senza mai estinguersi del tutto: vedi Panksepp, 1998, p. 149).2 La regola di attivazione connessa all’innesco di ciascun sistema mo­ tivazionale corrisponde alla meta evoluzionistica che è funzione del si­ stema perseguire. Raggiunta tale meta, il sistema di solito si disattiva (regola di arresto del sistema). Alcuni esempi possono chiarire questi semplici concetti di baie della Teoria Evoluzionistica della Motivazione. Per il sistema di attaccamento, la funzione e le regole di attivazione e di arresto corrispondono alla ricerca e al conseguimento della vicinanza protettiva. Il sistema di difesa ha come meta l’autoprotezione di fron­ te a minacce ambientali, e come funzione l’allerta e l’eliminazione del pericolo. Meta e funzione del sistema di accudimento sono proteggere dal pericolo altri significativi (soprattutto la prole immatura) e prov­ vedere al loro sostentamento e conforto. Il sistema agonistico ha come meta la definizione del rango sociale di dominanza o di subordinazione, e come funzione il controllo della conflittualità all’interno del gruppo sociale. Il piacere erotico è la meta prossimale del sistema sessuale, e la riproduzione la sua meta distale. In alcune specie di uccelli e di mam­ 2. Panksepp (1 9 9 8 , p. 165) ritiene che l’attività del sistema esploratorio (SKEKINC.) possa man­ tenersi persino nel sonno, manifestandosi in forma di attività onirica. Anche i sistemi dell'affi­ liazione al gruppo e dell’intersoggettività/costruzione di significati mostrano caratteristiche di attivazione tonica.

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miferi la funzione del sistema si estende alla formazione di coppie ses­ suali relativamente stabili. Una dettagliata analisi delle condizioni in cui il sistem a m otivazio­ nale dell'attaccam ento si attiva, e del modo con cui assume il controllo del comportamento e dell’esperienza emotiva, è offerta nell’opera di Bowlby ( 1969). Non solo le situazioni di dolore, di pericolo e di stan­ chezza, ma anche quelle che comportano protratta solitudine attiva­ no il sistema di attaccamento. Con lo sviluppo delle abilità personali di autocura, l ’attivazione del sistema diventa progressivamente meno rapida e meno insopprimibile rispetto alla prima infanzia, ma le sud­ dette situazioni, se protratte nel tempo o intense, innescano inevita­ bilmente l ’attività del sistema “dalla culla alla tomba” (Bowlby, 1979, p. 129). L’attivazione del sistema di attaccamento è rivelata da un se­ gnale comunicativo specifico, che gli etologi chiamano separation cali o separation cry (richiamo, pianto o grido da separazione: MacLean, 1985b). La struttura sonora di questo segnale, centrata su toni acu­ ti e ripetuti a brevi intervalli, si mantiene invariante in tutte le specie animali dotate di un sistema motivazionale di attaccamento, dal pigo­ lio del pulcino, per esempio, al guaito del cane e al pianto del piccolo umano. Una volta attivo, il sistema di attaccamento coordina due se­ quenze di emozioni assai tipiche, a cui sarà intuitivamente facile acco­ stare i corrispondenti comportamenti. La prima sequenza emozionale si produce quando le azioni del sistema (avvicinarsi, aggrapparsi) non riescono a raggiungere prontamente l’obiettivo della vicinanza protet­ tiva e confortante di una figura di attaccamento (I DA): paura, protesta collerica, tristezza e infine distacco emozionale. La seconda sequenza si verifica se invece tale obiettivo è raggiunto: conforto, gioia e sicu­ rezza (vedi Liotti, 1994/2005, per un’analisi più dettagliata di queste sequenze emozionali). La scomparsa delle condizioni di allarme e do­ lore, specie se ottenuta grazie alla vicinanza protettiva, determina la disattivazione del sistema. Una volta disattivato il sistema di attacca­ mento, diventa possibile allontanarsi dalla I DA (di solito per esplorare autonomamente l’ambiente circostante), oppure continuare a intera­ gire con essa ma sulla base di un diverso registro motivazionale (per esempio, quello del gioco, della cooperazione o dello scambio inter­ soggettivo di significati). Il sistem a di a ccudim ento è complementare, nella relazione socia­ le, a quello di attaccamento, ed è innescato principalmente dalla per­ cezione del separation cali emesso da un membro del gruppo sociale (ma anche, talora, da un conspecifico poco conosciuto). Le azioni co­ 14

ordinate dal sistema di accudimento sono caratterizzate dall’offerta di vicinanza, da ogni forma possibile di aiuto e protezione dal pericolo (inclusa una forma di aggressione benigna volta a scoraggiare i piccoli dall’intraprendere azioni pericolose), dall'abbraccio confortante che molte specie di primati sono in grado di offrire, e dal contatto morbi­ do ripetuto ritmicamente (la carezza umana, il leccare dei mammiferi non dotati di mani atte alla carezza). Durante l ’attività del sistema di accudimento, si susseguono emozioni che compongono una sequenza caratteristica: ansiosa sollecitudine, compassione e tenerezza protettiva durante le azioni di cura offerta, collera moderata per atti deH’accudito che lo espongono a pericoli, oppure colpa per il mancato accudimento (Liotti, 1994/2005). La regola di arresto dell’attività del sistema di ac­ cudimento è data dal cessare, per l’altro con cui si è in relazione, delle condizioni di pericolo e dolore. Il sistem a di difesa per la sopravvivenza entra in attività di fronte a pericoli ambientali (tipicamente, l ’attacco di un predatore), e si ma­ nifesta con la sequenza comportamentale di congelamento (freezing), scelta fra fuga (flight) e attacco al predatore (fighi), e la fìnta morte (fvi­ g n e d dcath) che compare quando sia la fuga sia la contro-aggressio­ ne appaiono inefficaci. La teoria polivagale di Porges (2007) fornisce importanti nozioni sui processi cerebrali implicati in questa sequenza comportamentale, suggerendo che essi si svolgono prevalentemente a livello tronco-encefalico e coinvolgono i sistemi ortosimpatico e pa­ rasimpatico. L’ortosimpatico è coinvolto sia nell’immobilità con ipertono muscolare che caratterizza il freezin g (durante il congelamento l’immobilità riduce la probabilità di essere visti da un predatore che si aggiri nelle vicinanze), sia nello sforzo estremo necessario per attac­ care la fonte di un pericolo mortale o per fuggire da essa. La scelta fra lotta e fuga avviene automaticamente durante la breve fase di freezin g (che dura in genere meno di trenta secondi), sulla base di una sorta di calcolo inconscio riguardante la strategia più appropriata alle circo­ stanze. Se questo calcolo inconscio rivela che né fuga né lotta promet­ tono di fronteggiare con successo l ’attacco del predatore, il controllo delle operazioni difensive passa a una parte del parasimpatico, la par­ te dorsale del nucleo del nervo vago, che produce la sincope vagale e quella sorta di morte apparente (immobilità ipotonica con perdita della padronanza sulla motilità) nota come feig n e d death. Il vantag­ gio evoluzionistico della fìnta morte è riconducibile alla tendenza dei grandi felini predatori a evitare di nutrirsi di cadaveri. Le emozioni e le sensazioni corporee che accompagnano i comportamenti del siste­ 15

TEORIA

ma di difesa sono l ’allarme vigile (fr e cz in g ), la paura (fligh t), la rabbia distruttiva collegata al tentativo di uccidere l’aggressore (figh i) e l’im­ potenza più estrema (fe ig n e d à c a t i: ). In molte specie di mammiferi l ’at­ tivazione del sistema di difesa verso un pericolo ambientale comporta anche l ’innesco del sistema di attaccamento rivolto verso una FDA che possa accorrere in aiuto. La teoria polivagale di Porges ( 2007 ) sostiene che la connessione fra sistema di difesa per la sopravvivenza e sistema di attaccamento è mediata dalla parte ventrale del nucleo vagale (per maggiori dettagli sulle dinamiche che collegano i sistemi di difesa e di attaccamento, vedi Liotti, Farina, 2011 , pp. 71 - 77 ). Il sistem a predatorio diviene attivo, nei carnivori e negli onnivori, so­ prattutto in relazione al bisogno di cibo, ed è normalmente disattivato dalla sazietà che segue alla consumazione delle carni della preda uccisa. La sequenza comportamentale tipica del sistema implica appostamen­ to, agguato, inseguimento, attacco, ferimento letale e consumazione della preda. Secondo gli studi di Panksepp (1998), la sequenza com­ portamentale del sistema predatorio coinvolge anch’essa le reti neurali tronco-encefaliche. E degno di nota che l’aggressività predatoria sia preceduta da bramosia, e accompagnata nel catturare la preda da uno stato di piacevole eccitamento, non da un’emozione o da uno stato di eccitamento simili alla collera. Possiamo dunque distinguere due tipi di comportamento aggressivo finalizzati a uccidere o almeno danneggia­ re gravemente l’avversario: quello che compare all’interno del sistema predatorio, e che non è accompagnato mai da stati simili alla collera, e quello che fa parte delle possibili operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza, che invece sembra (almeno in molte specie e certamente in Homo sapiens ) coniugato alla rabbia (questo tema sarà approfondito nel capitolo 3). A questi due tipi di aggressività distruttiva, rivolta nel­ la maggior parte delle specie animali esclusivamente a membri di altre specie, si contrappone poi l ’aggressività ritualizzata, cioè trasformata in condotte sostanzialmente comunicative che si svolgono fra membri della stessa specie e dello stesso gruppo sociale, e che caratterizzano il sistema competitivo rivolto a definire il rango sociale (dominanza e su­ bordinazione) nei gruppi di conspecifici. L’innesco del sistem a com p etitivo di rango (o sistem a a go n istico ) prende forma in presenza di una qualsiasi risorsa limitata, appetibile da più di un membro del gruppo sociale. Il diritto prioritario di ac­ cesso alle risorse viene definito attraverso l ’aggressività ritualizzata, cioè non primariamente finalizzata a ledere l ’antagonista ma espressa prevalentemente nella forma di segnali di minaccia. Il fine della ritua16

LO STUDIO DELLA MOTIVAZIONE NELLA PROSPETTIVA EVOLUZIONISTICA

lizzazione dell’aggressività è di ottenere dall’antagonista un segnale di resa, come chinare il capo o esporre l’addome all’attacco dell’altro (equivalente all’alzare entrambe le braccia dell’uomo: per l’omologia dei segnali di resa nelle diverse specie di mammiferi, incluso l’uomo, vedi Liotti, 1994/2005). Il segnale di resa, che comporta il riconosci­ mento della propria subordinazione al vincitore, costituisce la princi­ pale regola di disattivazione del sistema di competizione per il rango in entrambi gli individui interagenti. Una sequenza emozionale tipi­ ca del sistema di rango vede la collera, che accompagna lo scambio di segnali di sfida, seguita dalla paura, che si manifesta allorché, duran­ te lo scambio di aggressività competitiva, ci si rende conto delle mag­ giori capacità agonistiche dell’altro. Si noti come l’ordine sequenziale delle due emozioni sia inverso durante le interazioni di attaccamento, dove la paura precede la collerica protesta. Durante l’emissione del segnale di resa, una terza emozione, tipica del sistema motivazionale di rango, compare nello sconfitto. Si tratta della vergogna, che è a sua volta seguita da tristezza. Nel contempo, il vincitore passa dalla colle­ ra iniziale a un sentimento di orgoglioso trionfo, che può mescolarsi a disprezzo (emozione, si noti, simile alla sensazione fisica di disgusto) nei confronti dello sconfitto. La somiglianza fra disgusto e disprezzo offre un esempio particolarmente chiaro delle relazioni evoluzionisti­ che fra l ’aggressività ritualizzata, non distruttiva e rivolta a membri del­ la propria specie nelle contese per il rango, e aggressività predatoria, distruttiva e rivolta a membri di altre specie considerate come cibo. Il disgusto frena la consumazione di cibo dannoso acquisito con la pre­ dazione, e il disprezzo ne deriva evoluzionisticamente, corrisponden­ do aH’inibizione del mordere per uccidere e consumare che trasforma questo aspetto della condotta predatoria in un segnale dell’aggressi­ vità ritualizzata (il mostrare i denti o il frenare il morso per non ferire l ’antagonista). L’analisi evoluzionistica delle emozioni del sistema di rango illustra con chiarezza, nell’uomo, non solo il significato dell’e­ mozione di disprezzo per lo sconfitto che può comparire nel vincito­ re della contesa, ma anche quello dell’emozione di vergogna che può comparire nello sconfitto. Lo studio evoluzionistico della motivazione di rango permette così di differenziare agevolmente la vergogna dal­ la colpa (emozione tipica del sistema di accudimento) con la quale è spesso confusa (Gilbert, 1989; Liotti, 1994/2005, 2001). Il sistem a sessuale esiste in una forma arcaica, caratteristica dei ret­ tili, in cui non è possibile la costruzione di coppie sessuali durevoli, e in una forma evoluzionisticamente più recente in cui invece si formano 17

TEORIA

legami che perdurano per qualche tempo. Il sistema sessuale è attivato non solo da variabili interne all’organismo (l’estro negli animali, assetti ormonali più facili a formarsi ripetutamente e in brevi archi di tempo nella specie umana), ma anche dai segnali di seduzione erotica emessi da un conspecifico. L’orgasmo pone termine all’attivazione episodica del sistema sessuale. Tuttavia, la ripetizione dell’attivazione del sistema sessuale fra due partner dopo la fase di latenza che segue all’orgasmo è alla base della formazione di legami di coppia basati su questo sistema motivazionale (Panksepp, 1998). Una volta che si sia formato un legame di coppia, nuove emozioni tipiche dell’attivazione del sistema sessuale, come la gelosia, si aggiungono a quelle elementari (desiderio e piacere erotico). All’interno di una coppia sessuale, può verificarsi l’attivazione di altri sistemi motivazionali (attaccamento-accudimento, rango, coo­ perazione fra pari), con il conseguente arricchirsi dell’esperienza inter­ soggettiva che è tipico soprattutto della coppia umana. Le condotte e le emozioni caratteristiche del sistem a di gio co socia­ le sono osservabili nei giovani di tutte le specie di mammiferi capaci di sviluppare gruppi sociali, e sono state studiate in dettaglio soprat­ tutto nei ratti di laboratorio (Panksepp, 1998). Burghardt le riassume così: “Il gioco è [...] un comportamento funzionale incompleto che differisce dalle versioni più serie [osservabili negli adulti] e ha inizio quando l’animale è in un setting rilassato” (Burghardt, 2005, p. 82). Il più frequente comportamento funzionale incompleto osservabile nel gioco sociale degli animali ricorda da vicino l ’aggressività ritua­ lizzata del sistema agonistico (è un “giocare alla lotta”), ed è incom­ pleto perché non arriva mai a definire una stabile relazione di domi­ nanza-subordinazione fra i partecipanti. L’emozione che accompagna questo tipo di gioco sociale somiglia alla piacevole eccitazione del di­ vertimento e alla gioia, non alla collera, alla paura e alla vergogna ti­ piche delle contese per il rango fra adulti. Il sistema del gioco sociale è presente solo nelle specie di mammiferi capaci di un’articolata vita di gruppo, il che suggerisce che abbia stretti rapporti evoluzionistici con il sistema di affiliazione al gruppo. Infine, non sono identificabili precisi meccanismi di innesco del sistema di gioco sociale (come non lo sono per il sistema affiliativ i ) . L’impossibilità di identificare speci­ fiche condizioni d’innesco fa pensare a modalità di attivazione tonica piuttosto che fasica: se sussistono i meccanismi di innesco di altri si­ stemi motivazionali ad attivazione fasica (motivazioni omeostatiche, difesa per la sopravvivenza, attaccamento, competizione per il rango, accudimento) il “tono” della spinta al gioco si riduce (proprio come 18

LO STUDIO DlX l.A MI >IIVA/,H )1NI. rxf.l.LA ™ u 5 L tlllv n l;v u i.u / .iu r a .iiu .n

il tono muscolare si riduce neH’immobilità del sonno) e il gioco non si manifesta oppure si interrompe (nella sopra riportata citazione di Burghardt, il gioco richiede un setting sociale rilassato). Invece, le in­ terazioni fra motivazione al gioco sociale e alcune motivazioni evolu­ zionisticamente più recenti, anch’esse ad attivazione tonica, che carat­ terizzano la specie umana (intersoggettività, costruzione e condivisione di significati) sono particolarmente interessanti. Si pensi, per esempio, alla complicità nel condividere un segreto che caratterizza lo sviluppo del gioco sociale nei piccoli umani (Meares, 2005), e alla forma gioco­ sa e gioiosa degli scambi intersoggettivi fra madre e neonati studiati da Trevarthen (1979). Il sistema cooperativo paritetico è attivato dalla percezione di obiet­ tivi che, anziché configurarsi alla percezione come risorse limitate per l’accesso alle quali è necessario competere, appaiono ai due individui interagenti come meglio perseguibili attraverso un’azione congiunta. Il raggiungimento deH’obiettivo condiviso pone spesso termine, in altre specie, all’attivazione del sistema cooperativo. Nell’evoluzione di Ho­ m o sapiens, un particolare segnale comunicativo, l’indice puntato su un oggetto per invitare l’altro a condividere l ’attenzione verso di esso (Tallis, 2010; Tomasello, 1999) permette di ripetere l’innesco del siste­ ma cooperativo con una facilità sconosciuta alle altre specie animali, nessuna delle quali è altrettanto pronta a indicare con uguale precisio­ ne. Emozioni di gradevole, gioiosa condivisione e sentimenti di lealtà reciproca caratterizzano l’attività del sistema cooperativo, come pure lo sono, in negativo, emozioni di collera perdurante, fino all’odio, per la rottura unilaterale della lealtà cooperativa. Una schematica descrizione riassuntiva delle mete, funzioni, condot­ te ed emozioni tipiche, nonché delle aree cerebrali basilarmente coin­ volte nelle operazioni di alcuni sistemi motivazionali è offerta nella ta­ bella 1.1.’ Tale descrizione riassuntiva, presentata in termini adatti alle manifestazioni dei vari sistemi nell’esperienza soggettiva umana, ha il solo fine di mettere in evidenza, attraverso alcuni esempi, la possibili­ tà di differenziare chiaramente fra loro i sistemi motivazionali emersi durante l’evoluzione dei vertebrati. Sistemi motivazionali non elencati nella tabella 1.1, come il sistema di affiliazione al gruppo, saranno og­ getto di attenzione nei capitoli successivi.3 3. Fra k' aree cerebrali implicate durante le operazioni dei sistemi motivazionali, la tabella 1.1 considera anche il sistema limbico. Non ignoriamo le critiche rivolte al concetto di sistema limbico ma, come sarà discusso nel capitolo 2, consideriamo tali critiche convincenti solo quando riguardano il rapporto tra il sistema limbico c le singole emozioni.

19

TEORIA

Tabella 1.1 Esempi di sistemi motivazionali. Sistema

Funzione

Comportamenti tipici

Emozioni

Strutture cerebrali

Difesa

Protezione da m in acce am bientali

Freezing. Fuga/lotta. Finta morte (sincope vagale)

Paura. Collera distruttiva. Im potenza

Tronco encefalico

A ttaccam ento

Ricerca di vicinanza protettiva, aiuto e conforto

Pianto da separazione. Avvicinam ento e abbraccio a chi può offrire cura

Paura da separazione. Gioia per la riunione. Tristezza per la perdita

Sistema limbico

A ccudim ento

Protezione e co nforto offerti

Abbracci e carezze finalizzati a fornire conforto

Com passione. Tenerezza. Ansiosa sollecitudine

Sistema limbico

Rango sociale

Definizione del rango sociale: dom inanza e sottom issione

Aggressione ritualizzata. Resa

Collera. Paura del giudizio. Vergogna

Sistema limbico

Sessualità

Riproduzione. Form azione di coppia sessuale

C orteggiam ento. Coito

Desiderio e piacere sessuale. Am ore rom antico

Tronco encefalico. Sistema limbico

C ooperazione

Condivisione di mete. A lleanza

Indice puntato. A ttenzione diretta allo stesso oggetto

Sentim ento di lealtà reciproca

Sistema limbico. Corteccia frontale

Predazione

A bbattim ento di prede (da usare com e cibo)

Aggressione distruttiva

Eccitam ento da potere

Tronco encefalico

Sistemi motivazionali e processi cognitivi Nell’essere umano, i comportamenti finalizzati al raggiungimento del­ la meta di ciascun sistema motivazionale vengono progressivamente guidati, durante lo sviluppo, oltre che dalle regole innate e universali d’innesco, anche da strutture individualizzate di memoria costruite a partire dalle diverse esperienze individuali fatte durante il precedente esercizio di quel sistema. In altri termini, durante lo sviluppo della per­ sonalità l’operare dei sistemi motivazionali prevede una sempre più co­ stante e ineludibile mediazione da parte del livello rappresentazionale. Ciò vale soprattutto per i sistemi implicati nel regolare i tipi fondamen­ tali di relazione interumana (attaccamento-accudimento, dominanzasubordinazione, accoppiamento sessuale, affiliazione, gioco sociale, co­ 20

operazione) chiamati Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI: Liotti, 1994/2005, pp. 48-51). La concettualizzazione del ruolo della dimensione rappresentazio­ nale nel regolare in maniera individualizzata le operazioni a base in­ nata dei diversi SMI ha trovato i suoi più articolati sviluppi nello studio teorico ed empirico del sistema di attaccamento, a cominciare dall’ela­ borazione del concetto di Modello Operativo Interno (MOl) da parte di Bowlby (1969). I MOI, in forma di memorie implicite dell’esperien­ za relazionale con le figure di attaccamento ( I DA), cominciano già nel primo anno di vita a guidare in maniera individualizzata il compor­ tamento di attaccamento del bambino, plasmandone variabilmente l ’espressione nelle dimensioni della sicurezza-insicurezza e dell’organizzazione-disorganizzazione (Liotti, 1994/2005, pp. 139-145). Nel corso dello sviluppo del linguaggio, i MOI si colorano poi di significati dichiarativi semantici riferiti alla dimensione della richiesta di cura. Si tratta di un esempio paradigmatico di quel complesso processo menta­ le di traduzione della conoscenza implicita in conoscenza dichiarativa che caratterizza la storia della costruzione dei significati personali nel percorso esistenziale di ogni individuo (Liotti, 2001 ). Le fondamenta di strumenti come l ’AIMIT (Analisi degli Indicatori delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti: Liotti, Monticelli, 2008) poggiano sulla possibilità concreta di studiare la danza dei SMI durante lo scambio clinico attraverso l’esplorazione delle diverse espressioni linguistiche usate da pazienti e psicoterapeuti.

Dall'attività mentale primariamente non cosciente a quella cosciente L’operare di base dei SMI, nelle sue prime fasi, si colloca al di fuori dell’e­ sperienza cosciente o, per meglio dire, appartiene al vasto ambito del co­ noscere relazionale implicito (Stern, 2004). Tale operare, infatti, consiste nell’emissione reciproca di segnali comunicativi non verbali, scambiati all’interno di un campo intersoggettivo e non subordinati ad alcuna for­ ma di conoscenza esplicita. Nella terminologia proposta da Wilma Bucci (1997), i SMI elaborano primariamente informazioni subsimboliche, che non richiedono l’intervento delle funzioni coscienti legate al linguaggio e al pensiero simbolico. Se le prime fasi di attivazione dei SMI si susseguono nel silenzio del corpo, al di fuori di qualunque consapevolezza, non ne discende che 21

nulla del loro operare possa mai raggiungere la qualità dell’esperien­ za soggettiva (quale : per il problema dei qualia nello studio della co­ scienza, vedi la sintesi di Di Francesco, 2000). Bowlby (1969) aveva osservato che le emozioni vanno considerate come le prime fasi dell’operare dei sistemi motivazionali che possono affiorare alla coscienza. Oggi, usando il linguaggio della scienza cognitiva, possiamo aggiun­ gere che il primo affiorare delle emozioni alla coscienza avviene in for­ ma di qualia , ovvero di esperienza soggettiva subsimbolica. Usando il linguaggio delle principali teorie neurobiologiche sulla coscienza pos­ siamo ipotizzare (Liotti, 1994/2005) che i SMI, proprio perché orga­ nizzano le sequenze emozionali caratteristiche delle relazioni sociali, si pongono alla base stessa dell’esperienza cosciente di sé - quella che Edelman (1989) chiama “coscienza prim aria” e Damasio (1999) “co­ scienza nucleare”. L’esperienza emotiva che accompagna l’operare dei SMI rende dun­ que consapevole, in entrambi gli individui interagenti, la dimensione immediata dell’incontro con l’altro e dei motivi a esso sottesi - imme­ diata, cioè non mediata dal linguaggio né dal pensiero discorsivo o con­ cettuale. Se l’esperienza emotiva è il primo momento dell’attività dei SMI ad acquisire qualità di coscienza, emozioni e intersoggettività pri­ maria si fanno pressoché sinonimi: il passaggio da un atto a un’espe­ rienza avviene in un contesto intersoggettivo attraverso la mediazione dell’emozione. L’atto del separation cry, per esempio, può acquisire qualità di esperienza cosciente nella forma della paura da separazione, e simultaneamente la risposta dell’interlocutore, nella forma di un ab­ braccio che culla o di una carezza, diventa, nella coscienza primaria, tenerezza protettiva. L’atto dell’indicare un oggetto per farlo divenire centro di un’attenzione congiunta - così tipico del piccolo umano già verso il termine del suo primo anno di vita (Tomasello, 1999) - acqui­ sta il quale della coscienza che chiamiamo “gioia per la condivisione”. E naturalmente anche atti di isolamento o di aggressione, coordinati dai SMI di attaccamento e cooperativo quando operano in condizioni di deficitaria sintonia interpersonale, si rivestono della qualità esperienziale delle corrispondenti emozioni negative. Analoghe considerazioni valgono per la coscienza primaria o nucleare che si acquisisce a partire da operazioni mentali coordinate da altri SMI. Tutte queste esperienze - codificate nella memoria a livello subsim­ bolico (Bucci, 1997) o implicito (Stern, 2004) - costituiscono il primo motore del pensiero simbolico non verbale (Bucci, 1997) e insieme il materiale di partenza su cui questo, e in seguito il linguaggio e il pen­ 22

siero discorsivo, operano. È probabile che una forma di attività menta­ le del tipo della metafora costituisca il primo passaggio dalle informa­ zioni tacite racchiuse nel mondo della conoscenza implicita alle forme esplicite, simboliche non verbali e simboliche verbali, di conoscenza (Bucci, 1997; Liotti, 2001). Il contesto intersoggettivo, emotivamente denso e organizzato da SMI che sono frutto dell’evoluzione, costituisce dunque, secondo una felice espressione di Hobson (2004), la culla del pensiero simbolico e concettuale. È notevole l ’accordo di psicologi (Hobson, 2004; Liotti, 1994/2005, 2001,2004), antropologi evoluzionisti (Tomasello, 1999) e neuroscien­ ziati (Damasio, 1999; Panksepp, 2001) sull'idea che un contesto in­ terpersonale caratterizzato dall’esperienza delle emozioni, a loro volta organizzate dai SMI, costituisce l’origine della coscienza di ordine supe­ riore (Edelman, 1989), del pensiero simbolico e del linguaggio. Su tale fondamento interpersonale, la coscienza di ordine superiore e il pensie­ ro continuano per tutta la vita a mantenersi e svilupparsi. Le strutture di significato personale che possono essere costruite nella memoria ed elaborate nel linguaggio e nel pensiero sono dunque imbevute di espe­ rienza emozionale, di percezione interpersonale e di intuizione delle motivazioni che sottendono l’incontro fra sé e l’altro. Su questa premessa teorica si giustifica lo studio del dialogo e dello scambio emozionale/motivazionale basato sull’analisi linguistica, at­ tuato attraverso quei metodi di analisi dei trascritti di sedute che sono utilizzati ampiamente nella ricerca sulla psicoterapia (Lingiardi, Dazzi, 2006). Infatti, anche se questi metodi non offrono alcun accesso diretto a processi non verbali o ai marcatori non verbali degli scambi interumani, essi si giustificano con l’assunto che processi emotivi e mo­ tivazionali significativi si manifestano comunque al livello del discor­ so, proprio perché il discorso nasce da un’attività referenziale (Bucci, 1997) che connette la parola a quei livelli subsimbolici di conoscenza ove si svolgono emozioni e processi motivazionali (Lepper, Mergenthaler, 2007; Mergenthaler, Bucci, 1999). Esistono dati di ricerca che confermano l’ipotesi di una correlazione significativa fra informazioni derivanti dalla sola analisi linguistica di un trascritto e inlormazioni ot­ tenute dall’osservazione diretta delle manifestazioni comportamentali degli stati mentali a denso contenuto emotivo e motivazionale (Mer­ genthaler, Horowitz, 1994). La teoria fin qui delineata pone quindi i processi motivazionali inter­ personali all’origine di un’ampia classe di emozioni, e considera il pen­ siero concettuale come un ulteriore processo che, derivando dal cam23

TEORIA

po intersoggettivo definito da motivazioni ed emozioni interpersonali, può poi ricorsivamente intervenire a modulare le realtà psichiche da cui era originariamente emerso. In estrema sintesi e schematicamente, si può dire che, nella prospettiva evoluzionista, il pensiero concettuale e discorsivo nomina l’esperienza emozionale e le intenzioni da esse se­ gnalate, e nominandole le immette in un più vasto ambito di conoscenza condivisibile con altri membri del gruppo sociale e della cultura (Liotti, 2004, 2006). Si può anche dire che, una volta coniugate ai sistemi mo­ tivazionali di ordine superiore, evoluzionisticamente recenti e tipici di Homo sapiens, l’origine di ciascuna emozione primaria non può più es­ sere ricondotta solo alla specifica rete neurale sottocorticale che ancora la sottende, ma inevitabilmente s’intreccia con i contributi che l’attivi­ tà neocorticale offre alla genesi e all’esperienza di quell’emozione: sa­ rebbe dunque vano aspettarsi che le attuali tecniche di neuroim aging ci rivelino la localizzazione in una qualsiasi rete neurale sottocorticale di un’emozione esperita nella coscienza umana. Appaiono così malintese le contrapposizioni fra teorie costruttiviste e teorie evoluzioniste del­ le emozioni: nella Teoria Evoluzionistica della Motivazione entrambe riflettono un aspetto di un unico processo ricorsivo, che va tanto dal basso delle strutture sottocorticali all’alto della neocorteccia (bottoniup), quanto dall’alto al basso [top-down). Il processo di riferire emozioni e intenzioni a strutture linguistiche e concettuali all’inizio della vita è diretto dagli adulti che con il bambino entrano in costante dialogo attribuendo nome e senso all’esperienza emozionale manifestata dal piccolo. Ciò comporta che emozioni e in­ tenzioni possano essere riconosciute correttamente nell’attività refe­ renziale che le connette al pensiero discorsivo e concettuale, oppure variamente fraintese e misconosciute. Linehan (1993) chiama “validazione” il processo di accurato riconoscimento del senso, del valore e dell’efficacia dell’emozione manifestata dall’altro, e “invalidazione” il rispecchiarla in modo erroneo, il fraintenderla o l ’ignorarla total­ mente. È proprio il rapporto fra emozione e motivazione, con il suo fondamento innato e preconcettuale, a permettere di discriminare fra validazione dell’emozione, che rispetta tale rapporto, e invalidazione, che non lo rispetta. Quando, all’interno di uno scambio clinico, si valuta quale pro­ cesso motivazionale sottenda la descrizione di un episodio interattivo si compie il primo passo per decidere se le emozioni che in esso ven­ gono nominate e su cui si riflette portino il segno della validazione o dell’invalidazione. 24

Sintesi e considerazioni conclusive Si noterà che solo alcuni dei sistemi motivazionali nominati in questo capitolo sono stati descritti nei loro aspetti caratteristici: regole di in­ nesco e di arresto, sequenze comportamentali tipiche, corrisponden­ ti sequenze emozionali e aree cerebrali particolarmente attive durante le loro operazioni. Fra quelli di cui manca una descrizione altrettanto dettagliata, il più interessante è il sistema di affiliazione al gruppo, che richiede premesse, riflessioni e descrizioni troppo complesse per esse­ re contenute nello spazio limitato di questo capitolo: esso sarà oggetto di trattazione alFinterno del secondo e del quarto capitolo. Per i siste­ mi superiori, evoluzionisticamente più recenti e tipicamente presenti solo in Homo sapiens, si è offerta qui un’esposizione generica, che tie­ ne insieme operazioni mentali diverse come quelle dello scambio in­ tersoggettivo, della costruzione di significati, del linguaggio verbale, delle capacità metacognitive e di mentalizzazione, della coscienza di sé estesa nel tempo. Il considerare queste operazioni come espressione di processi motivazionali frutto dell’evoluzione della nostra specie può essere considerato arbitrario, ed è giustificato solo dall’assunto darwi­ niano che tutto ciò che si mantiene nei millenni dell’esistenza di una specie vivente deve essere compatibile con il principio evoluzionistico dell’adattamento all’ambiente del pianeta Terra. La stessa evoluzione culturale della conoscenza umana, cruciale nella vita della nostra specie e che ha caratteristiche tanto diverse dall’aspetto biologicamente de­ terminato di Homo sapiens, deve avere radici nell’evoluzione biologica e mantenerle nel tempo, pena la nostra estinzione (Tomasello, 1999). La capacità di apprendere e la libertà di scelta di cui siamo apparen­ temente dotati tanto più degli altri animali sono radicate nella nostra biologia, e dunque non possono disgiungersi dalle motivazioni fondamentali selezionate dall’evoluzione. L’aderire al principio darwiniano dell’adattamento non implica però che se ne debba avere una visione rigida e assolutistica. Non appena ci si dedichi a studiare l’organizzazione complessiva dei vari sistemi motiva­ zionali selezionati dall’evoluzione biologica, si scopre per esempio che al classico principio darwiniano di adattamento si devono aggiungere, se si vuole proseguire coerentemente nell’indagine scientifica iniziata da Darwin, i concetti di proprietà emergente, di exattamento e di pen­ nacchio evoluzionistico. A questi concetti e allo studio dell’architettura generale composta dalla coesistenza di molteplici sistemi motivazionali è dedicato il prossimo capitolo. 25

2 I concetti di gerarchia, eterarchia e pennacchio nello studio evoluzionistico della motivazione Giovanni Liotti

Diversi contributi delle neuroscienze sostengono l’ipotesi che ai siste­ mi motivazionali descritti nel precedente capitolo corrispondano si­ stemi cerebrali ben identificabili (vedi; per esempio, Hein, Morishima, Leiberg et al., 2016; Panksepp, 1998; Panksepp, Biven, 2012). Farina, Ceccarelli e Di Giannantonio (2005) hanno argomentato, in accordo con Panksepp (1998), che i sistemi motivazionali e i correlativi sistemi cerebrali sono organizzati in una gerarchia i cui livelli corrispondono, secondo la teoria avanzata da John Hughlings Jackson, a fasi diverse dell’evoluzione che ha condotto a Homo sapiens (Jackson, 1884/1958). Le applicazioni del pensiero darwiniano alla neurologia, precedenti all’opera di Jackson, sostenevano che le strutture del nevrasse di specie evoluzionisticamente piùantiche venissero sostituite da nuove struttu­ re cerebrali nel corso dell’evoluzione di specie più recenti. Jackson so­ stenne, al contrario, che le strutture più evoluzionisticamente recenti del cervello si stratificano su una base costituita dalle strutture più antiche, le quali dunque permangono, con mutamenti soltanto secondari e limi­ tati, nel nevrasse di specie più recenti. Secondo Jackson, le funzioni del­ le strutture cerebrali più antiche vengono rappresentate di nuovo nelle reti neurali più recenti, le quali così permettono forme di elaborazione dell’informazione più articolate e flessibili. Non solo le strutture neu­ rali più evoluzionisticamente antiche non scompaiono dai cervelli delle specie più recenti, ma esse continuano a elaborare input informativi dai quali dipendono le funzioni delle neostrutture. Di grande importanza è anche l’idea jacksoniana che le strutture evoluzionisticamente recen­ ti esercitano funzioni di controllo e inibizione su quelle più arcaiche. Infine, le strutture più recenti sono anche le più sensibili a “dissolver27

si” (dissolution o de-evolu tion , nella terminologia di Jackson), in modo contingente, di fronte a influenze ambientali patogene. Le manifestazio­ ni conseguenti alla dissoluzione delle funzioni cerebrali superiori (evo­ luzionisticamente recenti) sono espressione dell’attività delle funzioni inferiori (evoluzionisticamente più antiche) che, non più controllate e rese flessibili dalle superiori, appaiono come automatismi sregolati. Le concezioni evoluzionistiche di Jackson si sono rivelate influenti in psi­ copatologia, e lo sono ancora. Per esempio, il concetto di dissoluzione è stato usato recentemente per comprendere le risposte dissociative ai traumi psicologici (Farina, Ceccarelli, Di Giannantonio, 2005; Meares, 1999, 2012) e classicamente per distinguere, nella schizofrenia, i sinto­ mi positivi da quelli negativi (Berrios, 1985). Dopo aver dominato per decenni le teorie generali della neurologia, la teoria di Jackson è anco­ ra influente nelle neuroscienze contemporanee (Franz, Gillett, 2011). Questa influenza è stata evidente, per fare alcuni esempi, nell’opera di MacLean (1985a) sul cervello tripartito, e in quella di Panksepp (1998) sulle neuroscienze affettive. Essa è intuibile anche negli studi che, per spiegare la relazione fra cervello e coscienza, invocano la continua ri­ mappatura ai livelli superiori del nevrasse delle mappe neurali costruite ai livelli inferiori (Edelman, 1989; Damasio, 1999, 2010). Nonostante la sua influenza, la teoria di Jackson sembra oggi po­ co ricordata e compresa. Per esempio, sembrano non comprenderla a fondo gli autori delle critiche al concetto di sistema limbico (per una rassegna, vedi LeDoux, 2012), e i ricercatori che contrappongono le tesi costruttiviste a quelle evoluzioniste nei loro studi di neuroscienza affettiva (per un esempio, vedi Touroutoglou, Lindquist, Dickerson et al., 2015). In entrambi i casi, l’attenzione posta alle singole emozioni sembra andare a detrimento di quella che sarebbe meritevole dedicare all’idea di Jackson, secondo cui le strutture cerebrali evoluzionistica­ mente più recenti esercitano una funzione di regolazione e di organiz­ zazione sulle strutture più arcaiche - idea che appare compatibile con quella, discussa nel capitolo 1, di sistemi motivazionali che regolano e organizzano emozioni e condotte in sequenze tipiche. Così, le critiche al concetto di sistema limbico riassunte da LeDoux (2012) appaiono del tutto giustificate, se si considera il sistema limbico come la “sede” delle singole emozioni chiamate primarie [basic em otions ), ma la loro validità appare assai meno certa quando si pensa in termini di sistemi dinamici di controllo, la cui funzione è dirigere com­ portamenti ed emozioni molteplici verso singole mete dotate di valore evoluzionistico (i sistemi motivazionali descritti nel capitolo 1). Trattan28

ilosi di sistemi funzionali e dinamici che “ricordano” e “organizzano varie informazioni (incluse quelle emozionali) in vista di uno scopo che si produce non nel cervello, ma all’interfaccia fra l’organismo e l’am­ biente, essi necessariamente coinvolgono nelle loro funzioni, oltre alle strutture neurali che MacLean (1970, 1985a) propose di racchiudere nel sistema limbico, strutture localizzate in altre parti del cervello. Se il sistema limbico contiene nodi neurali importanti per le operazioni dei sistemi motivazionali che organizzano in sequenze le emozioni, ma non centri delle singole emozioni, perdono di efficacia le principali critiche rivolte al concetto di sistema limbico: che i suoi confini funzionali siano assai meno ben definibili rispetto a quel che credeva MacLean (1970), e che esso contenga strutture deputate a processi protocognitivi (co­ me l’ippocampo) e non solo a processi emozionali (LeDoux, 2012). Le funzioni protocognitive dell’ippocampo riguardano la memoria impli­ cita e l’ordinamento degli eventi nel tempo, intuitivamente correlabili alle funzioni di organizzazione di emozioni e comportamenti che attri­ buiamo ai sistemi motivazionali. Per quanto riguarda la contrapposizione fra aspetti costruttivistici e aspetti evoluzionistici nello studio delle emozioni, essa non è accetta­ bile nella prospettiva dei sistemi motivazionali. Gli aspetti costruttivi­ stici delle emozioni sono legati alle operazioni dei sistemi motivazionali superiori (neocorticali) che sono frutto dell’evoluzione biologica tanto quanto lo sono i sistemi evoluzionisticamente più antichi. E quindi da attendersi che studi sulla connettività cerebrale umana, ampiamente limitati alla neocorteccia, non troveranno segni della modularità delle reti neurali sottostanti, alla quale modularità la teoria evoluzionista ri­ conduce soltanto il primo livello del processo di genesi delle emozioni. Tuttavia, ciò non implica che tale modularità non esista nelle strutture sottocorticali. Quel che la teoria di Jackson predice è che la suddetta modularità possa essere rivelata solo in presenza di dissoluzione (de­ evoluzione) delle funzioni cerebrali superiori. Gli studi di Panksepp (1998), che sono stati condotti sugli animali e che suffragano le tesi jacksoniane, hanno fatto ricorso molto spesso a tecniche sperimenta­ li di dissoluzione, e mai a tecniche di neuroim aging o allo studio della connettività cerebrale. Per comprendere a fondo il pionieristico modello jacksoniano dell’organizzazione del cervello/mente, è indispensabile prestare atten­ zione al concetto di gerarchia come esso appare nella teoria di Jackson, e poi alla necessità di aggiornare tale teoria alla luce delle conoscenze piìi recenti. 29

L'idea di gerarchia nello studio evoluzionistico della motivazione L’idea jacksoniana di una gerarchia di funzioni, i cui livelli corrispondo­ no alle diverse fasi dell’evoluzione che ha condotto dai rettili all’uomo attraverso la comparsa di uccelli e mammiferi, permette una preziosa vi­ sione d’insieme dell’architettura complessiva dei sistemi motivazionali descritti nel capitolo 1. Questa visione d ’insieme può essere riassunta, in maniera schematica e approssimata, nella tabella 2.1. Il modello proposto da Jackson ci invita dunque a considerare, in Homo sapiens , l ’esistenza di un’organizzazione gerarchica tripartita in cui i vari sistemi motivazionali si collocano al livello inferiore, interme­ dio o superiore in accordo con la loro successiva comparsa nel corso dell’evoluzione. Nella tabella 2.1 abbiamo, con finalità esclusivamente Tabella 2.1

A rc h ite ttu r a g e n e r a le d ei sis te m i m o tiv a z io n a li.

Primo livello (tronco encefalico)

Sistem i di reg o la zio n e fisiologica (om eostasi: alim entazione, term oregolazione, ecc.) Sistem a p redato rio (aggressione finalizzata al procacciam ento di cibo) Sistem a di d ifesa (aggressione e fuga in situazioni di pericolo) Sistem a di esplorazio n e (dell'am biente circostante) Sistem a territoriale (delim itazione di un habitat individuale circoscritto, tana o nido) Sistem a sessua le arcaico o "rettilian o " (senza form azione di coppia sessuale)

Secondo livello (archipallio)

Sistem a d i attacca m en to (ricerca di vicinanza protettiva) Sistem a d ia c c u d im e n to (offerta di cura) Sistem a d e l legam e sessua le di coppia (coppie sessuali relativam ente stabili) Sistem a co m petitivo o agonistico (rango di dom inanza-sottom issione) G io co sociale (esercizio di sistem i m otivazionali sociali disinteressato alla meta) Sistem a c o o pera tivo (attenzione congiunta e condivisa verso un obiettivo) Sistem a di affiliazion e al g ru p p o so d a le (bisogno di appartenenza a un gruppo)

Terzo livello (neopallio umano)

S istem i c o m unicativi e con oscitivi superiori (com unicazione non verbale e intersoggettività prim aria; com unicazione verbale e intersoggettività secondaria; creazione ed esplorazione di strutture di significato)

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euristiche e per semplicità espositiva, utilizzato la teoria di MacLean (1970, 1985a) del cervello tripartito, riconducendo il livello più arcaico della gerarchia dei sistemi motivazionali al cervello rettiliano (troncoencefalico), il livello intermedio al sistema limbico e all’archipallio, e il livello superiore alla neocorteccia umana. I sistemi di ciascun livello elaborano in maniera più articolata e fles­ sibile l’informazione inviata dal livello evoluzionisticamente preceden­ te (con un andamento del flusso d’informazione che va dal basso verso l’alto: bottom-up ), e inviano segnali regolatori - eccitatori o inibitori - ai sistemi del livello inferiore (con un andamento del flusso informazionale dall’alto verso il basso: top-down). Si configura così una ricorsività del flusso informazionale fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale il livello più arcaico a quello intermedio, e quest’ultimo al livello superiore evoluzionisticamente più recente (vedi figura 2.1).

Figura 2.1

G e rarc h ia dei sistem i m o tiv azio n a li.

N.B Le linee continue indicano possibili itinerari evoluzionistici che hanno condotto da un sistema appartenente a un dato livello della gerarchia a un sistema del livello superiore. Le frecce ascendenti e discendenti raffigurano gli scambi ricorsivi di input fra i vari sistemi.

Questo modello gerarchico di ispirazione jacksoniana fornisce un’i­ dea fruibile, e approssimativamente corretta, sia delle linee di svilup­ po dei vari sistemi motivazionali nel corso dell’evoluzione sia delle in­ fluenze reciproche e ricorsive fra vari sistemi. Per esempio, il sistema di attaccamento ha probabilmente preso forma nei mammiferi in stretta connessione con il sistema di difesa per la sopravvivenza già presente in specie evoluzionisticamente più antiche (rettili e uccelli). E verosimile che la pressione ambientale abbia selezionato nei mammiferi, poiché 31

favorenti sopravvivenza e riproduzione, variazioni del genoma espres­ se in comportamenti dei piccoli volti ad aggiungere, al sistema di dife­ sa dalle minacce ambientali (fuga dalla fonte di pericolo e aggressività difensiva), la ricerca di vicinanza protettiva a un adulto della stessa spe­ cie (di regola, ma non sempre, la madre del piccolo). Questa relazione evoluzionistica fra difesa e attaccamento si manifesta nell’interazione funzionale fra i due sistemi: di fronte a una minaccia ambientale (per esempio, ravvicinarsi di un predatore), i piccoli rispondono con la fuga dalla fonte di pericolo (sistema di ditesa) e simultaneamente con ravvi­ cinarsi alla madre (sistema di attaccamento). Se le madri proteggono ef­ ficacemente la prole immatura (per esempio, aggredendo e scacciando il predatore e poi confortando la paura dei piccoli), il sistema di attac­ camento dei figli opera prontamente l’inibizione del sistema di difesa. Riflessioni analoghe a quelle proposte per le relazioni fra attacca­ mento e difesa potrebbero suggerire che l ’evoluzione di tutti i sistemi sociali dei mammiferi (livello intermedio della gerarchia) sia avvenuta in relazione con i preesistenti sistemi arcaici (livello inferiore). Va però notato che sarebbe erroneo, dimenticando che la figura 2.1 è solo uno schema illustrativo, basarsi su essa per ritenere che l ’evoluzione di un dato sistema sociale sia avvenuta a partire da un solo preesistente siste­ ma del livello arcaico. Il sistema di accudimento deve avere avuto, nella sua genesi, relazioni evoluzionistiche non solo con il sistema di difesa (la capacità individuale della madre di difendersi dai pericoli ambientali viene estesa alla protezione dei piccoli), ma anche con i sistemi omeostatici della nutrizione e della termoregolazione, i cui comportamenti ven­ gono anch’essi estesi dalla madre ai piccoli. Analogamente, lo sviluppo evoluzionistico del sistema di attaccamento deve avere avuto origine a partire non solo dal sistema di difesa, ma anche dai sistemi omeostatici. Un altro esempio è offerto dall’evoluzione del sistema agonistico (o di rango), che certamente è avvenuta in relazione al sistema predatorio (attraverso la trasformazione dell’aggressività distruttiva in aggressivi­ tà ritualizzata) e al sistema di difesa (trasformazione della fuga e della finta morte in segnali di resa), ma anche in relazione al sistema sessuale (la posizione “testa in basso e natiche in alto” assunta dalla femmina nel coito è la base evoluzionistica dell’inchinarsi in segno di sottomissione nel corso delle competizioni per la dominanza: Eibl-Eibesfeldt, 1995). L’analisi della genesi evoluzionistica dell’aggressività ritualizzata che insieme all’evoluzione del segnale di resa ha istituito il sistema di rango così come appare nei mammiferi (cioè con la possibilità di co­ struire gruppi sociali basati su articolate e complesse gerarchie di do32

minanza/subordinazione) - offre un ottimo esempio dei processi im­ plicati nella progressiva organizzazione, in una gerarchia stratificata a diversi livelli, dei sistemi motivazionali che prendono forma durante fasi successive nell’evoluzione dei vertebrati. L’aggressività interspe­ cifica (quella che interviene fra membri di specie diverse ed è regola­ ta, rispettivamente, dal sistema di difesa e dal sistema predatorio negli scontri fra prede e predatori) è finalizzata all’uccisione: è aggressività distruttiva. Anche all’interno di specie animali incapaci di forme arti­ colate di vita sociale (per esempio, le specie di rettili), quando si verifica una contesa fra membri della stessa specie (per esempio, una contesa per il territorio) l ’aggressività distruttiva viene inibita prima di causare danni gravi o morte (in genere con l’abbandono del territorio dell’altro da parte dell’invasore). Questa inibizione non dell’aggressività, ma solo dei suoi gradi estremi e distruttivi, è causata dalla percezione dell’alto grado di somiglianza morfologica con l ’altro - una percezione per cui devono essere sufficienti le strutture neurali del tronco encefalico, visto che l’inibizione della distruttività è osservabile negli scontri fra specie di vertebrati praticamente privi di strutture cerebrali limbiche. Permane intatta e non soggetta a inibizione la capacità di esercitare l’aggressivi­ tà distruttiva nei confronti di specie diverse (aggressività interspecifi­ ca). Probabilmente) la pressione selettiva che è alla base dell’inibizione dell’aggressività intraspecifica è identificabile con il rischio che troppe uccisioni fra conspecifici finiscano per compromettere la sopravviven­ za della specie. Una volta che l’archipallio (sistema limbico) si sia suf­ ficientemente sviluppato, come accade nei mammiferi, la primordiale semplice inibizione dell’aggressività distruttiva durante gli incontri fra conspecifici si arricchisce di una nuova caratteristica: la capacità di non limitarsi all’allontanamento o alla fuga dall’altro, e di usare come segna­ le comunicativo una condotta appartenente a un diverso sistema mo­ tivazionale (per esempio, l’inchinarsi nella posizione “testa in basso e natiche in alto” che è tipica del sistema sessuale). La pressione selettiva che spiega il successo, nel corso dell’evoluzione dei mammiferi, dell’i­ nibizione dell’aggressività distruttiva intraspecifica attraverso i segnali di resa (come l ’inchinarsi) è il vantaggio adattativo connesso alla com­ parsa di gruppi sociali coesi i cui membri possono restare vicini anche dopo una contesa, e allo stesso tempo trovarsi organizzati in relazioni di dominanza/subordinazione. Tali gruppi sociali coniugano le risorse unite di molti individui (forza difensiva e di predazione, capacità esplo­ rativa dell’ambiente) alla possibilità di utilizzarle in un’unica direzione (grazie alla sequela del dominante, cioè del capo del gruppo). L’uso di 33

segnali comunicativi tratti da altri sistemi motivazionali per inibire l’ag­ gressività intraspecifìca conduce a comportamenti che gli etologi chia­ mano ritualizzati { ritm iagonistic behavior. Price, 1988; Price, Sloman, Gardner et al., 1994), che istituiscono il sistema agonistico di rango. Una volta istituitosi pienamente, come accade nei mammiferi, il sistema agonistico appare funzionalmente sovraordinato, nell’organizzazione complessiva dei sistemi motivazionali, ai più evoluzionisticamente an­ tichi sistemi predatorio e di difesa per la sopravvivenza (il primo, nella terminologia di Jackson, assume funzione di regolazione e di inibizio­ ne sui secondi, anche se tale funzione può dissolversi in determinate circostanze, con conseguente comparsa di aggressività distruttiva negli scontri fra conspecifici: vedi capitolo 3). L’esempio del sistema agonistico rende chiaro che, per la sua sche­ maticità, la figura 2.1 non è adeguata a illustrare i contributi di m olte­ p lici sistemi. del livello arcaico (in tale esempio, i sistemi di difesa, pre­ datorio e sessuale) nella genesi evoluzionistica di un sin golo sistema del livello sociale intermedio. Inoltre, essa non invita a contemplare la possibilità che nella genesi evoluzionistica di un sistema sociale siano coinvolti elementi di un altro sistema dello stesso livello. Tale possibilità invece esiste, ed è illustrata nel modo più semplice dalla genesi evolu­ zionistica del sistema di formazione del legame sessuale. Quest’ultima è certamente avvenuta in relazione al sistema sessuale arcaico, ma ha altrettanto sicuramente inglobato anche elementi dei sistemi di accudì mento e di attaccamento (vedi, per esempio, l ’analisi etologica del bacio erotico come evoluzione del bacio per nutrire con cui le madri passano ai piccoli, da bocca a bocca, un bolo masticato: Eibl-Eibesfeldt, 1995). Ancor meno illustrabile attraverso lo schema della figura 2.1 è l ’origine evoluzionistica del sistema di gioco sociale. Questa avviene in relazione con almeno un sistema del livello inferiore: perché due o più membri di un gruppo sociale si impegnino nel gioco è necessario che sospendano o modifichino le regole dell’arcaico sistema della territorialità che motiva a definire uno spazio individuale separato da quello occupato da altri. La modificazione delle mete del sistema territoriale arcaico è coinvolta però nella genesi di almeno altri quattro sistemi sociali (attaccamento, accudimento, competizione agonistica e formazione del legame sessua­ le di coppia) che comportano avvicinamenti anche molto intimi fra due individui. Non è quindi possibile che la modificazione di elementi del sistema territoriale arcaico abbia svolto un ruolo centrale e specifico nella genesi evoluzionistica del sistema di gioco sociale. Il gioco socia­ le appare in mammiferi capaci di vita di gruppo (molto studiato dagli 34

etologi l’esempio dei ratti) e sembra derivare da una cruciale e specifica trasformazione del sistema di competizione per il rango. Il gioco sociale, nelle prime fasi della sua evoluzione, si manifesta con comportamenti di finto agonismo, osservabili soltanto nei membri prepuberi del gruppo sociale: finto agonismo, perché al termine di quella che appare come una forma ulteriormente mitigata di aggressività ritualizzata, nessuno dei partecipanti al gioco assume durevolmente, rispetto agli altri par­ tecipanti, ruoli di dominanza o di sottomissione (Panksepp, 1998, p. 284). Ancora più peculiari di quelle del sistema di gioco, rispetto all’i­ dea jacksoniana che i sistemi sociali si sviluppano solo a partire dal li­ vello arcaico, appaiono le origini evoluzionistiche degli altri due sistemi motivazionali sociali, affiliazione al gruppo e cooperazione, che saranno trattate in un’altra sezione del capitolo. Per quanto sia utile e in linea generale corretta, una visione rigida­ mente jacksoniana della gerarchia dei sistemi motivazionali ha dunque limiti evidenti. Questi limiti potrebbero essere superati integrando il modello rigidamente gerarchico con due importanti idee: quella di or­ ganizzazione eterarchica esposta nel prossimo paragrafo, e quella di proprietà emergente. Nella biologia evoluzionista contemporanea, le proprietà emergen­ ti sono studiate attraverso concetti più sofisticati rispetto a quello di adattamento darwiniano classico ottenuto per variazione e selezione naturale: i concetti fra loro correlati di exattamento, di pennacchio evo­ luzionistico e di adattamento generale rispetto ai diversi ambiti motiva­ zionali [dom ain-general adaptation ). Il tema delle proprietà emergenti sarà trattato subito dopo quello dell’eterarchia.

Eterarchia dei sistemi motivazionali Il termine eterarchia, originariamente coniato da Warren McCulloch (1945), è oggi usato per definire organizzazioni i cui elementi possono disporsi, a seconda d elle contingenze ambientali, a diversi livelli di una struttura complessa, e inoltre possono stabilire connessioni funzionali molteplici fra loro. Berntson e Cacioppo (2008) hanno applicato il con­ cetto di eterarchia allo studio della neuroevoluzione dei sistemi motiva­ zionali, e hanno suggerito che gli aspetti eterarchici dell’organizzazione motivazionale siano stati favoriti dall’evoluzione perché aumentano la flessibilità e la rapidità dell’organizzazione nel confrontarsi con le con­ tinuamente mutevoli contingenze ambientali. 35

È importante notare che i due tipi di struttura, gerarchica ed eterarchica, non vanno considerati come mutuamente esclusivi nella descri­ zione di una qualsiasi organizzazione. Così, un modello eterarchico può essere usato per descrivere le interazioni fra classi di cittadini in una de­ mocrazia, oppure l’andamento della connettività fra reti neurali del cer­ vello, senza negare che vi sono aspetti chiaramente gerarchici nell’orga­ nizzazione delle funzioni di un paese democratico o di un cervello. Nel caso di una democrazia, il modello gerarchico descrive bene la funzione (per esempio, legislativa) di controllo che i governanti esercitano sull’in­ sieme degli altri cittadini durante la m aggior parte d el tempo. Il model­ lo eterarchico è però necessario per dar ragione del fatto che durante le elezioni un importante aspetto della funzione di controllo (la scelta del futuro governo) passa dai governanti aU’insieme degli altri cittadi­ ni. Nel caso del cervello, il modello gerarchico consente una migliore visione d’insieme dell’architettura anatomica e della logica funzionale globale dell’organo (processi ricorsivi top-down e bottom -up ), mentre un modello eterarchico dà meglio ragione della flessibilità dell’encefalo nel costruire mappe neurali diverse in funzione delle continuamen­ te cangianti contingenze ambientali a cui l’organismo deve far fronte. Rispetto allo studio dell’organizzazione dei diversi sistemi motiva­ zionali, il modello eterarchico permette di cogliere la possibilità che in determinate situazioni si stabilisca una connessione funzionale diretta fra sistemi evoluzionisticamente arcaici e sistemi regolati da attività neo­ corticali, bypassando l’attivazione dei sistemi intermedi neH’archipallio (cervello antico-mammifero o sistema limbico). Inoltre, il modello ete­ rarchico dà ragione della possibilità che un sistema appartenente a un dato livello gerarchico abbia capacità sovraordinate di regolazione su tutti gli altri sistemi dello stesso livello oltre che sui sistemi del livello gerarchicamente inferiore. Questa seconda possibilità sarà compresa meglio dopo l’esame del concetto evoluzionistico di proprietà emer­ gente che occupa il prossimo paragrafo.

Proprietà emergenti: gli exattamenti e i pennacchi evoluzionistici Per decenni, le applicazioni della biologia evoluzionistica alle neuro­ scienze e alla psicologia generale hanno fatto riferimento al concetto darwiniano classico di adattamento all’ambiente basato su processi di variazione e selezione naturale. Nella prospettiva evoluzionista è stato 36

proposto il concetto di modulo per indicare le mappe cerebrali prese­ lezionate dall’evoluzione attraverso facilitazione sinaptica e i corrispon­ denti schemi emozionali e comportamentali ( l’odor, 1983; Garrans, 2002; per una rassegna delle critiche mosse alla visione massiva della modularità del cervello/mente, vedi Carruthers, 2006). Ogni modulo è considerato frutto di iniziali variazioni casuali del genoma, ed è sele­ zionato successivamente grazie alle soluzioni che fornisce rispetto a uno specifico problema ambientale. Un modulo evoluto attraverso variazio­ ne e selezione è anche noto come “adattamento relativo a un ambito specifico” {domain-specific adaptation) perché è legato alla soluzione di uno specifico problema nell’interazione fra organismo e ambiente. Si noti che il senso della parola “adattamento” è diverso, nel gergo tecnico dell’evoluzionismo, dal senso corrente di “adeguamento alla pressione di un’autorità ”, e somiglia piuttosto all’idea corrente di “so­ luzione creativa a un problema” (Popper, 1990). Per esempio, il siste­ ma di attaccamento si è evoluto probabilmente come “soluzione crea­ tiva” al problema generato dal prolungato sviluppo del cervello dopo la nascita con conseguente incremento della capacità di apprendimento (ovviamente un processo evoluzionistico adattativo), quando questo in­ cremento è ottenuto attraverso neotenia, cioè attraverso il mantenimen­ to prolungato di caratteristiche infantili dopo la nascita. La neotenia, oltre a possedere evidenti aspetti adattativi, ne comporta anche alcuni disadattativi perché ritarda la maturazione, nei piccoli della specie, di efficienti capacità di fuga e lotta nell’incontro con minacce ambienta­ li. La capacità di chiedere e ottenere protezione da tali minacce attra­ verso le emozioni e i comportamenti di attaccamento è una soluzione efficace del problema creato dal conflitto valoriale fra vantaggi (mag­ giore sviluppo cerebrale e delle capacità di apprendimento) e svantag­ gi (ritardato sviluppo delle capacità di fronteggiare individualmente le minacce ambientali) della neotenia. Il sistema di attaccamento è dun­ que un esempio di adattamento relativo alla soluzione di uno specifico problema ambientale (dom ain-specific adaptation , dove il domain è la protezione sociale dai pericoli ambientali). Esso si può ricondurre a un modulo cerebrale evoluto per variazione e selezione. Certamente alcu­ ni sistemi motivazionali, come quello di attaccamento, si sono evoluti come adattamenti darwiniani classici, domain-specific, attraverso varia­ zione e selezione, ma ciò non si può affermare per tutti i sistemi motiva­ zionali elencati nella tabella 2.1. Esistono probabilmente processi evo­ luzionistici diversi dagli adattamenti darwiniani classici implicati nella genesi di altri sistemi motivazionali. 37

Dobbiamo soprattutto a Gould (1991) le argomentazioni più con­ vincenti a favore dell’esistenza e dell’importanza di processi evoluzio­ nistici diversi dagli adattamenti domain-specific. Gould (1991) chiamò exaptation (exattamento) ogni caratteristica utile a un organismo che non nacque come un adattamento specifico per la soluzione del proble­ ma che ora risolve, ma fu cooptato solo successivamente per gestire tale problema. Un esempio classico di exattamento sono gli ossicini dell’o­ recchio medio dei mammiferi, nati originariamente nei rettili per crea­ re un complesso sistema mandibolare snodabile capace di aprirsi per ingerire prede voluminose. Le ossa del sistema mandibolare dei rettili, rese inutili nelle successive speciazioni dei mammiferi che condussero a un efficiente sistema di masticazione basato sull’articolazione eli due sole ossa (mascellare e mandibolare), si atrofizzarono nei mammiferi, e i piccoli residui atrofici furono cooptati nel vicino orecchio medio per migliorare la funzione uditiva. In un precedente e assai influente articolo, Gould e Lewontin (1979) avevano proposto un concetto strettamente correlato a quello di exatta­ mento: il concetto di pennacchio (spandrel) evoluzionistico. I pennacchi evoluzionistici non nascono come adattamenti darwiniani classici, ma prendono forma e divengono utili per adattamento e sopravvivenza a partire dalla sommatoria degli effetti collaterali di diversi adattamenti domain-specific. I pennacchi evoluzionistici, dunque, sono dom ain-general adaptations che da un lato emergono da aspetti collaterali di un insieme di adattamenti darwiniani classici, e dall’altro connettono fra loro tali adattamenti specifici. Il concetto di pennacchio evoluzionistico è tratto, in senso metafori­ co, dal concetto di pennacchio in architettura (Gould, Lewontin, 1979). In architettura esistono soluzioni a precisi problemi posti al costruttore che sono assimilabili metaforicamente agli adattamenti dom ain-specific (darwiniani classici) della biologia evoluzionista. Per esempio, gli archi­ tetti hanno dovuto risolvere il problema di fornire un supporto a ponti e viadotti senza ricorrere a sostegni tanto ravvicinati fra loro da impe­ dire il passaggio di persone, animali, veicoli o natanti sotto la struttura. Far poggiare il ponte su supporti (piloni o colonne) distanti fra loro è una soluzione specifica di questo problema architettonico, metafori­ camente assimilabile a un adattamento dom ain-specifc. Un altro pro­ blema che l ’architetto deve simultaneamente risolvere è il seguente: il peso di un ponte non deve essere tale da soverchiare le capacità di ca­ rico dei supporti che è stato necessario distanziare. Tagliare via spicchi arcuati dalla base del ponte, fra un supporto e l'altro, è una soluzione 38

del problema anch’essa metaforicamente assimilabile a un adattamen­ to darwiniano classico (domain-specific). Effetto collaterale, emergente dall’accostamento fra archi e strutture murarie poggianti sui supporti, è la comparsa di spazi triangolari privilegiati alla vista, chiamati pen­ nacchi (spandrels).

Figura 2.2

S p an d re l o p e n n a c c h io a rch ite tto n ic o .

N.B. Il pennacchio architettonico è usato in senso metaforico nei contributi recenti alla teoria dell'e­ voluzione per illustrare il concetto di caratteristiche morfologiche o funzionali che emergono dall'ac­ costamento e dall'interazione di adattamenti darwiniani classici.

La figura 2.2 illustra il· fatto che un pennacchio non è il risultato diretto della soluzione di un particolare problema architettonico, ma em erge dall’accostamento delle soluzioni dirette che sono state trovate per due o più diversi problemi (nell’esempio appena fatto, rendere so­ stenibile il peso del ponte e lasciare accessibili gli spazi tra i supporti). Il fatto che i pennacchi architettonici siano sostanzialmente effetti col­ laterali delle specifiche soluzioni date a due o piti problemi non implica però che essi siano insignificanti e inutili: al contrario, i pennacchi sono particolarmente ben visibili nell’insieme dell’intera struttura architet­ tonica, e possono quindi essere utilizzati successivamente per apporvi, per esempio, stemmi ed emblemi capaci d ’identificare l ’appartenenza della struttura a una città o a una casata. Allo stesso modo, proprietà emergenti dalla selezione naturale di due o più adattamenti evoluzio­ nistici dom ain-specific possono essere utilizzate per funzioni nuove, ca­ paci di incrementare l’adattamento gen erale all’ambiente anche se non 39

appartengono all’ambito funzionale (domain) specifico ad alcuno de­ gli adattamenti darwiniani classici dal cui insieme emergono. Per que­ sta ragione, oltre che “pennacchi evoluzionistici” (Gould, Lewontin, 1979), le proprietà emergenti da un insieme di moduli possono essere chiamate “adattamenti dom ain-gcncral". Come i pennacchi architettonici possono acquisire importanza cen­ trale neH’identificare l ’appartenenza e lo scopo finale di un edificio, così i pennacchi evoluzionistici nel cervello possono costituire la base per funzioni mentali di cruciale importanza nella specie U omo sapiens , come la costruzione di strutture di significato. Secondo Gould il cer­ vello umano, che è l’organo più complesso e flessibile in natura, eleva numerosi pennacchi a partire dai moduli che compongono le sue basi evoluzionistiche, e da tali pennacchi originano funzioni particolarmen­ te interessanti per gli psicologi (Gould, 1991, p. 59).

Quali sistemi motivazionali potrebbero essere pennacchi evoluzionistici? Sono probabilmente pennacchi evoluzionistici, oltre alle motivazioni comunicative e conoscitive superiori tipiche di Homo sapiens , i sistemi motivazionali dell’esplorazione e dell’affiliazione al gruppo. Il caso del sistema arcaico di esplorazione è stato acutamente esa­ minato da Panksepp (1998), che ha osservato anzitutto come la re­ te neurale diffusa che lo rappresenta sia fittamente connessa a tutti i moduli cerebrali, relativamente incapsulati l’uno rispetto all’altro, che rappresentano gli altri sistemi del livello motivazionale arcaico (omeo­ stasi, difesa, predazione, territorialità, sessualità rettiliana). Le molte­ plici connessioni neurali del sistema esploratorio a tutti gli altri sistemi motivazionali arcaici corrispondono a una facile osservazione etologi­ ca: il sistema esploratorio (da Panksepp chiamato sistema di ricerca) guida all’acqua l’animale assetato, al caldo l’animale infreddolito, al ci­ bo l’animale affamato, alla ricerca di luoghi sicuri l’animale minacciato da predatori, a occasioni di gratificazione orgasmica l’animale sessual­ mente eccitato (Panksepp, 1998, p. 167). La motivazione a esplorare l ’ambiente circostante sembra dunque rappresentare un esempio della proprietà delle organizzazioni eterarchiche per cui un sistema motiva­ zionale appartenente a un dato livello gerarchico può acquistare capa­ cità sovraordinate di intervenire nelle funzioni di tutti gli altri sistemi dello stesso livello. Se il sistema di esplorazione dell’ambiente fosse un 40

pennacchio emerso da tutti i moduli (adattamenti dom ain-specijic) del livello motivazionale arcaico, la sua capacità di intervenire nelle opera­ zioni degli altri sistemi di questo livello sarebbe facilmente spiegabile. Panksepp nota che è un evidente vantaggio evoluzionistico, in termini di economia funzionale, disporre di un solo sistema capace di motiva­ re e guidare ogni forma di esplorazione, piuttosto che avere un sistema esploratorio separato per ogni bisogno corporeo (Panksepp, 1998, p. 166). Se quindi il sistema esploratorio fosse emerso come un pennac­ chio dai singoli elementi appetitivi di ogni sistema arcaico domain-specific, proprio il suo essere una proprietà emergente da molti sistemi do­ tata di vantaggi “economici” lo avrebbe qualificato come adattamento

domain-general. Analogamente a quanto Panksepp ipotizza sia accaduto per l ’esplo­ razione al livello dei sistemi motivazionali arcaici, il sistema di affiliazio­ ne al gruppo potrebbe essere emerso come pennacchio evoluzionistico dall’insieme degli altri sistemi sociali. Un indizio a favore di quest’ipo­ tesi è che solo alcune specie di primati - e in particolare quelle la cui origine evoluzionistica è più recente - sono capaci di forme articolate e complesse vita di gruppo (de Waal, 1982, 1989, 1996). Essendo queste specie evoluzionisticamente più recenti, in esse la motivazione all’affi­ liazione deve essere emersa in relazione all’esercizio di preesistenti si­ stemi motivazionali sociali. Poiché in queste specie più recenti l ’eserci­ zio delle altre motivazioni sociali non può che avvenire nel contesto di un gruppo, è verosimile che il sistema dell’affiliazione sia emerso come un pennacchio dall’insierpe degli aspetti collaterali di tutti gli altri si­ stemi sociali (oltre ad avere relazioni evoluzionistiche con il sistema ar­ caico della territorialità). Non si può escludere, inoltre, che il sistema di affiliazione al gruppo possa acquistare proprietà eterarchiche di sovraordinazione a tutti gli altri sistemi sociali, introducendo variazioni: - nell’aggressività ritualizzata del sistema agonistico (variazioni che rendono possibile la formazione di gerarchie di dominanza e subor­ dinazione coinvolgenti molti individui); - nei comportamenti di attaccamento e accudimento, variazioni che permettono di rivolgerli a più di un membro del gruppo e non so­ lo alla propria madre e al proprio figlio (alloparenting , accudimento cooperativo: Hrdy, 2009); - nei comportamenti di legame sessuale (variazioni che introducono in alcune specie lo slittamento dal legame sessuale di coppia al lega­ me sessuale privilegiato di un maschio con molte femmine, o di una femmina con molti maschi: Panksepp, 1998). 41

- nella cooperazione e nel gioco sociale, che possono estendersi dall’in­ terazione di due individui a quella fra molti individui. Per la sua importanza nell’insieme delle motivazioni umane a diver­ se forme di relazione sociale, il sistema di affiliazione al gruppo sociale sarà oggetto di ulteriore approfondimento in un successivo capitolo.

Intersoggettività e coscienza di ordine superiore come pennacchi evoluzionistici Tomasello (1999) ha argomentato in maniera assai convincente che un singolo adattamento darwiniano, e non una combinazione di moltepli­ ci adattamenti, deve aver aperto la strada che conduce dall’evoluzio­ ne biologica all’evoluzione culturale tipica della specie umana. Que­ sto singolo adattamento darwiniano, nell’analisi di Tomasello (1999), è probabilmente costituito da un forte potenziamento della motivazio­ ne cooperativa. Grazie a tale potenziamento, di per sé probabilmente riconducibile al classico meccanismo di variazione e selezione (adat­ tamento dom ain-specific), emergerebbero (come pennacchi evoluzio­ nistici) la capacità di condividere attivam ente con l ’altro l ’attenzione rivolta verso un qualunque oggetto del mondo, e di percepire l ’altro come simile a sé nell’intenzionalità. Tale percezione e condivisione so­ no costituenti essenziali del sistema motivazionale dell’intersoggettività (Stem, 2004,2005) che quindi si costituirebbe come pennacchio evolu­ zionistico. Le riflessioni che hanno permesso di sviluppare quest’ipotesi sull’origine della motivazione intersoggettiva meritano approfondimen­ to, perché permettono di comprendere in cosa la visione evoluzionisti­ ca della coscienza di sé e del suo ruolo nella regolazione della condotta e delle emozioni somigli, e in cosa differisca, da tante altre teorie (per esempio dalla teoria psicoanalitica classica dell’Io, del Super-Io, dell’Es e dell’Inconscio). La comparsa, nel repertorio comportamentale di una qualsiasi spe­ cie vivente, di cooperazione e comportamenti altruistici rivolti verso conspecifici con i quali non si hanno relazioni di parentela e con i quali non si forma una coppia sessuale è un evento eccezionalmente raro nel corso dell’evoluzione. Non vi è dubbio che esso si sia verificato in mi­ sura straordinaria nell’evoluzione della specie umana (Tomasello, 1999; Warneken, Chen, Tomasello, 2006). La spiegazione evoluzionistica più nota del comportamento cooperativo, prima degli studi di Tomasello e collaboratori, si basava sul concetto di altruismo reciproco (Trivers, 42

1971). L’altruismo reciproco è una strategia condizionale (del tipo “Ti aiuto se tu mi aiuti”) basata comunque sull’interesse del singolo, che è primariamente motivato a ottenere un vantaggio dalla cooperazione. L’altruismo reciproco svolge un ruolo importante nell’evoluzione dei comportamenti cooperativi, ma non spiega alcune osservazioni derivan­ ti dallo studio degli scambi madre-neonato e dall’etologia comparata. Ne elenchiamo, qui di seguito, tre. Gli scambi intersoggettivi fra il neonato e la madre sono accompa­ gnati da espressioni di gioia che non corrispondono ad alcun vantag­ gio personale estraneo allo scambio stesso (Hobson, 2004; Trevarthen, 1979, 2005). I gesti spontanei di aiuto olferto esibiti da piccoli umani di diciotto mesi e rivolti a completi estranei non dipendono da alcun vantaggio osservabile che il bambino possa ottenere o aver ottenuto gra­ zie a essi (Warneken, Tomasello, 2009). Solo il primate Homo sapiens è capace di puntare l’indice nella direzione di un oggetto con l’unico scopo di condividere con altri l ’attenzióne verso di esso, e non con lo scopo di ottenere altri tipi di gratificazione personale (Tomasello, 1999; Tomasello, Carpenter, Liszkowski, 2007). Questo gesto, inoltre, si ma­ nifesta per la prima volta nel corso della vita, in tutte le culture umane, alla stessa età (intorno al nono mese di vita), suggerendo che esso di­ pende da un singolo nuovo adattamento darwiniano, coincidente con la comparsa della nostra specie (Tomasello, 1999). La spiegazione più plausibile di queste osservazioni è dunque che, in aggiunta o in alternativa all’altruismo reciproco, si sia verificato in Homo sapiens un adattamento darwiniano (.dom ain-specific ) capace di potenziare in misura straordinaria la tendenza a cooperare fra pari che è già presente in altri mammiferi, ma solo in forme meno sviluppate. Un tale potenziamento comporta la tendenza a condividere l’attenzione verso uno stesso oggetto prima che da tale condivisione possa derivare, nella coscienza o comunque nell’organizzazione comportamentale del singolo, la previsione di un vantaggio esclusivamente personale. In altre parole, mentre in altre specie di mammiferi (e di primati in particola­ re) la cooperazione è indotta da un obiettivo intrinseco ad altri sistemi motivazionali e che appare più facilmente raggiungibile se condiviso, in Homo sapiens la tendenza alla condivisione sembra manifestarsi senza bisogno del sostegno di altre motivazioni. Se altri mammiferi possono affiancarsi e collaborare nel dare la caccia a una preda, mossi a ciò dalla motivazione di procurarsi cibo, gli esseri umani sembrano affiancarsi e osservare congiuntamente l ’oggetto verso cui punta l’indice di uno dei due anche in assenza di altre motivazioni. 43

La possibilità che un singolo adattamento evoluzionistico conduca a un tale potenziamento del sistema motivazionale cooperativo richie­ de una teoria della selezione darwiniana che include la selezione ba­ sata sul gruppo oltre a quella basata sull’individuo o sul singolo gene. Secondo questa teoria, la competizione per l ’adattamento all’ambiente può riguardare, oltre ai singoli individui, anche interi gruppi sociali: i gruppi con il maggior numero di membri capaci di interagire fra loro su basi cooperative avrebbero dei vantaggi sostanziali sugli altri grup­ pi. Le teorie di gruppo sulla selezione darwiniana sono state screditate per anni, e sostituite da teorie che considerano il singolo individuo, o ancor più riduzionisticamente il singolo gene (Dawkins, 1976), come l ’unità di base su cui opera la selezione naturale. Tuttavia, le teorie del­ la selezione di gruppo hanno nuovamente acquistato credibilità grazie all’emergere delle teorie della selezione a più livelli. I processi della se­ lezione naturale sembrano infatti operare, secondo le più recenti e con­ vincenti analisi della biologia evoluzionista, a livelli multipli: il livello dei geni all’interno dei singoli individui, il livello dell’individuo all’in­ terno del gruppo sociale, e il livello del gruppo sociale all’interno della popolazione o dell’intera specie (Bowles, 2006; Boyd, 2006; Richerson, Boyd, 2005; Sober, Wilson, 1998). In sintesi, l ’antropologia evoluzionista più recente sostiene l’ipotesi che un incremento della capacità di cooperare su base paritetica con i conspecifici sia un fenomeno coevolvente con l ’emergere della capaci­ tà di scambi intersoggettivi. La coevoluzione di cooperazione e inter­ soggettività - la prima come adattamento darwiniano classico e la se­ conda come pennacchio - caratterizza l ’evoluzione di Homo sapiens, tanto da valergli l ’appellativo di specie ipersociale (Tomasello, 1999). Dall’incremento della capacità di cooperare su base paritetica emerge la capacità di percepire se stesso simile all’altro nell’intenzionalità (To­ masello, 1999; Tomasello, Carpenter, Cali et al., 2005). La percezione di sé-con-l’altro su basi di somiglianza viene così a coesistere con gli al­ tri tipi di percezione interpersonale, legati ai sistemi motivazionali più evoluzionisticamente antichi e comuni a tutte le specie di primati, che invece sottolineano le differenze fra sé e l ’altro. Per esempio, il sistema di attaccamento induce a percepire l’altro come “più forte e più sag­ gio” nella sua disponibilità ad aiutare (Bowlby, 1979), mentre il siste­ ma dell’intersoggettività, emerso da quello cooperativo, permette di soffermarsi sulla somiglianza nell’intenzionalità, e di conseguenza sul­ la possibilità di condividere motivazione ed esperienza (Cortina, Liotti, 2010, 2014). Altri esempi di percezione interpersonale basata sulle 44

differenze (anziché sulla pariteticità e la condivisione) sono forniti dal sistema di accudimento (che invita a percepire l’altro come vulnerabi­ le e bisognoso di aiuto e sé come capace di offrire aiuto), dal sistema di rango (che induce a percepire sé e l’altro come superiore o inferiore in termini di dominanza) e dal sistema sessuale (che orienta a percepire sé e l’altro come diversi nelle attrattive erotiche). Una volta verificatosi l ’incremento della capacità di cooperare su base paritetica, la conseguente percezione di sé come simile all’altro nell’intenzionalità può dunque estendersi anche alle motivazioni che di per se stesse implicano una percezione asimmetrica di sé-con-l’altro, sussumendole in un’organizzazione eterarchica. Diviene cioè possibile percepire l’altro, mentre gli si chiede o gli si offre aiuto oppure mentre se ne riconosce il ruolo subordinato o dominante, come portatore de­ gli stessi bisogni relazionali asimmetrici che si riconoscono in se stessi. Si può esprimere questa possibilità affermando che il sistema dell’intersoggettività, in quanto sistema emergente, può acquisire episodica­ mente un livello eterarchicamente sovraordinato nell’organizzazione complessiva dei sistemi motivazionali. Comprendiamo così le ragioni per ipotizzare che la motivazione intersoggettiva quando è attiva apra la strada allo sviluppo delle forme di comunicazione complessa tipica­ mente umane (incluso il linguaggio), imbeva le sequenze emozionali caratteristiche di tutti gli altri sistemi motivazionali con la qualità e la continuità delle narrazioni coscienti di sé, e riduca (come previsto nel­ la classica teoria di Hughlings Jackson) gli automatismi intrinseci alle regole di attivazione e di arresto dei sistemi motivazionali più arcaici. In altre parole, la considerazione della motivazione intersoggettiva è al centro, nella prospettiva evoluzionista, dell’idea che le funzioni mentali superiori di Homo sapiens sono correlate all’esercizio della coscienza di sé e delle funzioni metacognitive (Liotti, 1994/2005).

La motivazione intersoggettiva e le funzioni mentali superiori Il sistema motivazionale dell’intersoggettività può essere considerato, oltre che dal punto di vista dell’eterarchia, anche da quello diverso ma non incompatibile (vedi sopra nel paragrafo dedicato al concetto di eterarchia) della teoria gerarchica jacksoniana. La seconda prospettiva evidenzia che il sistema dell’intersoggettività, in quanto evoluzionisti­ camente più recente, esercita una funzione regolatrice sui sistemi sot­ 45

tostanti da cui emerge, mentre un’abnorme attivazione di questi ultimi può condurre, per usare la terminologia di Hughlings Jackson, a una più o meno protratta dissoluzione della motivazione intersoggettiva. Quest’ultima considerazione ha importanti implicazioni per la psicopa­ tologia e la psicoterapia, che saranno oggetto di attenzione nella Parte terza del libro. Qui ci soffermeremo a riflettere sull’idea che il sistema dell’intersoggettività e le coevolventi funzioni mentali superiori emer­ gono dai sistemi evoluzionisticamente più arcaici, e proprio per questo motivo, secondo la prospettiva jacksoniana, possono esercitare una fun­ zione regolatrice e modulatrice sull’attività di tali sistemi. Una prima riflessione è che la teoria evoluzionistica, se applicata allo studio delle funzioni mentali superiori, appare in accordo con la versio­ ne più recente della teoria di Damasio (2010), che vede nelle emozioni e nei sentimenti, più ancora che nel linguaggio e nel pensiero verbale, il fondamento da cui emerge la coscienza. Una volta che sia emersa la coscienza, tutti i motivi per l ’interazione sociale evoluzionisticamente preesistenti possono, con le emozioni che li caratterizzano, essere rap­ presentati in essa, oppure possono restare non rappresentati e perma­ nere nell’originario stato inconscio (si tratta qui, evidentemente, di un livello di inconscio cognitivo, non conseguente alla rimozione: Liotti, 2016b). Si noti che i contenuti dell’inconscio non rimosso (in parte coin­ cidente con la conoscenza implicita della psicologia cognitiva), secondo la prospettiva evoluzionista qui riassunta, di norma vengono solo gra­ dualmente e solo in parte rivestiti, durante lo sviluppo della personalità e nel contesto dell’esperienza intersoggettiva lungo tutto l’arco di vita, dalle forme del pensiero verbale. Tomasello (1999), a questo riguardo, argomenta con efficacia che la possibilità stessa di sviluppare il linguag­ gio discende direttamente, in Homo sapiens , dalla capacità di percepire l’altro simile a sé nell’intenzionalità. La differenza con la teorizzazione psicoanalitica classica dell’inconscio basato sulla rimozione è evidente. Da questa angolatura evoluzionista, il fondamento dell’esperienza co­ sciente è squisitamente emozionale e intersoggettivo: su esso si costruisce successivamente l’edificio della coscienza di ordine superiore (Edelman, 1989) o estesa (Damasio, 2010), mediato dal linguaggio e soggetto dun­ que all’influenza delle diverse culture umane e delle diverse esperienze individuali. Ne consegue che nessuna influenza culturale sui contenuti della coscienza può annullare il fondamento evoluzionistico e dunque universale sul quale la coscienza di ordine superiore poggia. Un’importante implicazione di questa prospettiva teorica è la possi­ bilità di indagare gli organizzatori primari (i sistemi di primo e secon­ 46

do livello nell’architettura motivazionale) che sottendono i contenuti coscienti dei dialoghi clinici. L’attività di questi organizzatori è infatti evidenziabile, secondo la teoria, come fondamento delle forme assai più variabili dei contenuti coscienti del dialogo, legate ai contesti fami­ liari e sociali che hanno influenzato lo sviluppo individuale di ciascun partecipante a esso. Su questa implicazione della teoria è fondato un metodo di indagine dei sistemi motivazionali nei trascritti delle sedute di psicoterapia, noto come AIMIT (Analisi degli Indicatori della Moti­ vazione nei Trascritti), che verrà riassunto nella seconda parte di que­ sto volume e che è trattato estesamente in un libro curato da Liotti e Monticelli (2008).

Note sul dibattito riguardante gli aspetti categoriali e dimensionali delle emozioni La classica contrapposizione fra le due teorie dominanti sulle emozioni, evoluzionistica e costruttivistica, ha preso in anni relativamente recen­ ti la forma di un dibattito fra chi sostiene una visione categoriale delle emozioni di base o primarie (in genere, coloro che si sentono vicini alla teoria evoluzionistica) e chi, anche per queste, sostiene una visione di­ mensionale (tipicamente, i sostenitori della teoria costruttivistica). Rin­ viando il lettore interessato a saperne di più a un volume interamente dedicato al confronto dettagliato fra la teoria categoriale e quella di­ mensionale delle emozioni (Zachar, Ellis, 2012), ci sembra utile, a con­ clusione di questo capitolo, fare riferimento alla posizione assunta in questo dibattito dalla Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM). Secondo la versione più rigida della teoria categoriale, ogni emo­ zione primaria o di base corrisponde a uno specifico modulo cerebrale sottocorticale, selezionato dall’evoluzione, relativamente indipendente dagli altri moduli, e solo debolmente influenzabile dalle attività sovramodulari delle reti neurali neocorticali. E quindi giustificato conside­ rare ogni emozione primaria come categorizzabile, identificare le più evidenti categorie emozionali: paura, collera, tristezza, disgusto, sor­ presa, gioia. Per la teoria dimensionale, invece, ogni emozione umana è creata grazie all’intervento dei processi cognitivi superiori dell’uomo: le componenti fisiologiche delle emozioni (comportamenti motori, at­ tivazioni dei visceri), che l ’uomo in parte condivide con altri animali, sono trasformate in emozioni propriamente dette soltanto grazie all’in ­ tervento delle regioni neocorticali e “cognitive” del cervello umano. Le 47

emozioni, essendo frutto di processi cerebrali “cognitivi”, continui, ba­ sati sull’infinita capacità di integrazione fra diversi elementi, non sono categorizzabili, e vanno studiate nel loro aspetto dimensionale. È difficile negare che ciascuna delle due teorie sulle emozioni, cate­ goriale e dimensionale, adduce argomenti formidabili a proprio soste­ gno, e che per questo motivo prestigiosi sostenitori di ciascuna delle due teorie hanno progressivamente mitigato l’iniziale rigidità della propria posizione (Zachar, Ellis, 2012). Per esempio, uno dei principali espo­ nenti della teoria dimensionale ha sostenuto che i processi (dipenden­ ti da cultura di appartenenza e fattori individuali di apprendimento) attraverso i quali l’esperienza emozionale viene costruita da parte del­ le strutture e funzioni superiori del cervello prendono le mosse da un singolo nucleo emozionale (care affect) universale e indipendente dalla cultura (Russell, 2009). Un esponente della teoria categoriale com ejaak Panksepp, che è un convinto evoluzionista, ha giudicato interessante il punto di vista di Russell, rimarcando come la prospettiva darwinia­ na non neghi che le emozioni primordiali vadano incontro a successivi parziali mutamenti quando nuove reti neurali si sovrappongono, nelle specie più recenti, a quelle più antiche (Panksepp, Biven, 2012). Il dis­ senso si riduce allora sostanzialmente all’idea che basti un solo nucleo emozionale (oscillante fra una valenza positiva e una negativa) a soste­ nere la costruzione di una gamma tanto ampia di emozioni come quelle che si osservano nell’uomo, oppure se sia più sensato ritenere che esi­ stano diverse categorie emozionali selezionate dall’evoluzione a soste­ nere le molteplici esperienze affettive accessibili alla coscienza umana. L’avvicinamento graduale fra le teorie categoriali e dimensionali del­ le emozioni si manifesta anche con la disponibilità degli evoluzionisti a mitigare la troppo rigida distinzione fra i tre livelli del cervello (tron­ co encefalico, sistema limbico e neocorteccia) sostenuta da MacLean (1985a): le influenze reciproche fra i tre livelli sono certamente molto più pervasive rispetto a quanto sostenuto nell’originaria teoria del cer­ vello triuno, e costringono a rivedere l ’idea che i confini fra i “tre cer­ velli” siano, nell’uomo, definibili con nettezza piuttosto che in modo più malleabile. A questo parziale riavvicinamento fra le teorie categoriali e dimen­ sionali delle emozioni, la TEM aggiunge un interessante contributo. 1 si­ stemi motivazionali più recenti evolvono da quelli più antichi, e usano le informazioni emozionali elaborate da essi per la sintesi di emozioni più raffinate e complesse. Inoltre, i sistemi motivazionali più recenti possono organizzare le nuove emozioni in sequenze caratteristiche per 48

ciascun nuovo sistema, così che l’emozione elaborata acquista, una vol­ ta che il cervello umano permetta di esperirla nella coscienza, qualità diverse rispetto all’emozione corrispondente elaborata dal sistema più arcaico. In altre parole, secondo la TEM esiste una possibilità di inte­ grazione delle emozioni a un livello motivazionale inconscio diverso da quello cognitivo, linguistico e autocosciente che coinvolge strutture e funzioni della neocorteccia umana. L’integrazione e l’articolazione com­ plessa delle emozioni arcaiche “categoriali”, ottenuta nella dimensione motivazionale inconscia, precede funzionalmente l’ulteriore integrazio­ ne e articolazione che dipende dalle dimensioni operative mediate dalla coscienza umana e dal linguaggio. Non è dunque vero, secondo la TEM, che le emozioni siano create dalle strutture di significato verbalizzabi­ li, individualizzate e influenzate dalla cultura, rese possibili dagli strati più alti del cervello umano (come vogliono le versioni più estreme del costruttivismo), ma neppure è vero che sia legittimo trascurare l’aspetto dimensionale dell’elaborazione delle emozioni, per concentrarsi unica­ mente su quello categoriale. Esempi del ruolo dei sistemi motivazionali nell’istituire differenti qualità espressive ed esperienziali all’interno di un’emozione categorizzata con lo stesso nome (paura, o collera, o tri­ stezza, e così via) saranno forniti nel capitolo 8.

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3 L’aggressività distruttiva nella relazione interumana Una prospettiva evoluzionistica

Giovarmi Liotti, Lucia Cancheri, Claudio lauri ucci, Enrico Costantini, Rosario Esposito, Giuseppe Maria Pollavi, Erika Belfiore

L’aggressività distruttiva intraspecifica - le condotte volte a uccidere o a danneggiare gravemente i membri della propria specie (conspeci­ fici) - appare più diffusa e prende forme diverse (incluse la tortura e il suicidio) in Homo sapiens rispetto alle popolazioni di qualunque altra specie animale. Non si notano differenze altrettanto marcate per le al­ tre forme di aggressività, come quella distruttiva interspecifica (rivolta a membri di altre specie per predare o difendersi da predatori) e quel­ la intraspecifica ritualizzata (tipica delle contese per la dominanza nei gruppi sociali: vedi capitolo 1). La comprensione dell’aggressività distruttiva intraspecifica nella re­ lazione interumana è fra gli ambiti di indagine più importanti dell’an­ tropologia filosofica, della sociologia e della psicologia. La teoria di Freud - che tale comprensione possa essere raggiunta considerando l ’esistenza di un istinto di morte (Thanatos) innato, universale e pri­ mario come l’istinto di vita (Eros) - ha perso progressivamente la sua influenza. Erich Fromm (1973), per esempio, ha raccolto un notevole consenso nella comunità scientifica quando ha esaminato l’ipotesi alter­ nativa, che l’aggressività difensiva (benigna) esprima una tendenza bio­ logicamente determinata e universale in Homo sapiens e sia assimilabile a un istinto, mentre la spiegazione dell’aggressività distruttiva (maligna) vada cercata all’interno dello sviluppo della personalità individuale e non nell’universale dimensione dell’istinto. Secondo la Teoria Evoluzionistica della Motivazione (tem ) presen­ tata nei capitoli precedenti, la spiegazione della particolare tendenza umana all’aggressività distruttiva intraspecifica non va cercata in una dimensione puramente istintuale (come suggeriva la teoria freudiana 51

dell’istinto di morte), né all’opposto nella mera influenza di fattori lega­ ti all’apprendimento individuale (come volevano i comportamentisti), e neppure nella distinzione fra aggressività benigna di tipo istintuale e aggressività maligna legata allo sviluppo individuale della personalità (come proponeva Fromm). Piuttosto, tale spiegazione va cercata nella vulnerabilità a particolari condizioni ambientali del processo di inibizio­ ne, normalmente e universalmente operante durante le contese fra con­ specifici, dei due tipi di aggressività distruttiva selezionati dall’evolu­ zione per gli scontri interspecifici: aggressività predatoria e aggressività di difesa per la sopravvivenza. L’inibizione dell’aggressività distruttiva nelle contese fra conspecifici, secondo questa ipotesi, non sarebbe con­ seguenza di apprendimento individuale, ma si produrrebbe all’interno dei processi di organizzazione dei vari sistemi motivazionali selezionati dall’evoluzione (vedi capitolo 2). Le condizioni ambientali capaci di in­ ficiare o annullare tale inibizione non potrebbero agire in assenza delle tensioni dinamiche fra diverse motivazioni - tensioni che sono legate ai processi organizzativi gerarchici ed eterarchici che continuamente ope­ rano nell’architettura complessiva dei sistemi motivazionali.1

L'inibizione dell'aggressività distruttiva intraspecifica Richard Dawkins è fra i molti teorici dell’evoluzionismo che si sono in­ terrogati sui meccanismi dell’evoluzione implicati nel fatto che tutti gli animali, incluso Homo sapiens, “non arrivano a uccidere i membri rivali della propria specie ogni volta che ne hanno l ’opportunità” (Dawkins, 1976, p. 75). La sua risposta si basa sul concetto di Strategia Evoluti­ vamente Stabile (SES). Una SES è definita come una strategia, adottata dalla maggior parte dei membri di una popolazione, che non può es­ sere migliorata da una strategia alternativa perché la selezione natura­ le penalizzerebbe ogni deviazione che se ne allontanasse. L’inibizione dell’aggressività distruttiva fra membri della stessa specie animale si costituirebbe come SES, secondo Dawkins, a causa del troppo grande pericolo di ritorsione. Questo pericolo è minore negli scontri fra mem­ bri di specie diverse (dove infatti l ’esito distruttivo è frequente), per­ 1. II concetto di tensione dinamica fra sistemi motivazionali si riferisce a ogni tipo di intera­ zione fra tali sistemi: di regolazione reciproca, di stimolazione, di inibizione, di incipiente atti­ vazione di uno di essi mentre è ancora attivo un altro, ed eventualmente anche di conflitto. Per la concezione jaelesoniana delle interazioni gerarchiche fra sistemi e per il concetto di eterarchia vedi il capitolo 2.

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ché nell’interazione fra animali di specie diverse esiste un’asimmetria inerente maggiore di quella fra i membri della stessa specie (Dawkins, 1976, p. 92). La spiegazione di Dawkins, in accordo con le ipotesi pre­ valenti nella teoria evoluzionista, postula dunque che l’aggressività di­ struttiva non possa esprimersi pienamente fra membri della stessa spe­ cie a causa d elle som iglianze fra conspecifici. L’ipotesi, potrebbe essere utile per comprendere una delle basi su cui si istituisce, come SES, l’inibizione intraspecifìca dell’aggressività di­ struttiva. Tuttavia, questa base non appare sufficiente per comprendere le cause dell’elevata frequenza con cui gli esseri umani manifestano di­ struttività verso i loro simili. L’ipotesi di Dawkins predice, infatti, che i casi di aggressione distruttiva intraspecifìca aumentino di frequenza quando le somiglianze fra membri della stessa specie sono ridotte (e ridotto quindi anche il rischio di ritorsione), come accade fra maschi e femmine, fra adulti e piccoli, o fra conspecifici di razze diverse. Questa previsione sembrerebbe corrispondere a quanto non di rado si osserva fra esseri umani (si pensi ai casi di femminicidio, a quelli di pedofilia sa­ dica, o alle violenze razziste), ma sembra contraddetta, per fare un solo esempio, dall’assai minore frequenza di uccisione di femmine da parte di maschi nelle popolazioni di altre specie animali, dove l ’asimmetria nelle dimensioni corporee fra maschi e femmine è spesso assai maggio­ re che in Homo sapiens. L’origine evoluzionistica della SES che inibisce l’aggressività distruttiva intraspecifìca ( Violence Inhibition Mechanism, VIM: Blair, 1995) non può essere dunque ricondotta soltanto alle somi­ glianze fra membri deHà stessa specie. I vantaggi offerti, in termini di adattamento, dalle capacità di formare legami sessuali, di accudire i piccoli e di costruire gruppi sociali hanno verosimilmente contribuito, nel corso dell’evoluzione che conduce ai mammiferi, alla selezione na­ turale di un Meccanismo di Inibizione della Violenza (MIV, traduzione italiana dell’acronimo VIM creato da Blair, 1995) sempre più efficiente. Senza un MIV, non sarebbe stata possibile l ’evoluzione del sofisticato sistema di competizione per il rango sociale, caratterizzato da articolati comportamenti ed emozioni di aggressività ritualizzata nel membro do­ minante e di sottomissione nei subordinati, osservabile nei mammiferi capaci di vivere in gruppi sociali (sistema agonistico: vedi capitolo 1). Nella TEM, il MIV può dunque essere considerato come un modulo selezionato dall’evoluzione in quasi tutte le specie animali, grazie al van­ taggio adattativo inerente alla riduzione del rischio di uccidere o essere uccisi negli scontri fra conspecifici, indipendentemente dalla capacità della specie di costruire gruppi sociali durevoli e coesi. Il comporta53

mento coordinato dal MIV è l’arresto dell’aggressione, in risposta alla sofferenza espressa dall’antagonista ormai sconfitto. È verosimile che il MIV sia poi intervenuto nella genesi della capacità di costruire gruppi sociali coesi, in cui da un lato il membro sconfitto esprime segnali com­ plessi di resa e di sottomissione (vedi capitolo 1) e dall’altro il vincitore arresta l ’aggressione diretta verso l ’altro trasformandola in segnali di dominanza (gesti di trionfo). Blair (1995) suggerisce che immediata­ mente prima dell’emissione dei segnali di dominanza vi sia anche negli animali uno stato protoemotivo di riluttanza abbastanza sgradevole da scoraggiare la prosecuzione dell’aggressione. Secondo Blair quest’espe­ rienza sgradevole diventa, nell’uomo, uno dei costituenti fondamentali di emozioni morali come colpa e rimorso. Secondo la TF.M, la spiegazione della comparsa di aggressività distrut­ tiva durante gli scontri fra conspecifici dovrebbe implicare lo studio di ogni condizione dell’individuo o dell’ambiente capace di inficiare le operazioni comportamentali ed emozionali regolate dal MIV.

La distruttività umana come conseguenza di fattori che inficiano il m iv E stato ipotizzato che il sovraffollamento sia una delle contingenze am­ bientali capaci di inficiare il MIV e quindi di incrementare il grado di violenza nelle contese fra conspecifici. Desmond Morris ha sintetizzato con efficacia i risultati di numerose ricerche sperimentali sugli effetti del sovraffollamento, condotte su diverse specie animali: [...] in condizioni di eccessivo affollamento [... i segnali dell’aggressi­ vità ritualizzata] cedono il posto a meccanismi brutali di attacco fisico. I denti vengono usati per mordere, tagliare e ferire, le corna per trafiggere [...] gli arti per dilaniare, calciare e picchiare con violenza [...]. Anche in questo caso, è estremamente; raro che un contendente uccida l'altro. (Morris, 1967, p. 167; corsivo aggiunto) Il sovraffollamento, dunque, sembra inficiare il MIV, ma quasi mai fi­ no al punto di consentire l’uccisione del contendente. Per comprendere come in Homo sapiens possa verificarsi il tragicamente elevato tasso di omicidi, Morris invoca l’intervento delle motivazioni superiori, gerarchi­ camente sovraordinate agli altri sistemi motivazionali, che sono compar­ se nella nostra specie come pennacchi evoluzionistici (vedi capitolo 2): 54

La nostra capacità di collaborazione, che si è sviluppata in modo particolare, conduce ad aiutare questo massacro. Quando miglioram­ mo questa importante caratteristica in rapporto alla preda da cacciare, ci fu molto utile, ma adesso ci si è ritorta contro. Il potente impulso ad aiutarci scambievolmente a cui essa ha dato luogo, adesso può provocare delle violente stimolazioni nell’ambito delle aggressioni intraspecifiche. La lealtà è diventata lealtà nel combattere e così è nata la guerra. E un’i­ ronia che la causa fondamentale di tutti i più grandi orrori della guerra sia stata l’evoluzione di un impulso profondamente radicato ad aiutare i nostri simili. Essa ci ha dato le micidiali bande, le combriccole, le or­ de e gli eserciti. Senza di esse noi mancheremmo di coesione e l’aggres­ sività diventerebbe di nuovo “personalizzata”. Alcuni hanno pensato che, dato che ci siamo specializzati nell’uccidere la preda, [...] dentro di noi ci sia un impulso innato a uccidere il nostro antagonista. Come ho già spiegato, l’evidenza è contraria a questa teoria. Quello che l’ani­ male vuole è la sconfitta, non l’uccisione; lo scopo dell’aggressività è il predominio, non la distruzione e a questo riguardo non sembra che noi differiamo, fondamentalmente, dalle altre specie, né vi è alcuna buona ragione per cui dovremmo farlo. (Morris, 1967, p. 188) Konrad Lorenz, ne II cosiddetto m ale (Lorenz, 1963 ), era arrivato a conclusioni simili a quelle di Morris. Lorenz aveva notato ben prima di Morris il paradosso per cui le funzioni mentali superiori (il padre dell’e­ tologia si soffermava soprattutto sulla capacità di comunicazione verba­ le e sul pensiero concettuale), frutto dell’evoluzione di Homo sapiens, sono la nostra maggiore benedizione, ma anche quella che paghiamo a più caro prezzo. Secondo Lorenz, la conoscenza che scaturisce dal pen­ siero concettuale e dalla comunicazione verbale deruba Homo sapiens della sicurezza fornita dagli istinti evoluzionisticamente più antichi che ha in comune con altre specie. Questi istinti più antichi comprendono il MIV. Il pensiero concettuale e la capacità di formare enormi comuni­ tà sociali mediata dal linguaggio verbale, per Lorenz come per Morris, sarebbero dunque gli antecedenti della possibilità che il MIV fallisca frequentemente negli scontri fra esseri umani, mentre ha normalmente successo (con poche eccezioni) nelle contese fra i membri di ogni altra specie animale i quali, pur avendo gli strumenti per uccidere facilmente i conspecifici, lo fanno tanto meno spesso degli umani. Nella TEM, il pensiero concettuale è considerato un pennacchio evo­ luzionistico, cioè una proprietà emergente dall’organizzazione comples­ siva dei sistemi motivazionali. I pennacchi evoluzionistici, non essendo vincolati rigidamente ai valori di adattamento come invece lo sono gli adattamenti darwiniani classici - istituendosi cioè come dom ain-general adaptations anziché come dom ain-specific adaptations (vedi capitolo 2) 55

- sono compatibili tanto con l’incremento quanto con l’indebolimento di preesistenti SES (quale è il M iv). Questa visione spiega il paradosso dell’essere umano, che da una parte è capace di pensare la morte con compassione, elaborare ideologie contrastanti la distruttività e produrre creazioni artistiche di grande bellezza, mentre dall’altra continuamen­ te crea e perpetua sperequazioni sociali, guerre, fondamentalismi di­ struttivi, spietate persecuzioni dei propri simili (Barnà, 2015). Queste considerazioni sulla duplice direzione dell’influenza del pensiero con­ cettuale sulla distruttività umana sono pertinenti al recente dibattito fra chi crede che, grazie all’esercizio delle funzioni mentali superiori, la violenza distruttiva stia globalmente diminuendo all’interno delle co­ munità umane contemporanee (Pinker, 2011), e chi invece afferma che non esistono prove scientificamente serie a favore di questa credenza e dunque è possibile che la violenza dell’uomo sull’uomo stia aumentan­ do, oppure che sia rimasta sostanzialmente uguale nel corso della sto­ ria. Gli argomenti storiografici e statistici che Pinker (2011) ha addot­ to a sostegno della stia ottimistica ipotesi sono stati criticati e confutati da più parti (Cirillo, Taleb, 2016; Epstein, 2011; Gray, 2015), a nostro avviso molto efficacemente. Indipendentemente da quale posizione sul decremento, l ’incremento o la sostanziale stabilità della violenza d i­ struttiva all’interno delle comunità umane sia più vicina alla verità, re­ sta comunque evidente che nella nostra specie la possibilità di inficiare le operazioni del MIV è infinitamente più elevata che nelle altre. È sulla spiegazione di questa possibilità, non sul suo andamento storico, che questo capitolo si concentra. Tornando allo studio dei fattori che possono inficiare il MIV fino a inibirlo totalmente, è importante notare che le idee di Lorenz sull’ag­ gressività distruttiva intraspecifica dell’uomo, pur concordando in par­ te con quella di Morris, appaiono molto più complesse. Il padre dell’e­ tologia rifletteva, oltre e più che sugli effetti del sovraffollamento, sul latto che l ’aggressività aumenta notevolmente anche nella condizione opposta: la deprivazione di contatto sociale ovvero la rottura dei le­ gami affettivi. A questo riguardo Lorenz notava che spesso l ’oggetto d’amore, nella nostra specie, è anche oggetto di odio, e ipotizzava che ogni forma di amore celi una latente aggressività nascosta dal legame amoroso, così che alla rottura del legame l ’odio fa la sua comparsa. In altre parole, Lorenz sosteneva che, se è possibile osservare amore senza aggressività, non esiste odio senza che prima ci sia stato amo­ re. Questo tema è stato ripreso e ampliato dal discepolo prediletto di 56

Lorenz, Irenàus Eibl-Eibesfeldt, che vi ha dedicato un libro famoso (Eibl-Eibesfeldt, 1970). Due temi fondamentali sembrano dunque sussumere i contributi de­ gli etologi alla comprensione delle condizioni che, nella nostra specie, portano tanto spesso al collasso del MIV. Il primo tema fa riferimento al­ le pressioni ambientali e può essere studiato vantaggiosamente ricorren­ do a categorie sociologiche (per esempio, il sovraffollamento). L’altro tema può essere meglio affrontato con categorie psicologiche, essendo incentrato suH’incremento di complessità delle tensioni dinamiche, in­ terne all’individuo o alla coppia, fra diversi sistemi motivazionali (co­ me nell’ipotesi che fra amore e odio intercorrano dinamiche mentali e relazionali complesse).

Considerazioni sociologiche nella spiegazione del collasso del

m iv

A prima vista, e a parte il caso dubbio del sovraffollamento citato sopra, le considerazioni sociologiche sull’aggressività distruttiva parrebbero indicare che una delle fonti principali di violenza mirante all’uccisione, il sistema predatorio, è indebolita e non incrementata nelle popolazio­ ni umane contemporanee. L’uomo è un animale onnivoro, per il quale i frutti dell’evoluzione culturale hanno reso progressivamente meno ne­ cessario il ricorso individuale alla predazione come fonte di procaccia­ mento di cibo. Anche fra la maggioranza degli esseri umani viventi che non ha fatto una scelta vegetariana, solo una percentuale relativamente piccola si dedica individualmente alla caccia, mentre la percentuale più elevata si alimenta con carni animali provenienti da allevamenti e da me­ todi industriali di macellazione e conservazione. La caccia, considerabi­ le come una manifestazione diretta anche se modificata culturalmente deU’originario e arcaico sistema predatorio, è ormai una necessità so­ lo per alcune popolazioni umane, mentre persiste nelle altre solo come hobby più o meno regolamentato e diffuso. Si potrebbe dunque pensare che l ’attivazione del sistema predatorio selezionato dall’evoluzione sia divenuto un evento sempre meno osservabile nella nostra specie. Tut­ tavia, esistono dati di ricerca emersi nell’ambito della psicologia sociale che suggeriscono due conclusioni correlate fra loro: 1) il sistema preda­ torio è ancora molto attivo nella maggioranza degli esseri umani e, pur essendo svincolato dal procacciamento di cibo, conserva le sue caratte­ ristiche fondamentali (aggressività distruttiva non motivata dal sistema 57

di difesa per la sopravvivenza e concomitanti stati mentali più simili a sensazioni di eccitamento che a vere emozioni); 2) l’aggressività preda­ toria si rivolge spesso contro altri esseri umani (Homo hom inilupus, ave­ vano osservato gli antichi da Plauto a 1lobbes) esprimendosi in genere solo neH’ambito deH’immaginazione e della fantasia, ma talora e tragi­ camente in azioni con valenza criminale e spesso anche psicopatologica. Prove a sostegno di queste due affermazioni sono offerte da studi di psicologia sociale che hanno rilevato la frequente presenza di fan­ tasie omicide negli studenti universitari, in percentuali variabili dal 76 al 79% nei maschi e dal 58 al 62% nelle femmine (Kenrick, 2011 ). In una delle ricerche, condotta su 760 studenti, tali fantasie si riferivano a persone totalmente sconosciute nel 59% dei maschi e nel 33% del­ le femmine. Le due affermazioni appaiono sostenibili anche sulla base della palese e crescente diffusione, nell’immaginario collettivo delle so­ cietà industrializzate, di spettacoli cinematografici e televisivi incentrati sulle azioni criminali di assassini diabolici o altrimenti densi di detta­ gliate scene cruente, e di videogiochi in cui si vince se si uccidono più “prede” umane indipendentemente da qualunque ragione difensiva o altrimenti utilitaristica. Alla presa che immagini di aggressività distrut­ tiva intraspecifica hanno sulla mente umana, presumibilmente perché agganciano l ’eccitamento inerente al sistema predatorio, potremmo affiancare varie forme di de-umanizzazione (animalizzazione, mecca­ nizzazione, oggettivazione: per un’analisi, vedi Volpato, 2012). In tutti i contesti sociali, a partire da quelli politici, i processi comunicativi di de-umanizzazione hanno la funzione di attenuare l ’empatia nei con­ fronti di nemici e minoranze, facilitando fantasie e purtroppo anche agiti di aggressività distruttiva verso questi gruppi. A proposito di em­ patia, è difficile resistere alla tentazione di ipotizzare, sia pure in assen­ za di prove controllate, che l’aggressività intraspecifica di tipo predato­ rio, anche quella espressa solo a livello di immaginazione, comporti un collegamento funzionale privilegiato tra tronco encefalico (dove sono rappresentate a livello neurale le basi del sistema predatorio) e cortec­ cia orbitofrontale, escludendo l’attivazione del cervello limbico (impli­ cato nelle emozioni sociali necessarie per la comprensione empatica). Le osservazioni appena esposte, e le corrispondenti riflessioni, sug­ geriscono dunque di includere, fra le condizioni capaci di inficiare il MIV, anche fattori connessi a variabili socioeconomiche e politiche. Il profitto legato alla stimolazione artificiosa dell’eccitamento tipico del sistema predatorio attraverso prodotti culturali (analogo a quello che si ottiene con la pornografia, che sfrutta gli eccitamenti legati al siste­ 58

ma sessuale) è una di tali variabili. La diffusione di spettacoli densi di immagini di estrema aggressività distruttiva, evidentemente giustificata da alti profitti, potrebbe condurre a una protratta e intensa attivazione del sistema predatorio in percentuali elevate dei membri delle società umane contemporanee, forse tanto protratte e intense da condurre a episodi di collasso del MIV. L’esposizione protratta a spettacoli densi di scene di aggressività distruttiva incrementa certamente la tendenza ad agiti violenti nello spettatore, e questo incremento può essere partico­ larmente durevole nei bambini, anche fino all’età adulta, come dimo­ strano ricerche iniziate cinquant’anni fa e replicate fino ai nostri giorni (per una delle molte rassegne meta-analitiche vedi Anderson, Shibuya, Ihori et al., 2010). Nonostante l’imponenza del fenomeno sociologico, è importante a questo riguardo ricordare che fattori predisponenti en­ trano probabilmente in gioco nel determinare sia la scelta di esporsi a immagini mediatiche di violenza (Summers, 2016), sia gli effetti finali, sul piano individuale, di tale esposizione (Alia-Klein, Wang, PrestonCampbell et al., 2014). Per quanto riguarda le spiegazioni teoriche de­ gli effetti dell’esporsi a spettacoli e videogiochi violenti, esse sembrano compatibili con l’ipotesi che sia in gioco un indebolimento del MIV. Per esempio, è stata spesso considerata l’ipotesi che l’esposizione ripetu­ ta alla violenza mediática causi un ottundimento (desensibilizzazione emozionale: Mrug, Madan, Windle, 2016) dell’emozione spiacevole di rilu ttanza-il primo segno dell’attivazione del MIV secondo Blair (1995) - che accompagna l ’incipiente aggressività distruttiva. Altri studi teo­ rici invocano l’appretjdimento per osservazione (m odeling) rinforzato da uno stato di eccitamento (tipico del sistema predatorio disinibito secondo la teoria motivazionale evoluzionista qui esposta). Anche per l ’ipotesi dell’apprendimento per osservazione “premiato” dalla sensa­ zione soggettiva di eccitamento si può chiamare in causa il MIV: l’iperattivazione dei sistemi predatorio e/o di difesa per la sopravvivenza implicata dal m odeling potrebbe eccedere le capacità di regolazione del MIV. Huesmann (2007) ha offerto un’efficace rassegna degli studi teo­ rici (non basati su considerazioni evoluzionistiche, ma a nostro avviso per lo più compatibili con essa) volti a spiegare gli agiti di aggressività distruttiva che possono seguire l’esposizione alla violenza mediática. Sembra possibile includere, fra le condizioni socioculturali che pos­ sono inficiare il MIV, anche altri tipi di pressioni oltre a quelle generate dagli odierni strumenti di comunicazione di massa. Un fenomeno com­ plesso come la guerra - che certamente è legato alla capacità umana di dare vita a comunità di grandi dimensioni e non alle operazioni di un 59

qualsiasi sistema motivazionale frutto dell’evoluzione - innesca, al di là delle cruente battaglie, numerose occasioni per l ’esercizio dell’ag­ gressività distruttiva intraspecifica (Keegan, 1993). Si pensi, per esem­ pio, all’autorizzazione da sempre concessa dalle autorità militari (anche nell'ultima guerra mondiale) a predare, stuprare e perfino uccidere le popolazioni civili nemiche dopo un’azione bellica particolarmente im­ pegnativa. Oppure si pensi alla tortura, illegale ma ampiamente prati­ cata (per autorizzazione superiore o per obbligo istituzionale) da po­ lizie, servizi segreti, organizzazioni militari e organizzazioni criminali. La storia, infine, fornisce altri esempi di pressioni culturali, collegate a ideologie di massa, capaci di inibire il MIV e persino di innescare di­ rettamente l’aggressività di tipo predatorio: per esempio, le elaborate torture e i roghi comandati dall’Inquisizione, o gli omicidi rituali che a volte implicavano una prolungata agonia delle vittime (Keegan, 1993).

Considerazioni psicologiche nella spiegazione del collasso del

m iv

L’ambito di indagine scientifica aperto dagli etologi che si sono occupati delle complesse tensioni dinamiche fra odio e amore, operanti nell’in­ dividuo e nella coppia, si è arricchito negli ultimi decenni di importanti contributi. Ne è esempio magistrale il saggio Violence in thè Family as a D¿sorcier o f thè A ttachment and Caregiving Systems (Bowlby, 1984), in cui l ’autore esamina la possibilità che comportamenti violenti dei geni­ tori nei confronti dei figli piccoli siano dovuti a un particolare genere di tensione abnorme fra i sistemi motivazionali di attaccamento e accudimento, capace di riflettersi in un’inversione della normale direzione degli scambi di richiesta e offerta di conforto. Secondo Bowlby (1984) è possibile che, a causa di infelici esperienze della propria infanzia, in alcuni genitori il sistema di attaccamento (ri­ chiesta di cura e conforto) resti attivo anche durante le interazioni con i figli e si rivolga verso i piccoli, sovrapponendosi o sostituendosi alla normale attivazione del sistema di accudimento. Bowlby (1984) osserva che un certo grado di aggressività - ritualizzata o, nella terminologia di Fromm (1973), b en ign a-è normale ed evoluzionisticamente adattativo durante le interazioni di attaccamento/accudimento, essendo finalizzata a richiedere energicamente cura quando il genitore non risponda ai bi­ sogni espressi dal bambino, oppure a offrire cura in forma di energica dissuasione quando il bambino si accinga a compiere azioni pericolose 60

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(vedi capitolo 1). Tuttavia, quando la direzione dell’attaccamento/accudimento è abnormemente invertita, la collera di attaccamento espressa verso il piccolo (in risposta all’incapacità dell’infante di fornire il con­ forto inconsciamente richiesto dal genitore) si rivela incompatibile con l’asimmetria di forze fra un bambino e un adulto. In queste circostanze, quella che l’adulto può intendere come una propria espressione di col­ lera sostanzialmente innocua (esperita cioè come aggressività ritualizzata in risposta ai “capricci” del bambino) - per esempio, un urlo improv­ viso e violento - è percepita invece dal piccolo come un’espressione di aggressività predatoria (simile al ruggito di un predatore). Nel bambino può allora attivarsi il sistema di difesa per la sopravvivenza, con mani­ festazioni di fuga o di contro-aggressione. Il genitore, a sua volta, può rispondere con un incremento di aggressione rivolto al bambino che percepisce come incomprensibilmente ribelle o addirittura minaccio­ samente ostile, fino ad arrivare talora a uno scontro anche fisicamen­ te violento nel quale ovviamente il bambino è destinato a soccombere. L’ipotesi di Bowlby (1984) ha trovato riscontro in numerose ricer­ che sulla condizione nota come attaccamento disorganizzato (per una breve rassegna vedi Liotti, 2014a). Queste ricerche hanno rivelato la notevole frequenza con cui, nei genitori anche privi di disturbi psico­ patologici diagnosticabili, emergono espressioni di vulnerabilità perso­ nale (attaccamento) e di violenza durante l’accudimento del bambino. Nella prospettiva della TEM, la disorganizzazione dell’attaccamento è caratterizzata dalla frequente attivazione contemporanea, nel bambino, del sistema di attaccamento e del sistema di difesa per la sopravvivenza (Liotti, Farina, 2011). L’attivazione contemporanea dei due sistemi nel bambino si manifesta nella forma di una tensione dinamica abnorme, che è una risposta alla corrispondente tensione abnorme, nel genitore, fra le motivazioni di accudimento, di attaccamento (che finiscono per sostituirsi alle prime) e di difesa o di predazione. Si noti che nelle interazioni genitore-bambino sufficientemente or­ ganizzate la normale tensione dinamica fra i sistemi motivazionali del bambino prevede che i processi di attaccamento inibiscano la preceden­ te eventuale attivazione del sistema di difesa grazie all’efficace attivazio­ ne del solo sistema di accudimento nel genitore.*’ E anche interessante 2. Itati a sostegno della normale tensione dinamica fra i sistemi di difesa e di attaccamento provengono da ricerche netirobiologiche, oltre che da osservazioni etologiche. Per esempio, lo stress (anche traumatico e quindi coinvolgente il sistema di ditesa) implica aumentata increzione del fattore di rilascio della corticotropina (corticotropin releasing factor), che a sua volta facilita il separatimi cry, segnale tipico del sistema ili attaccamento (Panksepp, Biven, 2012),

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notare come l ’abnorme tensione dinamica fra i sistemi di attaccamen­ to e di difesa che caratterizza l ’attaccamento disorganizzato si possa verificare nel bambino quando il genitore non manifesta aggressività abnorme durante l ’accudimento, ma è incapace di offrire un sufficien­ te e coerente comportamento di cura e conforto (Solomon, George, 2011). La spiegazione di quest’osservazione, emersa da ricerche con­ trollate sulla disorganizzazione dell’attaccamento, sta nelle radici evo­ luzionistiche della normale tensione dinamica fra i sistemi di difesa per la sopravvivenza e di attaccamento: quando un piccolo è esposto a si­ tuazioni di pericolo il primo sistema ad attivarsi è il sistema di difesa, ma immediatamente dopo si innesca anche il sistema di attaccamento. Se un caregiver accorre a proteggere dal pericolo, il sistema di difesa si disattiva nel piccolo. Se ciò non si avvera - perché, nella terminologia di Solomon e George (2011), il caregiver abdica alle funzioni di cura pur non aggredendo il piccolo - i due sistemi, attaccamento e difesa, restano attivi in una tensione dinamica abnorme simile a quella che si produce per effetto del coniugarsi di cura offerta e di condotte aggres­ sive (Liotti, 2014a; Liotti, Farina, 2011). La tensione dinamica abnorme fra i sistemi di attaccamento e di dife­ sa è presumibilmente una delle condizioni capaci di ridurre l’efficienza del MIV, perché costituisce una fonte di sovrastimolazione del sistema di difesa per la sopravvivenza (di cui l’aggressività distruttiva è possi­ bile manifestazione). Tale sovrastimolazione, inoltre, è coniugata all’in­ nesco di un sistema motivazionale (attaccamento) diverso da quello in cui di regola opera il MIV producendo la ritualizzazione dell’aggressi­ vità (sistema agonistico di rango). Lo stato mentale legato all’attacca­ mento può quindi aggirare l’ambito motivazionale in cui l ’inibizione dell’aggressività distruttiva fra conspecifici si è istituita come strategia evolutivamente stabile. Perché si producano e si mantengano i due tipi di tensione dinami­ ca abnorme caratteristici dell’interazione disorganizzata fra genitore e bambino - fra i sistemi motivazionali di attaccamento e di difesa nel bambino, e fra i sistemi di accudimento, di attaccamento e di difesa o predazione nel genitore - devono intervenire anche i sistemi di ordi­ ne superiore invocati da Lorenz (1963) e da Morris (1967). La TEM so­ stiene infatti che a tali sistemi superiori vada ricondotta la motivazione a costruire strutture di memoria e aspettativa convergenti in un senso di sé durevole nel tempo, come sono i Modelli Operativi Interni (MOl) dell'attaccamento. Sono i MOI dell’infelice attaccamento precoce per­ manenti nei caregiver adulti, infatti, a causare l’abnorme tensione dina­ 62

mica fra accudimento e attaccamento nel genitore, e quindi a costituire i primi motori della disorganizzazione dell’attaccamento nei bambini. Il fatto che il MOI dell’attaccamento disorganizzato precoce tenda a persistere fino all’età adulta (Grossmann, Grossmann, Waters, 2005) potrebbe indicare nella disorganizzazione dell’attaccamento una condi­ zione importante fra quelle capaci di inficiare il MtV. Infatti, la disorga­ nizzazione dell’attaccamento nella prima infanzia è un evento partico­ larmente frequente: esso riguarda, forse, fino al 30% dei bambini nella popolazione generale se si considerano insieme le popolazioni ad alto rischio e quelle a basso rischio psicopatologico (per una sintesi della let­ teratura pertinente vedi Liotti, 2014a). Quest’ipotesi va però esaminata alla luce di adeguate future ricerche epidemiologiche (certamente non facili da effettuare), perché l’attaccamento disorganizzato precoce, da solo, sembra nella maggioranza dei casi compatibile con sviluppi del­ la personalità non suscettibili di diagnosi psicopatologiche, che invece dovrebbero essere quasi sempre presenti se ne derivassero frequente­ mente evidenti comportamenti distruttivi in età adulta. Perché l’attac­ camento disorganizzato divenga antecedente di aggressività distruttiva, sembra che esso debba essere seguito da traumi psicologici cumulativi durante lo sviluppo della personalità. L’esposizione a traumi cumulati­ vi come antecedente di aggressività distruttiva è oggetto di attenzione in un pregevole libro di Felicity De Zulueta (2008).

Considerazioni psicopatologiche nello studio del collasso del m iv La psicopatologia, se studiata alla luce della teoria multimotivazionale evoluzionistica, è una potenziale fonte di osservazioni importanti per la comprensione dei processi mentali implicati nel collasso del MIV. La psicopatologia, infatti, permette di riconoscere, con relativa facilità, i casi di aggressività distruttiva riconducibili al sistema di difesa per la sopravvivenza, differenziandoli da quelli in cui invece sembra implicato il sistema predatorio - distinzione che è meno facile fare con gli stru­ menti dell’etologia o con quelli della psicologia sociale. Nello studio dei disturbi psicopatologici in cui compare aggressività distruttiva ri­ volta a esseri umani, la radice nel sistema di difesa per la sopravvivenza di tale violenza è chiaramente denunciata dalle concomitanti emozioni di paura e soprattutto di collera. Quando invece è il sistema predato­ rio a dettare comportamenti di aggressività distruttiva, quest’ultima è 63

accompagnata dallo stato di sostanzialmente piacevole eccitamento ti­ pico del sistema, piuttosto che da vere e proprie emozioni. L'aggressività distruttiva di tipo difensivo si può osservare, in psicopatologia, soprattutto in tre disturbi: il disturbo da stress post-trau­ matico (d s p t ), il disturbo borderline di personalità (DBF) e il disturbo dell’identità dissociativo ( d id ). È interessante notare che nella genesi dei tre disturbi svolgono un ruolo cruciale i traumi psicologici, mentre un concomitante e importante [attore di rischio è rappresentato dalla disorganizzazione dell’attaccamento precoce. Probabilmente quest’ultima svolge un ruolo determinante in molti casi di DBP (Liotti, 2014a), mentre non è ancora provata la sua importanza nella genesi del DSPT - importanza sostenuta attualmente soprattutto da considerazioni teo­ riche riguardanti il rapporto fra trauma e dissociazione (Liotti, Farina, 2011). L’attaccamento disorganizzato, come si è argomentato nel para­ grafo precedente, comporta l’iperstimolazione del sistema di difesa fin dai primi anni di vita, mentre le esperienze traumatiche per definizio­ ne innescano l ’attività di tale sistema ad alti livelli d ’intensità: è quindi spiegabile che nella maggioranza dei casi il MIV che viene inficiato in questi disturbi riguardi il sistema di difesa, così che le condotte aggres­ sive siano accompagnate prevalentemente dall’emozione di collera e precedute spesso da quella di paura. La dimensione psicopatologica in cui piti caratteristicamente si espri­ me l ’aggressività distruttiva intraspecifica di tipo predatorio è quella che, includendo il disturbo antisociale di personalità, raggiunge il suo estre­ mo nei casi più clamorosi di psicopatia o sociopatia. Qui la distruttività può assumere forme di particolare brutalità e crudeltà, ed è accompa­ gnata da stati di eccitamento al posto della collera e della paura concomi­ tanti all’aggressività di tipo difensivo (per una descrizione “dall’interno” dell’aggressività nella sociopatia vedi Thomas, 2013). I comportamenti violenti o comunque crudelmente aggressivi degli psicopatici suggeri­ scono spontaneamente l’immagine del predatore (Piare, 1994), e sono abbastanza frequenti per consentire indagini accurate: si ritiene che la prevalenza del disturbo antisociale di personalità nella popolazione ge­ nerale sia fra lo 0,2 e il 3,3% (American Psychiatric Association, 2013), mentre nella popolazione carceraria la percentuale di soggetti psicopa­ tici è del 5% e quella degli antisociali del 47% (Neumann, Piare, 2008; Piare, 2003). Gli studi condotti su questi gruppi di pazienti con la Scala PCL-R (Ilare, 2003), lo strumento psicometrico più accreditato per l ’i­ dentificazione della psicopatia, rivelano la coesistenza di comportamenti di tipo predatorio con la mancanza di empatia e di rimorso. Sono state 64

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evidenziate, negli psicopatici, anche insensibilità alla paura sia della pu­ nizione (Dadds, Salmon, 2003; Van Honk, Shutter, Hermans et al., 2003) sia delle conseguenze di condotte pericolose per sé (Neumann, Hare, 2008), e in generale risposte neurovegetative abnormi a stimoli affetti­ vamente intensi (Hervé, Hayes, Hare, 2003; Williamson, Harpur, Hare, 1991). Studi di neuroim aging hanno riscontrato negli psicopatici anoma­ lie di alcune strutture limbiche (giro del cingolo, amigdala e ippocampo), del corpo calloso e della connettività corticale (Boccardi, Frisoni, Hare et al., 2011; Boccardi, Ganzola, Rossi et al., 2010; Craig, Catani, Deeley et al., 2009; Finger, Marsh, Blair et al., 2011; Intrator, Flare, Stritzke et al., 1997; Kiehl, Smith, Hare et al., 2001; Meffert, Gazzola, Den Boer et al., 2013; Raine, Lencz, Taylor et al., 2003). Nell’insieme, i risultati degli studi di neuroim aging e di quelli con­ dotti con la PCL-R e altre metodiche, citati sopra, potrebbero suggerire che il collasso del MIV - ipotizzato da Blair (1995) come aspetto cru­ ciale nell’eziopatogenesi della psicopatia - implichi un collegamento privilegiato fra corteccia orbitofrontale e tronco encefalico (Boccardi, Frisoni, Flare et al., 2011). La corteccia orbitofrontale è disfunzionan­ te negli psicopatici, ma non in misura tale da riflettersi in un diffuso deficit delle funzioni esecutive e delle capacità metacognitive (mentalizzazione). Piuttosto, essa si riflette in maniera cruciale neU’incapacità di distinguere fra condotte eticamente inaccettabili perché implicano sofferenza nella vittima, e condotte inaccettabili perché proibite dalle convenzioni sociali ma non implicanti dolore soggettivo (Blair, 1995). Questa capacità di discriminazione è invece conservata sia nelle vitti­ me di traumi cumulativi, nelle quali il deficit di mentalizzazione sembra funzione dell’iperattivato sistema di difesa perla sopravvivenza, sia nei bambini autistici, in cui tale deficit è diffuso a tutti gli ambiti dell’espe­ rienza relazionale e ha probabilmente cause genetiche (Blair, 1995). Lo specifico deficit di mentalizzazione che caratterizza la psicopatia - limitato alla distinzione fra interdizioni etiche basilari e interdizioni legate ai costumi di un gruppo sociale - può essere spiegato, secondo Blair (1995), da un deficit del MIV che si esprime con l ’assenza di emo­ zioni di colpa, rimorso e collera, e con la grave riduzione della capacità di empatia nei riguardi della sofferenza manifestata dalle vittime di atti crudeli o violenti. Essendo l’empatia e le suddette emozioni fortemente legate alle operazioni dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (“limbici”: vedi capitolo 2), è sostenibile l’ipotesi che il cervello limbico sia escluso funzionalmente in misura abnorme, durante gli atti crudeli o violenti degli psicopatici, dai collegamenti fra corteccia prefrontale e 65

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tronco encefalico (ricordando forse il modo di funzionare del “cervello predatorio”: Boccardi, Frisoni, Piare et al., 2011). Resta aperto il problema se le alterazioni cerebrali degli psicopatici siano più causa o più effetto del comportamento aggressivo abnorme, e se lo psicopatico manchi primariamente di empatia oppure la disat­ tivi selettivamente durante gli agiti distruttivi di tipo predatorio, come sembra suggerire uno studio recente (Meffert, Gazzola, Den Boer et al., 2013). I risultati dello studio di Meffert e collaboratori indicano che, se adeguatamente sollecitati, gli psicopatici mostrano risposte empatiche pur se deficitarie. Dunque il disturbo non dipende da una radica­ le e totale incapacità di empatia: un dato compatibile con l’ipotesi che l ’aggressività distruttiva intraspecifica sia conseguenza della disattiva­ zione (settoriale, contingente, contesto-dipendente) del MIV piuttosto che di altri e più stabili fattori. Quel che sembra molto probabile, vista la manifestazione in età precoce dell’aggressività distruttiva nelle storie di vita di pazienti adulti con diagnosi di psicopatia (Blair, 1995), è che il deficitario o assente sviluppo del MIV debba essere ricondotto a fattori genetici o a influenze relazionali avverse nei primi anni di vita, oppure ancora a una combinazione di fattori genetici e ambientali. Osserva­ zioni cliniche (Belfiore, Costantini, Dettori et al., 2014; Fonagy, Target, 2008) suggeriscono che in alcuni casi di psicopatia l ’aggressività di tipo predatorio possa essere ricondotta al coniugarsi di disorganizzazione dell’attaccamento precoce con forme particolarmente brutali di traumatizzazione subita durante il successivo sviluppo della personalità. In questi casi, l’aggressività di tipo predatorio potrebbe forse essere ricol­ legata a processi di introiezione o identificazione con l’aggressore, e si manifesterebbe allora episodicamente, in relazione con l’attivazione di memorie traumatiche (Vogt, 2013). Tuttavia, è impossibile scartare l’i­ potesi alternativa, che in altri casi di psicopatia (forse la maggioranza) sia in gioco un deficit geneticamente determinato del MIV che comporta, fin dall’infanzia, diffusi e non episodici impedimenti alla comprensione empatica della sofferenza indotta nell’altro con la propria condotta ag­ gressiva. Blair (1995) ha argomentato che l’efficienza del MIV fin dall’i­ nizio della vita, manifestata dal sentimento di riluttanza a procedere nell’aggressione di fronte a segnali di sofferenza emessi dalla vittima (vedi la nota 2 di questo capitolo), è essenziale per la crescita, durante lo sviluppo della personalità, della capacità metacognitiva necessaria per discriminare fra norme morali imposte dal costume e norme etiche universalmente fondate (basate cioè su frutti della selezione naturale come il M iv). Gli psicopatici sono tipicamente incapaci di tale capaci­ 66

tà di discriminazione, che invece è presente in pazienti con storie di traumi infantili cumulativi e persino nei bambini autistici (Blair, 1995). La distinzione presentata sopra, fra i disturbi che meglio illustrano la distruttività riconducibile al sistema di dilesa e quelli che più chiara­ mente esemplificano la distruttività connessa al sistema predatorio, va considerata come una semplificazione schematica. Esistono infatti di­ sturbi in cui la distruttività prende forme più complesse e di spiegazio­ ne più difficile. Per esempio, esistono casi (rari) di DID in cui uno stato dell’io dissociato e alternante (alter) si esprime con aggressività preda­ toria, mentre un altro si esprime con aggressività difensiva: i due tipi di distruttività possono dunque coesistere nello stesso individuo attraver­ so la mediazione di processi dissociativi dell’identità di grado estremo. Anche altre condizioni psicopatologiche, molto più frequenti dei casi di DID con alter “predatori”, pongono problemi ai tentativi di spiegare la distruttività che può manifestarsi nei disturbi mentali ricorrendo a una troppo schematica distinzione fra aggressività predatoria e difensiva. Ci riferiamo ai deliri di persecuzione, al disturbo paranoide di personalità (DPP), ai comportamenti autolesivi o parasuicidari frequenti nel DBP, e ai comportamenti suicidari. Nei deliri di persecuzione e nel DPP, gli stati mentali in cui i pazienti si rappresentano a rischio di diventare vittime di aggressività predatoria da parte di altri esseri umani potrebbero es­ sere spiegati come risultanti dal classico meccanismo della proiezione: il sistema predatorio inconsciamente attivato nel paziente e rivolto ad altri diventa una rappresentazione mentale cosciente dell’aggressività predatoria attribuita dal paziente ad altri che teme possano colpirlo, e che attiva in lui fuga e aggressività difensiva. E però possibile anche una spiegazione alternativa: il paziente ha memorie inconsce di reali esperienze infantili in cui è stato vittima dell’aggressività predatoria di altri e ha reagito con la contro-aggressione tipica del sistema di difesa. Il delirio, in questo caso, sarebbe interpretabile come una manifesta­ zione cosciente distorta di una memoria traumatica infantile che resta confinata fuori dalla coscienza, e in cui non vi è traccia di attivazione del sistema predatorio nel bambino ma solo dell’attivazione del sistema di difesa per la sopravvivenza. Ancora più complesso, rispetto a spiegazioni schematiche dell’aggres­ sività distruttiva che considerino come rigide alternative l’attribuirla al sistema di difesa oppure al sistema predatorio, è il caso dei comporta­ menti autolesivi, parasuicidari e suicidari. Essi sembrano talora ricondu­ cibili a un tentativo estremo di controllare dolore e paura, quando non sia possibile trovare aiuto e conforto sufficienti negli scambi mediati dal 67

sistema di attaccamento. In tali casi, è plausibile che i comportamenti au­ tolesivi abbiano, paradossalmente, origine nell’attivazione del sistema di difesa per la sopravvivenza. Si accorda con quest’ipotesi l’osservazione di Linehan (1993), che almeno alcuni casi di comportamenti autolesivi tipici del DBF esprimano il tentativo di mitigare esperienze di deperso­ nalizzazione. La teoria multimotivazionale evoluzionista suggerisce che la depersonalizzazione sia ricollegabile ai meccanismi della finta morte - tipica operazione del sistema di difesa (vedi capitolo 1) - che seguono il prevedibile fallimento della fuga e dell’aggressività difensiva. Tale pre­ visto fallimento è esperito soggettivamente come pervasivo sentimento di impotenza (Liotti, Farina, 2011; Schore, 2009) che, se presente nel paziente, indica il coinvolgimento del sistema di difesa nella genesi delle condotte di autoaggressione distruttiva. Altre volte, però, l’autoaggressione distruttiva sembra essere accompagnata da collera e disgusto di sé esperiti e agiti in forma estrema, e non dal sentimento d ’impotenza, dalla depersonalizzazione o dal desiderio di porre fine al dolore menta­ le, motivato da sia pur malintesa autoprotezione: in questi casi sembra più plausibile cercare la spiegazione degli agiti autodistruttivi nell’atti­ vazione del sistema predatorio rivolta verso di sé. L’identificazione con l’aggressore in contesti traumatici è stata invocata come possibile spiega­ zione di questo rivolgersi verso di sé dell’aggressività predatoria (Vogt, 2013). E anche possibile che in alcuni casi entrambi i sistemi, predazio­ ne e difesa, siano coinvolti nella genesi dell’autoaggressione distruttiva. Per concludere, ricordiamo ancora il caso di alcune forme estreme di parafilia, in cui l ’irruzione di impulsi predatori aiuta a comprende­ re fantasie o agiti particolarmente crudeli che possono anche arrivare all’uccisione della “vittima”, come tragicamente avviene in certi casi di pedofilia sadica o di sadomasochismo. In questi casi il sistema preda­ torio è coinvolto insieme al sistema sessuale (e talora ai sistemi di attac­ camento o persino di accudimento), come traspare dall’analisi psico­ patologica della parafilia condotta da Pancheri e Monticelli sulla base della TEM (capitolo 10).

Sintesi conclusiva Questo capitolo si è proposto di illustrare come la teoria evoluzioni­ stica della TEM possa contribuire alla comprensione della distruttività nella relazione interumana, concentrandosi su una serie di argomenta­ zioni concatenate: 68

1) esiste una forte tendenza, comparsa nel corso dell’evoluzione come Strategia Evoluzionisticamente Stabile (SES), a inibire l’aggressività distruttiva negli scontri fra conspecifici (Meccanismo di Inibizione della Violenza, MIV); 2) alcune condizioni ambientali definibili sociologicamente, e nell’uo­ mo anche condizioni definibili psicologicamente perché legate a par­ ticolari contesti relazionali in cui avviene lo sviluppo della persona­ lità, possono indebolire tale tendenza fino ad annullarne gli effetti; 3) n e ll’in d e b o lim e n to d e l MIV, c o m e a n c h e nel s u o p o te n z ia m e n to , in ­ te rv e n g o n o le m o tiv a z io n i e le fu n z io n i m e n ta li s u p e rio ri, tip ic a m e n ­ te s v ilu p p a te s i n e ll’u o m o c o m e p e n n a c c h i e v o lu z io n istic i; 4 ) l ’in d e b o lim e n t o d e l MIV c a u sa la c o m p a rs a d e lle d u e fo r m e d i d i­ s tru ttiv ità c h e p o s s o n o a fflig g e re la re la z io n e in te ru m a n a , c o n n e s s e ris p e ttiv a m e n te al siste m a d i d ife s a p e r la s o p ra v v iv e n z a e al sistem a p r e d a to rio ;

5) la conoscenza delle sequenze comportamentali ed emozionali ca­ ratteristiche dei due sistemi aiuta a riconoscere clinicamente le due forme di distruttività interumana nello studio della psicopatologia. I contributi della TEM allo studio della distruttività interumana, men­ tre non escludono che variabili genetiche individuali possano talora in­ tervenire a determinarla, negano che abbia origine nel solo apprendi­ mento individuale, che vada ricondotta a una singola pulsione primaria finalizzata alla distruzione, e che dipenda esclusivamente da contingen­ ze ambientali. Piuttosto, la distruttività interumana può essere ricon­ dotta all’intervento di tutti questi fattori - motivazioni primarie, con­ tingenze ambientali, variabili genetiche e apprendimento individuale - che convergono fra loro in varie possibili combinazioni nell’inficiare un’unica e cruciale dotazione innata: la strategia evoluzionisticamente stabile espressa dal Meccanismo di Inibizione della Violenza intraspecifica ( m i v ). Questo punto di vista è tra quelli che meglio evidenziano la specificità della teoria evoluzionistica rispetto ad altre teorie della motivazione.

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4 La teoria motivazionale di Lichtenberg Un confronto con la Teoria Evoluzionistica della Motivazione

Antonella Ivaldi

Quando due teorie, basate su principi e metodi diversi di studio, emer­ gono dallo stesso ambito di indagine scientifica indipendentemente U l­ na dall’altra, e pervengono a risultati in parte simili e in parte diversi, un confronto tra esse promette arricchimenti reciproci oltre alla promo­ zione di quell’atteggiamento critico che è l’essenza stessa della scienza. Questo capitolo è dedicato al confronto fra i risultati di due linee di studio sui fondamenti dei processi motivazionali umani che, a partire da principi e metodi di indagine diversi, sono giunte a concordare sulla molteplicità di tali fondamenti (entrambe sono teorie multimotivazionali) e su molte loro caratteristiche. I risultati delle due linee di studio, una riconducibile alla concezione psicoanalitica dell’intersoggettività e l ’altra all’evoluzionismo, hanno condotto, rispettivamente, alla teoria di Joseph Lichtenberg (1989) e alla Teoria Evoluzionistica della Moti­ vazione (TEM) descritta nei capitoli precedenti. Il confronto fra le due teorie sarà preceduto da una sintesi della teo­ ria di Lichtenberg, e sarà seguito da alcune riflessioni sul tema del siste­ ma motivazionale dell’affiliazione, il più idoneo a mostrare lo stimolo e l’arricchimento che la TEM può ricevere dal dialogo.

La teoria motivazionale di Lichtenberg Lichtenberg, figlio della tradizione psicoanalitica, ha formulato la sua teoria della motivazione concentrandosi prevalentemente sul contesto intersoggettivo all’interno del quale si esprime l’individuo. Il metodo empatico di indagine clinica caratteristico della Psicologia del Sé e il 71

metodo psicoanalitico dell 'infant observation hanno fornito le osserva­ zioni necessarie per costruire la teoria. Pur tenendo conto degli sviluppi delle neuroscienze, Lichtenberg non si è soffermato sulla prospettiva neojacksoniana che, permeando tanta parte della neurobiologia, invita a considerare gli aspetti gerarchici ed eterarchici dell’organizzazione del cervello-mente (vedi capitolo 2). Tuttavia, un importante aspetto gerarchico traspare dalla sua teoria: la coesione e la sicurezza del Sé so­ no considerate come un sistema emergente dalle operazioni dei sistemi motivazionali (Lichtenberg, 1989; Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1992). Ogni sistema motivazionale contribuisce alla regolazione del Sé coordinando le interazioni con altre persone, a cominciare da quelle fra il bambino e chi se ne prende cura. In uno sviluppo sano, le diverse motivazioni si alternano e si integrano in maniera fluida e armonica, a seconda della necessità emergente e del contesto intersoggettivo, con­ tribuendo alla sicurezza e alla coesione del Sé. In condizioni critiche o traumatiche dello sviluppo, invece, si assiste all’irrigidimento dei pro­ cessi di regolazione e generalmente al predominio del sistema avversivo con le sue modalità di antagonismo e ritiro: ne conseguono deficit nella sicurezza e nella coesione del Sé. Lichtenberg (1989) ritiene che esistano cinque sistemi motivazionali fondamentali, riguardanti la regolazione psichica delle esigenze fisiolo­ giche, l’attaccamento-affiliazione, l’esplorazione-assertività, l’avversio­ ne e la sensualità-sessualità. Il sistem a di regolazione psichica d elle esigenze fisiologich e è conce­ pito nella prospettiva deH’intersoggettività, base di tutta la teoria di Lichtenberg. Il senso di sé è originariamente basato da un lato sulla ca­ pacità del bambino di percepire stati interni legati a bisogni fisiologici essenziali (fame, sete, sonno-veglia, caldo-freddo, stimoli emuntori) e dall’altro lato sul riconoscimento di questi bisogni da parte del caregiver che vi risponde. I modelli di risposta del caregiver rimangono nel­ la memoria implicita del bambino e sono funzionali a successive rego­ lazioni. Il sistema di regolazione psichica delle esigenze fisiologiche è considerato distinto da quello dell’attaccamento, anche se le (unzioni dei due sistemi sono inevitabilmente intrecciate tra loro così che ciascun sistema può favorire oppure pregiudicare il funzionamento dell’altro. Se tra bambino e caregiver si instaura una naturale sintonia, il bambi­ no sperimenta familiarità con le necessità del suo corpo da un lato e una buona relazione di attaccamento dall’altro. Reciprocamente, solo in una buona relazione d ’attaccamento potrà instaurarsi un clima empatico e sicuro per percepire ed esprimere i propri bisogni fisiologici e 72

dare inizio al processo funzionale di riconoscimento e discriminazione tra sé e l’altro. Il sistema d i attaccamento-affiliazione comprende in modo ampio la possibilità di sviluppare legami imparando nel corso dello sviluppo, attraverso ripetute sintonizzazioni affettive, a “stare con l’altro” e allo stesso tempo individuandosi e differenziando se stesso dall’altro. L’affi­ liazione al gruppo viene considerata un’estensione dell’attaccamento, il che giustifica il postulare un solo sistema motivazionale di attaccamen­ to-affiliazione. Fin dalla nascita il bambino è immerso in un contesto familiare e sociale, che all’inizio percepisce prevalentemente attraver­ so la relazione d ’attaccamento con il caregiver, per poi sperimentare sempre più il senso di appartenenza al gruppo. Così, l’appartenenza al gruppo si afferma prima a livello familiare, e solo più tardi si estende progressivamente al livello dei gruppi sociali. Le tensioni dinamiche fra appartenenza alla famiglia e affiliazione ad altri gruppi sociali divengo­ no di regola critiche in età adolescenziale. Il sistem a esplorativo-assertivo coniuga il bisogno di esplorazione dell’ambiente con il bisogno di affermarsi nelle sfide che l ’ambiente propone. All’inizio della vita l’attività esplorativa è mediata dal caregi­ ver, ma con il progredire dello sviluppo diventa progressivamente più autonoma. L’esplorazione dell’ambiente e il superamento delle prove che questo propone sviluppano nel bambino un senso di capacità per­ sonale e di sicurezza sia nell’esprimersi sia nell’apprendere per tenta­ tivi ed errori. Il sistema avversivi) coincide solo in parte, nella teoria di Lichtenberg, con il sistema di attacco-fuga. Esso riguarda anche il bisogno di reagire all’antagonismo altrui. Nel bambino piccolo, ha inoltre la funzione di segnalare energicamente al genitore la mancata soddisfazione di altri bi­ sogni. Nell’adulto può contribuire a conferire al Sé la capacità di nego­ ziare, riparare e superare gli ostacoli all’interno di relazioni significative. Il sistem a sensuale-sessuale comprende due aspetti, corrisponden­ ti a stati affettivi differenti ma correlati tra di loro. Il piacere sensuale è conseguente alla riduzione della tensione interna provocata da uno stato di bisogno e coinvolge tutti i sensi. Il piacere sessuale va, invece, nella direzione di un incremento di eccitamento erotico fino all’orga­ smo. Tutti e due gli aspetti concorrono a sviluppare un Sé volitivo, in grado di desiderare. In una recente revisione della sua teoria Lichtenberg, riconoscen­ do lo stimolo ricevuto in questa direzione dalla Teoria Evoluzionisti­ ca della Motivazione, ha definito l’affiliazione un sistema a sé stante e 73

ha aggiunto agli altri il sistem a d ell’accudim ento, che prima include­ va nel sistema di attaccamento-affiliazione (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 2011).

Confronto tra le due teorie: una sintesi personale La differenza nei principi e nei metodi utilizzati per raccogliere dati osservativi e per concettualizzarli si riflette nella forma in cui la TEM e la teoria di Lichtenberg descrivono i sistemi motivazionali. Entrambe le teorie riconoscono tre elementi necessari per la descrizione dei vari processi motivazionali: 1) la specificità dei segnali comunicativi non ver­ bali e delle sequenze di condotte ed emozioni che esprimono l’attività di un dato sistema motivazionale, 2) le forme di relazione che caratte­ risticamente manifestano l ’attivazione dei vari sistemi, e 3) l ’esperien­ za soggettiva della motivazione. La TEM si concentra maggiormente sul primo elemento descrittivo, mentre la teoria di Lichtenberg privilegia il terzo (il secondo elemento sembra egualmente importante per entram­ be). Così dai contributi alla TEM possiamo attenderci descrizioni più dettagliate, per esempio, del separatimi cry (attaccamento) o delle po­ sture dell’aggressività ritualizzata (il corrugare la fronte e il digrignare i denti del sistema agonistico), perché la TEM ha l’esigenza di dimostrar­ ne l’omologia nelle diverse specie di mammiferi, incluso l’uomo. Inve­ ce, nelle descrizioni dei corrispondenti sistemi (quello di attaccamen­ to-affiliazione e quello awersivo) offerte dal modello di Lichtenberg, dobbiamo aspettarci soprattutto resoconti dell’esperienza soggettiva possibili solo agli esseri umani - legata a movimenti relazionali avversivi (aggressione, ritiro) oppure alla sicurezza e coesione del Sé. Le differenze nella forma descrittiva dei processi motivazionali non devono indurci a trascurare le divergenze più sostanziali fra le due teo­ rie. Un primo esempio di differenza sostanziale riguarda il sistema di regolazione psicologica delle esigenze fisiologiche. Questo sistema del modello di Lichtenberg ha certamente forti corrispondenze con le moti­ vazioni omeostatiche considerate dalla TEM. Tuttavia, la TEM non inclu­ de fra i sistemi motivazionali primari la regolazione psicologica dei biso­ gni corporei. Secondo la TEM, le motivazioni omeostatiche dovrebbero essere studiate indipendentemente dall’esperienza soggettiva della loro regolazione psicologica, perché esse sono evoluzionisticamente arcai­ che. Tutti i sistemi arcaici che permangono negli esseri umani (oltre a quelli omeostatici: l ’esplorazione dell’ambiente fisico, la territorialità, 74

la cattura di prede, la difesa per la sopravvivenza) sono normalmente regolabili dai sistemi evoluzionisticamente più recenti (sistemi motiva­ zionali interpersonali, sistema dell’intersoggettività e della costruzione di significati). Così, l ’esperienza soggettiva e intersoggettiva - che di­ pende dalle funzioni neocorticali cui si deve la coscienza di ordine su­ periore tipicamente umana (Edelman, 1989) - si coniuga certamente al soddisfacimento dei bisogni omeostatici in contesti relazionali, ma questo fatto non implica la necessità logica di postulare un sistema psi­ cologico deputato primariamente e specificamente a regolare i bisogni corporei. I meccanismi di innesco dei diversi sistemi motivazionali im­ plicati in questo coniugio (sistemi dell’intersoggettività, dell’attacca­ mento e omeostatici) restano diversi e indipendenti fra loro. È quindi potenzialmente confondente, secondo la TEM, ipotizzare un sistema motivazionale unitario e indipendente di regolazione psicologica delle esigenze psicologiche come quello descritto nella teoria di Lichtenberg. La regolazione psicologica delle esigenze fisiologiche, ipotizzata come sistema unitario e indipendente nella teoria di Lichtenberg, è conside­ rata dalla TEM come proprietà che emerge transitoriamente (soprattutto durante la prima infanzia) dalle attività di quattro sistemi motivazionali diversi operanti simultaneamente in due individui interagenti: i sistemi omeostatico e di attaccamento nel bambino, il sistema di accudimento nel caregiver, e il sistema dell’intersoggettività in entrambi. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il sistema esplo­ ratorio-assertivo. Nella TEM, esso verrebbe a corrispondere all’espres­ sione più completa dell’influenza regolatrice che le motivazioni evolu­ zionisticamente più recenti (intersoggettività, costruzione di significati) esercitano sui più antichi sistemi esploratorio e agonistico. La spinta all’esplorazione dell’ambiente fisico, già evidente nei vertebrati inca­ paci di vita sociale e che resta legata a strutture tronco-encefaliche in tutte le specie più recenti, si estende già nei mammiferi all’esplorazione dell’ambiente sociale, e in Homo sapiens all’esplorazione dei contenu­ ti di coscienza propri e altrui. L’assertività, invece, ha verosimilmente radici nel sistema motivazionale agonistico (rango), il cui fondamento evoluzionistico coinvolge reti neurali del sistema limbico e la cui carat­ teristica funzionale è la ritualizzazione dell’aggressività. Una raffinata ulteriore modulazione dell’aggressività ritualizzata “limbica”, resa pos­ sibile dall’influenza regolatrice dei sistemi motivazionali superiori (neo­ corticali), potrebbe essere alla base dell’assertività. La TEM suggerisce, sulla base di queste considerazioni, di mantenere distinte esplorazione e assertività, legando la prima al sistema motivazionale esploratorio e la 75

seconda al sistema di rango, quando entrambi possono essere modulati dai sistemi di ordine superiore (neocorticali) di più recente evoluzione. Anche per il sistema di attaccamento-affiliazione la TEM suggerisce di evitare di fondere in un solo sistema le due motivazioni, perché esse cor­ rispondono a processi evoluzionistici diversi (l’attaccamento è un adat­ tamento darwiniano classico, mentre l’affiliazione al gruppo parrebbe piuttosto istituirsi come pennacchio evoluzionistico: vedi capitolo 2). Per la TEM il sistema di attaccamento è innescato specificamente da stati di sofferenza (inclusi quelli derivanti dal mancato soddisfacimento dei bisogni omeostatici), di paura, e di vulnerabilità conseguente alla soli­ tudine. Lichtenberg ha una visione più ampia di questa motivazione, considerandola una base per sviluppare la capacità generale di “sta­ re con”, sintonizzandosi con l’altro e al contempo differenziandosene (operazioni che la TEM attribuirebbe all’esercizio di funzioni neocorti­ cali). Le due teorie concordano nel ritenere il sistema di attaccamento cruciale per la costruzione di legami affettivi durevoli. Più complesso è il confronto fra la concettualizzazione dell’affiliazione al gruppo che va prendendo forma nella TEM e quella offerta da Lichtenberg. Lo psi­ coanalista americano si concentra sull’osservazione che attaccamento e affiliazione forniscono un’esperienza soggettiva analoga: il senso di fa­ miliarità e di affidabilità che connota il legame d ’attaccamento è simile al senso di appartenenza che si può provare rispetto al gruppo familia­ re o sociale. Per la TEM, il sistema di affiliazione rappresenta invece un problema aperto, perché non è possibile identificare segnali comunica­ tivi specifici che ne manifestino l’innesco (uno dei criteri fondamenta­ li, nella TEM, per identificare un sistema motivazionale). La TEM cerca la soluzione di questo problema nel considerare l ’affiliazione un pen­ nacchio evoluzionistico (come considera anche l’esplorazione dell’am­ biente fisico e i sistemi di ordine superiore: vedi capitolo 2) e dunque caratterizzata da attivazione tonica priva di specifici meccanismi d’in­ nesco. L’attività fasica, con specifiche regole d’innesco e di disattivazio­ ne, è invece tipica dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (limbici) e della maggior parte dei sistemi più arcaici o rettiliani (vedi capitolo 1). Tuttavia la TEM non riesce ancora a fornire descrizioni adeguate delle operazioni del sistema affiliativo. Per queste descrizioni, la TEM potreb­ be forse rivolgersi al lavoro di Lichtenberg, come si argomenterà nelle due sezioni finali di questo capitolo. Il debito che la TEM potrebbe do­ ver riconoscere verso la teoria di Lichtenberg rispetto alla conoscenza della motivazione affiliativa sarebbe forse ripagato dalle modificazioni della teoria originaria recentemente proposte da Lichtenberg e dai suoi 76

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collaboratori (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage,2011): la separazionefra attaccamento e affiliazione e l’accettazione di un sistema motivazio­ nale di accudimento. Il sistema agonistico della TEM, pur corrispondendo a forme di espe­ rienza soggettiva in parte incluse nel sistema motivazionale avversivo, non è fra i sistemi contemplati nella teoria di Lichtenberg. Il sistema a g o n istic o d e lla TEM in g lo b a l ’a g g ressività ritu a liz z a ta (n o n d is tru ttiv a ), v o lta a s ta b ilire p o s iz io n i d i d o m in a n z a e s o tto m is sio n e a ll’in te r n o d e lle re la z io n i - p o s iz io n i re la z io n a li c h e n e ll’u o m o p re p a ra n o alla v a lu ta z io -

ne cosciente di se stessi e degli altri sulla base di meriti o demeriti. La TEM permette di differenziare tra collera competitiva (volta a conqui­ stare il rango dominante nelle relazioni) e protesta rabbiosa d ’attacca­ mento (volta a chiedere energicamente aiuto e rassicurazione). Que­ sta distinzione, preziosa in ambito clinico, non emerge con altrettanta chiarezza nella teoria di Lichtenberg, dove il sistema avversivo veicola pili genericamente la risposta collerica a un disagio che può essere re­ lativo all’insoddisfazione di diversi bisogni, e non solo quello di attac­ camento. Di contro, Lichtenberg attribuisce alla motivazione avveni­ va un valore molto importante per lo sviluppo di capacità di mastery e di affermazione assertiva che favoriscono il senso di un s é sicuro-agente in grado di negoziare all’interno delle relazioni. Questo sembra a chi scrive un valore aggiunto, con ricadute importanti in ambito clinico, rispetto all’affermazione di sé come dominante sull’altro. Il rifiuto di includere la competizione per il rango sociale fra i sistemi motivazionali della teoria di Lichtenberg penalizza, tuttavia, la comprensione dei se­ gnali e delle emozioni di resa/sottomissione che compaiono nelle con­ tese per la dominanza. Le due teorie multimotivazionali, psicoanalitica ed evoluzionistica, concordano nel considerare la sessualità una delle motivazioni fondamentali ma non la principale, come invece era considerata nel primo pa­ radigma freudiano. Nella TEM il sistema sessuale è considerato, oltre che dal punto di vista dei bisogni individuali, nel suo valore evoluzionistico per la sopravvivenza della specie e nel suo facilitare legami di coppia fra adulti. Nel legame amoroso si intrecciano ili regola diverse motivazioni: sessualità, attaccamento, accudimento, competizione per la dominan­ za e cooperazione fra pari. Può capitare che la sessualità sia utilizzata, in modo patologico, al posto della motivazione d ’attaccamento, per esempio aH’interno di relazioni con caregiver sessualmente abusanti. Una differenza importante fra la TEM e la teoria di Lichtenberg ri­ guarda lo stretto coniugarsi di sessualità e sensualità in un unico siste77

nnt m o t i v a z i o n a l e (sistema della sensualità-sessualità). 11 piacere legato al soddisfacimento di tutti i desideri dei sensi, e il piacere strettamente sessuale sono pensati da Lichtenberg come aspetti di un singolo siste­ ma che motiva a incrementare l ’eccitamento per poi arrivare all’appagamento attraverso la sua riduzione. Nella prospettiva evoluzionista, invece, la ricerca del piacere non può essere fondamento di alcun si­ stema motivazionale primario. Piuttosto, l’esperienza del piacere dei sensi deriva dal raggiungimento della meta specifica di ciascun siste­ ma motivazionale. Esistono forme diverse di piacere sensuale legate a ciascuna motivazione omeostatica (per esempio, il piacere nell’appagamento della sete così diverso dal piacere offerto dal cibo con cui si appaga la fame), una forma di piacere sensuale legato alla meta del sistema di attaccamento (come il conforto derivante dall’abbraccio di un caregiver), il piacere che si esprime come tenerezza durante l’accudimento, il piacere trionfante derivante dal successo in una compe­ tizione, il piacere offerto dall’arte e dai prodotti più elevati del pen­ siero e, differente da tutti questi, il piacere sessuale. Queste diverse forme di piacere hanno il valore di rafforzare, ciascuna, l ’esercizio di uno specifico sistema motivazionale, ma non istituiscono un singolo sistema a sé stante. Analogamente non si può identificare, secondo la TEM, un singolo sistema motivazionale il cui fine sia allontanare o avversare le esperien­ ze spiacevoli. Come una specifica forma di piacere è il contrassegno del successo operativo di ciascun sistema motivazionale, così l’avversione (il dispiacere) assume forme esperienziali diverse nel contrassegnarne l ’insuccesso. Per fare un solo esempio, si pensi alle qualità diverse della tristezza per la perdita (attaccamento) e della tristezza per la sconfitta (competizione per il rango). Non è difficile inferire, da queste conside­ razioni, altre divergenze sostanziali, riguardanti il sistema avversivo, fra la TEM e la teoria di Lichtenberg. Il sistema della cooperazione paritetica in vista di un obiettivo con­ giunto - dal cui potenziamento rispetto alle altre specie di mammiferi emergerebbero nell’uomo, come pennacchi evoluzionistici, i sistemi superiori dell’intersoggettività e della costruzione di significati (vedi i capitoli 1 e 2) - non è contemplato esplicitamente nel modello di Lichtenberg come sistema motivazionale a sé stante. Per Lichtenberg la cooperazione è il risultato di operazioni di negoziazione e sintoniz­ zazione con l ’altro, volte a trovare accordo e vicinanza in una relazio­ ne in cui ci sia reciprocità nel riconoscimento e nella differenziazione. Queste due posizioni teoriche, a parere di chi scrive, non sono incom78

patibili. È sensato pensare che le due teorie concordino nell’ipotizzare una tendenza innata a cooperare (ipotesi più accentuata nella TEM) che si declina, nelle varie fasi dello sviluppo, in modo sempre più comples­ so e sofisticato (ipotesi su cui Lichtenberg pone più enfasi). La moti­ vazione cooperativa si limita al condividere l’attenzione su un oggetto fisico nell’interazione fra l ’infante e un adulto, ma cresce nel corso del­ lo sviluppo fino alla capacità di unire le forze per raggiungere obiettivi congiunti molto più astratti e complessi (come nel gioco di squadra). Nel modello di Lichtenberg la crescita della motivazione cooperati­ va è considerata nei suoi aspetti più articolati e sofisticati che implica­ no esplorazione reciproca dei contenuti di coscienza, negoziazione dei conflitti per le differenze e riconoscimento reciproco. Effetto e scopo di quest’attività cooperativa più complessa parrebbe il costruire e mante­ nere un’entità “Noi” che permette di provare la gioia della condivisio­ ne e il senso di sicurezza della vicinanza, entrambi valori motivazionali decisamente sovraordinati, relativi alle sofisticate attività intersoggetti­ ve neocorticali (Ivaldi, 2008). In sintesi, le differenze evidenziate dal confronto fra le due teorie sembrerebbero avere senso dal punto di vista concettuale-categoriale, più che da quello clinico (vedi Ivaldi, 2016, per esempi clinici dell’in­ tegrabilità delle due teorie). Lichtenberg si riferisce continuamente, in modo molto intuitivo e creativo, alla dimensione intersoggettiva e alla complessità del funzionamento mentale umano, costantemente co-re­ golato all’interno della relazione. La TEM, anch’essa privilegiando l ’ot­ tica relazionale, sottolinea la stratificazione gerarchica dei vari sistemi motivazionali in accordo con la loro filogenesi, e arriva così anch’essa ad attribuire valore sovraordinato di regolazione aH’intersoggettività. Sulla base di questa considerazione, procediamo adesso a esaminare il contributo che la teoria di Lichtenberg può dare allo studio della mo­ tivazione affiliativa anche nella prospettiva della TEM.

Il contributo della teoria di Lichtenberg alla conoscenza del sistema affiliativo Sin dalle origini della storia della terapia di gruppo diversi autori si so­ no espressi sulla possibilità che l ’affiliazione fosse una predisposizio­ ne innata. Burrow (1927) parlava di tendenza primaria aggregativa, in tempi in cui la società psicoanalitica era molto lontana dal prendere in considerazione il passaggio dallo studio delle relazioni a due a quello 79

delle relazioni a tre o più persone. Foulkes (1975) parlava di matrice di base, Bion (1959) di valenze e assunti di base, con lo stesso intento di rappresentare una tendenza innata ad aggregarsi. Solo la descrizio­ ne del sistema motivazionale affiliativo da parte di Lichtenberg, tutta­ via, offre spunti di riflessione preziosi da cui la TEM può trarre vantag­ gio, perché tale descrizione invita a differenziare la generale capacità a unirsi in gruppo osservabile in molte specie animali, dalla motivazione affiliativa propriamente detta. La teoria di Lichtenberg invita a considerare che i gruppi socia­ li possono formarsi sulla base anche di altri sistemi, e non solo del si­ stema affiliativo. Se la motivazione è awersiva il gruppo si forma sulla base della competizione, oppure contro un nemico esterno, giungen­ do talora a mobilizzare aggressività distruttiva (cioè, nelle concezioni della TEM, il sistema predatorio: vedi capitolo 3). Ne sono esempio i “gruppi branco”, bande che esercitano un’aggressività predatoria ver­ so un consimile. Lichtenberg tende a escludere che si possa chiamare in causa il sistema affiliativo nella formazione di gruppi rigidamente organizzati sulla base della dominanza/subordinazione o manifestanti aggressività predatoria. Per lui, l ’affiliazione è una risorsa attraverso la quale l’uomo “si calma, si afferma e trova conferma del proprio valore” (Lichtenberg, 1989, p. 151). Traspare da questa citazione il motivo per cui Lichtenberg aveva originariamente accostato affiliazione e attacca­ mento in un unico sistema motivazionale: le due motivazioni sarebbero rivolte alla ricerca della stessa esperienza affettiva e relazionale. La TEM può trovare uno spunto di riflessione interessante nel modo con cui Lichtenberg affronta, attraverso il suo modo di concepire l’affi­ liazione, il problema della formazione di gruppi sociali. Per la TEM, co­ me si è affermato nel capitolo 2, l’affiliazione al gruppo è probabilmente un pennacchio evoluzionistico, che emerge da altri sistemi motivazio­ nali (soprattutto attaccamento, competizione per il rango e cooperazio­ ne paritetica, ma anche predazione e difesa per la sopravvivenza). Non stupisce quindi che le operazioni di questi altri sistemi possano espri­ mersi all’interno dei gruppi sociali non solo umani ma anche di altre specie di mammiferi. Il rapporto fra motivazione affiliativa (proprietà emergente, adattamento dom ain-general) e gli altri sistemi menzionati (che sono adattamenti darwiniani classici, dom ain-spccific) va concepito in senso eterarchico, con l’affiliazione che deve sussumere le altre mo­ tivazioni perché un gruppo sociale stabile prenda forma. Nella nostra specie, poi, la comparsa di motivazioni superiori (anch’esse pennacchi evoluzionistici) aggiunge alla formazione del gruppo la possibilità di 80

un’articolata dinamica fra sofisticato riconoscimento di differenze fra i membri e reciproca negoziazione. Questa concettualizzazione evoluzionistica, che è stimolata dalla ri­ flessione di Lichtenberg sull’opposizione fra affiliazione e avversione nei gruppi pur non concordando con essa, spiega l ’impossibilità di identificare meccanismi di innesco specifici per il sistema affiliativo e insieme la sua forma tonica, non fasica o ciclica, di attività. Il confron­ to con la teoria di Lichtenberg consente inoltre di colmare una lacuna della TEM, riguardante il nucleo centrale dell’operare del sistema affi­ liativo la cui descrizione è carente nelle trattazioni evoluzionistiche. Questo nucleo, caratterizzante l’esercizio della motivazione affìliativa, si manifesta con un sentimento di solidarietà e di vicinanza affettiva che prevale su altre emozioni (incluse quelle riferibili a rivalità) negli scam­ bi fra i membri di un gruppo sociale. Un antico apologo, riferito da un terapeuta di gruppo, illustra le condotte e gli stati mentali che caratte­ rizzano il sistema affiliativo: Un rabbino stava conversando con Dio sul paradiso e l’inferno. “Ti mostrerò l’inferno”, disse il Signore, e condusse il rabbino in una stanza che conteneva un gruppo di persone affamate e disperate sedute intorno a un grande tavolo rotondo. In mezzo al tavolo c’era un’enorme pento­ la di stufato che sarebbe stato più che sufficiente per tutti. Il profumo dello stufato era delizioso e fece venire l’acquolina in bocca al rabbino, e tuttavia nessuno mangiava. Ogni commensale teneva in mano un cuc­ chiaio con manico abbastanza lungo da poter raggiungere la pentola e tirare su una cucchiaiata di stufato, ma troppo lungo per portare il cibo alla bocca. Il rabbino vide che la loro sofferenza era davvero terribile e chinò la testa con compassione. “Ora ti mostrerò il paradiso”, disse il Signore, ed entrarono in un’altra stanza, identica alla prima, con lo stes­ so tavolo rotondo, la stessa enorme pentola di stufato, gli stessi cucchiai dai lunghi manici. Tuttavia, c’era allegria nell’aria e tutti apparivano ben nutriti, paffuti ed esuberanti. Il rabbino non riusciva a capire e guardò il Signore. “E semplice” disse il Signore “ma richiede una certa capacità: vedi, le persone che sono qui hanno imparato a imboccarsi reciproca­ mente.” (Yalom, 1995, pp. 29-30) Se si prova, come stiamo facendo, a coniugare le idee sull’affiliazione della teoria di Lichtenberg con quelle della TEM, si arriva facil­ mente alla conclusione che la formazione di un gruppo sociale in cui la motivazione affìliativa prevale sulle altre (pur non escludendole del tutto) è un processo più che un dato di partenza. Nelle fasi iniziali del­ la sua costruzione, un gruppo sociale vede manifestarsi, in prevalen­ za, condotte relazionali ed emozioni diverse da ciucile caratterizzan81

ti il nucleo centrale dell’affiliazione (solidarietà e vicinanza affettiva). Di regola, si tratta di condotte ed emozioni che segnalano l ’attivazio­ ne del sistema avversivo (Lichtenberg) o del sistema agonistico (TEM). Nella prospettiva della TEM, è proprio il sistema agonistico a fornire al gruppo sociale, nel mondo animale, un primo tipo vantaggio in ter­ mini di adattamento: dopo le contese per il rango sociale, il ricono­ scimento di un dominante fra tutti gli altri componenti permette che il gruppo persegua una meta comune, dirigendo così le forze di tutti verso un solo obiettivo - difesa da un predatore, conquista di un terri­ torio, procacciamento di cibo o un altro obiettivo ancora - di volta in volta oggetto dell’attenzione del dominante (Trower, Gilbert, 1989). Solo gradualmente, durante il corso dell’evoluzione, in alcune specie di mammiferi comincia a svilupparsi la capacità di cooperazione. Pos­ sono comparire allora altri vantaggi evoluzionistici dell’agire in grup­ po, e prendere forma motivazioni affiliative che si affiancano a quelle agonistiche. Ciò sembra testimoniato anche nella nostra specie, per esempio dall’esperienza della terapia di gruppo, dove è difficile all’ini­ zio condividere con gli altri gli aspetti di sé che sembrano sgradevoli, e quindi soggetti a giudizi di rango. Manifestare i propri limiti, le pro­ prie mancanze, le proprie vulnerabilità è la cosa più difficile da fare in un gruppo terapeutico, ma è anche la strada per raggiungere gradual­ mente la prevalenza del sistema motivazionale affiliativo negli scambi fra i membri del gruppo. Una volta che il sistema affiliativo giunga a prevalere negli scambi fra i membri di un gruppo sociale, le funzioni superiori della mente umana offrono la possibilità di un ulteriore svi­ luppo, identificabile come nascita di un compiuto senso del Noi che si aggiunge al senso dell’Io. Il senso compiuto (ovvero non superficiale) del Noi è quello da cui è esclusa ogni fusionalità, e in cui il riconosci­ mento reciproco delle differenze fra sé e gli altri non minaccia la coe­ sione del gruppo di affiliazione. E interessante notare che indagini più recenti sul sistema affiliativo, utilizzate da Lichtenberg e collaboratori (2011), offrono ulteriori motivi di utile riflessione per la TEM. Si tratta degli studi del gruppo di Losan­ na (Cowan, MacHale, 1996; MacHale, 1997; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999) che hanno indagato le possibili configurazioni del triango­ lo primario (madre-padre-bambino) introducendo un nuovo metodo di ricerca sulla triangolarità.1 La triangolarità esprime la capacità del 1. Il concetto di triangolo primario nasce all’interno di una cornice teorica che associa la teo­ ria dei sistemi con il paradigma ctologico-microanalitico, con gli studi dellTnfant Research (Sander, 1987) e con quelli di Stern (1985) e di Trevarthen (1979) sulla sintonizzazione affettiva. Il

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bambino di formare nella propria mente un’idea del tessuto di relazio­ ni in cui è inserito fin dalla nascita. Pur non essendo le considerazioni evoluzionistiche al centro dell’interesse di Lichtenberg e del gruppo di Losanna, il fatto da loro evidenziato che la triangolarità sia già rilevabile nel corso del primo anno di vita è in accordo con l’ipotesi (centrale per la ТЕМ) che la motivazione affiliativa è frutto dell’evoluzione di Homo sapiens - sia pure nella forma di pennacchio evoluzionistico verosimil­ mente associato all’emergere dell’intersoggettività. Un recente modello di intervento psicoterapeutico, che integra le due teorie multimotivazionali nella pratica clinica, fornisce esempi della frui­ bilità, anche per terapeuti influenzati dalla ТЕМ, del contributo offerto da Lichtenberg alla comprensione della motivazione affiliativa. Si tratta del modello relazionale/multimotivazionale denominato RE.MO.T.A. (Re­ la tionaI/M otivational Therapeutic Approach: Ivaldi, 2016). Il modello RE.MO.T.A. è stato messo a punto per pazienti difficili, spesso con storie di trauma cumulativo e diagnosticati in genere nello spettro dei disturbi dissociativi e borderline. Esso combina un setting individuale e un setting di gruppo, .dove lo psicoterapeuta individuale è anche conduttore о co-conduttore del gruppo. In entrambe le stanze di lavoro il focus è sugli schemi relazionali, mentre gli aspetti di storia individuale trovano spazio privilegiato nella stanza del setting indivi­ duale. Le rappresentazioni disfunzionali di sé con gli altri, che nel set­ ting individuale si evincono dalle narrazioni del paziente, si evidenzia­ no con tutta la potenza del vissuto condiviso nel “qui e ora” del setting gruppale. La stanza della terapia individuale può diventare, in alcuni momenti, il contesto di rilettura di quello che è stato vissuto insieme nel gruppo. Muovendosi fra i due setting, il terapeuta può scegliere per le sue osservazioni e i suoi interventi, a seconda del contesto, fra le con­ cettualizzazioni della ТЕМ e quelle della teoria di Lichtenberg. Per esempio, nel setting individuale, che è quello in cui inizia l ’in­ tero percorso clinico, il terapeuta (che ha come priorità la costruzione dell’alleanza di lavoro) può basarsi sulla concettualizzazione dell’al­ leanza come attivazione del sistema cooperativo tipica della ТЕМ e sul­ le relative modalità per perseguirla (Ivaldi, 2004, 2006; Liotti, Monticelli, 2014). Tali modalità, basate sull’identificazione degli obiettivi del lavoro clinico effettuata congiuntamente dal paziente e dal terapeuta, gruppo ili Losanna parte dalla considerazione sistemica che tutto è una proprietà emergente e che la triade deve essere osservata come un insieme complessivo. L’innovazione consiste nell’aver messo a punto un metodo di ricerca che. centrandosi sulla triade, va oltre l’osservazione della diade madre-bambino.

il 83

possono essere valutate dal terapeuta come le più promettenti nel set­ ting individuale iniziale. Successivamente, quando un grado sufficiente di collaborazione è stato raggiunto nella diade terapeutica, il terapeuta accompagna il paziente in gruppo. Nel setting di gruppo, il terapeuta può decidere di privilegiare la concettualizzazione del sistema di affilia­ zione offerta dalla teoria di Lichtenberg come base per i suoi interventi: nel gruppo è più facile e promettente, per tutti i partecipanti, pensare in termini di affiliazione che in termini di obiettivi congiunti. Un altro esempio di scelta clinica fra le proposte delle due teorie multimotivazionali è offerto dalle tensioni dinamiche abnormi, che si manifestano nel gruppo più spesso rispetto al setting individuale, fra i sistemi agonistico (ТЕМ) e alfiliativo (Lichtenberg). Nella famiglia, come negli altri gruppi sociali, la motivazione agonistica può essere prevalen­ te su quella affìliativa mentre s’intreccia con quest’ultima. Si costituisce in tal modo nel gruppo familiare un contesto doloroso per il bambino, analogamente a quanto accade nella relazione diadica fra bambino e caregiver tipica dell’attaccamento disorganizzato (vedi capitolo 3). Così come è possibile utilizzare la relazione terapeutica diadica per superare i traumi di una storia d ’attaccamento disorganizzato, allo stesso modo possiamo pensare di utilizzare un contesto allargato come il gruppo di terapia per affrontare e superare la sofferenza legata a esperienze trau­ matiche riguardanti la motivazione affìliativa. 11 contesto del gruppo facilita per molti pazienti la rievocazione di memorie (scene modello: Lichtenberg, 1989) riguardanti la frustrazione della motivazione affiliativa, soverchiata da quella agonistica (o avverava) nel gruppo familiare d’origine e nei primi gruppi sociali di appartenenza extrafamiliare. In questi momenti della terapia di gruppo la descrizione del sistema affiliativo offerta da Lichtenberg fornisce al terapeuta concetti insostitui­ bili per cogliere le differenze fra l’esperienza dolorosa riconducibile al sistema di attaccamento e quella inerente alla frustrazione del bisogno di affiliazione. In sintesi, la concettualizzazione del sistema affìliativo offerta dalla teoria di Lichtenberg: 1) a p p a re c o m p a tib ile c o n l ’ip o te si d e lla ТЕМ c h e ta le siste m a c o m p a ia c o m e un a d a tta m e n to e v o lu z io n is tic o ;

2) non contraddice l’idea che evoluzionisticamente la costruzione dei gruppi sociali abbia radici nel sistema agonistico (ma aiuta a diffe­ renziare i gruppi sociali fondati sul rango di dominanza da quelli in cui prevale la motivazione affìliativa); 84

3)

fornisce criteri utili per riconoscere e utilizzare il coinvolgimento del sistema affìliativo nello scambio clinico.

Queste considerazioni depongono a favore dell’ipotesi che la de­ scrizione del sistema motivazionale affìliativo fornita da Lichtenberg possa essere utilmente integrata nella Teoria Evoluzionistica della M o­ tivazione.

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Parte seconda Ricerca

5 Uno strumento per la ricerca in psicoterapia basato sulla Teoria Evoluzionistica della Motivazione La nascita dell’AIMIT

Giovanni Passone

In questo capitolo e nei due successivi, è presentato il metodo AIMIT (Analisi degli Indicatori della Motivazione Interpersonale nei Trascrit­ ti), messo a punto per valutare gli indicatori di attivazione dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (sistemi del secondo livello nella tabella 2.1) nei trascritti di sedute di psicoterapia o in altri tipi di scambio cli­ nico (Liotti, Monticelli, 2008). Sono stati necessari alcuni anni e mol­ to lavoro da parte di un gruppo di psicoterapeuti per trasformare in procedure operative l ’articolato impianto teorico di quella parte della Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM) che riguarda i Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMl). Il percorso fatto finora non è sta­ to privo di ostacoli, e altri se ne incontreranno, ma forti di un approc­ cio saldamente ancorato ai fondamentali del saggio d ’ipotesi (Popper, 1959) abbiamo ritenuto necessario intraprendere questa strada nell’in­ tento di confutare la seguente ipotesi: se la motivazione interpersonale si manifesta anche attraverso il linguaggio (vedi capitolo 1), allora at­ traverso l’analisi degli scambi verbali si dovrebbe rilevare la presenza di indicatori validi che segnalano la presenza di un processo motivaziona­ le interpersonale in atto. Proprio perché il processo psicoterapeutico è intrinsecamente intersoggettivo, in questo e nei due capitoli successivi concentreremo la nostra attenzione sul ruolo dei Sistemi Motivazionali Interpersonali, ovvero Attaccamento, Accudimento, Rango, Sessuale, Cooperativo-paritetico, Gioco Sociale e Affiliazione. Le pagine che se­ guono raccontano il percorso fatto finora per vagliare questa ipotesi e le implicazioni che ne sono scaturite strada facendo.

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Considerazioni introduttive ... vede dottoressa, in quel momento avevo proprio bisogno di un ovetto sbattuto, invece mi sono ritrovata ad aver a che fare con una megera...

Dopo una notte eli violenze fìsiche e sessuali a opera della persona che di lì a qualche settimana avrebbe dovuto sposare, Clara era tornata a casa e al mattino parlava dell’accaduto con sua madre. La frase riportata in epigrafe è quella con cui, usando in modo sofisticato il linguaggio me­ taforico, Clara narra alla sua psicoterapeuta, pochi giorni dopo, il biso­ gno di calore affettivo provato al risveglio dopo quella notte da incubo e, al contempo, il fastidio rispetto alla reazione della madre che, ascol­ tando il racconto della figlia, aveva risposto svalutandone i sentimen­ ti e criticando aspramente l’eventualità che la giovane figlia finisse per mandare a monte “il matrimonio con una persona così benestante... ”. Se adeguatamente contestualizzato, questo è un passaggio molto si­ gnificativo della terapia, denso di implicazioni, suggestioni e conside­ razioni sulla paziente, sulla sua storia di attaccamento, sulle sue capa­ cità di rappresentare verbalmente il dolore psichico, sulla qualità della relazione terapeutica. Il metodo Al MIT permette di trasformare alme­ no una parte delle implicazioni della frase pronunciata da Clara in una serie di misure e cifre: NAR, AT-RA; TR_ARM, 5. Questa possibilità potrà forse far storcere il naso a qualcuno, qualcun altro però potrebbe es­ serne attratto e addirittura incuriosito al punto di prendersi la briga di capire se tutto questo ha un senso e se può magari anche tornare utile. Il metodo Al.VI IT (Liotti, Monticelli, 2008) nasce come strumento di analisi e rilevazione della motivazione interpersonale nei trascritti di sedute psicoterapeutiche, indipendentemente dall’approccio teorico seguito dal terapeuta. In altre parole, è un metodo e uno strumento che permette di individuare nelle singole locuzioni della seduta - attra­ verso l’individuazione di opportuni e specifici indicatori - la presenza di uno o più SMI attivi in colui che parla. Come vedremo in seguito, il risultato finale è una valutazione sistematica della seduta in cui sia le locuzioni del paziente sia quelle del terapeuta sono state vagliate in re­ lazione alla frequenza e attività dei vari SMI. Questo permette un’anali­ si più approfondita ed euristicamente rilevante rispetto all’andamento della seduta, alla valutazione della relazione terapeutica e dei processi di rottura e riparazione della medesima, oltre che una successiva inda­ gine su alcune capacità legate all’attivazione di funzioni metacognitive e di mentalizzazione. 90

Nell’ambito di una più ampia riflessione teorica inerente allo studio della motivazione interpersonale nella prospettiva evoluzionistica, si è giunti al manuale Al MIT nello sforzo di definire criteri operativi capaci di dimostrare la sostenibilità della teoria nella pratica (Liotti, Monticelli, 2008). Appariva infatti necessario mettere alla prova i principi fondamentali della TEM, applicandoli alla realtà clinica quotidiana di pazienti e terapeuti impegnati, con i loro diversi stili relazionali, in trattamenti per disturbi di varia natura e gravità. In a ltre p a ro le , le n u o v e p o s s ib ilità fo r n ite d a l m a n u a le AIMIT d o v e ­ v a n o p a s sa re a ttr a v e r s o u n e sam e in d ip e n d e n te su lla v a lid ità d e ll’im p ia n to te o ric o -a p p lic a tiv o . N o n e ra in d is c u s sio n e la TEM, n é la p a rte di essa rig u a rd a n te i SMI, b e n s ì le m o d a lità di a p p lic a z io n e di q u e s ta te o ­ ria a ttr a v e r s o lo s tru m e n to d e ll’AIMIT. In e ffe tti, n e lle p rim e e s p e rie n ­ ze di s ig la tu ra siste m a tic a c o n l ’AIMIT, n e l c o rs o di s u p e rv is io n i o e v e n ­ ti fo rm a tiv i, e p iù d i u n a v o lta n e l c o n fr o n to tra c o lle g h i, s o n o e m e rse d iffic o ltà e a s p e tti c h e h a n n o e v id e n z ia to la n e c e s sità d i m ig lio ra re lo s tru m e n to , c e rc a n d o di rid u rn e al m in im o le in e v ita b ili v u ln e ra b ilità .

Lo scopo dei capitoli di questa seconda parte del volume è fornire una panoramica del metodo AIMIT e delle sue applicazioni, dai primi passi fatti per il processo di validazione della metodologia alle succes­ sive proposte di adattamento e modifica delle procedure di valutazione dei trascritti. Abbiamo quindi pensato di inserire e discutere in forma sintetica le principali linee di ricerca, gli studi e le valutazioni che nel corso degli anni a partire dal 2008 sono state condotte in relazione al metodo AIMIT. Ci è sembrato utile fornire al lettore interessato alla TEM una visione d’insieme - organica e sintetica al contempo - dei problemi e dei percorsi di ricerca finora emersi nello sviluppare questa originale modalità di valutazione dei trascritti. Nell’insieme sono stati coinvolti nei diversi studi numerosi colleghi con formazioni diverse, operanti in contesti lavorativi differenti - dalle università, al servizio pubblico, alla pratica professionale privata. Più di settanta colleghi hanno partecipato a vario titolo ai lavori che saran­ no passati in rassegna, un numero certamente consistente che si può forse giustificare con due buone ragioni: la prima è che per fare ricer­ ca in psicoterapia (specialmente sul processo) servono molte braccia e molte teste; la seconda ragione - ci piace pensarlo - dipende proba­ bilmente dal fatto che I’ a im it ha suscitato un significativo interesse in un gruppo piuttosto numeroso di colleghi giovani e meno giovani. A corroborare quanto appena detto, vale la pena osservare che gli studi a cui facciamo riferimento hanno attinto a una base di dati complessi91

va di circa 250 sedute registrate, trascritte e formattate riferibili a circa 100 pazienti selezionati in contesti di cura molto diversi tra loro. Tutto questo nella speranza che le pagine che seguono possano stimolare cu­ riosità, riflessioni, osservazioni e critiche costruttive. Per una trattazio­ ne sistematica del metodo AIMIT si rimanda al manuale curato da Liotti e Monticelli (2008).

Come funziona I'aimit e come viene usato: una breve panoramica Uno dei primi passi intrapresi per procedere verso la validazione dello strumento è stato quello di precisare le definizioni operative dei cinque SMI valutati in questa fase. Nella tabella 5.1 sono riportate le definizio­ ni operative per il sistema dell’Attaccamento (AI ), dell’Accudimento (AG), del Rango (o sistema Agonistico; RA), del sistema Sessuale (SEX) e del sistema Cooperativo-paritetico ( p a ). Il m a n u a le AIMIT è s ta to c o n c e p ito p e r in d iv id u a re s is te m a tic a m e n ­ te l ’a ttiv a z io n e di u n o o p iù SMI, a ttr ib u e n d o - s u lla b a s e d i c rite ri di s e le z io n e p r e s ta b iliti - s p e c ific i c o d ic i d i s ig la tu ra p e r i d iv e rs i s iste m i m o tiv a z io n a li a ttiv i in o g n i u n ità d i c o m u n ic a z io n e (u n ità d i c o d if i­ ca) tr a p a z ie n te e te r a p e u ta . S i in te n d e p e r u n ità d i c o m u n ic a z io n e o u n ità d i c o d ific a o g n i fr a s e p r o fe r it a d a l s o g g e tto , c o m p re s a tr a q u e lla p r e c e d e n te e q u e lla s u c c e ss iv a p r o fe r it e d a ll’a ltr o in t e r lo c u to r e . V e ­ d r e m o in se g u ito c o m e q u e s ta d e fin iz io n e di u n ità d i c o d ific a sia sta ta o g g e tto di rifle ssio n i e o s se rv a z io n i m o lto u tili a llo s v ilu p p o d e ll’AIMIT. L e u n ità d i c o d ific a p o s s o n o e s s e re s in g o le p a r o le o fr a s i, o p e r io d i p iù o m e n o lu n g h i in c u i il s o g g e tto p a r la n te a rtic o la u n d is c o rs o su un te m a o un a rg o m e n to q u a ls ia s i. L’AIMIT rile v a

- è bene

ric o r d a r lo

u n a v o lta di p iù - l ’a ttiv a z io n e m o tiv a z io n a le in c o lu i c h e p a r la . I tr a ­ s c ritti di s e d u te - c o sì r ip a rtiti in u n ità d i c o d ific a (d e l te r a p e u ta e d e l p a z ie n te , a lte rn a te tra lo r o ) - p o s s o n o q u in d i e s se re v a lu ta te d a e s a ­ m in a to ri in d ip e n d e n ti.

Il metodo AIMIT, oltre ai criteri di codifica di ciascun sistema mo­ tivazionale (che verranno presentati in seguito), permette anche di distinguere tra locuzioni (unità comunicative) che riguardano diret­ tamente la relazione (REI.) tra paziente e terapeuta e locuzioni che in­ vece sono riferite (narrate, NAK) dal paziente (o dal terapeuta) rispet­ to a episodi intercorsi in altre relazioni. Il codice REL con riferimento alla relazione terapeutica è assegnato al primo tipo di locuzioni, il co92

Tabella 5.1

D e fin iz io n i o p e ra tiv e d ei S is te m i M o tiv a z io n a li In te rp e rs o n a li (F a s s o n e ,

Lo R e to , F o g g e tti e t a l., 2 0 1 6 ).

Attaccamento Situazioni relazionali in cui il soggetto sperim enta e/o m anifesta stati d'anim o ed em ozioni di fatica, dolore, malessere, disagio, paura, vulnerabilità e solitudine. Situazioni relazionali in cui la persona cerca, desidera o richiede il m antenim ento della prossim ità a una fig ura percepita com e capace di fo rnire cura e - se necessario - protezione. Situazioni in cui il soggetto esprim e pensieri e stati d'anim o legati a una qualsiasi condizione di sofferenza in ragione della quale necessita di aiuto, vicinanza e/o conforto da parte di un altro soggetto in grado di dare prote­ zione, sicurezza, guida e sostegno. Sono incluse richieste esplicite, da parte del soggetto, di cura, conforto e protezione, m antenim ento attivo della vicinanza; condizioni di separazione, perdita, protesta per la perdita, per il dolore patito sia fisicam ente sia em otivam ente.

Accudimento Situazioni relazionali in cui il soggetto sperim enta e/o m anifesta stati d'anim o, em ozioni e/o pensieri di com passione, sollecitudine, preoccupazione nei confronti di un altro soggetto che si trova in una condizione di sofferenza e di bisogno o vulnerabilità. Il soggetto m ostra e/o esprim e una specifica intenzione a dare cura, protezione, sollievo e conforto a un altro sog­ getto. Situazioni relazionali in cui il soggetto esprim e colpa o ram m arico per non aver dato cura, protezione, sollievo e conforto a un altro soggetto che ne ha fatto richiesta o che si sa­ rebbe aspettato di riceverle in ragione dei rapporti intercorrenti tra i due in terlocutori. Situa­ zioni in cui il soggetto esprim e sentim enti di em patica sollecitudine nei confronti di un altro, che per posizione, a ffinità, legam e, prossim ità si trova in una qualsiasi condizione di sofferen­ za e/o vulnerabilità.

Rango Situazioni relazionali in cui il soggetto è coinvolto nelle seguenti situazioni: 1. definizione di ranghi e gerarchie attraverso segnali di sfida rivolti a o ricevuti da un altro; 2. contesa/com petizione per l'accesso a una risorsa ritenuta im portante per la propria soprav­ vivenza fisica, psicologica, sociale, lavorativa, ecc.; 3. essere o sentirsi so ttoposti al giu dizio , v a lu tazio n e , critica da parte di un altro o, vice­ versa, essere o sentirsi nella posizione di colui che giudica, valu ta, critica l'interlocuto re. In tali circostanze il soggetto sperim enta e/o m anifesta stati d 'anim o , em o zio ni, pensieri e condotte di contésa, di resa/subordinazione o di suprem azia/dom inanza rispetto a ll'in ­ terlocutore.

Sessuale Il soggetto sperim enta e/o m anifesta stati d'anim o , em ozioni, pensieri e/o com portam enti re­ lativi alle seguenti situazioni relazionali: 1. attrazione sessuale verso un altro soggetto; 2. attivazione del desiderio sessuale; 3. segnali di seduzione da parte del soggetto verso un partner reale o potenziale; 4. com portam enti sessuali perversi.

Cooperativo-paritetico Il soggetto sperim enta e/o m anifesta em ozioni, pensieri e/o com portam enti relativi a una si­ tuazione di cooperazione paritetica con un altro, finalizzata al raggiungim ento di un o biet­ tivo com une. Il soggetto esprim e condivisione dell'attenzione, delle em ozioni o delle inten­ zioni con un altro con il quale è in relazione. Situazioni relazionali in cui il soggetto si sente e/o si riferisce a se stesso e al proprio interlocutore com e "n o i", ovvero interloquisce in prima persona plu rale, ribadendo con ciò in m odo im plicito la propria condizione di condivisione e parità rispetto alla possibilità di perseguire uno scopo, un progetto, un piano, un'intenzione.

93

dice ( n a r ) è attribuito alle altre locuzioni (narrate), così che ciascuna unità comunicativa riceve almeno due codifìche, una relativa al crite­ rio di codifica REL/NAR e l ’altra eventualmente relativa alla presenza o meno di una codifica possibile per uno o più sistemi motivazionali attivi ( e o o = 0: nessun SMI attivo). Una locuzione o unità di codifica può essere sufficientemente lunga da includere sia codifìche REE sia codifìche NAR, così come codifìche relative a più di un sistema moti­ vazionale attivo. N e l c a so in cu i v e n g a n o a ttr ib u iti c o d ic i d iv e rs i p e r siste m i m o tiv a ­ z io n a li d iv e rs i n e lla stessa lo c u z io n e , il m e to d o AIMIT p r e v e d e d i a s se ­ g n a re un te rz o c o d ic e , d e fin ito c o m e T ra n s iz io n e ( I R), c h e in d ic a a p ­ p u n to il p a ssa g g io d a un s iste m a m o tiv a z io n a le a u n a ltr o n e lla stessa u n ità c o m u n ic a tiv a . A lle tra n siz io n i p u ò e sse re a s se g n a to un p u n te g ­ g io d a 1 a 5 c h e in d ic a il g r a d o c re s c e n te d i A r m o n ia d e lla lo c u z io ­ n e , in te n d e n d o p e r A rm o n ic a u n a lo c u z io n e in cu i i n essi lo g ic i s o n o c o n s e rv a ti, l ’in te n to c o m u n ic a tiv o è c h ia ro e v ie n e ra g g iu n to in m o d o a p p r o p ria to . U n a p p r o fo n d im e n to su lle c a ra tte ris tic h e lo g ic o -fo rm a li d e lle tra n siz io n i sa rà fo r n ito in u n s u c c e ss iv o p a r a g ra fo d e d ic a to . U n e s e m p io d e l risu lta to fin a le è o ff e r to d a lla c o d ific a d e l fr a m m e n to d e lla s e d u ta c o n C la ra : NAR, AT-RA, TR_ARM 5 . C la ra ha NARrato un e p is o d io in c u i si e v id e n z ia l ’a ttiv a z io n e d e l siste m a d e ll’A T taccam en to e su b ito d o p o q u e llo d e l RAngo n e ll’in te ra z io n e c o n la m a d re , il tu tto a ll’in te r­ n o di u n a lo c u z io n e c o m p le s s a (T R ansizione), ARMonica c o n p u n te g g io 5 (d el tu tto a rm o n ic a ).

Alcuni altri esempi di codifica con il metodo AIMIT, relativi a quat­ tro diversi frammenti di sedute (numerati progressivamente), possono illustrare ulteriormente la procedura: 1) Terapeuta: Che cosa sta provando in questo momento? [nessuna codifica, COD = 0]

2) Paziente: ... credo che riguardi il perché la terapia è così importante per me. Ho veramente bisogno di qualcuno che mi aiuti a trovare la strada... mi fa stare bene il fatto di sapere che c’è qualcuno come lei a cui posso par­ lare di queste cose... [REL-AT] 3) T: Lei sembra veramente senza speranza quando descrive le esperienze, le interazioni con le persone che la circondano... sembra proprio che non si preoccupino di le i... lei pensa che io lo faccia nei suoi confronti? [R EL, a c ] 4) P: Le persone dicono spesso “Se tu vuoi cambiare devi fare questo e quello, devi lasciarti alle spalle le cattive abitudini non devi fare questo non devi fare quest’altro”. Loro sono solo bravi a criticare a darmi prescrizioni e a forzarmi ad abbandonare parti di me stesso, come faceva il mio insegnante di filosofia che voleva che diventassi agnostico... [NAR, RA] qui con lei 94

non mi pare proprio che accada così, anzi per la prima volta sento che mi rispetta, che si prende cura di me diversamente, per me questo è importante... [ r e l , p a -a t ; t r _ a r m 5]

Come si può notare, la locuzione [1] non è codificata [COD = 0 ] poi­ ché non contiene indicatori minimi per individuare un sistema motiva­ zionale attivo. Saper individuare correttamente le locuzioni alle quali non si può attribuire una codifica è molto importante e, come vedre­ mo in seguito, può influenzare le caratteristiche di validità di uno stru­ mento. Dal gruppo di lavoro che ha definito i criteri di codifica è stato fatto uno sforzo particolare per individuare criteri attendibili e ripro­ ducibili che hanno condotto a delle scelte precise di ordine concettuale nonché metodologico. Nella seconda unità [2], (P) si rivolge direttamente al terapeuta co­ me a qualcuno che si prende cura di lui e che per lui è importante, evi­ denziando l’attivazione dell’attaccamento nella relazione. La siglatura sarà quindi [R E L , A T ], Nella locuzione [3] il terapeuta sottolinea - riprendendo evidente­ mente qualcosa che il paziente gli ha detto poco prima - come quest’ul­ timo si possa sentire in difficoltà nelle relazioni interpersonali e gli chie­ de se ha la sensazione che lui (T) si stia prendendo cura del paziente. Nel fare questo il terapeuta attiva il suo sistema di accudimento nella relazione, quindi [ r e l , a c ] . Infine, nella locuzione [4] il paziente spiega il suo sentimento e de­ scrive le interazioni della sua quotidianità, basate sulla critica e le pre­ scrizioni (sistema di rango attivato nella narrazione: [N A R , R A ], e per­ cepisce il terapeuta come qualcuno che si prende cura di lui in modo positivamente diverso (nel senso del rispetto oltre che della compren­ sione accudente). Si noti come in questa quarta locuzione vi sia una transizione tra diversi SMI (Armonica perché il nesso logico del passag­ gio è chiaro): il sistema del Rango nella NARrazione di altri episodi in­ terpersonali, e i sistemi Paritetico e dell’Attaccamento nella RELazione in corso con il terapeuta. La siglatura di questa unità sarà dunque [N AR, R A ], [R E L , PA-AT; TR _A R M 5]. Un altro esempio riguarda uno scambio fra terapeuta e paziente, e può suggerire come il metodo AIMIT permetta di identificare la mancata sintonizzazione fra i sistemi motivazionali attivi nei due interlocutori: T: Penso che potrebbe essere utile per il nostro rapporto provare a condividere quello che proviamo rispetto a ciò che sta accadendo tra noi anche quando questo può comportare un certo disaccordo. Che ne pensa? [R EL, PA] 95

• q u e sto ? S o n o in d if f ic o lt à , n o n s o s e q u e s t o P: Beh, come : trebbe aiutai mi può aiutare soprattutto q u .t,ido s t o m a le c o m e o r a . . . [REL, AT]

Nella primi locuzione i'q ^.ipeuta attira l ’attenzione sul rapporto terapeutico p i ), e sulla P60, in base ai quali è possibile porre diagnosi per più di un D P : Paranoide, Antisociale, Istrionico, Borderline e Narcisistico. Sul piano clinico i tratti narcisistici e antisociali sembrano essere prevalenti nel definire il quadro complessivo (figura 7.4).

Figura 7.4 Profilo di p e rso n alità

sw a p -2 0 0

di B runo .

Le due figure che seguono riportano i risultati della siglatura A I M I T . Si può notare dal primo grafico che la seduta è praticamente tutta orien­ tata sulla relazione terapeutica (figura 7.5a): su 230 unità complessive, 152 sono siglabili e di queste ben 150 sono r f .i .. Inoltre, delle 150 locu­ zioni, 96 vedono attivo il sistema di rango, 43 il sistema paritetico, solo 14 il sistema di attaccamento e 12 quello di accudimento. Da notare 7 locuzioni in cui è stato rilevato il gioco sociale. La figura 7.5b mostra che quasi la metà delle locuzioni R E L del pa­ ziente sono espressione del sistema di rango (36 su 75 siglabili), con ben 11 transizioni (su 75). Il paziente è attivo anche sul piano collabo­ rati vo-paritetico, poiché 38 locuzioni sono espressione del sistema P A . Le osservazioni tornite dall’applicazione del metodo A IM IT permetto­ no dunque un’analisi dettagliata dei tipi di attivazione dei sistemi moti151

Figura 7.5a Profilo

aim it

ria ssuntivo della te rza se d u ta di B runo .

140

120 -115 -115

100

60

40

20



Terapeuta

E3 Paziente

Figura 7.5b D istrib u zio n e co m p le ssiva delle c o d ific h e te ra p e u ta ) in te rza s e d u ta .

152

aim it (smi

attivi nel p a zie n te e nel

SMI attivi nel terapeuta

v'azionali (incluse transizioni e sequenze) caratteristici di ogni incontro della diade paziente-terapeuta. Nelle due figure che seguono (7.6a e 7.6b) è riportata l’intera sequenza di locuzioni con S M I attivi nel paziente e nel terapeuta, appaiata rispetto allo scambio dialogico.

Unità di siglatura [rel] in sequenza progressiva, dall'inizio alla fine della seduta □

gio

pa aim it



sex

E3 ra

M

ac



at

in p aralle lo per te rap e u ta e p a zie n te : te ra p e u ta .

SMI attivi nel paziente

|

Figura 7.6a C o d ific a



gio



Figura 7.6b C o d ific a

pa aim it

P ] sex



ra



ac



at

in p aralle lo per te rap e u ta e p a zie n te : p a zie n te.

153

Vi sono circa 75 locuzioni per ciascuno, tutte REL. Come si può no­ tare, fino alla locuzione 45 del paziente si possono contare ben 11 tran­ sizioni nel paziente e 5 nel terapeuta. Nelle 11 del paziente è sempre presente il sistema di rango (anche in una del terapeuta è presente il rango). Fino alla metà della seduta il tema prevalente è la definizione dei ruoli nella terapia, chi dice cosa, chi stabilisce cosa si fa e di cosa si parla. In particolare, il paziente è attivato dalla questione della gestione dei farmaci: in vista di un importante colloquio con il suo capoufficio, gli era stata prescritta una terapia con stabilizzante dell’umore, con l’i­ dea di ridurre almeno in parte la grave impulsività e la reattività del pa­ ziente in situazioni di stimolo. Poco dopo la metà della seduta (minuto ’39) emerge che il paziente non aveva preso e non intendeva prendere il farmaco perché “voleva avere le mani libere”. Terapeuta: Per me è stato illuminante capire perché non ha preso il farmaco, ho capito davvero cosa le succede... [REL, PA] Bruno: Dotto’, glielo dico, non l’ho preso il farmaco, è inutile che insiste...

(ride)

[REL, G io ]

T: B: T: B:

Si, sì, ho capito... Volevo avere mano libera! Cioè...? Proprio... volevo avere mano libera! Perché se c’era da menare, da reagi­ re, capito? Anche con i commessi che stavano lì fuori dalla porta... volevo essere svelto e non lento per il farmaco... [NAR, RA] Mo’ m’ha capito, mi sono spiegato? [REL, PA] T: Ho capito, ho capito bene! (ride) [REL, Gio] B: E che vuole dotto’, che tutti vengono qua a dire “sì dottore, faccio quello che vuole lei dottore, come vuole dottore”? ! .. . [ r e l , r a ] T: No, no, questo da lei proprio non me lo aspetto!! (ride) ... questo lo sappiamo bene... ma è stato illuminante perché ho capito quanto è importante per lei non rinunciare a essere come è ... reattivo... cioè veloce, pronto a reagire. [REL, GIO-PA] Questa sequenza rappresenta lo spartiacque della seduta. Per esem­ pio, delle 36 locuzioni RA nel paziente, ben 28 sono state individuate prima di questo passaggio. Da questo momento in poi (intorno alla lo­ cuzione 31-37 del terapeuta) i due membri della diade si sintonizzano quasi costantemente sul registro collaborativo: l’AIMIT permette di co­ dificare la maggioranza degli scambi comunicativi, nel resto della sedu­ ta, come PA, mentre quasi scompaiono le codifiche RA prima frequenti. La distribuzione dei colori abbinati ai SMI attivi permette di visualizza­ re il fenomeno, nella figura 7.6b, in modo analogico. Il RA è molto più 154

concentrato nella prima metà della seduta, così come lo sono le tran­ sizioni nel paziente, mentre il sistema PA è evidentemente più rappre­ sentato sia nelle locuzioni del paziente che del terapeuta nella seconda parte della seduta. Commento al caso di Bruno L’uso dell’AIMIT ha dunque permesso un’efficace visualizzazione del­ le dinamiche interpersonali attivate durante la seduta con Bruno che - se affiancate al profilo della SWAP e alle notizie anamnestiche raccolte nelle prime sedute - suggerisce il quadro delle sequenze motivaziona­ li che il terapeuta si può attendere. Da notare che una seduta in cui la quasi totalità delle locuzioni riguarda la relazione terapeutica è già di per sé un’informazione estremamente significativa: ci dice quanto que­ sto paziente coinvolge se stesso e il terapeuta nella negoziazione di un rapporto che - appena agli inizi - è già molto intenso, caratterizzato com’è da scambi fitti e impegnativi sul piano della possibile (ma tutt’altro che scontata) costruzione di un’alleanza terapeutica. Analizzare gli effetti degli interventi del terapeuta sull’andamento della seduta, con riferimento in questo caso all’attivazione del sistema del gioco sociale e - subito dopo - del sistema collaborativo-paritetico (T: " ... No, no, questo da lei proprio non me lo aspetto! ! [ride]... questo lo sappiamo b e n e ...”), ha l ’effetto di disattivare la contesa di rango nel paziente, permettendogli di accedere - sebbene temporaneamente - a un livello di interazione nettamente più collaborativo che resta disponibile per quasi tutta la restante parte della seduta. Bella e Impossibile: Jessica Jessica, 23 anni, di professione estetista, ha una storia clinica di pre­ gresso abuso sessuale di gruppo, comportamenti sessuali promiscui, disturbi alimentari (anoressia/bulimia), marcati tratti narcisistici di per­ sonalità (figura 7.7), con una spiccata tendenza a interagire con moda­ lità manipolative in tutti i contesti relazionali: familiare, lavorativo, del gruppo sociale di appartenenza nonché in quello erotico-sentimentale. L’analisi AIMIT per le locuzioni di terapeuta e paziente permette con­ siderazioni interessanti (figure 7.8a e 7.8b). Mentre il terapeuta è attivo nel ricercare un contatto nella relazione terapeutica (35 delle sue 37 locuzioni sono siglate rel), la paziente appa­ re scarsamente sintonizzata sul registro relazionale, e più concentrata nel 155

raccontare episodi della sua vita (NAR), rivelando in quasi tutti (31 episo­ di su 32) l’attività del sistema di rango. Relativamente frequente è l’atti­ vazione del sistema sessuale ( 11 episodi su 32, pari al 34%), mentre è più rara quella del sistema di attaccamento (7 episodi su 32, pari al 21%). Commento al caso di Jessica

Il tratto narcisistico si evidenzia, nelle codifiche dei narrati di Jessica, quasi sempre (> 90%) in coincidenza con l ’attivazione del sistema di rango, e non di rado in associazione con codifiche riguardanti anche il sistema sessuale. In altre parole, quasi tutto quello che la paziente rac­ conta di sé e della sua vita è all’insegna della competizione, qualunque sia il suo interlocutore, mentre è totalmente assente l’attivazione dei SMI di accudimento e di collaborazione paritetica. Chi controlla il controllore: Renato Renato, 42 anni, soffre di un disturbo ossessivo compulsivo di persona­ lità associato a tratti narcisistici e paranoidi, diagnosticato con la SCIO II. Il nucleo centrale del problema è tuttavia rappresentato dalla pre­ senza di comportamenti parafiliaci (perversi), agiti esclusivamente con uomini anziani e consistenti in comportamenti masochistici violenti, caratterizzati dalla ricerca di umiliazione attraverso giochi di ruolo e prostituzione. L’obiettivo terapeutico era centrato non sulla perversione in sé, ma sull’integrazione delle rappresentazioni di sé e dell’altro, valu­ tate all’inizio del trattamento come estremante confuse e contradditto156

50



Figura 7.8a

Terapeuta

H

Paziente

T erza se d u ta di Je s s ic a : d is trib u zio n e (n = 8 3 ) de lle c o d ific h e a im it (te ra ­

pe uta e p a zie n te).

Figura 7.8b

Terza se d u ta di Jessica: d istrib u zio n e (% ) dei smi attivi negli e p iso di narrati

(n a r ) da pa rte della p a zie n te.

157

rie. Il trattamento è consistito in una terapia a orientamento cognitivoevolazionista che è stata monitorata per un arco di tempo di due anni, attraverso l’analisi AIMIT di un totale di quindici sedute: cinque iniziali, cinque dopo un anno di psicoterapia, cinque alla fine del secondo anno. Lo studio partiva dall’ipotesi psicoanalitica che alla base del compor­ tamento perverso vi sia il tentativo di mitigare un profondo senso di so­ litudine e vulnerabilità attraverso condotte relazionali dense di ostilità e umiliazione che possano almeno apparentemente contrastare solitu­ dine e vulnerabilità. Più in accordo con la prospettiva cognitivo-evoluzionista, ipotizzavamo che le esperienze di passività, devitalizzazione e vuoto vissute dal paziente derivassero da una grave disorganizzazione del sistema di attaccamento complicata da successive esperienze trau­ matiche e da strategie controllanti che utilizzavano i sistemi di rango e sessuale (Liotti, Farina, 2011, pp. 101-113). Commento al caso di Renato

L’analisi con l’AIMIT ha permesso di suffragare l’ipotesi secondo cui gli episodi sessuali narrati erano frequentemente associati all’attivazione del sistema dell’attaccamento, in misura maggiore rispetto agli altri si­ stemi motivazionali. In altre parole, negli episodi in cui si ravvisava la presenza di indicatori del sistema sessuale, questi ultimi erano spesso associati a indicatori dell’attivazione del sistema di attaccamento, con la modalità delle transizioni disarmoniche descritte nei capitoli 5 e 6.

Considerazioni conclusive I tre casi clinici, nel suggerire le potenzialità dell’AIMIT negli studi di ca­ so singolo (per esempio identificando le dinamiche motivazionali impli­ cate in transizioni complesse o francamente patologiche), prospettano la possibilità di aggiungere lo studio del processo psicoterapeutico agli altri tipi di ricerca riassunti nella prima parte del capitolo. Inoltre, no­ tiamo che la rappresentazione grafica di alcuni fenomeni relazionali resa possibile dal processo di codifica AIMIT costituisce una potenzialità ori­ ginale assai interessante per l’insegnamento della psicoterapia, renden­ do più accessibile agli allievi in formazione la comprensione di fenome­ ni notevolmente complessi come i processi relazionali e motivazionali implicati nei disturbi di personalità, e guidando il futuro psicoterapeu­ ta a una pianificazione più metodica e informata dei suoi interventi.

158

J

Parte terza Clinica

8 Comprensione delle emozioni in psicopatologia e psicoterapia Il contributo della Teoria Evoluzionistica della Motivazione

Giovanni Liotti

Nella prima pagina del quinto capitolo del libro S elf Comes to Mine/ ( “Il sé viene alla mente”), Damasio (2010) nota che il soffermarci sulle emozioni “ci costringe a tornare alla questione della vita e del valore”. Studiando le emozioni in questo secolo delle neuroscienze, suggerisce Damasio, inevitabilmente incontriamo gli infinitamente vari processi di regolazione della vita disponibili al cervello, e allo stesso tempo no­ tiamo come tali processi siano rivolti a mete che precedono la compar­ sa del cervello umano nel corso dell’evoluzione. 1 processi del cervello umano rivolti a mete favorevoli alla vita operano automaticamente e ciecamente, fino a quando cominciano a essere noti alla mente coscien­ te nella forma di emozioni o sentimenti (feelings). E questa una sintesi magistrale della posizione evoluzionistica sulle emozioni umane: i pro­ cessi automatici e radicalmente inconsci che sono alla base delle emo­ zioni durante la loro iniziale genesi cerebrale sono già indirizzati verso m ete con valore d ’adattamento prima di affiorare alla coscienza. Affiorate nella coscienza, le emozioni possono poi acquistare nome e significato, coniugarsi alla memoria autobiografica, venir elaborate dal pensiero in innumerevoli modi, e accedere alla sia pur limitata possibilità umana di autoregolazione e libera scelta. A questa sintesi la Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM) aggiunge un concetto importante: una stessa emozione usualmente con­ siderata primaria può manifestarsi aH’interno di differenti sequenze emozionali a seconda del diverso sistema motivazionale di cui entra a lar parte (vedi capitolo 1). Dal fatto che la stessa emozione primaria (per esempio, la paura) può far parte delle operazioni di diversi siste­ mi motivazionali (per esempio, agonistico, di attaccamento, e di difesa 161

per la sopravvivenza), ciascuno rivolto a perseguire una specifica meta o valore di adattamento, discende che è problematico aspettarsi che a ogni emozione primaria corrisponda una specifica mappa neurale ben identificabile. Potrebbe darsi che a disporre di una precisa mappatura cerebrale sia il sistema motivazionale capace di organizzare molteplici emozioni e azioni in sequenze caratteristiche rivolte al perseguimento di una specifica meta, e non la singola emozione primaria. Quest’ipo­ tesi si accorda con il confronto fra a) i risultati di studi che non trova­ no alcuna rete neurale specifica per ciascuna em ozione primaria (Touroutoglou, Lindquist, Dickerson et al., 2015), e b) i dati di ricerche che invece hanno rivelato mappe neurali differenti e specifiche per due diversi sistem i motivazionali (Hein, Morishima, Leiberg et al., 2016). Il problema della rappresentazione cerebrale delle emozioni primarie è complesso e non è possibile oggi pervenire a conclusioni univoche (Hamann, 2012), ma il tema qui sollevato - l’essere le singole emozioni primarie sussunte dal sistema motivazionale di cui entrano a far parte operativa - è cruciale per cogliere il contributo più caratteristico che la TEM può offrire alla comprensione della psicopatologia dei disturbi emozionali e al lavoro psicoterapeutico su di essi. Tale contributo è in­ centrato sulla possibilità di comprendere, nel dialogo clinico, di quale sistema motivazionale faccia parte operativa una qualsiasi emozione, anche quando essa si manifesti in forma abnorme per intensità, durata o inappropriatezza del contesto.

Sistemi motivazionali e psicopatologia dei disturbi emozionali Per illustrare il contributo della TEM alla comprensione delle emozio­ ni che caratterizzano la psicopatologia, ci solfermeremo sui casi in cui l’emozione appare sregolata per intensità e frequenza, esaminando i ca­ si dell’ansia, della tristezza, della colpa, della vergogna e della collera. Presteremo particolare attenzione al confronto fra colpa e vergogna, perché esso chiarisce, meglio dell’analisi di altre emozioni, la poten­ za della TEM nel discriminare fra emozioni diverse anche quando esse condividano aspetti comuni (vergogna e colpa veicolano significati fra loro simili nella costruzione di rappresentazioni di sé) e tendano a oc­ cupare insieme il campo della coscienza. Dopo aver esaminato la pos­ sibilità che emozioni a cui diamo lo stesso nome si manifestino come fasi operative di differenti sistemi motivazionali ed entrino, di conse­ 162

guenza, a far parte di quadri clinici diversi, riassumeremo i fattori che contribuiscono a rendere le emozioni abnormi per intensità, durata e frequenza di comparsa. 11 modo con cui la TEM si rivolge all’analisi non dei casi in cui un’e­ mozione si manifesta con abnorme intensità e frequenza, ma di quelli in cui si osserva una patologica debolezza o addirittura l’assenza di un’e­ mozione fondamentale, è stato illustrato nel capitolo 3, relativamente all’emozione di colpa. Nel capitolo 10 sarà illustrato, attraverso l ’esem­ pio offerto da alcune parafilie, il modo con cui la TEM suggerisce di af­ frontare il problema degli stati affettivi la cui anomalia discende dal loro comparire in contesti inusuali rispetto a quelli previsti dall’evoluzione. Ansia Se si esamina la più comune emozione che compare all’interno dei disturbi psicopatologici, l ’ansia, alla luce della Teoria Evoluzionistica della Motivazione, si nota che la sua definizione elementare e classica paura senza oggetto - appare discutibile. La TEM, infatti, induce a rico­ noscere sempre l ’oggetto della paura in un ostacolo o una minaccia al conseguimento della meta di uno dei sistemi motivazionali. Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o incon­ scia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attacca­ mento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo,ri si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attacca­ mento, e come paura della solitudine. Pure riconducibili al sistema di attaccamento sono l ’ansia generalizzata e l’ansia ipocondriaca, quando il problema cruciale sembra essere non soltanto la rappresentazione di un rischio (di un qualsiasi danno oppure di una malattia) ma anche o soprattutto la resistenza ad accettare il conforto che figure d ’attacca­ mento (familiari, amici, medici) tentano di offrire nella forma di rassi­ curazione circa l ’inesistenza o l’improbabilità del rischio temuto. Ben diverso è il caso dell’ansia sociale, dove l ’ostacolo (l’oggetto della pau­ ra) riguarda il conseguimento della meta di rango caratterizzante l’atti­ vazione del sistema competitivo (agonistico). L’ansia sociale dovrebbe dunque essere meglio definita come paura di subire un giudizio negati­ vo che compromette l’aspirazione a mantenere o incrementare il rango sociale percepito. Altri tipi di paura abnorme, come quelli che caratte­ 163

rizzano i disturbi correlati allo stress post-traumatico (fra i quali mol­ ti esperti considerano anche i disturbi borderline e dissociativi: Liotti, Farina, 2011) e quelli che possono apparire nel corso dei deliri di per­ secuzione, sono riconducibili soprattutto alle operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), non principalmente ai si­ stemi di attaccamento e di rango. Non è infrequente che alcuni tipi di ansia abbiano come oggetto ostacoli al conseguimento delle mete di due o più sistemi motivaziona­ li. Per esempio, il panico è non di rado riconducibile all’esperienza di paura senza soluzione tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cassidy, Mohr, 2001). Nell’attaccamento disorganizzato esiste una tensione abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), tale che coesistono paura di danneggiamento da par­ te della figura di attaccamento e paura di perderne la vicinanza protet­ tiva cosi che non è possibile né cercare prossimità né fuggire (Liotti, Farina, 2011). Nel conflitto fra questi due sistemi motivazionali si apre la possibilità di gravi processi dissociativi, nei quali il sistema di difesa per la sopravvivenza contribuisce in particolare alla depersonalizzazio­ ne (Liotti, Farina, 2011). Tristezza I tre sistemi motivazionali chiamati in causa per comprendere i tipi più comuni di paura abnorme sono anche quelli più spesso coinvolti nel­ le diverse forme di dolorosa angoscia, tristezza e malinconia che com­ paiono in numerosi disturbi psicopatologici. Quando è coinvolto prin­ cipalmente il sistema di attaccamento, la forma assunta dall’esperienza emozionale è quella della tristezza per la perdita, ben diversa anche fe­ nomenologicamente dalla tristezza per la sconfitta o il fallimento, carat­ teristica dell’implicazione prevalente del sistema agonistico. Un’analisi attenta delle posture e dei resoconti dell’esperienza soggettiva permet­ te poi di differenziare da queste due la forma di accasciamento emo­ zionale legata al sistema di difesa per la sopravvivenza. Quest’ultima si palesa come sentimento diffuso ed estremo d ’impotenza, riconducibi­ le all’attivazione progressiva del nucleo dorsale del vago nel processo che conduce alla finta morte (feigned deatkr. vedi capitolo 1; vedi anche Porges, 2007 e Seligman, 1975). E degno di nota che paura e tristezza (ansia e depressione, se si pre­ ferisce la terminologia corrente in psicologia clinica e psichiatria) so­ no spesso associate fra loro o con altre emozioni esperite in maniera

abnorme (soprattutto collera etero- o autodiretta, vergogna e colpa) in diversi disturbi psicopatologici. La TEM permette di studiare queste as­ sociazioni di emozioni in ogni sindrome clinica a partire dall’ipotesi che esse siano coordinate dallo stesso sistema motivazionale e ne riflettano la tipica sequenza operativa. Per esempio, si può prevedere che la tri­ stezza per la perdita si coniughi più facilmente al timoroso sentimento di vulnerabilità conseguente alla solitudine percepita (sistema di attac­ camento) in un dato paziente, mentre la tristezza per sconfìtta o falli­ mento sia più probabilmente legata, in un altro, alla paura del giudizio sociale negativo e alla vergogna (sistema agonistico). Vergogna e colpa Vergogna e colpa, che sono entrambe presenti in molti disturbi psico­ patologici, sono state e sono ancora oggetto di importanti indagini e di controversie negli studi teorici ed empirici riguardanti la psicopa­ tologia. E ben nota la divergenza fra le teorie psicoanalitiche classiche che attribuiscono un ruolo cruciale alla colpa seguendo la concezione freudiana del Super-Io, e la Psicologia del Sé (Kohut, 1971) che ten­ de a considerare più importante la vergogna almeno nella genesi dei disturbi psicopatologici più gravi (per una sintesi recente degli argo­ menti di questa controversia, si può consultare il terzo capitolo del li­ bro di Aron e Starr, 2013 ). Kohut (1971) considera la vergogna come un sentimento diffusivo che può espandersi a tutto il Sé annichilendo­ lo, mentre la colpa èu n sentimento più maturo che si manifesta in fasi più avanzate dello sviluppo della personalità, ed è conseguenza di sin­ gole contravvenzioni a specifiche proibizioni morali. Secondo Kohut ( 1971) le personalità narcisistiche non hanno sviluppato una struttura superegoica adeguata, e quindi non sperimentano sentimenti di colpa anche se possono descrivere le loro esperienze di vergogna in termini di elevati ideali morali. La fondamentale idea che la vergogna tende a essere sperimentata come pervasiva dell’esperienza di sé mentre la colpa è contestualizzabile nell’ambito di specifiche trasgressioni trova un corrispettivo nella discriminazione fra le due emozioni suggerita dal cognitivismo clinico: la vergogna si basa sulla convinzione (belief) di essere globalmente “sbagliati” o “fatti male”, mentre la colpa è ba­ sata sulla credenza di aver fa tto qualcosa di male o di sbagliato (Gil­ bert, 2001). La ricerca empirica sulle differenze fra vergogna e colpa sembra offrire sostegno alla tesi di Kohut: una meta-analisi di numerosi studi 165

(Kim, Thibodeau Jorgensen, 2011) dimostra che l ’associazione dei sin­ tomi depressivi con la vergogna è significativamente superiore rispetto a quella con la colpa. Tuttavia, nello stesso studio meta-analitico sono presenti considerazioni riguardanti il rischio che un’inadeguata discri­ minazione concettuale fra vergogna e colpa renda vano il tentativo di indagare sia sul diverso ruolo patogeno delle due emozioni, sia sui pro­ cessi mentali che le rendono abnormi per intensità, durata e contesto di comparsa. Nell’articolo di Kim, Thibodeau e Jorgensen (2011) si legge che l ’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna cessa di essere significativamente diversa dall’associazione con la colpa quan­ do si considerano due varianti di colpa disadattativa: la colpa causata da un esagerato senso di responsabilità per eventi incontrollabili, e la colpa generalizzata liberamente fluttuante (cioè non riferibile ad alcun contesto specifico). L’identificazione di diversi tipi di colpa crea pro­ blemi per la differenziazione fra vergogna e colpa negli studi empirici di psicopatologia, tanto più che sono state descritte, per lo più su ba­ si cliniche, numerose varianti del sentimento di colpa: colpa edipica, colpa da separazione e slealtà, colpa del sopravvissuto, colpa da senso di responsabilità onnipotente e colpa maligna (self-hate guilt), colpa deontologica e colpa altruistica (definite in O’Connor, Berry, Weiss et al., 1997; Mancini, 2008). Il problema posto al ricercatore dalla diffi­ coltà di discriminare fra la vergogna e alcune varianti della colpa può essere illustrato con un esempio. La colpa maligna e la colpa libera­ mente fluttuante potrebbero apparire difficilmente distinguibili dalla vergogna perché come quest’ultima sono emozioni diffusive che in­ vadono ampiamente l ’esperienza di sé e dunque, diversamente dalla colpa per trasgressioni a specifiche interdizioni morali, non sono fa­ cilmente contestualizzabili. A nostro avviso, la TEM permette di discriminare sempre fra vergo­ gna e colpa in modo particolarmente efficace, risolvendo il suddetto problema. Secondo la TEM, la vergogna è un’emozione tipica del si­ stema agonistico, anche se potrebbe manifestarsi nel sistema sessuale nella forma mitigata del pudore e, in forma estrema, nel sistema affiliativo come conseguenza dell’espulsione dal gruppo. La colpa, invece, non è tipica di alcun sistema motivazionale, e può manifestarsi in un buon numero di essi: nel sistema di accudimento (dove accompagna o segue il disattendere alle richieste di cura e stimola il rispondervi), nel sistema cooperativo (dove frena la slealtà verso i partner con cui ci si è impegnati in un’impresa congiunta), nel meccanismo che inibisce la violenza intraspecifica (vedi la descrizione del MIV nel capitolo 3), e nel 166

sistema atfìliativo (dove scoraggia il persistere nella trasgressione alle norme del gruppo). Nel normale funzionamento del sistema di attacca­ mento, la comparsa di colpa e vergogna non offrirebbe invece, almeno nei primi due anni di vita in cui il sistema è particolarmente attivo, al­ cun vantaggio evoluzionistico in termini di raggiungimento della meta adattativa. Per questa ragione, colpa e vergogna devono attendere la maturazione di sistemi diversi da quello di attaccamento per diventare facilmente osservabili nel bambino. Soltanto quando, durante il terzo anno di vita, si possono attivare, insieme a quello di attaccamento, altri sistemi motivazionali (nei quali colpa e vergogna rivelano le proprie fi­ nalità evoluzionisticamente adattative) le due emozioni si possono talo­ ra osservare, frammiste a quelle di attaccamento, durante le interazioni fra bambino e caregiver. Il vantaggio adattativo della colpa è evidente: essa muove alla ricon­ ciliazione e dunque contribuisce a salvaguardare relazioni sociali do­ tate di alto valore evoluzionistico. Il valore evoluzionistico della vergo­ gna può sembrare a prima vista meno evidente, ma diviene chiaro se si considera la dinamica dei segnali di sottomissione e di dominanza durante le contese per il rango sociale. Quando la sfida e l’aggressività reciproca fra due contendenti, che caratterizzano le prime fasi opera­ tive del sistema agonistico, cominciano a dimostrare la forza superiore di uno dei due, nell’altro si attiva un automatismo psicobiologico che inibisce il comportamento aggressivo. Questo automatismo è noto co­ me subroutine di resa, o di sottomissione, del sistema agonistico. Nella subroutine di resa il'tono muscolare, fino a quel momento molto alto per permettere le condotte aggressive, si riduce bruscamente. Il san­ gue, che era stato richiamato nei muscoli per nutrirli durante lo sforzo competitivo, defluisce rapidamente verso i visceri e soprattutto verso la cute, donde il rossore tipico della vergogna. L’andare verso l ’anta­ gonista a testa alta e schiena dritta, per colpirlo, si arresta in una sor­ ta di accenno di fuga (fuga invertita, nella terminologia degli etologi) e si trasforma in uno dei possibili segnali di resa. Lo sconfitto evita lo sguardo del vincitore a segnalare che cessa di attaccarlo, china il capo e persino si prostra, oppure si getta sul dorso e alza nel vuoto gli arti, a imitare la posizione di una preda sul punto di essere uccisa. Allo stesso tempo anche il vincitore cessa l ’attacco, e pur mantenendo la postura dell’aggressione vincente (spalle alzate, mento in alto) rivolge nel vuo­ to la tensione aggressiva residua: può emettere, per farlo, una sorta di urlo di trionfo rivolto verso il cielo, può correre brevemente sul terre­ no dell’agone, o colpire con i pugni il proprio torace invece dell’avver­ 167

sario sconfìtto, come fanno i gorilla. È questa la subroutine di trionfo, detta anche di dominanza, del sistema agonistico che viene spontaneo collegare, quando la osserviamo in un animale, a un’emozione simile all’orgoglio umano. La vergogna, invece, è l’emozione che altrettanto spontaneamente colleghiamo aU’incipiente subroutine di resa che apre la strada ai segnali di sottomissione.1 L’essenziale valore evoluzionistico legato alla capacità di formare gruppi sociali coesi dipende dunque anche dalla capacità di manifesta­ re vergogna, avviando con i corrispondenti comportamenti la costru­ zione di gerarchie sociali primordiali basate su rapporti di dominan­ za-subordinazione (Trower, Gilbert, 1989). Tali tipi di gruppo sociale sommano in sé i vantaggi dell’orientamento univoco (indicato dal do­ minante) e dell’unione delle forze di molti. L’esistenza di gerarchie di rango riduce la conflittualità interna fra i membri del gruppo, e apre la strada all’evoluzione di forme diverse di gruppo sociale, meno rigida­ mente gerarchiche e più orientate alla collaborazione (vedi il tema del sistema di affiliazione umano nel capitolo 4). La TEM permette dunque una chiara distinzione fra le emozioni di colpa e vergogna attraverso l ’analisi degli scopi finali che l’individuo persegue nel momento del loro manifestarsi (rispettivamente, ripara­ zione di una relazione per la colpa, e riconoscimento della maggiore forza o competenza di un altro membro del gruppo per la vergogna). Quest’analisi è facilitata dall’osservazione dei comportamenti e dei fe­ nomeni corporei che accompagnano le due emozioni: posture chine, evitamento dello sguardo diretto, lieve allontanamento dall’altro e ros­ sore nel caso della vergogna; avvicinamento benevolo con postura eret­ ta e sguardo rivolto all’altro nel caso della colpa. Si potrebbe opinare che una tale scrupolosa discriminazione tra col­ pa e vergogna non è clinicamente indispensabile, argomentando che le due emozioni si manifestano spesso insieme in diversi disturbi psico­ patologici, e sono riconducibili a percezioni negative di sé che hanno molti aspetti in comune. A queste argomentazioni, la TEM oppone so­ lidi controargomenti. E vero che le percezioni di sé durante le mani­ festazioni congiunte di colpa e vergogna si sovrappongono e rendono difficile la discriminazione fra le due emozioni, ma non è così per le rappresentazioni dell’altro, e quindi di sé-con-l’altro. Nella colpa il sé è rappresentato come responsabile di un danno che ha causato all’al­ I. Non si pensi che queste sequenze comportamentali ed emozionali siano arcaismi evoluzio­ nistici poco influenti nelle culture untane: si noti, per esempio, l’inginocchiarsi nelle nostre ce­ rimonie religiose o l’inchinarsi di fronte ad autorità di cui riconosciamo la superiorità morale o

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tro o alla relazione con l’altro, quindi come dotato di iorze, competen­ ze o risorse pari o superiori a quelle dell’altro, altrimenti non avreb­ be potuto recargli danno. Nella vergogna, invece, la rappresentazione dell’altro è caratterizzata dalla riconosciuta superiorità, quanto meno sul piano etico, e la rappresentazione di sé da un’inferiorità meritevole di giudizio morale negativo c persino di disprezzo. In altre parole, chi prova vergogna si sente inferiore e tendenzialmente impotente, men­ tre chi prova colpa si sente responsabile e abbastanza “forte” da poter causare danno. Quanto poi al motivo per cui le due emozioni di colpa e vergogna e le due corrispondenti rappresentazioni tendono appa­ rentemente a sovrapporsi, la TEM lo rintraccia nel confondersi quasi simultaneo di due contesti relazionali e motivazionali che però resta­ no diversi fra loro. Per esempio, un paziente in psicoterapia che rac­ conti di aver tradito qualcuno che ama, mentendogli, prova durante il racconto colpa verso la persona amata, e vergogna di fronte al giudi­ zio negativo che si aspetta formarsi nella mente del terapeuta. È pro­ babile che un terapeuta attento soprattutto alle dinamiche relazionali e motivazionali in cui è personalmente coinvolto durante lo scambio clinico noti soprattutto o soltanto la vergogna del paziente, e interven­ ga su quella. Un terapeuta portato a esplorare le narrazioni e le dina­ miche intrapsichiche del paziente piuttosto che la relazione terapeu­ tica in corso forse noterebbe, di fronte allo stesso racconto, soltanto la colpa. Un clinico che cerchi guida nella 'I'EM noterebbe entrambe le emozioni, contestualizzate in due simultanee rappresentazioni di sécon-l’altro: quella in corso e che coinvolge il terapeuta (dove affiora la vergogna), e quella con la persona amata e ingannata che il pazien­ te sta rievocando (dove affiora la colpa). Il vantaggio clinico sta nella possibilità di esplorare, nella sequenza che appare più opportuna (di regola, prima la colpa e poi la più paralizzante vergogna), entrambi gli ambiti di esperienza e significato. Collera La collera compare normalmente nelle sequenze emozionali tipiche di diversi sistemi motivazionali. Nel sistema di attaccamento essa ap­ pare nella forma di protesta contro l ’incipiente allontanamento della figura di attaccamento, ed è finalizzata a impedirlo. Nel sistema di acintcllettuale, e si riconoscerà che sono chiare ripetizioni itegli schemi fondamentali della subrou­ tine di sottomissione del sistema agonistico. Se si preferisce, si confronti la subroutine rii trionfo con il comportamento di un calciatore che ha appena segnato un goal.

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(rudimento il fine della collera è scoraggiare in modo rapido ed ener­ gico la persona che si vuole proteggere dal compiere azioni dannose о pericolose, come segnalato nello scritto di Bowlby (1984) di cui il capitolo 3 ha offerto una sintesi. La collera appare nel sistema ago­ nistico durante le prime fasi della contesa per il rango, e si manifesta come aggressività ritualizzata il cui scopo è ottenere la resa dell’an­ tagonista senza danneggiarlo seriamente (vedi i capitoli 1 e 3). Una forma primordiale e violenta di collera accompagna la fase di attacco del sistema di difesa per la sopravvivenza, dove l’aggressività non è ri­ tualizzata ma volta a danneggiare о uccidere. E importante ricordare che l’aggressività, altrettanto distruttiva, del sistema predatorio non è accompagnata da collera (vedi capitolo 3 ). Infine, stati mentali e con­ dotte alla cui genesi contribuiscono i sistemi motivazionali di ordine superiore, inducendo modificazioni nella collera e nell’aggressività che caratterizzano le operazioni di sistemi più arcaici, sono la gelosia, l’invidia e il sarcasmo. La causa più frequente di manifestazioni abnormi per intensità e du­ rata della collera eterodiretta è certamente il deficit, transitorio e conte­ sto-dipendente ovvero più stabile, della funzione regolatrice esercitata dai sistemi motivazionali di ordine superiore su quelli evoluzionistica­ mente più antichi. Tale deficit può conseguire a variabili genetiche e temperamentali, ma probabilmente è più spesso conseguente a tensioni dinamiche abnormi fra sistemi motivazionali come quelle fra attacca­ mento e difesa per la sopravvivenza che caratterizzano l ’attaccamento disorganizzato (capitolo 3; Liotti, 2014a). Più complessa è la genesi della collera rivolta verso se stessi. Per rivolgere verso di sé collera e aggressività, è anzitutto necessario che esista la capacità di un dialogo interiore a sostegno della coscienza di sé estesa nel tempo (Damasio, 2010), ovvero a sostegno della descri­ zione narrativa dell’identità personale. Secondo la ТЕМ, in assenza di tale capacità (che ovviamente manca negli animali e non è sviluppata nei piccoli umani fino al terzo anno di vita) collera e aggressività so­ no, per regola di adattamento darwiniano, sempre eterodirette. Data l'esistenza della capacità di dialogo interiore, particolari contesti in­ terpersonali e specifici processi mentali devono intervenire nel corso dello sviluppo della personalità perché collera e aggressività possano essere rivolte verso di sé, rompendo la regola evoluzionistica che le vuole eterodirette. Alcune ipotesi sui contesti interpersonali e sui pro­ cessi mentali capaci di dirigere su di sé collera e aggressività sono state discusse nella parte finale del capitolo 3 (pp. 85-86). 170

Il problema della genesi dei disturbi emozionali secondo la tem È stato affermato, nella prima parte del libro, che i sistemi motivazionali dei tre livelli (tronco-encefalico, Iimbico e neocorticale) interagiscono Ira loro in maniera ricorsiva, con processi che vanno sia dal basso ver­ so l’alto (bottom -up ) sia in direzione opposta (top-down). Il livello neo­ corticale riceve dunque informazioni già elaborate dai sistemi sottocor­ ticali, e a sua volta esercita su di essi un’influenza regolatrice decisiva, inserendo le suddette informazioni nel campo dell’intersoggettività, della costruzione di significati e della coscienza. In questa prospetti­ va, si possono aprire diverse strade per comprendere come una o più emozioni possano acquisire valenza psicopatologica. Eccone un elen­ co sommario e parziale: 1) Condizioni ambientali avverse possono attivare un dato sistema mo­ tivazionale in maniera abnorme per intensità o durata (è il caso, per esempio, del trauma cumulativo che può mantenere attivo per an­ ni il sistema di difesa per la sopravvivenza, anche dopo la fine degli eventi traumatici: Liotti, Farina, 2011). 2) Specialmente se il sistema iperattivato appartiene al livello arcaico, le emozioni veementi connesse alla sua attività possono eccedere le capacità regolatrici dei livelli superiori, conducendo a deficit conte­ sto-dipendenti o più estesi della coscienza riflessiva, della metacognizione e della capacità di costruire significati adeguati dell’accaduto: ne può conseguire la condizione che Jackson chiamava dissoluzione o de-evoluzione (capitolo 2), sovrapponibile al concetto contempo­ raneo di dissociazione (Meares, 1999, 2012). 3) Situazioni relazionali complesse possono condurre a tensioni dina­ miche abnormi Ira diversi sistemi motivazionali (è il caso, per esem­ pio, dell’attaccamento disorganizzato, dove vengono attivati simul­ taneamente e in maniera conflittuale i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza: Liotti, Farina, 2011). Ne possono con­ seguire difficoltà a costruire significati unitari e coerenti riguardanti la propria intenzionalità, dato che tale intenzionalità va in almeno due direzioni simultanee e inconciliabili fra loro. 4) Per ridurre le conseguenze dolorose o emotivamente intollerabili di tensioni conflittuali fra sistemi motivazionali, possono venire at­ tivati altri sistemi motivazionali in maniere inappropriate al conte­ sto (è il caso delle strategie controllanti di cui si è trattato in capi­ 171

toli precedenti, e probabilmente di alcune parafilie, trattate in un capitolo successivo). 5) Per assetti genetici sfavorevoli, oppure per influenze interpersonali negative precoci, uno o più sistemi motivazionali superiori posso­ no essere disfunzionali fin dall’inizio della vita, oppure non matura­ re adeguatamente durante lo sviluppo della personalità (sono, per esempio, i casi di autismo infantile causati dall’interazione fra difetti genetici e da esperienze relazionali avverse, che convergono nell’inficiare il sistema dell’intersoggettività e la metacognizione: Abrahams, Geshwind, 2008; Hobson, 2004). 6) Influenze interpersonali negative, specie se precoci, possono condur­ re alla costruzione di strutture disadattative di memoria e aspettativa, che possono affiorare alla coscienza o restare confinate dell’ambito della conoscenza implicita (chiamata anche inconscio non rimosso; Mancia, 2006). Queste strutture disadattative sono state chiamate con vari nomi: credenze irrazionali (Ellis, 1952), credenze patogene (Weiss, 1993), costrutti personali (Kelly, 1955), pensieri automatici negativi ed errori cognitivi (Beck, 1976), principi organizzatori in­ consci (Stolorow, Atwood, 1992) e Modelli Operativi Interni (MOI: Bowlby, 1969) dei vari tipi di attaccamento insicuro. Le strutture disadattative di memoria, aspettativa e significato ostacolano il rico­ noscimento cosciente e la valutazione appropriata delle emozioni in sé e negli altri, inficiando la capacità di regolarle. Si noti che la TEM ammette come strumenti adeguati per compren­ dere la psicopatologia sia le teorie del conflitto sia le teorie del deficit. Essa considera coinvolte nella genesi di disturbi psicopatologici strut­ ture e funzioni mentali sia coscienti sia inconsce, e ammette sia influen­ ze ambientali sia influenze genetiche fra i fattori di rischio per disturbi psicopatologici. Inoltre, considerando le influenze patogene tanto più potenti quanto prima e quanto più cumulativamente si manifestano nel corso dello sviluppo della personalità, essa invita a studiare con cura la storia di vita dei pazienti fin dall’infanzia. Ancora, essa invita a conside­ rare non solo gli aspetti relazionali nella genesi dei disturbi psicopato­ logici, ma anche le dinamiche mentali individuali che prendono forma durante tale sviluppo (un buon esempio dell’attenzione a processi di­ namici individuali oltre che relazionali è offerto dall’analisi delle stra­ tegie controllanti in termini di attivazione di diversi sistemi motivazio­ nali: Liotti, 2011). Non dobbiamo, dunque, cercare i più caratteristici contributi della TEM allo studio della psicopatologia e della psicoterapia 172

sforzandoci di collocarli all’interno delle tradizionali contrapposizio­ ni (teorie del deficit e del conflitto, attenzione prestata ai processi topdow n oppure bottom -up, ambientalismo e genetica, privilegio accor­ dato ai processi mentali coscienti oppure a quelli inconsci, attenzione o disattenzione per le relazioni attuali e per quelle dell’intero arco di vita del paziente, costruttivismo radicale e realismo critico). Piuttosto, è utile considerare come contributo cruciale e caratteristico della TEM l ’invito a considerare il rapporto ricorsivo e complesso fra emozioni e cognizioni nel contesto delle operazioni dei sistemi motivazionali sele­ zionati dall’evoluzione.

Alcune implicazioni per la psicoterapia La conoscenza della TEM fornisce una solida base per riconoscere l’a­ spetto universale ed evoluzionisticamente adattativo che resta al fonda­ mento anche di emozioni che, per vari fattori, giungono a essere espe­ rite ed espresse in forme gravemente disturbate. Saper riconoscere tale aspetto è prezioso per il terapeuta che intenda condividere con i pazien­ ti il suo apprezzamento del fondamento normale delle emozioni, di cui pure valuta, senza minimizzarlo, il manifestarsi in forme abnormi per intensità o per inadeguatezza al contesto. In altre parole, la TEM può rive­ larsi particolarmente utile per il lavoro psicoterapeutico basato sull’em­ patia, nonché per quello definito “validazione delle emozioni” che è ti­ pico della Terapia Dialettico-Comportamentale (TDC: Linchan, 1993). Nell’ambito delle terapie cognitivo-comportamentali, la TEM sug­ gerisce un metodo di analisi delle inter-relazioni fra contesti di espe­ rienza, credenze, emozioni e comportamenti osservabili che è utile complemento del metodo noto come ABC (acronimo di A ntecedente lìdie/, C onsequence). Il metodo ABC mira a identificare le credenze o convinzioni (b eliefs ) con cui il paziente categorizza gli eventi [antece­ dente,) che precedono le sue peculiari risposte emozionali e compor­ tamentali (iconseq u en ces ). Su tali credenze il terapeuta cognitivo-comportamentale si propone di intervenire al fine di renderle meno rigide e irrazionali, avviandone il cambiamento (prassi basata sull’ipotesi che al cambiamento cognitivo seguiranno cambiamenti sia nelle risposte emozionali abnormi sia nei comportamenti controproducenti del pa­ ziente). Secondo la TEM, l’uso di un metodo di indagine clinica comple­ mentare all’ABC e maggiormente focalizzato sull’analisi delle emozio­ ni viste come fasi operative di sistemi motivazionali, può essere molto 173

utile nei casi in cui il paziente ha difficoltà nell’uso della memoria au­ tobiografica specifica o episodica, e tende a usare prevalentemente, sia nel dialogo clinico che nel dialogo interno, la memoria autobiografica ipergeneralizzata o semantica (Dalgleish, Werner-Seidler, 2014; W il­ liams, Barnhofer, Grane et ah, 2007). Questo metodo complementa­ re è identificato con l’acronimo CEPA (Contesto, Emozione, Pensiero, Azione) o CESPA, quando si considerino anche le Sensazioni somati­ che concomitanti a emozioni propriamente dette oppure a esperienze non strettamente emozionali come gli eccitamenti tipici dell’operare di alcuni sistemi motivazionali arcaici. L’inclusione delle sensazioni so­ matiche fra gli elementi del metodo CESPA (Contesto, Emozione, Sen­ sazione somatica, Pensiero, Azione) è particolarmente utile quando il paziente presenta un’esagerata tendenza a esprimere i propri vissuti sul piano delle sensazioni corporee mentre ha difficoltà a descrivere la proprie emozioni (alexitimia). In altre parole, i metodi di indagine clinica noti come ABC e CESPA sono simili nel mirare entrambi a raccogliere informazioni sugli elemen­ ti che compongono l’esperienza cosciente del paziente: memorie della situazione in cui prende forma un evento emotivamente significativo e correlato al problema clinico del paziente (antecedente o contesto), processi di pensiero durante l’evento, emozioni o sensazioni somatiche provate, azioni compiute. Sono però diversi nel centrare e nell’analizzare il fulcro di tale raccolta di informazioni: le strutture della conoscenza semantica (b e l i e f s ) che sottendono i pensieri del paziente per l’ABC, le emozioni e le sensazioni corporee considerate come operazioni di un sistema motivazionale per il CESPA. Mentre l’uso dell’ABC comporta il focalizzarsi dell’attenzione del terapeuta su strutture e processi della conoscenza semantica del paziente, l’uso del CESPA richiede che invece l’attenzione del clinico resti maggiormente ancorata alla conoscenza o memoria episodica, la sola che permette sia un’analisi attenta dell’e­ sperienza emozionale del paziente, sia l’esercizio pieno deH’empatia o della validazione emozionale. Il metodo ABC mira a un a s s c s s m e n t delle credenze come fase preliminare del lavoro terapeutico, per poi avviare il processo di cambiamento di tali credenze considerato come fattore cruciale di cura. Il CESPA, invece, considera fattori di cura importanti quelli che prendono forma nello stesso dialogo clinico solo apparen­ temente finalizzato alla raccolta di informazioni. Oltre all’opportuni­ tà offerta a interventi empatici e di validazione emozionale durante la ricostruzione di eventi con il CESPA, è considerato fattore terapeutico anche l’esercizio della memoria autobiografica specifica (episodica) che 174

è implicato direttamente nella ricostruzione di eventi con il metodo CE­ SILA. Tale esercizio è terapeuticamente utile soprattutto nei casi clinici

caratterizzati da alexitimia e da tendenza a fornire prevalentemente nar­ razioni autobiografiche ipergeneralizzate (Dalgleish, Werner-Seidler, 2014; Williams, Crane, Barnhofer et al., 2007). Di fronte a pazienti incapaci di riconoscere e differenziare gli stati emotivi, che descrivono unicamente nella loro componente corporea o comportamentale, e per di più in modo ipergeneralizzato (“Non so cosa mi accada, sono sempre contratto, mi sveglio e sono già contrat­ to, poi continuo ad avere i muscoli tutti tesi, tutto il giorno”), il meto­ do CESPA guida il clinico a chiedere anzitutto un esempio limitato nel tempo di una recente sensazione di contrattura del corpo, usando gli stessi termini usati dal paziente (empatia). Se il paziente risponde, per esempio: “Proprio oggi, appena svegliato, come sempre”, il terapeuta può chiedere se abbia provato questa tensione in tutti i muscoli men­ tre era ancora a letto, oppure appena alzato (ricerca del “C ”). Suppo­ niamo che il paziente risponda: “Mentre ero ancora a letto, è sempre così”. Rispettando sia la riluttanza o l ’impossibilità del paziente a no­ minare spontaneamente l ’emozione che accompagna la contrattura del mattino, sia la tendenza all’ipergcneralizzazione rivelata dall’uso ripetuto dell’avverbio “sem pre”, il terapeuta procede a indagare se altre sensazioni corporee abbiano accompagnato la tensione di quel mattino (approfondimento di “S ”), e infine cosa abbia fatto subito do­ po essersi alzato con quella contrattura (ricerca di “A"). L’indagine su emozioni (“E”) e pensieri (“P ”) è rinviata fino a quando il paziente non tornisca indizi che suggeriscano la possibilità di rivolgere l ’atten­ zione al mondo interiore. Nell’esempio in questione, si ottenne così che il paziente nominasse un malessere allo stomaco come altra sensa­ zione corporea di quel mattino, e poi avanzasse prima della fine della seduta l’ipotesi che potesse trattarsi di ansia (“Pensa anche lei, dotto­ re, come il mio medico di tamiglia, che si tratti di ansia?”). Solo do­ po alcune sedute, in cui il terapeuta esercitò ripetutamente commenti empatici sulla sofferenza del paziente, e stabilì un accordo con lui, che avrebbero usato il concetto di ansia solo come ipotesi di lavoro, per comprendere meglio (attraverso episodi annotati a titolo di esempio) quanti più aspetti possibili della sua sofferenza, si ottenne il seguente risultato: “Quella è un’ansia di un altro tipo, invece l ’ansia di cui par­ lo io è quella che prende allo stomaco... mentre in ufficio si presenta con i formicolìi alle braccia ed è diversa dall’ansia che sto provando ora, che mi mozza il respiro... Un passo avanti nella direzione di una 175

maggior capacità di narrazione episodica, basata sull’identificazione da parte del paziente di diversi contesti spazio-temporali (il risveglio nel proprio letto, l’ufficio, lo studio del terapeuta) connessi a sensazio­ ni corporee diverse, e riunite piuttosto confusamente nell’unica cate­ goria emozionale genericamente e arbitrariamente chiamata “ansia”. Questo esempio estremo di alexitimia (che dopo un anno di terapia si rivelò di natura post-traumatica e legata a violenze ripetute subite dal paziente nell’infanzia) illustra l’effetto terapeutico iniziale a cui si mira talora con il metodo CESPA: non l’identificazione di credenze pa­ togene, e neppure la capacità di descrivere adeguatamente le emozio­ ni, ma un progressivo incremento nella capacità di usare la memoria autobiografica specifica. Solo in fasi più avanzate della psicoterapia, incrementando con il metodo CESPA l ’esercizio della memoria autobiografica episodica, si giunge a riflettere insieme al paziente sui siste­ mi motivazionali che sottendono l’esperienza soggettiva di emozioni e pensieri. Un esempio clinico è fornito dalle riflessioni condivise fra paziente e terapeuta, riguardanti l’analisi di diversi episodi caratteriz­ zati da intensa collera. Il paziente aveva descritto con precisione e ric­ chezza di dettagli (anche riguardanti i pensieri che gli attraversavano la mente) la collera agonistica che provava durante i tornei di poker, ma sembrava incapace di descrivere altrettanto bene la collera che ta­ lora provava verso la madre, e che al terapeuta sembrava riconducibi­ le all’attivazione nel paziente del sistema di accudimento (una rabbia sorda, motivata probabilmente dall’obiettivo di proteggere la madre dall’isolamento sociale a cui l’anziana donna tendeva con il progressi­ vo invecchiare). Lavorando sui contesti in cui affiorava la collera sor­ da verso la madre e sui pensieri che la accompagnavano fu possibile al paziente riconoscere che l’emozione e le sensazioni somatiche che la accompagnavano erano non solo diverse per qualità esperienziale da quelle provate durante i tornei di poker, ma erano accompagnate da preoccupazione per il dolore che avrebbe provato se si fosse chiu­ sa sempre di più nella solitudine. Un altro aspetto interessante del metodo CESPA è che esso permette, meglio del metodo ABC, di valutare l ’eventuale presenza di indicatori, nella narrazione degli episodi, di dissonanze tra emozioni, sensazioni corporee, rappresentazioni mentali e comportamenti, o persino di pro­ cessi dissociativi. La presenza di tali indicatori suggerisce al terapeuta di considerare se sia opportuno procedere con interventi miranti a in­ tegrare gli stati mentali dissociati prima di utilizzare interventi miranti alla revisione di credenze patogene (Liotti, Farina, 2011). 176

Fra le applicazioni cliniche della TEM, particolarmente interessante per gli psicoterapeuti di ogni scuola è quella che riguarda l’esplorazio­ ne del concetto di alleanza terapeutica e le conseguenti prassi cliniche volte a costruire l ’alleanza e a ripararne le rotture (Liotti, Monticelli, 2014). Alla descrizione dell’alleanza terapeutica nella prospettiva dei sistemi motivazionali sono dedicati i successivi due capitoli.

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9 L’alleanza terapeutica e la Teoria Evoluzionistica della Motivazione Fabio Monticelli

L’alleanza terapeutica è un fattore predittivo del buon esito della psi­ coterapia: studi e meta-analisi che lo dimostrano si vanno accumulan­ do da decenni (Horvath, Symonds, 1991; Martin, Garske, Davis, 2000; Norcross,2011; Safran, Muran, 2000). Norcross (2011) ha identificato tre fattori di efficacia dimostrata in psicoterapia: l’alleanza terapeutica, il feedback dei pazienti (cioè il monitoraggio dei vissuti del paziente nello scambio clinico in corso) e l’empatia del terapeuta percepita dal paziente. Mantenere l’attenzione sulla relazione terapeutica costruen­ dola a misura di ciascun paziente in accordo con questi tre fattori è tra i pochi dati certi correlati all’esito favorevole della psicoterapia. I risul­ tati di alcune ricerche (per esempio, Stiles, Glick, Osatuke et al., 2004) suggeriscono che a correlare con gli esiti terapeutici positivi siano so­ prattutto le misure dell’alleanza effettuate all’inizio e alla fine della psi­ coterapia (per una sintesi di altre ricerche su questo andamento “a U ” dell’alleanza vedi Monticelli, 2014, pp. 52-53). Meno correlate all’esito sono le misure di alleanza effettuate nella fase centrale del trattamento. E stato argomentato che, durante il processo della psicoterapia, la se­ quenza di costruzione, rottura e riparazione dell’alleanza non va con­ siderata come un fattore terapeutico aspecifico trasversale a tutti i tipi di trattamento, ma piuttosto come un fattore specifico di particolare potenza, perché riflette la correzione degli schemi interpersonali pato­ geni caratteristici del singolo paziente (Forster, Berthollier, Rawlinson, 2014; McLaughlin, Keller, Feeny et al., 2014). Nonostante l’importanza del tema dell’alleanza terapeutica, i molti anni di indagini controllate su di esso, e l’esistenza di scale di valuta­ zione dell’alleanza affidabili, le nozioni cruciali (costruzione, rottura 179

e riparazione dell’alleanza) conservano aree di incertezza e ambiguità concettuale. La Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM) può contribuire allo sforzo di chiarire i suddetti concetti chiave. Questo ca­ pitolo e il successivo esplicitano tale contributo e lasciano intravedere, con l ’ausilio di alcuni esempi, la prassi clinica che ne consegue. Dopo aver delineato sinteticamente le differenze fra i concetti di relazione e di alleanza terapeutica, questo capitolo tratterà la concet­ tualizzazione dell’alleanza terapeutica secondo la TEM, per valutare e orientare le dinamiche motivazionali durante lo scambio clinico. Il mo­ nitoraggio dell’attivazione dei diversi sistemi motivazionali definiti dalla TEM permette di riconoscere tempestivamente sia gli schemi interperso­ nali patogeni tipici del paziente, sia i cambiamenti dell’assetto motiva­ zionale in corso che potrebbero preludere a crisi dell’alleanza. Infine, ci si soffermerà sui principi e sui metodi utili per la riparazione delle rotture dell’alleanza terapeutica. Tener presenti le descrizioni dei vari sistemi motivazionali offerte nel capitolo 1 è essenziale per la comprensione degli argomenti trattati nel presente capitolo.

I concetti di relazione e di alleanza terapeutica I concetti di relazione e di alleanza terapeutica sono connessi da un rap­ porto gerarchico, nel quale la relazione terapeutica è sovraordinata all’al­ leanza comprendendola in sé, mentre l ’alleanza terapeutica è più spe­ cificamente connessa al buon esito della psicoterapia (Lingiardi, 2002; Norcross, 2011; Safran, Muran, 2000). Nei modelli relazionali e interper­ sonali oggi influenti sia in ambito psicoanalitico sia in ambito cognitivi­ sta (Lingiardi, Amadei, Caviglia et al., 2011), il terapeuta è considerato compartecipe e non esterno alla relazione: da una psicologia monoper­ sonale, in cui ha senso il concetto di controtransfert, ci si sposta verso una psicologia bipersonale e intersoggettiva, in cui tale concetto perde considerevolmente importanza. Nel vasto ambito che comprende tut­ ti gli scambi clinici bidirezionali e costituisce la relazione terapeutica, il terapeuta si muove tentando di orientarli nella direzione dell’alleanza. Secondo la classica definizione di Bordin (1979), l’alleanza terapeuti­ ca è costituita da tre elementi: la condivisione degli obiettivi terapeutici (goals ), quella dei compiti (tasks) intesi come i metodi e gli strumenti più adatti per raggiungere gli obiettivi, e il legame affettivo (bond) inte­ so come qualità del rapporto e livello di fiducia reciproca fra i membri 180

della diade terapeutica. L’alleanza terapeutica è dimensionale, dinami­ ca e diadica. E dim ensionale, perché ha un andamento non dicotomi­ co (presente o assente), ma graduale e flessibile nel tempo. E dinamica, perché fluttua nel tempo ed è soggetta a continue oscillazioni in fun­ zione del modo in cui il paziente percepisce il significato delle azioni del terapeuta e il terapeuta quelle del paziente (Safran, Muran, 2000). E diadica, perché emerge dall’interazione continua di due persone, te­ rapeuta e paziente, ed è l’effetto dei loro reciproci contributi.

Costruzione dell'alleanza secondo la Teoria Evoluzionistica della Motivazione Nel primo incontro tra una persona sofferente per disturbi fisici o men­ tali e uno specialista in grado di aiutarla si crea una relazione asimmetri­ ca e fortemente condizionata da una serie di variabili. In primo luogo, il contesto è un setting di cura e le aspettative del paziente riguardano la possibilità di ricevere un aiuto: si configura dunque una situazione rela­ zionale che, secondo la TEM, tende a implicare l’attivazione del sistema di attaccamento nel paziente e del sistema di accudimento nel terapeu­ ta. Fin dai primi scambi clinici, si possono dunque manifestare gli stili individuali di richiesta di aiuto formatisi durante le prime relazioni di attaccamento dei pazienti (La Rosa, Liotti, 2014), nonché i corrispon­ denti stili di accudimento individualmente sviluppati dai terapeuti du­ rante lo sviluppo della loro personalità. Allo stesso tempo, per effetto degli schemi di relazione di ruolo dominanti nella mentalità collettiva della cultura a cui appartengono paziente e terapeuta, fin dai primi in­ contri si può configurare anche un assetto gerarchico, regolato dal siste­ ma di rango (sistema agonistico): i due membri della diade potrebbero facilmente condividere l ’implicita rappresentazione del professionista come dominante, visto che è il solo a possedere le competenze per dare prescrizioni (non importa se di farmaci oppure di compiti) mentre non ci si aspetta che le riceva dal paziente, e visto che gli spetta il ruolo di guida durante tutto il processo della cura. Nella prospettiva della TEM, l’attivazione del sistema cooperativo che, in accordo con la definizione di Bordin (1979), implica la rappre­ sentazione di sé e dell’altro come paritetica rispetto a obiettivi condi­ visi (goals) e compiti concordati (tasks) - è essenziale nella costruzione dell’alleanza terapeutica (Ceccarelli, Monticelli, Liotti, 2014a). Secondo la TEM, l’alleanza terapeutica è percepita dalla diade terapeutica ed è ope­ 181

rante nel favorire il buon esito della psicoterapia soltanto quando l’atti­ vazione del sistema cooperativo in entrambi i membri della diade mostra una prevalenza almeno lieve rispetto all’inevitabile attivazione degli altri sistemi motivazionali (attaccamento, accudimento, rango di dominanzasubordinazione). Il concetto di alleanza secondo la TEM appare così leg­ germente diverso, e forse più preciso, rispetto a quello implicito negli usuali sistemi di valutazione dell’alleanza, che includono dimensioni re­ lazionali riconducibili (secondo la TEM) alla sicurezza nell’attaccamento e in parte al sistema di rango (Lingiardi, Passone, Gentile et al., 2014).' Seguendo la TEM, dunque, i terapeuti che mirino alla costruzione dell’alleanza fin dall’inizio dello scambio clinico dovrebbero proporre ai pazienti un’implicita e ove necessario anche esplicita immagine del lavoro terapeutico come un’attività congiunta in cui entrambi i membri della diade hanno pari dignità e responsabilità, anche se, ovviamente, diverse competenze. L’immagine classica è che il lavoro psicoterapeu­ tico è un’impresa congiunta che impegna due “esperti” la cui expertise è ugualmente importante (Bedrosian, Beck, 1980): il terapeuta è l’indi­ spensabile esperto di psicologia clinica e della teoria generale della cu­ ra, mentre il paziente è l ’altrettanto indispensabile - e anzi unico - vero esperto delle proprie emozioni, stati mentali e propensioni. I terapeuti dovrebbero sostanziare quest’immagine non a parole (il rischio di assu­ mere atteggiamenti psicopedagogici e dunque tutt’altro che cooperativi e paritetici è sempre altissimo), ma nei loro atti: per esempio nel modo di porre domande e di commentare le narrazioni e le richieste dei pa­ zienti. La prontezza a concordare con il paziente non solo gli obiettivi a breve e a lungo termine del lavoro congiunto, ma anche ove possibile l’agenda della seduta che sta iniziando, e la disponibilità a condividere il razionale di eventuali interventi, sono abilità di cruciale importanza nella costruzione dell’alleanza. Il terapeuta può tentare di accedere al sistema cooperativo, fin dall’i­ nizio dello scambio clinico, rispettando quattro condizioni: 1) evitare atteggiamenti psicopedagogici e direttivi; 2) commentare le narrazioni dei pazienti in chiave empatica o di validazione emozionale (Linehan, 1993); 3) concordare le regole del setting anziché imporle rigidamente; 4) condividere con il paziente l’intento che muove il terapeuta a porre 1. La compiacenza (1disorganizzati relativi all’attaccamento legati alla figura materna violenta e imprevedibile. 215

Da queste considerazioni il terapeuta può trarre delle informazio­ ni che guidano il suo agire clinico. Queste riattualizzazioni segnalano al terapeuta, in primo luogo, la necessità di scoraggiare il più possibile un piano apertamente improntato aH’offrire cura a un paziente di que­ sta gravità, perché esso è in grado di riattivare nella relazione pattern emozionali e rappresentazionali regolati dai MOI disorganizzati del pa­ ziente; è senz’altro più efficace privilegiare, fin dove è possibile, un pia­ no collaborativo per incoraggiare una reale esperienza relazionale ed emozionale correttiva. In secondo luogo, segnalano al terapeuta che innanzitutto gli ingaggi agonistici e predatori del paziente hanno il preciso scopo di contenere le sue angosce nella relazione, suggerendogli che per il momento è bene non fare nulla per contrastarle. Come già detto nel capitolo preceden­ te, la letteratura ci informa che, invece, in queste fasi i terapeuti a volte cercano di contrastare le rotture dell’alleanza irrigidendosi nell’uso del­ le tecniche, con il risultato di peggiorare la sintonizzazione interperso­ nale e favorire il drop-out (Piper, Azim, Joyce et al., 1991; Castonguay, Goldfried, Wiser et al., 1996). Insistere in questo modo contrastando le rotture in atto, significa attribuire implicitamente e pregiudizialmente tutta la responsabilità della rottura in atto al paziente, attivandosi sul piano agonistico in una sorta di braccio di ferro dove il terapeuta può anche riuscire a convincere il paziente, ma con il risultato di conferma­ re le credenze patogene del paziente e favorire il drop-out. La formulazione degli interventi Allo scopo di iniziare un processo di riparazione dell’alleanza può es­ sere utile riflettere congiuntamente con il paziente sui compiti e sugli obiettivi terapeutici per fare il punto su di essi ed eventualmente rine­ goziarli, valutando il grado di fiducia reciproca e le situazioni che l’han­ no eventualmente compromessa. Tuttavia, come già detto, la violenza delle reazioni di Valerio vanifica sistematicamente i tentativi del tera­ peuta appena descritti, segnalando la necessità di accedere alle risorse del paziente su canali che privilegino la regolazione affettiva alla mentalizzazione. Le ragioni per privilegiare la regolazione affettiva rispet­ to agli interventi miranti alla mentalizzazione sono state efficacemente discusse da Bromberg (2008). Una volta condotta Lanalisi dell’assetto motivazionale della relazione e compreso il significato e l’utilità per il paziente delle strategie control­ lanti che conducono alla rottura dell’alleanza, sarà cura del terapeuta 216

scegliere modalità dirette o indirette per la risoluzione, a seconda del­ le numerose variabili implicate, non ultime le proprie caratteristiche personali. Se il terapeuta sceglie di riparare con modalità dirette, affronta la rottura in corso partendo dal qui e ora della relazione, cioè dalle emo­ zioni “a caldo” che emergono durante la rottura in atto, confrontando i propri' stati emotivi con quelli del paziente che emergono e caratte­ rizzano la fase di rottura in corso. Spesso in queste fasi può essere van­ taggioso strutturare interventi di self-disclosure o mettere in atto stati d’animo (.enaetm ent ). Se invece il terapeuta utilizza modalità indirette, avrà cura di analiz­ zare gli schemi interpersonali che compromettono l ’alleanza terapeu­ tica, ma spostando il focus dell’attenzione sui contesti interpersonali extraterapeutici, dove sono visibili gli schemi interpersonali disfunzio­ nali in atto che risultano più accessibili alla revisione congiunta. Tale livello di analisi ha il vantaggio di procedere su argomenti meno intimi e quindi più gestibili dalla coppia, ma probabilmente è maggiormente improntato a un utilizzo delle tunzioni superiori di autoriflessività che molti autori scoraggiano. Malgrado sia opinione diffusa che gli inter­ venti che seguono un approccio diretto siano più efficaci soprattutto in situazioni di rottura grave dell’alleanza, non ci sono dati in letteratu­ ra che suffraghino tale ipotesi. Pertanto, come raccomandano Safran e Muran, il terapeuta dovrà scegliere di volta in volta quale intervento sia più adatto a gestire quello specifico tipo di crisi dell’alleanza terapeutica in atto. In letteratura sono stati descritti dei tentativi di strutturare delle linee guida per intervenire sulla rottura dell’alleanza, ma con risultati non univoci perché l’atteggiamento del terapeuta risulta poco empatico quando è attento a seguire attentamente indicazioni semistrutturate. Per i motivi sopra esposti, risulta chiaro che l’atteggiamento del tera­ peuta deve essere diretto e improntato alla massima autenticità, seppur sempre all’interno di una cornice terapeutica e nel rispetto del setting e degli obiettivi terapeutici formulati. Quindi, proprio perché in questi momenti il terapeuta improvvisa i suoi interventi in maniera spesso spontanea e poco filtrata dalle fun­ zioni superiori mediate dall’emisfero sinistro - come se navigasse a vi­ sta - , risulterà di fondamentale importanza la possibilità di monitorare l’assetto motivazionale della relazione in corso d’opera, soprattutto per valutare gli esiti dei propri interventi e il corretto tim ing per formular­ ne altri. In altri termini, poiché non è risultato molto efficace l’utilizzo di linee guida per impostare interventi semistrutturati perché penaliz­ 217

zane la possibilità di negoziare il livello emotivo e autentico della rela­ zione (Norcross, 2011 ; Omer, 2000; Strupp, 1993), risulterà di grande utilità un metodo che consenta di monitorare l ’andamento del livello di cooperazione e la rilevazione dei momenti critici dell’alleanza, allo scopo di effettuare interventi riparativi e di valutare gli elfetti dei pro­ pri interventi. Nel caso di Valerio, il terapeuta decide di innescare un processo di riparazione mediante modalità dirette, invitando Valerio a un’esplorazione delle emozioni indotte nel terapeuta dalle sue aggres­ sioni. L’analisi delle emozioni più facilmente riconoscibili, la rabbia e la vergogna, non sembra sortire alcun effetto poiché per Valerio que­ ste due emozioni sono parte di stati mentali frequenti e familiari, e per questo poco significative. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che ta­ li emozioni fanno parte dell’abituale modo di conoscere il suo mondo traumatico e del suo conseguente relazionarsi con esso in modo vio­ lento e, al contempo, impotente. Le successive fasi permettono di con­ centrare l ’attenzione sulle emozioni di paura e impotenza che sono in grado di suscitare risonanze emotive in Valerio assai più ricche e sug­ gestive, come se fossero connesse a un livello di sofferenza subdolo e meno conosciuto, ma per questo più doloroso e senza soluzione. Le risonanze emotive di Valerio stimolate dal tema dell’impotenza del te­ rapeuta probabilmente sono connesse ai MOI traumatici segregati nella conoscenza implicita. Per tali motivi essi sono difficilmente verbaliz­ zabili e accessibili a una revisione critica, e spesso possono essere solo agiti all’interno della relazione terapeutica e soltanto all’interno di essa possono essere corretti. La condivisione degli stati emotivi di paura e di impotenza tra Va­ lerio e il suo terapeuta attiva il piano cooperativo in entrambi; Valerio inizia a formulare riflessioni e osservazioni tese ad ampliare le tematiche connesse all’impotenza, cercando soluzioni che lo possano emancipare dal suo pervasivo stato di impotente angoscia. E probabile che Valerio acceda a tale livello di analisi soltanto dopo aver messo alla prova al­ cune delle sue principali credenze patogene e dopo aver sperimentato la tenuta del terapeuta e della relazione stessa per nove lunghi mesi, in una situazione analoga a quella da lui vissuta fin dall’infanzia. Secondo la terminologia di Weiss (Weiss, Sampson et al., 1986) il cambiamen­ to del paziente è stato possibile soltanto dopo aver superato numerosi test di trasformazione da passivo in attivo. L’analisi motivazionale della relazione suggerisce che Valerio, ampliando ed estendendo i temi pro­ posti dall’interlocutore, stia mostrando finalmente un piano collabora­ tivo che limita progressivamente le sue reazioni aggressive regolate dai 218

ROTTURA E RIPARAZIONE DELL’ALLEANZA TERAPEUTICA

sistemi agonistico e predatorio, rendendo progressivamente più disteso il clima delle sedute e innescando un circolo virtuoso che guida il suc­ cessivo agire del terapeuta. Questa fase di ascolto vigile delle reazioni emotive dell’altro costituisce la parte più pesante e più importante della terapia perché getta le basi per la successiva costruzione di un rappor­ to collaborativo che favorisce un progressivo processo conoscitivo e di cambiamento che dopo circa quattro anni rende possibile un’esistenza del tutto normale e libera dai sintomi.

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11 Le perversioni sessuali tra psicoanalisi e Teoria Evoluzionistica della Motivazione Lucia Pancheri, Fabio Monticelli

Riteniamo che un buon banco di prova per le applicazioni cliniche di una nuova teoria della motivazione siano, più che i disturbi a elevata in­ cidenza - su cui si sono esercitate, alla ricerca di teorie psicopatologiche esplicative, praticamente tutte le scuole di pensiero influenti in psichia­ tria e psicologia clinica - quelli meno frequenti su cui esiste sostanzial­ mente la teorizzazione di una sola scuola. I contributi alla comprensio­ ne teorica delle perversioni sessuali provengono quasi esclusivamente dall’ambito psicoanalitico, e al confronto fra questi e la teorizzazione psicopatologica informata dalla teoria motivazionale evoluzionista è dedicato il presente capitolo.

La nozione di perversione sessuale Utilizziamo l ’espressione “perversioni sessuali” - nonostante le propo­ ste di sostituirla con altre meno moralistiche, come quella di “disturbi parafilici” proposta dal DSM, di “neosessualità” (McDougall, 1 9 8 5 ) o di “stati sessuali borderline” (Tomassini, 1 9 9 1 ) - per riallacciarci alla letteratura scientifica, prevalentemente psicoanalitica, che usa ancora correntemente questo termine. La definizione di perversione sessuale, legata com’è a un contesto socioculturale che cambia continuamente, è stata spesso rielaborata e messa in discussione. Nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) le perversioni sessuali corrispondono ai disturbi parafilici. Il termine “parafilia” indica qualsiasi interesse ses­ suale intenso e persistente diverso da quello per la stimolazione genita­ le o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, 221

fisicamente maturi e consenzienti. La presenza di una parafilia è una condizione necessaria ma non sufficiente per la diagnosi di disturbo parafilico. Questa è infatti riservata a individui che, oltre a mostrare una parafilia (criterio A), ne soffrono le conseguenze negative: cioè disagio, compromissione o danno arrecato ad altri (criterio B).

Le teorie sulle perversioni sessuali A partire da Freud gli psicoanalisti hanno offerto nel tempo i maggiori contributi allo studio delle perversioni sessuali, fornendo innumerevoli descrizioni cliniche che colpiscono per la loro finezza e per l’empatia nei confronti di questi pazienti - pensiamo alle impareggiabili descrizioni cliniche di Masud Khan (1983) - e teorizzando o riprendendo concet­ ti che si sono mostrati importanti per comprendere questi disturbi. Ci riferiamo ai concetti di scissione, dissociazione, sessualizzazione (per quanto inteso in modi diversi, dalla sessualizzazione dell’istinto di mor­ te alla reazione difensiva di fronte a traumi infantili o a carenze degli oggetti sé). Pensiamo anche al concetto di oggetto transizionale (Winnicott, 1951), particolarmente suggestivo per comprendere i compor­ tamenti feticistici o alla visione della perversione come difesa da una relazione sentita come pericolosa. Tuttavia, non c’è accordo su un mo­ dello interpretativo delle perversioni (in generale o delle singole forme), tanto che si è alla fine affermato che si tratti di comportamenti che non possono essere compresi in modo unitario (De Masi, 2007; Gabbard, 1994; Schinaia, 2001). Ricorre in letteratura la distinzione tra compor­ tamenti perversi di diversa gravità, caratterizzati da etiologie e prognosi diverse. Per esempio, Schinaia (2001) distingue tra forme di pedofilia “più benigne” e forme “più maligne” che chiamerebbero in causa la di­ struttività primaria, praticamente intrattabili. E probabile che le diver­ se interpretazioni colgano aspetti diversi del fenomeno in quanto deri­ vate dallo studio di pazienti molto dillerenti tra loro (De Masi, 2007). Se le prime interpretazioni psicoanalitiche riportavano le perversioni sessuali al concetto di castrazione, che comportava la regressione a fa­ si pregenitali secondo la visione freudiana del bambino come perverso polimorfo, in seguito l’attenzione si è spostata sulla figura materna. Si è parlato di madre fallica, onnipotente e inglobante, che esclude il padre e non consente al figlio maschio la dis-identificazione da lei. Con la teo­ ria della mancata dis-identificazione primaria (dalla madre: Greenson, 1968) si è a lungo spiegata la prevalenza maschile delle perversioni ses­ 222

suali, lasciando però inspiegata la perversione femminile, più frequente di quanto non si pensi. Si è parlato di impossibilità per entrambi i sessi eli elaborare la separazione dalla madre (Tomassini, 1991 ) e dell’impor­ tanza delle fantasie materne, soprattutto riguardanti il genere sessuale dei figli (Torres, 1987). Ci sono dei punti su cui la maggioranza degli au­ tori sembra concordare, come la presenza nella storia infantile di questi soggetti di madri depresse o eccessivamente seduttive, che ostacolano l’individuazione, l’assenza di figure maschili forti o la presenza di con­ flitti di coppia nei genitori, ma questi elementi etiologici non sembrano sufficientemente discriminanti nei confronti di altre patologie. M an­ ca in psicoanalisi una teoria psicopatologica che colleghi le osservazio­ ni dei vari autori, fornendo un’interpretazione univoca del significato delle perversioni sessuali. Attualmente l’opinione più condivisa è che i comportamenti perversi costituiscano una difesa da angosce intollera­ bili relative ai rapporti intimi - angosce gestite e controllate attraverso il meccanismo della sessualizzazione. Per esempio per Bassi (2005) la perversione è una difesa contro la presa di coscienza delle emozioni che si mobilizzano quando la relazione con l’altro cresce di intensità provo­ cando affetti dolorosi, oppure contro la minaccia di separazione. Altri autori però, come De Masi (2007 ), contestano questa visione, riportando la perversione alla distruttività primaria e all’istinto di morte. La prospettiva cognitivo-evoluzionistica ha recentemente proposto un punto di vista diverso, cercando di comprendere le perversioni ses­ suali attraverso l’indagine sui sistemi motivazionali coinvolti nella loro genesi, e in particolare sulla disorganizzazione precoce dell'attaccamen­ to e sulle strategie controllanti che ne conseguono.

La disorganizzazione dell'attaccamento come fattore predisponente Anche la prospettiva cognitivo-evoluzionistica, come la maggioranza dei contributi psicoanalitici più recenti, considera le dinamiche di at­ taccamento precoce come possibili fattori coinvolti nella genesi delle perversioni sessuali, ma in modo più specifico, tendendo a ricondurre questi disturbi all’attaccamento disorganizzato. Una serie di osserva­ zioni, che di seguito riassumiamo, suggerisce in effetti che la tendenza alla dissociazione sia presente negli individui che mostrano comporta­ menti sessuali di tipo perverso, così come lo è in coloro che provengo­ no da una storia di attaccamento disorganizzato. 223

Quasi tutti sii esperti di parafìlie hanno notato la presenza di una dissociazione tra la vita apparentemente normale dei soggetti perver­ si e i loro agiti sessuali, vissuti in segreto, come se facessero parte di un mondo parallelo. La comparsa di stati mentali dissociativi è stata osservata anche durante gli agiti perversi (De Masi, 2007) e talora si riscontra nei resoconti giudiziari forniti da autori di crimini sessuali di tipo perverso. La dissociazione è ricollegabile alla disorganizzazio­ ne dell’attaccamento (Liotti, 2004b, 2006, 2015; Liotti, Farina, 2011; Lyons-Ruth, Dutra, Schuder et al., 2006; Main, Hesse, 1992) e trat­ ti perversi ricorrono spesso in patologie legate alla disorganizzazione dell’attaccamento e riconducibili a processi dissociativi, come il distur­ bo borderline di personalità (Liotti, 2014a) e il disturbo dissociativo dell’identità (Brenner, 1996; Liotti, Farina, 2011). Inoltre, nella storia infantile dei pazienti con parafìlie ricorre la presenza di disturbi da de­ ficit attentivo con iperattività (Kafka, Hennen, 2002), i cui sintomi so­ no a loro volta riconducibili alla disorganizzazione dell’attaccamento (Thorell, Rydell, Bohlin, 2012). Più direttamente rispetto a quanto sappiamo circa gli antecedenti sia della dissociazione sia dell’attaccamento disorganizzato, nell’infanzia dei pazienti perversi si riscontrano frequentemente situazioni trauma­ tiche, come violenze e abusi subiti (nei pedofili gli abusi si riscontrano in un terzo dei casi: Howitt, 1995). Tali esperienze traumatiche infantili nel rapporto con i caregiver sono ira gli antecedenti accertati della di­ sorganizzazione dell’attaccamento (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). An­ che la presenza di figure di attaccamento non violente ma con atteggia­ menti altrimenti capaci di indurre disorganizzazione dell’attaccamento precoce, come il senso di impotenza nel dare cura o la seduttività, ri­ corre nella storia dei perversi. Molti autori hanno notato che i pazienti perversi provano intensi sentimenti di paura nelle relazioni affettive intense (Bassi, 2005; Khan, 1979; Stolorow, 1975), analogamente a quanto avviene nei soggetti di­ sorganizzati in relazione all’attivazione del sistema di attaccamento (Liotti, 2011, 2 0 14a). Non a caso i perversi sono profondamente soli. Nel modello che proponiamo questa paura è riportabile alle emozioni evocate dall’attivazione del modello interno disorganizzato che è stata riassunta nella metafora del triangolo drammatico, in cui le rappresen­ tazioni di sé e dell’altro oscillano continuamente tra le tre posizioni di salvatore/persecutore/vittima (Ivaldi, 2004; Liotti, 2004b, 2006). Nei pazienti perversi, come nei soggetti con attaccamento disorga­ nizzato, sono sempre presenti deficit di mentalizzazione. Basti pensare 224

I.E PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICANALISI E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

.t quanto spesso i pedofili affermano che le vittime li hanno provoca­ ti sessualmente o alla difficoltà che i perversi hanno a collegare i loro agiti sessuali alle emozioni che li hanno innescati. Nella nostra visione la difficoltà di sviluppare una comprensione degli stati mentali deriva dall’assenza di rappresentazione unitaria di sé con l’altro che caratte­ rizza la disorganizzazione dell’attaccamento. Come avviene nel caso dei soggetti disorganizzati (Liotti, 2011,2015), nei comportamenti dei soggetti perversi osserviamo la compresenza di attivazioni contuse e inappropriate di sistemi motivazionali. In partico­ lare gli agiti perversi vengono generalmente innescati da stati di angoscia che dovrebbero attivare piuttosto la richiesta di aiuto (Elliott, Browne, Kilcoyne, 1995), cioè il sistema di attaccamento, e non il sistema sessua­ le. L’agito perverso mostra, in particolare, la compresenza di attivazioni motivazionali confuse del sistema sessuale e del sistema di rango. Gli agiti perversi mostrano un forte bisogno di controllo. Pensiamo al rigido copione del rituale perverso, al “contratto” che regola i rap­ porti sadomasochistici o al potere che il pedofilo esercita sul bambino. La psicoanalisi parlava di oggetto transizionale volendo significare che il partner del perverso doveva essere controllabile e manipolabile co­ me un oggetto inanimato (Khan, 1979; Winnicott, 1951). Questo bi­ sogno di controllo può essere riportato alle strategie controllanti che i bambini con attaccamento disorganizzato sviluppano dai tre ai sei an­ ni di età, per controllare il rapporto altrimenti ingestibile con la figura di attaccamento (Liotti, 2011; Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). Sono sta­ te descritte due strategie controllanti, una di tipo punitivo e l’altra di tipo accudente. Di queste Liotti (2011) ha proposto una spiegazione basata sulla teoria dei sistemi motivazionali, ipotizzando che nell’attac­ camento disorganizzato il bambino, per evitare la dolorosa attivazione emozionale e la perdita di coesione del sé legata all’oscillazione tra le immagini interne di sé e dell’altro (triangolo drammatico), inibisca difensivamente il sistema di attaccamento e attivi al posto di questo (che sarebbe il sistema motivazionale appropriato da attivare nei momenti di vulnerabilità, ma che è seriamente danneggiato) altri sistemi moti­ vazionali per regolare l ’interazione con il genitore. Attraverso l’attiva­ zione di questi altri sistemi motivazionali diventerebbe possibile resti­ tuire compattezza e stabilità al senso di sé (Liotti, 2011; Liotti, Larina, 2011 ). In particolare la strategia controllante punitiva è stata riportata all’attivazione vicariante del sistema di rango, mentre la strategia con­ trollante accudente è stata riportata all’attivazione vicariante del sistema di accudimento (a queste strategie si aggiunge la strategia controllante 225

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sottomessa che utilizza il sistema di rango in posizione sottomessa). È possibile però che altri sistemi motivazionali vengano utilizzati a que­ sto scopo, dando luogo ad altre strategie controllanti. Proprio dallo studio delle perversioni sessuali emerge l'idea che esi­ sta un terzo tipo di strategia controllante, che possiamo definire “sessualizzata”, in quanto utilizza il sistema motivazionale (.Iella sessualità per controllare la relazione i ra bambini e caregiver. L’utilizzo di questa strategia corrisponde al concetto psicoanalitico di sessualizzazione, in­ teso come uso della sessualità per difendersi dall’angoscia, da sempre considerato il meccanismo specifico delle perversioni sessuali.

Le strategie controllanti sessualizzate Nella strategia controllante sessualizzata la sessualità viene dunque uti­ lizzata in modo improprio, nel senso che serve più a controllare le an­ gosce relative a una relazione intima (mediata normalmente dal sistema di attaccamento) che a perseguire gli scopi specifici del sistema motiva­ zionale sessuale (come avverrebbe in un individuo non disorganizzato nell’attaccamento): attraverso di essa il soggetto riesce contemporanea­ mente a regolare le emozioni, a controllare la relazione con l ’altro e a dare coesione al sé. L’altro acquisisce coerenza come oggetto di eccita­ zione erotica e il sé acquisisce coerenza come soggetto che controlla la relazione attraverso la sessualizzazione. Questa visione è in linea con le teorizzazioni della perversione come estrema difesa dalla frammenta­ zione e come riparazione del sé, elaborate dalla psicologia del sé. In base a questo meccanismo relazioni non sessuali, come la relazio­ ne madre-bambino o quella di dominanza/sottomissione possono in­ nescare l’eccitazione sessuale al fine di controllare una sofferenza altri­ menti ingestibile. Quello che la psicoanalisi classica definiva complesso di Edipo in quest’ottica, lungi dall’essere un dato universale, può esser visto come una sessualizzazione secondaria a un deficit di accudimento da parte di figure genitoriali disorganizzanti (Erickson, 1993,2000), in linea con la visione di Kohut (1984). Partendo da queste considerazio­ ni è possibile ipotizzare un’interpretazione generale delle perversioni sessuali basata sul fatto che alla base degli agiti perversi ci sarebbero proprio le strategie controllanti sessualizzate studiate in una prospetti­ va evoluzionistica (Erickson, 2000). A sostegno dell’ipotesi, i soggetti perversi spesso riferiscono che i comportamenti perversi sono preceduti da uno stato di inquietudine 226

LE PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICANALISI E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

e angoscia, a volte insopportabile e che dovrebbe in realtà innescare una richiesta di aiuto, cioè il sistema dell’attaccamento. Per far cessare queste emozioni sgradevoli essi ricorrono alla sessualità un po’ come alcuni bambini ricorrono alla masturbazione per vincere la paura e per controllare emozioni che non vengono regolate dal sistema dell’attac­ camento disfunzionale. I resoconti delle esperienze dei sex offenders re­ lativi ai crimini commessi collimano usualmente con questa descrizio­ ne, che traspare anche clinicamente nelle terapie dei pazienti perversi, quando si arriva ad analizzare le sequenze che portano agli agiti ses­ suali. In una ricerca su 91 pedofili in trattamento, due terzi dei pazienti rivelarono una sorgente di stress operante nel periodo immediatamen­ te precedente la violenza sessuale (Elliott, Browne, Kilcoyne, 1995). Nei pazienti che riferiscono la suddetta sequenza il grado di consa­ pevolezza di questi meccanismi può variare. Alcuni soggetti sono inca­ paci di vedere il nesso tra le emozioni negative che precedono l’agito e i comportamenti perversi, mentre altri parlano proprio della perversione o delle fantasie perverse come di un “metodo” per scaricare le tensione che hanno scoperto molto presto nella vita, che utilizzano abitualmente e che temono di perdere, quando nel corso della terapia cominciano ad avvertire la possibilità di un cambiamento.

Strategie sessualizzate complesse L’osservazione dei comportamenti perversi mostra che, oltre al siste­ ma motivazionale della sessualità, sempre presente nei comportamenti parafìlici, anche altri sistemi motivazionali possono essere cooptati in modo improprio dal paziente perverso, al fine di disattivare il sistema dell’attaccamento, dando luogo a strategie controllanti complesse. Un sistema importante in queste dinamiche della perversione è il sistema di rango, che è alla base della strategia controllante punitiva e che è as­ sai spesso abnormemente attivato nelle perversioni. La compresenza nella strategia controllante sessualizzata dell’attivazione del sistema di rango dà ragione della caratteristica che Stoller (1975) ritiene essere il nucleo del comportamento perverso, cioè l’interazione tra sessualità e ostilità. Nel nostro modello, tuttavia, non è il miscuglio di ostilità e ses­ sualità il nucleo caratterizzante i comportamenti perversi, come ritiene Stoller, ma più in generale la confusione dei sistemi motivazionali (in­ fatti la compartecipazione del sistema agonistico, pur se presente, non implica necessariamente che sia presente ostilità: il sistema può anche 227

manifestarsi con un sentimento di trionfo sull’altro o, al contrario, di umiliante sottomissione). Le strategie controllanti, basate sul sistema agonistico, sia nella su­ broutine di dominanza sia in quella di sottomissione, trapelano nel ri­ gido controllo che il perverso mantiene attraverso il rituale che carat­ terizza i suoi agiti patologici, e può essere più o meno evidente nella fenomenologia specifica del comportamento perverso. Nelle condotte sadomasochistiche, in cui la strategia controllante punitiva è più evi­ dente, vengono chiaramente sessualizzate le posizioni di dominanza e sottomissione, proprie del sistema agonistico (detto anche sistema di rango: i due partner si rivolgono l ’uno all’altro in termini di “padrone” e “servo”). Il ruolo di dominanza è centrale anche nel comportamento dell’esibizionista che spaventa vittime inermi. L’umiliazione è centra­ le nel comportamento del coprofilo che si eccita manipolando e talora mangiando prodotti di scarto come le feci, e in quello del feticista che erotizza una parte anatomica simbolicamente svalutata e sporca come il piede. Ipotizziamo che la compresenza dell’attivazione del sistema di rango si possa osservare quasi sempre nella pedofilia, in quanto è pre­ sente la tendenza a instaurare rapporti di dominanza/sottomissione. Gli autori di abusi sessuali sui minori costituiscono un gruppo molto eterogeneo (Marshall, Anderson, Fernandez, 1999): per questo motivo si parla talora di “pedofilie”, al plurale (Schinaia, 2001). La letteratura distingue usualmente due tipi di pedofili. Ci sono i pedofili sadici per cui l ’atto sessuale culmina nell’umiliare e nel procurare dolore fisico alla vittima, fino talora alla sua soppressione. Questi soggetti vengono considerati in genere intrattabili e del resto non cercano mai la terapia. Essi sembrano agire come predatori che aggrediscono una preda, come se riemergesse l ’evoluzionisticamente arcaico sistema motivazionale di predazione non più tenuto sotto controllo dalle strutture superiori del cervello o dal normale meccanismo innato di inibizione della violenza (MIV: vedi capitolo 3 ). Esistono poi torme di pedofilia meno maligne di quella sadica, e accessibili alla terapia. Si tratta dei pedofili che, quan­ do si rendono conto del danno procurato alla vittima, possono prova­ re senso di colpa e possono cercare aiuto specialistico per liberarsi dai loro impulsi. Nella loro confusione, questi pazienti affermano di amare i bambini, di innamorarsi di loro, di avvicinarli per dare loro quell’at­ tenzione e quella considerazione che non hanno ricevuto in famiglia. In questi casi, in cui i pedofili si pongono come figura “accudente” nei confronti del bambino, contemporaneamente al sistema sessuale e al sistema di rango viene attivato il sistema dell’accudimento e non quel228

10 predatorio. Un esempio potrebbe essere offerto dal caso di Michael lackson, personaggio profondamente solo nella vita adulta, famoso per 11 suo amore per i bambini tanto da tarsi portavoce internazionale delle tematiche riguardanti l’infanzia (Boteach, 2009). Egli amava contornar­ si di bambini sofferenti, che beneficava generosamente, ma nel 1993 fu accusato di molestie ai minori, accusa che si concluse con un pat­ teggiamento multimilionario. La descrizione della terribile infanzia di Michael Jackson, che il padre picchiava sadicamente per costringerlo a lavorare a ritmi massacranti, confermerebbe l’ipotesi della disorganizza­ zione dell’attaccamento. In questa luce i terribili dolori fisici che hanno accompagnato la vita di Michael Jackson e che lui cercava di calmare con dosi crescenti di analgesici fino a procurarsi la morte potrebbero, in linea ipotetica, essere interpretati come una forma di dissociazione somatoforme, causata dalle memorie del dolore fisico e psichico pro­ vato nell'infanzia. Un altro caso famoso in cui il comportamento pedofilo potrebbe essersi basato su una strategia controllante accudente è quello di Lewis Caroli. 11 piacere più intenso del grande scrittore, che non ebbe mai relazioni profonde con donne adulte, sembrava derivargli dal ritrarre in pose ambigue, coccolare e divertire le bambine (le figlie del decano Liddell, una delle quali si chiamava Alice) che intratteneva con racconti poi confluiti in Alice n el Paese d elle M eraviglie. Potrem­ mo intravedere negli incredibili giochi di parole e nei fantastici nonsense di questo famosissimo libro la trasposizione artistica di un’antica esperienza di disorganizzazione dell’attaccamento dell’autore, e della conseguente tendenza alla dissociazione? Nelle vite di Lewis Carroll e di Michael Jackson traspare la paura dei legami intimi, possibile conse­ guenza dell’attaccamento disorganizzato rispetto alla quale l’attivazio­ ne confusa del sistema sessuale, del sistema agonistico e del sistema di accudimento assumerebbe la funzione di strategia controllante. Se le strategie controllanti servono a inibire l’attivazione del sistema di attaccamento, questa inibizione non è totale tanto che negli agiti per­ versi possono trapelare operazioni mentali e comportamentali riferibili a questo sistema. In particolare riferimenti simbolici all’attaccamento nelle perversioni possono essere ipotizzati in una prospettiva psicoana­ litica: i rituali sadomasochistici in cui si lega o si viene legati, si porta o si è portati al guinzaglio, sono spesso associati dai pazienti al tema del legame e della separazione, considerato dagli psicoanalisti come centra­ le nell’etiologia delle perversioni. Il riferimento al sistema dell’attacca­ mento emerge anche in certe forme di feticismo, in cui il feticcio, lungi dal porsi come un sostituto del pene, sembra piuttosto essere un simbo­ 229

lo materno (spesso si tratta della biancheria femminile). È interessante ricordare che il rapporto tra agiti sessuali perversi e attaccamento era stato intuito da quegli autori psicoanalitici, come Winnicott e Masud Khan, che hanno collocato la perversione nell'area transizionale (l’og­ getto transizionale rimanda alla madre). Prima di concludere questo paragrafo, è (orse utile notare che i ca­ si in cui la pedofilia si manifesta nell’ambito di un rapporto incestuoso non sembrano rimandare a strategie controllanti, ma piuttosto a fanta­ sie di fusione simbiotica (Schinaia, 2001).

Un modello teorico delle perversioni sessuali secondo la Teoria Evoluzionistica della Motivazione In accordo con la tesi psicoanalitica che vede la perversione come un tentativo di evitare l’intimità avvertita come pericolosa in quanto ca­ pace di risvegliare emozioni insopportabili derivanti da traumi infantili non elaborati, anche il modello da noi proposto collega le perversioni sessuali a vicende traumatiche relative ai primi attaccamenti. Diversamente da tale tesi, però, le perversioni sono ricondotte dalla Teoria Evo­ luzionistica della Motivazione (TEM) alla disorganizzazione dell’attacca­ mento e allo sviluppo delle strategie controllanti, che risultano così un elemento predisponente per lo sviluppo di tutte le perversioni. I rituali perversi, messi in atto con tanta rigidità e precisione, possono essere visti come tentativi di controllare fantasie ed emozioni legate all’attiva­ zione del modello interno operativo disorganizzato attraverso strategie controllanti sessualizzate semplici o complesse. Il modello motivazionale evoluzionistico spiega perché i compor­ tamenti perversi sono generalmente innescati da stati di vulnerabilità (ansia, depressione, angoscia), che per essere fronteggiati adeguatamen­ te richiederebbero l ’attivazione del sistema di attaccamento. I soggetti perversi, per evitare le dolorose emozioni legate all’attivazione del mo­ dello interno disorganizzato e la minaccia di dissociazione che ne deri­ va, inibiscono l’attaccamento e al suo posto attivano in modo vicariante il sistema sessuale. L’itinerario di sviluppo che conduce alla perversio­ ne si aprirebbe dunque con l ’abitudine precoce a gestire tutte le ten­ sioni legate all’attaccamento attraverso un’attivazione impropria della sessualità. Quando la terapia appare ai pazienti capace di risolvere la perversione, questi soggetti si sentono minacciati e hanno paura, per­ ché sentono di rischiare la disorganizzazione e la conseguente angoscia senza soluzione (vedi capitoli 8 e 9) che la caratterizza. 230

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Un esempio clinico Il caso clinico che segue si presta a esemplificare la visione delle perver­ sioni sessuali basata sulla TEM, mostrando come questa possa aumen­ tare la comprensione offerta dai modelli psicoanalitici senza peraltro contraddirli. Si tratta di un trattamento psicoanalitico intrapreso dalla coautrice di questo capitolo (LP) diversi anni fa (quando le idee che abbiamo esposto non erano ancora state teorizzate) e successivamente influenzato dalla I EM in maniera esplicita. Primi incontri Il paziente, che chiamerò M, è un giovane sulla trentina. Noto le spal­ le troppo curve, lo sguardo sfuggente. Viene perché vittima di angosce molto forti, che gli impediscono la concentrazione nel lavoro e che lui non riesce a collegare a niente. Riferisce che non si è mai sentito nor­ male sul piano sessuale. Si innamora continuamente di donne, ma la sua sessualità si svolge in segreto con dei travestiti a pagamento, dopo di che si sente disgustato per giorni. Quello che lo eccita sono il pene e il piede, ma accenna anche a fantasie particolari, come scene di coprotilia e rapporti sessuali con animali (“Più le situazioni sono perverse, più mi eccito: il sesso normale non mi stimola”). Ha tentato un suici­ dio a tredici anni perché aveva paura della scuola e tuttora prova degli impulsi a uccidersi. Assume abbondantemente alcol, hascisc e cocai­ na, in compagnia di amici “casinari” e cocainomani nel corso di baldo­ rie notturne di cui lui è Panimatore. E stato inviato a me come “ultima spiaggia” dopo aver abbandonato vari psicoterapeuti perché gli face­ vano domande che sentiva intrusive sui suoi genitori mentre lui pensa che loro non c’entrino con i suoi problemi. Quando la sua domanda diventa “Mettere ordine nella mia testa, capire chi sono, se sono nato così” iniziamo un trattamento psicoanalitico. Prima fase della terapia: un paziente irraggiungibile In seduta M parla velocemente senza lasciarmi spazi per intervenire. Racconta di baldorie con gli amici in cui lui mostra il suo lato brillante e corteggia in modo inautentico ragazze che definisce pazze di lui, ma appena si prospetta un rapporto intimo passa a corteggiarne un’altra. Racconti sempre uguali mentre io mi confondo con tanti nomi femmi­ nili e provo un senso di dispersione e inconsistenza. L’unica continuità 233

che avverto è nei racconti degli incontri con i travestiti e nelle fantasie sessuali perverse, che sembrano tenerlo insieme. Ne parla chiedendo: “L’ho scioccata? Ho voglia di stupire una psichiatra. Voglio essere un elemento unico, un soggetto di ricerca”. Mesi dopo l ’inizio della terapia mi racconta che subito dopo il pri­ mo incontro è andato con un travestito, facendosi sputare addosso. Commenta dicendo: “È stata la prima volta: un’idea geniale. Peccato che non posso dirlo a nessuno”. A ll’epoca avevo colto subito il valo­ re difensivo di questo agito di fronte al prospettarsi del rapporto con me e forse all’aver sentito la richiesta di aiuto come un’umiliazione, che andava subito compensata. Anni dopo, entrata in contatto con la TEM, ho potuto comprendere meglio questa reazione del paziente, che la psicoanalisi definisce sessualizzazione, e che oggi vedo come la mes­ sa in atto di una strategia controllante sessualizzata. Di fronte all’atti­ vazione del sistema di attaccamento, elicitata dall’inizio della terapia, M era ricorso al metodo che aveva elaborato per gestire le emozioni insopportabili. In seduta il paziente è vigile e controlla i miei interventi. Se parlo senza che lui lo abbia chiesto si infastidisce. Dice: “Non mi interrom­ pa, pago per parlare”, oppure: “Non voglio sapere le cause”, o ancora sovrappone la sua voce alla mia, evocando in me l’idea di una sintoniz­ zazione mancata nella sua infanzia. Per anni si riferirà ai nostri incontri come alle “visite” o alle “lezioni” e alla fine dell’ora è lui che interrom­ pe. Per molto tempo lo sento irraggiungibile. Arriva regolarmente in ritardo, risponde al cellulare. Una cauta interpretazione sul fatto che è come se volesse restare un po’ fuori dalla stanza è prontamente nega­ ta. Durante le sedute va spesso in bagno, comunicandomi l’idea di una mancanza di contenimento, che dopo anni confermerà (“Questa inca­ pacità a contenere la riconosco. Da piccolo mio padre voleva sempre che mi contenessi, la mia euforia lo irritava”). Al tempo stesso le fughe in bagno concretizzano la necessità di portare i suoi bisogni fuori dal­ la stanza. Preferisce restare a un livello superficiale e le domande su quello che ha provato lo irritano. In seguito, alla luce delle conoscenze sull’attaccamento disorganizzato, tutto questo mi sarà più chiaro: M non poteva esprimere il dolore perché non poteva attivare il sistema di attaccamento. Il senso di dispersione che sento mi affatica tanto da arrivare al no­ stro primo enactm ent , in cui lo mando via cinque minuti prima, cosa di cui mi accorgo immediatamente e mi scuso. Lui minimizza, ma salta la seduta successiva senza avvertire, rendendo la pariglia. Quando ci 234

rivediamo, nega di esserci rimasto male o di essersi sentito arrabbiato, riportando ad altri motivi la depressione che è seguita e il pronto ricor­ so al travestito. Nel tentativo di discolparmi attribuisce bizzarramente a sé la colpa (“Ancora quel fatto? Se avessi intuito il suo desiderio che andassi via, me ne sarei andato prim a”). L’atteggiamento protettivo di fronte ai miei errori sarà una costante: più avanti alla luce della TEM lo cedrò nei-termini di una strategia controllante di tipo accudente. A volte improvvisamente si creano momenti di vicinanza tra noi. Un giorno mentre parla toccando il muro che ha a fianco dice: “Le sto sporcando la parete”. Gli dico che teme di contaminarmi con i suoi vis­ suti sessuali, come se non potesse condividerli con me. Resta colpito dalla parola “condividere”. Dice: “Come si può condividere l’immon­ dizia?”. Gli rispondo che quella è la soluzione migliore che ha trovato ai problemi della sua vita. Risponde in modo autentico: “E bello quel­ lo che dice” e per la prima volta resta in silenzio a riflettere. La seduta successiva dice: “Imposto i rapporti su una mia impermeabilizzazione. E diffìcile condividere un muro di gomma. Sono fiero del fatto che nes­ suno scalfisca la mia intimità. Non voglio dipendere”. Per molto tempo il nostro rapporto sarà caratterizzato da avvicinamenti e allontanamen­ ti che io accetto come una regolazione della sua distanza di sicurezza. Emerge una profonda vergogna riferita al corpo. Si è sempre vergo­ gnato perché aveva “le tette” che cercava di nascondere assumendo la posizione ingobbita e il pene di dimensioni inferiori alla norma, moti­ vi per cui i genitori lo hanno portato da vari endocrinologi. Mi porta a vedere tutte le cartelle cliniche, cosa che sento come desiderio che io lo aiuti a comprendere la sua identità confusa. Nel primo sogno che porta c’è un’immagine·, un brufolo che esplode com e un vulcano, facen do fuoriuscire il pus. Associa un complimento che ha ricevuto per la sua “brillantezza vulcanica”. Ma il sogno rivela che si sente come un’escrescenza patologica, piena di materiale infetto che fuoriesce. Qualche mese dopo l’inizio della terapia arriva molto arrab­ biato per una mancata promozione. La sera stessa va con un travestito, ma lo racconterà solo dopo molto tempo, dicendo: “Ho fatto tutte le cose che mi piacciono, ma tutto mi annoiava, perfino l’odore delle feci, perfino il farmi sputare in faccia, che sempre mi eccita, come se non ci fosse più niente da esplorare, più niente da fare in assoluto”. Di nuovo è ricorso alla strategia controllante sessualizzata come a un meccanismo di regolazione affettiva, che questa volta però ha rischiato di collassare. Per anni il comportamento di andare con un travestito eccitandosi con rapporti sessuali degradati si ripresenterà puntualmente ogni volta che 235

lui sente di subire un torto o un’umiliazione, ma per molto tempo lui non sarà in grado di collegare le due cose. Quando tento di fare qualche collegamento con il suo passato, per molto tempo chiude il discorso dicendo: “Io non ho memoria”, poi len­ tamente emergono dei ricordi. Da piccolo giocava a fare lo schiavo con un coetaneo, godendo della sottomissione. La prima volta che il piede lo ha eccitato sessualmente è stato in rapporto a sua sorella. Lui pensa di avere avuto pochi anni. Lei, molto più grande di età, era costretta ad accudirlo mentre la madre lavorava, ma lo picchiava e lo umiliava continuamente. A ll’epoca ho proposto al paziente un’interpretazione nell’ottica kohutiana, secondo cui lui aveva trasformato difensivamen­ te un rapporto doloroso in un rapporto eccitante, sessualizzando un deficit di accudimento, il che certamente corrispondeva all’esperienza del paziente. Più avanti, alla luce della TEM ho capito che nel rapporto con la sorella M metteva in atto la strategia controllante sessualizzata, che gli consentiva di gestire senza scompensarsi una relazione con una figura di attaccamento disorganizzante, che lo accudiva e contempora­ neamente lo umiliava. Comincia a delinearsi la storia di M. La madre era particolarmente legata a lui. Il padre la lasciava sempre sola e M non ricordava di ave­ re mai visto i genitori felici insieme. Mi parla dei continui sfoghi che la madre aveva con lui sul comportamento del padre, dei viaggi che face­ vano insieme senza di lui, del fatto che era sempre lui ad accompagnarla dai medici. Un giorno vengo a sapere che, quando ha comunicato per telefono alla madre di aver iniziato una psicoterapia, lei si è arrabbia­ ta moltissimo, penso temendo un suo distacco. Lui ha reagito con una crisi di rabbia spaccando il telefono, ma subito si è sentito in colpa e ha dovuto ricorrere al travestito! Il padre è un uomo severo e ansioso, che lo ha sempre criticato, ma se io, un giorno in cui M è arrabbiato con lui, confermo le ragioni del paziente, lui lo difende. Mi faccio l’idea che, pur essendo stato molto amato dalla madre, sia stato sempre solo. Anni dopo mi racconterà un incubo ricorrente nella sua infanzia, che oggi leggo alla luce della di­ sorganizzazione dell’attaccamento (la paura senza sbocco): “Ero a casa dei miei genitori. Avevo paura e volevo chiedere aiuto, ma la voce non mi usciva e restavo paralizzato”. Alla prima separazione estiva cerco di prepararlo al fatto che può av­ vertire un senso di mancanza dei nostri incontri. Torna molto arrabbia­ to tanto che vuole interrompere la terapia. Racconta di aver provato una forte ansia che attribuisce al mio discorso sulle vacanze, ma nega che 236

c’entri la nostra separazione. Dice: “Non ho mai sentito la mancanza di nessuno. Se una persona non la vedo, la dimentico”. Non può ricono­ scere un legame, perché per lui attivare il sistema di attaccamento è una minaccia. Per anni il desiderio di interrompere la terapia si ripeterà a ogni interruzione estiva, senza che lui riconosca il nesso tra questi fatti. A un certo punto comincia a parlare di sesso in modo diverso. A casa sua l’argomento è sempre stato evitato. Alle medie un giorno un com­ pagno gli ha insegnato a masturbarsi, facendolo davanti a lui e da quel momento M ha preso a eccitarsi con l’immagine del pene che eiacula, staccato dal corpo, immagine che da allora gli è essenziale per arriva­ re all’orgasmo. Anni dopo, una sera in cui era ubriaco, ha tentato un rapporto sessuale con una ragazza, ma è stato impotente. Ha provato un’angoscia panica e non ci ha più riprovato. Dopo un anno dall’inizio della terapia comincia a tentare qualche approccio sessuale con le ragazze, passando indifferentemente dall’una all’altra. All’inizio è confuso, non sa se continuare con le donne, anda­ re con un travestito oppure accettare un rapporto omosessuale con un capo che potrebbe dargli l’agognata promozione (afferma: “L’indeter­ minatezza mi caratterizza”). Un percorso a tappe Un giorno insiste perché incontri un’amica che vuole iniziare un’anali­ si. Accetto di vederla per un invio. Subito dopo M confida per la prima volta all’amica i suoi problemi sessuali, lei reagisce con comprensione e lui si innamora improvvisamente di lei, anche se non gli era mai pia­ ciuta. La cosa si sgonfia nel corso di un mese, interpretando l’agito co­ me un transfert collaterale sessualizzato, legato alla competizione con l’amica e alla gelosia. E l’unico momento in cui M ha sessualizzato in­ direttamente il rapporto con me, probabilmente in relazione al mio er­ rore di incontrare la sua amica (che minacciava il rapporto esclusivo di cui aveva bisogno). Da quando l’amica ha accolto con comprensione il racconto delle sue difficoltà sessuali, M comincia a comunicare alle ragazze che cor­ teggia la sua ansia da prestazione prima di avviare gli approcci, scopren­ do che l’ansia diminuisce. Le ragazze a loro volta gli confidano i propri problemi sessuali e gli incontri si umanizzano. Comincia a sperimenta­ re l’intimità. Sogna che s i tro v a su P lu to n e . In casa sua n on c'è p o sto p e r lui. A llo r a va a casa d ell'am ic a che ha m a n d a to da me, che lo accoglie. A questo p u n to si m ette a d o rm ire tra n q u illo . Plutone, elice, è il pianeta più

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lontano dalla Terra, lui si sente un plutoniano. L’accoglienza dell’ami­ ca allude all’analisi, dove finalmente può rilassarsi e sentirsi protetto. Una volta accettato il rapporto con me, è come se lui seguisse la sua spinta interna all’autoguarigione, trovando le tappe intermedie per co­ struire un rapporto normale con le donne. Con grande intuito trova un amico, un giovane anarchico, lontano dalle regole borghesi del suo ambiente (“un altro plutoniano”). A lui confida una notte tutte le sue perversioni, compresa l ’attrazione per le feci e burina. L’altro si mostra perfettamente all’altezza, sdrammatizzando e raccontando a sua volta le proprie fantasie sessuali trasgressive, consentendo a lui di instaura­ re il primo rapporto autentico. 11 giorno dopo l’amico lo accompagna in un porno shop a comprarsi un pene finto per prepararsi al rapporto sessuale che M continua a fantasticare con il personaggio potente (lo aiuta a procurarsi quel pene che non sente di avere). Poi sogna che l ’a ­ m ico gli regala una vagina rossa di plastica, m olto bella. È la prima volta che si sente davvero attratto dall’organo sessuale femminile. Comincio a intravedere un percorso nelle sue frequentazioni dei tra­ vestiti. A ll’inizio lui si accontentava di praticare all’altro una fellatio: una prima tappa è la fellatio reciproca, poi passa alla penetrazione pas­ siva e infine sperimenta la penetrazione attiva che valorizziamo come una prima appropriazione della sua identità maschile. Un punto di svolta avviene quando M mi propone di guardare in­ sieme alcuni fìlmini familiari girati nella sua infanzia. Li guardiamo in­ sieme sul suo computer, mentre lui manovra il telecomando. Scene che evocano una vita borghese benestante, ricca di vacanze e di svaghi, ma ora lui nota nelle immagini di quando era piccolo, nello sguardo sfug­ gente, nelle spalle ingobbite, nell’atteggiamento troppo sottomesso lo stesso disagio che sente ora. Ora si rende conto che non è mai stato fe­ lice. Ricorre l ’immagine della sorella che lo picchia con il beneplacito dei genitori. Ora possiamo rivivere insieme le umiliazioni che lei gli in­ fliggeva, prendendolo a calci e dicendogli in continuazione: “Vai a fare la cacca” per liberarsi di lui. Spesso si mostrava a lui nuda, mentre lui si eccitava guardando il piede di lei. La psicoanalisi direbbe che lui aveva sessualizzato le umiliazioni che la sorella gli infliggeva trasformandole nella fantasia eccitante di leccare il piede e di mangiare gli escremen­ ti. Oggi vedo nella complessa situazione motivazionale che il pazien­ te aveva vissuto una relazione di attaccamento disorganizzato, a cui M aveva reagito mettendo in atto una strategia controllante sessualizzata, che utilizzava il sistema di rango nella posizione di sottomissione che lui assumeva nell’interazione. 238

LE PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICOANALIS1 E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

Guardando i video, M mi fa notare il gesto del padre che gli leva le mani dalle tasche. Ricorda l’insofferenza di suo padre che continuamen­ te criticava la sua posizione fisica, i gesti che faceva, le emozioni che esprimeva. Ora racconta di aver fatto durante l’infanzia e l’adolescen­ za fantasie sessuali centrate sul pene di suo padre che lo eccitava mol­ tissimo. Anche in questo caso quella che la psicologia del sé vedrebbe come una sessualizzazione legata a un rapporto di accudimento caren­ te, mi appare oggi come la messa in atto di una strategia controllante sessualizzata per gestire il rapporto di attaccamento disorganizzato che M aveva avuto anche con suo padre (anche questi, come la sorella, lo accudiva e lo attaccava contemporaneamente). A un certo punto la strategia controllante sessualizzata era divenuta un elemento costitutivo dell’identità dissociata di M. Da una parte era il bravo figlio che i genitori volevano, dall’altra aveva sviluppato un’iden­ tità negativa come essere umano degradato, che si eccitava di fronte agli escrementi e al piede come parte puzzolente del corpo. Un giorno sogna che baciava un cane. Mi racconta che lo ha realmente fatto, avendo un’eia­ culazione! Forse il cane è anche lui stesso, che comincia ad amarsi un po’. Commentando i film dell’infanzia, procediamo nella ricostruzione della sua storia. Apprendo che prima della sua nascita sono morte di malattia due gemelline, dopo di che la madre è rimasta sterile fino al­ la sua nascita, evento che ricordava come la gioia più grande della sua vita. Questo spiega il legame così forte con sua madre, di cui la sorella era gelosa. E probabile che la nostalgia materna delle bambine perdute avesse avuto un peso nell’influenzare l’identità sessuale di M. Infine mi racconta che pochi mesi dopo la sua nascita è morto il nonno materno a cui sua madre era legatissima (il lutto sofferto dalla madre è un pos­ sibile antecedente della disorganizzazione dell’attaccamento nei primi due anni di vita: Main, Flesse, 1992). In occasione della nostra seconda separazione estiva M si deprime, ma di nuovo nega che c’entri la separazione. L’ultimo giorno sogna

un’orgia di travestiti ch e si accoppiano su un pavim ento ricoperto di feci, confermando la necessità di gestire attraverso la strategia controllante sessualizzata le emozioni legate alla separazione che non può sperimen­ tare, compresa l’umiliazione per la dipendenza dalla terapia. Al ritorno dalle vacanze porta un sogno, che riferisco al nostro rap­ porto e che oggi mi sembra esprimere il conflitto di base dell’attacca­ mento disorganizzato (tra sistema di difesa e sistema di attaccamento):

ha una paura terribile di tornare a scuola. Un viso sconosciuto gli sorride e lo chiama. Lui vorrebbe tantissimo avvicinarsi , ma si allontana. 239

Lo sblocco Nel secondo anno di terapia, M approfondisce gli approcci sessuali con le ragazze. All’inizio si eccita ricorrendo a fantasie degradanti. Co­ munque scopre una sessualità diversa, piti tranquilla, perché non nasce dall’angoscia, come accadeva con i travestiti per cui provava impulsi vio­ lenti e irresistibili. Io valorizzo tutte le esperienze che fa, perché sento che gli servono per crescere, anche se non sempre mi è facile empatizzare con questa dimensione in cui i corpi delle ragazze sono intercambiabili. Mi dice che in seduta prova un senso di protezione che non aveva mai provato. Finché un giorno mi comunica che non ha più fantasie suici­ de. Una volta dopo avermi raccontato una scena che lo ha disgustato, aggiunge: “Potrei masturbarmi con questa idea”. Quando gli propongo l’idea che esorcizzi il disgusto attraverso la sessualizzazione (oggi parle­ rei di strategia controllante sessualizzata), accetta l’interpretazione, di­ cendo che le mie parole non lo spaventano più, ma gli danno speranza. Dopo molti tentativi trova una ragazza su misura che accetta i suoi giochi sessuali senza desiderare la penetrazione. Mi racconta in detta­ glio i giochi erotici che fanno perché lo confermi nei suoi sforzi finché, dopo tre anni dall’inizio della terapia, per la prima volta arriva all’or­ gasmo durante un rapporto sessuale con una ragazza. Mi dice che per la prima volta è stato felice e io condivido la sua gioia. Presto la ragazza lo lascia, perché sente che lui la sta solo usando: non è pronto per l’in­ timità psicologica e qualunque richiesta al di là del sesso lo infastidisce. Quando cerco di fargli capire il punto di vista della ragazza, avviene la nostra prima “rottura” (Kohut 1984). Risponde: “Non mi interessa stendere una relazione su quello che pensa una ragazza, ma solo la mia efficacia”. Gli ho chiesto uno sforzo di mentalizzazione troppo presto. Segue il solito ritorno al travestito, mentre lui perde il desiderio ses­ suale per le donne e si spaventa. Quando con fatica riesce a riprendere i rapporti con la ragazza che lo ha lasciato, realizza nella realtà i giochi erotici con le feci che ha sempre fantasticato, gestendo l’umiliazione di esser stato lasciato attraverso la strategia controllante. Ma ora comincia a capire la dinamica di tutto questo. Saltuariamente continua a frequentare i travestiti e a masturbarsi con videocassette pornografiche il cui contenuto riguarda rapporti ses­ suali umilianti (rapporti con cani e coprofilia) ma ora, a volte, facendo “il giro dei travestiti” riesce a resistere. Segue una serie di realizzazioni personali, dall’acquisto di una bella macchina (lui era sempre andato solo in motorino!), all’ottenimento dell’agognata promozione e infine 240

all’andare a vivere per conto suo. Sparisce il mal di testa di cui ha sem­ pre sofferto, nota che va di corpo tutte le mattine, cosa che non era mai accaduta, come se la regolazione affettiva legata alla terapia compor­ tasse anche una migliore regolazione a livello fisiologico. Scopre Paso­ lini e Oscar Wilde, come esempi illustri di sesso trasgressivo (cerca dei modelli per uscire dal ruolo di reietto). A questo punto della terapia, entrata ormai in contatto con la TEM, ho cominciato a comprendere il paziente partendo dalla disorganizza­ zione dell’attaccamento e dalle strategie controllanti. Quando M ha ini­ ziato un rapporto più stabile con una ragazza, ha cominciato a sentire una sorta di claustrofobia e a fantasticare il tradimento “per provare ti­ pologie fisiche differenti”. Io ora capivo che lui stava rivivendo con lei le dolorose oscillazioni interne legate al modello del triangolo dramma­ tico: appena la partner criticava il suo ricorso alle droghe, smetteva di essere colei che lo salvava dai travestiti per assumere le vesti della madre che impediva l’individuazione, ma quando lui fantasticava di lasciar­ la, lei diventava una povera vittima che lui non poteva abbandonare. Alla quarta separazione estiva M per la prima volta ammette di es­ sersi sentito solo. Dice: “Prima stavo così male che non potevo permet­ termi di sentirmi solo. L’ansia sovrastava la depressione, la prima volta che ho avuto un rapporto l’ho avuto con lei. Ho provato la nostalgia sia professionalmente che umanamente”. Nel periodo che segue lavoriamo soprattutto sulle “rotture” e sulle “reintegrazioni” del nostro rapporto, di cui ora lui comincia a ricono­ scere l’impatto. Un giorno, subito dopo aver assistito a uno spogliarel­ lo, va impulsivamente con una prostituta. Senza pensare, forse perché lo sento molto cambiato, noto la sua incapacità di aspettare. Lui inter­ rompe la seduta per andare in bagno e la seduta successiva dimenti­ ca di venire. Quando torna racconta di essere andato di nuovo con un travestito. Io mi scuso per avergli dato un’interpretazione poco empatica, senza capire che per lui il rapporto con la prostituta era comun­ que qualcosa di evoluto rispetto al passato, ma lui al solito mi giustifica dicendo che ho fatto bene a rimproverarlo. Questa volta però appare in un sogno un elemento evolutivo. Sogna ch e si sporca con le feci, ma questa volta in vece di eccitarsi si disgusta. Associa scene di umiliazione subita quando il padre lo criticava. Quando io riconduco il sogno all’u­ miliazione che gli ho inflitto dice: “Il suo commento non era sbaglia­ to, ma troppo avanzato per me”. Per la prima volta però la ferita nar­ cisistica non è gestita attraverso la strategia controllante sessualizzata. Subito dopo sogna che m entre lui va in m otorino un vigile gli taglia la 241

CLINICA

strada. Lui si arrabbia m oltissim o e gli sputa addosso. Riferisco il sogno alla nostra interazione, in cui ho interrotto il suo percorso con una se­ verità analoga a quella di suo padre, notando che questa volta però lui ha reagito esprimendo normalmente la rabbia e restituendo attivamente l ’umiliazione (sputando addosso al vigile). La reazione immediata alle rotture del nostro rapporto è sempre quella di tornare con un travesti­ to o di saltare una seduta, ma ora riesce a collegare i fatti e ogni volta che ci riconciliamo il nostro rapporto si consolida. Dice: “Quando so­ no depresso cerco il sessualizzare, ma non il sesso normale” (la sessua­ lità degradata esprime il sistema di rango nella posizione sottomessa). Poco dopo sogna che un travestito gli chied e una fellatio, ma lui rifiuta p erch é lo sen te com e un ’umiliazione. Ora mi dice di aver sempre sentito la fellatio che praticava ai travestiti come una degradazione. Alla successiva separazione estiva l’agitazione che prova lo porta per­ fino ad assaggiare le feci, ma ora sa perché lo fa. Un sogno mette in lu­ ce una delle paure riguardanti la nostra relazione: il suo più caro am ico

m uore in un incidente co l motorino. Una bambina dice: Non ti preoccu ­ pare. Infilo il suo casco e lui guarisce. Si infila il casco, ma resta intrappo­ lata con la testa d el suo amico. Associa la bambina a me. Il sogno allude a una guarigione, che nasce dall’unione delle nostre due menti, ma lui teme di non riuscire più a separarsi. Nel sesto anno di terapia comincia a parlare di una ragazza in modo diverso. Si è innamorato. E sempre più agitato, ha paura e io lo capisco perfettamente. Per la prima volta si sente vulnerabile e in preda all’an­ goscia mi chiama perfino a casa, il che per uno come lui, che non par­ lava a nessuno dei suoi problemi, mi sembra un grande progresso. Con la nuova ragazza le vicissitudini legate al modello interno del triangolo drammatico si amplificano a dismisura: appena lei si mostra gelosa si tra­ sforma nella madre inglobante e tornano le difficoltà sessuali. Dice: “Non vedo l’ora che se ne vada, ma subito dopo mi manca”. Ogni seduta mi racconta che si sono lasciati, ma poi tanno pace. Cerca sollievo nelle fan­ tasie perverse, ma questa volta comincia a risolvere le difficoltà assieme a lei. Quando propongo al paziente l’immagine del triangolo drammatico per comprendere le difficoltà che sta vivendo, il paziente resta come fol­ gorato e conferma l ’interpretazione riportando ricordi prima dissociati relativi al suo rapporto con la madre, in particolare il fatto che da picco­ lo aveva sempre paura di lei. Comincia l ’integrazione progressiva delle tre rappresentazioni interne del triangolo drammatico, una Litica che lo estenua. Ma alla fine la ragazza diventa il riferimento per mettere ordine nella sua vita. A questo punto gli agiti perversi sono praticamente spariti. 242

LE PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICOANALISI E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

L'ultima conferma: la sessualizzazione della morte Improvvisamente M viene a sapere che sua madre ha una malattia che la condurrà rapidamente alla morte. Capisco che la madre negli ultimi anni si è progressivamente depressa, forse in rapporto al distacco del figlio, fino a rendere necessario un ricovero psichiatrico. Solo ora il pa­ ziente mi dice una cosa che in casa tutti sapevano ma di cui non si po­ teva parlare, il fatto che il padre aveva sempre avuto un’amante. Quando la situazione precipita, M inizia a fare dei sogni di cui ora, differentemente da prima, si vergogna a parlare, tipo: una persona è co ­ stretta a mangiare d elle feci, oppure qualcuno defecava in bocca a un al­ tro e lui si eccitava. Lo rassicuro dicendo che è molto diverso sognare di eccitarsi in modo perverso rispetto all’agire la perversione nella realtà, come avveniva prima. In un sogno successivo sogna una scena in due tempi: gli arrivavano addosso le f e c i di un vicino di casa (che nella realtà

è gravem ente depresso), e lui provava ribrezzo. Nella seconda scena però la cosa lo eccitava. E lui stesso a notare che la scena si svolge in due tem­ pi, prima c’è il disgusto, e solo in seguito questo si trasforma in eccita­ zione sessuale. Questa volta il meccanismo non è innescato dal senso di umiliazione, come in genere accadeva, ma da un sentimento ancora più temuto, la depressione. Assiste la madre fino all’ultimo, mentre lei vuole avere accanto soltanto lui. L’ultima sera che passa con la madre fa per l’ultima volta il “giro dei travestiti”. Un ultimo snodo M non è più tornato con i travestiti, ma nei momenti di stress ricorreva saltuariamente alle fantasie perverse che definiva “de-stressanti”, e che gli servivano per regolare le tensioni emotive insopportabili. Ora però si rendeva conto che quelle fantasie indebolivano la sua autostima e lo allontanavano dalla fidanzata. Di questa terapia riferirò un ultimo passaggio. Le fantasie più distur­ banti restavano quelle sulla coprofilia. A un certo punto, discutendo con il coautore di questo capitolo, ci siamo resi conto che spesso noi colludiamo con i pazienti perversi, scotomizzando il sintomo, proprio come fanno loro, per esempio minimizzando le fantasie perverse o co­ munque non indagandole a fondo. Nel caso di M spesso mi ero ferma­ ta di fronte alla sua reticenza a descrivere le fantasie perverse per non apparire come la madre intrusiva. Ma, a questo punto, sentendo che la nostra alleanza terapeutica era solida, in un momento di crisi con la fi­ 243

CI.INIC/

danzata in cui era tornato alle cassette porno sulla coprofilia, gli ho chie­ sto se si sentiva di condividerne una con me. Il paziente ha accettato. Nella seduta successiva il paziente ha mostrato un netto migliora­ mento nei rapporti con la fidanzata, ritrovando l’interesse sessuale per­ duto. Nella stessa seduta ha raccontato un sogno: “Ero fidanzato con una collega di lavoro, molto bella. Entrambi eravamo molto innamorati e felici. Era bellissimo come ci guardavamo. L’attenzione di lei quasi mi imbarazzava”. Attraverso la condivisione della cassetta il paziente si è sentito visto empaticamente negli aspetti più intimi di cui più si vergo­ gnava e che cercava di nascondere perfino a se stesso. L’immagine della collega di lavoro allude al nostro rapporto di tranquilla collaborazione. M ha commentato così: “Riflettevo sull’effetto benefico straordinario della condivisione. Ho una grossa difficoltà a parlare delle mie ansie, ma se lo faccio, le cose migliorano. Per me questo è un elemento cen­ trale della terapia”. Poco dopo ha gettato via tutte le cassette porno. Subito è stato preso da una forte ansia perché temeva di aver perso il metodo per calmarsi. Ma come effetto di questo passaggio sono emersi altri ricordi, prima dissociati, riguardanti la sessualizzazione del rapporto con sua madre. In un sogno lui è piccolo. E a letto malato. La madre si struscia in m odo ambiguo su d i lui eccitandolo. Lui connette il sogno alle sue perversio­ ni sessuali, dicendo che tutte le perversioni derivano dal complesso di Edipo. Io penso a un rapporto confuso, in cui il sistema di attaccamen­ to si attivava confusamente assieme al sistema sessuale, forse anche in rapporto a un atteggiamento ambiguo della madre. Poi sogna un viag­

gio indietro n el tempo. Lui aveva una relazione con la m oglie d el re. En­ trambi erano m olto eccitati. Va in bagno e si ritrova con le f e c i in bocca. In una scena successiva sa di aver com m esso un reato. Nelle associazioni torna la confusione tra attaccamento e sessualità vissuta da M anche nel rapporto con la madre, attraverso il ricordo di essersi masturbato annusando le mutande di lei. Forse il reato commesso è proprio que­ sto, che ora può finalmente condividere. Il sogno sembra legare questa complessa situazione alla coprofilia. Discussione M aveva cercato la terapia in relazione a un disturbo parafilico, che gli procurava grande disagio. La diagnosi secondo il DSM-5 era quella di un disturbo parafilico con altra specificazione (coprofilia, urofilia, parzialismo). 244

LE PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICANALISI E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

Nel corso della terapia i comportamenti sessuali di tipo perverso sono apparsi innescati da stati di angoscia che M non riusciva a sop­ portare, ma lui non era mai riuscito a cogliere il rapporto tra i momen­ ti di profondo malessere che lo coglievano e gli agiti sessuali, che re­ stavano nella sua mente profondamente dissociati e per molto tempo anche in terapia non è riuscito a vederne il nesso. Questa tendenza al­ la dissociazione, che si manifestava anche riguardo ai ricordi dell’infanzia, caratterizza i soggetti con attaccamento disorganizzato. Come questi, M mostrava inizialmente una grande difficoltà a capire gli stati mentali, che contrastava con le capacità intellettuali che mostrava in altri campi e una grande difficoltà a regolare le emozioni che lo por­ tava all’uso di droghe. Nella prima fase della terapia gli stati d’angoscia di M sono stati vi­ sti nell’ottica della psicologia del sé come stati di “frammentazione” legati a un disturbo del sé e i comportamenti perversi come un modo di vitalizzare un sé fragile e frammentato attraverso emozioni forti (M diceva che le sue perversioni nascevano dalla noia) e di trasformare l’u­ miliazione in piacere sessuale. Dopo essere venuta in contatto con la prospettiva della TEM, ho compreso meglio il meccanismo che la psi­ coanalisi definisce sessualizzazione, vedendo quegli stati come episo­ di di dissociazione legati all’attivazione del sistema di attaccamento in un paziente le cui prime relazioni erano state caratterizzate da rappor­ ti di attaccamento disorganizzato e i comportamenti perversi come la messa in atto di una strategia controllante sessualizzata che il paziente aveva imparato ad attivare per ricompattarsi nei momenti di angoscia. La storia di M è stata ricostruita con fatica, perché lui non riusci­ va a coglierne il nesso con i suoi problemi attuali e perché evitava il dolore legato ai suoi ricordi. Solo dopo anni è emersa la depressione della madre. Sposatasi per amore, il marito si era presto allontanato da lei allacciando altre relazioni. In tutto ciò aveva pesato un evento tragico, la morte di due bambine, a seguito della quale lei era rimasta sterile per molti anni fino alla nascita del paziente. Pochi mesi dopo questo evento, aveva perduto il proprio padre, a cui era profondamen­ te legata. Gli autori psicoanalitici (Masud Khan, 1979) pongono la de­ pressione materna alla base dello sviluppo della perversione sessua­ le. Secondo questi autori la depressione materna avrebbe l’effetto di ostacolare il processo di separazione e individuazione del figlio, cosa certamente avvenuta anche nel caso di M, basti pensare al sogno del­ le due teste che non riescono più a separarsi. Il legame di M con sua madre era stato così stretto da portare M a identificarsi con lei, deter­ 2 45

minando quella che lui aveva vissuto come una vergognosa femminilizzazione del suo corpo. Nella prospettiva della TEM il lutto materno perinatale come la de­ pressione materna appaiono correlati aH’attaccamento disorganizzato nel figlio perché in questi casi la madre non è in grado di fornire un’a­ deguata protezione (Liotti, 2015). Nelle immagini interne derivate da questa relazione, la madre aveva finito per assumere per M la posizione della vittima, soprattutto per il rapporto con il padre di cui si lamen­ tava sempre con il figlio, secondo una modalità tipica delle madri dei pazienti perversi. Forse in rapporto all’infelicità che percepiva in lei, il paziente aveva sviluppato nei suoi confronti una strategia controllan­ te di tipo accudente. Ma lei poteva trasformarsi improvvisamente nella madre inglobante che impedisce l’individuazione, come quando si era terribilmente arrabbiata perché M aveva iniziato la psicoterapia. Anche il rapporto con il padre era stato complicato. Questi aveva sempre criticato il figlio, soprattutto nelle sue manifestazioni emotive, umiliandolo e suscitando in lui una rabbia che M regolarmente disso­ ciava, ma che esplodeva ogni volta che si sentiva criticato o valutato al di sotto delle sue capacità. Ma M non poteva metterlo in discussione e lo proteggeva disperatamente da ogni critica, perché anche nei suoi confronti aveva sviluppato una strategia controllante accudente. La sorella lo aveva visto come un rivale che le aveva sottratto il rap­ porto esclusivo con i genitori. Costretta ad accudirlo, contemporanea­ mente attivava il sistema di rango, picchiandolo e umiliandolo. Tutti questi legami erano esitati nella disorganizzazione dell’attaccamento riflessa nell’incubo infantile ricorrente, in cui M aveva paura, ma non

poteva chiedere aiuto. Per gestire la paura senza sbocco legata all’attaccamento disorga­ nizzato, M fin da bambino aveva scoperto la via della sessualizzazio­ ne: tutte le sue relazioni di attaccamento erano state gestite attraverso una strategia controllante sessualizzata complessa. Per prima è emer­ sa la strategia controllante sessualizzata nel rapporto con la sorella, nei cui confronti M aveva provato per la prima volta l’eccitazione sessuale per il piede. La psicoanalisi classica avrebbe qui rintracciato la fantasia della donna fallica, tradizionalmente posta alla base delle perversioni sessuali, ma è più semplice pensare che il paziente mettesse in atto una strategia controllante sessualizzata che utilizzava il sistema di rango in posizione sottomessa (quella di leccare il piede che lo prendeva a calci), che corrispondeva al ruolo a cui la sorella lo relegava. Successivamente è af fiorata nei ricordi la strategia controllante nel rapporto con il padre, 246

nei cui confronti M aveva fatto nell’infanzia e nell’adolescenza fantasie sessuali centrate sul pene, l’elemento di cui M cercava disperatamente tli appropriarsi nel rapporto con i travestiti. Infine sono emersi i ricordi più angosciosi, in cui M aveva attivato confusamente sistema di attac­ camento e sessualità anche nel rapporto con la madre. La prospettiva della TEM ha permesso di comprendere la genesi di quella che la psicoanalisi chiama sessualizzazione, spiegando il fatto che il paziente, che aveva vissuto con tutte le sue figure di attaccamento re­ lazioni confuse e contraddittorie dal punto di vista dei sistemi motiva­ zionali, aveva sviluppato un attaccamento disorganizzato, dopo di che, non potendo attivare nei momenti di angoscia il sistema di attaccamen­ to danneggiato, aveva imparato ad attivare al suo posto una strategia controllante sessualizzata complessa (alla fine il paziente ha detto che tutte le sue perversioni nascevano dalla paura). Questa strategia attiva­ va contemporaneamente anche il sistema di rango, ripetendo le situa­ zioni di umiliazione che M aveva subito. Da ultimo M aveva assunto un atteggiamento evitante, minimizzando o negando i suoi problemi, che nascondeva a tutti. In questo modo si difendeva dalla disorganizzazio­ ne anche attraverso l’inibizione diretta (non mediata dall’attivazione di altri sistemi) del sistema dell’attaccamento. In realtà M era sempre sta­ to solo, mantenendo in tutte le relazioni una distanza di sicurezza. Gli autori psicoanalitici, primo tra tutti Masud Kahn (1979), sottolineano il ruolo centrale della solitudine nella vita di questi pazienti. Bambino apparentemente esuberante ed estroverso, forse perché doveva vitaliz­ zare la madre, da grande era diventato l’animatore delle baldorie serali con gli amici, ma non aveva mai potuto confidare a nessuno l’angoscia che improvvisamente lo attanagliava e irrompeva nelle fantasie di sui­ cidio, terminate solo con la terapia. Dietro l’atteggiamento evitante pe­ rò l’antica disorganizzazione trapelava, non solo nell’angoscia che im­ provvisamente lo coglieva e lo portava all’uso di droghe per calmarsi, ma soprattutto si manifestava nel comportamento sessuale. Sotto un’apparenza brillante, M era cresciuto fragile e incerto sulla propria identità sessuale. La sfera sessuale era rimasta per lui un mondo poco mentalizzabile, latto di impulsi irresistibili e di agiti segreti. Quan­ do è venuto in terapia la sua sessualità si manilestava su due piani dis­ sociati. Da una parte corteggiava ragazze sempre diverse, evitando con cura ogni approccio sessuale. Dall’altra si sfogava in segreto praticando la fellatio ai travestiti, cosa che sentiva come umiliante, e con frequenti masturbazioni che utilizzavano cassette porno centrate su scene di co­ prolalia e rapporti con cani. Il rapporto con i travestiti soddisfaceva di247

CLINIC/

verse esigenze. La psicoanalisi kohutiana vedrebbe nella fellatio che M praticava ai travestiti un tentativo di appropriarsi di un pene in modo da riparare la propria identità maschile deficitaria, la psicoanalisi classica vi avrebbe visto un atto di sottomissione alla donna fallica o all’aspet­ to dissociato della madre che non accetta l’individuazione. Ma soprat­ tutto i travestiti si prestavano con la loro arrendevolezza, che secondo M una donna non avrebbe mai mostrato, a corrispondere ai desideri “perversi”, legati alla strategia controllante sessualizzata, intesi a rego­ lare le emozioni negative insopportabili, volgendole in eccitazione ses­ suale e piacere. Contemporaneamente questo rapporto rappresentava un atto di ribellione contro la severità delle regole imposte dalla fami­ glia mentre la mancanza di intimità che caratterizzava gli agiti sessuali (a pagamento con travestiti sempre diversi) consentiva a M di mante­ nere la distanza che lo proteggeva. 11 risultato finale di queste vicende era un’identità dissociata, caratteristica dei soggetti perversi: il figlio sollecito e il giovane estroverso celavano un’identità negativa segreta, come il protagonista del suo libro preferito, Il ritratto di Dorian Cray. In terapia M per molto tempo è apparso irraggiungibile, nella ma­ niera in cui vengono descritti usualmente questi pazienti (Masud Kahn, 1979). Veniva in ritardo, manteneva il discorso a livelli superficiali, in­ terrompeva stizzito i miei interventi e appena stava male saltava le se­ dute. Negava qualunque coinvolgimento affettivo nel nostro rappor­ to, in particolare i vissuti emotivi in occasione delle nostre separazioni, medicalizzando il rapporto o definendolo come un indottrinamento. Alla luce delle conoscenze sull’attaccamento disorganizzato ho potu­ to capire meglio quello che il paziente stava vivendo, espresso nel so­ gno in cui il paziente aveva paura, un viso sconosciuto gli sorrideva, lui voleva avvicinarsi, ma si allontanava. M non poteva attivare il sistema di attaccamento: per questo non poteva riconoscere il legame con me e non poteva neppure vivere la sofferenza. Anche la ricostruzione del­ la sua storia ha potuto iniziare solo quando lui si è sentito in grado di sopportarlo. Ciò ha coinciso con la sua proposta di guardare insieme i film dell’infanzia, proposta nata forse in rapporto a una fase più colla­ borativa del nostro rapporto, in cui M poteva attivare meno il sistema di attaccamento (Liotti, 2015 ). Un altro momento chiave si è verificato in rapporto alla condivisione della cassetta pornografica sulla coprofilia, gesto analogamente vissuto dal paziente come un’interazione collabo­ rativa (sogno in cui è innamorato della collega di lavoro). Nel rapporto con me M ha messo poco in atto le strategie control­ lanti. A volte ha messo in atto la strategia controllante accudente (è l ’u248

I.E PERVERSIONI SESSUALI TRA PSICAN ALISI E TEORIA EVOLUZIONISTICA...

nico paziente che si aumentava spontaneamente il prezzo delle sedute in rapporto all’inflazione). Quando ammettevo di aver fatto un errore, diventavo immediatamente la vittima da proteggere e M cominciava a giustificarmi, come aveva sempre fatto con i genitori, attribuendo a sé le colpe. Ma non ha messo in atto con me la strategia controllante sessualizzata. La sessualizzazione del rapporto terapeutico, descritta in letteratura come caratteristica nel trattamento dei pazienti perversi, si è manifestata solo per un breve periodo attraverso un transfert col­ laterale, regredito nel corso di un mese. Ciò è avvenuto in rapporto a un mio errore, in quanto avevo suscitato la gelosia del paziente. Per il resto penso che l'aver lasciato a lui la regolazione della distanza tra di noi e successivamente il passaggio a un rapporto più collaborativo ab­ bia probabilmente protetto la relazione da eccessive tensioni che lui avrebbe potuto risolvere solo con il ricorso alla strategia controllante sessualizzata.

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