L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo XIII (Utrum Deum esse sit per se notum)

Utrum Deum esse sit per se notum: se Dio debba essere per sé evidente. Per sé evidente significa: insito nel significato

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L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo XIII (Utrum Deum esse sit per se notum)

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IL

PENSIERO

COLLANA

DI

MEDI OEVALE

STORIA

DELLA

DIRETTA DA

CARMELO O TTAVIANO

PRIMA

SERIE

VOLUME SETTIMO

19

5 8

PADOVA

FILOSOFIA

Copyright 1958 by C edam • P adova

Stampato in Italia - Printed in Italy Arti Grafiche « S. Pancrazio » - Via Fonteiana, 5-a - Roma - Tel. 500.469

PL

= Patrologia Latina, ed. P. Migne.

PG

= Patrologia Graeca, ed. P. Migne.

A.H.D. » Archives d’Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age. D.T.C. = Dictionnaire de Théologie Catholique.

Sapendo che in alcuni paesi si insegna sistematicamente nelle scuole l’ateismo, preoccupati per tardo eccesso contro la nostra na­ tura portata istintivamente verso il Divino, ci decidiamo a pubbli­ care questo nostro umile lavoro indirizzandolo non al popolo, il quale crede e adora naturalmente Dio, ma ai maestri del popolo, i quali dovrebbero avere il compito di illuminare e non già ottene­ brare le menti, come purtroppo fanno questi maestri dell’ateismo e del materialismo. A questi falsi dottori, i quali, acidi di ciò che può solleticare le orecche distolgono l’udito dalla verità e si rivolgono alle favole (II Tim., IV, 4), abbiamo pensato di contrapporre la dottrina dei più grandi Maestri del periodo' doro della filosofia scolastica, il sec. X III, i quali più d ie sulle prove dell'esistenza di Dio discutevano sull’evi­ denza d i Dio: < Utrum Deum esse sit per se notanti ». Abbiamo cer­ cato presso questi grandi filosofi e teologi che cosa essi pensassero di Dio, della sua esistenza, della sua natura, e abbicano constatato che unanimemente essi dicono che, se non possiamo conoscere ade­ guatamente la natura divina, l’esistenza di Dio però è quasi una evidenza; non un’evidenza intrinseca ed immediata, bensì mediata. Chi negherebbe Dio, negherebbe il principio di evidenza oggettiva, che è il criterio principale e fondamentale della verità. Con questo nostro modesto lavoro vorremmo incitare i maestri dell’ateismo moderno a riflettere meglio, a pensare più profonda­ mente sulla verità dell’esistenza di Dio prima di osare insegnare il contrario a quelle intelligenze ingenue ed innocenti, le quali diffi­ cilmente potranno convincersi della non esistenza di Dio. Esse sen­ tono che senza Dio il mondo nella sua esistenza o nel suo ordine non si spiega, come non si spiega un effetto senza la causa. Perchè dun­ que insistere nell’insegnamento della falsità?... Perchè nascondere la verità?... Perchè negare con le parole ciò che si ammette col cuore?...

Se i profeti delPateismo o del materialismo fossero più sinceri, essi non negherebbero mai resistenza di Dio. La sincerità è sorella della verità, e la Verità è Dio. Agli atei e ai materialisti vorremmo■dire: Siate sinceri, siate coe­ renti con voi stessi; allora, quella verità che sentite dentro* di voi la troverete anche fuori di voi, perchè Dio è in voi e fuori d i voi♦

Il filosofo e teologo medievale P.G. Olivi « doctor solemnissimus » (1) nel suo meraviglioso trattato « De Deo Cognoscendo » (2) alla IIIa questione (3), dove parla dell’esistenza di Dio, se essa è evidente, oppure dimostrabile colla ragione o solamente oggetto di fede, come molti scolastici del suo tempo, la prima domanda che si rivolge e a cui dà una risposta breve, ma esauriente, è « An Deum esse sit per se notum ». E’ Dio evidente? A noi moderni questa domanda sembra un po’ strana perchè, contaminati di materialismo e di scetticismo, pensiamo che Dio non è evidente come il sole che brilla ai nostri occhi. Dinanzi alle prove più stringenti dell’esi­ stenza di Dio rimaniamo alquanto dubbiosi, anzi nelle prove più dure della vita dubitiamo terribilm ente dell’esistenza di un Dio som­ mamente buono e giusto. Assetati di piacere, nel turbine delle passioni, vorremmo d ie l’esistenza di un D'io rimuneratore e giudice non fosse un’esistenza reale, come il piacere proibito che ci alletta, ma illusoria e chime­ rica. Anche accecati dalle passioni, è impossibile però convincersi pienamente della non realtà dell’esistenza di Dio. Le nostre naturali aspirazioni reclamano istintivamente l’esistenza di un Dio Sommo Bene, perchè tendono a un piacere senza limiti, e il nostro spirito è irresistibilmente portato ad una felicità somma. Questa irresistibile fiumana di aspirazioni verso l’infinito oceano di piacere suppone l’esistenza reale di quella felicità, perchè ad ogni tendenza naturale deve corrispondere l’esistenza reale dell’oggetto a cui il soggetto istintivamente tende.

(1) Vedi Quodlibeta Petri Johannis Prooenzalis Doetoria Solemnissimi Ordio& Minorum, Venetiis, 1509. (2) P etrus Johannis Olivi, O.F.M., Quaesttones in II tib. Sententiarum, Ap­ pendix / Quaestiones de Deo cognoscendo, ed. Bemaidus Jansen, S.J., vol. III, Ad Claras Aquas, 1926, pp. 455-554. (8) Oltvi, op. d t., III, app. q. III, p. 517.

L'inclinazione naturale dell’uomo verso la donna, e viceversa, sarebbe inutile ed irrisoria se la donna o l’uomo non esistessero; cosi l’appetito non avrebbe nessuna ragione di esistenza, se non esistesse il cibo che può soddisfarlo. Tutte le tendenze spirituali, morali e fisiche esigono l’esistenza reale dell’oggetto a cui tendono natural­ mente, altrim enti dovremmo concludere ad un’esistenza inutile di tendenze senza un oggetto esistente a cui istintivamente tendono. Ma ciò ripugna, perchè non è conforme alla natura degli esseri, i quali, oltre ad una causa efficiente, hanno tutti una causa finale. Quindi se non vogliamo ammettere l’assurdità dell’esistenza di aspirazioni senza alcun fine, dobbiamo necessariamente dare un oggetto reale e vorrei dire proporzionato a queste tendenze infinite che è l’infinito reale, esistente quantunque non evidente. L’esistenza di un bene infi­ nito è necessaria per il nostro spirito, come è necessaria l’esistenza della terra centro di gravitazione per un corpo che cade dall’alto. Potremmo dire che Dio ha impresso nell’anima umana la ten­ denza naturale ed istintiva al gaudio infinito, perchè Lui, appunto, costituisce per sè, e per noi, la felicità infinita. Dio è dunque l’og­ getto naturale della tendenza naturale dello spirito umano. Quindi quantunque alcune Volte accecati da passioni sfrenate e brutali, vor­ remmo attribuire l’esistenza solo al piacere materiale che ci alletta, e non al sommo gaudio soprannaturale, se ragioniamo, nella calma, sul burrascoso infuriare delle nostre passioni e delle nostre aspira­ zioni spirituali, vediamo bene che esse esigono l’esistenza reale, non vana e chimerica, di un Dio Sommo Bene e Somma Beatitudine che può tranquillizzarle e soddisfarle. Dio però non è evidente come la luce. Dio si è nascosto perchè sia cercato con più ardore. Se Dio fosse visibile come il sole, forse finiremmo col non fare più caso alla sua evidenza, come non facciamo più caso a quella del sole. E’ meglio che Dio non sia evidente a noi in questa vita, perchè forse finirebbe la nostra tendenza all’infimto, finirebbe foTse la nostra ricerca appassionata di Dio. Il bisogno del­ l’esistenza di Dio è però così naturale ed impellente che Dio è quasi una necessità evidente per noi; evidenza divina, non per i nostri occhi corporali, perchè nessuno ha mai veduto Dio (4), ma per quelli del nostro spirito, ossia per la nostra ragione. (4) Jo., 1, 18. - Vedi la I questione di Olivi nel trattato « De Deo cogno-

scendo » : An Deus videatur a nobis. Op. cit., Ili, pp. 455-500.

Per quesito gli antichi scolastici si sono domandati « Utrum Deum esse sit per se notun) ». Non vi era ragione di farsi questa domanda se resistenza di Dio non fosse tanto necessaria per Timiverso e per noi. Per comprendere esattamente la portata della questione che vo­ gliamo trattare è necessario, prima di avanzare nel nostro lavoro, precisare brevemente il significato delTespressione « per se notimi ». « Per sè » significa che Toggetto viene considerato in sè, da sè, nella sua stessa essenza ed esistenza (5). « Notum » equivale ad evidente. Quindi domandandoci « utrum Deum esse sit per se notum » vogliamo sapere con esattezza se Dio, considerato in se stesso, nella sua es­ senza ed esistenza, sia evidente alTintelligenza umana come è evi­ dente un principio per sè noto (6). S. Tommaso, con altri filosofi e teologi del Medio Evo, si pone la questione « Utrum Deum esse sit per se notum »; S. Bonaventura non si pone la medesima questione, ma un’altra che può sembrare uguale, mentre non lo è: « Utrum divinum esse sit adeo verum, quod (5) Cfr. A rist ., Analitica Posteriora, lib. I, cap. IV. - Il nostro scopo non è quello di fare uno studio sulla proposizione per se; questo è stato già fatto da D amascene W ebering, O.F.M. Ph. D. in Theory of demonstration According to William Ockham, publisced by thè Franciscan Institute St. Bonaventure, New York, 1953, p. 41 ss. Neppure abbiamo intenzione di fare uno studio sulla pro­ posizione per sè nota poiché anche questo è stato fatto esaurientemente da R. Schmuecker, Propositio per se nota, Gottesbeweis und ihr Verhaéltnis nach Pe­ trus Aureoli, W erl, 1941. Due buone recensioni di questa ultima opera sono quella di Bonaventura a Mehr in Collectanea Franciscana, t. XVI-XVII, 1946-1947, Roma, pp. 386-390 e quella di E. Bettoni in Rivista di Filosofia Neo-scoL, Mi­ lano, 1942, pp. 371-375. Il nostro scopo è quello di fare uno studio sulla questione « Utrum Deum esse sit per se notum ». Il nostro lavoro quindi verte principalmente sulTevidenza di Dio e non sull’evidenza di una proposizione per sè nota, quantunque questa seconda questione sia intimamente connessa con la prima come Teffetto alla causa. Ne parleremo in seguito quando e per quel tanto che sarà necessario. (6) « Si dicono ” noti per sè ” quei principi la cui verità si coglie immedia­ tamente in seguito alla semplice percezione dei termini, cosicché sono di evi­ denza immediata e non han bisogno di dimostrazione. Possono esserlo ” quoad se ” e non ” quoad nos ” , se si riuscisse a ben penetrare i termini, se ne vedrebbe ipso facto la verità, ma noi non riusciamo a penetrare abbastanza il senso dei termini ed abbiamo bisogno di dimostrazione. Così la verità: ” Dio esiste” è per sè nota ” quoad se ”, ma non ” quoad nos ” . Anche tra quelli per sè noti ” quoad nos ” alcuni lo sono sole per lo studioso che ha approfondito il senso dei termini (ad es. che lo spirito non occupa spazio) altri lo sono invece per tutti ». B erghin Rosé G.M., Elementi di Filosofia, I, Logica, p. 120.

non possit cogitan non esse * (7). Secondo i Padri di Quaracchi, edi­ tori delle opere di S. Bonaventura, la .questione^ come è impostata dal Dottore Serafico, coincide quasi con quella che comunemente era impostata dagli scolastici coi termini già detti « Utrum Deum esse sit per se notim i» sostenendo che il santo Dottore parla nella sua questione direttam ente della verità dell’esistenza divina e sol­ tanto indirettamente della nostra cognizione dell’esistenza divina (8). Etienne Gilson critica i Padri di Quaracchi: «L ’interprétation thomiste que donnent de cette doctrine les scoliastes de Quaracchi, t. I, p. 155: ’ Sanctus enim loquitur hic directe de veritate divini esse e t tantum indirecte de nòstra cognitione hujus divini esse’ semble inconciliable avec la pensée de S. Bonaventure. Les sco­ liastes de Quaracchi affirm ait que ’ Quaestio haec fere coincidit cum ilia quae communiter sic exprimitur, utrum Deum esse sit per se notum ’. C’est pour expliquer fere qu’ils soutiennent ensuite que l’evidence dont parle saint Bonaventure est celle de Dieu a i soi et non de la connaissance que nous en avons. Il y avait une manière plus respectueuse des textes de montrer que saint Bonaventure ne contredit pas sur ce point saint Thomas, e t c’eût été précisément de montrer qu’en fait les deux philosophes ne répondent pas à la même question » (9). Questa critica di Gilson spiega la ragione per cui noi non spie­ gheremo espressamente la dottrina di S. Bonaventura sulla questione che vogliamo trattare, ossia: « Utrum Deum esse sit per se notum ». Alla domanda, per noi moderni assai strana, ma giustificata e logica per i filosofi scolastici: « E’ Dio per sè noto? », gli antichi filosofi medievali rispondono chi in un modo e chi in un altro. Sono però quasi tu tti d’accordo che l’esistenza di Dio è inclusa nello stesso concetto essenziale di Dio. L’autore del famoso argomento che da dopo Kant è stato chia­ mato ontologico, S. Anselmo, dice che l’esistenza di Dio è evidente a colui che capisce pienamente il significato della parola Dio: « Nullus quippe intelligens id quod Deus est potest cogitare quod Deus non est, licet haec verba dicat in corde aut sine ulla aut cum aliqua extranea significatione » (10). S. Anselmo parte dal concetto (7) S. Bonav., Sent. I, d. V ili, p. I, art. I, q. II. Ed. Quaracchi, 1882. (8) S. Bonav., op. cit., p. 155, Scholion. (9) La philosophie de S. Bonaventure, Paris, 1924, p. 138, nota 1 e 2. (10) Proslogion, cap. 4 PL 158, 229.

di Dio come l’ente di cui non si può pensare un altro più grande e più perfetto, e da questo concetto stesso di Dio forma un argomento per provare resistenza di Dio. Si è molto discusso attraverso i secoli e si discute ancora sul valore di questo argomento: « Entro la scolastica e fuori di essa, que­ sto problema è stato ed è sempre vivo. C’è chi lo accetta, come S. Bonaventura, c’è chi lo nega, come S. Tommaso, c’è chi lo colo­ risce, come Scoto... ma il problema si è imposto alla medita­ zione » (11). N|el secolo XIII tra i filosofi e teologi, che si sono posti la que­ stione « E ’ Dio per sè noto?», alcuni come Alberto Magno (12), Gualtiero di Bruges (13), Egidio Romano (14), Nicola Occam (15) e Agostino Trionfo (16) rispondono afferrmtivamente: Dio è per sè noto; altri invece come S. Tommaso (17), Enrico di Gand (18), Ric­ cardo di Mediavilla (19) e Guglielmo de la Mare (20), rispondono neg&iwmtente: Dio non è per sè noto; altri invece come P.G. Olivi (21), Pietro de Trabibus (22), Guglielmo di W are (23) e G.

(11) G. Bonafede, Storia della ßosofia medievale, Palermo, 1945, p. 77. (12) Summa Theól., pars I, tiact. Ili, q. XVII, Paris, Vivès, 1890-1899. (13) I Seni., disi. II, ed. E. Longpré in Arch. Hist. Doctr• et Litt. au M. Age, t. VII, 1932, p. 264. (14) Sent

Ub. I, dist. Ili, q. I, (15) Sent. Ub. I , dist. Ili, q. 2, (16) I Sent., dist. Ili, pars I

art. 2 A. D aniels, p. 72 ss. inedito citato da A. D aniels, pp. 82-83. q. 3. ed. M. Schmaus in Beiträge zur Gheschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters. Texte und Unter­ suchungen. Begruendet von Clemens Baeumker. Supplementband III. 2 Halb­ band aus der Geistesweit des Mittelalters, p. 937, Münster i.W. 1935. (17) I Sent., dist. Ili, q. 1, art. 2; Stirn. Theol., Pars 1, q. 2, art. 1; I Cont Gen., cap. X, XI; III Cont. Gent., cap. XXXVIII; De Verit., q. X, art. 12; In Boet. de Trinit Expositio, q. I, art. 3 ad. 6; De Pot., q. VII, art. 2 ad 11 in Psalm. VIII. (18) Sum. Quaest. Ordin., t I, art. XXII, q. 2, Paris, 1520; QuodUbeta 4, q. 3. (19) Senf.I, d ist III, art. 1, q. 2, Venetiis, Lazarus Suardus, 1507-1509. (20) I Sent, dist. III, q. 2, in Arch. Hist. Doctr. et Litt, auM. Age, t. V II,

1932, p. 264. (21) Quaest. in II lib. Sent, voi. III, p. 517 ss. ed. B. J ansen, Quaracchi. 1926. (22) I Sent, dist. III, Assisi, Bibliot. Comun., cod. 154, ff. 19 a-d: questione edita da noi nel presente lavoro. Vedi Appendice, p. 144. (23) Quaestiones super libros Sent., quaest. XXI, inedito citato da A. D aniels, op. cit, p. 98 ss.

Duns Scoto (24) seguono una via di mezzo, e rispondono i primi due esplicitamente e gli altri due implicitamente che Dio è soltanto in qualche modo a noi per sè noto. Noi divideremo il nostro lavoro in due parti: La 1% con carattere piuttosto espositivo, comprende tre ca­ pitoli: I - Affermazione: Dio è per sè noto. II - Negazione: Dio non è per sè nato. I li - Posizione media: Dio è in qualche modo per sè noto. La IP comprende due capitoli: I - Il dubbio del sapiente circa l’esistenza di Dio. II - La relazione tra fede e ragione circa l’esistenza di Dio.

(24) Ordinatio, I, dist. II, pars. I, q. 2. Ed. curata da C. Balió e dalla Commissione Scotista, Civitas Vaticana, 1950: 1 Seni., dist. V ili, q. 5; Quodlibeta 7, Op. omn., Parisiis, Vivès, 1891-1895.

PARTE

PRIMA

AFFERMAZIONE : DIO E’ PER SE’ NOTO

1. - Sebbene non sia del tutto sicuro se ALBERTO MAGNO accetti ? argomento ontologico di S. Anseimo, come ci assicura il P. A. Daniels (1), tuttavia è certo che Alberto Magno è uno dei primi i quali asseriscono che Dio è per sè noto. Qualcuno dice che resistenza di Dio non è da provaisi, perchè è per sè nota. E’ vero ciò? Sembra di sì, perchè tutto ciò che è insito naturalm ente nella nostra intelligenza è per sè noto; ora G. Dama-» sceno dice che la cognizione dell’esistenza di Dio è stata inserita in tutti noi dalla stessa natura (2); dunque essa è per sè nota. Inoltre Boezio, nel libro De Ebdomadibus, dice che un assioma è per sè noto quando, appena si sente enunciare, immediatamente si capisce e si approva la verità contenuta in esso (3) perchè, cono­ ti) QueUenbeitriige und Untersuchungen zur Geschichte der Gattesbeweise im Dreizehnten Jahrhundert mit besonderer Berücksichtigung des arguments im Proslogion des Hl. Anselm von P.À. D aniels, O.S.B., in Beitr. Gesch. PhÜ. Mittelalt. V ili, 1-2, Münster, 1909, p. 122. (2) De Fide O r to d c. I, III. PG 94, 700 ss. Prima di G. D amasceno (*{- c. 750) due autori anticristiani: Giambligo (-J* c. 325-26) e Giuliano L’Apostata ( f 363) avevano detto che la nozione di Dio è innata: «T u dici anzitutto che ammetti resistenza degli dei; ma questa affermazione, formulata così, non è giusta. Coesiste infatti con la nostra stessa essenza la nozione innata degli dei, che è superiore ad ogni giudizio o scelta e preesiste al ragionamento e alla dimostrazione: essa è unita fin dall’inizio con la sua causa e coesiste col naturale impulso dell’anima al bene». (Giambligo, De Mysteriis Aegyptìorum, I, 3, pp. 7-10 Pathey). « Che la nozione di Dio non si insegni, ma ci venga da natura, è dimostrato dalla inclinazione che per l’Essere divino sentono unanimemente tutti gli uomini in privato e in pubblico, individui e popoli. Tutti, infatti, crediamo in qualcosa di Divino, la cui esatta nozione nè ognuno può facilmente raggiungere, nè, una volta raggiunta, comunicare ad altri... » (Giuliano L’A postata, Contro i Galilei, pp. 165-166). Citazioni prese dalla Grande Antologia Filosofica, Milano, 1954, voi. I, pp. 772 e 783. (3) De Ebdom. PL 64, 1311 B.

sciuti i termini della proposizione, subito si vede la verità risultante dall’unione dei termini. Così coloro che conoscono il significato della parola Dio e quello della parola essere, devono ammettere necessa­ riamente l’esistenza di Dio. Dunque questa è per sè nota. Inoltre nel II lib. De Coelo et Mundo, Aristotele dice che tutti sono d’accordo nel dire che Dio è in cielo (4); ora non potrebbero essere d’accordo sul secondo punto, cioè che Dio è in cielo, se non fossero d’accordo sul primo punto, cioè che Dio esiste; se infatti non esistesse, ne seguirebbe che non sarebbe neppure in cielo, e se è in cielo, dunque esiste; ora è per sè noto ciò su cui tutti sono d’ac­ cordo, dunque l’esistenza di Dio è per sè nota (5). Vi sono tre modi, dice Alberto Magno, in cui può essere consi­ derata l’espressione per sè noto: jDitz parte del conoscente: una co­ gnizione o un’idea è per sè nota quando questa si trova nel cono­ scente, non come acquisita, ma come un abito estrinseco « per habitum extrinsecum »; è proprio così che l’esistenza di Dio è a noi per sè nota (6). Quantunque non faccia il nome del Damasceno, è però chiaro d ie Alberto Magno allude alla sua dottrina; « per habitum extrin­ secum » vuol significare che la cognizione dell’esistenza di Dio, o semplicemente l’idea di Dio, è abitualmente nel nostro spirito dove è stata inserita dalla natura o da Dio stesso che sono al di fuori dello stesso spirito, e ciò spiega la parola extrinsecum. L’idea, di Dio non è una cognizione acquisita dallo spirito, ma si trova in esso abitual­ mente grazie a una infusione da parte di un agente estrinseco: Dio o la natura (7). Questa idea di Dio non può essere che per sè nota. Ciò non impedisce però che vi possa essere una via per arrivare alla (4) Op. Omn. graece et lai., Parisiis, A.F. Didot, 1854, voi. Ili, 686, 45 ss.; Ili, 640, 14 ss.; Ili, 637, 50 ss.; Ili, 637, 6 ss. (5) Per questi tre argomenti vedi A lberto M agno, Sum. Theol., pars. I, tract. Ili, q. XVII.. (6) « Dicendum quod per se notum dicitur tribus modis. Primo quidem ex parte noscentis per se notum est, cujus notitia in noscente est per habitum extrinsecum non acquisita: et sic Deum esse per se notum est» . Op. ctt., tract. IH, q. XVII. (7) Alessandro ¿ ’H ales usa la medesima parola habitum di A lberto M agno e il medesimo concetto : « Dicendum quod est cognitlo de Deo dupliciter: cognitio actu, cognitio habitu. Cognitio de Deo in habitu naturciiter nobis impressa est, hoc est inest naturaliter nobis habitus imptessus, scil. primae veritatis in intellectu, quo potest conicele ipsum esse, ‘e t non potest ipsum igno­ rare anima rationalis ». Som. Theol., pars. I, q. III, m. I.

conoscenza dell’esistenza di Dio mediante la sola ragione (8). Al­ berto Magno vuol conciliare la conoscenza delFesistenza di Dio in­ fusa nel nostro spirito, con la conoscenza acquisita mediante lo sforzo della ragione. In questa conciliazione vediamo che Alberto Magno ammette una duplice via per arrivare a Dio: quella a priori e quella a posteriori. Altri seguiranno la sua traccia tra i quali Olivi (9). Ripetiamo, non è sicuro che Alberto Magno accetti l’argo­ mento di Anselmo, quantunque accetti una via a priori per la dimo­ strazione delFesistenza di Dio. Sembra piuttosto che A. Magno al­ luda alla dottrina del Damasceno, cioè alla inneità dell’idea delFesi­ stenza di Dio e non all’idea di Dio di Anseimo la quale spiega piut­ tosto Fessenzà divina dalla quale egli conclude la sua esistenza. L’idea innata di Dio del Damasceno non spiega la natura divina, mentre l’idea di Dio di Anseimo: Vessere d i cui non si può pensarne uno più grande, spiega in qualche modo Fessenzà divina e da questa conclude la sua esistenza (10). Da patte del conoscibile: è detto per sè noto quell’essere, per conoscere il quale non è necessario il confronto con un term ine medio, come si fa in ogni sillogismo, perchè per sè evidente (11). Que­ sto secondo modo è il principio di evidenza che è il più importante e il più efficace nella conoscenza della verità, la quale se non si vedesse, almeno nelle cose evidenti, allora potremmo dubitare anche della (8) « Sed ex hoc non sequltur, quin via possit haberi per rationem ad ostendendum ipsum ». Alb. Magno, op. cit., loc. cit.

(9) Op. cit., voi. Ili, p. 517 ss. (10) NelFargomento detto a simultaneo di S. Anselmo vi è un passaggio illogico dalTònfrni ideale a quello reale, non viene cioè rispettata la « suppositio » dei termini.

L’argomento : « Penso Dio come l’essere perfettissimo; ora tale essere in­ clude l’esistenza (se no non sarebbe perfettissimo); dunque Dio esiste », dove esistere è preso prima per esistenza ideale, poi per esistenza reale, rettificato, dovrebbe suonare così : « Penso Dio come l'essere perfettissimo; ora l’idea di essere perfettissimo include Videa di esistenza; quindi la mia idea di Dio in­ clude ridea di esistenza » (G. Berghin-Rosé , C.M., Elementi di Filosofia, voi. I, Logica, p. 41). (11) « Secundo dicitur per se notum ex parte noscibilis ad quod medium non habetur quod sit prius ipso per quod cognoscatur: et sic demonstiatio di­ citur ex per se notis. Sed non sequitur ex hoc, quin ex postexioribus quae sunt priora quoad nos via habeatur ad ipsa cognoscenda. ». Alb . Magno, op. cit.; traci. Ili, q. XVII.

nostra stessa esistenza, rinunciando alla conoscenza di qualsiasi ve­ rità (12). Ma Dio, come fa notare più avanti Alberto Magno, non è compreso in questo secondo modo degli esseri per sè noti o evi­ denti, perchè se vi fosse compreso, allora non vi sarebbe stato bi­ sogno di porsi la questione: « E' Dio per sè noto? >. L’evidenza non si dimostra, mentre Pesistenza di Dio, quantunque per sè nota sotto alcuni aspetti, esige una vera dimostrazione. S. Bonaventura dirà il contrario: l’esistenza di Dio non esige alcuna dimostrazióne poi­ ché Dio è presentissimo nel nostro spirito (13). Da parte della proposizione: una proposizione è per sè nota quando, conosciuti i suoi termini, risulta evidente la verità conte nuta in essa. Vi sono due specie di proposizioni per sè note: alcune per sè note a tutti, altre per sè note soltanto ai sapienti. Perciò Boézio distingue due specie di assiomi (14): quelli che appena intesi sono (12) A titolo di richiamo riferiamo il pensiero scolastico sulPevidenza di una verità. «Concetto di evidenza: Chiamiamo evidenza 9una speciale chiarezza ir­ radiante dairoggetto di pensiero e costringente -o almeno inducente all9assenso \ Specie di evidenza: L’evidenza di un oggetto di pensiero può essere,, per noi, di varie specie. a) « Evidentia veritatis » o « eoidentia credibilitatis ». La prima (detta anche: evidenza intrinseca) è quella di tutte quelle verità di cui raggiungiamo una conoscenza personale. Questa evidenza «proviene dalla verità in questione e manifesta veramente la connessione tra soggetto e predicato della proposi­ zione che l’enuncia». La seconda (detta pure: evidenza estrinseca) è quella di tutte le verità di cui non abbiamo conoscenza personale, ma che ammettiamo per attestazione altrui. Essa «proviene dall’evidenza della credibilità delFenunciato in questione e ne mostra la verità lasciandolo oscuro in se stesso ». E’ la base della fede in quella verità... Sono tu tt’e due una «lu ce» , ma sono diverse: una proviene dalla cosa stessa e la rende in se stessa chiara, l'altra proviene dalla credibilità e non fa che ripercuotersi sulla cosa lasciandola oscura. h) « Evidenza immediata » o « mediata ». La distinzione è basata. non sulla natura diversa dell’evidenza (come la precedente), ma sul modo in cui noi la conosciamo. L’evidenza mediata è quella che si giunge a vedere soltanto col ragiona­ mento; l’evidenza immediata è quella che si conosce senza ragionamento, ma per esperienza sensibile o per intuizione intellettuale ». G. Berghin -R o sé C.M., Elementi di Filosofia, voi. V, Critica, p. 61 ss. (13) S. Bonaventura, De Myst. Trinit., q. I, a r t I, conci. 10. (14) De Ebdom.: «Communis animi conoeptio est enuntiatio, quam quisque probat auditam. Harum duplex modus est: nani ita una communis est, ut omnium hominum sit, velut si hanc proponas: si duobus aequalibus aequalia

immediatamente compresi da tutti, come per es.: il tutto è maggiore della sua parte, difatti compreso il significato dei termini il tutto e la parte, senza alcuna difficoltà si accetta la verità della proposi­ zione, ed altri assiomi che sono per sè noti soltanto ai sapienti, peiv chè essi soli conoscono la relazione abituale dei termini della pro­ posizione, per es. le cose spirituali non occupano un luogo (15). Di questi tre modi di verità per sè note, conclude Alberto Magno, soltanto il primo e il terzo sono veri riguardo alla conoscenza dell’esistenza di Dio. Nel secondo modo, come abbiamo notato so­ pra, resistenza di Dio non è per sè nota, bisognerebbe che fosse evidente come la nostra stessa esistenza. Nel terzo modo per ciò che riguarda i sapienti, per questi, i quali conoscono il significato della parola Dio e della parola essere, Dìo è principio e sorgente dell’es­ sere (16). Da questo rapido esame della, dottrina di Alberto Magno sulla questione « Utrum Deum esse sit per se notum » risulta che per il vescovo di Ratisbona, Dio, considerato in se stesso come oggetto conoscibile direttamente dal nostro intelletto, non è per sè noto, ma lo è invece a noi « quoad ncs » perchè la conoscenza della sua esi­ stenza è un’idea non acquisita, ma infusa o inserita nel nostro spirito, da una causa estrinseca che può essere direttam ente Dio oppure la natura. Questa idea di Dio dimora abitualm ente nel nostro spirito, è come un abito spirituale non acquisito mediante la ripetizione di atti intellettuali, ma di provenienza estrinseca; «ex parte noscentìs auferas, quae relinquuntur aequalia esse; millus id intelligens neget. Alia vero est doctorum tantum, quae tamen ex talibus communis animi conceptionibus venit, ut est: quae incorporaiia sunt, in loco non esse, et coetera quae non vulgus, sed docti com probante. PL 64, 1311 B. (15) « Tertio modo per se nota dicitur propositio, quae ex tenninis in se positis, omnibus se manifestat quibus noti sunt termini: hoc §nim per doctri­ nan! non accipitur. E t haec duplex est. E st enim veruni per se in quod conve¿hint vel omnes vel sapientes. E t secundum hoc distingui Boetius duo genera dignitatum. Unum est quod digñitas est, quam quisque probat auditam, sicut totum majus sua parte esse. Notis enim tenninis propositiònis qui sunt totum et pars, quilibet statini acquiescit. Secundum est propositio, quam ex habitudine. terminorum probat quilibet sapiens, ut spiritualia sive incorporalia in loco non esse». A lb. Magno, op. c i t tract. IH , q. XVII. (16) «Primo ergo modo et tertio per se notum est Deum esse, secundo autem modo non est per se notum. Dico autem tertio modo quoad sapientes, quibus notum est quid Deus significet, et quid esse, et quod Deus secundo quod Deus est, principium et fons est esse ». Ibidem .

per se notimi est cujus notitia in noscente est per habitum extrinsecum non acquisita » (17). S. Tommaso non seguirà la via del suo maestro e dirà che nessuna idea di Dio è infusa ,nel nostro spirito e che Dio « quoad nos » non è per sè noto, mentre lo è « secundum se », considerato cioè in se stesso e per se stesso (18). Alberto Magno nella sua conclusione sarà seguito piuttosto da Olivi e Egidio Romano i quali, come vedremo più avanti, dopo aver distinto come Alberto tre modi di verità per sè note, concluderanno che l’esistenza di Dio è solo in qualche modo a noi per sè nota (19). 2. - Anche GUALTIERO di BRUGES (122S1307) (20) tratta della questione « Utrum Deum esse sit per se notum » non facen­ done però una questione distinta come S. Tommaso (21) ed altri filosofi e teologi del XIII sec., ma l’ha inserita in un’altra questione: « An Deum esse sit demonstrabile » (22). La questione che stiamo trattando è presentata presso Gualtiero di Bruges come un’obbiezione alla dim ostrabilità dell’esistenza di (17) Ibidem . ✓ (18) Sum. Theol., pais I, q. 2, art. 2. (19) « ...oportet nos ergo dicare, Deum esse, esse diquo modo per se notum, etiam quoad nos». E. Romano, Sent. Uh. I, d ist III, q. 1, a r t 2 respondeo. Cfr. A. D aniels, op. cit., p. 74. « Quoad nos autem est per se notum aliquo modo ». O livi, op. c i t vol. Ili, p. 526. (20) « Composé entre 1261 et 1265 le Commentaire sur les Sentences de Gauthier de Bruges représente avec l’oeuvre analogue de Jean Pecham et de Guillaume de la Mare le courant augustinien et franciscain à une date impor­ tante de son développem ent doctrinal. Il est aisé de retrouver dans oet ouvrage la trace profonde des thèses mises en honneur par Alexandre de Haies et Saint Bonaventure et l’une des premières réations de l’augustinisme contre Paristotelisme. De Gauthier de Bruges à Duns Scot circule aussi un même courant affectif et volontariste, ce que l’historien des idées franciscaines ne peut s’empêcher d'observer à just$ titre ». Cfr. E. L ongphé, Questions Inédites du Commentaire sur les Sentences de Gauthier de Bruges, in Arch♦ tiist. Doctr. et Litt. du M. Age, septième année 1932, Paris, J. Vrin, 1933, p. 252. Dovendoci servire di questa edizione pubblicata in questa rivista, ne indi­ cheremo il titolo con le iniziali A.H.D. Cfr. anche E. L ongfré, Le Commentaire sur les Sentences du B . Gauthier de Bruges (1225-1307) in Etudes d’histoire littéraire et doctrinale du XIII siècle (Publications de VInstitut d’Etudes Médiévale d’Ottawa II) Ottawa et Paris, 1932, pp. 5-24. (21) Sent. Uh. I, dist. III, q. 1, art. 2; De Verit., q. X, art. 12; Sum. Theol., pars I, q. 2, art. 1. (22) A.H.D., p. 259.

Dio. Se una cosa è per se nota non vi è alcun bisogno che sia dimo­ strata, perchè evidente per se stessa; ora Dio è per sè noto, dunque non esige ima dimostrazione. « Nullum per se notum est demonstrabile, sed potius est principium demonstrandi alia, ut habetur I Posteriorum (23); sed Deum esse est per se notum, cum sit naturae insertum cognoscere Deum esse, ut habetur a Damasceno II (24), 2 et 3 » (25). Più avanti Gualtiero di Bruges spiega in che modo resistenza di Dio è per sè nota e quindi non dimostrabile come un principio per sè note/, ma è dimostrabile per coloro che hanno corrotto e distrutto l’idea innata di Dio nel proprio spirito (26). Dio è per sè noto perchè, dice Gualtiero di Bruges, la verità, la bontà e le altre proprietà trascendentali dell’essere evidentemente, sebbene non distintamente, notificano Dio. Così va intesa la pro­ posizione del Damasceno il quale sostiene che l’idea di Dio è im­ pressa nel nostro spirito: « insitum nobis a natura èst, u t Deum esse noscamus* (27). E poiché l’idea di Dio è insita nel nostro spirito, Dio è per sè noto e quindi non dimostrabile. E’ invece da dimo­ strarsi l’esistenza di Dio a colore che per la loro malizia hanno otte­ nebrato, corrotto e distrutto l’idea di Dio (28). Non coloro quindi che si sono conservati buoni hanno bisogno della dimostrazione del­ l’esistenza di Dio, ma coloro che hanno preferito le tenebre alla luce, questi hanno bisogno di luce divina. In risposta all’obbiezione: l’esistenza di Dio non è dimostrabile essendo per sè nota, Gualtiero di Bruges dice che se è vero che (23) Arist ., 7 Post., c. 2, text. 11, I, fol. 131 c; c. 3, text 22, I, fol. 134 d; c. 9, text. 76, I, fol. 152 a. (24) De Fide Ortod., c. 3. PG 94, 794. (25) A.H.D., p. 259. (26) A.H.D., p. 264. (27) De Fide Ortod., I, c. III. PG 94, 794. « Non nos tamen in omnigena prorsus ignorantia veisaii passus est Deus. Nemo quippe mortalium est, cui non hoc ab eo naturaliter insitum sit, u t Deum esse cognoscat. Quin ipsae res conditae, earum conservano et gubematio, divinae naturae praedicant majestatem ». (28) « Quoniam vero satanae improbitas tantum adversus hominum naturato valuit, u t et quosdam in stolidissimam, et quovis malo pejoiem exitil voiaginem detruxerit, ita ut Deum esse negarent (quorum insipientiam divinorum verborum interpres David palam faciens alt: Dixit insipiens in corde suo: non est Deus) eam ob causam discipuli Domini et apostoli, a Spiritu Sancto eruditi, divinis ejus potentia et gratia editis prodigiis, miraculorum sagena eos ex ignorantiae gurgite extractos, ad cognitionis Dei lumen provexerunt ». De Fide Ortod., I, c. III. PG 94, 794.

Dio non è dimostrabile essendo per sè noto, è però altrettanto vero che Dio è nel medesimo tempo dimostrabile, perchè essendo Lui la Prima Causa di tutti quanti gli esseri, come Prima Causa è meno evidente dei suoi effetti, difatti spesso accade che la causa è na­ scosta, m entre l’effetto è visibile (29). Come S. Tommaso, Gualtiero di Bruges parla di due modi in cui una proposizione può dirsi per sè nota: o considerata soltanto in se stessa, e allora ima proposizione è per sè nota se quasi tu tta la ragione o natura del predicato è inclusa in quella del soggetto, come sarebbe la proposizione: l’uomo è un animale; oppure con­ siderata in sè stessa e in relazione a noi « secundum se et quoad nos ». In questo secondo modo una proposizione è per sè nota quando, conosciuti i termini della proposizione, immediatamente vediamo in esso un principio per sè noto. E poiché spesso non tutti possono co­ noscere il significato dei termini, allora la proposizione, quantunque in se stessa per sè nota, tuttavia è tale soltanto ai sapienti (30). Secondo il primo modo, cioè considerata soltanto in se stessa, la proposizione c Dio è » è una proposizione per sè nota perchè tuttà la ragione o natura del predicato, espressa col verbo essere, si trova nel soggetto, Dio (31); così viene spiegata la frase biblica: ” Ego sum qui sum ” (32). Per Gualtiero di Bruges non vi è nessuna distinzione reale fra l’essenza e l’esistenza divina. Secondo invece l’altro modo, considerata cioè < secundum se et quoad nos », la proposizione « Dio è » non è per sè nota a colui il quale non conosce le ragioni dei termini, non conosce cioè che cosa s’intende con la parola Dio e con la parola essere o esistere. Ad un tale ignorante si può dimostrare resistenza di Dìo spiegandogli i (29) « ... patet responsio, quia ea via qua Demi) esse est per se notimi non est demonstrabile, sed in quantiun est minus manifestimi quaxn effectus: contingit enim in multis causam latere ed effectum appaieie ». A.H.D., p. 265. (SO) « ...P e r se liotum est duplex: aliquo modo per se tantum, scil. quasi tota ratio pmedicati includitur in subjecto, ut homo est animai, vel quando nos cognoscimus rationes tenninorum, quibus cognitis statini cognoscimus id tamquanti principium per se notum, et quia oontingit aliquos rationes terminorum non cognoscere, oontingit quod id quod secundum se notum, non est illis notum per se. Piopter quod dicit Boetius, libro De Ebdomadibus, quod quaedam sunt communes animi oonoeptiones, quae sunt per se tantum notae apud sapientes ». Ìbidem . (31) « Primo modo Deum esse est per se notum, quia tota ratio praedicati, sd ì. esse, includitur in subjecto vel sub subjecto». Ibidem . (32) Esodo, 3, 14.

termini della proposizione « Dio è », oppure aiutandolo a risalire dagli effetti più noti alla lóro causa non evidente (33). Così Gualtiero di Bruges oltre la prova a priori, per la dimo­ strazione dell’esistenza di Dio (sappiamo infatti che, come Ales­ sandro di Haies e S. Bonaventura, era un fautore delFargomento on­ tologico) accetta pure l’argomentazione a posteriori, per la via della causalità (34). Per Gualtiero di Bruges la conoscenza di Dio è innata nel nostro spirito (35), ma le creature pure possono essere un mezzo per salire a Dio, poiché esse portano le tracce divine, seguendo le quali si giunge necessariamente all’Essere Supremo (36). « L’existence de Dieu — dice il P. S. Belmond — est sûrement, dans la pensée du maitre flamand, ime évidence de première intuition, fondée sur l’objectivité du concept. Elle constitue, au sens cartésien, une sorte de per se notant » (37). 3. - Le prime questioni del Commento alle Sentenze di EGIDIO ROMANO (1243-1316) sono del 1276-1277 (38). Questa data vuole giustificare la ragione per cui tra gli autori del sec. XIII, per la que(33) « Secundo modo non est per se notimi, scil. ille qui nesdt rationes terminorum, Deus et esse, et ideo tali potest demonstran per rationes tenninorom, aut per ejus effectus, qui sunt quaedam rationes quae sunt manifestativae suae causae, quia hujusmodi effectus primae causae sunt incognoscibiles secundum naturam quoad nos, qui immensitatem divinae lucís omnium manifestativae adhuc non possumus sustinere ». A.H.D., p. 265. (34) A.H.D., p. 263. (35) « Species subjecti cognoscentis quaedam est innata, quaedam impressa, quaedam abstracta, quaedam accepta. Prima cognoscitur Deus esse; cum enixn nobis inserta sit naturaliter cognitio existendi Deum, ut dicit Damascenus, I libro, 24, et omnis cognitio per similitudinem aliquam ejus quod cognoscitur habeat fieri, quae similitudo non est aliud quam quaedam species ejusdem, sequitur quod nobis sit inserta et innata naturaliter species cognoscendi Deum esse». 7 Sent., dist. I ll: An Trinitas possit cognosci per creaturas. Cfr. Etudes cPHistaire liti, et doctr. du XIII siècle, Paris-Ottawa 1932; Le Commentaire sur les Sentences du B . Gauthier de Bruges, par E. L ongpbé , p. 20, nota 2 . (36) I Sent., dist. Ill : « Circa secundum principale quaeritur an omnis creatura sit vestigium creatoris quo cognosci potest ». Op. cit, p. 19, nota 2. (37) La preuve dexistence en théodicée d'après Gauthier de Bruges, in Hiv. di filosofia neoscolastica, Milano, 1933, p. 414. (38) M andonnet, La carrière scolaire de Gilles de Rome, in Rev. Scoi. Phil, et Thecl. anc. et médiév.> 1910, p. 480 ss.; H ocedez , Richard de Middleton, Lou­ vain-Paris, 1925, p. 461 ss.; La condamnation de Gilles de Rome, Rech. Theol.

stione che stiamo trattando, abbiamo inserito anche Egidio Romano, il quale è morto nei primi anni del sec. XIV,. Egidio Romano nel suo Commento alle Sentenze Lib. I, dist. Ili, q. 1, art. 2, dopo aver accennato cinque argomenti che per lui hanno la pretenzione di voler provare che resistenza di Dio non è per sè nota, oppone a quei cinque due argomenti dei quali il primo è Targomento ontologico cui egli aderisce pienamente (39). Nel secondo ar­ gomento egli asserisce che ima proposizione è per sè nota quando il predicato è contenuto intrinsecamente nella natura ossia nella pro­ prietà essenziale del soggetto; ora a Dio spetta necessariamente resi­ stenza come dimostra Agostino nel V libro De Trinit., cap. II (40); dun­ que la proposizione « Dio è * è per sè nota (41). Nel « respondeo », dopo aver esposta la dottrina di altri autori, critica la loro posizione ed espone quindi la sua opinione. Alcuni — riporta Egidio — fanno ima duplice distinzione quando vogliono spiegare in che modo Dio è per sè noto. Dicono: « in se » Dio è per sè noto, perchè la sua esistenza è contenuta nella sua es­ senza, essendo Dio lo stesso essere sussistente, ma se consideriamo resistenza di Dio in quanto è conoscibile dalla nostra intelligenza « in comparatione ad nos », allora un’altra distinzione si impone: o Dio è per sè noto nella sua immagine ossia nèll’orma divina che vediamo nelle creature, e in cotesto caso Dio è per sè noto perchè tutto quello che noi conosciamo ha ima certa somiglianza e partecipazione alla divina verità, oppure Dio è a noi per sè noto nella sua stessa quid­ dità. In questo* secondo caso, Dio non è affatto a noi per sè noto, perchè non conoscendo l’essenza divina non possiamo nemmeno co­ noscere la sua esistenza. Inoltre una proposizione è per sè nota se la ragione del predicato è contenuta nel soggetto, perciò, allorché co­ nosciamo il soggetto nella sua quiddità, immediatamente aderiamo alla arie, et médiév., IV, 1932, p. 34 ss.; Aegidii Romani Impugnano doctrinae Tetri Johannis Olivi a. 1311-1312, Arch. Frane. Hist., XXVII, 1934, p. 405. (39) « In contrarium est, quia secundum Anselmum Deus est quo majus cogitali non potest; sed, si posset cogitali non esse, aliquid esset majus eo, quia illud non posset cogitali non ¿sse: non ergo potest cogitali non esse ut ostendit Anselmus ibidem scil. Proslog. cap. Ili; sed hoc est esse per se notum, cujus con­ trarium cogitari non potest; ergo etc. ». E. Romano, Sent. lib. 7, dist. Ili, q. 1, art. 2. - Ci serviamo dell’edizione fatta da A. D aniels, il quale migliora la vec­ chia edizione. Cfr. A. D aniels, op. cit.f p. 72 ss. (40) PL‘ 42, 912. (41) A. D aniels, op. cit.t p. 73.

proposizione. Vi sono dei principi che sono per sè noti a tutti, e ve ne sono altri che sono per sè noti soltanto ai sapienti, come distingue Boezio nel libro De Ebdomadibus (42). Se i term ini della proposizione sono noti a ognuno, come per es. il tutto e la parte, allora si formano nella nostra mente concetti comuni a tutti, ma se i termini della pro­ posizione non sono noti a tutti bensì soltanto ai sapienti, allora si ha un concetto, per sè noto soltanto a questi come per es. la proposizione: le cose spirituali non occupano un luogo. Se dunque l’esistenza di Dio fosse a noi tutti per sè nota, allora, o ciascuno di noi conosce­ rebbe ressenzà divina « quid Deus est », o almeno potrebbero cono­ scerla i sapienti; ma poiché nessuno in questa vita conosce l’essenza divina, a nessuno dimque resistenza di Dio è per sè nota, lo è sol­ tanto per i beati i quali contemplano l’essenza divina. « Sed ista positio non est bona » : questa argomentazione, sog­ giunge Egidio, non regge; difatti, potendo noi comprendere fin da questa vita che l’esistenza di Dio è Dio stesso e che l’esistenza di Dio è inclusa nella sua essenza, fin da questa vita possiamo com­ prendere che nessuno può pensare a Dio senza pensare allo stesso essere sussistente. Negli altri esseri, l’esistenza è distinta dall’essenza, m entre nel Primo Essere l’essenza non è distinta dall’esistenza; dun­ que soltanto il Primo Esseré non può essere pensato come non esi­ stente. E poiché ciò che non può essere pensato non esistente, è un essere per sè noto, bisogna dunque ammettere che l’esistenza di Dio, Primo Essere, è in qualche modo per sè nota anche a noi « quoad nos ». Se i nostri oppositori, continua Egidio, dicessero che in cotesto caso conosceremmo allora l’essenza di Dio, ossia il quid esty biso­ gnerebbe far loro notare l’equivoco tra il quod est e il quid est ossia tra l’espressione che cosa è Dio e chi è Dio; difatti , non è necessario sapere di Dio che cosa Egli è, ma chi è « nani non oportet scire de Deo quid rei sed quid nomtìnis ». Per questo Aristotele, nel IVI lib. della Metafisica (43), disputando contro i negatori dei primi principi, asserisce che il miglior modo di procedere contro tali indi-

(42) «• Communis animi conceptio est enuntiatio, quam quisque probat auditam. Harum duplex modus est: nam ita una communis est ut omnium hominum sit... alia vero est doctorum tantum ». PL 64, 1311 B. (43) « Unde et Philosophus quarto Metaphysicae, ubi disputât contra negan­ tes principia, ait, quod modus optimus procedendi contra tales est in videndo quid signifìcant nomina». A. D aniels, p. 74; cfr. Arist ., Metaph. IV (III), 1006 a 18-22.

vidui è quello di mettersi prima d’accordo sul significato dei nomi o dei termini. Sebbene di Dio non possiamo conoscere che cosa realmente sia, il quid rei, possiamo tuttavia conoscere chi è, il quid noìmnis, colui che vogliamo indicare col nome di Dio. Conosciuto che Dio è lo stesso essere sussistente; poiché è l’essere di cui non si può pensare uno più grande « quo majus cogitali non potest », immediatamente, « statim », conosciamo la sua stessa esistenza, la quale è quindi per sé nota. Che gli esseri spirituali non occupano im luogo, "è per sé noto ai sapenti, tuttavia essi non possono positivamente vedere la quid­ dità e l’essenza degli esseri spirituali, sebbene in qualche modo pos­ sano sapere chi sono questi esseri spirituali o incorporali (44). Dopo aver criticato la posizione di coloro i quali sostenevano la non evidenza dell’esistenza di Dio, Egidio passa a precisare in che modo una proposizione può essere per sé nota. Vi sono tre modi: 11 primo modo è quello in cui il predicato è contenuto nella natura del soggetto, secondo la dottrina di Aristotele (45) il quale dice che conosciamo i principi in quanto conosciamo i termini: ciò si verifica nella proposizione < Dio è » poiché l’esistenza di Dio, come abbiamo già detto, è naturalmente inclusa nella stessa essenza di Dio. Un secondo modo si ha quando ima proposizione non può essere negata direttamente, come insegna ancora Aristotele (46) il quale condannava Eraclito perchè negava il principio di contrad­ dizione; Eraclito però non negava quel principio direttamente, ma solo indirettam ente, poiché, credendo che tutte le cose fossero in un continuo cambiamento, pensava che un giudizio, appena espresso, non corrispondesse più alla realtà, essendo questa già cambiata; non vedeva cioè la stabilità degli esseri nella loro esistenza. Cosi nessuno può negare l’esistenza di Dio direttamente, ma solo indirettamente; gli atei la negano perché non comprendono ciò che significa la parola Dio. Perciò S. Anseimo nel Proslogio (47), dice che colui il quale pronuncia la proposizione « Dio non esiste », anche (44) E. Romano, in A. D aniels, pp. 73-74. Gli interi testi latini sono ripor­ tati più avanti quando viene fatto il confronto tra Egidio Romano e Nicola Occam. La maggior parte dei testi latini si troveranno allóra: ciò per evitare un’inutile ripetizione di testi. (45) Ahist., I Poster., 72 b 23-25. (46) Aiust ., Metaph., IV (III) 1012 a 24-25. (47) Proslog., cap. IV.

se la pronuncia con convinzione « in corde », non può annetterci nessun significato, oppure glie ne attribuisce uno completamente er­ roneo ed inesatto. L’esistenza di Dio, dunque, non può essere negata direttam ente. Nè $i obietti che Anseimo parla della cognizione del­ l’essenza di Dio, la quale è possibile soltanto in paradiso dove Dio è evidente ai beati, poiché Anseimo stesso dice che egli non può ca­ pire che Dio non esista. Un terzo modo per cui una proposizione è per sè nota si ha quando, appena enunciata, immediatamente consta­ tiamo la sua verità (48). Ciò non può accadere se non presupposta la conoscenza dei termini della proposizione stessa; perciò chiunque sa che cosa si vuol significare con la parola Dio, immediatamente comprende la proposizione « Dio è » o « Dio esiste » (49). Concludendo, Egidio sostiene che per sciogliere tutte le diffi­ coltà circa la questione « Utrum Deum esse sit per se notum », basta la distinzione fatta da Boezio nel lib. De Ebdomàdibus (50), il quale, come abbiamo veduto, distingue due sorta di principi o concetti comuni dei quali alcuni sono comuni a tutti, altri comuni soltanto ai sapienti. La proposizione « Dio è », è un concetto comune non a tutti, ma solo ai sapienti, i quali possono comprendere il significato della parola Dio; dai sapienti dunque non può essere concepita la non esistenza di Dio. Quindi Anseimo, domandandosi come mai l’in­ sipiente ha potuto dire « Dio non è », quando è talmente visibile alla mente che Dio è il sommo essere, conclude che una simile in­ sipienza non poteva essere detta se non da un insipiente (51). Dunque, per Egidio Romano, l’esistenza di Dio è per sè nota non a tutti, ma solo ai sapienti (52). 4. - Circa la questione « An. Deum esse sit per se notum », alla dottrina di Egidio Romano è sostanzialmente identica quella di (48) Cfr. Boezio, De Ebdom. (49) A. D aniels, pp. 74-75.

PL 64, 1311 B.

(50) PL 64, 1311 B. (51) «C ur itaque dixit insipiens in corde suo non est Deus cum tam in promptu sit rationali menti Deum maximum omnium esse. Cur, quia stultus et insipiens ». Proslog., cap. III. (52) A. D aniels, p. 75. - Anche Siceri di Bbabante dimostra che Dio è per sè noto ai sapienti partendo dal concetto di causa. « ...sequitur tertium, quod Deum esse sapientibus sit per se notum, quia illud quod est causans tan­ tum non causatimi, non dependens in esse suo ex allquo sicut ex causa, oportet quod ex ratione sua habeat esse, non ex aliquo alio, ita quod est res quae de sui ratione est esse. Nunc autem per se nota sunt principia quae cognoscuntur

NICOLA OCCAM (53). Confrontando bene i due autori si può be­ nissimo costatare che con tutta probabilità, diremmo quasi con cer­ tezza, Nicola Occam dipende da Egidio. Ciò è probabile perchè, come cognitione terminorum, eo quod praedicatum sit de ratione subjecti. Ed ideo sapientibus quibus nota est ratio subiecti hujus propositionis : « Deus est » cum ex sua ratione sit, non ex aliquo alio, per se nota est, non ex aliquo alio; ita quod Deum esse quaestionem non habet quia causam non habet. Quaestiones enim aequales numero sünt scitis. Non est autem hoc scibile, sed notum per se sapientibus ». Cfr. Impossibilia Sigerii de Brabantia, ed. Clemens Boeumker in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters », band II, heft VI, Münster 1898, p. 4. Uh secolo e mezzo più tardi di Egidio Romano, D ionisio C artusiano , trat­ tando la medesima questione « An Deum esse sit per se notum », approva Fargomento anselmiano aderendo alla dottrina del sullodato autore il quale secondo Dionisio si discosta dalla dottrina di S. Tommaso non sostanzialmente ma verbal­ mente. Dionisio Cartusiano si dice seguace di S. Bonaventura per ciò che ri­ guarda il valore dell’argomento anselmiano. Ecco Con quali termini conclude la sua questione : « Itaque finem huic quaestioni imponendo, sciendum quod tempore S. Anselmi, quidam vir doctus scripsit contra probationem Anselmr qua probavit Deum esse ex hoc quod Deus est id quo magis cogitari non potest, et tale ens tam necesse est esse ut cogitari non possit non esse. E t scriptum viri illius vocatur: responsio pro insipiente, qui scil. dixit in corde suo: non est Deus. Anselmus quoque adhuc vivens in corpore, respondit viri illius objectioni. Venmtameu, sicut Gersou, in quodam ait tractatu, discursus Anseimi est leverà sophisticus, nec tenet in omnibus. Unde et vir ille sic arguit contra Ansehnum: narratur de quadam terra pulcherrima. É t quantum conjicere valeo, vir ille recitat hoc de illa quae est quasi alter (ut fertur) paradisus: de qua in itinerario et historia S. Brandani havetur. De qua vir ille sic arguit: vocetur terra illa A, arguaturque ita: A est pulcherrima terra, ergo hujusmodi terra est. Sic in simili: Deus est id quo majus cogitali non valet, ergo hujusmodi ens e st E t addit vir ille: nescio quis insipientior sit, an is qui putat hoc sequi, an insipiens qui dixit in corde suo: non est Deus. Hinc praeinducta resolvendo, videtur positio Aegidii (si tratta di Egidio Romano) non discordare a $. Thoma nisi in verbis. Non enim Thomas negare intendit quin propositio ista Deus est, sit sapientibus per se nota quemadmodum ista incorporalia non simt in loco. Nihilo minus in hac re potius consentio praetactae responsioni Bonaventurae. Et dico cum Alexandro, quod discursus An­ selm i tenet duntaxat de Deo; et quod ipse sit purissimum, prorsus perfectum et actualissimum esse: quod cogitari non potest non esse ab eo qui nominis signifìcationem intelligit, secuudum quod Bonaventura demonstrat ». Cfr. D. C ahtustan., Commentario in TV libros Sentente Fidei Catholicae> lib. J, dist. Ili, q. 2, ex ed. Coloniensi, 1535. (53) Sulla vita e la persona di Nicola Occam possediamo scarse notizie. Quelle poche che sappiamo si possono ritrovare in Oxford Theology and Theologians c. A.D. 1282-1302, by A.G. L ittle and F. P elster , Oxford, 1934, da cui prendiamo i seguenti dati. « Nicholas of Ocham was 16th lector of thè Friars

abbiamo notato sopra (54), Egidio scrisse il commento al I libro delle Sentenze nel 1276-77, mentre Nicola Occam commentava il libro delle Sentenze a Oxford nel 1282, Le date direbbero poco se la no­ stra opinione non fosse confermata dal pensiero identico dei due autori, è poi dal fatto che in Nicola Occam* si trovano espressioni uguali, o quasi, a quelle usate da Egidio. Poiché, come abbiamo detto, la dottrina dei due autori è identica, ci dispensiamo naturalmente dal fam e una seconda esposizione. Vogliamo invece fare un para­ gone tra alcune espressioni di Egidio e di N. Occam, che confermano la nostra opinione. Ambedue impostano la questione col medesimo schema: E. ROMANO

N. OCCAM

Secundo quaeritur utrum Deus esse sii per se notum. Videtur quod non.,. In contrarium... Respondeo (55).

Quaeritur secundo an Deum esse sii per se notum. Videtur quod non... Contra. Respondeo (56).

E. Romano tra gli argomenti che porta contro il « per se no­ tum », cioè contro l’evidenza dell’esistenza di Dio, fa menzione del­ l’argomento dell’insipiente. Lo stesso fa N. Occam*: Praeterea, quod est per se notum, si negatur ore, corde non négatur; sed dicitur in Psalmo: dixit insipiens... (57).

Item, per se notum etsi possit negali ore non tamen corde; sed insipiens negat corde Deum esse in Psalmo (58).

Minor at Oxford and incepted in 1286, receiving on this occasion a grant of 42s from Merton College. His questions or commentaries on the Sentences, re­ presenting lectures given at Oxford c. 1282 are preserved in the following MSS. Roma, Vat. Ottoboni 623; on the four books. Florence, Bibl. Naz. Conv. Sopp. G. 5, 858; on books I, II, and III (one extrat from this, Lib. I, dist. Ill, q. 2 an Deum esse sit per se notum, is printed by A. Daniels, Gottesbeweise (1909), pp. 82-83. Oxford, Merton College 134 (anon.); on the four books incom­ plete. Cambridge, Caius College 319, Scruptim Nicolai super 2 et 3 Sententiarum. W hether Fratris Nicholai Minoris replicationes in Paris, Bibliot. Nat. 14565, belong to Nicholas of Ocham is not sure. Leland (De Script. Bit., p. 325) ascribes him a Work De Verbo on the authority of the Catalogus eruditorum Franciscanonim ». (54) p. 25. (55) A. D aniels, pp. 72-73. (56) Sent, lib. I, dist III, q. 2. Cfr. A. D aniels, op. cit., p. 82. Per il nostro lavoro ci serviamo dell’edizione di questo Autore. (57) A. D aniels , pp. 73-74. (58) I d., p. 82.

La frase non è uguale, ma il significato è il medesimo. N. Occam non fa la citazione esplicita del salmo come non la fa Egidio, di più omette di riferire le parole esatte dei salmo come invece fa Egidio. N. Occam inoltre osserva che soltanto un insipiente può ne­ gare resistenza di Dio. La medesima ossérvazione, con la stessa cita­ zione di Anseimo, è fatta da E. Romano: E. ROMANO

N. OCCAM

Unde Anselmus Proslog. c. I li ait: Cur itaque dixit... Cur quia stultus et insipiens (59).

Unde Anselmus Proslog. Ili «Cur » inquit «dixit... et respondet quia stultus e t insipiens est (60).

Egidio come principale argomento « in contrarimi) », cioè in opposizione agli argomenti che negano l’evidenza dell’esistenza di Dio, porta l’argomento di S. Anseimo. Lo stesso argomento è ripor­ tato da N. Occam come unico argomento « contra » : Quia secundum Anselmum Deus est quo majus cogitari non potest, sed, si posset cogitari non esse, aliquid esset majus eo, quia illud non posset cogitari non esse ut ostendit Anselmus ibidem scilicet Proslog. cap. Ill; sed hoc est esse per se notum cujus contrarium co­ gitari non potest: ergo etc. (61).

Anselmus Proslog. probat non posse intelligere Deum non esse. E t arguit sic: Deus est quo magis vel majus excogitari non potest; sed si contingent in­ telligere Deum non esse, esset intelligere aliquid majus, scil. aliquid quod non contingent intelligere non esse; sed tale non posset esse nisi Deus: Ergo etc. (62).

Nel Respondeo si notano ancora più somiglianze. Tutti e due cominciano ad esporre la dottrina di alcuni dottori, senza nominarli, sul modo come va intesa una cosa od ùna proposizione per sè nota, applicando questa dottrina a Dio e alla proposizione « Dio è ». Dicendum quod aliqui distinguunt hoc quod est esse per se notum, quia dupliciter potest hoc intelligi: vel in se, et tunc Deum esse, est per se notum, quia esse maxime est de ratione Dei cum sit ipsum esse; sed si loquamur in (59) (60) (61) (62)

A. D aniels, p. 75, sol. opp. In., p. 82. In., p. 73. In., p. 82.

Quod quidam distinguunt sic esse per se notum dupliciter: vel absolute, et sic Deum esse est per se notum sibi ipsi vel angelis, quia Deus est ipsum esse secundum Augustinum V De Trinit., cap. Il, vel in comparatione ad nos, et hoc du-

E. ROMANO

N. OCCAM

comparatione ad nos, iterum distinguunt: quia hoc vel erit in suo simili; et tune Deum esse est per se notum, quia quidquid cognostimus est quaedam similitudo et quaedam particlpàtio divinae veritatis; in se tarnen Deum esse quoad nos non est per se notum (63).

pliciter: vel in suo simili, et sic per se notum est, quia quidquid cognoscimus est quaedam similitudo Dei et quaedam participatio divinae veritatis, ut ostend it Anselmus Proslog. XIV; vel in se quoad nos, sic non est per se no­ tum (64).

Tutti e due concludono riportando la dottrina degli altri: vel omnis sciret quid est Deus, vei saitem sapientes hoc scirent (65).

et tune omnes vel saltem sapientes sciebant qui esset Deus quod falsum est (66).

E. Romano e N. Occam non condividono l’opinione di coloro che negano l’evidenza di Dio « quoad nos ». Il pensiero di N. Occam, sostanzialmente identico a quello di Egidio, nel testo che riportiamo, sebbene non verbalmente, ma nella sostanza, mostra bene la dottrina di Egidio. Sed ista positio non èst bona, nam cum in via possimus hoc videro, quod esse Dei est ipse Deus, et quod esse Dei includitur in quidditate Dei, in via possumus hoc scire, quod nullus cogi­ tai Deum, nisi cogitet ipsum esse... Et quod ipsi dicunt, quod tunc de Deo sciremus, quid est, aequivocant in eo quod est, quid est; nam non oportet scire de Deo quid rei sed quid nominis... licet de Deo non possumus scire quid rei, possumus tamen scire quid est quod dicitur per nomen; et hoc sci­ to: quia est ipsum esse, quia est aliquid quo majus cogitali non potest et hujusmodi, statim intelligimus ipsum

Sed contra hoc (67) est demonstratio Anseimi, qui ostendit Deum non esse non posse cogitar!. Et Damascenus dicit lib. I, cap. I quod cognitio de Deo naturaliter est uobis inserta. Item, per rationemi illud èst per se notum ubi in ratione subjecti clauditur praedicatum; sed ad evitandam infìnitatem. 'per natu­ ralem rationem necesse est inveniie aliquid a quo esse ejus sit omnino indifferens, et tale non potest cogitali non esse, et hujusmodi non est nisi Deus. Item ratio eorum (68) non valet quia sufficit cognoscere quid significatur per nomen de Deo, licet non quid sit se­ cundum naturam et essentiam; e t hoc

(63) A. D aniels, p. 73. (64) (65) (66) (67) è per sè (68)

In., p. 83. In., p. 74. In., p. 83. Contro la dottrina, cioè, di coloro che sostenevano che Dio in se non noto a noi, « quoad nos ». Sono sempre coloro che negano l’evidenza dell’esistenza di Dio.

E. ROMANO

N. OCCAM

esse, piopter quod est per se nottua... Notandum autem quod tria dicuntur de propositione per se nota quae verificantur de ista propositione Deus est: primum est quia praedicatum debet es­ se de ratione subjecti... Secundo, est aliquid per se notum quia directe negari non potest... Ita etiam nullus directe negat Deum esse et, si hoc negat, est indirecte quia non apprehendit quid est quod dicitur per hoc nomen Deus Anselmus Proslog. cap. IV quod haec verba, scilicet: Deus non est, dicere po­ test aliquis in corde aut sine olla signifìcatione aut cum aliqua estranea significatione : igitur directe Deum esse negare non possumus (70).

possumus facete in via. Dicitur ergo quod Deum esse est per se notum simpliciter oognitis terminisi tum quia praedicatum est de intellectu subjecti, tum quia esse ejus est omnino indifferens (69) ab ipso, tum quia directe ne­ gari non potest, licet indirecte nega­ ta ... Unde scito, quod significata per hoc nomen Deus, impossibile est Deum esse negari, ignorato tamen potest. Un­ de Anselmus Proslog. IV haec verba, scilicet, Deus non est, dicere potest ali­ quis in corde sine ulla signification© aut cum aliqua significartene: ergo directe Deum esse negare non possumus (71).

Se non è sfuggita al lettore la parentela di pensiero, e spesso di espressioni, che esiste tra i due autori possiamo concludere che molto probabilmente N. Occam ha conosciuto E. Romano al quale si è ispirato (72). 5. - Quantunque non si sappia esattamente Tanno in cui AGO­ STINO d’ANCONA, detto dal suo vero nome di famiglia AGO­ STINO TRIONFO (1243-1328) abbia scritto il suo Commento ai quattro libri delle Sentenze, tuttavia possiamo inserire fra gli autori del sec. XIII anche questo, poiché dice J. Rivière che « après avoir étudié à Funiversité de Paris, où il fut Felève de Saint Thomas d’Aquin et le condisciple de Gilles de Rome, il y devint m aître à (69) (70) (71) (72)

Non differente, cioè uguale. A. D aniels , pp . 74-75. /d ., pp. 82-83. Anche J ean P aulus , nel suo articolo « Henri de Gand et Vargument ontologique », dopo aver riferito il pensiero di Egidio con le sue stesse parole, circa la sufficiente conoscenza del significato del nome di Dio e non la cono­ scenza adeguata dell’essenza o quiddità divina, perchè ¡’esistenza ne sia per sè nota, conclude : « Même théorie chez Nicolas Occam qui s’inspire visiblement de Gilles; au contraire Guillaume de W are critique l’opinion de Gilles, puis celle d’Henri, pour adopter finalement, après quelques distinctions supplémen­ taires, une position voisine de celle du docteur gantois. Tous ces auteurs s’accor­ dent quant au fond, et ne diffèrent d’avis que touchant la définition précise du per se notum ». Cfr. A.H.D., t. X, 1935-1936, p. 307, nota 2.

son tour. Il y lisait encore les Sentences en 1300. Analecta Aug., t. Ili, p. 15 » (73). Ciò fa supporre che anche se ha cominciato nell’anno 1300 a leggere le Sentenze all’Università di Parigi, difatti ci assicura il P. Ugo Mariani « che nel 1300 egli (Agostino) non era ancora mae­ stro in Sacra Teologia, perchè nel Capitolo Generale tenuto in quel­ l’anno a Napoli dagli Agostiniani si stabilì che egli si recasse a Parigi per leggervi le Sentenze » (74), il suo Commento a queste doveva essere stato preparato almeno negli ultimissimi anni del se­ colo XIII. Il P. Glorieux (75) ci dice che nell’anno 1303-1304 era sempre a Parigi e vi leggeva le Sentenze. A noi bastano questi dati per permetterci di considerare a no­ stro scopo anche Agostino Trionfo come uno dei tanti commentatori delle Sentenze del sec. XIII essendo un contemporaneo di Duns Scoto col quale abbiamo intenzione di fermarci nella trattazione della nostra questione: infatti quest’ultimo è considerato come colui che chiude il periodo aureo della scolastica. , Agostino Trionfo tratta la questione « Utrum Deum esse sit per se notum » nel I lib. delle Sentenze, dist. Ili, pari. I, q. 3 (76). La questione è impostata molto bene e le risposte dell’autore, sono molto chiare, ciò che non accade spesso presso altri autori, come per es. presso Guglielmo di W are e Duns Scoto, come vedremo. Prima di esporre la sua opinione, Agostino porta tre argomenti contrari alla sua posizione; è chiaro che bisogna prima esporre le opinioni contrarie alle nostre per confutarle come si deve. Il primo argomento contrario al suo modo di pensare è il se­ guente: Ciò che è per sè noto deve essere da tutti conosciuto e non vi può essere nessun errore su di esso. Ora molti sbagliano nel co­ noscere Dio, come per es. coloro che adorano gli idoli e che erodono

(73) Cfr. D.T.C., art. Trionfo Agostino d i J. R ivière, t. XV, col. 1855. (74) Ugo M ariani, O.S.A., Scrittori politici agostiniani del sec. XIV, Fi­ renze, 1927, p. 59. (75) Repertoire des Mattres. en Théologie de Paris au XIII siede par P. G lorieux , Paris, 1934, n. 409, p. 321. (76) Questione edita da M. Schmaus in Beiträge zur Geschichte der Philo­

sophie und Theologie des Mittelalters. Texte und Untersuchungen. Begruendet von Clements Baeumker. Supplementband III 2 Hdbband ' aus der Geistestoelt des Mittelalters, Münster i.W. 1935, p. 937.

che Dio abbia un corpo come il nostro. Dunque Dìo non è per sè noto (77). Inoltre è più lontano Dio dal nostro intelletto che ¡’intelligibile dai nostri sensi. Ora nessun intelligibile è conosciuto dai nostri sensi. Dunque 1’esistenza di Dio non potrà essere conosciuta nè potrà essere per sè nota al nostro intelletto (78). Infine le cose per sè note sono come le porte della casa che nessuno può ignorare, come dice Aristotele nel II lib. della Meta­ fisica (79). Ora resistenza di Dio e gli altri intelligibili non sono evidenti come le porte di una casa, difatti, come dice Aristotele nel medesimo libro, il nostro intelletto può paragonarsi ad un pipistrello, il quale non vede nonostante la luce del giorno (80), quando vuol comprendere Dio e gli altri intelligibili. Dunque ¡’esistenza di Dio non può essere per sè nota (81). Contro questi argomenti si oppone il seguente: è per sè noto ciò che è conosciuto naturalmente. Ora la cognizione dell’esistenza

(77) « E t videtur, quod non, quia illud, quod est per se notum, ab omnibus cognoscitur nec circa illud contingit error. Sed multi errant in cognoscendo ipsum Deum, sicut illi qui adorant idola et qui credunt Deum esse aliquid corpus. Ergo Deum esse non est per se notum ». M. Schmaus, in Beiträge zur..., p. 937. (78) «Praeterea magis distat Deus ab intellectu nostro quam intelligibile a sensu. Sed nullum intelligibile cognoscitur a sensu. Ergo Deum esse non po­ ten t cognosci nec esse per se notum nostro intellectui ». M. Schmaus, op. d t., p. 937. (79) « ...e st modus secundum quem habemus in consuetudine inducere in proverbio dicendo quod nullus ignorai locum januae in domo ». Arist ., II Metaph., cap. I. (Arist Siagiritae Lib . Metaph. X //... Averroesque ejus fideliss. interprete... Lugduni apud Sdpionem de Fabiano. Ed. Jacobi Myt 1520, voL 5, fol. 25r). (80) « Sicut enim nocticularam oculi ad lucem diei se habent: sic et animae nostrae intellectus ad ea quae sunt omnium naturae manifestissima ». « ... dispositio enim intellectus in anima apud illud quod est in natura valde manifestum simile est disposition! oculorum vespertilionis apud lucem solis ». Ar is t ., op. cit., loc. cit. (81) «Praeterea illa, quae sunt per se nota, sunt sicut locus sanus in domo, (leggi: sicut locus januae in domo) ut dicitur secundo Metaphysicae. Sed Deum esse et coetera intelligibilia non sunt talia, cum ad ipsa intelligenda se habeat intellectus noster, sicut oculus noctuae ad lucem Solis, ut In eodem libro Habetur. Ergo Deum esse non poterit esse per se notum ». M. Schmaus, op. d t,9 p. 937.

di Dio è naturalmente impressa nel nostro spirito, come dice il Da­ masceno (82); dunque resistenza di Dio è per sè nota (83). Prima di esporre la sua opinione Agostino Trionfo fa osservare che vi sono quattro difficoltà nelPammettere che Dio è per sè noto. La prima proviene dal fatto che resistenza di Dio è dimostra­ bile; ora tutto ciò che è dimostrabile non è per sè noto. La seconda, perchè resistenza di Dio è il primo articolo di fede, come diciamo nel simbolo apostolico: Credo in un solo Dio...; ora ciò che è di fede non è per sè noto, perchè la fede riguarda le cose che non si vedono. La terza, perchè tutto ciò che è per sè noto mai può essere ne­ gato seriamente o sinceramente, quantunque possa essere negato verbalmente: « per se notum numquam negatur corde, licet possit negali ore»; ora resistenza di Dio è negata sinceramente «corde» da alcuni, come infatti dice il salmo 13, 1: « Dixit insipiens in corde suo: non est Deus ». La quarta difficoltà infine proviene dai fatto che tutto ciò che è per sè noto è naturalmente e immediatamente conosciuto, non es­ sendo necessario riflettere per scoprire la natura delle cose, per sè note. Ora non essendo resistenza di Dio conosciuta da tutti, sembra dunque che essa non sia per sè nota (84). La prim a difficoltà può essere sormontata procedendo in que­ sto modo: la dimostrazione dell’esistenza di Dio può considerarsi sotto un duplice aspetto: 1) dimostrare l’esistenza di Dio conside(82) De Fide Ortod., cap. I. PG 94, 789. (83) « In contrarium est, quia illud est per se notum, quod cognoscitur naturaliter. Sed cognitio existendi Deum omnibus naturaliter est inserta secun­ dum Damascenum in principio libri primi. Ergo e tc .». M. Schmaus, op. cit.9 p. 937. (84) « Respondeo dicendum, quod quatuor sunt ilia quae faciunt difficultatem in quaesito, Primum est quia Deum esse demonstrabile, . . . sed quod est dem onstrable, non est per se notum. Secundum est, quia Deum’ esse est primus articulus fidei juxta illud, quod habetur in symbolo: Credo in unum Deum. Sed ilia, quae sunt fidei non sunt per se nota, cum fides sit de non visis. Tertium est, quia per se notum numquam negatur coide, licet possit negari ore, ut vult Philosophus IV Metaphysicae. Sed Deum negatum est ab aliquibus etiam corde, juxta illud psalmi: dixit insipiens in coide suo: non est Deus. Quantum est, quia, quod est per se notum est naturaliter cognitum, quia ad per se nota non est ratio... Sed natuiale est idem apud omnes. Cum igitur Deum esse non sit omnibus cognitum, videtur, quod hoc non sit per se notum ». M. Schmaus, op. c i t p- 937.

rato in se stesso; 2) spiegare che cosa si intende con la parola « Dio », ossia spiegare il vero significato del nome di Dio. Dimostrare resistenza di Dio secondo il primo modo, non ripu­ gna affatto a ciò che è per sè noto, perchè in questo caso non si dimostra resistenza di Dio., essendo resistenza divina la medesima cosa che Dio stesso. D ifatti resistenza divina è naturalmente inclusa nell’essenza divina. Anche il secondo modo, cioè spiegare che cosà s’intende con la parola « Dio », non ripugna a ciò che è per sè noto, perchè spiegare che col nome di Dio si vuol significare colui che è il primo motore e la prima causa di tu tti quanti gli esseri, ciò non ripugna affatto a quello che noi designiamo come essere per sè noto (85). La seconda difficoltà può essere superata facendo osservare che l’esistenza di Dio in quanto può essere dimostrata col solo lume na­ turale della ragione, non è articolo di fede, ma è articolo di fede quanto concerne ciò che è al di sopra della ragione, per es. Dio glorificante e beatificante; ciò riguarda la sola fede e non può essere per sè noto se non. per il solo lume della fede (86). La terza difficoltà può essere superata osservando quanto dice Boezio (87) secondo cui alcune cose sono per sè note soltanto ai sapienti ed altre a tutti. Ora l’esistenza di Dio non è per sè nota a tutti, ma soltanto ai sapienti, perchè essi soli sanno che cosa s’in­ tende col nome « Dio ». Dunque dai sapienti non può essere negata sinceramente n è.p u ò essere pensata non esistente la realtà dell’esi­ stenza divina. Ma dagli stolti, i quali non conoscono il significato della parola Dio, l’esistenza divina può essere negata « corde et

(85) «Prim a ergo dificultas sic removetur: Nam demonstrare Deum esse potest intelligi dupliciter. Primo demonstrare esse divinum de ipso Deo. Se­ cundo demonstrare, quid importatur per hoc nomen Deus. Primo modo demon­ strare Deum esse non repugnat ei, quod est per se notum. Nec sic demonstratur Deum esse, cum esse Dei sit idem quod Deus. Secundo modo non, quia ostendeie, quod per hoc nomen Deus importatur illud, quod est primus motor et prima causa omnium entium, non repugnat ei quod est per se notum ». M. Schm aus , op. cit.9 p. 937. (86) « Secunda sic tollitur: nam Deus esse quantum ad id, quod per natu­ ralem rationem potest ostendi, non est articulus {idei, sed quantum ad illud, quod est supra rationem, ut in quantum est glorifìcatòr et beatificator noster, pertinet ad federn nec sic est per se notum nisi per lumen fidei ». M. Schmaus, op. c i t p. 937. (87) De Ebdom. PL 64, 1311 B.

ore », verbalmente e sinceramente. Perciò S. Agostino (88), spie­ gando il verso del salmo (89): « Dixit insipieiis in corde suo: non est Deus », dice che ¡’insipiente ha osato negare Dio perchè appunto era un insipiente (90). La quarta difficoltà può essere annullata osservando che l’esistenza di Dio è naturalmente conosciuta da tutti se si considera Dio come nostro bene, poiché la nozione di bene è naturalmente impressa in tutti noi (91). Ma non tutti conoscono Dio come il Sommo ed Ùnico Bene, difatti alcuni ripongono il loro bene nelle ricchezze, altri in­ vece nei beni sensibili (92). Dopo aver enumerate le quattro difficoltà che inevitabilmente sorgono quando si vuole stabilire se Dio è per sè noto e dopo averle superate mediante altri quattro argomenti, finalmente Agostino Trionfo ci dà quattro regole o requisiti perchè ima cosa sia per sè nota. Da questi quattro requisiti egli concluderà che Dio è per sè noto sotto un quadruplice aspetto: 1) Che la natura del predicato sia inclusa nella natura del soggetto. 2) Che una cosa per sè nota non possa essere negata diret­ tamente, ma solo indirettamente. 3) Che una cosa per sè nota non possa essere negata in se stessa, ma o nel suo simile o nei suoi effetti. 4) Che appena conosciuto il significato della parola con la quale viene significata la cosa per sè nota, immediatamente ognuno (88) De C ivit Dei, cap. IX, PL 41, 152. (89) Ps. 13, 1. (90) « Tertia sic removetur: nam secundum Boetium in libro de Edbom. aliqua sunt per se nota solum sapientibus, aliqua autem omnibus. Scile ergo Deum esse non est per se notum omnibus, sed solum sapientibus, quia solum sapientes sciunt, quid importetur per hoc nomen Deus. Ideo a sapientibus non potest negali corde nec cogitali non esse. Sed a stultis nescientibus, quid importetur nomine Dei, potest negali corde et ore. Unde Augustinus in libro De Civ. Dei exponeus illud verbum: Dixit insìpiens in corde suo: non est Deus, dicit, quod ideo dixit: non est Deus quia insìpiens fu it» . M>. Schmaus, op. d t,9 pp. 937-938. (91) S. Àgost., V /// De Trinit, cap. III. PL 42, 949. (92) « Quarta autem sic tollitur: nam Deum esse sub ratione boni est ab omnibus naturaliter cognitum, quia notio boni est nobis naturaliter im­ pressa secundum Augustinum V ili de Trinit., cap. III. Sed non omnes cognoscunt ipsum sub ratione boni simpliciter, cum aliqui suum bonum ponant in divitiis, aliqui vero in aliis bonis sensibilibus ». M. Schmaus, op. cit, p. 938.

comprende la cosa e non dubita punto della sua esistenza. Per tutte e quattro queste condizioni l’esistenza di Dio è per sè nota: « Omni­ bus istis quatuor modis Deum esse est per se notum ». Primo, perchè l’esistenza appartiene necessariamente alla na­ tura di Dio. Infatti dice Agostino (93): « Sicut enim ab eo quod est sapere dieta est sapientia, et ab eo quod est stire dieta est scientia; ita ab eo quod est esse dieta est essentia ». Secondo, perchè mai Dio viene negato direttamente, ma solo indirettamente, quando cioè non si sa che cosa s’intende col nome di Dio. Terzo, perchè mai Dio viene negato in se stesso, ma o in im suo simile o in un suo effetto. Quarto, perchè conosciuto il vero significato della parola Dio, immediatamente si comprende che Dio non può non esistere e quindi è per sè noto (94). Così Agostino Trionfo spiega come Dio è per sè noto. La sua dottrina è molto diversa da quella di S. Tommaso per il quale, come vedremo, se Dio è per sè noto in se stesso «secundum se », non è per sè noto a noi, « quoad nos ».

(93) V De T r ititi cap. II. PL 42, 912. (94) « Dicamus ergo quatuor esse ‘de ratione ejus quod est per se notimi. Primum est, quod ratio praedicati includatur in ratione subjecti. Secundum est, quo non negetur directe, sed indirecte sicut Heraclitus propter fluxibilitatem rerum negabat prima principia, ut habetur quarto Metaphysicae. Tertium est, quod non negetur in se, sed in suo simili vel in suo effectu. Quartino est, quod cognito quid importatur nomine ejus, statini quOibet probet ipsum auditum. Omnibus istis quatuor modis Deum esse est per se notum. Primo quia esse est de ratione Dei, quia Deo verissime competi! esse secundum Augustimim V De Trinitate cap. II. Secundo quia numquam negatur directe, sed indirecte, quia non apprehenditur, quid importatur nomine ejus. Tertio quia numquam negatur in se, sed in suo simili vel in suo effectu. Quarto quia statini cognito, quid importatur per nomen Dei, probat ipsum auditum. E t per hoc patet solutio ad rationes superius factas ». M. Schmaus, op. cit.9 p. 938.

NEGAZIONE: DIO NON E’ PER SE’ NOTO

Dopo aver rilevato la dottrina di alcuni autori che sostengono l’evidenza deiresistenza di Dio, esaminiamo ora altri autori del sec. XIII i quali, all’opposto dei primi, negano che resistenza di Dio sia a noi per sè nota. 1. - Tra' questi ultimi il principale filosofo assertore di questa dottrina è il Dottor Angelico S. TOMMASO. Gli altri si ispirano a lui. S. Tommaso ha trattato la questione « Utrum Deum esse sit per se notum » in molti luoghi delle sue numerose opere filosofiche e teologiche (1). Si vede che al suo tempo il problema dell’evidenza di Dio era molto discusso nelle università, altrimenti S. Tommaso non ne avrebbe parlato in tanti luoghi. La posizione di S. Tommaso è contro quei filosofi e teologi i quali sostengono, come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’evi­ denza dell’esistenza di Dio e concludono che resistenza di Dio, es­ sendo per sè nota, non ha bisogno di dim ostratone. Per S. Bona­ ventura ogni prova dell’esistenza di Dio è un puro esercizio dialet­ tico (2) eccetto la prova che ha il suo fondamento nello stesso spi­ rito dell’uomo: « Deus praesentissimus est ipsi animae et eo ipso cognoscibilis » (3). (1) Cfr. Sum. Theol., pars I, q. 2, a. 1; / Seni., d. 3, q. 1, a. 2; J Contro Cent., cap. X e XI; III Coni. Geni., cap. XXXVIII; De Verit., q. 10, a. 12; De Fot., q. 7, a. 2 ad 11; in Ps. V ili; In Boetìi De Trinit. Espostolo, q. 1, a. 3 ad 6. (2) «A d illud quod obicitur, quod frustra quis nititur probare illud, de quo nemo dubitat; dicendum, quod, sieut jam patet, hoc veruni non indiget probatione propter defectum evidentiae ex parte sua, sed propter defectum considerationis ex parte nostra. Unde hujusmodi iatiocinationes potiiis sunt quaedam exercitationes intellectus, quam ratlones dantes evidentiam et manifestantes ipsum verum probatum ». De Myst. Trinit., q. 1, a. 2. (3) S. Bonaventujeu, De Mysterio Trinit., q. 1, a. 1, condusio 10.

Contro quei filosofi che sostengono l’evidenza, per noi, dell’esistenza di Dio i quali sono in genere d’ispirazione agostiniana, S. Tom­ maso indirizza le sue critiche. Una delle prime condizioni per cui resistenza di Dio dovrebbe essere per sè nota, cioè evidente in sè, è quella che suppone l’inneità dell’idea di Dio nella nostra anima come vuole Damasceno (4). « Videtur quod Deum esse sit per se notuin. Illa enim nobis dicuntur per se nota quorum cognitio nobis naturaliter inest, sicut patet de primis; principiis » (5). La proposizione « Dio è * è una proposizione per sè o « secundum se » nota, perchè la ragione intrinseca di ciò che si predica di Dio, cioè la sua esistenza, è contenuta completamente nella ragione intrinseca di Dio, cioè nella sua essenza. Ma questa proposizione « Dio è » non è per sè nota o evidente a noi « quoad nos » perchè per conoscerne l’intrinseca verità dobbiamo anzitutto avere l’idea della divinità e l’idea di esistenza; ora l’idea della divinità e quella di esistenza sono idee che si acquistano con la riflessione e il ra­ gionamento. Dunque la proposizione « Dio è » non è per sè nota o evidente a noi (6). Il sistema filosofico di S. Tommaso è nemico dichiarato delle idee innate. Nessuna idea ha il privilegio di trovarsi insita nel nostro spirito fin dalla sua comparsa nel mondo (7). Questo è la sorgente dove il nostro spirito attinge tutte le idee attraverso un processo astrattivo. Anche l’idea di Dio non si trova naturalmente nell’anima, ma è ricavata dall’universo con cui siamo a contatto, quantunque questo sia essenzialmente diverso dall’essenza divina e quindi inca­ pace di darci un’idea esatta e adeguata di Dio. L’idea che noi ab­ biamo di Dio non è un’idea che ce Lo rappresenta nella sua quid­ dità od essenza, perchè questa idea non è il frutto di una intuizione diretta di Dio, ma è invece un’idea confusa, caotica e.nebulosa per­ chè di Dio conosciamo soltanto l’esistenza e non l’essenza. L’effetto ci dimostra evidentemente e naturalm ente l’esistenza della sua causa, ma non può mai riprodurci esattamente l’essenza della causa stessa.

(4) « Omnibus cognitio existendi Deum naturaliter est inserta ». De Fide

O r to d I, cap. 1. PG 94, 789 B. (5) Sum. Theol.y pars I, q. 2, a. 1 ad primum sic proceditur. (6) Sum. TheoU pars I, q. 2, a. 1. (7) Come ammetteva Platone, per il quale < scire est meminisse », cre­ dendo egli alla preesistenza delle anime.

Come una pittura, quantunque perfetta, non può farci conoscere esattamente tutta l’essenza del pittore, il suo carattere, le sue qua­ lità fisiche, morali e spirituali, ma può farci conoscere con certezza l’esistenza del pittore; così Funiverso che noi ammiriamo ci dà un’idea inadeguata di Dio, ma ci fa conoscere con certezza la sua esistenza. Inoltre la tendenza naturale del nostro spirito al gaudio, alla felicità e alla beatitudine infinita, non deve farci credere che l’idea di Dio Sommo Bene sia innata o insita nelFanima. Si concede che è naturale, per il nostro spirito il desiderio della felicità infinita ed eterna, ma si nega che è innata o insita nel nostro spirito l’idea di Dio, perchè, come possiamo costatare, molti uomini fanno consi­ stere la felicità nelle ricchezze e nei piaceri di ogni sorta, ciò che non costituisce assolutamente l’essenza divina, quantunque la fame dell’infinito ci faccia naturalmente credere l’esistenza dell’infinito. Così va interpretata la frase tanto discussa e commentata del Da­ masceno: « Omnibus cognitio existendi Deum naturaliter est inser­ ta » (8). E’ inserita naturalmente nei nostro spirito la cognizione dell’esistenza di Dio perchè è inserita naturalmente in esso la ten­ denza verso la felicità infinita; ma questa tendenza naturale non co­ stituisce l’idea esatta e adeguata dell’essenza e dell’esistenza di Dio, perchè il desiderio naturale di una cosa mai vista o intuita direttamente, non può darci che un’idea vaga, inadeguata e confusa di quella stessa cosa. Così è l’idea che ha il nostro spirito sull’essenza ed esistenza divina (9). Un’altra condizione necessaria per cui una proposizione è per sè nota, è la conoscenza immediata dei tennini che la compongono. Una volta che si ha l’idea o la conoscenza chiara ed esatta dei ter­ mini che formano la proposizione, subito balza agli occhi del nostro spirito l’evidenza della sua verità. Così dopo aver conosciuto ciò che significa la parte e ciò che significa il tutto, immediatamente si vede l’evidenza della proposizione « il tutto è maggiore della sua parte ». Similmente la proposizione « Dio è » si presenta alla nostra intelligenza nella sua luminosa evidenza quando abbiamo compreso il significato della parola Dio. Ora con questa parola intendiamo significare l’essere perfetto di cui non si può pensare un altro più perfetto; ma essendo più grande e più perfetto l’essere che si trova nell’intelletto e nella realtà di quell’essere che si trova soltanto nel(8) De Fide Ortod.. I, cap. 1. PG 94, 789. (9) Si/m. Theol., pars I, q. 2, a. 1 ad 1; Cont. Gent., I, 11 ad 4; De Verità X, 12 ad 5.

l’intelletto, cosi, compreso il significato della parola Dio, Egli si trova nel nostro intelletto; ne segue dunque che Dio debba essere anche nella realtà. Di conseguenza Dio è per sè noto ossia evi­ dente (10). Quantunque S. Tommaso non faccia il nome di S. Anseimo, forse perchè dovendolo criticare gli dispiaceva fare il suo nome e quello di altre autorità come Alessandro d’Hales e S. Bonaventura che hanno aderito alla dottrina anselmiana, tuttavia non è affatto diffi­ cile vedere che si tratta qui del famoso argomento di S. Anseimo. S. Tommaso ancora una volta prende posizione non solo contro Anseimo, ma anche contro quei filosofi che di ispirazione agostiniana, non hanno trovato difficoltà ad accettare l’argomento ontologico; tali i francescani in genere. Per il Dottore Angelico l’argomento anselmiano è sostanzial­ mente difettoso non essendo affatto vero che con la parola Dio ognuno voglia significare l’essere di cui non si può pensare un altro più grande e più perfetto, difatti molti nell’antichità hanno pensato che Dio avesse un corpo. La mitologia greca e romana non solo ammetteva molti dei, ma attribuiva ad essi le nostre passioni e i nostri vizi. Vulcano era un dio ed era gobbo e zoppo. Gli dei e le dee facevano all’amore e nei loro amori scandalizzavano i mentali. Spes­ sissimo gli dei e le dee personificavano i vizi e le passioni come Marte dio della guerra e Bacco dio del vino e della lussuria. Venere la dea della bellezza e dell’amore era l’amante di molti dei, ecc. Ammesso pure che ognuno pronunciando la parola Dio voglia significare l’essere più grande di ¿ui non se ne può pensare imo più grande e più perfetto, da ciò non segue affatto che questo essere sia al di fuori del nostro intelletto ed esista veramente nella realtà (11). Per S. Tommaso il passaggio dall’Ordine ideale a quello reale, è un passaggio illogico ed illecito, mentre è del tutto logico e lecito il contrario. L’idea o il concetto in noi sono posteriori alla realtà. L’intelligenza divina segue un ordine inverso, prima ha l’idea, che si trova naturalmente nella sua essenza, e poi la eseguisce nella realtà: l’universo che noi ammiriamo. Un’ultima argomentazione per dimostrare che Dio è per sè noto, è formulata così: 1’esistenza della verità è per sè nota poiché chi (10) Sum.. Theól., pare I, q. 2, a. 1; Coni. Geni., I, 10. (11) Sum. Theol., pare I, q. 2, a. 1 ad 2; Coni. Cent., I, 11.

nega la verità, negandola afferma la verità del contrario; infatti se la verità non esiste è vero che la verità non esiste. Ora se esiste qual­ che cosa o qualche argomentazione vera bisogna che esista la ve­ rità; ma Dio è la stessa verità, come dice Jo. 14, 6: « Ego sum via, veritas et vita »; dunque resistenza di Dio è per sè nota (12). Questo argomento detto comunemente ideologico fu usato da S. Agostino nella lotta contro gli scettici (13), fu adottato da Ales­ sandro di Hales (14) e fu preso in considerazione da grandi filosofi e teologi del M. Evo come S. Bonaventura (15), G. Peckham (16), Matteo d’Aquasparta (17), Olivi (18); quest’ultimo francamente di­ chiara a proposito di questo argomento « quod non d are video quomodo illa ratio bene probet » (19). S.. Tommaso concede resistenza della verità di ogni essere par­ ticolare, cioè concede resistenza delle verità particolari e queste sono evidenti e per sè note quando si presentano come tali ai nostri sensi e al nostro intelletto, ma nega categoricamente che resistenza della Prima Verità sia per sè nota (20). E’ vero che se vi è la partecipa­ zione all’Essere assoluto, vi è pure la partecipazione alla Verità assoluta, ma sia per scoprire4resistenza dell’Essere assoluto come l’esistenza della Verità assoluta è necessaria una lunga argomenta­ zione a posteriori, risalendo cioè dalle verità più evidenti a quelle meno evidenti finché non si raggiunga la verità assoluta la quale, sebbene in se stessa « secundum se » sia per sè nota o evidente, non però riguardo a noi « quoad nos » (21) che non vediamo affatto l’evidenza della Verità assoluta.

(12) (13) (14) (15) (16)

(17) (18) (19)

Sum. Theol., pars I, q. 2, a. 1; DeVerity X, 12 ad 3. Soliloq., I, 8; II, 2; II, 15. PL 32, 877, 886, 898. Sum. Theol, pars I, q. 3, m. 1. Quaest. disp. De Myst. Trinit., q. 1, a. 1. Sent. Uh. I, dist. 2, q. 1. (A. D aniels, op. d t, p. 41). Sent, lib. 1, dist. 2, q. 3. Quaest. in II lib. Sentent. Ed. B. Jansen, pp. 524-525. Ibidem, p. 554.

(20) « ... dicenduxn quod veritatem esse in communi, est per se notum; sed primam veritatem esse, hoc non est per se notum quoad nos ». Sum. Theol., pars I, q. 2, a. 1 ad 3. (21) La distinzione di « secundum se » e « quoad nos » sarà ripresa da Olivi; vedremo che su questo punto le conclusioni di Olivi sono quasi uguali a quelle di S. Tommaso. Olivi però seguirà la via di mezzo e sarà meno radi­ cale di S. Tommaso.

Attraverso questa brevissima considerazione della dottrina di S. Tommaso sull’argomento in questione, abbiamo potuto costatare come il nostro dottore, coerente al suo sistema gnoseologico-astrattivo non ama punto le prove aprioristiché per ciò che riguarda resi­ stenza di Dio (22). Dobbiamo dunque concludere che resistenza di Dio per il Dot­ tore Angelico non è affatto una verità evidente; coloro che sosten­ gono ciò sono indotti a quest'errore per rabitudine che loro hanno a credere neiresistenza di Dio e perchè sono naturalmente portati a sostenere che una verità per sè nota sia pure evidente per noi. 2. - Avanti di parlare degli altri autori che s’ispirano a S. Tom­ maso, bisogna in primo luogo esporre la dottrina di ENRICO di GAND (? -1293) il quale nei primi decenni dopo la morte di S. Tom­ maso fu uno dei più grandi ed eminenti professori del? università di Parigi. La filosofia di Enrico di Gand ebbe un influsso straordi­ nario nel pensiero dei suoi contemporanei e dei filosofi che Io se­ guirono. Noi ci dispensiamo dal fare un’esposizione completa della sua dottrina sulla questione che stiamo trattando dal momento che essa è già stata fatta da J. Paulus in un suo interessantissimo studio (23). J. Paulus fa puTe brevissimamente, in nota, un paragone tra S. Tommaso ed Enrico di Gand sull’argomento in questione. Credo che basti la lettura di questa nota per farsi un’idea della differenza di posizione dei due maestri. Enrico di^ Gand nella sua Stimma (24) dice: « ... cognitio essendi Deum naturaliter nobis inserta est, quia in primis conceptibus, cum (22) « L’attitude adoptée par Thomas d’Aquin en présence de toutes les preuves a priori — nota Gilson — est particulièrement significative; elle ne nous instruit peut-être que médiocrement sur les intentions de leurs auteuis, mais elle éclaire vivement la conception thomiste de la preuve e t nous ren­ seigne sur les conditions qui, selon saint Thomas, sont requises pour toute dé­ monstration valable de l’existence de Dieu. Remarquons d’abord que tous les raisonnements critiqués par notre docteur sont présentés comme aboutissant à la même conclusion: l’existence de Dieu est une vérité connue par sol, c’est-àdire une vérité qui ne requiert aucune démonstration proprement dite». Le Thomisme, Introduction au système de Saint Thomas d Aquin, Paris, J. Vrin, 1923, p. 43. (23) J. P aulus , Henri de Gand et Vargument ontologique, in À.H.D., X, 1935-1936, pp. 303-308. (24) SiiTTi. quaest. ordin., art. XXII, q. 2, fol. 130 Q.

intelligimus ens, unum aut bonum simplicité^ in generali intelligimus Deum sub quadam confusione, sicut ex parte affectus naturaliter omnes in volendo quodcumque bonum, volunt esse beati, et in hoc saltem in universali primum et summum bonum quod Deus est ». « L’idée d’un Dieu voulu — commenta J. Paulus (25) — et pourtant vaguement connue, quoique non identifiée, sous l’aspect de la Béatitude, se trouve chez Saint Thomas. Le même auteur expose en plusieurs passages, la thèse d’une connaissance intellectuelle im­ mediate et confuse de Dieu au sein des choses, qui semble le rap­ procher tout à fait de Henri de Gand. L’existence de Dieu, per se nota quant à soi, explique saint Thomas, l’est aussi, en un certain sens, quant à nous, savoir « secundum suam similitudinem et parti­ cipa tionem... nihil enim cognoscitur nisi per veritatem suam quae est a Deo exemplata; veritatem autem esse est per se notum » (I Sent., dist. Ili, q. 1, a. 2). « Omnia cognoscentia cognoscunt im plicite Deum in quolibét cognito. Sicut enim nihil habet rationem appetibilis nisi per similitudinem primae bonitatis, ita nihil est cognoscibile nisi per similitudinem primae veritatis » (De Vent., q. 22, a. 2 ad 1). On devine cependant ce qui continue d’opposer les deux auteurs; l’un et l’autre adm ettent que la connaissance du créé ne va point sans quelque connaissance du Créateur. Mais c’est le créé d’abord connu qui révèle quelque chose du Créauteur, aux yeux de S. Thomas; au lieu que la connaissance de Dieu est première abso­ lument dans la doctrine d’Henri ». In risposta alla questione se la proposizione «D io è» è per sè nota, Enrico di Gand dice che mai questa proposizione può essere per sè nota, neppure a colui che attraverso lo studio è pervenuto alla conoscenza e alla comprensione del significato della parola Dio nel senso che è l’essere di cui non si può pensare uno più grande e per­ ciò non può essere pensato non esistente (26). (25) Art. cit., p. 304, nota 2. (26) «Nullo ergo modo ista propositio: Deus est, cujuscumque intelli­ genti est per se nota, quantacumque cerlitudine nota sit. Iterimi ergo e t iterimi revolvendo seimonem dico: quia etsi homo per studium suum scile potest et intelligeie hoc nomine Deus significari id quo majus excogitari non potest et ita quod non potest cogitari non esse, etiamsi cum hoc studio suo sciat quod est puram esse et ita quod non possit non esse, hoc nihil est ad faciendum propositionem per se notam ». Sum. Quaest. Orditi., t. I, art. 22, q. 2.

3. - RICCARDO di MEDIAVILLA (1249 ?-1307 ?) nel suo Commento alle Sentenze svolto tra il 1282 e il 1284, ma redatto nel 1295, quantunque francescano, in molti punti dottrinali abbandona la sua scuola e si orienta verso il tomismo sebbene non vi aderisca pienamente (27). Contrariamente alla maggior parte dei dottori fran­ cescani, Riccardo di Mediavilla, come S. Tommaso, non accetta ra r­ gomento di S. Anseimo, e nella questione « Utrum Deum esse sit per se notino » (28) conclude, diversamente da Gualtiero di Bruges, da E. Romano, da N. Occam e da A. Trionfo, che Dio non è per se noto a noi. Dopo aver impostato con termini esatti e chiari Pargomento di Anseimo, lo critica e lo combatte con termini però non del tutto chiari e semplici, ma piuttosto difficili e complicati. Riccardo, come S. Tommaso, vede nelPargomento a simultaneo di Anseimo un’ar­ gomentazione che vuol provare ‘l’evidenza dell’esistenza di Dio e perciò sotto questa forma lo combatte cercando di distruggerlo con un ragionamento concludente alla non evidenza dell’esistenza di Dio (29). Per Riccardo, Anseimo col suo argomento ontologico ha preteso dimostrare che l’esistenza di Dio è una res per se nata. Ciò mera­ viglia Riccardo, il quale non esita punto a dire che Pargomento di Anseimo non è giusto: « dico quod non est verum » (30). All’argomento anselmiano, secondo il quale una cosa, la quale non può essere pensata non esistente, è più grande di un’altra cosa, la quale invece può essere pensata non esistente, Riccardo risponde: ciò non è affatto vero se non quando alla cosa che non può da noi essere pensata non esistente, questa proprietà, cioè di non poter es­ sere pensata non esistente, le conviene a causa della sua massima e connaturale proporzione col nostro intelletto; mentre alla cosa che può (27) Vedi su Riccardo da Mediavilla l’articolo di G. Melani in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, X, p. 859. - Sulla questione che stiamo trattando J. Paulus lo fa piuttosto seguace di Enrico di Gand. Cfr. op. cti., p. 304 nota. (28) Bice. de M ediavilla , Sent. /, dist. Ili, art. 1, q. 2. - Ci serviamo

dell’edizione fatta in Venezia, Lazarus Soaidus, 1507-1509. (29) « Secundum Anselmum Proslog. II Deus est quo magis cogitali non potest; sed illud, quo magis cogitari non potest, non potest putari non esse, quia majus est id, quod non potest putari non esse, quam illud quod potest putari non esse: ergo, cum tale sit nobis per se notum; Deum esse est per se notum». Sent. /, dist. 3, a. 1, q. 2. (30) Ìbidem.

da noi essere pensata non esistente, questa proprietà, cioè di poter essere pensata non esistente, le conviene non per la sua mancanza di esistenza, ma al contrario, per la sua eccellenza e sublim ità di esi­ stenza, la quale trascende talmente la limitatezza e la debolezza del nostro intelletto, che questo non può, con le sole forze naturali, rag­ giungere la conoscenza dell’esistenza di quell’essere, se non limita­ tam ente e difficilmente (31). Il ragionamento di Riccardo si può chiarire e semplificare così: ima cosa non può essere pensata non esistente quando questa cosa è proporzionata al nostro intelletto, per es. la mia esistenza non può essere pensata non esistente nell’istante in cui penso, altrimenti non penserei; dunque la mia esistenza è pro­ porzionata al mio intelletto^ Una cosa invece può essere pensata non esistente quando questa non è proporzionata al nostro intelletto, non perchè essa implica in se una contraddizione, perchè in cotesto caso una cosa contraddittoria non potrebbe esistere nella realtà, ma perchè trascende le forze del nostro intelletto. Ora Dio trascende la capacità del nostro intelletto, ossia non è proporzionato ad esso; dunque l’intelletto umano con le sue forze naturali limitatamente e con molta difficoltà potrà raggiungere l’esistenza di Dio, la quale contrariamente a quello che vorrebbe Anseimo, non è per sè nota. Vi sono due modi, secondo il Mediavilla, in cui l’esistenza di Dio può essere considerata per sè nota: o tenendo conto degli at­ tributi comuni a Dio e alle creature, non comuni nel senso univoco ma analogo, quali sono l’entità, l’unità, la bontà e la verità; oppure tenendo conto di quelle condizioni o proprietà da cui la parola « Dio » prende il suo significato quali sono l’alimentare e conservare tutte le cose, il poter distruggere ogni malizia e il poter considerare o vedere tutti quanti gli esseri (32). Così infatti dice Dam ascalo: (31) « Ad primum in opposition cum dicitur, quod majus est illud quod non potest putari non esse quam illud quod potest putari non esse etc... dico quod non est veruni quando rei quae a nobis non potest putari non esse hoc convenit, propter maximam et connatuialem sui ad nostrum intellectum proportionem; et rei quae potest a nobis putari non esse hoc convenit non propter ejus in essendo debilitateci sed propter suam in essendo sublimit&tem; quia in tantum tiascendit intellectus nostri debilitatem, quod ex suis natuialibus non potest nisi debiliter et de difficili attingere ad existentiae illius entis cognitionem ». Sent. /, dist. 3, a. 1, q. 2. (32) « Deum esse nobis esse per se notum dupliciter potest intelligi, scilicet aut quantum ad conditiones sibi et creaturae communes non communitate univocationis sed analogiae quae sunt ens, unum, bonum et veruna, aut quantum ad conditiones a quibus hoc nomen Deus imponitur, ad significandum quae sunt

« Secundum. nomen est, Theòs (id est Deus) quae vox vel a verbo Thèein ducta est, quia currat, et omnia circumobeat: vel ab altho, id est urere: Deus enim ignis consumens est: vel denique apò tou theàsthai, hoc est, quia omnia conspiciat » (33). Nel primo modo l’esistenza di Dio è per sè nota perchè qual­ siasi entità, unità, verità e bontà esistente, è oggetto evidente alla nostra conoscenza. Nel secondo modo invece, quantunque l’esistenza di Dio sia per sè conoscibile, tuttavia rigorosamente parlando la stessa esistenza di Dio non è per sè nota, perchè, sebbene l’esistenza di un essere che alimenta tutti quanti gli esseri, che può distruggere ogni malizia, e che vede tutte le cose sia da parte sua conoscibile quantunque sia insito alla nostra natura il potere di arrivare, investigando, alla co­ noscenza dell’esistenza di un tale essere, tuttavia il nostro intelletto non necessariamente aderisce immediatamente all’esistenza di un tale essere come invece aderisce necessariamente ed immediatamente ad una proposizione simile a questa: il tutto è maggiore della sua parte (34). Quindi per il Mediavilla l’esistenza di Dio non è per sè nota, ma deve essere dimostrata. 4. - Un altro francescano, GUGLIELMO de la MARE (fl2 9 8 ), autore di un Commento ai primi due libri delle Sentenze, di Quaestiones disputatae (opere ancora inedite) e del famoso Correctoiium Fratris Thomae, quantunque nemico dichiarato della dottrina tofovere universa, posse consumere omnem malitiam, considerare omnia. Sicut enim dicit Damascenus lib. I, cap. 9 theòs id est Deus dicitur ab eo quod est thei id est fovere universa vel ab aethera id est aidens — Deus enim consumens omnem malitiam est — vel a theaste, id est considerando omnia, nulla enim eum latent ». Sent., i, dist. 3, a. 1, q. 2. (33) De Fide O r to à I, cap. 9. PG 94, 836-837. (34) « Primo modo Deum esse est per se notum, quia aliquid ens esse et aliquod unum esse et aliquod verum esse et aliquod bonum esse nitro se offerunt cognitioni nostrae. Secundo modo, quamvis Deum esse sit per se cognoscibile, tamen proprie loquendo de nobis per se noto ipsum esse non est nobis per se notum, quia quamvis esse aliquod esse fovens omnia et potens consu­ mere omnem malitiam et omnia considerare sit per se cognoscibile quantum est ex parte sua et quamvis naturae nostrae insertimi sit unde possumus investi­ gando devenire in cognitionem quia est aliquid ens tale, tamen intellectus noster non de necessitate statim assentit quod sit aliquid ens tale, sicut de necessi­ tate statini assentit quod de quolibet affiimatio vel negatio et quod onone totum majus est sua parte quando ista proponuntur vel occurrunt cogitatìoni». Seni. 7, dist. 3, a. 1, q. 2 .

mista, nella questione « Utrmn Deum esse sit per se notum », per­ viene alla medesima conclusione di S. Tommaso: «Deum esse est per se notum in patria, in via autem non » (35). La ragione per cui resistenza di Dio non è per sè noia in questa vita è perchè essa è un articolo di fede: « Oportet accedentem credere de Dèo quia est » (36). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota, evidente come la luce del sole, l’intelletto umano sarebbe costretto, volere o no, ad ade­ rire a questa verità, e allora non vi sarebbe alcun merito per il no­ stro spirito; mentre resistenza di Dio non essendo per sè nota, ma nascosta nell’oscurità come tutti gli articoli di fede, l’intelletto umano aderendovi sotto l’influsso della volontà, può far meritare al nostro spirito: «Beati qui non viderunt et crediderunt » (37). La dottrina del Damasceno, secondo il quale la cognizione del­ l’esistenza di Dio è impressa nel nostro spiritò (38), va interpretata nel senso che si trova naturalmente in noi un certo lume intellet­ tuale col quale facilmente possiamo conoscere l’esistenza di Dio (39). Qui Guglielmo de la Mare pensa come Olivi: la cognizione della esistenza di Dio o l’idea di Dio non è un’idea speciale impressa nel nostro spirito, ma un’idea acquisita sia pure molto facilmente col lume naturale della ragione, e poiché questo è naturalm ente in noi, anche la conoscenza dell’esistenza di Dio, in un certo senso, è insita in noi come l’effetto si trova naturalm ente nella sua causa (40). (35) A.H.D., VII, 1932, p. 264, ed. E. Longpré. (36) Ad Heb.y 11, 6. (37) 7o., 20, 29. (38) De Fide O r to d I, cap. 1. PG 94, 790. (39) « ...dioendum, quod Deum esse est per se notum in patria, in via autem non. Batio autem quae maxime movet ad hoc dioendum est quod Deum esse est articulus fidei, sicut dicit Apostolus, Haebr. 11: Oportet accedentem credere de Deo quia est, etc.; asserdo autem alicujus per se noti est necessaria, quia ei assentii ratio velit et nolit,- et ideo in tali assertione non est meritimi; assertio autem credibilis est meritoria. Ad primum in oppositum dicendum quod quando dicit Damascenus quod insertimi est creaturae rationali Deum esse, intelligit quod iuseitum est nobis quoddam lumen inteflectuale quo faciliter po­ test cognosci Deum esse et pio tanto dicit quod insertimi est nobis Deum esse ». A.H.D., VII, 1932, p. 264. (40) « Verbum autem Damasceni, illud scilicet, quod Dei cognitio est nobis a natura inserta, non est sic accipiendum quod aliquis habitus vel actus divinae cognitionis sit nobis proprie a natura insertus, sed quia lumen intellectivae potentiae quo in Dei cognitionem devenire possumus est nobis natu-

Secondo Algazel — continua G. de la Mare — alcune propo­ sizioni sono dette per se note perchè si capiscono senza alcuna diffi­ coltà e quasi immediatamente, sebbene esse non siano del tutto evi­ denti poiché si possono m ettere sotto forma di argomentazione sillo­ gistica. Così Damasceno dice che la cognizione dell’esistenza di Dio è impressa in noi, perchè l’uomo può così facilmente conoscere Dio come se Egli fosse per sè noto: difatti ogni creatura reclama resi­ stenza di Dio (41). Per Guglielmo de la Mare 1’esistenza di Dio si può conoscere molto facilmente, ma essa non è per sè nota.

rale, et ideo Dei cognitio dicitur nobis a natura inserta, eo modo loquendi quo effectus dicitur esse in sua c asa». P.G. O uvi, Quaest. in II lib. Sant., ed. B. Jansen, p. 549, vol. III. (41) « ... dicendwn secundum Algazelem in fine Logicae suae, quod quaedam proposition's dicuntur per se notae quia de facili sciuntur et quasi imme­ diate, quamvis simpliciter non sint sine medio termino, id est sine argumento, ideo facillime cognosci possunt ac si essent sine medio tennino... similiter dico hie quod quando dicit Damasoenus quod Deum esse est nobis insertum, hoc dicit propter hoc quod Deum potest homo facillime cognoscere ac si esset per se notum: omnis autem creatura dam at Deum esse, sicut dicit Augustinus, De lib. arbitrio». A.H.D., VII, p. 264.

POSIZIONE MEDIA: DIO E’ IN QUALCHE MODO PER SE’ NOTO

Fra le due posizioni finora considerate, che rappresentano senza dubbio i limiti estrèmi della questione, si inserisce tuia terza posi­ zione sostenuta da autori di particolare rilievo filosofico, i quali so­ stengono d ie Dio è soltanto in qualche modo a noi per sè noto. Tra questi esamineremo P.G. Olivi e Pietro de Trabibus, suo probabile discepolo, i quali dalle loro stesse parole si rivelano espli­ citamente seguaci della posizione media o temperata cui abbiamo accennato, e G. di W are col suo discepolo G. Duns Scoto, i quali invece se ne rivelano fautori soltanto dall’insieme della loro dot­ trina. 1. - PIETRO GIOVANNI OLIVI (1248-1298) nel suo ottimo trattato « De Deo Cognoscendo » non tratta a parte la questione « An Deum esse sit per se notum », ma la inserisce come prima parte della III questione: « Tertio quaeritur an Deum esse sit per se notum aut per rationes necessarias demonstrabile an sola fide creditum » (1). Seguendo il metodo in uso presso gli scolastici, ad ognuno di questi tre punti assegna, come schema architettonico dell’esposizione, tre aspetti che comportano un’affermazione, una negazione e la sua posizione personale: « videtur quod sic, videtur quod non, re­ spondeo », da ultimo la soluzione delle obbiezioni. Nell’esposizione seguiremo passo passo il nostro autore. Una ragione, per cui molti filosofi hanno creduto l’evidenza del­ l’esistenza di Dio, è perchè il Damasceno ha detto che la conoscenza (1) P.G. O livi, Quaesttones in II lib. Sentent., ed. B. Jansen, voi. Ili, p. 517. - A questa edizione intendiamo riferirci ogniqualvolta citeremo Olivi.

dell’esistenza di Dio è stata impressa o inserita in tutti noi dalla stessa natura (2). Inoltre una proposizione immediata, cioè che appena formulata immediatamente si comprende, come la proposizione: il mondo esi­ ste, è per sè nota; ora nessuna proposizione è più immediata di quella nella quale il predicato è costituito dalla medesima ragione o natura che costituisce il soggetto. Tale è la proposizione « Dio è »; dunque essa è per sè nota (3). Di più, tutto ciò che è indubitabile è per sè notissimo; ora resi­ stenza di Dio è così indubitabile che non possiamo pensare che Dio non esista, come prova Anseimo nel Proslogion (4); dunque Dio è per se notissimo (5). Dio, considerato soltanto in se stesso, è certamente per sè noto più di qualsiasi altro essere creato poiché il predicato è immedia­ tamente e intimamente connesso col soggetto, anzi il predicato nella proposizione « Deus est » rappresenta la stessa essenza di Dio, poi­ ché Dio è lo stesso essere sussistente (6). Olivi nella questione che stiamo svolgendo s’ispira al Dottore Angelico e come questi distin­ gue un duplice modo in cui una cosa può essere per sè nota: consi­ derata in se stessa e considerata in relazione a noi (7). Questa distin­ zione, quantunque necessaria e naturale nella mente di S. Tommaso, ha tuttavia come vedremo, un carattere artificiale o meglio conven­ zionale nella niente di Scoto (8) perchè se cerchiamo l’evidenza di Dio, se Dio veramente esiste, sappiamo bene che in se stesso e per (2) De Fide Ortod., I, 1, 3. PG 94, 790 ss. (3) « ...propositio immediata est per se nota; nulla autem immediatior est illa, in qua idem de se praedicatur, et maxime si est summe idem, nulla etiam immediatior illa in qua praedicatum non tantum per causam intermediam non potest inesse subjecto, mimo nec subjectum nec praedicatum possunt numquam habere aliquam causam; talis autem est haec proposito ’ Deum esse*, ergo ete. ». O livi, op. cit., Ili, p. 517, (4) Cap. IV. PL 158, 229.(5) « ...omne indubitabile est per se notissimum; sed Deum esse est ita indubitabile quod non possumus ipsum cogitare non esse, sicut probat Ànselmus in Proslog.; ergo etc. ». O livi, op. cit., III, p. 517. (6) O livi, op. cit> III, p. -526: «Per se autem notum est quidem secundum se plusquam aliquid creatum, quanto praedicatum est subjecto immediatius et magis idem ». Cfr. S. Bonàv., De Myst. Triniti q. 1, a. 1; Mt . d’ÀOQUASF., I Serti., dist. 2, a. 1, q. 3. (7) Sun». TheoL, pars. I, q. 2, a. 1 resp. (8) Ordinatio I, dist. 2, pars I, q. 1-2 ed. C. Balió, voi. II, p. 136, n. 22-23.

se stesso è noto; come pure un essere ignoto a noi, ma esistente, an­ che se non è conosciuto da nessuno, in se stesso e per se stesso è noto anche se questo essere non ha coscienza della propria esistenza; è chiaro però che se noi cerchiamo l’evidenza di una cosa, la cerchiamo per noi, perchè è a noi che interessa; ora se la cerchiamo, ciò vuol dire che non è affatto evidente. Così Dio in sè e per se è certamente noto, ma non è per sè noto a noi (9). S. Tommaso come Olivi e molti altri filosofi e teologi scolastici furono costretti a porsi la questione « Utrum Deum esse sit per se notum » perchè il Damasceno aveva detto che la cognizione dell’esistenza di Dio era stata impressa dalla natura nella mente ddPuomo e quindi portava a credere che perciò Dio fosse per sè noto, ed al­ cuni infatti credettero che Dio fosse veramente evidente anche per noi. S. Tommaso e Olivi, che non erano però di questi ultimi, do­ vettero fare questa distinzione puramente convenzionale e dire che Dio è per sè noto perchè in Lui 1’esistenza si confonde con l’essenza, ma non è per sè noto a noi perchè non conoscendo noi l’essenza di Dio, non conosciamo direttam ente in se stessa l’esistenza divina, ma la deduciamo dai suoi effetti ossia dalle creature (10). Vi è però una piccola differenza fra S. Tommaso e Olivi in questa particolare questione: S. Tommaso conclude che Dio « secunduro se » è per sè noto ed anche Olivi; ma « quoad nos » per S. Tommaso Dio non è per sè noto, mentre per Olivi è in qualche modo per sè noto anche a noi: « Quoad nos autem est per se no­ tum aliquo modo » (11). Ciò basta per marcare una differenza tra S. Tommaso e Olivi, questi piuttosto condivide Topinione di E. Ro(9) S. T hom., De Verit., q. 10, a. 12 resp. (10) Cfr. Ibidem, In lib. Boetii de Trinit. Expos., q. 1, a. 3 respond, ad 6; Sent. I, dist. 3, q. 1, a. 2 respond.; Som.. Coni. G e n t I, capi. 11; Som. Theol, pars I, q. 2, a. 1 respond. (11) O livi, op. cit., Ili, p. 526. Cfr. S. T ho m ., I Seni., d ist 3, q. 1, a. 2 respond, dove 11 Dottore Angelico dice: «Lòquendo autem de Deo per comparationem ad nos, sic iterimi dupliciter potest considerali. Aut secundum suam similitudinem et participationem; et hoc modo ipsum esse est per se notum; nihil enirn cognoscitur nisi per veritatem suam, quae a Deo est exemplata; ven­ tatesi autem esse est per se notum ». Dunque anche « quoad nos » Dio non è completamente nascosto essendo la prima verità cui partecipano tutte le altre verità; ora la verità è per sè nota, dunque Dio è per sè noto. In questo ragio­ namento ci si può vedere una mitigazione dell’affermazione categorica: Dio non è per sè noto a noi, ed equivale presso a poco all’espressione oliviana: « quoad nos autem est per se notum aliquo modo ».

mano il quale, quantunque tenda piuttosto ad asserire l’evidenza dell’esistenza di Dio per noi o almeno per i sapienti, ha pure la medesima espressione: « Oportet nos ergo dicere Deum esse, esse aìiquo modo per se notum, etiam quoad nos » (12); una simile espres­ sione viene usata anche da Pietro de Trabibus : « Patet etiam quod Deum esse est aliquo modo cognitum » (13). Vediamo come Olivi intende e spiega l’evidenza di Dio non considerata in se stessa, ma in relazione a noi. Possiamo distinguere tre modi in cui gli esseri si presentano a noi come per sè noti: a) Sono per sè noti quegli esseri esistenti nella realtà, o sem­ plicemente nella ragione, che, nell’attualità presente, non possono rimanere nasoosti a nessuna intelligenza, quali sono quegli esseri e quelle proprietà dell’essere senza le quali non si può comprendere niente, come sarebbero le prime ragioni o proprietà trascendentali dell’essere: entità, unità, bontà e verità, e le relazioni abituali (habitudines) delle proprietà trascendentali dell’essere tra loro: unum et ens convertuntur, unum et verum convertuntur, etc. (14). Ciò non presenta alcuna difficoltà. Nessuno può negare l’evi­ denza dell’essere e delle sue proprietà. Chi osasse far questo do­ vrebbe rinunciare a qualsiasi forma di ragionamento. L’evidenza non si dimostra e appena si tollera che venga indicata, essa si offre da sè alla nostra intelligenza la quale naturalmente non può chiudere gli occhi dinanzi ad essa. Dunque l’essere con le sue proprietà è ciò che per primo si presenta alla nostra intelligenza, come essere per sè noto. b) Inoltre sono per sè noti quei principi che sono compresi soltanto dai sapienti, poiché sebbene siano principi immediati, la ragione o la natura dei termini è conosciuta solo dai sapienti; ora (12) A. Daniels, op. c it, p. 74. (13) Vedi Appendice, p. 151. (14) « Respectu enim nostri tres sunt modi notoram. Quaedam enim sunt quae fere millmn actu inteUigentem latere possimi, qnalia sunt illa sine quibus nihil potest intelligi, ut sunt primae rationes entis et habitudines ». O livi, op. cit., Ili, p. 526. Per ciò che riguarda le « primae rationes entis et habitudi­ nes » vedi O livi, op. cit., I, q. 7, 133 ss. « De generalibus rationibus entis. An in ente rationes reales identifìcentur »; q. 13 « Quomodo universalia sint in individuis », pp. 247, 250-251. « Habitudo » negli scolastici ha il senso di rela­ zione: « relatio est essentialiter habitudo ad aliud ». Cfr. Lexicon scholasticum philosophico-theolog. di F ernandez Garcia, Quaracchi, 1910, p. 587.

conosciamo i principi nella misura in cui conosciamo i termini (15). Per es. i principi: il punto è ciò che non ha parti, le cose spirituali non occupano un luogo, diventano per sè noti dopo che abbiamo conosciuto la ragione o la natura intrinseca dei termini da cui sono composti (16). I principi anche più semplici non possono essere evi­ denti o per sè noti, se non quando è chiara alla nostra intelligenza la loro intima ragione; questa è evidente soltanto ai sapienti perchè essi Fhamio già penetrata con la riflessione, dunque dopo che hanno conosciuto la natura dei termini hanno veduto l’evidenza della ve­ rità del principio. Non è difficile sintetizzare questo ragionamento di­ cendo che un principio è per sè noto quando ne abbiamo una cono­ scenza chiara e distinta come direbbe Cartesio.

c) Infine sono per sè noti quei principi che soltanto dopo aver compreso, profondamente e pienamente la ragione o* natura dei termini e la loro vicendevole relazione, soltanto allora si può costa­ tare la loro evidenza. Vi sono infatti dei termini la cui ragione o natura racchiude tanta perfezione che non qualsiasi comprensione di essi basta per conoscere il principio ossia la proposizione costituita da essi. Tale è la proposizione « Dio è ». Quindi cotesto principio sebbene possa essere a noi per sè noto, perchè possiamo conoscere l’immediata relazione abituale dei termini e la loro reale identità, tuttavia non possiamo arrivare a questa conoscenza se non dopo ima grande investigazione e riflessione da parte della nostra ragione. In­ fatti soltanto dopo una grande e attenta ricerca della ragione o na­ tura degli enti creati arriviamo alla conoscenza della perfezione del­ l’essenza divina e della sua esistenza (17).

(15) Gir. à r is t ., / Poster., cap. 3. (16) «Alia sunt quae a solis sapientibus. intelliguntur, quia quamvis sint principia immediata, rationes tamen terminorum non sciuntur nisi a sapientibus solis. Principia autem cognoscimus in quantum terminos cognoscimus. Cujusmodi sunt: punctus est cujus pars non est, et spiritualia non esse in loco». O livi, op. cit., Ili, p. 526. (17) «Tertius autem modus est eorum quae cognitis rationibus terminonim non sciuntur, nisi rationes terminorum et babitudo eorum cognoscantur in ma­ gna profunditate et plenitudine. Sunt enim quidam termini quorum ratio com­ prehends tantam perfeetionem quod non quaelibet in te llig e n t ipsius sufficit ad cognoscendum principium seu propositionem ex talibus terminis constitutam et hujusmodi est Deum esse. E t ideo, licet istud principium possit esse nobis per se notimi, quia possumus cognoscere immediatam habitudinem terminorum

Quest’ultimo modo agli occhi di Olivi è il migliore per spiegare come Dio è per se noto a noi. L’esistenza di Dio non è del tutto evidente ed indubitabile per noi, ma soltanto diventa tale dopo che abbiamo conosciuto pienamente la ragione o natura dei termini (18). Si può dubitare dell’esistenza di Dio o negarla assolutamente quando si è compreso superficialmente o non si è compreso affatto la natura dei termini, mentre non può essere messa in dubbio quando la na­ tura dei termini della proposizione « Dio è » rifulge chiaramente alla nostra intelligenza (19). Olivi con l’espressicne « Quoad nos autem (Deum esse) est per se notum aliquo' modo » (20) e con le sue sottili distinzioni evita l’esagerazione di coloro i quali ammettono che Dio è per sè noto non solo in se stesso, ma anche riguardo a noi, e l’esagerazione di coloro i quali dicono che Dio non è affatto per sè noto a noi. Olivi sceglie la via di mezzo, ma la sua tendenza sembra piuttosto in­ clinata verso coloro che, con a capo S. Tommaso, dicono che Dio non è per sè noto a noi. Forse non voleva andare contro l’autorità dei maestri francescani e neppure voleva accettare completamente la dottrina dei tomisti; dei resto la via che sceglie Olivi ci sembra la migliore perchè dopo aver ponderato bene l’argomento in que­ stione, conclude, come a noi sembra giusto, che considerato in se stesso Dio è per sè noto, ma considerato riguardo a noi Dio è sol­ tanto in qualche modo per sè noto, poiché la sua evidenza rifulge alla nostra mente quando abbiamo considerato e • compreso piena­ mente il significato dei termini della proposizione « Dio è » . Secondo Olivi la dottrina del Damasceno: « Nemo quippe mortalium est, cui non hoc ab eo (Deo) naturaliter insitum sit, ut Deum et realem identitatem : non tamen hoc possumus sine multa investlgatione rationis et illustratione. Per multam enim investigationem zationum entium creatorum devenhnus in cognitionem peifectionis divinae essentiae e t divini esse». OLrvi, op. cit., III, p. 526. (18) «Ad argomenta igitur quae probant Deum esse per se notum dicenduxn quod quantum ad tertium modum per se notum bene arguunt. Non enim Deum esse est secundum omnem modum indubitabile nobis, sed solum cogi­ tanti piene rationes terminorum ». O livi, op. cit., III, p. 549. (19) O livi, op,, cit., Ili, pp. 550-551:* «Ad id autem quod probatur quod non sit per se notum dicendum quod licet apprehensis aliqualiter rationibus terminorum Deum esse possit dubitar! aut negali, non tamen apprehensis piene ». (20) O livi, op. cit., I l i, p . 526.

esse cognoscat » (21) va inteipretata non nel senso che la conoscenza divina sia un'idea innata o insita dalla stessa natura nel nostro spirito, ma nel senso che col lume naturale della ragione possiamo arrivare alla conoscenza di Dio; in questo senso, e non altrimenti, va intesa la dottrina del Damasceno secondo il quale la conoscenza di Dio è insita in noi dalla natura, proprio come va intesa l’espres­ sione: l’effetto è contenuto nella causa (22). L’iqteipretazione di Olivi è simile a quella di S. Tommaso: « Ejus (Dei) cognitio nobis innata dicitur esse in quantum per principia nobis innata de facili percipere possumus Deiim esse » (23) e simile a quella di G. de la Mare: « ...insertum est nobis quoddam lumen intellectuale quo faciliter potest cognosci Deum esse » (24). Olivi dando questa interpretazione della dottrina del Dama­ sceno si mostra del tutto indipendente dalla interpretazione che ne aveva data S. Bonaventura per il quale la conoscenza dell’esistenza di Dio è naturalmente impressa nel nostro spirito (25), dottrina che era stata professata pure dal suo maestro Alessandro di Hales (26). 2. - Vista la dottrina di Olivi, vediamo ora quella del suo pro­ babile discepolo (27) PIETRO de TRABIBUS, la cui dottrina sulla questione che stiamo trattando è sostanzialmente uguale a quella di Olivi. Con ciò però non rimane del tutto provato che, almeno nella presente questione, Pietro de Trabibus dipenda da Olivi; prima di tutto perchè quest’ultimo non è mai menzionato e poi anche perchè gli argomenti addotti da Pietro de Trabibus sono comuni agli sco­ lastici del sec. XIII. (21) De Fide Ortod., I, cap. 1.

PG 94, 790, Vedi sopra p. 51, nota (40). (23) In Uh. Boetii de Trinit. exposit., q. 1, a. 3 respond. (24) Vedi sopra p. 51, nota (39). (25) De Myst. Trinity q. 1, a. 1; Sent 7, dist. 8, pars I, a. 1, q. 2: « ... Cognitio essendi Deum nobis naturaliter est impressa; sed naturales impressiones non relinquunt nec assuescunt In contrarium: ergo verìtas Dei impressa menti hnmanae est inseparabilis ab ipsa: ergo non potest cogitari non esse». (26) «Dicendum quod est cognitio de Deo dupliciter: cognitio actu, co­ gnitio habitu. Cognitio de Deo in habitu naturaliter nobis impressa est, hoc est inest naturaliter nobis habitus impressus, scilicet primae veritatis in intel­ le c t^ quo potest conicere ipsum esse, et non potest ipsum ignorare anima ra­ tionales ». A lexander H alensis , Sum. theol., pars I, q. 3, m. 2 dicendum. (27) Vedi E. Loncpré, Pietro di Trabibus un discepolo di Pier Giovanni Olivi, in Studi Francescani, V ili, 1922. (22) Olivi, op. cit., Ili, p. 549.

Pietro de Trabibus alla questione « Utrum Deum esse sit cognitum menti humanae » (che quantunque non porti nel titolo l’espres­ sione « per se », nello svolgimento invece equivale esattamente alla nostra questione) dà ad essa un carattere piuttosto di sintesi delle di­ verse opinioni dei filosofi che l’hanno preceduto, mentre questo ca­ rattere non si nota affatto in Olivi. Anzi dal come quest’ultimo pre­ senta la questione, si potrebbe asserire che essa è una sintesi di quella trattata da Pietro de Trabibus perchè da questi svolta molto più ampiamente e più sistematicamente. Per determinare con sicu­ rezza la dipendenza di Pietro de Trabibus da Pietro Olivi bisogne^ rebbe sapere qualche cosa di più sicuro ed esatto sulla vita del primo autore, il quale disgraziatamente ancora è avvolto quasi com­ pletamente in una nube di mistero. Di Pietro de Trabibus non si sa con esattezza nè quando nè dove è nato, nè quando nè dove è morto. Il P. Delorme Io pone alla fine del XIII secolo (28). Ciò che sappiamo con sicurezza intorno a questo autore medievale è quel poco che lui stesso ci dice nel secondo prologo (29) del suo com­ mento al I lib. delle Sentenze: « Ego scriptor hujus operis cum in Ordine meo, scilicet Fratrum Minorum, multis annis legissem... »; era dunque francescano. Dal medesimo prologo si rileva, che inse­ gnava in una casa di studi superiori: «in loco solemni cum scholaribus solemnibus » e che ebbe delle noie da parte di alcuni suoi confratelli i quali, avendo egli introdotto alcune novità nel suo in­ segnamento, lo combattevano: « Non deterritus invidia aemulorum... nec displicentia multorum qui audita probant vel improbant magis affectu consuetudinis quam judicio rationis ». Alcuni hanno pensato che Pietro de Trabibus e Pietro Olivi fos­ sero un unico personaggio. Ma oggi questa ipotesi è stata supe­ rata (30). Pietro de Trabibus è un filosofo e teologo francescano della fine del sec. XIII. Delle sue opere per ora si conoscono soltanto il I, II e IV libro del Commento alle Sentenze di Pier Lombardo (31). (28) Vedi D elorm e F., Pierre de Trabibus et la disUnction formelle, in Trance Frandscaine, VII, 1924, p. 255. (29) Edito da D elorme F., art. cit., p. 259 ss. (30) Vedi G. Gàl, O.F.M., Commentarius Petti de Trabibus in IV librum Sententiarum Petro de Tarantasia falso inscriptus, in Archivum Franciscanum Historicum, XUV, 1952, p. 241. (31) G. G àl , op. cit., loc. cit. Il Padre B ataillon, O.P., ha scoperto re­ centemente un altro ms. del Comm. al II libro delle. Sentenza a Aosta Comu­ nale 4946. Anche il P. V ittorino D oucet , O.F.M., ha scoperto recentemente

Poiché la questione « Utrum Deum esse sit cognitum menti humanae » di Pietro de Trabibus non è stata ancora edita, noi abbiamo il piacere di offrire al lettore questa piccola novità, aggiungendo come appendice alla nostra tesi l’edizione critica di essa (32). Fac­ ciamo osservare che del I libro del Commento alle Sentenze di Pie­ tro de Trabibus, dove si trova la questione da noi studiata e edita, esiste ora soltanto un codice, quello della Biblioteca Comunale di Assisi 154. Secondo il P. Eherle un altro commento al I libro delle Sentenze di Pietro de Trabibus si trovava anche a.Torino, Bibliot. Naz. cod. I. III. 29, ma questo è stato distrutto da un incendio nel 1903 (33). Notati questi pochi dati indispensabili sulla vita e le opere di Pietro de Trabibus, passiamo ora all’esposizione della sua dottrina sul problema dell’evidenza dell’esistenza di Dio. Come abbiamo notato sopra, Pietro de Trabibus dà all’esposi­ zione della questione un carattere di sintesi delle diverse opinioni dei filosofi e teologi che l’hanno preceduto senza però nominarli. Tra le differenti opinioni ne sceglie una che è quella di Pietro Olivi, la quale caratterizza nella nostra questione la via di mezzo, sostenendo che essa è la migliore e la più sicura. Alcuni, e si può pensare che alludesse a S. Bonaventura (34), Alberto Magno (35), Gualtiero di Bruges (36), Egidio Romano (37), Nicola Occam (38) e Agostino Trionfo (39), sostengono che l’esistenza di Dio è per sé nota alla nostra mente basandosi sull’autorità del Damasceno (40) e un altro ms. del Comm. al IV libro delle Sentenze a Leipzig Unto. 524, f. 1=209

(Stegm. 713). (32) Vedi Appendice p. 144. - Per tutti i testi latini concernenti la dot­ trina di Pietro de Trabibus, rimandiamo volta per volta il lettore all’Appendice. (33) Vedi F. P elster , Franziskanerlehrer um die Wende des 13 und zu Anfang des 14. Jahrhunderts in zwei ehemaligen Turiner Hss., in Gregorianum, XVIII, 1937, p. 293 ss. (34) / Sent., dlst- 8, pars I; De Ventate et immutabilitate Dei, art. I; De Ventate Dei quaesf, II: Utrum divinum esse sit adeo verum, quod non possit cogitari non esse; De Myst. T r in it q. 1, a. 1: Utrum divinum esse sit verum indubitabile. (35) Som. Theol., pars I, tract. 3, q. 17. - Vedi sopra pp. 17-22. (36) A.H.D., p. 264. - Vedi sopra pp. 22-25. (37) A. D aniels , op. cit., pp. 73-75. - Vedi sopra pp. 25-29. (38) A. D aniels , op. cit., pp. 82-83. - Vedi sopra pp. 29-34. (39) M. Schm aus , op. ct*., pp. 937-938. - Vedi sopra pp. 34-40, (40) De Fide O r to d I, cap. 1 e 3. PG 94, 790 ss.

di Ugo di S. Vittore (41) i quali asseriscono l’inneità dell’idea di Dio nella nostra mente (42). Altri invece, come S. Tommaso (43), Enrico di Gand (44), Riccardo di Mediavilla (45) e Guglielmo de la Mare (46), negano senz’altro che l’esistenza di Dio sia a noi per sè nota in questa vita basandosi sull’autorità dell’apostolo S. Paolo il quale nella sua lettera agli Ebrei aveva asserito la necessità di credere l’esistenza di Dio (47). Se resistenza di Dio è oggetto di fede essa non può essere oggetto diretto della visione intellettiva; dunque l’esistenza di Dio non è per sè nota alla nostra mente (48). Altri filosofi invece, come Pietro di Tarantasia (49) e Pietro Olivi (50), distinguendo i diversi modi in cui può considerarsi una cosa per sè nota, nella risposta che danno alla questione, scelgono una via conciliatrice e questi, secondo Pietro de Trabibus, hanno scelto la via più sicura (51), la quale sarà seguita pure da lui. Poiché secondo Aristotele vi è un duplice modo di considerare una cosa evidente: in se stessa e riguardo a noi (52), così pure vi è un duplice modo di considerare una cosa per sè nota: in se stessa e in rapporto a noi. Pietro de Trabibus adotta la medesima distin­ zione adottata prima di lui da S. Tommaso e da Pietro Olivi; questa distinzione sarà criticata da Duns Scoto per il quale, come abbiamo accennato, è superflua. Una proposizione è in se stessa per sè nota, secondo P. de Trabibus, quando il predicato si trova naturalmente incluso nella natura del soggetto, mentre è a noi per sè nota quando immediatamente e senza alcuna investigazione e alcun ragionamento la sua verità e la naturale convenienza o relazione del predicato col soggetto balza spontaneamente al nostro intelletto il quale subito

(41) I De Sacramentis, pars III, cap. 1. PL 176, 217 A. (42) Vedi Appendice, p. 148. (43) I Sent., dist. III, q. 1, a. 2; De Verit., q. 10, art. 12; Sum. Theoî., pars I, q. 2, a. 1. - Vedi sopra pp. 41-46. (44) Sum. Quaest. Ordîn., t. I, a. 22, q. 2. - Vedi sopra pp. 46-48. (45) î Sent., dist. 3, a. 1, q. 2 resp. - Vedi sopra pp. 48-50. (46) A.H.D., p. 264. - Vedi sopra pp. 50-52. (47) Hebr. 11, 6: « Czedere enim oportet accedentem ad Deum quia est ». (48) Vedi Appendice, p. 148. (49) J Sent., dist. 3, q. 1, a. 2 respondeo. (50) Op. cit., III, p. 526. (51) Vedi Appendice, p. 148. (52) A rist., Ethic N ic o m VII, c. 9; Naturaîis Auscultât., I, c. 1.

vi aderisce (53). Da ciò ne segue che la proposizione « Dio è », è per sè nota (54) poiché il predicato « è » si trova naturalmente in­ cluso nel soggetto « Dio ». Ciò è assolutamente vero; l’autore però 10 asserisce troppo repentinamente e senza addurre alcuna prova, mentre spiega lungamente la grande diversità che esiste tra le cose che si dicono per sè note: tutte le cose naturalmente conosciute, cioè che sono per sè note o evidenti, della cui esistenza non si può asso­ lutamente dubitare, non sono però a ognuno di noi ugualmente manifeste o evidenti; ma alcune sono soltanto conosciute in un modo globale e confuso, altre invece in un modo particolare e distinto (55). Delle cose per sè note alcune sono patenti al nostro spirito non solo mediante l’intuizione diretta ma anche mediante la visione imma­ ginativa o figurativa, come per es. il principio riportato da tutti gli autori medievali: « il tutto è maggiore della sua parte». Poiché i nostri sensi e la nostra immaginazione sono perfettamente d’accordo ad ammettere la conveniènza o la relazione abituale e naturale fra loro dei termini di questa proposizione, difatti sia il tutto che la parte sono costatati dai nostri sensi e rappresentati dalla nostra im­ maginazione o fantasia, perciò proposizioni come questa o principi di questa specie non implicano nessuna contraddizione e sono uni­ versalmente e a tutti per sè noti (56). Così Averroes, commentando Aristotele, dice che i primi principi sono naturalmente conosciuti da tutti e sono come le porte di una casa che nessuno può ignorare (57). Altre cose o principi sono per noi evidenti, non perchè da se stessi si presentano come per sè noti, ma solo perchè la nostra ragione li ha scoperti, e una volta scoperti, il nostro intelletto li ritiene come assolutamente necessari, per sè noti o evidenti. Tali sono quelle cose o quei principi che non cadono sotto i nostri sensi e neppure pos­ sono essere individuati dalla nostra fantasia o immaginazione, come 11 principio: « le cose eterne e spirituali debbono essere preferite alle temporali e corporali». Poiché simili cose e simili principi non (53) Vedi Appendice, pp. 148-149. (54) Ibidem. (55) Ibidem . (56) Ibidem. (57) « E t est quod in quolibet genere entium sunt aliqua in respectu eorum quasi janua domus in respectu domus: in hoc quod non latet aliquem: sicut locus forte domus non latet aliquem. E t ista sunt prima cognita naturaliter habita a nobis in quolibet genere entium ». A verroes , Comm, in M e ta p h II, C. 1-2,, ed. Jacob! Myt, vol. V, fol. 25v, Lugduni, 1520.

sono oggetto diretto dei nostri sensi e della nostra immaginazione (58), allora possono essere accettati con una certa riserva non presentan­ dosi immediatamente come evidenti ai nostro spirito. Tali cose e tali principi sebbene possano ammettere qualche dubbio o qualche titu­ banza, che sorge spontanea nel nostro spirito sulla loro verità, que­ sta titubanza non può essere però duratura poiché la nostra ragione con prontezza e facilità può vedere la verità che quei principi rac­ chiudono e la naturale convenienza che esiste tra i loro termini (59). « Faciliter enim occurrit medium in talibus intellectui dubitantf» (60). Il nostro intelletto può facilmente dissipare la foschia del dubbio, non costituendo esso, in questo caso, un grande ostacolo al lume naturale della ragione. Così, come dice Àlgazel nella sua logica (61), alcune proposizioni sono dette per sé note perchè sonò facilmente comprensibili quantunque non lo siano immediatamente, altre invece sono chiare al nostro intelletto, non per se stesse, ma mediante il raziociniò, quantunque siano incomprensibili mediante l5immaginazione e i sensi, come per es. la verità: Dio presente ovun­ que e in tutte le cose. Questa verità, infatti, che un essere possa essere contemporaneamente ovunque, sembra assolutamente contra­ ria alla nostra, immaginazione e ai nostri sensi, perciò non può es­ sere compresa dalla gente incolta, ma soltanto dalle persone dotte e d’intelletto fino. Così, sebbene alcune verità di questo genere siano per sé note ai dotti, non sono però tali alla gente comune (62). Ciò era già stato detto da Boezio il quale aveva asserito nel suo libro De Ebdomadibus che alcune verità sono per sè note soltanto ai sapienti (63) e non a tutti quanti gli uomini. Così dunque resistenza di Dio è naturalmente per sè nota ad ogni mente umana, ma sol­ tanto in modo generale o globale e in modo confuso; così che resi­ stenza di Dio, come è conosciuta da noi, può ammettere delle titu­ banze e dei dubbi, non essendo Dio da noi conosciuto in modo par(58) Vedi Appendice, p. 149. (59) Ibidem . (60) Ibidem. (61) Logica et Philosophia A lgazelis Ahabis , Venetiis, 1506, fol. 14r; la medesima testimonianza di Algazel è riferita anche C. de la Mare . Vedi sopra p. 52. (62) Vedi Appendice, p. 150. (63) « Alia vero est doctorum tantum, quae tamen ex talibus communis animi conceptionibus venit, ut est: quae incorporalia sunt, in loco non esse etc., quae non vulgus, sed docti comprobant ». PL 64, 1311.

ticolare e distinto (64). Cioè, Dio è conosciuto da noi soltanto par­ zialmente, Egli non è a noi per sè noto che solo in qualche modo; ma ciò basta per renderci sicuri deiresistenza di Dio, quantunque la nostra certezza su ciò sia relativa, non assoluta, poiché essa non esclude completamente il dubbio che può sorgere spontaneo nel no­ stro spirito, appunto perchè l’esistenza di Dio non è del tutto per sè evidente come la nostra stessa esistenza. Il pensiero di Pietro de Trabibus è identico a quello di P. Olivi il quale aveva messo in evidenza il dubbio spontaneo circa resi­ stenza di Dio, non solo presso la gente ordinaria, ma pure presso i sapienti i quali, come tali, dovrebbero conoscere meglio le cose di­ vine avendo una più adeguata preparazione per comprendere meglio i problemi metafisici e tra questi il primo problema metafisico: la esistenza di Dio, prima causa e sorgente infinita di ogni esistenza finita. La soluzione addotta da Pietro de Trabibus sembra ai suoi propri occhi capace di conciliare le diverse opinioni circa l’evidenza delPesistenza di Dio: « E t secundum istum modum reducuntur ad concordantiam auctoritates quae utram que partem sonant. Sicut enim quaedam auctoritates dicuntur esse per se notae sic sunt aliae quae contrarium. sonant » (65). Giunti a questa conclusione, per essere completi nell’esposizione della dottrina di Pietro de Trabibus, riportiamo a modo di obbiezioni gli argomenti prò e contra l’evidenza dell’esistenza di Dio, facendo seguire a ciascuno di essi la risposta di Pietro de Trabibus.

a) Il primo argomento che sembra provare l’evidenza del­ l’esistenza di Dio è tolto dal Damasceno il quale asserisce l’inneità o Pimpressione naturale nel nostro spirito dell’idea di Dio: « Cognitio existendi Deum est omnibus naturaliter impressa » (66). Ma questa inneità o impressione in noi dell’idea di Dio, risponde P. de Trabibus, va intesa in un modo generale e confuso, non in un modo particolare e distinto (67). Che è quanto dire, altro è l’idea chiara e distinta che noi abbiamo di una cosa evidente come la nostra stessa esistenza, ed altro è l’opinione che noi abbiamo di una cosa mai vista, come la vita animale o umana nel pianeta Marte (64) (65) (66) (67)

Vedi Appendice, p. 150.

Ibidem . De Fide Ortod.y Ilb. I, cap. 1,3. Vedi Appendice, p. 147 e p. 151.

PG 94, 790 ss.

o in un altro pianeta, della quale possiamo opinare che sia reale e simile alla nostra, quantunque non siamo, per ora almeno, affatto sicuri. b) E’ naturalmente conosciuto dalla nostra mente ciò che non può essere negato da essa; ora l’esistenza di Dio non può essere negata dalla mente umana, poiché se si nega resistenza di Dio si deve pure negare resistenza di qualsiasi essere: ma la mente nostra non può assolutamente negare resistenza di ogni essere; dunque neppure può negare l’esistenza di Dio. La mente umana, risponde il nostro autore, non può negare resi­ stenza di Dio dopo che vi ha riflettuto molto e dopo che finalmente Tha provata attraverso molti ragionamenti risalendo dagli effetti alla causa prima, dall’essere partecipato all’essere assoluto, dalla verità relativa alla verità assoluta; ma prima di aver percorso questo lungo tragitto intellettuale, la mente umana può negare resistenza di Dio e difatti qualcuno, che riflette poco o poco bene, osa negarla. Quanto poi all’asserzione: negata l’esistenza di Dio deve essere pure ne­ gata 1’esistenza di ogni altro essere, quantunque sia assolutamente vera, non è però immediatamente evidente; difatti vi sono alcuni che hanno sostenuto reterni là del mondo e quella di ogni specie di essere vivente. Soltanto col ragionamento e con l’aiuto della scienza si può provare la contingenza del mondo e quindi la sua non eter­ nità; ma essa non è affatto per se evidente (68). c) Dio è l’essere di cui non si può pensare uno più grande; ora è conosciuto maggiormente ciò che è per sé noto che ciò che non è per sé noto. Ma Dio è il sommo cogitabile; dunque Dio deve essere necessariamente per sé noto. E’ vero, risponde Pietro de Trabibus, che non si può pensare un essere più grande di Dio e neppure uguale a Dio, diverso dal­ l’essenza divina. Ma da ciò non segue affatto che se viene proposto alla mente umana Dio come l’essere di cui non si può pensare uno più grande, la mente nostra necessariamente e immediatamente vi aderisca come ad una verità per sè evidente. Perciò la proposizione minore non è vera; difatti sebbene la proposizione « il tutto è mag­ giore della sua parte» sia per sè nota, non per questo è maggior­ mente vera della proposizione: Dio è il principio primo e l’unico (Dio); la quale proposizione non è per sè nota (69). (68) Vedi Appendice, p. 147 e p. 152. (69) Ibidem.

Pietro de Trabibus non si dilunga affatto neirargomento onto­ logico di Anselmo che ha accennato; e giustamente, perchè se l’ar­ gomento di Anseimo può provare resistenza di Dio, come ha detto Olivi, non prova però affatto l’evidenza dell’esistenza di Dio poiché, come vedremo più avanti, per Scoto si esigono almeno due sillogismi per scoprire la verità e la validità dell’argomento anselmiano (70). d) Un quarto argomento che prova l’evidenza dell’esistenza di Dio è identico al secondo (b) che abbiamo considerato: E’ na­ turalmente noto alla mente umana ciò che da essa non può essere ignorato; ora Dio non può essere ignorato dalla mente umana poi­ ché, come dice Ugo di S. Vittore, Dio ha così moderato la sua co­ noscenza neH’uomo che se non può dalla mente umana essere total­ mente conosciuto nella sua essenza, tuttavia non può mai essere ignorato nella sua esistenza (71). Dio, invece, soggiunge il nostro autore, può essere ignorato avanti che l’uomo con la sua ragione si applichi alla sua ricerca, ma non dopo. Da quanto ha detto Ugo ne segue soltanto che Dio è per sé noto in generale e confusamente, non in particolare e distintamente (72). Soltanto per i beati Dio è particolarmente, distintamente e essenzialmente per sé noto. A questi quattro argomenti, che avrebbero voluto provare l’evi­ denza dell’esistenza di Dio, ne seguono altri tre che vorrebbero pro­ vare il contrario. Le risposte di Pietro de Trabibus sono di grande interesse. a) Nessuna cosa per sé nota può essere negata con convin­ zione; ora l’esistenza di Dio può in qualche modo essere negata, dunque ecc.... La minore risulta chiara dal salmo dove l’insipiente asserisce che Dio non esiste: « Dixit insipiens in corde suo, non est Deus ». Dire col cuore infatti significa asserire con convinzione . A questa obbiezione, apparentemente molto grave perche si trova contenuta nella Bibbia, la quale contiene la parola di Dio, e quindi per un cristiano è Dio stesso a svelarci che la sua esi­ stenza è negata dall’insipiente, perciò la vera possibilità per un uomo (70) Vedi più avanti, p. 85. (71) « Deus ab initìo sic in hominem cognitionem suam temperavit ut, sicut numquam quid esset totum poterat compiehendi, sic quia esset numquam prorsus posset ignorali », / De Sacramente, pars III, cap. 1. PL 176, 217 A. (72) Vedi Appendice, p. 152.

di poter negare resistenza di Dio, a questa difficoltà, particolarmente visibile agli occhi di Gaunilone, il quale aveva preso le difese del biblico insipiente contro Anseimo, Pietro de Trabibus risponde at­ tenuando l’incredulità dell’insipiente, dicendo che questi non inten­ deva negare resistenza di Dio, come è naturalmente conosciuta da ogni uomo, cioè in modo generale e confuso, ma soltanto la negava in quanto essa non è conosciuta particolarmente e distinta­ mente. L’insipiente biblico è considerato dal nostro autore piuttosto come idolatra che come un autentico ateo; egli ha soltanto un’idea vaga di Dio, ossia non Lo conosce particolarmente e non conoscen­ d o la così, nè avendo la fede e la speranza di conoscerLo un giorno nella sua essenza come Lo conoscono i beati, per questo ha detto: Dio non esiste. Questa asserzione del biblico insipiente va intesa in un senso interpretativo, e non in un senso vero e proprio, poiché l’insipiente non temendo nè amando Dio, sembra che abbia la con­ vinzione che Dio non esìsta, come del resto va interpretato il salmo: Colui che ama l’iniquità, odia l’anima sua « Qui diligit iniquitatem, odit animam suam » perchè agisce in modo da arrecare danno all’anima sua, sebbene non intenda direttam ente far questo, essendo del tutto innaturale farsi volontariamente del male (73). Così il bi­ blico insipiente non nega direttam ente o formalmente Dio, ma sol­ tanto in pratica, con la sua condotta esterna, la quale fa supporre che anche la sua convinzione dell’esistenza di Dio sia in lui molto scialba e quasi inesistente. Nel biblico insipiente si può vedere anche Puomo, il quale volendo assecondare le sue passioni, le più brutali e materiali, temendo istintivamente, come osserva Olivi, la punizione di Dio, si sforza di convincersi che Dio non esiste per assecondare più liberamente il suo libertinaggio. E in realtà arriva a questa convin­ zione, poiché avendo anche gli occhi del suo spirito ripieni di ma­ teria, non vede che materia ed è incapace di concepire un essere assolutamente semplice e purissimo Spirito come è Dio. Il detto del biblico insipiente: Dio non esiste, « non est Deus », è l’antitesi del­ l’altro detto biblico: beati i puri di cuore perchè vedranno Dio, « beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt » (74). Dio non può essere veduto da un cuore impuro e da occhi cisposi di uomini ingolfati nel vizio, poiché non vi è nessuna proporzione tra la sem­ plicità e la purezza di Dio con la m aterialità e l’impurità degli occhi (73) Vedi Appendice, p. 147 e p. 152. (74) Ai*. 5, 8.

di un bruto. ^Soltanto i puri di cuore che assecondano soprattutto le aspirazioni spirituali e fuggono le passioni materiali e brutali, questi soli che hanno uno sguardo, semplice e puro, proporzionato alla sem­ plicità e alla purezza divina, potranno vedere, non coi loro occhi cor­ porali, Dio infatti non è un corpo, la gloria di Dio proclamata dai cieli e tutte le creature: « Coeli enarrant gloriam Dei et opera manuum ejus annuntiat firmamentum » (75). Bisogna assolutamente convincerci di ciò: Dio non può essere oggetto di una visione mate­ riale e neppure oggetto di una scienza fìsica o chimica; Dio è sol­ tanto oggetto di una visione spirituale e l’unica scienza che può con­ templare l’essere divino non può essere che la scienza metafisica. b) Un secondo argomento che vuol provare la non evidenza dell’esistenza di Dio è il seguente: la conoscenza di una cosa per sè nota è una conoscenza certissima; ora di nessuna cosa si può avere una cognizione certa se non è conosciuta nella sua propria essenza o mediante la sua causa. Ma poiché Dio non ha alcuna causa nè può essere conosciuto nella sua propria essenza, se non dai beati, resi­ stenza di Dio non è a noi per sè nota. La conoscenza certa di una cosa — risponde il nostro autore — non solo si può avere mediante la conoscenza della sua causa e della sua essenza, ma anche mediante la conoscenza dei suoi effetti propri ed immediati. Tuttavia antonomasticamente la conoscenza certa di una cosa si ha quando essa è a noi presente e quando essa è per sè nota. Ma parlando qui di una cosa per sè nota, non si intende par­ lare di una cosa semplice, ma composta, come di una proposizione o di un’asserzione in rapporto alla cosa significata. Ora in un du­ plice modo può una proposizione essere nota, alla nostra mente: 1° immediatamente ossia esplicitamente mediante la sua essenza, co­ sicché il significato dei due termini è immediatamente, esplicitamente e distintam ente presente alla nostra mente; ma ciò non è assolutamente necessario perchè una cosa sia detta per sè nota; 2® una pro­ posizione è nota alla nostra mente solo implicitamente, cosicché un termine è esplicitamente conosciuto per sè e immediatamente, l’altro invece soltanto implicitamente, in quanto si trova in qualche modo incluso nell’altro; ciò è sufficiente perchè ima cosa sia detta per sè nota. La proposizione: il tutto è maggiore della sua parte, è per sè nota, perchè nel tutto, che è per sè noto, immediatamente ed espli(75) P*. 18, 2.

ertamente si trova inclusa la parte. Così nell’essere o nell’idea di es­ sere che per sè esplicitamente si offre alla nostra mente, si trova incluso Dio sebbene non così evidentemente come nel caso della pro­ posizione precedente (76). Questa, naturalmente, è più evidente per noi che la proposizione « Dio è », perchè coi nostri sensi stessi pos­ siamo vedere il tutto nel quale vediamo pure intrinsecamente la parte o le parti di cui il tutto è composto. Una volta però che conosciamo Dio come l’essere di cui non si può pensare uno maggiore, l’essere da cui traggono l’essenza e l’esistenza tu tti quanti gli altri esseri, es­ sendo ogni singolo essere una partecipazione all’essere assoluto e sussistente, questo è nella nostra mente come il tutto che contiene le sue parti, ed è pure, dunque, in qualche modo a noi per sè noto. In qualche modo soltanto, perchè solo dopo che abbiamo l’idea di Dio come l’essere di cui non si può pensare uno maggiore o l’essere assoluto e sussistente, possiamo fare un simile ragionamento e pos­ siamo concludere che Dio è per sè noto, perchè la sua esistenza è inclusa nella sua essenza. e) Un terzo ed ultimo argomento, il quale trovandosi tra gli argomenti cantra dovrebbe provare la non evidenza dell’esistenza di Dio e invece prova che Dio è essenzialmente noto, è il seguente: Dio è più intimo alla nostra anima che Paniina a se stessa; ora l’anima conosce se stessa naturalmente, dunque anche Dio è ad essa essen­ zialmente noto. Cioè, Panima conoscendo se stessa naturalmente, conosce pure naturalmente Dio che si trova nelPintemo di essa. Que­ sto argomento è prettam ente agostiniano. Le sue vestigia si trovano nei libro X De Trinitate, cap. 8 (77) dove Agostino dice che l’anima essendo presente a se stessa, ha di se stessa una cognizione più certa di quella che ha degli altri esseri al di fuori di lei, e nel libro V ili De Trinitate, cap. 8, n. 12 (78) dove Agostino indica la pre­ senza di Dio al nostro spirito e nel nostro spirito in questi term ini: « Ecce jam potest notiorem Deum habere quam fratrem: piane notiorem, quia praesentiorem; notiorem, quia interiorem; notiorem, quia certiorem ». Questo testo di carattere lapidare è spiegato da S. Bonaventura nel I Sent., dist. 17, pars I, dub. 2 e nel medesimo libro, dist. 3, pars I, a. unic., q. 1, dove così si esprime non meno (76) Vedi Appendice, p. 147 e p. 152. (77) PL 42, 979 ss. (78) PL 42, 957.

chiaramente di S. Agostino : « Deus est unitus ipsi animae per praesentiam: ergo Deus verius cognoscitur quam alia, quae cognoscuntur per similitudinem ». A questo argomento che possiamo chiamare psicologico perchè concerne direttam ente l’anima umana. Pietro de Trabibus risponde che sebbene Dio sia più intimo all’anima nostra che essa a se stessa in ragione del principio vivificante e conser­ vante, perchè Dio vivifica l’anima e le conserva l’essere, tuttavia Dio non è l’oggetto diretto della visione intellettuale o spirituale dell’a­ nima (79); cioè l’anima non vede in se stessa direttam ente Dio, ma soltanto indirettamente, in quanto non può negare la presenza di Dio nel suo intimo, poiché ne sente gli effetti quantunque non veda la causa in se stessa. Pietro de Trabibus non condivide pienamente la dottrina di S. Agostino e di S. Bonaventura per i quali Dio è per se noto al­ l’anima umana, più evidente di qualsiasi altro intelligibile e sen­ sibile: « notoriem, quia praesentiorem; notiorem quia interiorem; notiorem, quia certiorem »; e San Bonaventura: «Deus verius cogno­ scitur quam alia ». Egli è partigiano della via media scelta da Olivi, per il quale Dio è soltanto in qualche modo a noi per sè noto. 3. - Un altro seguace della posizione media nella questione « Utrum Deum esse sit per se notum » è GUGLIELMO di WARE (?-1 3 0 0 ?). Per questi qualsiasi proposizione vera è rivelatrice di se stessa, ossia manifesta la verità contenuta in sè; ora la proposizione « Dio è », è verissima, dunque è massimamente nota (80). Non dice « maxime per se nota », ma semplicemente « maxime nota » che alla fine diventerà « propositio minus per se nota » (81) equivalente alla proposizione conclusiva « quoad nos autem (Deum esse) est per se notum aliquo modo » di Olivi (82). Appoggiandosi su argomenti riportati dà altri, Guglielmo di Ware dice che la proposizione « Dio è » è per sè nota avendo tutte le condizioni richieste perchè una proposizione sia tale. Queste con­ dizioni devono essere tre: (79) Vedi Appendice, p. 148 e p. 154. (80) « Quaelibet propositio vera est sui manifestativa; sed haec propositio est verissima: Deus est, et sic per consequens maxime nota». G. di W are, Quaestiones super lib. Seni., q. 21, ed. A. Daniels, op. cit.9 p. 98, presso ü quale soltanto si trova l’edizione della cit. quest. 21. (81) A. D aniels, op. cit., p. 102. (82) Olivi, op. cit, p. 526.

1° il predicato deve essere della natura del soggetto; 2° la proposizione non può essere negata direttam ente ma solo indirettam ente (83); 3° formulata la proposizione, l’intelligenza immediatamente deve aderire senza alcuna titubanza alla sua verità. Ora la proposizione « Dio è » ha queste tre condizioni: 1° difatti l’esistenza è inclusa nell’essenza divina; 2° nessuno può negare la proposizione « Dio è », purché con la parola « Dio» non s’intenda qualche cosa che non è Dio; 3® conósciuto il vero significato della parola Dio, l’intelli­ genza subito conclude alla sua esistenza (84). Seguono quattro argomenti in contrario ricavati da differenti autori cui G. di W are contrappone altri tre di diversi autori non meno autorevoli. Ci dispensiamo di fam e l’enumerazione e la spie­ gazione essendo il nostro scopo quello di studiare direttam ente il pensiero del nostro autore e non attraverso le autorità degli altri. Un’opinione però, che A. Daniels giustamente attribuisce a Pietro di Tarantasia e a Riccardo di Mediavilla (85), ci interessa par­ ticolarm ente per comprendere meglio la posizione dell’autore che stiamo studiando. Secondo un’opinione, continua G. di Ware, l’esistenza di Dio sarebbe per sé nota in modo generale e non in modo speciale o particolare, cioè, come spiega Pietro di Tarantasia, l’esistenza di Dio è conoscibile a noi in un duplice modo: o sotto un aspetto generale nel quale Dio si manifesta in tutti i suoi effetti in quanto è verità,

(83) Vedi sopra E. Romano e ti. O ccam, p. 34 e A. T rionfo, p. 40, nota (94). (84) « Dicunt quidam quod Deum esse est per se notum, quia habet omnes

conditiones quae requinm tur ad propositionem per se notam, quae sunt tres: scilicet quod praedicatum sit de ratioue subjecti; secundo quod non possit directe negari licet indirecte possit...; tertio quod statini in prolatione talis propositionis anima acquiesdt. Cum igitur haec propositio Deus est talis sit, quia esse est de inteUectu Dei, nec propositio potest negari, nisi bomo accipiat earn sub extranea signifìcatione, et etiam scito quod significetur nomine Dei statini quilibet assentit quod Deus est» . A. D aniels, op. cit.> p. 98. (85) A. D aniels , op. ci*., p. 100, nota 1.

bontà, unità ed entità e in questo primo aspetto Dio è per sè noto; oppure sotto l’aspetto proprio di Dio in quanto è Sommo Bene, e allora per la sua lontananza dai nostri sensi non è più per sè noto come sono per sè note le proprietà universali dell’essere o come è per sè noto il principio: il tutto è maggiore della sua parte; infatti cono­ sciamo immediatamente i principi, quando conosciamo immediata­ mente i termini da cui sono composti (86). Il medesimo pensiero si trova presso Riccardo di Mediavilla (87). La ragione per cui questi autori fanno la duplice distinzione: Dio per sè noto nelle condizioni generali dell’essere e Dio ignoto, o quasi, nelle sue condizioni particolari o speciali di Sommo Bene o nel significato intrinseco della parola Dio, è perchè ima proposizione è per sè nota quando i termini che la compongono sono evidenti alla nostra intelligenza come il tutto e la parte; ora ciò non avviene coi termini della proposizione « Dio è », perchè il termine Dio non rivela patentem ente il suo significato intimo, anzi per conoscerlo è neces­ saria una lunga investigazione e un grande lavorio intellettuale. A questa argomentazione G. di W are risponde come Anseimo rispose all’insipiente (88) che Dio è per sè notissimo perchè nessuno può (86) « ... cognoseibile aliquid dupliciter potest considerali: aut secundum se in propria natura — sic Deus est per se notimi, quia cum sit immaterialis per se est intelligibilis, e t non facit ipsum intellectus noster actu intelligibilem abstrahendo sicut cetera intelligibilia — aut in comparatione ad nos, et hoc dupliciter: aut in ratione generali secunduin quam relucet in omnibus suis effectibus in quantum est véritas, bonitas et hujusmodi et sic etiam est per se notum; aut in ratione propria qua dicitur Deus vel Summum Bonum, et hoc dupliciter. Nam propoter elongationem sui a sensu non statim occurrit intellectui sicut cetera principia, ut omne totum majus èst sua parte; hujus modi enim principia cognoscimus statim ubi terminos cognoscimus, sicut PhUosophus in I Post. ». P ietro di T arantasia, Seni, I9 dist. 3, q. 1, a. 2 respond. (87) Vedi sopra pp. 49-50. (88) Contro, insipientem. PL 158, 259. Anseimo non usa l'espressione « Deum esse est notissimum », ma la sua dottrina nel Proslogion e nel Contro Insipientem conclude all’esistenza notis­ sima o evidentissima di Dio; di£atti S. Anseimo suggerisce che non solo si deve rigettare ['argomentazione di colui che non ammette il suo argomento, ma bisogna addirittura sputare in faccia ad un simile insipiente: « ...etsi quisquam est tam insipiens, u t dicat non esse aliquid quo majus non possit cogitali, non tamen erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo senno ejus est respuendus sed et ipse conspuendus ». Per Anselmo Dio era tanto evidente che il negarlo suscitava in

giustamente concepire l’opposto ossia la non esistenza e la non evi­ denza di Dio (89). Bisogna notare che G. di Ware era uno dei fautori dell’argo­ mento ontologico di S. Anseimo (90) e quindi non aveva nessuna dif­ ficoltà ad accettarne la conclusione sia pure esagerata come questa: « Deum esse est notissimum ». La medesima esagerazione è stata detta da Olivi il quale accetta pure l’argomento di Anseimo modificandolo: « ...iste processus (l’ar­ gomento anselmiano da Olivi modificato) mirabilis est, quia non so­ limi convincit Deum esse, sed deducit ad cognoscendum hoc per se notissimum... » (91). Da questo linguaggio bisognerebbe concludere che questi autori erano arrivati a sì alto grado di speculazione e di contemplazione che fin da questa vita intuivano Dio come i beati nel paradiso!... Può darsi che fosse così; ma la condizione dell’uomo su questa terra è quella di cercare continuamente Dio anche se Lo crediamo per fede, perchè è proprio naturale all’uomo il cercar di comprendere anche la sua fede: « Fides quaerens intellectum ». Sotto un duplice aspetto, dice G. di Ware, una proposizione può essere per sè nota: o è per sè nota perchè è evidente la cosa significata, oppure è evidente o per sè nota la proposizione stessa; cioè la proposizione per sè nota va considerata « a parte rei aut a parte propositionis ». Se si considera sotto il primo aspetto la pro­ posizione « Dio è » è per sè nota, perchè l’esistenza di Dio non può essere negata. Dio ha veramente il suo essere e, dunque, considerato in se stesso (a parte rei) è evidente; ciò è chiaro e nessuno può met­ terlo in. dubbio. Ma se si considera una proposizione per sè nota sotto il secondo aspetto, allora ci si domanda se questa proposizione è per sè nota, presupposta la conoscenza del significato dei termini, oppure non presupposta questa conoscenza. Non si può dire che una proposizione è per sè nota senza presupporre la conoscenza dei ter­ mini, perchè allora ne seguirebbe che nessuna proposizione per sè nota sarebbe veramente per sè nota; infatti non si aderisce immedialui uno sdegno fino ad un’esagerazione: sputare in faccia ai negatori dell’evi­ denza dell’esistenza di Dio. (89) € ...contra hoc arguitur, quia Ànselmus contra insipientem dicit quod Deum esse est notissimum, quia non potest aliquis recte concipere oppositum ejus ». A. D aniels, op. c i t y p. 100. (90) A. D aniels , op. cit, p. 125. (91) Vedi pp. 134-135 nota (26).

tamente ad alcuna proposizione se prima non si è conosciuto il si­ gnificato dei termini, per es. se uno non conoscesse antecedentemente che cosa significa il tutto e la parte, non potrebbe sapere che il tutto è maggiore della sua parte, e così questa proposizione che è per sè nota, non sarebbe più per sè nota. Se invece si ammette che una pro­ posizione è per sè nota presupposta la conoscenza del significato dei termini, allora conosciuto il significato della parola Dio e il signifi­ cato del verbo essere o esistere, immediatamente ognuno conclude che Dio esiste; ne segue dunque che resistenza di Dio è per sè nota (92). Non si può negare che il ragionamento fila, ma asserire che una proposizione è per sè nota quando si è conosciuto antecedentemente e pienamente il significato dei termini da cui è composta, ha Fandatura di un ragionamento a circolo vizioso che non scopre nulla di nuovo come il seguente ragionamento: conosco la mia mamma, dun­ que la mia mamma è a me per sè nota perchè la conosco; il mede­ simo ragionamento si può fare riguardo alFesistenza di Dio: cono­ sco Dio, dunque Dio è per sè noto perchè lo conosco. Un simile ragionamento ci sembra del tutto inutile. Per dichia­ rare l’evidenza dell’esistenza di Dio, non si deve partire da una pro­ posizione già fatta, perchè questa è il risultato o di una evidenza constatata o di una ricerca compiuta; è certamente per sè nota la pro­ posizione: « FAmerica esiste », dopo che Cristoforo Colombo l’ha sco­ perta!... L’evidenza dell’esistenza di Dio non va veduta attraverso le proposizioni, che se ne. possono fare tante, ma attraverso la realtà. D ire che Dio è per sè noto perchè la proposizione « Dio è » è per sè nota, è una forma di ragionamento che non ha senso. E’ più logico (92) « ...propositio per se nota aut dicitur per se nota evidentia a parte rei aut a parte piopositionis. Si primo modo, certum est quod haec propositio Deum esse est per se nota quantum est ex parte rei. Si secundo modo, tune quaeritur aut per se nota praesupposita signifìcatione terminorum aut non prae­ supposita. Non potest dici qua non praesupposita, quia tune sequeietur quod nulla propositio per se nota esset per se nota. Non enim est aliqua propositio cui immediate assentiatur nisi prius sciatur quid per términos signifìeetur: v.g., nisi homo prius sciret quid signifìeetur nomine totius et partís nesciret quod omne totum est majus sua parte, et sic illa propositio quae est per se nota non esset per se nota. Si dicatur quod propositio est per se nota praesupposita si­ gnifìcatione terminorum, tune, cum scito quid signifìeetur nomine Dei et quod per esse Dei signifìeetur, quilibet statim assentiet quod Deus est, sequitur Deum esse per se notum esse». A. D aniels, op. cít, p. 100.

dire: una proposizione è per sè nota perchè la cosa che essa significa è per sè nota, anziché dire: una cosa è per sè nota perchè la pro­ posizione che la significa è per sè nota- Non è la realtà che va misu­ rata sulle proposizioni, ma le proposizioni che devono misurarsi sulla realtà. Così Dio non è per sè noto perchè la proposizione « Dio è » è per sè nota, ma al contrario la proposizione « Dio è * è per sè nota se Dio è per sè noto. D ifatti la proposizione per sè nota è un risultato dell’evidenza della cosa significata. Quindi per dimostrare l’evidenza dell’esistenza di Dio, non si deve partire dalle pro­ posizioni per sè note, ma si deve partire da Dio stesso. Se Dio è per sè noto, anche la proposizione che esprime la sua evidenza è per sè nota; ma se Dio non è per sè noto, neppure la proposizione « Dio è » è per se nota. Chi avesse la pretenzione di provare che Dio è per sè noto perchè la proposizione « Dio è » è per sè nota cadrebbe, secondo noi, in errore. Non perchè la proposizione: « la terra gira », era evidente nella mente di Galileo e per questo vera­ mente la terra girava, ma la proposizione: « la terra gira », era evi­ dente nella mente di Galileo perchè veramente la terra girava e Ga­ lileo l’aveva intuito. Anche un pazzo pronuncia la proposizione: « io sono un sapiente », e ne è pienamente convinto e quindi quella pro­ posizione ha il carattere di per sè noto per lui. Ma da quella propo­ sizione che il pazzo pronuncia non si può affatto concludere che egli sia veramente sapiente, anzi si conclude il contrario. Basarsi sulle proposizioni per dimostrare l’evidenza di Dio, equivarrebbe a dimostrare l’evidenza della propria casa dopo che si è costruita con le proprie mani mettendo pietra su pietra. Avendo detto G. di W are: « ...scito quid significetur nomine Dei et quid per esse Bei significetur, quilibet statim assentiet quod Deus est, sequitur Deum esse per se notum esse » (93), per questa conclu­ sione è andato incontro alla seguente obbiezione: se è vero cotesto ragionamento, allora è anche vero che ogni conclusione geometrica è per sè nota; perchè, se è per sè nota quella proposizione cui la nostra intelligenza aderisce immediatamente appena conosciuto il significato dei termini e l’inerenza del predicato col soggetto, ne segue necessariamente che qualsiasi conclusione geometrica e qual­ siasi proposizione necessaria è per sè nota, perchè conoscendo per­ fettam ente il significato del soggetto, immediatamente si conosce l’inerenza del predicato col soggetto, sia questa una conclusione pro(98) Vedi sopra p. 75 nota (92).

vata oppure una proposizione necessaria. Per es. se qualcuno conosce perfettam ente che cosa s’intende con la parola triangolo, subito com­ prende che è una figura geometrica composta di tre angoli la cui somma è uguale a due retti. Ora non è affatto vero che qualsiasi con­ clusione di questo genere sia per se nota (94). Cotesta obbiezione, risponde G. di Ware, non conclude affatto, secondo quello che abbiamo detto sopra, poiché una proposizione è per sé nota quando appena conosciuto i r significato di un termine, immediatamente dalla stessa natura di quel termine e non dalla sua relazione ad un’altra cosa, si vede che un tale determ inato.predicato, deve necessariamente essere inerente ad un tale soggetto (95) e vice­ versa. Guglielmo di W are fa certamente allusione all’essenza divina la quale necessariamente include l’esistenza. Còsi colui che ha un’idea esatta del termine Dio, dalla stessa natura di questo termine deve necessariamente concludere l’esistenza di Dio, la quale dunque è per sé nota. In termini più semplici G. di W are vuol dire che ogni soggetto, e quindi ogni essere, include necessariamente nella sua natura un predicato, e viceversa ogni predicato manifesta la natura del suo soggetto, a condizione che il predicato inerisca naturalm ente al suo soggetto. Di ogni essere o soggetto il primo predicato naturale è la sua esistenza, cioè il silo stesso essere che noi esprimiamo col verbo essere o esistere; per es. il mondo è, oppure: il mondo esiste. Ciò è per sé noto. Così è di Dio. Conosciuto pienamente il significato della parola Dio, cioè conosciuto Dio come l’essere necessario oppure come l’essere di cui non si può pensare un altro più grande, neces­ sariamente bisogna attribuirgli il primo predicato che è l’essere o l’esistere, come bisogna fare per ogni altra cosa reale. Anzi l’essenza divina essendo infinita, esige anche che la sua esistenza sia infinita, come nella creatura, essendo lim itata l’essenza, anche resistenza è lim itata. Dunque l’esistenza, dovendo essere attribuita necessaria­ mente a Dio, per ciò essa è per sè nota. La proposizione « Dio è » inoltre è necessaria ed è per sè nota perchè la sua evidenza in (94) A. D aniels, op. ciL, p. 101. (95) « ...ista ratio in nulla concludit juxta praedicta, ideo dico ad ìpsam quod ilia propositio est per se nota, quando scito quid signifìcetur per nomen termini statini ex natura termini, non ex relatione ad aliud, scitur praedicatum inesse subjecto tali» . A. D aniels, op. c it.9 p. 101,

se e da sè, non da altra causa : « propositiò illa necessaria est per se nota quae non habet evidentiam ab alio sed a se solum » (96). Non però tutte le proposizioni necessarie sono per sè note, per­ chè ve ne sono molte che hanno la loro necessità da un’altra causa, per es. la proposizione il mondo esiste. L’esistenza del mondo non è dipesa dal mondo stesso, ma da un’altra causa, dunque quantun­ que la proposizione il mondo esiste sia veramente necessaria, però non è del tutto per sè nota perchè esige la conoscenza di un’altra causa perchè sia veramente compresa. Come vi sono proposizioni più o meno contingenti, più o meno necessarie, ecc. (97), così vi sono proposizioni più o meno per sè note. Tra queste vi è ima certa graduatoria; difatti alcune proposi­ zioni sono per sè note « in suo potissimo esse », nel loro particola­ rissimo essere, quando cioè il significato dei termini è conosciuto sensibilmente e sperimentalmente senza grande fatica, come risulta dai termini di questa proposizione: il tutto è maggiore della sua parte. L’uomo infatti conosce sensibilmente che cosa è il tutto e che cosa è la parte. Altre proposizioni invece sono per sè meno note, (96) A. D aniels, op d t.9 p. 101; secondo D uns Scoto: «A d necessita­ teli! propositionis sufficit necessaria concomitantia extremorum, ita quod posilo uno ponatur alterwn, licet neutruzn necessario eristat». Opus primum super I Ferihermenias, q. 8, n. 6. (97) A. D aniels, op. d t.9 pp. 101-102. - A titolo di richiamo, riportiamo

i diveisi gradi di proposizioni necessarie: « Qualsiasi giudizio universale e necessario implica che la cosa non possa essere che così e perciò che sia sempre così (tutte le volte che sarà). Però questa necessità e quindi Vuniversalità che ne deriva hanno dei gradi. 1° Necessità metafisica: si ha quando il giudizio è basato sull’essenza stessa delle cose. In questi casi il contrario è « contraddittorio » e quindi impos­ sibile nel modo più assoluto. L’uomo è ragionevole; il triangolo ha tre lati, ecc. Neppure Dio potrebbe fare un essere che, essendo uomo, non fosse ra­ gionevole. 2° Necessità fisica': quando il giudizio è basato su leggi fisiche certe. Il contrario è « naturalmente impossibile », ma non a Dio, padrone della natura. Un corpo lasciato libero cade; il fuoco brucia; i morti non risorgono. 3° Necessità morale: quando il giudizio è basato sulle inclinazioni di un essere libero. Le eccezioni sono possibili per il semplice esercizio della, libertà creata. La madre ama i figli; i fratelli non si uccidono fra loro. Si noti perciò che la previsione di un caso singolo, assolutamente certa nel primo tipo di necessità, diviene sempre meno assoluta negli altri due» (G. Bekghin-Rosè , C.M., Elementi di Filosofia, voi. I, Logica, pp. 65-66).

quando cioè il significato dei loro termini non è conosciuto sensibil­ mente come il tutto e la parte della proposizione precedente, ma si richiede grande studio e riflessione perchè sia pienamente compreso. Così è del significato dei termini della proposizione « Dio è », poiché l’uomo non conosce il significato se non con lo studio e la riflessione; quindi cotesta proposizione non è del tutto per sè nota come la prima, ossia: il tutto è maggiore della parte(98). (98) Guglielmo di Ware così si esprime: « ...in piopositionibus per se notis est dare aliquam propositionem per se notam in suo potissimo esse, quando scilicet significata tenninorum sensibiliter et experimentaliter sciuntur sine magno labóre: sicut patet de tenninis hujus propositionis: omne totum est etc.... Sen­ sibiliter enim scit homo quid totum et quid pars. E t illa propositio est minus per se nota quando significata terni inorimi non sciuntur sensibiliter sed cum magno labore. Et quia sic est de signifìcaiis hujus propositionis: Deus est, quia homo nescit nisi cum magno labore: ideo ista propositio non est per se nota quia prim a ». (A. D aniels , op . c it.t p. 102). Il testo di quest’ultima frase che noi abbiamo voluto riferire espressamente, offre non poche difficoltà. Infatti nei diversi codici assume significati diversi. Oltre il testo surriferito e adottato da Daniels; come dice questo stesso autore, nel Ms. di Wiener Hofbibliothek 1438 si legge :«ideo ista propositio non est nota per se quasi p rim a *; nel Ms. di Merton College Oxford 103 si legge: « ideo ista propositio non est per se nota quoad nos lioet in esse suo potissimo et ideo per se nota quia prim a om nium »; nel Ms. della Biblioteca Laurenziana di Firenze, Plut. 33 dext. 1 fai. 20r si legge: «Ideo ista propo­ sitio non est per se nota quia prim a dico quo ad nos, licet simpliciter sit notis­ sima »; nel Ms. della Bibl. Naz. di Firenze, Conv. Sopp. C. 4, 991, fol. 21 d si legge: «Ideo ista propositio non est per se nota quia p rim a ». Quest’ultimo testo è uguale a quello adottato da A. Daniels; infine nel Ms. della Bibl. Naz. di Firenze, Conv. Sopp. A. 4, 42, fol. 15b si legge: « Ideo ista propositio non est per se nota sicu t prim a ». Quest’ultima lezione e la prima che abbiamo enu­ merata «quasi prim a», ci sembrano le più giuste in relazione al testo prece­ dente e allora la frase avrebbe questo senso: cotesta proposizione non è per se nota com e la prima o precedente proposizione; oppure: cotesta proposi­ zione non è per se nota quasi fosse la prima o precedente proposizione. Se invece si mette in relazione col testo che segue, allora la frase: «ideo ista propositio non est per se nota sicu t prim a » o « quasi prim a * acquista un altro senso e cioè: cotesta proposizione non è per se nota com e una proposizione prim a , o quasi fosse una proposizione prim a . Anche questo senso è buono anzi forse mi­ gliore del senso precedente. D ifatti nella frase che segue al testo riportato si parla delle proposizioni prim e le quali secondo Averroès, citato da G. di Ware, sono le proposizioni più manifeste e più chiare a comprendersi : « D.d,&. (deinde dicitur et) quoxnodo scienda est veritas. i. (idest) quaerebant quibus propositiombus, et quibus principiis oportet scire veruni existens in primis pro­ positionibus, et hoc non possunt quia non inveniunt pzopositiones znanifestiores primis: et etiam quia contingit eis, aut circulo, aut demonstrationem procedere

G. di W are non vuol provare che la proposizione « Dio è » non sia per se nota, ma che essa non è pienamente per sè nota perchè si richiede una certa investigazione e riflessione per essere del tutto compresa. in infinitum. Et causa erroris eorutn fuit, quia nesciunt quod dictum est in Ànalyticis de disputationibus primarum propositìonum, et de differentia illius, quod est notum per se, et illius quod est notum per aliud » (Octavum volameli

Aristotelis Stagyritae Metaphysicorum libri XIIII cum Averrois Cordubensis in eosdem commentariis, Venetiis apud Juntas 1552. Lib. IV, f. 35r.). Anche un altro filosofo arabo Algazel parla nella sua logica delle proposizioni prime che equivalgono alle proposizioni per sè note : « Primae propositiones sunt quas per se necesse est naturaliter intellectui credere: ut haec duo sunt plusquam unum; et omne totum est majus sua parte et quaecumque aequalia eidem: et inter se; si quis enim posuerit se subito factum intelligentem sine praecedente doctore et educatione: et propositae fuerint ei hujusmodi propositiones statim intelligit sensum earum cum cognoverit sensum totius et partis: et majoris: non poterit ergo tunc credere totus non esse minus sua parte: et hoc est in quolibet tato; hoc autem non contingit ex sensu: sensus enim non apprehendit nisi hoc unum: vel haec duo: Res vero nominata sic: et quaelibet designata, lllud autem judicium est fixum in intellectu naturaliter non potest unquam compaiari intellectus ad hoc aliquo modo » (Logica et philosophia Algazelis Arabie, Venetiis, 1506, f. llr). Per Algazel le proposizioni prime equivalgono alle proposizioni per sè note: « Ipsa principia non probantur in ipsa arte: sed vel sunt prim a: et vocantur per se nota u t hoc quod d id tu r in principio Euclidis cum aequalibus aequalia adduntur tota quoque sunt aequalia: et cum de aequalibus aequalia demuntur quae nelinquuntur aequalia sunt vel sunt prima sed sunt recipienda a magistro » e un po* più giù nel medesimo foglio : « Species quarta est de omnibus conditionibus propositìonum demonstrationis quae quatuor sunt scil. quae sunt vel et neoessariae e t primae e t essentiales; vel intelliguntur certis­ sime : sicut et per se notae... ». (Ibid., f. 14r). Tanto in Averroès quanto in Algazel la proposizione prima è quella che rifulge della più grande evidenza, dunque G. di Ware non poteva concludere che la proposizione: «Deus est... non est per se nota quia prima » perchè aveva dimostrato precedentemente che la proposizione «Deus est» è «minus per se nota » e quindi non apparteneva a quelle proposizioni per sè note « In suo potissimo esse »; dunque, salvo errore da parte mia, credo che le due mi­ gliori versioni dei diversi codici enumerati, quelle da preferirsi sono le se­ guenti: « Ideo ista propositio non est per se nota sicut prima » e la ltra : « Ideo ista propositio non est per se nota quasi prima ». Adottando queste due versioni se si riferisce l’espressione « sicut prima » o « quasi prima » al testo precedente o al testo seguente otteniamo il medesimo risultato e cioè: la proposizione « Deus est », non è per sè nota, come una proposizione prima nel senso di Averroès, e non è per sè nota, come la proposizione prima o precedente, la quale è pure una proposizione prima nel senso di Averroès e di Algazel, come la proposizione il tutto è maggiore della sua parte dove l’evidenza dei termini

Il pensiero di G. di W are ci sembra simile a quello di Olivi il quale afferma che Dio è per sè noto « secundum se », ma « quoad nos », è soltanto in qualche modo per sè noto (99). Basta confrontare le affermazioni di Olivi e di G. di W are per convincersi che questi due autori, quantunque si esprimano in ter­ mini differenti, hanno però il medesimo pensiero; Olivi conclude la questione in questi termini: « E t ideo, licet istud principium (Deum esse) possit esse nobis per se notum quia possumus cognoscere habitudinem terminorum et realem identitatem : non tamen hoc pos­ sumus sine multa investigatione rationis et illustratione » (100). Alla quale dottrina fa eco quella di G. di W are (101). I termini dei due autori sono diversi; ma, come abbiamo già notato, il pensiero è iden­ tico. L’espressione « minus per se nota » di G. di W are equivale all’espressione « aliquo modo » di Olivi. Il seguito della trattazione di G. di W are lo conferma. D ifatti quest’ultimo avvicinandosi alla conclusione e rispondendo all’obbiezione principale contenuta nel salmo: Dixit insipiens... dice che una proposizione non deve essere giudicata in una maniera o in un’altra secondo il giudizio di ognuno, ma secondo il giudizio del sapiente, il quale, come dice Aristotele, giudica e comprende rettam ente ogni cosa e vede la verità nelle sin­ gole cose (102). Dunque se l’insipiente ha negato l’esistenza di Dio, non per questo la proposizione « Dio è » perde la sua evidenza, poi­ ché secondo il giudizio del sapiente e non dell’insipiente va giudi­ cata una proposizione per sè nota (103). Se il sapiente ha il privi­ legio di giudicare se ima proposizione è per sè nota oppure no, egli però non giudica insipientemente, ma prima riflette, pondera bene gli argomenti pro e contra e finalmente pronuncia il suo giudizio. Còsi fa per provare l’esistenza di Dio. Quantunque portato istinti-

si conosce « sine magno labore ». Invece « illa propositio est minus per se nota quando significata terminorum non sciuntur sensibiliter sed cum magno labore. Et quia sic est de significali hujus propositions: Deus est, quia homo nescit nisi cum magno labore» (A. D aniels , op. c i t 102). (99) O livi, op. cit., 526. ( 100)

Ibidem.

(101) A. D aniels , op. cit., p. 102. Vedi la fine della nota (98), p. 81. (102) « Studiosus enim singula omnia judicat xecte et intelligit et singulis veruni ei apparet ». Ak ist ., Ethic. Nicomac., I l i , c. 4, 1113, 16-18. . (103) « E t ideo, si insipiens negavit hoc, scil. Deum esse, non minus est propositio per se nota, cum respectu sapientis et non respectu insipientis judicaie debeat per se nota ». A. D aniels, op. cit.9 p. 103.

vamente a pensare Dio come Tessere di cui non si può pensare uno più grande, l’essere la cui essenza esige necessariamente resistenza, Tessere primo e sommamente necessario e quindi necessariamente esi­ stente, quantunque tutti gli esseri esigano evidentemente un primo essere da cui hanno preso il loro essere, e tutte le creature manifestino resistenza di Dio, tuttavia il sapiente prima di dire che Dio è per sè noto, cioè evidente, almeno nei suoi effetti, riflette, studia, consi­ dera attentamente tutte le cose e finalmente dopo una lunga e fati­ cosa ricerca trova quel Sommo Bene cui si sentiva portato istintiva­ mente è naturalmente* Dio è per sè noto alTuomo dopo che questi Tha trovato o nel fondo del suo spirito o nelle creature che portano la sua immagine; ma per scoprirlo non è stato così facile come per scoprire la propria esistenza. Dio è certamente per sè noto considerato in se stesso, ma in relazione a noi è soltanto in qualche modo per sè noto, potendo costatare la sua esistenza dopo che l’abbiamo provata. Ciò è quanto si rileva dall’espressione « quoad nos autem (Deum esse) est per se notum aliquo modo » (104) di Olivi e dalla proposizione « minus per se nota » (105) di Guglielmo di Ware. 4. - Quantunque DUNS SCOTO (1263P-1308) abbia commen­ tato le Sentenze a Parigi nel 1303 in qualità di baccelliere (106), tut­ tavia non possiamo dispensarci dall’esaminare la sua dottrina sulla nostra questione perchè egli la studia dettagliatamente e porta una soluzione particolare al problema. Inoltre vogliamo studiare anche Scoto perchè questi viene considerato come Tultima grande figura deir alta scolastica, e segna perciò un limite nella storia della filosofia medievale. Scoto si domanda se un essere infinito esistente, cioè Dio stesso, sia per sè noto (107). Per la sentenza affermativa porta quattro argo­ menti comuni agli altri filosofi, e per la sentenza negativa il solito argomento dell’insipiente del salmo. (104) O livi, op. cit., p. 526. (105) A. D aniels , op. dì., p. 102. (106) Vedi C. Ba u c , Duns Scoto, in Enciclopedia Cattolica, C ittà del Va­ ticano, IV, col. 1982. (107) « Utrum aliquid infinitum esse sit per se notum * Ordinano I, dist. 2, pais. I, q. 2, ed. C. B alic , II, Città del Vaticano, 1948, p. 128. Riferendoci a quest’opera in seguito, indicheremo brevemente J.D.S., op. cit., p.......

A questi quattro argomenti Scoto risponde col più grande scru­ polo di precisione, dopo aver esaminato minuziosamente come va intesa una proposizione per sè nota. Esporremo prim a i quattro argomenti affermativi (108), facendo seguire a ciascuno di loro il giudizio di Scoto (109), e poi come SCOLIO la dottrina dello stesso autore sulla proposizione « Dio è » se essa è per sè, nota.

a) Dio è per sè noto perchè, secondo il Damasceno, la cogni­ zione dell’esistenza di Dio è insita in tutti noi dalla stessa natura; ora è per sè noto quell’essere la cui conoscenza è insita in tu tti dalla natura, come dice lo stesso Aristotele (110) per il quale i primi prin­ cipi, che sono come le porte di ima casa, sono per sè noti; dunque l’esistenza di Dio è per se nota (111). A questo argomento, tratto dalla dottrina del Damasceno, Scoto risponde come avevano risposto prim a di lui San Tommaso (112), Olivi (113) e G. de la Mare (114); e cioè, la frase del Damasceno non va intesa nel senso che l’idea o la conoscenza di Dio sia infusa o insita in noi con un’azione diretta ed immediata da parte di Dio, e quindi l’idea o la conoscenza dell’esistena di Dio sia in modo abi­ tuale nel nostro spirito, ma va intesa nel senso che con la nostra naturale potenza conoscitiva possiamo conoscere Dio attraverso le creature, le quali con le loro proprietà trascendentali, entità, verità, bontà ed unità, ci permettono di salire fino a Dio in Cui queste pro­ prietà si trovano ad un grado infinito come l’esige l’essenza divina. Che Damasceno non intenda parlare di una nostra conoscenza di­ stinta e attuale di Dio, si deduce da quanto lui stesso dice: « Nemo umquam Deum cognovit, nisi cui ipse revelaverit » (115) nessuno co­ nosce Dio se non in quel tanto che lui stesso si è rivelato (116). (108) J.D.S., op. cit., pp. 128-130. (109) Ibidem, pp. 145-148. (110) Meteph., II, t 1 (a c. 1, 993 b 4-5). Vedi Avehroès, Comm. in Metaph., II, c. 1-2, ed. cit., V, f. 25v. (111) J.D.S., op. d t., II, 128-129, n. 10. (112) In Lib. Boetii de TtM t. Exposit., q. 1, a. 3 respond. (113) Op. cit., III, p. 549. (114) A.H.D., p. 264. (115) De Fide Ortod., c. 1. PG 94, 790. (116) «Ad argumentum principale Damasceni: potest esponi de potenza cognitiva naturaliter nobis data per quam ex creaturis possumus cognoscere Deum esse, saltern in rationibus generalibus (subdit ibi qualiter cognoscitur ex

Con questa interpretazione della dottrina del Damasceno, Scoto sembrerebbe in contraddizione con quanto dirà, come vedremo, e cioè che la proposizione « Dio è » è per sè nota (117). O Dio è per sè noto o non è per sè noto. Se è per sè noto è inutile dimostrare la sua esi­ stenza; ma se non è per sè noto allora perchè dire che la proposi­ zione « Dio è » è per sè nota? Per Scoto, sotto un aspetto resistenza di Dio è per sè nota a colui che concepisce distintamente e nel mede­ simo tempo in relazione l’uno all’altro i termini della proposizione « Dio è », ma sotto un altro aspetto l’esistenza di Dio non è per sè nota perchè nessun intelletto umano in questa vita può concepire di­ stintamente e adeguatamente l’essenza e l’esistenza divina (118). Per questo, rispondendo al primo argomento occasionato dalla dottrina del Damasceno, Scoto in definitiva conclude che Dio non è per sè noto nel senso che abbiamo precisato. Per questa luce ed ombra nella conoscenza dell’esistenza di Dio, possiamo avvicinare la dottrina di Scoto a quella di Olivi per il quale, come abbiamo già visto, l’esistenza di Dio è per se nota soltanto in qualche modo, e cioè conosciamo Dio in questa vita non pienamente nè distintamente nè adeguatamente. Scoto come Olivi, Pietro de Trabibus e Guglielmo di Ware, seguirà la via media. La proposizione « Dio è » in se stessa non può essere che per sè nota, perchè l’essenza divina include necessariamente l’esistenza, ma nel medesimo tempo l’esistenza di Dio non è per sè nota a noi come la nostra stessa esistenza, perchè la conoscenza che abbiamo di Dio in questa vita è molto lim itata ed imperfetta. Dio non può essere che soltanto in qualche modo per sè noto. b) Un secondo argomento per dimostrare che l’esistenza di Dio è evidente, è tratto dal famoso argomento ontologico di S. Anseimo e può essere formulato in questo modo: l’essere di cui non si può pensare un altro maggiore è per sè noto; ora Dio, secondo An­ seimo (119), è l’essere di cui non si può pensare un altro più grande; dunque Dio è per sè noto. Dio non può essere finito, aggiunge Scoto; creaturis) vel de cognitione Dei sub rationibus comraunibus convementibuS sibi et creaturae, quae cognita peifectius et eminentius sunt in Deo quam in alijs. Quod autem non loquatur de cognitione actual! et distincta Dei patet per hoc quod dicit ibi: « Nemo novit eum nisi quantum ipse revelavit». J.D.S., op. cit.y II, p. 145, n. 34. (117) Ibidem, p. 138, n. 25. (118) Cfr. J.D.S., Quodlibet q. 14, ed. L. Vivès, 1891-1895. (119) P ro slo g c. 5. PL 158, 229.

dunque è infinito. Ciò è chiaro, perchè se Dio, per impossibile, fosse finito allora si potrebbe pensare un altro essere superiore a Dio, cioè im essere infinito; ora Dio è infinito; dunque l’esistenza di Dio in­ finito è per sè nota. - Non si può dire che resistenza di un Dio infinito sia soltanto nel pensiero e non nella realtà, poiché allora Dio infinito non Sarebbe più l’essere di cui non si può pensare un altro essere più grande, infatti sarebbe più grande l’essere esistente nella realtà di quello esistente soltanto nell’intelletto; dunque l’essere infinito, di cui non si può pensare un altro più grande, deve necessariamente esistere nella realtà ed è per sè noto (120). Scoto risponde facendo notare che Anseimo non dice che la pro­ posizione: Dio è l’essere di cui non si può pensare uno maggiore, è pei sè nota. D ifatti non può essere per sè nota una proposizione che richiede un sillogismo affinchè si scopra la verità contenuta in essa. O ra la proposizione di Anseimo esige due sillogismi perchè appaia del tutto vera, uno dei quali è il seguente: ’ l’ente è maggiore del non­ ente; ora nessuna cosa è maggiore del sommo ente, dunque il sommo « ite non è un non-ente’; e l’altro: ’ ciò che non è non-ente è un ente; ora il sommo ente non è non-ente, dunque il sommo ente, è un en te’ (121). Con questi due sillogismi si dimostra l’esistenza del Spirano ente; e poiché sono necessari due sillogismi, dunque l’esistenza di Dio e la proposizione di Anseimo « Dio è il sommo ente di cui non si può pensare uno più grande » non sono per sè note Con ciò Scoto non vuole negare il valore dell’argomento ontolo­ gico di Anseimo, poiché lo accetta colorandolo (122). Egli parte dall’idea di infinito. Se questa idea di infinito non ri­ pugna al nostro intelletto, l’infinito esiste nella realtà. Così il Sommo cogitabile di Anseimo, se non implica in se nessuna contraddizione ed è sommamente pensabile, esso esiste nella realtà. L’argomento di Scoto somiglia a quello di Olivi il quale, parte dalle ragioni perfette e sommamente astratte dell’essere (123) le quali nella mente di Olivi hanno un valore infinito ed esistono real(120) J.D.S., op. ctt., II, p. 129, n. 11. (121) Ìbidem, pp. 145-146, n. 35. (122) ìbidem, p. 208, n. 137; p. 210, n. 139. (123) < Intelligo autem hic per rationes seu per veritatem earam fllud quod per conceptus talium raUontun esprimere et significare intendimus. Intendinras autem per eas significare aliquid quod sit supra omnem perfectionem et universalitatem e t abstractionem nobis intelligibilem et quod sit carens ornili im­

mente (124) confondendosi con l’essenza infinita di Dio. Olivi accet­ tando, sia pure modificandolo, 1’argomento di Anselmo, conclude che attraverso l’argomento anselmiano, inteso come lo intende lui, si può arrivare a conoscere Dio come per sè notissimo. Bisogna notare che Olivi non dice che Dio è per sè noto a noi come la nostra stessa esistenza, ma diventa a noi per sè notissimo quando l’abbiamo cercato e trovato attraverso l’argomentazione di Anseimo da lui modificata. Anche Scoto non dice che Dio è evidente, ma la proposizione « Dio è » diventa per sè nota quando abbiamo conosciuto il significato dei termini; così l’argomento di Anseimo, da Scoto colorato, ci porta a conoscere Dio in modo sicuro; ma in se stesso l’argomento anselmianc non è per sè noto. Olivi e Scoto con­ cludono che Dio è per sè noto in qualche modo, ma non sono per perfectione et lim itatone. E t hoc semper Deuxn vocamus». O livi, op. cit.f pp. 227-228. Su quest'argomento torneremo più ampiamente nella conclusione. (124) « Hujusmodi enim rationes nihil dicunt impossibile respectu actualis existentiae, immo quidquid dicunt dicunt summe compossibile esse, et hoc in tantum quod in sua ratione implicant rationem essendi. Sed si hujusmodi ra­ tiones non sunt actu aut si aliquo modo sunt possibiles non esse: summe sunt impo&sibiles ad esse et summam contradictionem et impossibilitatem includunt in se respectu ipsius esse. Ergo impossibile est quin sint actu absque orani possibilitate non essendi » O livi, op. c i t Ili, p. 527. La minore di questo sillogismo, secondo Olivi, è chiara. Infatti un essere che non esiste attualmente è impossibile che abbia ora o abbia potuto avere nel passato l’essenza sommamente necessaria ed eterna e sommamente perfetta; ciò è impossibilissimo. Ma se queste ragioni perfette e sommamente astratte non avessero un’esistenza attuale e ciò nonostante avessero una possibilità al­ l'esistenza, allora ciò che non esiste attualmente potrebbe essere sommamente necessario e perfetto implicando coteste ragioni perfette e sommamente astratte una somma necessità e perfezione nella loro essenza. Se dunque la verità di coteste ragioni non corrispondesse nella realtà, allora sia le ragioni perfette e sommamente astratte, sia il loro concetto quanto il loro semplice pensiero im­ plicherebbero in sè una sommo contraddizione. Infatti in queste ragioni per­ fette e sommamente astratte la loto somma esistenza è inclusa nella loro somma essenza e ciò in una perfetta identità. Colui che considera il. concetto di queste ragioni, così pensa e così ritiene nel suo pensiero. Un essere sommo nell’intelletto la cui verità non corrispondesse nella realtà non potrebbe essere ammesso, spe­ cialmente se l’essenza e l’esistenza di cotesto essere implicano una perfetta identità, non si potrebbe ammettere ciò senza incorrere in una somma con­ traddizione, anzi non potremmo ammettere 1’esistenza di qualsiasi essere, se non si ammettesse 1’esistenza reale della somma essenza. Dunque è impossibile che coteste ragioni non esistano e le medesime conclusioni assurde si avrebbero qualora si ammettesse che coteste ragioni potrebbero non esistere.

sè noti gli argomenti con cui arriviamo alla conoscenza dell’esistenza di Dio. Nella proposizione: « quo majus nihil cogitati potest, illud esse per se notum est » (125), la seconda parte di essa e cioè: « illud esse por se notum est », è falsa, dice Scoto, quantunque la proposizione maggiore dell’argomento anselmiano sia vera, ma non evidente o por sè nota. Alla istanza: «illud non esse» ripugna al soggetto: «esse quo majus nihil cogitar! potest », Scoto risponde che non è por sè evidente che l’opposto del predicato ripugni al soggetto, nè è por sè evidente che il soggetto abbia un concetto assolutamente semplice o che le porti di esso si uniscano effettivamente; come nella proposizione « Summum ens est » noti è por sè noto che il termine Summum sia unito necessariamente col termine ens. Ora queste condizioni sono ne­ cessariamente richieste perchè la proposizione maggiore: « esse quo majus nihil cogitari potest » sia por sè nota (126). Per ciò che riguarda la prova dell’esistenza di un essere in fin ito, il ragionamento di Scoto è essenzialmente identico a quello di Olivi. Scoto infatti parte dal concetto di finito. Non è possibile concepire l’infinito se prima non si è concepito il finito. Come abitualmente an­ diamo dal particolare al generale, così dall’essere finito andiamo al­ l’essere infinito. Sebbene il finito non può rappresentare l’infinito, tut­ tavia pruò suggerirci il concetto dell’infinito: « Infinitum intelligimus por finitum » (127). Si tratta dell’argomento di eminenza « eminentia » che corri­ sponde essenzialmente all’argomento delle ragioni ¡perfette e somma­ mente astratte dell’essere di Olivi che potremmo chiamare l’argo­ mento del « superexcessus » (128) o della sublimazione corrispon(125) J.D.S., op. cit., II, p. 129, n. 11. (126) « Ad probationem majoris (dico quod major est falsa quando ' accipitur ’ illud esse per se notum est ’ tamen major vera, non tamen per se nota) cum probatur quia ’ opposition praedicati repugnat subjecto dico quod nec per se evidens est subjectum habere conception simpliciter simplicem vel quod partes illius uniantur in effectu; e t ambo ista requiruntur ad hoc quod prqpositio illa esset per se nota». J.D.S., op. cit., II, p. 146, n. 36. (127) Ibidem, p. 207, n. 132. (128) Anche Scoto ha questa idea del « superexcessus » quantunque non usi la medesima espressione ma una quasi equivalente: « (Infinitum) potest etiam describi per excessum ad quodcumque aliud ens finitum: ens infinitum est quod excedit quodcumque ens finitum, non secundum allquam determina-

dente a quello di eminenza dell’Areopagita (129) e in ultima analisi a quello di analogia di S. Tommaso. D ifatti per arrivare al concetto di Dio, l’essere infinito, sia che ci si vada attraverso le ragioni per­ fette e sommamente astratte dell’essere di Olivi, sia che ci si vada attraverso il concetto di infinito di Scoto, tanto l’argomento oliviano quanto quello scotista in ultima analisi non potrebbero chiamarsi a priori perchè traggono la loro origine dal creato, ossia dall’espe­ rienza. D ifatti dove attinge Olivi le ragioni perfette e sommamente astratte che non sono altro che le proprietà trascendentali dell’essere: unità, entità, verità e bontà portate al grado infinito, sé non dall’essere particolare il quale include, sia pure limitatamente, quelle proprietà trascendentali? E dove attinge Scoto l’idea di infinito per provare l’esistenza dell’essere infinito, se non dall’essere finito? Dunque Olivi e Scoto, anche se sono favorevoli all’argomento ontologico di An­ seimo, non lo accettano però nei suoi termini nudi e crudi, ma lo mo­ dificano e Io colorano. Si direbbe che Olivi e Scoto hanno completato e perfezionato l’ar­ gomento di S. Anseimo, l’hanno pulito e raffinato nella forma; l’hanno, direi quasi, abbellito con la loro modificazione e colorazione. Olivi e Scoto hanno capito che l’idea di Dio e della sua esistenza non è in­ nata ò impressa naturalm ente nel nostro spirito, ma è il frutto mirabile e misterioso di un processo astrattivo che porta naturalmente il nostro spirito dal concetto particolare o singolare della creatura, al concetto trascendentale ed infinito del creatore. Scoto per giustificare la sua colorazione dell’argomento anselmiano si domanda: perchè il nostro intelletto, il cui oggetto è l’ente, non trova nessuna ripugnanza pensando ad un essere infinito? Sem­ bra anzi che questo essere infinito sia perfettam ente intelligibile. Per­ chè dunque nessun intelletto, naturalmente, non rifugge dal concepire un concetto di un infinito intelligibile quando ciò sembra apparente­ mente sproporzionato alla limitatezza della nostra intelligenza? (130). Invece il nostro intelletto, sia pur limitato, concepisce l’infinito, e ciò non ripugna punto alla sua natura. Per il fatto che il nostro intelletto ha tanta capacità di attingere perfino l’infinito, allora l’argomento

tam proportionem, sed ultra omnem determinatala proportionem vel determinabilem ». J.D.S., QuodUbeta, q. 5, n. 4. PG 3, 870. (129) D ion. Abeopac., D e Divtnis filominibus, c. 7. (130) Cfr. J.D.S., op. cit., 11, p. 208, n. 136.

di Anselmo non può essere destituito di valore dimostrativo, ma basta colorarlo, cioè modificarlo perchè acquisti il suo pieno valore (131). Non è nostro scopo fare un’ampia e completa esposizione della colorazione delFargomento anselmiano fatta da Scoto (132), poiché il nostro fine è soltanto quello di vedere in che modo Dio è per sè noto nella dottrina del Dottor Sottile. Ma poiché egli, nella questione che stiamo trattando, ha accennato anche all’argomento anselmiano, an­ che noi dobbiamo accennarlo semplicemente, come ha fatto lo stesso Scoto il quale ha voluto invece trattarlo espressamente in un’altra questione dove si preoccupa di provare 1’esistenza di un essere infi­ nito (133). Ci basti osservare che Scoto, per la colorazione delFargomento di Anseimo, ha soltanto aggiunto che l’essere di cui non si può pensare uno maggiore sia pensato come tale senza alcuna contraddizione, perchè se vi è contraddizione allora non è più Sommo cogitabile, non essendo affatto cogitabile ciò che implica una contraddizione (134). Ora, continua Scoto, il predetto Sommo cogitabile di Anseimo non solo esiste nell’intelletto senza alcuna contraddizione, ma esiste pure nella realtà senza alcuna contraddizione, e si prova dall’essere quiddidativo « de esse quidditativo » (135). (131) «Per illud potest colorari illa ratio Anseimi de Summo Bono cogi­ tabili, Proslogion, et intelligenda ejus descriptio sic; Deus est quo cognito sine contradicHone majus cogitali non potest sine contradiçtione. E t quod ad­ dendum est ' sine contradictione* patet nam in eujus cognitione ve! cogitatione includitur oontiadictio illud dicitur non cogitabile, quia sunt tunc duo cogitabilia opposita nullo modo faciendo unum cogitabile, quia neutrum déter­ minât alterum ». J.D.S., op. cit., Il, pp. 208-209, n. 137. (132) Per la colorazione dell'argomento ontologico fatta da Scoto cfr. S. Belmond, Etudes sur la philosophie de Duns Scòt. Dieu, existence et cognoscibilité, Paris, 1913; Z. Vàn Woestine, Cursus philosophions, Mechliniae, 1921-1925; E. Bettoni, U ascesa a Dio in Duns Scoto, Milano, 1943, c. 2, 4; In., Duns Scoto, Brescia, 1945, p. 175 ss.; In., Il problema della conoscibilità di Dio netta scuola francescana, Padova, 1950, p. 382 ss.; E. Gilson, Jean Duns Scot, Introduction à ses positions fondamentales, Paris, 1952, p. 167 ss. (133) «Quomodo autem ratio ejus (Anselmi) valeat dicetur in sequenti quaestione, argumente sesto, de inimitate probanda ». J.D.S., op. c it , II, p. 146, n. 35. (134) Cfr. sopra p. 86, nota (124). (135) « Ens prima divisione dividitur in ens quidditative, et in eus habens quidditatem, quod est ens subsistons. Nunc autem, quidquid est perfectio formalis est ens quidditative et entitas quidditativa; nam perfectio formalis est quae in quolibet ente melius est esse quam non esse: sed nihil est taie nisi sit entitas quidditativa, prout abstrahit a subsistera — ens autem subsistera habens

Nel Sommo ente cogitabile, sommamente riposa rintelletto; dun­ que in esso si trova in grado sommo la ragione o natura del primo oggetto dell’intelletto che è l’ente, e la ragione o natura di un ente realmente esistente, vi si trova in grado sommo. Se il sommo ente cogitabile non esistesse nella realtà, allora esso implicherebbe una contraddizione, perchè è più grande e quindi più cogitabile l’essere che esiste nella realtà di quello che esiste soltanto nell’intelletto. Dun­ que se esiste nel nostro intelletto un essere infinito sommamente co­ gitabile, questo deve esistere anche nella realtà, perchè altrim enti si incorrerebbe in ima contraddizione. Ora la definizione di Dio: « Esse quo majus cogitar! non potest » non deve includere nessuna contrad­ dizione; dunque, perchè non ve ne sia alcuna, bisogna che l’essere di cui non si può pensare uno più grande, cioè il sommo cogitabile o l’essere infinito, deve necessariamente esistere nella realtà (136). Un’altra colorazione dell’argomento anselmiano è la seguente. L’essere maggiormente cogitabile deve esistere nella realtà; esso è perfettam ente conoscibile perchè visibile o comprensibile mediante un’intellezione intuitiva, mentre se non esistesse realmente nè in sè nè in un altro essere, non potrebbe essere visibile o comprensibile. Ora ciò che è visibile è più perfettam ente conoscibile di ciò che non è visibile ma semplicemente comprensibile mediante un’intellezione astrattiva. Dunque l’essere maggiormente cogitabile e quindi conoscibile esiste (137). E’ logico che un essere esistente è maggiormente pensabile di un essere non esistente, ma semplicemente possibile, come un essere conoscibile è più perfetto quando esso è visibile ossia intelligibile mediante una visione o un’intellezione intuitiva; mentre un essere co­ noscibile ma non esistente, ossia un essere puramente possibile, non può essere visibile nè in se stesso nè in un altro essere. Perciò un cono­ scibile visibile è più perfetto di un conoscibile non visibile, ma soltanto quidditatem est contrahens illam perfectionem, e t non est foim aliter illa perfectio quidditativa». J.D.S., Oxoniense, I, dist. 1, q. 2, n. 12. Nella nuova ediz. di C. Balió questo passo viene considerato come interpolato (II, p. 381 appendix À 41-17). (136) J.D.S., op. cit, II, pp. 209-210, n. 138. (137) « Majus cogitabile est quod existit; id est perfectius cognoscibile, quia visibile sive intelligibile intellectione intuitiva; cum non existit, nec in se nec in nobiliori cui nihil addit, non est visibile. Visibile autem est perfectius cognoscibile non visibili sed tantummodo intelligibili abstractive; ergo perfectissimum cognoscibile existit». J.D.S., op. cit., II, pp. 210-211, n. 138.

intelligibile mediante la via astrattiva. Ora Dio è l’intelligibile sommo e perfetto, e ciò non implica nessuna contraddizione; dunque il sommo e perfetto intelligibile deve esistere anche nella realtà altrimenti non sarebbe più nè il sommo cogitabile, nè il sommo e perfetto intelli­ gibile. Non bisogna affatto pensare che Scoto abbia la pretenzione di asserire che questo suo ragionamento sia evidente o per sè noto... In esso vuol far risaltare la superiorità dell’intellezione o cognizione intui­ tiva, sulla intellezione o cognizione astrattiva (138). Cioè, è più per­ fetta la conoscenza che si ha di Dio mediante una visione o intelle­ zione intuitiva, come Fhanno i beati in cielo, di quella conoscenza che si ha di Dio in questa vita per via di astrazione. L’unione dell’intellezione o cognizione intuitiva con l’intellezione o cognizione astrattiva forma e spiega il concetto di contuizione di S. Bonaventura. Questi infatti dice che Dio è conosciuto sia per via intuitiva come per via astrattiva e per via intuitiva-astrattiva, cioè per contrazione. Questa consiste nella visione o intuizione di Dio nelle creature e attraverso le creature. Cioè 1’anima nostra intuisce imme­ diatamente Dio non però nella sua essenza « facie ad faciem », ma nella sua immagine impressa in tutte le creature. Al processo cono­ scitivo intuitivo della conoscenza immediata di Dio, si unisce il pro­ cesso conoscitivo astrattivo in quanto Dio viene conosciuto non di­ rettamente nella sua essenza, ma nella sua immagine astratta dalle creature sulle quali riposa il vestigio essenziale ed esistenziale del Creatore: < Intellectus aliquo modo per intelligentiam ascendit ad contuitum simplicitatis divinae » (139); tutte le cose dell’universo sono « spectacula nobis ad contuendum Deum proposita » (140); l’anima contemplando dunque le cose che la circondano passa alla contrazione (138)

Sulla cognizione intuitiva e astrattiva secondo Scoto cfr. M.F. Gascia,

Lexicon schclosticum philosophico-theotogicum, pp. 148-150, 153. • Duplex est intellectio: - una scientifica, quae est abstractiva. - Alia est cognitio intuitiva seu visiva, quae est rei in se. Nam quod est perfectionis in inferiori, amota imperfectione, potest competere superiori perfectius, vel modo eminentiori: sed in sensu percipimus duplicem cognitionem : imam intuitivam, u t visionem exteriorem; aliam abstractivam, quae est in imagine suo modo. Sic in intellectu cognitionem abstractivam experimur in nobis: et alia est intuitiva secundum quam videbimus faciem ad faciem, I Cor., 13, 12, sicut nunc videmus in aenigm ate». Report., II, dist. 3, q. 3, n. 10; Methaph., lib. V ili, q. 15, n. 4; Oxon., IV, dist. 10, q. 8, n. 5. (130) I Seat., dist. 34, a. unte., q. 2, conclusio; I, 590 b. (140) Itiner., II, 11; e.m. 312.

di Dio : « dum haec igitur percipit, et consurgit ad divinimi contilitum » (141). Conforme all’indole anselmiana anche Scoto, nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, preferisce seguire la via intuitiva che è possibile, sia pure limitatamente, fin da questa vita (142), mentre il Dottore Angelico, coerente al suo sistema gnoseologico astrattivo, preferisce seguire la via astrattiva criticando, pur non nominandolo, l’autore del celebre argomento ontologico. € ...en exposant cet argument — commenta Gilson — Thomas d’Aquin n’avait pas nommé saint Anselme, mais l’avait librement interprete comme si l’on pouvait cor­ rectement l’assimiler à un ’ per se notum ’ tel que ’ le tout est plus grand que sa p artie’. Duns Scot nomme au contraire saint Anselme, ce qui l’autorise à désolidariser sa thèse de l’interprétation qu’en avait proposait saint Thomas d’Aquin. La réfutation proposée par Thomas d’Aquin (Sum. Theol. I, 2, 1, 2 object.)— continua in nota Gilson — porte sur la validité méthaphysique de l’argument: on ne peut con­ clure du concept à l’être réel. Celle que propose Duns Scot, d’accord avec sa position personelle du problème, porte d’abord sur la que­ stion de savoir si tel que le formule saint Anselme son argument revient a faire de l’existence de Dieu comme .Thomas d’Aquin sug­ gère qu’il le fait une res per se nota * (143).

c) Un terzo argomento per dimostrare che resistenza di Dio è per sè nota, è tratto dal così detto argomento ideologico di S. Ago­ stino ed è formulato così: l’esistenza della verità è per sè nota; ora Dio è la verità, dunque l’esistenza di Dio è per sè nota. La maggiore di questo sillogismo si prova dal suo opposto e cioè: se nessuna verità

(141) in Hexaemeron, V, 33; V, 359 b. « ...tous les arguments a posteriori explicites ne font qu’exprimer discursivement cette première évidence (Dio) qui est pour S. Bonaventure une intui­ tion ou plutôt une contuition: une « vue avec », une vue de l’absolu avec et par le relatif». Le problème de Vexist. de Dieu chez $. Bonav., in Antonianum> XXVIII (1953), fase. 1-2, p. 29. (142) « De differentia intellectionis intuitivae et abstractivae, et quomodo intuitiva est perfectior, tangetur distintione 3, et alias quando locum habebit». J.D.S., op. cit., II, p. 211, n. 139. (143) E. Gilson, Jean Duns Scot - Introduction à ses positions fondamentales, Paris, J. Vrin, 1952, p. 126. - L’autore nella medesima opera tratta bre­ vemente della proposizione per sè nota secondo la dottrina di Scoto, p. 120 ss.

esiste, allora è vero che nessuna verità esiste; dunque almeno questa verità esiste (144). A questo argomento usato da altri scolastici allo stesso scopo, Scoto risponde che esso pecca nella conclusione: « est fallacia consequentis * (145). Se esiste la verità in generale, e ciò è per sè noto, non tutte le verità particolari sono però per sè note. Ora la cono­ scenza dell’esistenza di Dio rientra nel numero delle verità partico­ lari; dunque può essere, e infatti è, non per sè nota. Neppure la conseguenza tirata da questa proposizione: « Se non esiste nessuna verità è almeno vero che non esiste nessuna verità » ha valore, perchè la verità o ha il suo fondamento in una cosa reale, oppure si trova semplicemente neirintelletto pensante; ma se non esi­ ste nessuna verità o realtà, neppure è vera la verità della non-esistenza di nessuna verità, poiché nessuna cosa reale e nessun intelletto pensante dovrebbero esistere se non esistesse nessuna verità o realtà, essendoci il niente assoluto. Si deve piuttosto concludere « se nessuna verità esiste, dunque non è vero che esiste qualche verità » e non si deve oltrepassare la conclusione dicendo « dunque è vero che esiste qualche verità », poiché non esistendo nessuna realtà e quindi nessun intelletto che possa costatare la non realtà, non si può concludere alPesistenza della non verità (146). Questo argomento agostiniano, detto comunemente ideologico, che è stato preso in considerazione da quasi tutti gli scolastici, viene così annullato da Scoto (147). (144) J.D.S., o p c i t y JI, p. 129, n. 12; cfr. S. Agost., Soliloq., II, c. 2, n. 2; c. 15, n. 28. PL 82, 886, 988. (145) Ahist ., Sopà. elenchi, 1, c. 3 (c. 5, 167 b 1-13). (146) « Ad tertdum dico quod ’ veritatem in communi esse est per se notum, ergo Deum esse* non sequitur, sed est fallacia consequentis; aliter potest negari major. Et cum probatur ’ si nulla veritas est, nullam veritatem esse veruni e s t’ consequentia non valet quia veritas aut accipitur prò fondamento veritatis in re, aut prò veritate in actu intellectus componente et dividente; sed si nulla veritas est, nec veruni est nullam veritatem esse, nec veritate rei, quia nulla res est, nec veritate in intellectu componente et dividente, quia nullus est. Bene tamen .sequitur ’ si nulla veritas est, ergo non est veruni aliquam veritatem esse’ sed non sequitur ultra ’ ergo veruni est aliquam veritatem non esse fallacia consequentis, a negativa habente duas causas veritatis ad affirmativam quae est una istarum ». J.D.S., op. ctt, II, pp. 146-147, n. 37. (147) Vedi il commento del Card. Gaetano alla questione « Utram Deum esse sit per se notum » di S. T ommaso : Suro Theót., pars 1, q. 2, a. 1, p. 29 B e la critica al detto Cardinale di F. L ycheto, nel Commento alla medesima

d) Il quarto ed ultimo argomento che vuol provare Pevidenza delPesistenza di Dio è il seguente: Se sono per sé note quelle proposizioni le quali hanno una necessità relativa risultante da termini che a loro volta hanno un'en­ tità relativa, poiché si trovano solo nell’intelletto pensante, molto più è per sé nota quella proposizione che trae la sua necessità da termini assolutamente necessari come la proposizione « Dio è ». Quanto si asserisce è chiaro poiché la necessità dei primi principi e la loro conoscibilità, non dipende dalla conoscenza dei termini nella realtà, ma soltanto dalla connessione dei termini estremi, connessione che è fatta dalPintelletto pensante (148). A quest’ultimo argomento Scoto risponde che le proposizioni per sé note, non sono dette tali perchè i loro termini estremi hanno una necessità in se stessi (considerati solo in se stessi) oppure ima ne­ cessità nella realtà, fuori dell’intelletto pensante, ma perchè gli estremi termini, in quanto estremi di una tale proposizione, evidente­ mente mostrano che il complèsso della proposizione è conforme alla ragione o natura dei termini e conforme alla relazione dei termini fra loro, e ciò sia che i termini abbiano l’essere nella realtà, sia che l’abbianó solo nelPintelletto pensante. L’evidenza infatti di questa con­ formità è l’evidenza della verità nella proposizione; ciò costituisce una proposizione per sé nota. Ora la proposizione « il tutto è maggiore della sua parte » o un’altra proposizione simile, in qualsiasi intelletto che concepisce i suoi termini, deve avere l’evidenza dai termini stessi, perchè dai ter­ mini deve essere evidente che il complesso di tale proposizione è conforme alla relazione dei termini fra loro, e alla loro ragione o natura. Perciò, sebbene sia minore la necessità dei termini, non se­ gue che sia minore Pevidenza delle proposizioni (149). questione del I Seni., dist. 2, q. 2 di G. D uns Scoto, ed. Vivès, Parigi, 1893, V ili, p. 413. (148) J.D.S., op. cit.f II, p. 130, n. 13. (149) « Ad ultimimi dico quod non dicuntur propositiones per se notae quia extrema habcnt majorem neoessitatem in se, sive majorem in re extra intellectum, sed quia extrema ut sunt extrema talis propositionis evidenter ostendunt complexionem esse confonnem rationibns tenninorum et habitudini eorum, e t hoc qualecumque esse termini habeant, sive in re sive in intellectu; evidentia enim hujus conformitatis est evidentia veritatis in propositione quod est propositionem esse per se notam, Nunc autem ista *oírme totum est majus sua parte*, vel aliqua consimilis, in quocumque intellectu concipiente términos nata est

Dunque per Scoto una proposizione è per se nota solo quando i suoi termini estremi, la loro natura e la loro relazione abituale, sono per sè note. Ciò è conforme al detto aristotelico: si conoscono i prin­ cipi in quanto si conoscono i termini (150). Dopo un’analisi, così minuziosa, del Dottor Sottile sulla que­ stione « Utrum aliquod infinitum esse sit per se notum ut Deum esse » (151) si rimane sorpresi come la posizione di Scoto non appa­ risca tanto chiara e netta come quella di S. Tommaso per il quale Dio non è a noi per sè noto e la proposizione « Dio è » è per sè nota considerata in se stessa, ma non è per sè nota a noi. « La position de Duns Scot — conclude Gilson — est plus facile à répéter qu’à comprendre, car on ne se demande plus d’une fois en quoi, précisément, elle se distingue de celle de saint Thomas. Tous deux enseignent que la proposition ’ Dieu e s t’ est connue par soi, mais que, faute d’en concevoir distinctement les termes, son évidence nous échappe. Ils sont donc d’accord sur l’essentiel. Ce­ pendant, Thomas d’Aquin en conclut que, connue par soi si on la prend en elle-même, cette proposition ne l’est pas pour nous. Duns Scot maintient au contraire que cette proposition reste connue par soi pour nous, comme elle l’est en elle-même, bien qu’elle ne nous soit pas actuellement connue comme telle. En d’autres termes, la qualité de ’ connue par soi ’ appartient à toute proposition dont la vérité est évidente dès que ces termes sont distinctement conçus; le fait qu’ils ne soient pas empêche la perception de son évidence, mais ne la prive pas de son évidence. C’est pourquoi, bien que son évidence im­ mediate nous échappe, la proposition ’ Dieu e s t’ doit être tenue par connue par soi, à la fois en soi et en nous » (152). * L’osservazione di Gilson ci sembra giusta e noi dobbiamo con­ cludere dall’insieme della dottrina di Scoto, che quantunque non lo dica espressamente come Olivi o Pietro de Trabibus per i quali Dio soltanto in qualche modo a noi per sè noto, egli è uno di quegli autori che seguono la via di mezzo asserendo che Dio è in qual­ che modo a noi per sè noto. La via di mezzo che segue Scoto ci fa crehabere talem evidentiam ex terminis, quia ex tenninis est evidens quod ista com pleto est confomus habitudini e t rationibus termmoiuni, qualecumque esse tennini habeant; et ideo licet sit minor nécessitas tenuinorum non sequitur quod sit minor evidèntia propositionum ». J.D.S., op. d t.y II, pp. 147-148, n. 38. (150) A r is t ., / P o s te r 72 b 23-25. (151) J.D.S., op. c i t II, p. 128, n. 10. (152) Op. c i t pp. 127-128.

dere q u esto D o tto re qualche volta essere in contraddizione con se stesso . D ifa tti ora dice: « Est igitur ista (propositio) ’ Deus e s t’ sive ’ haec essentia e s t9 per se nota, quia externa illa nata sunt facere evidentiam de ista complexione cuilibet apprehendenti peifecte ex­ trema istius. complexionis, quia esse nulli perfectius convenit quam huic essentiae... sic est per se nota 9Deus est ’ * (153) ed ora invece dice: « Secundum nullum conceptum, quem nos hic de Deo concipere possumus, est aliquid de ipso nobis per se notum; nec etiam potest esse nobis notum demonstratione propter quid, quia medium illius demonstrationis propter quid, quod ipsa Deitas in se, in quan­ tum haec Deitas, non est nobis per se notum, nec est aptum per se a nobis cognosci, et ideo haec propositio ’ Deus est ’, non est per se nota; igitur potest de Deo a nobis cognosci demonstratione quia, in qua sumitur praemissa ab effectu » (154). Quantunque sembri apparentemente che Scoto si contradica in­ vece non muta affatto la sua posizione conciliatrice poiché la propo­ sizione « Dio è » rimane in se stessa una proposizione per sé nota la quale è pure per sé nota a noi quando ne conosciamo distintam ente i termini, ma per la conoscenza di questi termini si esige un proce­ dimiento quia risalendo dagli effetti alla causa, poiché « de ente infi­ nito sic non potest demonstran esse propter quid quantum ad nos, licet ex natura terminorum propositio est demonstrabilis propter quid. Sed quantum ad nos propositio est demonstrabilis demonstratione quia ex creaturis » (155). Senza dubbio nella conoscenza delle cose divine si può usare un’argomentazione a priori ossia « propter quid »; difatti dopo che abbiamo trovato Dio come Tessere assoluto, infinito, sommo bene ecc., possiamo dedurre altri attributi divini. Ma strettam ente par­ lando, come abbiamo accennato sopra (156), questa deduzione non è del tutto a priori, poiché presuppone la dimostrazione a posteriori, ossia quia: « Infinitum intelligimus per finitimi ». Così Scoto, quasi compendiando la sua teodicea, dice: « Metaphysica quantum ad illud quod de Deo considerat, est simpliciter scientia quia » (157), cioè « discurrendo de creaturis ad Deum * (158). J.D.S., op. d t . f II, p. 138, n. 25. I d., Report. Paris., I, dist. 2, q. 2, n. 2. I d ., op. city II, p. 148, n. 39. Vedi sopra pp. 87-88. J.D.S., R e p o rt Paris., Prolog., q. 3, quaestiunc. 1, n. I l , t. 22, 51. (158) I d., Collât., q. 11, n. 1, t. 5, 187.

(153) (154) (155) (156) (157)

Il pensiero di Scoto è identico a quello di Olivi: « Et ideo licet istud principium (Deum esse) possit esse nobis per se notum, quia possumus cognoscere immediatam habitudinem termmorum et realem identitatem : non tamen hoc possumus sine multa investigatione rationis et illustratione. Per multam enim investigationem rationum entium creatorum devenìmus in cognitionem perfectionis divinae essentiae et divini esse » (159). Così Olivi spiega come Dio è a noi per sè noto soltanto in qualche modo. Per Scoto Dio è a noi in qualche modo per sè noto perchè, sebbene non possiamo avere in quésta vita un’evidenza immediata di Dio còme l’hanno i beati, tuttavia pos­ siamo avere nella nostra mente un concetto di Dio nel quale Egli viene concepito « per se et quidditative » (160). Alla questione : « Utrum aliquem conceptum simplicem possit intellectus viatoris naturaliter habere in quo conceptu simplici concipiatur Deus » (161), la quale è in relazione diretta con quella che abbiamo esaminato, Scoto, andando contro l’opinione di Enrico di Gand, il quale concedeva alla mente umana un concetto attributale di Dio e non un concetto quidditativo (162), risponde che non soltanto si può avere un concetto nel quale quasi accidentalmente (quasi per accidens) viene concepito Dio, come per es. negli attributi, Dio viene con­ cepito come santo, giusto, onnipotente ecc. e quasi accidentalmente come l’essere sussistente, ma dì più possiamo avere anche qualche concetto in cui Dio viene concepito in se stesso e per se stesso come essere sussistente: « Non tantum haberi potest conceptus naturaliter in quo quasi per accidens concipitur Deus, puta in aliquo attributo, sed etiam aliquis conceptus in quo per se et quidditative concipiatur Deus » (163).

(159) O uvi, op. ctt., Ili, p. 526. (160) J.D.S., Oxon., I, d ist 8, q. 2, n. 5, t. 9, 17. (161) Io., Oxon., loc. cit., n. 2, t 9, 10. (162) < Cognitio essendi Deum naturaliter nobis inserta est, quia in primis conceptibus, cum intellìgìmus ens unum aut bonum simpliciter, in generali intelligimus Deum sub quadam confusione, sicut ex parte affectus naturaliter ortmes in volendo qucdcumque bonum, volunt esse beati, e t in hoc saltern in universali primum e t summum bonum quod Deus est. Unde per hunc mòdum cognoscendo bonum esse aut pulchrum, vel aliquid hujusmodi, necessario in hoc confuse et in generali cognoscitur Deum esse ». Ensioo di Gand, Sum. Quaest. Ordin., a. 22, q. 2, f. ISO Q. (163) Oxon., I, d ist 8, q. 2, n. 5, t. 9, 17.

Questo punto dottrinale di Scoto può interpretarsi in diverse maniere (164) e cioè che Dio può essere concepito col lume naturale della ragione con un concetto proprio ossia adeguato all’essenza di­ vina, quindi con un concetto quidditativo (165); ma questa interpreta­ zione non sarebbe conforme al pensiero di Scoto il quale dall’esame di tutta la questione: « Utrum Deus sit primum cognitum naturaliter prò statu isto » (166) e da quello che lui dice diffusamente nella que­ stione 14 dei Quodlibeta si rileva il contrario e cioè che nessun intel­ letto creato può conoscere adeguatamente l’essenza divina (167). Op­ pure può interpretarsi nel senso che pur avendo un concetto di Dio considerato « per sè et quidditative » espresso nella proposizione: « Deus est ens quidditative » (168) non comprendiamo distintamente i termini di questa proposizione, ma li comprendiamo soltanto con­ fusamente. Quest’ultimo è il senso in cui va inteso il passo dottrinale di Scoto; la prima interpretazione è certamente falsa perchè, come di­ mostra Scoto nella medesima questione, col lume naturale della ra­ gione non possiamo distintamente conoscere questa proposizione « Deus est ens quidditative », se non conosciamo distintamente i ter­ mini della proposizione stessa; ora Dio non può essere da noi cono­ sciuto distintamente: « ...non cognoscitur naturaliter a viatore in particulari et proprie, hoc est sub ratione hujus essentiae u t haec et in se » (169); dunque per il Dottore Sottile soltanto in qualche modo e cioè non pienamente come Dio conosce se stesso e neppure nella mi­ sura in cui i beati conoscono per intuizione l’essenza divina, noi pos­ siamo avere una conoscenza dell’essenza e dell’esistenza divina. (164) Vedi il commento al passo surriferito di Scoto di F. L ycheto , J.D.S.,

Oxon., X, d. 3, q. 2, n. 5, Commentarius. (165) « Conceptus quidditativus est duplex: unus est primo primus qui scilicet non est in alios conceptus resolubilis, quo res cognoscitur intuitive in se, ut est talis natura... Alius autem conceptus quidditativus rei non est omnino simplex, ut primus, sed compositus, et resolubilis in alios, u t est definitio rei compositae ex diversis conceptibus ». J.D.S., De Anima, q. 19, n. 6. (166) J.D.S., Oxon., I, dist. 3, q. 2, t. 9, 8. (167) « Deus... a nullo intellectu creato potest sub ratione hnjus essentiae (ut haec) naturaliter cognosci, nec aliqua essentia naturaliter cognoscibilis a nobis ostendit sufficienter hanc essentiam ut haec, nec per similitudinem unìvocationis, nec imitationis; univocatio enim non est nisi in generaiibus rationibus; imitatio etiam deficit, quia imperfecta est, quia creaturae ñnperfecte eum imitantur». J.D.S., Oxon., I, d ist 3, q. 2, n. 16, t. 9, 31. (168) Vedi sopra p. 89, nota 135. (169) Vedi sopra, nota (167), p. 98. Cfr. J.D.S., Oxon., I, d ist 3, q. 2, n. 16, t 9, SI.

SCOLIO Se la proposizione « Dio è » è per sè nota, secondo G.D. SCOTO (1)

Poiché, secondo Aristotele, è assurdo cercare la scienza e contem­ poraneamente il modo di acquistarla (2), Scoto esamina dettagliatamente il modo con cui possiamo arrivare alla conoscenza delPesistenza di Dio. Anzitutto esamina la proposizione che attualm ente pronun­ ciamo: « Dio è », per vedere se essa rientra nel numero delle propo­ sizioni per sè note. Logicamente, prima di ogni cosa, Scoto stabilisce quali devono essere le proprietà o condizioni di una proposizione per sè nota (3). Quando diciamo che una proposizione è per sè nota, la espres­ sione « per se » in opposizione all’espressione « per aliud » non esclude qualsiasi causa, poiché non possono essere esclusi i termini della pro­ posizione stessa. Così una proposizione per sè nota, perchè sia tale, non può escludere la conoscenza dei suoi termini poiché, come dice Aristotele: si conoscono i principi in quanto si conoscono i termini (4); esclude invece una causa od una ragione che sia al di fuori del con­ cetto dei propri termini. Quindi ima proposizione è per sè nota quando racchiude in sè una verità evidente la quale si manifesta da sè esclusivamente attraverso i propri termini, i quali appartengono naturalmente e necessariamente ad essa (5). E quali sono i termini di una proposizione mediante i quali essa deve risultare evidente? E’ chiaro che i termini di una proposizione sono il soggetto e il predicato, i quali differiscono tra loro non soltanto quanto al suono, ma anche per il loro significato concettuale (6). Prendiamo per es. la proposizione: « homo est animai rationale »; il termine « homo », che (1) Riportiamo qui come Scolio la dottrina di G.D.Scoto sulla proposi­ zione per sè nota, perchè, avendone egli trattato particolareggiatamente nel mezzo della questione: « Utrum aliquod infinitum esse sit per se notum », questa sembra interrotta dalla lunga digressione sulla proposizione per sè nota, che avrebbe invece dovuto occupare un posto a parte, o come premessa, o come scolio della suddetta questione. (2) à bist ., Metaphys., Il, t 15 (a c. 3, 995a 13-14). (3) J.D.S., op. cit., II, p. 131, n. 15. (4) / Poster., 72 b 23-25. (5) J.D.S., op. cit., II, p. 131, n. 15; cfr. E nrico di Gand, Stimma, a. 22, q. 2 in corp.; q. 1 in coip., I, f. 130 R.L. (6) J.D.S., op. cit., II, p. 132, n. 16.

costituisce il soggetto della proposizione, non solo differisce quanto al suono dal termine « animai rationale », che costituisce il predicato della proposizione, ma questi due termini « homo » e « animai rationaie » differiscono anche nel loro significato concettuale. Difatti usando questi due termini come soggetti di una proposizione aventi im predicato uguale, per es. : « animai rationale est risibile » e « homo est risibilis » (7) quantunque abbiano tutti e due il medesimo pre­ dicato, la prima proposizione però è più manifesta della seconda poi­ ché il primo termine della seconda proposizione, cioè « homo », è in­ cluso nel primo termine della prim a proposizione e cioè « animai Tationale ». D ifatti ogni volta che pensiamo al termine « homo », im­ plicitamente, ma distintamente, pensiamo alla definizione dell’uomo «anim ai rationale». Quindi il definito «hom o» è differente dalla sua definizione « animai rationale ». Se infatti il termine « homo » e il termine « animai rationale » fossero identici, allora non sarebbe possibile formulare la definizione « homo est animai rationale » poiché avremmo una evidentissima petizione di principio, definendo una cosa mediante la stessa cosa (l’uomo è Fuomo) o una cosa mediante un’altra cosa ugualmente nota; invece giustamente è stata fatta la definizione « homo est animai rationale » perchè il secondo termine « animai rationale » è maggiormente noto del primo term ine « homo ». Quindi si capisce quanto dice Scoto che la definizione, ossia il pre­ dicato, differisce dal definito, ossia il soggetto: « Alius terminus est definitio, et alius definitum et hoc sive accipiantur termini proposi­ ti onis prò vocibus significantibus, sive prò conceptibus significatis » (8). Che la definizione, ossia il predicato, differisce dal definito, ossia il soggetto, Scoto lo prova con tre argomenti (9). Per ragioni di brevità e perchè questi tre argomenti non hanno un grande interesse per noi, crediamo opportuno saltarne l’esposi­ zione, limitandoci a dare semplicemente la conclusione principale di Scoto, secondo il quale è per sè nota soltanto quella proposizione che dai suoi propri termini, soggetto e predicato, ha una verità evidente del suo complesso (10). Una proposizione non può essere per sè nota quando riceve la sua evidenza da un’altra proposizione maggiormente nota. Bisogna che la proposizione per sè nota non abbia a ricorrere ad un altro principio superiore da cui debba attingere maggiore chiarezza e pre­ cisione perchè si manifesti la verità contenuta in essa. La chiarezza di una proposizione per sè nota deve essere più che sufficiente, anzi (7) L’esempio è preso da G. d'OccAM, J Sent, dist. 3, q. 4, il quale si serve di quest’esempio per criticare Scoto. (8) J.D.S., op. cit, II, p. 132, n. 16. (9) Cfr. J.D.S., op. cit, II, pp. 132-135, n. 17-20. (10) « Est ergo omnis et sola propositio illa per se nota, quae ex tennlnis sic conceptis ut sunt ejus termini, liabet vel nata est habere evidentem venta­ tela complexioms ». J.D.S., op. c it, li, p. 135, n. 21.

lampante, per manifestarsi in un modo chiaro e distinto; altrimenti non può dirsi una proposizione per sè nota. Scoto dice che non bisogna fare distinzione fra proposizione per sè nota e per sè conoscibile, poiché sono la medesima cosa; difatti una proposizione è detta per sè nota non perchè è attualm ente cono­ sciuta da un intelletto pensante, ma perchè dalla stessa natura dei termini è destinata ad avere una verità evidente contenuta nei ter­ mini stessi. Se tuttavia qualche intelletto non concepisce attualm ente quei termini e così non concepisce la proposizione, questa non è meno per sè nota in se stessa o considerata in se stessa; così Scoto intende una proposizione per sè nota (11). La dottrina di Scoto su questo punto è opposta a quella di S. Tommaso, anzi sembra che Scoto, quantunque non lo nomini, cri­ tichi direttam ente il Dottore Angelico, il quale aveva detto che una cosa può essere considerata per sè notav in un duplice senso: in sè e per sè, ma non a noi, in sè e per sè ed anche a noi. Così una proposizione è per sè nota se il soggetto e il predicato sono per sè noti a tutti, ma se il soggetto e il predicato non sono da noi conosciuti, allora la proposizione in sè è per sè nota, ma non è nota a noi (12). Inoltre, continua Scoto, è inutile la distinzione di una proposi­ zione per sè nota in se stessa e a noi, poiché qualsiasi proposizione che è in sè e per sè nota, sebbene non conosciuta attualm ente, tut­ tavia considerati i suoi term ini, è evidentemente vera e nota a qual­ siasi intelletto qualora ne concepisca i termini (13). Il Dottore Sottile critica coloro, e tra questi S. Tommaso, i quali fanno una distinzione fra una proposizione per sè nota in se stessa e a noi, facendo osservare che se una proposizione è per sè nota in sè stessa, naturalmente è anche nota a qualsiasi intelletto qualora ne concepisca i termini e perciò la distinzione « secundum se et quoad nos » è inutile e superflua (14). (11) «Ex hoc patet quod non est distinguere inter propositionem per se notam et per se cognoscibilem, quia idem sunt; nani propositio non dicitur per se nòta quia ab alìquo intellectu per se cognoscitur (tunc enim si nullus inteilectus actu cognosceret, nulla propositio esset per se nota), sed dicitur propo­ sitio per se nota quia quantum est de natura terminoruni nata est habere evidentem ventatemi contentala in tenninis edam in quocumque intellectu concipiente temunos. Si tamen aliquis intellectus non concipiat tenninos, et ita non concipiat propositionem, non minus est per se nota quantum est de se: et sic loquimur de per se nota ». J.S.D., op. cit., II, p. 136, n. 22. (12) Cfr. S. T hom as , Stimm. Theól., pare I, q. 2, a. 1. (13) « Ex hoc edam patet quod nulla est distincdo de per se nota in se et naturae et nobis, quia quaecumque est in se per se nota, cuicumque intellectui, licet non actu cognita, tamen quantum est ex terminis est evidenter vera e t nota si termini concipiantur ». J.D.S., op. cit., II, p. 136, n. 23. (14) D ionisio C artusiano (1402-1471) prenderà le difese dei dottori criticatl da Scoto e a sua volta criticherà sebbene insufficientemente la dottrina di

Non vale neppure, continua Scoto, quella distinzione secondo la quale alcune proposizioni sono per sè note in un modo ed altre per sè note in un altro modo, poiché tutte le proposizioni sono per sè note quando si sono concepiti i loro termini (15). Con ciò Scoto critica la dottrina del suo maestro Guglielmo di W are il quale, come abbiamo già visto, fa distinzione fra proposi­ zioni per sè note in un primo modo e proposizioni per- sè note in un secondo modo (16). Scoto passando ad occuparsi particolarmente della proposizione « Dio è », dice che è per sè nota quella proposizione la quale unisce questi due termini: l’essenza e 1’esistenza divina, unisce cioè il ter­ mine « Dio » col termine « esistenza ». E questa unione dell’essenza e dell’esistenza divina va intesa in quel modo in cui Dio stesso vede la naturale e necessaria fusione della sua stessa essenza ed esistenza. Nessuno di noi in questa vita (nunc) può comprendere pienamente e perfettam ente l’essenza ed esistenza divina come si Scoto accusandolo anche di irriverenza verso i grandi dottori Alessandro, Tom­ maso, Alberto e Bonaventura i quali sulla presente questione avevano pensato diversamente da lui. Noi però non abbiamo costatato nessuna irriverenza verso i dottori surriferiti, ma una semplice critica oggettiva e crediamo che questa sia lecita e doverosa a coloro che cercano la verità scientifica o filosofica facendo astrazione dall’autorità: «amicus Plato, amicus Thomas sed magis amica ve­ n ta s i. ' ■ >r^ !| Dionisio Cartusiano non più di un secolo e mezzo più tardi di Scoto, cosi scrive contro di lui: « ...Qui circa haec (proposito per se nota) scribit prolixe. Cujus verba videntur erronea, praesertim in eo quod prefatas distinctiones propositionis per se notae, tam irreverenter redarguii, quae partim ex Boetio in libro De Ebdomadibus formaliter et aperte habentur, partim ex verbis illìus eliciuntur, atque a famosis solemnissimisque doctoribus scholasticis, Alexandro, Thoma, Alberto, Bonaventura ac ceterisque praetactis, sunt adprobatae, ac rationabiliter (ut constat ex habitis) declaratae. Nec ratio Scoti procedit. Non enim sequitur, proposito per se nota est quae ex apprehensione tenninorum suorum unicuique innotescit ergo aliae nullo modo sunt per se notae; sicut non sequitur file est perfectus qui nibil de imperfectione habet adjunctum, ergo alii nullo modo perfecti sunt: Insuper verba Scoti iam tacta implicare probantur; si enim, ut ait, haec est per se nota, Deus est, et haec essentia seu divina essentia est, quia extrema nata sunt facere evidentiam de istis complexionibus cuilibet apprehendenti extrema complexionum istarum: ergo et ista est per se nota, homo est corpus, homo est substantia. Cujus contrarium dicit ipse ». Dion, Càbtusiani, Opera Omnia^ Tornaci, 1902, Comm. in TV Lib. Sént, In l Seni., dist. 3, q. 2, pp. 226-227. (15) « Nec valet fila distinctio quod aliquae sunt per se notae primi ordinis, aliquae secundi, quia quaecumque propositiones sunt per se notae conceptis terminis propriis sicut sunt termini, habent evidentem veritatem in ordine suo ». J.D.S., op. cit., II, p. 187, n. 24. (16) Vedi sopra p. 75, nota (92).

trova realmente in Dio. Però la proposizione « Dio è » non solo è per sè nota a Dio stesso perchè vede e comprende adeguatamente la sua stessa essenza, ma è pure per sè nota ai beati che vedono diret­ tamente Dio sebbene non possano comprendere tutta la sua essenza non essendovi nessuna proporzione tra l’essenza infinita di Dio e la lim itata comprensione dei beati. La proposizione « Dio è » ha una verità evidente che risulta dai suoi stessi termini essendo una proposizione per se (17) in cui il predicato si trova incluso nella natura della definizione del soggetto, indicando la quiddità del soggetto (18). L’unione naturale e necessaria di questi due term ini: l’essenza e l’esistenza divina, forma una proposizione evidente. Da questa unione essenziale si deducono tutti gli altri predicati o attributi di Dio. La proposizione « Dio è » oppure « l’essenza divina è » deve necessariamente essere per sè nota, perchè i suoi termini estremi sono destinati a produrre l’evidenza del complesso della detta pro­ posizione a qualsiasi intelletto che ne concepisce i termini estremi. Inoltre la proposizione « Dio è » deve necessariamente essere per sè nota perchè a nessun essere conviene resistenza in un modo cosi perfetto come conviene all’essenza divina. Sebbene noi non cono(17) à bist ., And. Poster., Le. (A. c. 4 73a 34-37). « Dicitur, secundum Linconiensem, quod tantum sunt due modi dicendi per se. Et ratio est, quia in propositione per se, in qua unum de alio enuntiatur, unum egreditur ex principiis quidditativis alterius, et per consequens quidditas unius dependet a quidditate alterius in essendo; et ex hoc sequitur, quod quid­ ditas unius habet defìnirì per quidditatem alterius, quia eadem sunt principia essendi et cognoscendi, secundum Aristotelem, Il Metaph.; ergo a primo ad ultimimi, propósitio per se est quando unum extremum cadit in definitionem alterius. - Cum in propositione per se necesse sit unum extremum cadere in definitionem alterius, hoc potest esse duplidter: aut enim praedicatum cadit in definitionem - subjecti, et est primus modus, supposito quod illud quod subjicitur natum sit subici, et quod praedicatur praedicari; ad ilium modum reducuntu r omnes praedicationes, in quibus praedicantur causae de causatis, sive in recto, ut homo est animai, sive in obliquo, ut risibilitas est hominis; quia subjectum est causa respectu suae passionis. - Alio modo in propositione per se subjectum cadit in definitionem praedicati; et sic fit secundus modus dicendi per se. E t ad istum modum reducuntur omnes tales praedicationes, in quibus causata praedicantur de causis, retenta priori conditione, quod illud subiciatur quod natum est subici et praedicetur quod natum est praedicari. E t cum unum extremum non possit cadere in definitionem alterius, nisi duobus modis, quia aut piaedicatum cadit in definitionem subiecti, vel e contra, ideo tantum sunt duo modi dicendi per se ». J.D.S., Poster. I, q. 18, n. 8; cfr. ibid., q. 15, n. 5; ibid., q. 16, n. 11; ibid., q. 15, 2. (18) « Aristoteles dicit, quod primus modus dicendi per se est quando praedicatum cadit in definitionem subiecti indicantem quid sit subjectum ». J.D.S., Poster. I, q. 17, n. 3.

sciamo nè possiamo concepire adeguatamente l’essenza divina, tut­ tavia la proposizione « Dio è » deve necessariamente essere per sè nota (19). L’esistenza reale appartiene forse a qualsiasi concetto che noi abbiamo di Dio? Nel nostro intelletto vi sono alcuni concetti sulla divinità che non sono comuni a D io.e alla creatura come per es.: l’es­ sere necessario, l’essere infinito, il Sommo Bene; di tali concetti possiamo asserire resistenza, ma nessuna di queste proposizioni: l’essere necessario esiste o l’essere infinito esiste o il Sommo Bene esiste, sono per sè note. E ciò si prova con tre argomenti (20): a) difatti, secondo Scoto, ognuna di queste proposizioni è una conclusione dimostrabile « propter quid », cioè a priori, andando dalla causa all’effetto, e non dimostrabile « quia », cioè a posteriori, risalendo dall’effetto alla causa. Infatti la qualità o proprietà che con­ viene primieramente ed immediatamente ad un essere può servire per dimostrare l’esistenza di altre qualità o proprietà che si trovano nell’essere stesso; così mediante una dimostrazione « propter quid » dalla qualità o proprietà principale di un essere si possono dedurre altre qualità o proprietà dello stesso essere, come da una causa si deducono gli effetti (21). Ora l’esistenza è la prima qualità o pro­ prietà che conviene all’essenza divina; dunque tutte le altre pro­ prietà che sono in questa essenza divina possono essere dimostrate da quella prima qualità che è l’esistenza divina (22); e cioè, se al(19) «Ex his ad quaestionezn dico quod propositio illa. est per se nota quae conjungit extrema ¡sta, esse et essentiam divinam ut haec est sive Deum et esse sibi proprium, quo modo Deus videt Ulani essentiam et esse sub propriissima ratione qua est in Deo hoc esse, quo modo nec esse a nobis nunc intelligitur nec essentia sed ab ipso Deo et a beatis, quia propositio illa ex suis terminis habet evidentem veritatem intellectui, quia illa propositio non est per se secundo modo, quasi praedicatum sit extra rationem subjecti, sed per se primo modo et immediate ex teiminis est evidens, quia est immediatissima, ad quam resolvuntur omnes enuntiantes aliquid de Deo quomodocumque concepto. Est igitur ista * Deus e s t’ sive haec ’ haec essentia e st’ per se nota quia ex­ trem a illa sunt nata lacere evidentiam de ista complexione cuilibet a p p r e n ­ denti perfecte extrema istius complexionis, quia esse nulli perfectius convenit quam huic essentiae. Sic igitur intelligendo per nomen Dei aliquid quod nos non perfecte cognosdmusnec concipimus u t hanc essentiam divinam, sic est per se nota ’ Deus e st’ ». J.D.S., op. cit.9 II, pp. 137-138, n. 25. (20) J.D.S., op. d t y II, pp. 138-139, n. 26. (21) «Primo, quia quaelibet talis est condusio demonstrabilis, et propter quid. Probatio: quidquid primo et immediate convenit alicui, de quólibet quod est in eo potest demonstrarì propter quid per illud cui primo convenit tamquam per medium». J.D.S., loc. c it, n. 27. (22) < Esse autem primo couvenit huic essentiae ut haec quomòdo videtur essentia divina a beatis; ergo de quólibet quod est in hac essentia quod potest a nobls concipi, sive sit quasi superius sive quasi passio, potest demonstrari esse

l'essenza divina conviene resistenza, bisogna che le convenga in quel modo che è la stessa essenza; ora l’essenza divina è necessaria ed infinita; dunque l’essenza necessaria e l’essenza infinita devono esistere. Così tutti gli altri attributi divini si deducono dall’essenza di­ vina, ma non sono per sè noti esigendo una dimostrazione « propter quid ». b) Una proposizione per sè nota è tale a qualsiasi intelletto che conosce i suoi termini. Ma la presente proposizione: « ens infinitum est », l’èssere infinito esiste, non è evidente al nostro intelletto im­ mediatamente dai termini stessi della proposizione, poiché noi non concepiamo i termini di questa proposizione se prim a non abbiamo creduto per fede o conosciuto per dimostrazione la proposizione stessa (23). o) Infine niente è per sè noto di un concetto non assolutamente semplice, « simpliciter simplex » (24), se non è per sè noto per hanc essentiam sicut per medium demonstratione propter quid». J.D.S., op. cit., II, pp. 139-140, n. 27. (23) Ibidem, loc. cit., n. 28. (24) «Voco autem conceptum simpliciter simpltcem qui non est resolubilis in alios conceptus simplices quorum quilibet possit actu semplici distincte cognosci». J.D.S., op. c it , II, 142-143, n. 31. - «Conceptum simpliciter simplicem voco; qui non est resolubilis in plures conceptus, ut conceptus entis vel ultimae differentiae. Conceptus simplex sed non tamen simpliciter simplex, est quicumque potest concipi ab inteUectu actu simplicis intelligentiae, licet possit resolvi in plures conceptus scorsimi conceptibiles, sicut est conceptus definiti, vel speciei ». Oxon. I, d ist 3, q. 2, n. 21, t. 9, 47. - « Triple* est conceptus; est enim conceptus simpliciter simplex; est conceptus simpliciter, non tamen simpliciter simplex; et conceptus mtdtiplex, qui nec est simpliciter simplex, nec simplex. Conceptus simpliciter simplex est file qui non est resolutus in plures conceptus; et talis conceptus conespondet enti et omnibus trascendentibus; conceptus enim entis non est resolutus in plures conceptus. - Conceptus simplex sed non sim­ pliciter simplex, est conoeptus per se unus et resolutus vel resolubilis in plures, quorum alter sit per se deteiminabilis, alter per se determinans; aliter non fierct ex eis per se unus; quorum etiam conceptuum particularium alter, scil. determinabilis sive possibilis, dlcitur de conceptu tertio in quid; alter autem scfi. per se determinans, dicitur de eo in quale; utrumque tamen est ei aequalis, scil. et determinabilis et determinans. - Ex quo per modum corollarii inferri potest quod in plus est esse essentiale, quam dici in quid. Talis autem conoeptus, scil. simplex, non simpliciter simplex, correspondet cuilibet epti perfecto in genere. Conceptus multiplex est conceptus com posito resolutus in plures conceptus, quorum unus non est per se deteiminabilis, et alter per se determinans; et talis conceptus correspondet toti per accidens, u t est homo albus, vel toti aggregato connaturaliter, sicut est trìplex conceptus ». Lexic. Scholastic .phUos. theoL di Nf.F. Gabcia, p. 163.

che le parti o i termini di quel concetto debbano stare necessaria­ mente uniti; ora nessun concetto che noi abbiamo di Dio (25), è as­ solutamente semplice, come pure in nessun concetto che noi costa­ tiamo appartenere propriamente a Dio e non alla creatura è asso­ lutamente semplice; dunque niente è per se noto di un tale concetto se non è per sè noto che le parti o i termini di quel concetto deb­ bano necessariamente stare uniti. Ma ciò non è per sè noto perchè si esige una dimostrazione per provare la loro unione (26). La maggiore di questo argomento Scoto la prova da ciò che dice Aristotele nel V lib. della Metafisica dove parla della falsità (27): ima ragione falsa in se stessa è pure falsa in tutto quello che essa vuoi provare, perciò nessuna ragione di qualsiasi cosa è vera se la ragione in se stessa non è vera. Per conoscere dunque la ragione di qualcosa è necessario prima conoscere che quella ragione stessa sia vera ora non vi può essere una ragione vera in se stessa se le sue parti o i suoi termini non sono uniti necessariamente. E come è ne­ cessario conoscere, riguardo agli attributi quidditativi, che le parti di una data natura possono unirsi quidditativamente, cosicché ima parte contenga l’altra formalmente, così riguardo alla verità di una proposizione, la quale enuncia resistenza di una cosa, bisogna co­ noscere che le sue parti, e cioè il soggetto e il predicato, siano uniti attualm ente. Per es.: come questa proposizione « Fuomo irragione­ vole è un animale » non è per sè nota, parlando di attributi quid­ ditativi, perchè il soggetto include in se stesso una falsità, essendo espresso mediante un termine che racchiude in sè una falsità: Yuomo irragionevole (difatti Fuomo essendo un animale ragionevole e la ra­ gionevolezza essendo l’essenza dell’uomo, dire dell’uomo che è irra­ gionevole equivale ad asserire una cosa falsa); così la proposizione « Fuomo bianco esiste » non è per sè nota se non è per sè noto che il soggetto « uomo » e il predicato « bianco * siano uniti attual­ mente nella realtà. Se non fossero uniti in un’esistenza attuale e reale, allora la proposizione « Fuomo bianco non esiste » sarebbe vera e conseguentemente sarebbe vero anche il suo contrario « nes­ sun uomo bianco esiste », e quindi la sua contraddittoria « Fuomo bianco esiste » sarebbe falsa (28). (25) Si parla di concetti propri alla divinità e non convenienti affatto alle creature come il concetto di essere necessario, essere infinito, essere asso­ luto ecc. (26) J.D.S., op. cit, II, pp. 140-141, n. 20. (27) Cap. De Falso, t. 34 (D. c. 29, 1024b 31-32): Falsa autem ratio nullius est simpliciter ratio. (28) « Major est manifesta per Philosophum V Metaphys.y c. De Falso, quia ratio in se falsa, est de omni falsa; ergo nulla ratio est de aliquo vera nisi sit in se vera. Ergo ad hoc quod cognoscatur aliquod esse venim de aliqua ratione, vel ipsam esse verazn de aliquo, oportet cognoscere ipsam in se esse veram; non est autem ratio in se vera nisi partes illius rationis sint unitae. Et sicut oportet scire quantum ad praedicationes quidditativas quod partes rationis

La proposizione minore dell’argomento enunciato sopra, e cioè che nessun nostro concetto di Dio è assolutamente semplice, Scoto la prova dal fatto che qualsiasi nostro concetto semplice, per esem­ pio: il concetto di ente, di verità, di bontà, perchè questi concetti designino Dio, è necessario unirli ad un aggettivo, ossia ad un altro concetto, per es. sommo, infinito, assoluto. Con un concetto assolu­ tamente semplice non si può avere un concetto proprio di Dio; Di­ fatti col concetto di « ente », che è un concetto assolutamente sem­ plice, .non potendo essere scomposto in altri concetti, non possiamo indicare esclusivamente Dio poiché anche gli altri esseri danno il concetto di « en te» . Per indicare col concetto di «ente» Dio, è necessario unirvi l’aggettivo « sommo », e allora abbiamo il concetto composto: « l’ente sommo » = Dio. Dunque rimane provato che ogni nostro concetto di Dio non è un concetto assolutamente semplice, bensì composto, perchè bisogna ricorrere almeno a due concetti: quello d i ,« ente » e quello di « sommo ». Per concetto assolutamente semplice Scoto, ripetiamo, intende un concetto il quale non può essere scomposto in altri concetti, cia­ scuno dei quali può essere conosciuto distintam ente (29). Il concetto di ente per. es. è un concetto assolutamente semplice perchè non può essere scomposto in altri concetti; il concetto di ente infatti è il primo e più semplice concetto che la mente umana possa concepire. Alle due istanze: 1) « Tessere necessario esiste », questa è una proposizione per sè nota perchè l’opposto del predicato ripugna al soggetto, difatti l’essere necessario se non esistesse realmente non sarebbe più l’essere necessario; 2) la proposizione « Dio è » deve ne­ cessariamente essere per sè nota avendo detto il Damasceno che il nome di Dio trae il suo vero significato dalla sua attuale operazione divina (30), Scoto risponde che queste due proposizioni « l’essere ne­ cessario esiste » o « l’essere operante attualm ente esiste » non sono per sè note non essendo per sè noto che le parti del soggetto: « l’essere possint uniri quidditative, puta quod altera contineat alteram formaliter, ita quantum ad veritatexn propositionis enuntiantis esse oportet cognoscere paites rationis subjecti vel praedicati uniri actualiter». J.D.S., op. cit.y II, pp. 141-142, n. SO. (29) « Probatio minorisi quemcumque conceptum concipunus sive boni sive veri, si non contrahatur per aliquid ut non sit conceptus simpliciter sim­ plex, non est proprius conceptus D eo». J.D.S., op. cit.y II, p. 142, n. 31. Cfr. sopra p. 105, nota (24), (30) Da quanto dice il Damasceno si deduce che la proposizione « Dio è » è per sè nota come la proposizione «Tessere operante attualmente esiste»; di­ fatti Topposto del predicato ripugna al soggetto non potendosi immaginare non esistente un essere che agisce attualmente. Ora Dio agisce continuamente quindi anche presentemente; dunque la proposizione « Dio è » non può essere che per sè nota.

necessario » o « Tessere operante » siano necessariamente unite al presente. Quanto a ciò che è stato obiettato e cioè che nelle propo­ sizioni « Tessere necessario esiste » d « Tessere operante attualm ente esiste » l’opposto del predicato ripugna al soggetto, Scoto risponde che da ciò non segue affatto che queste due proposizioni siano per se note fintanto che cotesta ripugnanza non sia evidente, e fintanto che non sia pure evidente che Tuno e Taltro termine del soggetto abbiano un concetto assolutamente semplice e che i concetti dei due termini « essere necessario » « essere operante » siano uniti ne­ cessariamente ed attualm ente (31). Così per Scoto una proposizione è per sè nota solo quando rac­ chiude una verità evidente sia nei singoli suoi termini, sia nell’unione naturale ed attuale tra loro. Tale è la proposizione « Dio è > (32).

(31) « Ideo aliter respondeo ad istas, quod nulla istarum proposltionum est per se nota, ’ necesse e s t’ vel ’ operans actu e st’, quia non est per se notum partes quae sunt in subjecto uniri actual iter. Cum dicit ’ opposite praedicati repugnat subjecto’, dico quod non sequitur ex hoc propositionem esse per se notam nisi ista repugnantia sit evidens, et cum hoc etiam sit evidens utrumque extremum habere conception simpliciter simplicem vel quod conceptus parttum simpliciter uniantur». J.D.S., op, cit.t II, pp. 143-144, n. 32-33. (32) Vedi sopra, l’osservazione di E. G ilson , p. 95.

PARTE

SECONDA

INTRODUZIONE

Dopo questa rapida scorsa attraverso le opinioni dei principali autori del sec. XIII sulla questione « Utrum Deum esse sit per se notiim », dobbiamo concludere che quasi tutti gli antichi scolastici ammettevano che in un certo senso Dio è per sè noto anche a noi, non però in se stesso (sub ratione propria), poiché nessuno in questa vita può intuire direttam ente e distintamente l’essenza divina, ma nelle proprietà trascendentali o comuni (sub rationibus communibus) degli esseri cioè entità, unità, verità e bontà; anche nell’aspirazione naturale del nostro spirito alla felicità, possiamo scoprire, sia pure imperfettamente, l’esistenza divina. S. Tommaso è chiaro su questo punto: « Dicendum quod cognoscere Deum esse in aliquo communi, sub quadam confusione, est nobis naturaliter insertum, in quantum scilicet Deus est hominis beatitudo: homo enim naturaliter desiderat beatitudinem, et quod naturaliter desideratur ab homine, naturaliter cognoscitur ab eodem. Sed hoc non est simpliciter cognoscere Deum esse... » (1). Quanto abbiamo accennato nell’introduzione, e cioè che la sete naturale della beatitudine ci spinge naturalmente e istintivamente verso la sorgente di gaudio infinito che' è Dio stesso fonte inesauribile di beatitudine, viene confermato dal passo citato di S. Tommaso, il quale, servendosi del medesimo argomento, la sete naturale della fe­ licità infinita, dimostra l’esistenza di Dio, non però l’evidenza di Dio. L’aspirazione naturale verso un bene fa supporre che quel bene esi­ sta, altrimenti quel desiderio naturale ed istintivo sarebbe vano, il­ lusorio e falso; ora nella natura non vi è niente di inutile, di illusorio e di falso; dunque anche il Sommo Bene a cui naturalmente tutti tendiamo non può essere non esistente, ma la sua esistenza è neces­ saria e per il nostro spirito indispensabile. « Quod naturaliter desi­ deratur ab homine, naturaliter cognoscitur ab eodem » (2). L’uomo (1) Sum. TheoL, I, q. 2, a. 1 ad 1; vedi pure Sum. cantra Gent., I, c. 11 ad 4; J S e n t dist. 3, q. 2. (2) . S. T ho m ., Sum. TheoL, 1, q. 2, a. 1 ad 1.

peri) quantunque conosca naturalmente il suo Sommo Bene, non Lo conosce però distintamente e neppure pienamente; questo Sommo Bene si è nascosto per rendersi più desiderabile; essendo infinito è infinitamente desiderabile e l’aspirazione degli uomini verso Dio, quantunque grande ed illimitata, non può mai uguagliare l’infinita beatitudine desiderabile di Dio. Provvidenzialmente il Sommo Bene si nasconde per farsi desiderare, e si darà a noi nella misura in cui l’abbiamo desiderato. Còme la sete si estingue con una quantità pro­ porzionata di acqua, così la nostra sete di Dio sarà soddisfatta da Dio stesso in proporzione alla sete che abbiamo avuto di Lui. < Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia perchè saranno sa­ ziati » (3). L’infinito assorbirà il finito a condizione che il finito tenda alPinfinito con desiderio illimitato o potenzialmente infinito. Ma pur conoscendo naturalmente Dio come nostro Sommo Bene, non per questo Dio è per sè evidente o per sè noto; « Sed hoc non est simpli­ citer cognoscere Deum esse » (4). L’essenza e resistenza divina la possiamo dedurre da altre es­ senze ed esistenze contingenti, ma non possiamo vederla distintamente finche siamo nella vita presente. Dalle singole verità esistenti si inferisce alla Somma Verità e dai singoli esseri al Sommo Essere della cui esistenza non dubitiamo affatto; tuttavia non possiamo costa­ tare direttam ente l’evidenza nè della Somma Verità nè dell’Essere sus­ sistente: « Dicendum quod veritatem esse in communi, est per se notum: sed primam veritatem esse, hoc non est per se notum quoad nos » (5). Alessandro di Hales spiega molto bene con un esempio come un essere può « sub ratione propria * essere ignorato, mentre può es­ sere conosciuto «sub ratione communi»; l’esempio l’applica alla co­ noscenza di Dio; mia cosa — dice Alessandro — può essere cono­ sciuta sotto un duplice aspetto: nella sua natura comune alle altre nature e nella sua natura propria e particolare* Còsi una cosa può essere conosciuta nella sua natura comune e tuttavia può essere sco­ nosciuta nella sua natura propria e particolare, come quando qual­ cuno conoscendo il miele nella sua natura comune cioè come sostanza morbida e rossiccia e non conoscendolo nella sua natura propria e particolare, vedendo una sostanza morbida e rossiccia, ingannato, (3) Ai*., 5, '6 . (4) Sum. TheoL,. I, q. 2, a. 1 ad 1. (5) Ibidem , ad 3.

crede che sia miele ciò che invece è veléno. Così la conoscenza della beatitudine la quale è « status omnium bonorum aggregatione perfectus », e il desiderio di possederla, sono innati in tu tti noi, e la beatitudine, mentre è conosciuta da tutti nella sua natura comune, tuttavia nella sua natura propria e particolare da alcuni è sconosciuta. Perdo taluni ripongono la loro beatitudine in alcune cose, tal’altri in altre cose: per alcuni la beatitudine consiste nei piaceri materiali, per altri nelle ricchezze, per altri negli onori; è chiaro quindi che essi non conoscono la beatitudine nella sua vera e propria natura. Così bisogna dire degli idolatri i quali conoscono Dio in alcune sue pro­ prietà e attributi come ente, principio primo, onnipotente, ma non conoscono Dio nella sua propria e particolare natura (6). Se gli scolastici si differenziano nella risposta che danno alla questione da noi esaminata, rispondendo alcuni che Dio è a noi per sè noto, altri che Dio non è a noi per se noto ed altri infine che Dio è solo in qualche modo a noi per sè noto, sono però di comune ac­ cordo, quasi tutti, che Dio è implicitamente conosciuto in ogni og­ getto della nostra conoscenza. Il Dottore Angelico è chiaro: « ...tutti gli esseri intelligenti conoscono implicitamente Dio in qualsiasi og­ getto conosciuto. D ifatti come nessun essere ha una natura appe­ tìbile se non in quanto ha una certa somiglianza con la bontà assoluta, così nessun essere è conoscibile se non in quanto ha una certa somiglianza con la verità assoluta » (7); e il Dottore Serafico: « In qualsiasi cosa che sentiamo o conosciamo, internamente vi si nasconde lo stesso Die » (8). Infine il D ottor Sottile: « Cono-

(6) A lexand. de H ales , Sum. Theol., pais I, inquis. 1, tract. 1, q. 1, cap. 2, a. 1 ad 3, ed. Quaracchi, 1924. La medesima distinzione « in ratione communi et in ratione propria» e il medesimo esempio del miele e del veleno si trova presso A lberto Magno, Sum TheoL, tract. 4, q. 19, m. 2; cfr. R ic ­ cardo di M ediavilla , I $en.9 dist. 3, a. 1, q. 2 respond.; P ietro di T arantasia , / Sent., d ist 3, q. 1, a. 2 respond. (7) « Dicendum, quod omnia cognoscentia cognoscunt implicite Deum in quolibet cognito. Sicut enim nihil habet rationem appetibilis nisi per simOitudinem primae bonitatis, ita nihil est cognoscibile nisi per similitudinem primae vèritatis». De Verity q. 22, a. 2, ad 1. (8) « In omni re, quae sentitur sive quae cognoscitur, interius latet ipse Deus ». De Reduci. artium ad Theologiam, in fine.

scendo qualsiasi essere, per il fatto che questo essere esiste, indistintissimamente si concepisce Dio » (9). Dio è senza dubbio l’autore dell’universo ed è impossibile che esso non proclami naturalmente la sapienza, l’onnipotenza e la prov­ videnza del Creatore.

(9) < Cognoscendo enim quodcumque ens, u t hoc concipitur Deus ». Oxon., I, dist. 3, q. 2, n. 3, t. 9, 13.

cds

est, indistinctissime

DUBBIO DEL SAPIENTE CIRCA L’ESISTENZA D I DIO

Ma se Dio è quasi un’evidenza, perchè molti, anche tra i sapienti, dubitano dell’esistenza di Dio? Anche Olivi aveva notato che « multi etiam sapientes patiuntur super hoc (l’esistenza di Dio) motus dubitationis » (1). E pure « l’esistenza di Dio è così indubitabile che non possiamo pensare che Dio non esista, come prova Anseimo nel Proslogion (2); Dio è per sè notissimo, perchè tutto ciò che è indubitabile è per sè notissimo » (3). Soprattutto quest’ultima prova sembra scottare Tammo di imo scettico. Come è possibile concepire Dio per sè notissimo quando il dubbio sulla sua esistenza ed essenza sorge spontaneo nella mente di molti? Nonostante la nostra scienza, Dio rimane sempre un mi­ stero. Soprattutto nelle grandi difficoltà ed avversità, quando si vede la prosperità delFuomo disonesto e la povertà dell’uomo giusto, il disonesto applaudito e il giusto disprezzato, quando si vede il mondo traboccante di odio e di rancore che sfociano in sanguinose guerre fratricide, quando si vede la libertà dell’uomo, invece di tendere sem­ pre al bene, trascinata violentemente al male, allora il dubbio sul­ l’esistenza di un Dio giusto, santo, onnipotente prende il sopravvento e, se non venisse in soccorso la fede, certamente si cadrebbe nella più tragica disperazione. Come possiamo dire che Dio è per sè notissimo quando nessuno l’ha mai veduto, quando molti hanno dubitato della sua esistenza, quando alcuni filosofi hanno osato provare la sua non esistenza, op­ pure, incapaci di addurre una prova sicura, hanno detto che, anche s e ‘Dio esiste, la sua esistenza però non può essere dimostrata? Dun(1) O livi, op. cit., Ili, p. 518. (2) Cap. IV, PL 158, 229. (3) « ...omne indubitabile est per se notissimum; sed Deum esse est indu­ bitabile quod non possumus ipsiim cogitare non esse, sicut probat Ànselmus in Proslogion; ergo et cetera ». O livi , op. cit, III, p. 517.

que Dio non è per se noto « quia illud de quo potest dubitali, etiam a multa sciente et apprehensis ralionibus suorum terminorum, non est per se notum » (4). L’esistenza di Dio può essere oggetto di dubbio, difatti l’insi­ piente ha detto che Dio non esiste (5), e dicendo ciò non intendeva negare resistenza di un essere diverso da quello che i cattolici chia­ mano Dio, ma ha conosciuto il significato e la ragione o natura dei termini della proposizione « Dio è » prima, e ha creduto, poi, negare 1’esistenza di Dio. E non soltanto l’insipiente del salmo, ma anche molti sapienti spesso vedono sorgere spontaneamente in loro stessi dubbi e incertezze sull’esistenza di Dio, e se non ricorressero alla fede, rischierebbero di cadere in un autentico scetticismo (6). Dicendo Olivi « multi etiam- sapientes patiuntur super hoc (resi­ stenza di Dio) motus dubitationis », intendeva forse usare semplicemente un’espressione generica, oppure alludeva ad alcuni sapienti in particolare? Noi saremmo più propensi a dire che ha voluto parlare in modo generale, però è molto facile che abbia fatto allusione ad alcuni sa­ pienti antichi e suoi contemporanei di cui però è difficile indovinare i nomi. Tra questi sapienti potremmo includerci Gaunilone (7) il quale pur essendo un monaco benedettino e quindi un uomo religioso che non avrebbe dovuto avere troppa difficoltà ad aderire alPargomento anselmiano concludendo all’evidenza dell’esistenza di Dio, vivendo come religioso sempre alla presenza di Dio, invece questo monaco prende le difese del biblico insipiente negatore dell’esistenza di Dio, facendo rilevare che nell’argomento di Anseimo vi era un salto troppo (4) O livi, op. c it , III, p. 518. (5) Ps., 13, 1.

(6) « ...dixit enim insipiens Deum non esse, et hoc dicendo non intendebat negare esse de aliquo creato neque de alio qnam de eo qui vere a catholicis per nomen Dei significatur; ergo postquam scivit rationes tenninorum, hanc negationem credidit; multi etiam sapientes saepe patiuntur super hoc motus dubitationis, quos nisi per fidexn voluntarie abigeient, totaliter tunc dubitarent; ergo etc. ». O livi, op, cit., Ili, 518. Il dubbio del sapiente circa l’esistenza di Dio è in opposizione a quanto avevano asserito Egidio Romano e Agostino Trionfo, per i quali Dio è per sè noto ai soli sapienti, e non già a tutti, perchè soltanto i sapienti conoscono il vero significato della parola Dio. Vedi sopra, p. 20 e p. 38. (7) Lib. Pro insipiente adversus S. Anseimi in Proslog. ratiocinationem auctore Gaunilone Majoris Monasterii monacho, PL 158, 242 ss.

repentino ed illogico dall’esse in intellcctu all’esse in re. « Colla sua obbiezione Gaunilone affermava la verità che l’essere, in quanto posi­ zione di esistenza, non è nota di concetto; dimostrazione dell’impos­ sibilità di ogni prova come disse poi il Kant, che nella sua classica dimostrazione dell’impossibilità di ogni prova ontologica riprese so­ stanzialmente la sua posizione » (8). Gaunilone non negava l’esistenza di Dio, anzi come uomo reli­ gioso amava e adorava Dio; ma non escludeva però che l’esistenza di Dio poteva essere oggetto di. dubbi (9). Nbn basta immaginarsi Dio come l’essere perfettissimo, di cui non si può pensare un altro essere più perfetto, per escludere ogni dubbio dalla mente; poiché anche se concepiamo Dio come l’essere di cui non si può pensare uno maggiore, noi non siamo affatto sicuri che Egli esista anche al di fuori della nostra mente, cioè nella realtà. Anche se ci convinciamo col ragionamento che Dio, concepito come l’essere più grande, deve necessariamente esistere pure nella realtà, e non solo nelFintelletto, altrim enti non sarebbe l’essere più grande, questo ragionamento non è capace di togliere ogni dubbio dalla no­ stra mente. Non siamo pienamente convinti che il passaggio dal con­ cetto alla realtà sia veramente logico, lecito e filosoficamente giusto. Siamo intimamente convinti che la conclusione del nostro sillogismo è più grande delle premesse, anzi in questo caso ci accorgiamo che non vi è nesso logico tra le premesse formulate dalla nostra mente e la conclusione esprimente una realtà esistente, che nella mente di Anseimo ha la pretenzione di essere per sé nota o evidente. Gauni­ lone, uomo religioso e dedito alla contemplazione, si accorgeva che il ragionamento di Anseimo invece di togliere i dubbi sull’esistenza di Dio, era un’occasione di dubitarne maggiormente, poiché avendo la mente umana cercato ansiosamente una nuova via per dimostrare l’esistenza di Dio e non avendolo potuto vedere in quell’evidenza che esige il nostro spirito, questo si è, diremmo, scoraggiato concludendo che nessuna prova ontologica può scoprirci 1’esistenza di Dio. Gauni­ lone, estremamente logico è intransigente nella sua polemica contro Anseimo (10); possiamo dire che lui è la causa principale per cui l’argomento di Anseimo è stato screditato e giudicato sofistico da molti filosofi che lo hanno seguito. (8) Enciclopedia Italiana Treccani, XVI, p. 458, v. Gaunilone. (9) Lib. Pro Insipiente. FL 158, 243. (10) Lib. Pro Insipiente. PL 158, 245-246.

Uno dei contemporanei di Olivi che dalla gente del suo tempo e dagli storici viene considerato come un autentico scettico o un negatore deiresistenza di Dio è il filosofo e poeta Guido Cavalcanti (1259-1300) amico stimatissimo di D'ante Alighieri. Che fosse in ot­ time relazioni col massimo poeta italiano lo sappiamo dal Boccaccio nel suo commento alla Divina Commedia, che ci descrive le sue qua­ lità morali ed intellettuali. « Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo, e ricco, e d’alto ingegno: e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcuno altro nostro cittadino: ed oltre a ciò fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo: e fu singolarissimo amico del­ l’autore (Dlante) siccome esso medesimo mostra nella sua Vita Nuova (11): e fu buon dicitore in rima; ma perciocché la Filosofìa gli pareva, siccome ella è, da molto più che la Poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti » (12). Nonostante che amasse più la filosofia che la poesia, sfortunata­ mente non abbiamo nessuna opera filosofica dove Guido Cavalcanti si mostri un profondo filosofo; la sua fama è invece legata alla sua arte poetica. A noi ciò poco interessa; ci basti sapere che questo autore era reputato un pensatore, un uomo di studio, un sapiente, il quale no­ nostante la sua dottrina filosofica era terribilmente tormentato dai dubbi sull’esistenza di Dio (13). Il primo a riferirci qualche cosa sullo scetticismo di Guido Ca­ valcanti è ancora il Boccaccio. Da un motto detto da lui argutamente, ma decentemente, ad alcuni cavalieri fiorentini i quali avendolo in­ contrato per la strada lo rimproveravano della sua solitudine e del suo scetticismo, l’autore del famoso Decamerone prende l’occasione di scrivere una brillante novella (14). (11) Cap. 24: «...vidi venire verso me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio amico». Questo amico è Guido Cavalcanti. I due poeti si manifestarono sensi d i amicizia, scam­ biandosi dei sonetti. (12) Cfr. T ihaboschi, Storia della letteratura italiana, V ili, p. 543. (13) « Quelques uns l’ont soupçonné d’avoir de doutes trop forts sur la Divinité ». Cfr. Le Grand Dictionnaire Historique par M .ie Louis Moreri, Paris, 1744, v. Cavalcanti G. (14) Decamerone, giornata 6, novella 9. In questa Boccaccio ci racconta che tra le molte brigate di gentiluomini fiorentini « n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto e’ compagni s’eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza cagione, per ciò che, oltre a quello che egli fu uno de’ migliori loici che avesse il mondo,

Il racconto del Boccaccio, quantunque porti il nome di novella, non è affatto una novella, ma una pagina storica dove Fautore ci de­ scrive alcune usanze di Firenze nel periodo del suo splendore me­ dievale; e come protagonista della novella ci presenta un personaggio storico, Guido Cavalcanti, uno dei creatori del « Dolce stil nuovo », di cui ci descrive mirabilmente il carattere del filosofo o sapiente sdegnoso, solitario e meditabondo. Nella pensosa figura del Cavalcanti si può vedere l’uomo in preda ad una terribile incertezza nella fede. Questa, essendo oscura (15), non appaga la ragione, la quale perciò è portata al dubbio che pro­ voca nello spirito un senso di sfiducia e di smarrimento. L’uomo che non vede chiaro il fine ultimo della sua vita, che dubita dell’esistenza di Dio, che non vede Dio perchè accecato dalle passioni o dalla troppa pretenzione della ragione che vuol penetrare il mistero, si scoraggia e si abbatte isolandosi in una triste e opprimente meditazione. Pre­ ferisce meditare fra le tombe di un cimitero, come appunto faceva Guido Cavalcanti, piuttosto di ricrearsi nel profumo di un giardino fiorito o nella gioia spensierata di un festino. La gioia è scomparsa dal cuore dello scettico, soprattutto se allo scetticismo era preceduta la fede. Questa è sorgente di tranquillità e di pace; la sua perdita ci smarrisce nell’incertezza e nella insufficienza della ragione. Più que­ sta vuol misurarsi con l’infinito e più ne rimane umiliata. Nell’umi­ liazione si nutre l’orgoglio di una rivincita, ma la vittoria non essendo sicura, il dubbio spesso prende il sopravvento e ci disarma. Così la ragione dinanzi a un problema che la trascende, si avvilisce nel dub­ bio; se non venisse in soccorso la fede essa resterebbe paralizzata. Guido Cavalcanti non è il solo filosofo o sapiente che abbia du­ bitato dell’esistenza di Dio; insieme a lui molti altri sapienti antichi ed ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava) si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, ed ogni cosa che far volle, ed a gentile uomo pertinente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, ed a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse; ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d ’averlo, e credeva egli co9 suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta, speculando, molto astratto dagli uomini diveniva. G per ciò che egli alquanto tenea dell’opinione degli Epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse». Sul senso della parola Epicuri cfr. G. Vandelli, La Divina Com­ media, Milano, 1943, comm. Inf. X, 15. Epicuri si chiamavano nel M. Evo quanti dubitavano deU’esistenza di Dio e dell’immoxtalità dell’anima. (15) Hebr., 11, 1.

e moderni hanno provato l’amarezza di questo dubbio, il più terri­ bile d ie si possa avere. Il dubbio sull’esistenza di Dio ci mette nella paurosa situazione di un marinaio senza bussola in una notte senza stelle, tra i ruggiti minacciosi delle onde, nel pericolo imminente di essere inghiottito dall’abisso. Quanti nel dubbio dell’esistenza di Dio hanno trovato la morte corporale e spirituale... Quanti invece nello smarrimento del dubbio, perchè hanno teso fiduciosi la mano alla fede, sono stati da essa salvati... Se non siamo affatto sicuri che Olivi dicendo « multi etiam sa­ pientes saepe patiuntur super hoc (l’esistenza di Dio) motus dubitationis » (16) alludesse al dubbio di Gaunilone o a quello di Guido Cavalcanti, tuttavia è certo che Olivi con quella frase alludeva a que­ gli scettici dotti e ignoranti che possono trovarsi e in tu tti i luoghi e in tu tti i tèmpi. Anche S. Bonaventura, pur non avendo lui stesso alcuna ombra di dubbio sull’esistenza di Dio, essendo evidentissimo per lui, tu t­ tavia a causa della deficienza, debolezza e piccolezza dell’intelletto umano, dice che l’uomo può concepire qualche dubbio sull’esistenza di Dio. Da un rapido sguardo su quanto S. Bonaventura scrive nella questione < utrum Deum esse sit verum indubitabile » (17) possiamo farci un’idea del come il D ottore Serafico ammetteva che un uomo potesse dubitare dell’esistenza dì Dio. Dopo aver dimostrato attraverso una triplice via che l’esistenza di Dio è una verità di cui non si può affatto dubitare perchè è ima verità impressa dalla natura nella mente dell’uomo, perchè è una ve­ rità proclamata da ogni creatura e perchè è una verità certissima ed evidentissima (18), S. Bonaventura dice pure che l’esistenza di Dio è una verità che potrebbe essere messa in dubbio a causa della pic­ colezza del nostro intelletto.

(16) Olivi, op. cit., I li, p. 518.

(17) S. Bonàv., Quaest. Disp., De Mysterio Trinit., g. 1, a . 1. Op. omnia, Quaracchi, 1891, V, 45. (18) Ibidem c ...quod sic, ostenditur triplici via. Prima... omne verum omni­ bus mentibus impressimi est verum indubitabile. Secunda... mone verum, quod omnis creatura proclamat est verum indubitabile. Tertia... omne verum in selpso oertissimum et evidentissimum est verum indubitabile ».

a) Riccardo di S. Vittore dice « Diente riteniamo di più certo di quello che sappiamo dalla fede » (19); ora ciò che appartiene alla fede può essere oggetto di dubbio; dunque molto più può essere og­ getto di dubbio qualsiasi altra conoscenza acquistata con la ra­ gione (20). Bisogna distinguere due specie di certezze, dice S. Bonaventura, una che si chiama certezza di adesione, l’altra certezza d’intelligen­ za (21), cioè acquistata mediante la riflessione e il ragionamento. Con la prima si aderisce alle verità di fede, e questa adesione è più forte della certezza d’intelligenza per ciò che riguarda le verità di fede, non per ciò che riguarda le verità sono oggetto della ragione. Ora l’esistenza di Dio è anche oggetto della ragione, dunque non può essere messa in dubbio perchè costituisce insieme una certezza di adesione, ossia di fede, ed una certezza d’intelligenza, ossia di ra­ gione (22). b) Tutto ciò che è nascosto, ossia non evidente, ammette un dubbio; ora Dio è particolarmente nascosto poiché abita una luce inaccessibile (23); dunque di Lui e delle cose divine si può dubitare: se infatti si dubita dell’esistenza d i cose nascoste e non evidenti, molto più si può dubitare dell’esistenza di Dio (24). Sebbene Dio sia semplice e in sè uniforme, risponde S. Bonaven­ tura, tuttavia in un certo modo Dio è nascosto e in un certo modo è manifesto, come insinua l’Apostolo: < quod notum est Dei mani­ festimi est in illis > (25) quello che è noto di Dio è manifesto nelle creature. La prim a cosa che è manifesta di Dio è la sua . entità o

(19) Ldb. 1 De Trinit., cap. 2. (20) S. Bonav., op. oit., q. 1, a. 1 ad oppositum. (21) Ibidem, solutio opp. (22) Per la dottrina sulla superiorità della certezza proveniente dalla lede sulla certezza proveniente dalla scienza cfr. S. Bonav., I li S ant, dist. 23, a. 1, q. 4 : « Utrum fides sit certior quam scientia ». (23) 1 Tim., 0, 16. (24) S. Bonav., op.

cit., q. 1, a. 1 ad oppositum. Cfr. Matteo d’A cquas parta, Seni., lib. I, d ist 2, a. 1, q. 3 contras « Itero, quod maxime latet ma­ ximam adm ittit dubitationem; sed Deus maxime latet: ergo etc. ». Invece di riportare i testi di S. Bonaventura, facilmente reperibili, riporteremo quelli di Matteo d ’Acquasparta che li ricopia quasi testualmente. Cfr. A. D aniels, op. cit., p. 52 s. (25) Ad Rom., 1, 19.

esistenza; questa non è affatto nascosta ma evidente; dunque non può essere oggetto di dubbio, ma è del tutto indubitabile (26). c) Se accade di dubitare delle cose che sono più accessibili all’anima, e cioè di quelle cose che sono inferiori all’anima o vicine all'anim a per le loro qualità, molto più accade di dubitare di quelle cose che sono al di sopra dell’anima; ora resistenza di Dio è una ve­ rità che è al di sopra delPintelletto umano, dunque accade di dubi­ tarne in un modo tutto particolare (27). Questa obbiezione, risponde il Dottore Serafico, non vale perchè sebbene Dio sia al di sopra dell’anima secondo la sua natura, è tut­ tavia dentro l’anima secondo la sua notizia o conoscenza, e fuori del­ l’anima secondo la sua presenza o rappresentazione in ogni creatura, perchè la verità dell’esistenza di Dio è inclusa o compresa in ogni verità (28). Per comprendere bene la risposta di S. Bonaventura, bisogna pen­ sare bene alla sua particolare dottrina della presenza di Dio nel no­ stro spirito: « Deus praesentissimus est ipsi animae et in se ipso cognoscibilis : ergo inserta est ipsi animae notitia Dei sui » (29) e rendersi conto delFesemplarismo bonaventuriano. d) In Diio la sua giustizia si confonde con la sua esistenza; ora accade di dubitare della giustizia di Dio, dunque anche della sua esistenza (30). Anchè questa obbiezione, risponde il Serafico Dottore, non con­ clude bene perchè, sebbene sia vero che in Dio la giustizia si con­ fonde con la sua esistenza, tuttavia in rapporto a colui che ragiona e secondo Peffetto manifestante la giustizia divina, i due attributi divini non sono la medesima cosa e quindi è possibile che uno di questi attributi sia manifesto, mentre l’altro è nascosto (31). Se Dio (26) S. Bonav., op. cit., q. 1, a. 1 solutio opp. (27) Ibidem, q. 1, a. 1 ad oppositum. Cfr. Màt. d’Acquasp,, I Seni., dist. 2, q. 3, a. 1 contra: « Item, contingit dubitare de his quae sunt infra animano et juxta; sed illa sunt magis acoessibilia; ergo si Deus est supra animano multo fortius contingit de eo dubitare ». (28) S. Bonav., op. c i t q. 1, a. 1 solutio opp. Cfr. M at . d' àcquasp ., I Sent., dist. 2, a. 1, q. 3 respoudeo: « ...dicendum quod licet sit supra animam seciuidum naturam, tamen est intra secundum notitiam et extra secundum repraesentationem, in quantum omne veruni clamat, Deum esse, sicut... ». (29) S. Bonav., op. cit., q. 1, a. 1. (30) Ibidem, ad oppositum. (31) S. Bonav., op. cit., q. 1, a. 1 solutio opp.

qualche volta ci sembra ingiusto non è perchè in realtà sia tale, altri­ menti non sarebbe più Dio, ma Egli sembra a noi ingiusto perchè non conosciamo adeguatamente i piani divini. e) E’ inutile lo sforzo di colui che cerca di provare ciò che non può essere messo in dubbio; se dunque l’esistenza di Dio non può essere oggetto di dubbio, è m utile sforzarsi d i provarla; ma se i santi e i dottori non si sono sforzati inutilm ente di provarla, ciò vuol dire che l’esistenza di Dio può essere messa in dubbio (32). La verità dell’esistenza d i Dia, risponde S. Bonaventura, esige ima dimostrazione non per deficienza di evidenza da parte sua, ma per deficienza di intelligenza da parte nostra. Perciò tutti i ragiona­ menti che facciamo per provare resistenza di Dio, sono piuttosto esercizi dialettici del nostro intelletto che vere ragioni le quali ci diano l’evidenza e ci manifestino la verità pienamente provata (33). Per S. Bonaventura 1’esistenza di Dio non esige nessuna dimostra­ zione perchè è per sè evidente. L’idea di Dio è innata nel nostro spirito, l’anima porta l’immagine di Dio, le creature reclamano e pro­ clamano l’esistenza di Dio, voler provare questa esistenza equivale ad offendere la divinità presente nel nostro spirito e in tutto l’uni­ verso. Ma poiché la nostra intelligenza è così lim itata e deficiente che rasenta quasi la cecità, allora sono necessarie le prove. f) Nessuno può rendersi conto di questo principio: il tutto è

maggiore della sua parte, se non conosce che cosa sia il tutto; nes­ suno dunque può conoscere l’esistenza di Dio (an sit), se non co­ nosce che cosa è Dio (quid sit); ora si può dubitare intorno all’es­ senza di Dio, dunque si può dubitare anche sull’esistenza di Dio (34). E’ vero, risponde S. Bonaventura, che nessuno conosce i principi se non conosce i termini (35), ma la ragione o natura di alcuni ter­ mini è occulta, di altri invece manifesta. Di più, del significato dei termini si può avere una conoscenza piena, ancora più piena e pie­ nissima, cioè adeguata, ancora più adeguata e adeguatissima. Così ri­ guardo a Dio si può avere una conoscenza perfetta, piena e compren(32) Ibidem, ad oppositum. (33) Ibidem, sohitio opp. ((34) S. Bonav., op. cft.„ q. 1, a. 1 ad oppositum; Cfr. M at . d’Acquasfarta , I Sent.., dist. 2, a. 1, q. 3 contra: «Item , nullus sciret illud principium: omnc totum est majus sua parte, nisi sciret quid sit totum : ergo nullus scit Deum esse, nisi sciret quid sit Deus ». (35) Cfr. A r is t ., / Poster., cap. 3.

siva la quale non è possibile se non a Dio stesso che conosce pienissi­ mamente tutta la sua essenza; oppure una conoscenza chiara ed evi­ dente, ed è quella che i beati hanno di Dio; e infine una conoscenza parziale e riflessa (in aenigmate) (36) che è quella che noi mortali abbiamo di Dio. Con questa conoscenza noi possiamo sapere che Dio è il Primo e Sommo Principio di tutte le cose; ciò è chiaro conoscendo bene ognuno di noi che non sempre siamo esistiti, ma che abbiamo avuto principio come tutte le cose. E poiché questa verità si offre spon­ taneamente e con tutta evidenza alla mente di ognuno, dunque resi­ stenza di Dio è per se stessa indubitabile (37).

g) Se resistenza di Dio non ammettesse nessun dubbio, non vi sarebbe nessun merito. Ora la credenza nella esistenza di Dio è il principio di ogni merito, come si rileva dalla lettera agli Ebrei (38); dunque se la credenza dell’esistenza di Dio è fonte di meriti, essa può essere anche oggetto di dubbi (39). A questo argomento puramente teologico, che noi abbiamo vo­ luto riportare per essere completi nell’esposizione della dottrina di S. Bonaventura sul dubbio riguardante resistenza di Dio, il Serafico Dottore risponde che credere all’esistenza di Dio è meritorio soltanto perchè su di essa si basano gli articoli di fede uno dei quali è resi­ stenza di Dio trino. Soltanto in ragione degli articoli di fede può la credenza dell’esistenza di Dio essere meritoria; se essa infatti fosse creduta non per fede, ma per la sola ragione, allora non sarebbe punto efficace a farci acquistare dei meriti. L’Apostolo considera l’esistenza di Dio come il fondamento di tutti gli articoli di fede; questo fon(36) I Cor., 13, 9 ss. (37) S. Bonàvent., op. city q. 1, a. 1 solutio opp. Cfr. M t . di A cquar p .> / S e n t dist. 2, a. 1, q. 3 respondeo : « ...quod nullus cognoscat principimi), nisi cognoscat teiminos, verum est; sed quonmdam terminorum est notitia manifesta, quorumdam occulta. E t rursus de significato terminorum potest haben notitia magna, major et maxima. Et secundum hoc intelligendum quod potest haberi notitia piena vel per modum comprehensivum, et sic solus Deus cognoscit se, ut est Deus; vel clara et perspicua, et sic cognoscitur a beatis; vel ex parte et in aeniginate, e t sic cognoscitur quod Deus est primum et summum principium omnium mundanortnn; et hoc potest esse omnibus manifestum : quia cum quilibet sciat se non semper fuisse, seit se habere principium, et sic de omnibus aliis; et quia haec notitia omnibus se offert, et hac cognita scitur Deum esse, verum est indubitabile quantum est de se ». (38) Hebr.> 11, 6. (39) S. Bonav., op. cit.y q. 1, a. 1 ad opposition.

damento è stato posto dalla stessa natura nella mente di ogni uomo perchè anche se l’intelletto per la sua debolezza non potesse arrivare a conoscere Dio, l’uomo non potrebbe essere scusato per igno­ ranza (40).

(40) S. Bonàv., op. c i t q. 1, a. 1 solutio opp .Cfr. H ugo, Liber I De Sacram., pars III, c. 2; « Propterea Deus a principio naturae nec totus ooscientiae humanae voluit esse manifestos, nec totus absconditus, ne, si totus manifestus esset, meritimi fides non haberet, nec infidelitas locum; infidelitas enim de manifesto convinceretur, et fides de occulto non exercetur. SI vero absconditus totus esset fides a scientia non iuvaretur (testo originale: fides quidem ad seientiam non adjuvaretur), et infidelitas de ignorantia excusaretur. Quocixca oportuit, ut proderet se occultimi Deus, ne, si totus celaretur, prorsus nesciretur, et rursum ad aliquid proditur se et agnitum occultaret, ne totus manifestaretor; ut aliquid esset, quod ingenium (testo originale: cor) hominzS enutriret cognitum, et rursum aliquid, quo absconditus provocaret ».

RELAZIONE TRA FEDE E RAGIONE CIRCA L’ESISTENZA DI D IO

All’obbiezione: Nessuna cosa può simultaneamente essere dal medesimo individuo conosciuta col raziocinio e creduta per fede; ora l’esistenza di Dio da ogni cattolico, sebbene sapiente, è creduta per fede, secondo S. Agostino (1), il quale asserisce che quantunque conosciamo o vediamo la realtà dell’esistenza di Dio, tuttavia ci è pure necessaria la fede con la quale riteniamo fermamente la detta verità; dunque l’esistenza di Dio sembra che sia soltanto oggetto della fede e non della ragione (2). A questo argomento Pietro Olivi ne contrappone un altro che prova il contrario: ciò che dalla fede è presupposto come suo fon­ damento e suo principio, non è creduto per fede; ora la fede presup­ pone resistenza di Dio come suo fondamento e suo principio, difatti tutto quello che crediamo, lo crediamo perchè Dio lo ha detto e perchè Egli vuole che da noi sia creduto; dunque in ogni cosa cre­ duta per fede è presupposta 1’esistenza di Dio (3); e se questa è presupposta dalla fede, dunque l’esistenza di Dio non è esclusivamente oggetto di fede, ma pure oggetto della ragione, la quale pre­ cede la fede sebbene la ragione sia inferiore alla fede come la serva alla padrona. L’asserzione: Nessuna cosa può simultaneamente essere dal me­ desimo individuo conosciuta col raziocinio e creduta per fede, è falsa agli occhi di Olivi. Questi non dubita punto ad asserire che la conoscenza scientifica e la conoscenza per fede non si escludono a vicenda, anzi la fede perfeziona la conoscenza scientifica. Infatti, sebbene una cosa non possa essere per il medesimo individuo oggetto (1) I Soliloq., c. 7.

PL 32, 876.

(2) Olivi, op. cit., Ili, p. 518. (3) Ibidem, p. 525.

di scienza, cioè conosciuta con sicurezza e oggetto di opinione, co­ nosciuta cioè in modo probabile e quindi con poca sicurezza, poiché Popinione implica sempre una deficienza di assenso e quindi il dub­ bio (scienza e opinione non vanno d'accordo), invece una medesima cosa può essere conosciuta scientificamente e creduta per fede per­ chè questa fa aderire il nostro spirito pienamente e fermissimamente alla cosa creduta senza alcun dubbio e titubanza. Quindi la fede non è contraria alla sicurezza dell'adesione scientifica, anzi la perfeziona Tendendola più ferma e vigorosa. Sicurezza scientifica e fede, al con­ trario di scienza e opinione, vanno dunque d'accordo. Come una cosa, continua Olivi, può essere ritenuta per vera, grazie a delle ragioni probabili e a delle ragioni necessarie e sicure, senza che vi sia nes­ suna titubanza nell'uno o nell'altro assenso, cioè per le ragioni pro­ babili e per quelle necessarie, così non vi è nessun inconveniente che una medesima cosa sia ammessa grazie a delle ragioni necessarie e grazie alla nostra volontà, cioè sia da noi ammessa o creduta in modo assoluto. Difatti, aderendo a qualche cosa, posso benissimo basarmi su due cause: posso ritenere un principio per alcune ragioni che con­ cludono veramente a quel principio e posso ritenere quel medesimo principio anche per volontà, ossia assolutamente, cosicché se qualche ragione non è sufficiente a provare quel principio, tuttavia può essere ritenuto ugualmente come vero. Così dunque stanno in rapporto fra loro il nostro assenso scientifico e quello della nostra fede. Questi due assensi non si escludono a vicenda, anzi si completano, quando essi non hanno la medesima forza persuasiva, ma l'assenso della fede, es­ sendo più forte e più irremovibile, perfeziona l’assenso scientifico in quanto lo rende più sicuro e meno titubante (4). Uno scettico uni­ versale arriva a dubitare della più lampante evidenza: dell’esistenza del mondo che vede con i propri occhi e perfino della propria esi­ stenza che intuisce direttam ente. Per uscire da questo dubbio irra­ gionevole, ha bisogno di ricorrere a im ragionamento simile al cogito ergo stim di Cartesio. Invece Colui che crede fermamente una verità, non ha affatto bisogno di un simile ragionamento, ma vi aderisce e non ne dubita punto. Così la fede è superiore alla scienza, quantun­ que questa riguardi le cose visibili e apparenti, mentre quella ri­ guarda le cose non apparenti o invisibili.

(4) O livi, op. c i t Ili, pp. 549-550.

Da quanto è stato detto si proverebbe allora che una cosa non può essere simultaneamente oggetto di scienza e di fede. Difatti una medesima cosa non può simultaneamente essere apparente e non ap­ parente, visibile e invisibile; or la cosa conosciuta, in quanto è cono­ sciuta, ossia come oggetto di scienza, è apparente e visibile; quindi la stessa cosa se è oggetto di scienza non può essere oggetto di fede, ri­ guardando questa le cose non apparenti o invisibili. Ma, osserva Olivi, la fede non riguarda necessariamente le cose del tutto non apparenti o invisibili; essa esclude solo l’evidenza o la visione immediata del suo oggetto, altrim enti il nostro intelletto, se Poggetto fosse presente, ne resterebbe pienamente convinto, sa­ rebbe totalmente assorbito da esso e non potrebbe concepire alcun dubbio trovandosi nella certezza assoluta, e allora la fede non avrebbe alcuna ragione di esistenza. Ma la scienza d ie noi abbiamo di Dio non ci mostra Dio in modo evidente, poiché essa non è capace di mostrarci Dio come visibilmente presente e neppure è capace di dis­ sipare dal nostro spirito quei dubbi spontanei che in esso sorgono sull’essenza e l’esistenza divina (5). Solo la fede può soddisfare l’esi­ genza del nostro spirito, soltanto essa può dissipare la caligine del dubbio e può farci pregustare la necessità e la limpidezza della vi­ sione beatifica di Dio. Che l’esistenza di Dio è in modo particolare oggetto di fede, Pie­ tro Olivi lo prova brevemente ma efficacemente. Sebbene sia grande l’apporto della nostra ragione, la quale può convincerci dell’esistenza di Dio, tuttavia essa non può farci perfet­ tamente aderire a questa verità nè quanto conviene nè quanto alta­ mente giova al nostro spirito; sia perchè la ragione non può com­ pletamente dissipare dalla nostra mente quei dubbi che sorgono spon­ tanei nel nostro spirito circa resistenza di Dio, nè è capace di farci aderire a quella verità se non quando la nostra ragione vi riflette seriamente e resistenza di Dio è quasi visibilmente da essa costatata, ciò che accade raramente e che da pochi uomini può essere raggiunto; sia perchè l’uomo seguendo la sua sola ragione sembra che segua esclusivamente il proprio lume naturale e quindi si inorgoglisce non sottomettendosi totalmente ai lume divino che è lo stesso Dio; sia infine perchè ammettendo l’esistenza di Dio come risultato della sola ragione, ognuno di noi non vi aderisce assolutamente nè fermamente, ma sempre con la condizione di una prova, cosicché se essa mancasse, (5) Olivi, op. cit., Ili, p. 550.

mancherebbe pure il nostro assenso (6). « Fides autem facit finnissime et continuissime et subitissime et indistantissime seu immedia­ tissime et immobilissime assentire et adherere ventati creditae et universalissime omnes tam simplices quam sapientes » (7). Una sem­ plice vecchierella può con la sola fede credere e ritenere m aggiori'e più alte verità su Dio, di quelle che non ha potuto scoprire e cono­ scere Platone o qualsiasi altro filosofo in tutto il tempo della sua vita, come dice Agostino (8). La fede ci eleva più altamente verso Dio che la nostra ragione; con questa infatti non possiamo raggiungere la sommità divina e la sua esistenza, come lo possiamo invece più facil­ mente colla fede. Con questa, dunque, siamo più capaci di vedere più luce della divinità, della sua provvidenza e della sua grazia, di quello che non potremmo in modo migliore senza di essa. La fede dunque aggiunge maggior vivezza al lume naturale della ragione. Questa, come dice Agostino (9), principia in noi la conoscenza di Dio, la fede però e la grazia la perfezionano (10). Ma come la ragione e* la fede possono avere un medesimo og­ getto? Non si escludono esse a vicenda? Come può l’esistenza di Dio essere oggetto di ragione e nel medesimo tempo oggetto di fede? Olivi risolve bene questa apparente contraddizione, facendo osservare che resistenza di Dio in quanto oggetto di ragione, e in quanto tale precede la fede, non è oggetto di fede. D ifatti resistenza d i' Dio, come oggetto di ragione, può precedere la fede, e dopo, può essere anche oggetto di fede. E quantunque riteniamo l’esistenza di Dio per ragione e per fede, non però nel medesimo modo. La conoscenza dell’esistenza di Dio mediante la ragione può precedere la cono­ scenza dell’esistenza di Die mediante la fede perchè avanti che noi crediamo in Dio, avanti cioè che Dio sia per noi oggetto di fede, un certo istinto naturale, facente parte della nostra ragione, ci spinge misteriosamente, cioè occultamente, ad ammettere in qualche modo resistenza di Dio (11). E come ciò? Il nostro spirito è conscio della sua precedente non esistenza. Esso sente infatti intimamente che un tempo non esisteva. Esso è consapevole del suo niente, della sua (6) O livi, op. cit., Ili, p. 546. (7) Ibidem. (8) Epistola ad Vólusianum. PL 83, 521-524, (9) V ili De Trinit., cap. 9. PL 42, 960. (10) Cfr. O livi, op. cit., Ili, p . 547. (11) O livi, op. cit., Ili, p. 554.

passività, della sua deficienza ed indigenza. Esso sente infatti che ha bisogno di infinite cose, che può soffrire, che può essere impressio­ nato da infiniti agenti esterni e'ch e può venir meno in diversi e sva­ riati modi. Quindi allorché il nostro spirito concepisce l’altezza del Sommo Ente, la sua somma giustizia, potenza e bontà, spinto da un certo istinto naturale di timore e di riverenza, ricolmo di ammirazione per l’Essere Sommo, si unisce naturalmente e spontaneamente a Lui con un certo amore istintivo. Immediatamente per un certo naturalissimo istinto, proveniente dalla costatazione della sua inferiorità^ il nostro spirito sorte, e ne è pienamente convinto, che vi è al disopra di lui un essere che deve temere e riverire. In forza di quell’istinto naturale, il nostro spirito aderisce al sommo essere, come se questi realmente fosse dal nostro spirito direttam ente intuito (12). Se ciò non fosse vero, non si spie­ gherebbe il fatto che un uomo semplice, incolto, il quale non ha an­ cora la fede, sentendo parlare della divina potenza e della divina giustizia, è scosso e tormentato dal timore di quell’essere sennino ossia Dio, se naturalmente o istintivamente, in qualche modo, non pensasse o sospettasse che ciò di cui sente parlare è vero o almeno può essere tale (13). Quell’istinto, il quale ci spinge naturalmente ad ammettere resi­ stenza di un Essere Sommo che dobbiamo tem ere e riverire, si ma­ nifesterebbe molto più patentem ente se non esistessero in noi delle tendenze perverse, le quali, disgraziatamente, crescono col crescere dell’età e sopratutto si sviluppano in un ambiente moralmente cor­ rotto come potrebbe essere una civiltà d’ispirazione materialista, la quale distrugge il senso spirituale nell’uomo quindi il suo istinto na­ turale verso il soprannaturale, ossia verso il divino. Nei bimbi e negli uomini semplici, non imbevuti di malizia, cotesto istinto trasparisce maggiormente. Se cerchiamo la causa per cui tutto il genere umano è naturalmente spinto al culto divino, questa causa motrice, conclude Olivi, è proprio quelTistinto naturale che ci fa tendere verso la divi­ nità. Quell’istinto però, a causa della cecità degli uomini, la perver­ sità delle passioni e l’astuzia dei demoni, spesso non è sufficiente a spingere gli uomini verso il vero culto divino (14).

(12) O tm , op. cit., Ili, p. 544. . (13) Ibidem, p. 554. (14) Ibidem, pp. 544-545.

L’argomento di Olivi che parte dall’« intemus istinctus conscientiae * per provare la necessità dell’esistenza di Dio e quindi la sua quasi evidenza, somiglia all’argoménto bonaventuriano secondo il quale la verità dell’esistenza di Dio è innata nel nostro spirito il quale porta ¡’immagine di Dio; per questa immagine divina, che il nostro spirito porta in se, esso ha pure in sè un desiderio' naturale « naturalis appetì tus », la conoscenza e la memoria di Colui alla cui immagine il nostro spirito è fatto e verso il quale aspira naturalmente per bea­ tificarsi. L’esistenza di Dìo per S. Bonaventura è una verità del tutto in­ dubitabile perchè, sia che il nostro spirito getti sopra se stesso uno sguardo di introspezione, sia che consideri gli esseri fuori di sè, sia che contempli le cose al di sopra di sè, ossia quelle soprannaturali, se considera tutto secondo la giusta ragione, con certezza e senza alcun dubbio, conoscerà l’esistenza di Dio (15). Olivi non è il primo ad usare la parola « instinctus »; essa è usata con il medesimo senso da S. Bonaventura: « ...nec tamen ipse (l’ido­ latra) omnino privatus est a cognitione Dei, quia, quamvis ex sua perversitate velit colere idolum, instinctus tamen naturalem habet ad colendumi Deum, contra quem pugnai se precipitando in errorem voluntarium » (16). In forza di questo istinto naturale, il quale spinge ogni uomo ad ammettere un essere infinitamente superiore al nostro essere, nessun uomo è escluso dalla conoscenza naturale di Dio e nessuno dunque è dispensato dal temere e onorare Dio come si conviene. (15) « ...cognitio hujus veri (existentia Dei) innata est menti rationali, in quantum tenet rationem imaginis, catione cujus insertas est sibi naturate appetitus et notitia et memoria illius, ad cujus imaginem facta est, in quem naturaliter tendi t, ut possit beatificali. Deum esse est veruni indubitabile, quia sive intellectus ingrediatur intra se, sive egrediatur extra se, si aspiciat supra se; si rationabiliter decurrit, oertitudinaliter et indubitanter Deum esse cognoscit». De Myst. Triniti q. 1, a. 1 conclusio. (16) S. Bonav., De M yst Triniti loc. cit. - L’argomento morale che parte dall’istinto della coscienza che esige necessariamente resistenza del Sommo Bene piace molto agli autori moderni. (Vedi J. M aritain, Approches de Dieu, Alsatia, Paris, pp. 103-114). Questi lo presentano in generale come un argomento nuovo del tutto moderno, e ¡’ultima forma della psicologia moderna, la Psicanalisi, tenta di trovare Dio nel fondo del nostro spirito. Ma tutti questi tentativi non sono affatto nuovi; i filosofi medievali ci hanno preceduto anche in questo e sono arrivati alle medesime conclusioni: Dio presente nel nostro spirito e l’istinto naturale verso la felicità somma che Lo rivela al nostro intelletto.

Con la sua particolare dottrina sull’istinto della coscienza, con­ cludente alla necessità dell’esistenza di Dio, (ad ogni aspirazione o tendenza naturale, come abbiamo visto nell’in traduzione, deve na­ turalmente corrispondere resistenza delFcggetto a cui il soggetto na­ turalmente tende) Pietro Olivi risolve la questione del come la co­ noscenza dell’esistenza di Dio mediante la sola ragione può prece­ dere la conoscenza dell’esistenza di Dio mediante la fede. Dunque l’esistenza di Dio può essere oggetto di ragione e oggetto di Fede (17). L’evidenza dell’esistenza di Dio, come è asserito da alcuni au­ tori, sembra inconciliabile con quello che aveva asserito l’Apostolo nella lettera agli Ebrei che cioè senza la fede è impossibile piacere a Dio e che per avvicinarsi a Dio bisogna credere che Egli esiste e che è rimuneratore (18). Dalle parole dell’apostolo, l’esistenza di Dio sembra dunque che sia soltanto oggetto di fede e quindi non può essere per sè nota perchè la fede concerne le cose non appa­ renti (19). All’autorità infallibile dell’Apostolo si aggiunge quella, pure molto autorevole, di Agostino il quale afferma che l’anima umana, finché si trova unita al corpo, benché veda e comprenda Dio, tuttavia poiché i sensi corporali esigono il loro oggetto sensibile, il quale, se non è tale, dà occasione di dubitare intorno alla sua esistenza, per questa ragione può chiamarsi ancora fede quella virtù con la quale l’anima resiste ai dubbi e ritiene per vera l’esistenza del sommo essere soprasensibile: Dio (20). Dall’autorità di Agostino, nota Pietro de Trabibus, appare dunque chiaramente che la fede è necessaria per ciò che riguarda l’esistenza di Dio perchè l’anima può essere dub­ biosa in tutto quello che concerne l’esistenza e l’essenza divina; dalla medesima autorità agostiniana si deduce pure che la fede non sa­ rebbe affatto necessaria in quelle cose che non ammettono nessun dubbio; perchè per sè evidenti (21). Conseguentemente Agostino dice (17) O livi, op. cit.9 III, p. 554. (18) «Sine fide autem impossibile est piacere Deo. Credere enim oportet accedentem ad Deum, quia est, et inquirentibus se remunerator sit ». Hebr.,

11, 6. (19) «E st autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium ». Hebr., 11, 6. (20) « ...dum in hoc corpose est anima, etiamsi pienissime videat, hoc est intelligat Deum; tamen quia etiam corporis sensus utuntur opere proprio, si nihil quidem valent ad fallendum, non tamen nihil ad non ambigendum potest adhuc dici fides ea qua his resistito et illud potius verum esse cre d ito » . S. Agost., I Soliloq., c. 7, n. 14. PL 32, 876. (21) Vedi Appendice, p. 151.

cha quando il nostro spirito vede alcune verità sulle quali non può esserci alcun dubbio, non possiamo affatto asserire che esso possiede la fede su quelle verità (22). Se dunque Fanima nostra non fosse af­ fatto sollecitata a dubitare in qualche modo dell’esistenza di Dio, al­ lora non sarebbe affatto necessaria la fede (23). Invece la fede è assolutamente necessaria anche per ciò che riguarda resistenza di Dio, perchè essa ci rende maggiormente sicuri, aiutandoci a superare quei dubbi che spontaneamente sorgono nel nostro spirito. Pietro de Trabibus asserisce che resistenza di Dio non può dirsi senz’altro per se nota, ma neppure può essere negata. Per lui resi­ stenza di Dio è in qualche modo per sè nota, può anche essere dimo­ strata con la ragione e può essere pure oggetto di fede. Questi tre modi della conoscenza di Dio non si escludono a vicenda, anzi con­ vengono e concordano tra loro. D ifatti l’esistenza di Dio è natural­ mente conosciuta in quanto Fintelletto immediatamente senza alcuna investigazione aderisce ad alcuni presupposti riguardanti Dio; resi­ stenza di Dio è oggetto di fede in quanto dà luogo qualche volta ad alcuni dubbi; finalmente è pure oggetto della nostra ragione in quanto attraverso gli effetti, che sono le creature, la nostra ragione può con­ cludere con certezza all’esistenza di Dio (24). Il pensiero di Pietro de Trabibus è identico a quello di Giovanni Peckham. Questi trattando la questione: « an possit cogitan Deum non esse », nel respondeo dice che l’esistenza di Dio è una verità e fra le verità è la più evidente in se stessa: « Deum esse est verum et verorum evidentissimum, quantum est de $e » (25). L’espressione « evidentissimum< » ci fa pensare all’espressione « Deum esse ...ut per (22) « Nam neque dicenda est fidem habere quod illa sint vera, quando nulla falsorum interpellatione sollicitatur; neque quidquam sperandum ei restat, cum totum secura possideat». S. A gost ., I Soliloq., c. 7. PL 32, 876. (23) Vedi Appendice, p. 151. (24) «Ex praedictis etiam patet quia Deum esse per se notum non est simpliciter concedendum nec simpliciter negandum. - Patet etiam quod Deum esse est aliquo modo cognitum, ratione naturali demonstration, fide ereditimi; et haec non repugnant sibi in proposito, immo convemunt et concordant: est enim naturaliter cognitum in quantum judicium rationis statim sive investigatione in quibusdam ei consentit; fide ereditino in quantum in quibusdam . dubitationem aliquam recipero potest; ratione demonstratum in quantum per manifestos effectus creaturarum necessario concludi potest ». Vedi Appendice, p. 151. (25) J ohannes P eckham , I Sent*, dist. 2, q. 1, quaesitum 2, respondeo, ed. A. D aniels , op. c i t p. 45.

se notissimum » di Olivi (26) e a quella di uguale forza espressiva « Deum esse est notissimum » di Guglielmo di W are (27). Per Giovanni Peckham resistenza di Dio è naturalmente cono­ sciuta dal nostro intelletto, ma soltanto in modo generale, e poiché le cose naturali sono secondo lui imperfette, così la conoscenza natu­ rale di Dio ha bisogno di essere perfezionata mediante il raziocinio e la grazia. Dòpo aver citato le parole dei Damasceno, dalle quali si rileva che la conoscenza dell’esistenza di Dio è innata in tutti quanti gli uomini, egli tira la conclusione dicendo che da quelle stesse parole si rileva che l’esistenza di Dio può essere conosciuta in un triplice modo: dalla stessa idea di Dio innata o impressa natural­ mente nel nostro spirito, dall’investigazione attraverso le creature e dalla rivelazione contenuta nelle sacre scritture. Dal téstimonio della coscienza si ricava che Dio esiste; attraverso il vestigio divino nelle creature si prova che Dio è uno, vero e buono; dalle parole della sacra scrittura si apprende che Dio è uno e trino, creatore e reden­ tore. Dunque l’esistenza di Dio è conosciuta naturalmente, è provata mediante una dimostrazione ed è anche creduta per fede. La natura inizia in noi la conoscenza di Dio, la ragione l’aumenta, la fede la conferma (28).

(26) Op. dt.. III, p. 528. (27) QuaestUmes super lìbros Sententiarum, q. 21 respond, ed. Â. D aniels , op. cit., p. 100. Vedi sopra pp. 73-74. (28) «Deum esse est vertun et verorum evidentisslmum quantum est de se. Est quidem generaliter cognitum; sed naturalia imperfecta sunt nec sufficiunt nisi arte vel gratia promoveatur, Unde dicit Damascenus Libro I, cap. 1: 9Co­ g n ita existendi Deum ab ipso naturaliter nobis inserta est, et providentia et gubematio creaturae magnitudinem divinae praedicant naturae, et per legem et prophetas deinde per unigenitum filium secundum quod possibile est nobis, sui ipsius manifestavit cognitionem’. Ex his verbis colligitur quod Deus a nobis tripliciter cognoscitur, scilicet per naturalem impressionem, per investigatonem quae ex creaturis colligitur, et per revelationem quae in scripturis invenitur. Ex naturali dictamine colligitur Deum esse; per creaturarum vestigium colligitur ipsum unum, verum, bonum esse; per scrìptuiarum oracula ipsum esse trinum et unum creatorem vel reparatorem. Propterea Deum esse est naturaliter cognitum, demonstratione probatum et fide etiam creditum. Natura cognitionem initiât, demonstratio juvat, fìdes con­ firmât ». Johannes P eckham , Sent. I, dist. 2, q. 1, quaesituxn 2, respondeo, ed. À. D aniels , op. cit.t p. 45.

Olivi, forse discepolo di Peckhan? negli anni in cui studiava a Parigi, pensa come lui: « Deum esse est per se notum et ratione ne­ cessaria probabile seu probatum et fide creditum » (29). Anche Pietro di Tarantasia ha la medesima conclusione: « Deum esse uno modo est quasi lux et causa cognoscibilitatis omnium cognoscibilium sive principiorum sive conclusionum, altero modo est quas^ principium per se notum, altero modo conclusio demonstrationis, al­ tero modo articulus fidei » (30). Così Dio, autore della nostra ragione e della nostra fede, può essere da noi conosciuto con questa duplice luce naturale e sopran­ naturale che Lui, Somma Verità e Bontà, benevolmente ci ha data.

(29) O livi, op. cit, III, p. 525. (30) I S e n i dist, 3, q. 1, a. 2 respondeo.

CONCLUSIONE

Come abbiamo visto, S. Bonaventura difende nel modo più espli­ cito l’evidenza dell’esistenza di Dio la quale per se stessa non am­ m ette nessun dubbio essendo Dio la somma verità per cui si cono­ scono e si comprendono le altre verità le quali partecipano alla prima verità che è Dio. Ma se questa verità è evidente per se stessa, l’uomo però, a causa della limitatezza e deficienza della sua intelligenza, può dubitarne per un triplice difetto: « D ubitali tamen de eo potest ex parte- cognoscentis, scil. ob defectum in actibus vel apprehendendi, vel conferendi, vel resolvendi » (1). In quanto all’atto di comprensione, capita di dubitare sull’esi­ stenza di Dio quando non giustamente e non pienamente si com­ prende il significato della parola Dio, ma solo si considera Dio sotto un suo aspetto o condizione particolare, come i pagani i quali pensa­ vano che Dio fosse tutto ciò che è al di sopra dell’uomo ed ha la virtù di prevedere il futuro e perciò riconoscevano e adoravano gli ìdoli come dèi, perchè essi davano risposte sulle cose future. In quanto all’atto di attribuzione capita d i dubitare dell’esistenza di Dio quando si considera un solo aspetto delle cose, come fa l’in­ sipiente, il quale vedendo che non viene usata giustizia contro l’empio; da ciò inferisce che non vi è un governo nell’universo e che in esso manca un primo e sommo governatore che è Dio sublime e glo­ rioso (2). In quanto all’atto di risoluzione capita di dubitare sull’esistenza di Dio quando ¡’intelletto carnale o materiale non sa elevarsi dalle cose sensibili o corporali; perciò alcuni hanno pensato che il sole, il quale apparentemente tiene il primato tra tu tte le creature, fosse Dio stesso, non avendo saputo immaginare una sostanza incorporea e non avendo saputo elevarsi con l’intelletto ai primi principi delle cose (3). (1) S. Bonav., op. cU., q. 1, a. 1 conclusio. Cfr. M t . d’A cquasi123., I Seni., dist. 2, a. 1, q. 3 respondeo. (2) S. Bònav., op. cU., q. 1, a. 1 conclusio: Cfr. M t . d’A cqvasp ., I S ant, dist. 2, a. 1, q. 3 respondeo. (3) Ibidem, S. Bonav.; Mt . d’A cquasp ., ibidem.

Per tutte queste ragioni l’esistenza di Dio può essere messa in dubbio « ex defuctu ipsius intellectus apprehendentis, vel conferentis. vel resolventis ». Ma rintelletto che pienamente comprende il signi­ ficato della parola Dio, pensando che Dio è l’essere di cui non si può pensare uno più grande, non solo non può mettere in dubbio la sua esistenza, ma anche in nessun modo può pensare alla non esi­ stenza di Dio (4). S. Bonaventura vuol conciliare l’evidenza dell’esistenza di Dio col dubbio che ne concepisce la nostra mente; questo, lo ripete diverse volte il Serafico Dottore, non dipende però dalla oscurità, dali’incomprensione o dalla non evidenza dell’esistenza di Dio, poiché Dio è presentissimo nel nostro spirito e nell’universo, ma dipende dalla deficienza dei nostro intelletto. Vi è una grande differenza tra il dubbio ammesso da Gaunilone e quello ammesso da S. Bonaventura; per questi Dio è evidente e il dubbio sull’esistenza di Dio ha un carat­ tere puramente sporadico, non affatto normale, dipendente dalla li­ mitatezza della nostra veduta; mentre per Gaunilone Dio non è af­ fatto evidente, quantunque sia esistente, e perciò il suo dubbio è giu­ stificato sebbene non approvato. Due secoli e mezzo dopo Gaunilone, un altro sapiente religioso francescano, Guglielmo di Occam (1290-1349?) dice che l’esistenza di Dio non può essere dimostrata con argomenti tratti dalla fisica e metafisica di Aristotele (5); conseguentemente resistenza di Dio può essere messa in dubbio dalla mente umana. Paul Vignaux, commen­ tando Occam, dice; « C’est la condition de l’homme non seulement de douter de la proposition: Dieu est, mais de se demander si elle n’implique pas contradiction: « viator intelligens Deum notitia incom­ plexa quantum* est possibile viatori potest dubitare an includat contradictionem Deum esse». Est également douteuse la proposition: ’ Deus est D eus’ équivalent à celle-ci: ’ ens summum et infinitum est ens summum et infinitum ’ : proposition elle même non moins dou­ teuse que l’union des ternies qui en constituent le sujet. La métaphi-45 (4) S. Bonav., ibidem ; Mt . d’Acquàsp ., loc. cit.: « E t hoc modo circa hoc quod est Deum esse contingit dubitare et potest cogitari Deum non esse, quia vel non perfecte apprehenditur, vel confertur vel resolvitur. Quando autem in­ tellectus apprehendit significatimi hujus nominis Deus quod est quo majus cogi­ tari non potest, nullo modo contingit dubitare nec cogitare non esse ». (5) Quodlibeta, I, q. I; VII, 17-23.

sique ne saurait dono présenter aucune preuve, qu’après Kant nous appellerions ontologique, dans laquelle le concepì de la divinité engendrerait l’évidence de jugements de possibilité et d’existence; la raison n’ira vers Dieu que par une argumentation a posteriori, à partir d’existants donnés dans l’éxpérience » (6). Non è però questa 1’òpinione di coloro che accettano l’argomento ontologico. La questione « Utrum Deum esse sit per se notimi » è intima­ mente legata all’argomento ontologico di S. Anseimo. Questi infatti col suo famoso argomento voleva provare l’evidenza dell’esistenza di Dio. Così coloro che si ispirano ad Anseimo in genere ammettono che l’esistenza di Dio è per sè nota. Gualtiero di Bruges, Egidio Romano, Nicola Occam possono considerarsi insieme a tanti altri, discepoli di Anseimo, in quanto accettano l’argomento ontologico. Ma questi tre autori non si allontanano molto dall’opinione comune degli antichi scolastici i quali restringevano l’efficacia deU’argomento anselmiano a quelli che già possedevano un concetto di Dio come l’essere primo, necessario, assoluto, sommo bene, somma verità ed essenziale unità. Una volta che si possiede il concetto di Dio facilmente si trova una o più vie per provare la sua esistenza. Ma il più difficile a sapersi è come si è formato nel nostro spirito il concetto di Dio. Questo con­ cetto è un risultato dell’astrazione dalle creature, oppure è un’idea innata o impressa naturalmente nella nostra anima, come vuole il Damasceno? (7). Si è discusso tanto per risolvere questo difficilissimo problema fondamentale, e dopo svariatissime soluzioni che si possono ridurre tu tte o a priori o a posteriori, bisognerà ricominciare sempre da capo. Nè soltanto le prove < a posteriori » convincono pienamente, nè sol­ tanto quelle « a priori ». P.G. Olivi conclude che possiamo arrivare a provare l’esistenza di Dio sia seguendo un’argomentazione « a prio­ ri », sia valendosi di un’argomentazione « a posteriori » (8) che è la più comune e la più facile.

(6) Conférence Albert le Grand, 1948, Nominalisme au XIV siècle, Paris, J. Vrin, 1948, pp. 48-49. (7) De Fide Ortod., I, cap. 1, 3. PG 94, 970 ss. (8) O livi, Quaestiones in II lib. Sent. ed. B. J ansen , Quaracchi, 1926, vol. III, p. 517 ss.

L’argomento « a simultaneo» di Anseimo è, secondo Olivi, del tutto incalunniabile « omnino incalumniabilis » (9), a condizione che si parta, nelFargomentazione ontologica, dalle ragioni o nature per­ fette e sommamente astratte, che nella mente di Olivi sono le stesse proprietà trascendentali dell’essere, innalzate ad un grado sommo ed infinito, fino a confondersi con la stessa essenza divina. Queste ra­ gioni o nature perfette e sommamente astratte non implicano in sè nessuna imperfezione, e si raggiungono con la nostra mente mediante un processo di negazione, escludendo cioè ogni imperfezione, ed un processo di eminenza o sublimazione « sruperexcessus », sublimando o innalzando al grado infinito ogni perfezione creata e partecipata, per raggiungere la perfezione assoluta ed increata. Con le ragioni perfette e sommamente astratte, Olivi vuol signifi­ care ciò che noi intendiamo esprimere e significare col concetto di ognuna di queste ragioni perfette e sommamente astratte e cioè la somma verità, la somma bontà, la somma ed assoluta unità ed entità che sono Dio stesso. Intendiamo infatti significare con quelle ragioni o nature ciò che si trova al di sopra di ogni universalità e di ogni astrazione a noi intelligibile priva di ogni imperfezione e limitazione. Ciò appunto è quello che noi chiamiamo Dio. Il processo di Anseimo, per la prova dell’esistenza di Dio, ha, per Olivi, tutta la sua validità ed è fra tutti gli argomenti dimostrativi il più chiaro, sia perchè l’argomento di Anseimo può essere formato immediatamente dalle stesse ragioni perfette e sommamente astratte, da noi intuite e pensate, sia perchè non vi è altro processo argomen­ tativo così semplice col quale si possano comprendere le stesse pro­ prietà generali degli esseri, le quali in se stesse non implicano nes­ suna imperfezione, come l’entità, l’unità, la verità e la bontà. Per Olivi non vi è altro argomento come quello di Anseimo col quale si possa formare così facilmente e bene, dalle stesse proprietà generali degli esseri, l’eminenza o sublimazione « superexcessus », aggiun­ gendo a quelle proprietà generali degli esseri l’idea di somma perfe­ zione escludente ogni imperfezione ciò che costituisce l’essere di cui non si può pensare uno maggiore. Chiunque infatti pensa al bene, subito può, perfezionando l’idea, pensare al Sommo Bene privo di ogni imperfezione, ossia il bene di cui non si può pensare un bene mag­ giore. Da ciò appare chiaramente come Dio è presente nel nostro in­ telletto che dalle ragioni o proprietà perfette degli esseri può fare (9) O uvi, op. cit.y III, p. 527.

immediatamente la sublimazione o eminenza nella quale si raggiunge Dio, ed è provata resistenza di Dio. L’argomento anselmiano è per olivi cosi evidente che nessuno servendosi di esso può con piena convinzione pensare che Dio non esista o può non esistere. L’argomento anselmiano dimostra la relazione abituale delle ragioni perfette e sommamente astratte con resi­ stenza reale. Colui che ha capito bene questo processo argomentativo vede chiaramente che la proposizione « Dio è » oppure « Dio esiste » è immediatissima, cioè il predicato è intimamente incluso nel sog­ getto ed è necessarissima poiché resistenza è necessariamente inclusa nell’essenza divina. L’argomento di Anseimo per Olivi è meraviglioso « mirabilis est », perchè non solo convince dell’esistenza di Dio, ma ci fa cono­ scere Dio come per sè notissimo « irf per se notissirrmm », e ci fa conoscere perfettam ente la natura e la relazione abituale dei termini della proposizione: « Dio è ». L’argomento anselmiano, conclude Olivi, serve a tenere continuamente il nostro spirito fisso nella con­ templazione delle somme astrazioni e sublimazioni, senzai le quali l’affetto degli spiriti contemplativi non può unirsi estaticamente a Dio (10). Noi quantunque non accettiamo l’argomento ontologico di An­ seimo, perchè in esso vi è, come abbiamo già fatto notare, un passag­ gio illegittimo e illogico dall’ordine ideale a quello reale, tuttavia siamo convinti che Dio è in qualche modo per sè noto anche a noi, e non solo ai beati, perchè Egli, sebbene non evidente, non può es­ sere pensato non esistente; ossia l’esistenza di Dio per noi non è evi­ dente di una evidenza immediata, bensì mediata, esigendo una dimo­ strazione (11). L’evidenza mediata dell’esistenza di Dio poggia però sull’evi­ denza immediata del principio di causalità: se il mondo esiste, Dio, sua causa, non può non esistere. » ** Ci sia permesso di terminare con una meravigliosa pagina di un grande scrittore moderno, A. Manzoni, il quale, secondo noiy con­ tinua la tradizione del pensiero filosofico di S. Agostino, di S. Bona­ (10) O livi, op. cit., Ili, pp. 527-528. (11) Vedi sopra, p. 20, nota (12).

ventura e di tanti filosofi medievali sulla presenza di Dio nel nostro spirito (12). Nei « Promessi Sposi » A. Manzoni ci narra la conversione delTinnominato il quale spinto dai rimorsi dei suoi delitti, nefandezze e scelleratezze va a trovare il cardinale Federigo. Questi, contro ogni aspettativa deirinnominato, lo accoglie con squisita carità ed amo­ revolezza patem a dicendogli, dopo avergli scrutato Io spirito con uno sguardo soave ma penetrante: « che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero! ». ♦ Rimprovero! » esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. « Certo, m’è un rimprovero », riprese questo, « ch'io mi sia la­ sciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io... ». « Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome? ». « E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nei mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tu tti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi ». L’innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, nè era ben determinato di dire; e commosso ma sbalor­ dito, stava in silenzio. « E che? » riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: « voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare? ». « Una buona nuova, io? Ho Tinferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio ». « Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo », rispose paca­ tamente il cardinale. « Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio? ». (12) Cfr. Dieu présent dans la vie de l’esprit, par F. C ayhé, À.À. Desclée De Brouwer et Cie., 1951.

« Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi Pha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, Pimploriate? ». « Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me? ». Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Fede­ rigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: « cosa può far Dio di voi? cosa vuol fame? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere.... » (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così inso­ lito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); «che gloria», proseguiva Federigo, «ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io poveruomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa rica­ var da voi un, tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impe­ tuosa, di codesta im perturbata costanza, quando l’abbia animata, in­ fiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, po­ veruomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omicciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi po­ chi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora! » (13). (13) « Promessi Sposi », ed. Fiorentina Salani 1934, cap* XXIII, pp. 413-415.

APPENDICE

SCT.

= scripsit

add.

= addit

add. sed exp. = addìi, sed expunxit

PETRUS de TRABIBUS, in I SENT., dist. 3 Assisi - Biblioteca Comunale cod. 154, ff. 19 a-d

Quaeritur tertio utrum Deum esse sit cognitum menti humanae

Quod sic, videtur, Damascenus libro I, cap. 3: Cognitìo existendi Deum est omnibus naturaliter impressa (1): ergo ete. Item, idem est menti humanae naturaliter cognitum quod ab ea negari non potest: sed Deum esse non potest negari a mente humana: ergo etc. Probatio minoris: negato Deum esse negatur universaliter esse. Sed mens non potest universaliter negare esse, ergo nec Deum esse. Item, Deus est quo majus cogitari non potest (2) : sed magis cognoscitur quod est per se notum quam quod non: ergo etc. Item, idem est menti naturaliter cognitum quod ab ea non potest ignorali; sed Deum a mente humana non potest ignorali, ergo etc. Probatio minoris: Hugo dicit quod sic Deus sui notitiam in homine contemperavit sicut non poterai scire quid est, sic quia est non posset ignorare (3). Contrai nullum per se notum potest negari cum consensu, sed Deum esse potest aliquo sensu negali, ergo etc. Minor patet per illud Psalmi (4): Dixit insipiens in corde suo non est Deus. Dicere enim in corde est corde consentire. Item, cognitìo ejus quod est per se notum, est cognitìo certissima; sed de nulla re habetur cognitìo (f. 19b) certa nisi cognoscatur in sua essentia vel per suam causam: cum Deus causam non habeat nec (1) De Fide Ortod., lib. I, cap. 1, 3 PG 94, 790 ss. (2) S. A nselm o , Prosbgion, cap. 2, 3 e 4 PL 158, 228 ss. (3) I De Sacramentis, parte III, cap. 1. PL 176, 217 A: « Deus ab initio sic in homine cognitionem suam temperavit ut, sicut numquam quid esset totum i&terat comprehendi, sic quia esset numquam proraus posset ignocari ». (4) P s, 13, 1.

in essentia sua cognosci possit nisi a beatis, non est nobis per se cognitum Deum esse. Item, mtimior est Deus ipsi menti quam ipsa sibi; sed anima est sibi naturaliter cognita (5): ergo et Deus est essentialiter notus. R espondeo: quidam (6) simpliciter contendimi quod Deum esse est menti humanae per se notum, et hoc propter auctoritatem Da­ masceni et Hugonis. - Alii (7) vero simpliciter hoc negant in hoc statu et propter auctoritatem Apostoli Hebr. 11: Oportet accedentem cre­ dere quia est (8). Cum enim hoc sit credibile, non videtur simplici­ ter scibile. - Alii (9) vero sunt qui de per se noto distinguentes via media incedunt et hii videntur procedere via meliori. Sicut enim se­ cundum Philosophum dupliciter dicitur aliquid notum: vel simpli­ citer (10) vel quoad nos; non enim eadem nobis nota quae simpliciter, (5) Vedi S. Agostino, X De Triniti cap. 8-11 dove dice che l’anima es­ sendo presente a se stessa, ha di se stessa una cognizione più certa di quella che ha degli altri esseri al di fuori di lei: «Q uid enim tam in mente quam mens est?... Interior est enim ipsa, non solum quam ista sensibilia quae manifeste foris sunt sed etiam quam imagines eorum quae in parte quadam animae, quam habent et bestiae, quamvis intelligentia careant, quae mentis est propria... Cognoscat ergo semetipsaxn nec quasi absentem se quaerat, sed intentionem voluntatis, qua per alia negabatur, statuat in semetipsam (molti mss. in seipsa) et se oog ite t». PL 42, 979. - Inoltre cfr. V /// De Trinit., cap. 8, n. 12: «Ecce jam potest notiorem Deum habere quam fratrem : piane notiorem, quia praesentiorem; notiorem, quia interiorem; notiorem, quia certiorem ». PL 42, 957. S. B onaventura spiega queste ultime parole d i S. Agostino nel I Seni., disi. 17, pars I, dub. 2; nel I Sant., dist. 3, pars I, a. urne., q. 1 dice: «Deus est unitus ipsi animae per praesentiam: ergo Deus verius cognoscitur quam alia, quae cognoscuntur per similitudinem ». (6) Cfr. A lberto M agno, Sum. Theol., pras I, tract. 3, q. 17; Gauthier de Bruges, in A.H.D., p. 264; S. Bonaventura, I S e n i dist. 8, pars I; De Verità et immutabilit. Dei, a. 1 De verit. Dei, q. 2: Utrum divinum esse sit edeo verum, quod non possit cogitati non esse; De Myst, Trinit, q. 1, a. 1: Utrum

divinum esse sit verum indubitabile. (7) S. T homas, I Sent, dist. 3, q. 1, a. 2; De Verit., q. 10, a. 12; Sum. TheoL, pars I, q. 2, a. 1. - Riccardo di Mediavil., I Sent dist. 3, a. 1, q. 2 respond. - Guglielmo de la Mare, A.H.D., p. 264; E nrioo di Gand, Sum. quaest. ordin., t. I, a. 22, q. 2. (8) Hebr., 11, 6: Credere enim oportet accedentem ad Deum quia est. (9) Cfr. E gidio Romano, in A. D aniels, op. c i t pp. 73-75; P ietro di T abantasia, I Sent,, dist. 3, q. 1, a. 2 contra e respond. P,G. O livi, op, cit., Ili, p. 526. (10) Simpliciter = per se. « Per se autem simpliciter et absolute intelligi volumus ». Ar is t ., Ethic. Nicom., VII, c. 9.

ut dicitur in principio Physicorum (11). Sic per se notum dicitur dupliciter : vèl in se vel nobis. In se dicitur illa propositio per se nota cujus praedicatum includitur in ratione subjecti; nobis autem per se nota dicitur quando immediate sine investigatione et ratiocinatione ejus verìtas et convenientia praedicati ad subjectum animae intellectu percipitur et statini consentitur; Deum ergo esse est per se notum primo modo. Secando autem modo loquendi est in per se notis diversitas magna: non enim omnia naturaliter cognita sunt omnibus aequaliter manifesta, sed quaedam in universali e t confuse, quaedam in particulari et distincte. E t horum quaedam sunt animae manifesta non solum per intellectual sed etiam per imaginationem, ut « omne totum est majus sua parte », et quoniam convenientiae talium terminorum sensus et imaginatio concordat, talia nullam recipiunt contradictionem, sed sunt universaliter omnibus per se nota. Unde Aristoteles II Methaphysicae, sicut exponit Commentator, quod prima prin­ cipia cognita habita naturaliter a nobis sunt sicut janua domus (12), in eo enim quod nullus potest ea ignorare; quaedam véro sunt manifesta solum' per judicium ratianis et ejus apprehensione, eo quod per se non cadunt sub sensu nec im aginations sicut « aetem a temporalibus » (a), spiritualia corporalibus ■praeferenda »; e t talia eo quod eorum convenientia sub sensu vel imaginatione non cadunt recipiunt contradictionem; Vel aliquam subitam in aliquibus recipePe possimi, non autem videntur posse recipere contradictionem deliberation prop­ ter promptitudinem et facilitatelo rationis ad judicandum de comparatione et convenientia terminorum. Faciliter enim occunit medium in talibus intellectui dubitanti. Ideo dicit Algazel in fine logicae suae (13) quod quaedam propositiones dicuntur per se notae quia de facili cognoscuntur, non quod simpliciter immediate cognoscantur,

(11) Abist ., Naturate auscultai., I, c. 1.: «non «nini eadem sunt e t nobis nota, et sim pliciter». (12) Averboes, Comm. in Methaphys., II, c. 1-2. ed. J aoobi Mtt , Averrois Comment. in Aristot. Philosophiam, Lugduni, 1520ss. voi. V, f. 25v: « E t èst quod in quolibet genere entium sunt aliqua in respectu eorum quasi janua domus in respectu domus: in hoc quod non latet aliquem: sicut locus forte do­ mus non latet aliquem. E t ista sunt prima cognita naturaliter habita a nobis in quolibet genere. entium ». (13) Cfr. Logica et Philosophia Algazelis Arabie, Venetiis, 1506, f. 14r. Uria copia di questo libro si trova nella Biblioteca Naz. di Parigi, Reserve, 809: il passo è riferito anche da G. DE la M abe, vedi sopra p. 52, nota (41).

quaedam vero sunt aliae manifestae solum per judicium rationis, et imaginatione et sensu contradicente, ut Deum esse praesentem ubique et omnibus rebus; huic enim quod aliquid unum simpliciter possit esse ubique sensus et imaginatio contradicunt et ideo non potest capi ab imperitis sine ratione aperta et deliberata, sed a peritis et ab acutioribus capitur sine ratiocinatione ad minus manifesta. Unde licet talia (b) apud peritiores et acutiores sint per se nota, non tarnen apud imperitos. Unde dicit Boetius, De Hebdomadibus (14), quod quae­ dam sunt per se nota sapientibus tantum, ut incorporalia in loco non esse. Deum igitur esse per se et naturaliter est notum menti humanae universaliter in universali confuse, sed in particulari et distincte non est per se notum secundum primum modum, ita quod nullam apud aliquem possit recipere contradictionem vel dubitationem, sed est per se notum secundo modo et tertio. Et secundum istum modum reducuntur ad concordantiam auctoritates quae utramque par­ tem (c) sonant. Sicut enim quaedam auctoritates dicuntur esse per se notae sic sunt aliae quae contrarium sonant. Apostolus enim Hebr. 11 (15) probat quod sine fide impossibile est piacere Deo propter (d) quod oportet accedentem credere quia est et quia rem unerato est; vult ergo quod Deum esse est per se credibile et pertinens ad fidei rationem, quoniam omne tale est simpliciter apparens (f. 19c), fides autem non est nisi de non apparentibus et non visis secundum Apostolum ibidem (16); ergo non potest dici simpliciter per se notum. Huic concordat Augustinus I Soliloquiorum ubi sic dicit: dum in hoc corpore est anima, si pienissime videat, hoc est intelligat Deum tarnen quia corporis sensus etiam opere utuntur proprio nec quidem valeant ad fallendum non tarnen nihil ad ambigendum, potest adhuc dici fides qua hiis resistitur ad illud potius verum esse cred ito (17). Ex (b) Talium

scr. (c) partes scr. (d) per scr.

(14) «Alia vero est doctonim tantum, quae tarnen ex talibus communis animi conceptionibus venit, ut est: quae incorporalia sunt, in loco non esse, et cetera, quae non vulgus, sed docti comprobant ». PL 64, 1311. (15) Hebr,f 11, 6: «Sine fide autem impossibile est piacere Deo. Credere enim oportet accedentem ad Deum, quia est, et inquirentibus se remunerator sit ». (16) Hebr., 11, 6: «E st autem fides sperandarom substantia rerum, argu­ mentum non apparentium ». (17) S. Agost., I Soltloq., c. 7, n. 14: «Sed dum in hoc corpore est anima, etiamsi pienissime videat, hoc est intelligat Deum; tarnen quia etiam corporis

ista auctoritate plane habetur quod propter hoc est fides necessaria de Deo quia potest anima ambigua esse de Deo; ex quo sequitur quod non est ei necessaria fides de eo de quo ambigere non potest. Itero, ibidem (18) consequent«- vult Augustinus quod quando anima sic videt aliqua vera quod nulla falsorum interpellatione sollicitatur, non est dicenda de illis fidenti habere. Si ergo non posset sollicitari ad contrarium ejus quod est Deum esse, non esset sibi de hoc necessaria fides. - Praedictis etiam concordat Avicenna qui I Metaphysicae suae dicit sic: Deum esse neque est per se manifestum nc­ que desperatum manifestari, quia signa habemus de eo (19). - Ex praedictis etiam patet quia Deum esse per se notum non est simpliciter concedendum nec simpliciter negandum. - Patet etiam quod Deum esse est aliquo modo cognitum, ratione naturali demonstratum, fide creditum (20); et hoc non repugnat sibi in proposito, immo conveniunt et concordant: est enim naturaliter cognitum in quantum judi­ cium rationis statini sine investigatione in quibusdam ei consèntit; fide creditum in quantum in quibusdam dubitationem aliquam recipere potest; ratione demonstratum in quantum per manifestos effectus creaturarum concludi potest. - Hiis visis patet de facili responsio ad objecta utriusque partis. Ad> primum dicendum quod illud intelligehdum est in generali et confuse non autem in particulari et distincte, naturaliter loquendo. Aid secundum dicendum quod post rationes pertractationem non potest negari Deum esse, sed ante negali bene potest. Quod autem sensus utuntur opere proprio, si nihil quidem valent ad fallendum, non tamen nihil ad non ambigendum (Sic Mss. a t Edd. habent: U tuntur opere proprio, nibil quidem valente ad fallendum non tamen nihil agente, potest) potest adhuc dici fides ea qua his resistitur et illud potius verum esse ereditar». PL S2, 876. (18) I Soltloq.y c. 7 : « Nam ueque dicenda est fìdem habere quod illa sint vera, quando nulla falsorum interpellatione sollìcitantur; neque quidquam sperandum ei restat, cum totum secura possideat ». PL 32, 876. (19) àvicennna, Metaphysica, tract. I, 1. I, c. 1 : « Non est autem mani­ festimi per se nec est desperatum posse manifestari; quia signa habemus de eo ». (20) Cfr. O livi , op. city III, p. 525 ss. : « Deum esse est per se notam et ratione necessaria probabile seu probatum et fide creditum »; G. P eckha m : « Deum èsse est naturaliter cognitum, demonstratione probatum et fide etiam creditum », ed. A. D aniels , op. cit.9 p. 45; P. di T abantasia, / Sent., dist. 3, q. 1, a. 2 respond. : « Deum esse uno modo est quasi lux et causa cognoscibilitatis omnium cognoscibfiium sive prmeipiorum sive conclusionum, altero modo est quasi principium per se notum, altero modo conclusio demonstrationis, altero modo articulus fidei ».

dicit quod hoc negato negatur universaliter esse, dicendum quod realiter verum est, non tarnen statim est intellectui manifestum ita esse, immo per collationem et ratiocinationem fit, hoc enim manife­ stum e s t Ad tertium dicendum quod realiter non potest majus Deo cogitari, nec etiam aequalis ei in essentia diversum. Non tarnen sequitur quod si menti humanae aliquid tale esse proponitur quod assentiat necessario immediate. Unde minor propositio non est vera. Licet enim ista: < omne totum majus sua parte >, sic per se nota, non tarnen habet majorem veritatem quam ista: Deus est primus et unus; quae non est per se nota. Ad quartum dicendum quod Deum esse potest ignorari ab aliquo ante rationis pertractationem sed non post; ex hoc autem non sequitur quod sit per se notum nisi in universali et confuse. Ad primum alterius dicendum quod illud non negat universaliter quod Deum esse (e) sit per se notum, sed particulariter (f) solum et in particular! et distincte. Unde insipiens ibi dicitur idololatra, qui licet Deum esse asserat in universali negat tarnen in particular^ sicut videtur exponere Damascenus (21). Vel potest dici quod illud dictum de insipiente intelligitur interpretative non proprie e t vere, quia insipiens eo quod Deum non tim et neque amat, habet in se ac si non esset, sicut psalmus (22) dicit: < Qui diligit iniquitatem odit animam suam », quia agit unde sequitur damnum animae suae licet hoc non intendat; et istum sensum videtur intendere Glossa (23). Ad secundum dicendum quod cognitio certa de re aliqua non solum habetur per causam et rei essentiam, sed etiam per effectus proprios et immediatos, antonomastice tarnen habetur per immediatam rei praesentiam e t antonomastice dicitur certa cognitio per se notorum. Sed cum loquimur hie de per se noto, non liquimur de aliquo simplici sed de aliquo composite, u t de propositione aliqua vel dicto, ratione tarnen rei significatae. Dupliciter autem potest propo­ sitio aliqua sic esse animae praesens: immediate sive per essentiam (e)

hod

add.

(/) Particularem

scr.

(21) De Fide Ortod., I, c. 3 PG 94, 794. (22) Ps., 10, 5: « Qui autem d ilig it...». (23) Biblia Sacra cum Glossa Ord. Primítm quidem Astrabo Fuldensis co­ lecta... et postilla Nicolai Lyrani, etc... Lugduni, 1610; Oidinaria, in huoc locum apud Lyranum, III, col. 509.

suam explicite, ita quod significatio utiiusque termini sit immedate et explicite et distincte animae praesens; et hoc non est necessarium ad hoc quod aliquid dicatur per se notum; aut implicite, ita quod unus quidem (g) explicite cognoscatur per se et immediate, alius autem im­ plicite in quantum in alio (f. 19d) aliquo modo implicatur; et hoc non sufficit ad hoc quod aliquid dicatur per se notum. Illud enim dictum: Omne tptum est majus sua parte, est per se notum quia in tote quod est per se notum immediate et explicite implicatur pars sua. Sic in eo quod est esse, quod per se animae explicite et per se praesentatur, im plicatur Deus, licet non adeo evidenter sicut in primo. Ad tertium dicendum quod licet sit interior animae quam ipsa sibi in ratione principii sustentantis et conservantis, non tamen in ratione objecti actum ejus terminantis (h).

(g) quid

sor.

(h) sua mediante specie

add. sed. exp.

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