L'Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempi di crisi 8858105508, 9788858105504

La crisi economica e finanziaria dovrebbe imprimere un ritmo veloce alle riforme del lavoro, ma i regimi nazionali di so

509 41 2MB

Italian Pages 127 [131] Year 2013

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

L'Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempi di crisi
 8858105508, 9788858105504

Citation preview

Libri del Tempo Laterza 468

Silvana Sciarra

L’Europa e il lavoro Solidarietà e conflitto in tempi di crisi

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2013

1

2

3

4

Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0550-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

per A. e V. «my twinkling stars»

Il lavoro e il mercato nel Rapporto Monti del 2010. Una premessa

Questo libro prende le mosse da un Rapporto redatto da Mario Monti, su invito del presidente della Commissione europea1. Pubblicato nel 2010 – prima che Monti ricoprisse la carica di presidente del Consiglio in Italia – il Rapporto rivela la competenza, oltre che dello studioso, del commissario responsabile per il Mercato prima e per la Concorrenza dopo, fra il 1995 e il 2004. Nella ricognizione dei molti problemi irrisolti e delle misure necessarie per imprimere nuovo dinamismo al processo di integrazione europea, il Rapporto ha preparato il terreno per alcune iniziative della Commissione, prima fra tutte la proposta per l’adozione di un Atto per il mercato unico2. Le azioni di riforma presentate – le dodici leve per la crescita – riguardano materie assai varie e non trascurano temi legati al lavoro, tra cui la piena compatibilità fra esercizio dei diritti sociali fondamentali – in particolare diritto di contrattazione e diritto di sciopero – e tutela delle libertà economiche garantite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue). La mobilità delle imprese e dei lavoratori all’interno del mercato europeo può dar luogo a forti scompensi fra regimi di solidarietà e fra sistemi di contrattazione collettiva, soprattutto in riferimento alle politiche salariali. 1   M. Monti, Una nuova strategia per il mercato unico. Al servizio dell’economia e della società europea, Rapporto al presidente della Commissione europea J.M. Barroso, 9 maggio 2010. 2   Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, L’Atto per il mercato unico. Dodici leve per stimolare la crescita e rafforzare la fiducia. “Insieme per una nuova crescita”, Com (2011) 206 definitivo, 13 aprile 2011.

­­­­­VII

Quando il lavoro è in pericolo, l’identità nazionale tende a consolidarsi intorno a un nucleo di certezze, per difendere quanto accumulato negli anni e contenere le conquiste dentro i confini degli Stati. Questa reazione, tutt’altro che immotivata, si scontra, peraltro, con la consapevolezza che erigere barriere non aiuta la crescita, né favorisce lo sviluppo in un’economia globalizzata. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) – un’agenzia delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, in cui, oltre agli Stati aderenti, sono rappresentati i datori di lavoro e i lavoratori – promuove da tempo una riflessione sulla dimensione sociale della globalizzazione e sugli effetti provocati dallo spostamento delle attività produttive verso paesi con più basso costo del lavoro. Incombe il rischio di risultati sbilanciati fra paesi e dentro ciascun paese3 e si rafforza la richiesta di una governance globale, che contemperi il funzionamento delle istituzioni sociali con lo sviluppo economico4. La crisi economica e finanziaria ha esasperato le asimmetrie che contraddistinguono la distribuzione delle risorse nell’ordinamento globale e che, fin dalle origini, hanno caratterizzato l’avvio della Comunità economica europea e, in seguito, dell’Unione europea (Ue). La distanza fra politiche economiche e monetarie, da un lato, e politiche sociali, dall’altro, è percepita da una larga parte dei cittadini europei come un vuoto incolmabile. Le speranze annegano nel tentativo di accorciare questa distanza e lo scetticismo si diffonde. La sfida consiste dunque nel reinventare i regimi di solidarietà, rendendoli meno monolitici e più permeabili agli adattamenti. «Stanchezza da integrazione» e «stanchezza da mercato» sono le espressioni usate nelle battute iniziali del Rapporto Monti, nell’intento di raccogliere le ansie dei cittadini europei in una fase di vorticosa caduta della fiducia verso le istituzioni dell’Ue. Proprio nel momento della sua massima impopolarità – si sostiene con vigore – il mercato interno dovrebbe rappresentare una risorsa e mostrare le sue poten3   World Commission on the Social Dimension of Globalization, A fair globalization: creating opportunities for all, Ilo, Geneva 2004, http://www.ilo.org/public/ english/wcsdg/docs/report.pdf; M. Delmas-Marty, The social dimension of globalization and changes in law, in P. Auer, G. Besse, D. Méda (a cura di), Offshoring and the Internationalization of Employment, Ilo-Iils, Geneva 2006, pp. 187 sgg. 4   G. Gereffi, The new offshoring of jobs and global development, Ilo-Iils, Geneva 2006, pp. 41 sgg. Per uno sguardo d’insieme, A. Perulli, Globalizzazione e dumping sociale: quali rimedi?, in «Lavoro e diritto», XXV, 2011, 1, pp. 13-44.

­­­­­VIII

zialità. Le molte disarmonie fra livello nazionale e sopranazionale, causate dal processo di integrazione, non possono che essere corrette nel mercato, rinfrancando gli animi di quanti in esso operano. Da qui nasce una visione olistica del mercato, quasi una nuova scommessa che serva a riaprire un ampio negoziato politico e a rilanciare idee e proposte. Sappiamo invece che così non è stato, nonostante le buone intenzioni del Rapporto Monti. L’aggravarsi della crisi economica e finanziaria ha rallentato molte decisioni e complicato enormemente l’avvio di riforme istituzionali organiche, accentuando il rischio di una marginalizzazione delle politiche sociali e occupazionali. Le ragioni di una diffusa disaffezione dei cittadini verso l’Europa sono molteplici, talune non estranee ai temi che saranno trattati in questo libro. Fra le più rilevanti si deve citare, come lo stesso Rapporto Monti suggerisce, la temuta compressione delle tutele e dei sistemi di protezione sociale a livello nazionale. Proprio per questi motivi la disaffezione può, in alcuni casi, sfociare in una difesa dell’esistente, che si risolve poi in atteggiamenti protezionistici degli ordinamenti nazionali, delle loro regole e delle certezze che da essi promanano. Sullo sfondo si scorge una comunicazione ancora imprecisa fra amministrazioni nazionali e istituzioni europee, che si riverbera con caratteristiche del tutto peculiari sui sistemi di regole che disciplinano i rapporti di lavoro. La presenza di soggetti collettivi – in particolare le organizzazioni che rappresentano lavoratori e datori di lavoro – contribuisce a movimentare la scena istituzionale e a completarla, proprio perché espressione di tradizioni nazionali consolidate. La contrattazione collettiva è la più rilevante di queste tradizioni, poiché è dotata di una sua spontanea giuridicità e dunque è in grado di influire sui rapporti di lavoro e di determinarne i contenuti. Ciò accade – è il caso dell’Italia – anche in assenza di un intervento del legislatore. Il processo dinamico e sempre aperto che caratterizza la contrattazione collettiva si svolge dunque in modo autonomo rispetto alla legge. La “stanchezza da mercato” potrebbe spingere, come si è già detto, i soggetti collettivi verso atteggiamenti difensivi, a tutela della propria autonomia nella fissazione di standard economici e normativi. L’esito temuto è che tali equilibri possano essere turbati dalla competizione che sorge fra sistemi forti e deboli di contrattazione collettiva. Si teme, in altri termini, che lo spettro del dumping sociale si affacci all’orizzonte del mercato interno. ­­­­­IX

Sennonché, l’apertura dei mercati nazionali deve essere considerata quale presupposto indispensabile dell’integrazione e la mobilità delle imprese e dei lavoratori quale risorsa per la crescita e la competitività. Non sempre questi presupposti sono inglobati nella cultura e nella pratica delle relazioni sindacali. Né si può dare per scontato che gli apparati amministrativi e burocratici nazionali concorrano a semplificare i processi di mobilità e di integrazione. La realtà è che il dibattito europeo si è soffermato con alterne fortune sui temi del lavoro e dell’occupazione, senza mai porli al centro di strategie forti, opportunamente sostenute da linee di bilancio specifiche. Al crocevia di scelte importanti si pone, ancora oggi, la funzione delle norme che tutelano i lavoratori e la capacità di adattamento delle molte risorse regolative che contribuiscono a creare tali tutele. Non deve soltanto preoccupare – come sovente si sostiene – una presunta subalternità delle regole sociali alle regole economiche nel processo di integrazione del mercato, mentre dovrebbe far riflettere il ritardo prolungato nel promuovere crescita e occupazione, nell’Ue, come pure nei singoli Stati membri, attraverso scelte politiche incisive. La mobilità delle imprese, dei servizi e del lavoro, una leva essenziale per l’integrazione del mercato, non ha ancora generato le regole giuste per creare crescita e occupazione. Il silenzio della politica, incapace di produrre decisioni nell’imminenza di una crisi economica e finanziaria senza precedenti, può generare inerzia e innestare comportamenti poco propositivi e anche poco lungimiranti da parte delle parti sociali. Servirebbe, al contrario, sviluppare nuove sinergie e promuovere nuove combinazioni virtuose nelle misure da adottare per difendere il lavoro e favorire la crescita. Il punto di partenza è la constatazione che la mobilità genera, sia nel mercato interno europeo sia nel mercato transnazionale, accorpamenti degli interessi collettivi e regimi di solidarietà mutevoli, spesso divergenti. Le tutele dovrebbero dunque essere modulate e adattate, per interpretare le conseguenze dei processi di mobilità prima descritti. Le ansie e le paure dei cittadini europei sono collocate dal Rapporto Monti in uno scenario più ampio, che tiene conto delle sfide globali, attente, più di quanto non si percepisca comunemente, all’evoluzione delle norme sociali, oltre che alla piena garanzia delle libertà economiche. I messaggi lanciati da quel Rapporto sono stati raccolti con esitazioni e lentezza nel dibattito accademico, come pu­­­­­X

re nel confronto istituzionale. Tuttavia, essi rappresentano il punto di partenza di alcune iniziative in corso nell’Ue e come tali non possono essere trascurati. Nel trarre spunto da alcuni temi affrontati nel Rapporto Monti, questo libro intende tracciare percorsi di riflessione, che hanno al centro il lavoro, inquadrato in una dimensione europea e globale. Nel proporre tali percorsi, si terrà conto non tanto dei dibattiti nazionali in corso e delle scelte che i legislatori sono stati chiamati a fare nel pieno dell’emergenza economica – così come accaduto in Italia con la recente legge 28 giugno 2012, n. 92, che riforma il mercato del lavoro – quanto piuttosto delle linee di evoluzione che potrebbero essere impresse alle scelte nazionali, se davvero cambiasse il passo nel cammino dell’integrazione europea. Non c’è alcun dubbio che il lavoro sia al centro delle politiche di crescita. Tuttavia, le misure per sostenerlo si nascondono negli interstizi delle politiche economiche, si confondono con le misure di contenimento della spesa e di equilibrio nei bilanci degli Stati. Le politiche del lavoro si affievoliscono per la mancata cooperazione fra gli apparati amministrativi e per la scarsa motivazione delle élites burocratiche, il cui lavoro non sempre è caratterizzato da una continuità operativa. Tutto questo accresce le paure dei cittadini europei e favorisce la disaffezione verso l’Europa. Il coordinamento delle politiche occupazionali, che avrebbe dovuto caratterizzare i contenuti della nuova governance europea all’inizio di questo secolo, è fallito, come dimostra l’autocritica delle istituzioni europee, costrette a rilanciare questi e altri temi in un nuovo programma denominato Europa 2020. L’analisi di questo documento programmatico è affrontata, nelle pagine che seguono, con uno sforzo di ottimismo che si giustifica soltanto se si contestualizzano le proposte della Commissione e del Consiglio dentro riforme più ampie, pronte a prendere il via. Il passaggio più importante da evidenziare riguarda la riforma del bilancio europeo per il periodo 2014-2020, che prevede di destinare finanziamenti in via prioritaria ai progetti rientranti negli obiettivi indicati in Europa 20205. 5   Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Un bilancio per la strategia Europa 2020, parte I, Com (2011) 500 definitivo, 29 giugno 2011.

­­­­­XI

Ugualmente rilevanti sono le misure sulla coesione sociale, che emergono dall’analisi svolta nel Rapporto Barca del 20096, documento redatto prima che l’autore divenisse ministro nel governo presieduto da Monti. Il Consiglio europeo del 30 gennaio 2012 ha espressamente dichiarato di voler sostenere la crescita e l’occupazione con incentivi premiali, da vincolare a precisi adempimenti7. La Commissione, come si vedrà in seguito, sta procedendo su questa strada, in modo da predisporre gli strumenti per nuove forme di collaborazione fra centro e periferia dell’Ue, nell’intento di attenuare le asimmetrie fra realtà locali diverse. La coesione sociale è dunque, al tempo stesso, mezzo e fine dell’integrazione europea. In questo scenario serve più che mai valorizzare, in alternativa alla competizione fra regimi di solidarietà e alla corsa al ribasso degli standard normativi e salariali, uno scenario partecipativo tale da favorire intese transnazionali da un lato, e patti locali fra produttori dall’altro. Questa proposta, usata come filo conduttore dei capitoli che seguono, si spinge fino a considerare le mutate funzioni del conflitto e in particolare del diritto di sciopero. Chi studia l’evoluzione delle politiche sociali europee è, non da ora, consapevole del nesso inscindibile che tiene insieme norme sociali e norme legali, all’interno di un quadro composito di relazioni collettive, improntato al confronto fra le grandi organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori con i governi nazionali e con le istituzioni europee. Quel nesso, tuttavia, è stato scosso dalla gravità delle conseguenze indotte dalla crisi e, prima ancora che tali conseguenze si manifestassero nella loro complessità, dalla forza destabilizzante di alcune sentenze rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (Cgue), di cui pure il Rapporto Monti si occupa e che saranno esaminate nei capitoli finali di questo libro. Le reazioni che quelle decisioni hanno suscitato, sia da parte dei legislatori nazionali sia all’interno delle 6   F. Barca, An Agenda for a Reformed Cohesion Policy, aprile 2009, un Rapporto indipendente preparato su richiesta del commissario per le Politiche regionali. 7   Dichiarazione dei membri del Consiglio europeo, Verso un risanamento favorevole alla crescita e una crescita favorevole alla creazione di posti di lavoro, 30 gennaio 2012.

­­­­­XII

organizzazioni sindacali, sono il sintomo di un malessere diffuso e, allo stesso tempo, dell’urgenza di adattare alcune regole del gioco. Anche per questo serve guardare oltre l’ordinamento europeo e ascoltare con attenzione il dialogo a distanza che si è aperto fra la Corte di Lussemburgo, la Corte di Strasburgo – quella che ha competenza nelle materie disciplinate dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) – e il Comitato di esperti Oil. Quest’ultimo non è propriamente un organo giurisdizionale, ma assolve un delicato compito di monitoraggio quanto all’applicazione delle Convenzioni e delle Raccomandazioni da parte degli Stati aderenti all’Oil. Composto di esperti super partes, indipendenti dai governi, esso si inserisce a pieno titolo in un processo aperto di interpretazione e adattamento delle norme, a fronte dei grandi cambiamenti in atto. La circolazione degli standard di tutela e la contaminazione tra fonti sopranazionali sono entrambi fenomeni che si prestano a creare – e per certi aspetti a delimitare – un diritto vivente in trasformazione, che ruota intorno al lavoro, alle tutele individuali e collettive, al sostegno e all’espansione del suo significato. In una prospettiva così variegata, tutte le misure che determinano cambiamenti devono essere analizzate e ricondotte a unità, in un quadro il più possibile coerente di rilettura delle finalità impresse al processo di integrazione europea. La crisi rende più difficile legare i fili delle norme sociali alle misure straordinarie adottate, poiché l’austerità e il rigore – finalità che si impongono nella fase drammatica attraversata dall’Europa – non contemplano ancora in modo soddisfacente la crescita e la tutela dell’occupazione.

Nota dell’autrice In questo libro affronto temi che hanno già caratterizzato la mia ricerca negli ultimi anni e che animano ancora i miei interessi. Come giurista del lavoro, ho interpretato criticamente alcune recenti vicende del diritto sociale europeo, nella convinzione che parole come giustizia, equità e inclusione debbano riacquistare valore negli argomenti della politica e servire a promuovere una piena integrazione dell’Europa. Ringrazio Francesca Bassetti, dottoranda dell’Istituto italiano di Scienze umane, che, con la consueta generosità e competenza, mi ha fornito un prezioso aiuto nel controllare alcuni riferimenti bibliografici, lasciandomi peraltro unica responsabile della redazione finale.

L’Europa e il lavoro Solidarietà e conflitto in tempi di crisi

Capitolo I

L’Europa in tempi di crisi

1. Paura dall’Europa: una falsa partenza I temi del lavoro e della protezione sociale si pongono con urgenza nel dibattito europeo. Talvolta essi appaiono sfuggenti, offuscati da ritardi nell’attuazione dei programmi e poco chiari quanto ai messaggi da rivolgere ai cittadini. La crisi economica e finanziaria diffonde incertezza e rende pressante la ricerca di un terreno connettivo più forte, su cui poggiare iniziative legislative efficaci. Alle grandi organizzazioni che rappresentano gli interessi delle imprese e dei lavoratori si chiede di costruire consenso e di facilitare la redistribuzione di risorse scarse, sia in termini di tutele sia di chance occupazionali. Un coinvolgimento così delicato, tuttavia, può rivelarsi difficile in uno scenario mutevole come quello attuale. Ecco perché i temi del lavoro non possono essere disgiunti da una più ampia valutazione delle politiche di riforma che investono l’Unione europea nel suo complesso e il mercato interno in particolare. Per tentare di comprendere, almeno in parte, la paura, talvolta irrazionale, che viene dall’Europa, si deve tener conto del fatto che i soggetti collettivi, specialmente nei paesi di più antica adesione all’Ue, hanno contribuito alla creazione delle identità nazionali. Allo stesso tempo, nell’agire come rappresentanti di interessi diffusi, essi ricevono piena legittimazione dagli ordinamenti nazionali, in cui affondano le proprie profonde radici. A livello sopranazionale questa proiezione identitaria è meno consolidata e, soprattutto, complicata dalla doppia lealtà che le organizzazioni portatrici di interessi collettivi sviluppano sia nei confronti delle istituzioni europee, sia nel rapporto con quelle nazionali. L’in­­­­­3

tegrazione del mercato, come si è detto, può provocare negli attori politici e istituzionali reazioni protezionistiche, a difesa degli equilibri interni consolidatisi in ciascun ordinamento nazionale. La stessa reazione può aversi da parte delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, strette intorno alla difesa dei sistemi nazionali di relazioni sindacali, soprattutto quando si innestano meccanismi di competizione al ribasso nelle retribuzioni e nelle condizioni di lavoro. In una lettura molto critica delle politiche sociali europee, indebolite dall’assenza di un Welfare State sopranazionale, si è sostenuto che la scelta “neo-volontarista”, operata negli anni Novanta nelle riforme dei Trattati, piuttosto che tutelare le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro da interferenze del legislatore, sia stata intenzionalmente orientata a svalutare un loro ruolo trainante, così da rafforzare un terreno competitivo nel mercato1. Per comprendere fino in fondo questa critica radicale si deve rammentare che la scelta dei sindacati e delle organizzazioni dei datori di lavoro di procedere “volontariamente” su binari indipendenti dalla legge ha rappresentato un carattere distintivo nella tradizione di molti paesi europei. L’evoluzione di una contrattazione collettiva volontaria è servita a valorizzare appieno la libertà sindacale, principio cardine nelle Costituzioni del secondo dopoguerra e diritto fondamentale garantito dalle Convenzioni dell’Oil2. Con la spinta riformista impressa da Jacques Delors, ideatore entusiasta delle politiche sociali negli anni (1985-1995) in cui fu presidente della Commissione europea, le parti sociali hanno conquistato un proprio spazio di intervento nell’Ue, nonostante l’espressa esclusione del «diritto di associazione» dalle competenze del Tfue (art. 153 comma 5). Una critica altrettanto radicale, parallela a quella prima citata, ha imputato alle istituzioni europee una mania isomorfica tale da conformare i gruppi di interesse, piuttosto che favorirne la crescita e la diversificazione. L’integrazione avrebbe incoraggiato, secondo queste ricostruzioni, l’allontanamento di soluzioni volte a ricompor1   W. Streeck, Neo-voluntarism: a new European Social Policy Regime?, in «European Law Journal», I, 1995, 1, pp. 31-59. 2   S. Sciarra, L’evoluzione della contrattazione collettiva. Appunti per una comparazione nei paesi dell’Unione europea, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», XXV, 2006, 4, pp. 447 sgg.

­­­­­4

re gli interessi collettivi intorno a nuovi soggetti, destrutturando le organizzazioni nazionali di intermediazione degli interessi, anziché ristrutturarle a un più ampio livello3. Le parti sociali, piuttosto che esprimersi liberamente e volontariamente, sarebbero state fagocitate in un gioco istituzionale poco propenso alla valorizzazione delle differenze. 1.1. Le conquiste delle parti sociali europee Le analisi prima prospettate, dense di presagi negativi, appaiono fondate su un pregiudizio o forse su una falsa premessa, pertanto non sono state del tutto confermate dalla storia successiva. La rappresentazione del neo-volontarismo a livello europeo ha comprensibilmente assunto caratteristiche diverse da quanto accaduto nel secondo dopoguerra nei principali paesi europei continentali e, in modo parzialmente diverso, nel Regno Unito. Sul fondamento di principi costituzionali e, nel caso del Regno Unito, sulla scorta di una consuetudine diffusa, si è consolidata la nozione di autonomia collettiva, che coincide con una pratica socialmente accettata, oltre che giuridicamente efficiente, di fissazione collettiva degli standard salariali e normativi. Essa ha acquisito nel tempo uno straordinario valore fondante, poiché consente di individuare nella legge e nella prassi i soggetti portatori degli interessi collettivi, sia da parte dei datori di lavoro, sia dei lavoratori. In alcuni paesi europei – ad esempio in Germania, in Svezia e in Italia – uno dei risultati più importanti dell’autonomia collettiva è consistito nel fare a meno di leggi sul salario minimo, a fronte di politiche salariali affidabili, gestite dalle parti sociali. Anche se questa realtà potrebbe in futuro subire mutamenti, a causa di una diffusa caduta del tasso di sindacalizzazione e del conseguente indebolimento dei sistemi di contrattazione collettiva, sta di fatto che per lungo tempo, sia pure in circostanze diverse, le parti sociali hanno rifiutato l’intervento del legislatore nella materia salariale. Con un’inversione di rotta da evidenziare, la Commissione europea, tardivamente consapevole della crisi economica e dell’impatto 3   S. Bartolini, Restructuring Europe: Centre formation, system building, and political structuring between the nation state and the European Union, Oxford University Press, Oxford 2005, pp. 293 e 304.

­­­­­5

negativo che la stessa ha avuto sulle politiche salariali, sollecita ora l’apertura di un confronto tripartito con le parti sociali per «discutere dell’evoluzione dei salari in relazione alla produttività, all’inflazione e alla domanda interna, alla disoccupazione e alle disparità di reddito»4. Si deve, a questo proposito, ricordare che anche le retribuzioni sono espressamente escluse dalle competenze del Tfue (art. 153 comma 5). L’invito della Commissione ha dunque un valore esortativo, che non incide sull’autonomia dei soggetti collettivi a livello nazionale e che certo non può risolversi in una vera e propria iniziativa a livello europeo. Caso mai si può riflettere sul ritardo delle organizzazioni sindacali nel fare propria questa priorità e nell’avviare una riflessione a tutto campo sull’urgenza in periodi di crisi di assestare meccanismi di garanzia del salario minimo, per eliminare le “trappole” che attirano i lavoratori meno qualificati nei livelli retributivi più bassi e per stabilire regimi salariali più equi. Lo scenario che si profila nell’ordinamento europeo è peculiare, poiché si è progressivamente creata un’organizzazione del tutto nuova degli interessi collettivi sopranazionali, costruita intorno a una parziale delega di poteri che il Trattato conferisce alle parti sociali5. Sono anche stati valorizzati altri spazi autonomi per la contrattazione collettiva, che può esprimersi secondo forme e contenuti variabili, ad esempio nei cosiddetti accordi europei di settore, che riguardano ampie categorie merceologiche6. Dal 1998 la Commissione ha promosso l’espandersi di queste fonti volontarie, indicando criteri di rappresentatività e formule or4   Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Verso una ripresa fonte di occupazione, Com (2012) 173 definitivo, 18 aprile 2012, p. 25. 5   L’art. 154 Tfue prevede che le parti sociali siano consultate dalla Commissione prima di presentare proposte relative alle politiche sociali e in seguito sui contenuti di un’eventuale proposta. Le parti sociali possono informare la Commissione della loro volontà di raggiungere un accordo sui contenuti della proposta. Possono anche richiedere che tale accordo sia attuato secondo le prassi e le procedure degli Stati membri, o in base a una decisione del Consiglio (art. 155). 6   B. Caruso, A. Alaimo, Il contratto collettivo nell’ordinamento dell’Unione europea, Working Paper Csdle “Massimo D’Antona”, Int - 87/2011, Università degli Studi di Catania, http://www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/wp/int/caruso_ alaimo­_n87-2011int.pdf; A. Mattei, Il distacco transnazionale e le sue prospettive: attori e interventi nell’integrazione europea, in «Quaderni rassegna sindacale», XIII, 2012, specialmente pp. 214-217.

­­­­­6

ganizzative adatte a garantire il radicamento dei comitati di settore nei sistemi nazionali di relazioni sindacali7. In anni recenti si è avuta una consistente espansione di questa pratica negoziale, seguita da un rafforzamento degli accordi di settore che disciplinano a livello europeo alcune materie8. Un tale dato è rassicurante, perché conferma la vivacità dei nume­ rosi attori collettivi che animano un pluralismo ordinamentale articolato su più livelli. Inoltre, gli accordi di settore ben potrebbero prestarsi alla fissazione di standard sopranazionali nella determinazione di talune condizioni di lavoro. Si noti, ad esempio, che fra le leve individuate dalla Commissione per il potenziamento del mercato unico e per favorire la mobilità – anche temporanea – dei lavoratori si incontra la modernizzazione delle procedure per il riconoscimento delle qualifiche professionali, che dovrebbe confluire in un quadro europeo di certificazioni9. Gli accordi europei di settore potrebbero costituire la sede ideale per questo e per altri esperimenti di standardizzazione sopranazionale, rivolti a facilitare la mobilità dei lavoratori. Alla luce di questa evoluzione, la paura dall’Europa può essere, per lo meno in parte, dissipata, se solo si osserva che esistono e si diffondono sedi di formazione del consenso sopranazionale. Su questo punto si tornerà in seguito per valutare la rilevanza e la diffusione di nuovi livelli di contrattazione transnazionale, che si aggiungono alle molte sedi di negoziazione già esistenti a livello sia nazionale sia europeo10. Per ora serve liberare il campo da una falsa premessa e contrapporre alla paura che viene dall’Europa la fiducia in una potenziale 7  Commissione europea, Decisione della Commissione del 20 maggio 1998 che istituisce comitati di dialogo settoriale per promuovere il dialogo tra le parti sociali a livello europeo, 98/500/CE. Un resoconto in E. Léonard, E. Perin, P. Pochet, The European sectoral social dialogue: questions of representation and membership, in «Industrial Relations Journal», 42, 2011, 3, pp. 254 sgg. 8   European Commission, Industrial Relations in Europe 2010, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2011, p. 173; B. Veneziani, L’art. 152 del Trattato di Lisbona: quale futuro per i social partners?, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», LXII, 2011, 1, pp. 243-264. 9   Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, L’Atto per il mercato unico. Dodici leve per stimolare la crescita e rafforzare la fiducia. “Insieme per una nuova crescita”, Com (2011) 206 definitivo, 13 aprile 2011, p. 6. 10  Infra, capitolo III.

­­­­­7

espansione della contrattazione collettiva, intesa quale rete di scambi e di accorpamento degli interessi, dentro e fuori i confini nazionali, e quale trama su cui tessere molteplici regimi di solidarietà. L’emersione di nuovi ordini di regole non deve essere percepita come forza destabilizzante per gli ordinamenti nazionali e per i sotto-sistemi sociali che in essi si sviluppano. Al contrario, essa deve apparire carica di presagi positivi, poiché si sforza di cogliere segnali di cambiamento nelle aggregazioni degli interessi collettivi e nel sorgere di nuovi regimi di solidarietà transnazionale. Alcuni spunti di riflessione in questa direzione si possono rintracciare nelle proposte, sollecitate dal Rapporto Monti, per l’adozione di un Atto per il mercato unico, accolte, non senza qualche lentezza, dalla Commissione11. Le azioni di riforma – le dodici leve per la crescita – riguardano, tra l’altro, la piena compatibilità fra l’esercizio del diritto di contrattazione e del diritto di sciopero e la tutela delle libertà economiche garantite dal Trattato. Presupposto per una moderna rivisitazione di tali diritti a esercizio collettivo è la mobilità dei lavoratori, affrancata dai condizionamenti di mercati del lavoro nazionali troppo rigidi e poco propensi ad accogliere i lavoratori, come pure a lasciarli uscire. Ad esempio, taluni servizi sociali di interesse generale e in particolare alcuni fondi pensione a sistema contributivo si “annidano” in zone condivise da più Stati nazionali e divengono esempi di protezione sociale adattabile alle esigenze dei lavoratori – soprattutto i lavoratori più giovani – pronti a sfruttare i vantaggi della mobilità12. La formazione di istituzioni sociali condivise da più Stati membri è, senza dubbio, un obiettivo da perseguire, poiché serve ad allacciare legami concreti fra realtà locali e sopranazionali, attraverso la creazione di regimi di solidarietà in continua trasformazione. Anche questo aspetto è considerato nel Rapporto Monti, al fine di stimolare l’avvio di un’ampia consultazione sul coordinamento dei regimi di previdenza complementare e di favorire la mobilità

  Comunicazione della Commissione, L’Atto per il mercato unico, cit.   M. Ferrera, Mapping the Components of Social EU: A Critical Analysis of the Current Institutional Patchwork, in E. Marlier, D. Natali, con R. Van Dam (a cura di), Europe 2020: Towards a More Social EU?, Peter Lang, Bruxelles 2010, pp. 45-68; S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, il Mulino, Bologna 2012. 11

12

­­­­­8

transfrontaliera dei lavoratori13. Il Libro verde della Commissione, in seguito pubblicato, include, fra le proposte sottoposte alla consultazione dei soggetti interessati, la definizione di «norme minime» per acquisire e trasferire i diritti pensionistici complementari14. Si può, dunque, alla luce delle iniziative in corso, ragionevolmente contrastare la paura che viene dall’Europa e azzerare la falsa partenza a cui dà luogo. A tal fine serve osservare le mosse degli attori sociali e valutare senza pregiudizi sia i passaggi istituzionali che hanno segnato le modifiche dei Trattati, sia la lenta evoluzione della legislazione europea nell’ambito delle politiche sociali. Si tratta di un’operazione interpretativa resa più difficile dalla crisi e tuttavia ancor più necessaria, per l’urgenza di predisporre validi antidoti alla paura che serpeggia fra i cittadini europei. 2. Paura dell’Europa: il quadro istituzionale Qualunque riflessione sulla recente evoluzione delle politiche sociali nell’Ue non può prescindere da un riferimento alle importanti modifiche istituzionali intervenute nel tempo, a seguito dei progressivi adattamenti dei Trattati. Nonostante, attraverso tali modifiche, si sia rafforzato il ruolo dei soggetti collettivi sopranazionali e siano state ampliate le basi giuridiche nei Trattati, continua a essere diffusa in molti ambienti la paura dell’Europa. Per provare a dissipare metaforicamente questa paura, si può ricorrere all’immagine di una rappresentazione teatrale, in cui cambiano le quinte, si perfeziona la scenografia, si alternano gli attori, nel mettere in scena un testo costantemente rivisitato. Questa rappresentazione immaginaria prende il via con l’analisi delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, adottato il 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Quell’allestimento del testo da rappresentare ha già subito modifiche, nel corso della lunga crisi economica e finanziaria, come vedremo fra breve.

13   M. Monti, Una nuova strategia per il mercato unico. Al servizio dell’economia e della società europea, Rapporto al presidente della Commissione europea J.M. Barroso, 9 maggio 2010, p. 63. 14  Libro verde della Commissione europea, Verso sistemi pensionistici adeguati, sostenibili e sicuri in Europa, Com (2010) 365 definitivo, 7 luglio 2010, pp. 13-15.

­­­­­9

L’art. 3 del Trattato sull’Unione europea (Tue) evoca gli obiettivi della piena occupazione e del progresso sociale, quali elementi essenziali della «economia sociale di mercato». Tra le norme sociali si iscrivono la lotta contro l’esclusione sociale e contro le discriminazioni, nella prospettiva della parità fra donne e uomini e della solidarietà intergenerazionale. Nel perseguire questi obiettivi, si deve tenere conto del nuovo vincolo introdotto dalle cosiddette clausole sociali orizzontali, contenute negli artt. 8 e 9 Tfue. Si tratta di una tecnica innovativa, che insinua nelle «azioni» e nelle «politiche» dell’Unione il rispetto di un vincolo, consistente nell’eliminazione delle disuguaglianze e nella promozione della parità tra uomini e donne. Si prevede inoltre il perseguimento di «un elevato livello di occupazione» e di «un’adeguata protezione sociale». Si evoca la «lotta contro l’esclusione sociale» e il raggiungimento di «un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana»15. È inoltre di grande rilievo l’introduzione nel Tue dell’art. 6, che riconosce «i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali» e conferisce a quest’ultima «lo stesso valore giuridico dei Trattati»16. Non vi è dubbio che gli artt. 8 e 9, prima citati, impongano agli Stati membri, come pure alle istituzioni europee, un obbligo di maggiore coerenza nel rispetto di diritti e principi sanciti dalla Carta. Esse devono essere ritenute, a tutti gli effetti, norme vincolanti, se lette in collegamento con la Carta. Resta comunque incerto il modo in cui concretamente l’inosservanza degli articoli in questione potrà essere sanzionata. L’art. 6, ai commi 2 e 3, prevede l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), senza modificare le competenze già attribuite nei Trattati. Il riferimento a questa rilevante fonte internazionale si interseca con il perdurante rinvio nelle fonti europee alle «tradizio15   Un primo segnale di attenzione è nelle Conclusioni dell’avvocato generale in Santos Palhota (C-515/08, par. 51), segnale non raccolto dalla Cgue nella sua sentenza. Gli artt. 8 e 9 Tue, in collegamento con l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali, sono inoltre citati nella Comunicazione della Commissione, L’Atto per il mercato unico, cit., p. 5. 16   Temperato dal Protocollo n. 30, che introduce particolari disposizioni per il Regno Unito e la Polonia. Si veda anche la Comunicazione della Commissione, Strategia per un’attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Com (2010) 573 definitivo, 19 ottobre 2010.

­­­­­10

ni costituzionali comuni agli Stati membri». Tutto lascia intendere, dunque, che l’impianto dei diritti e dei principi generali dell’Ue sia più solido e che esso possa incidere positivamente sull’evoluzione del diritto sociale. L’adesione alla Cedu, operazione in sé lunga e complessa, si colloca in una fase di grande fermento, caratterizzata da una rinnovata e feconda circolazione di standard internazionali di tutela nel diritto sociale. In un processo di costante ibridazione delle fonti, gli interpreti dell’ordinamento europeo non possono che essere aperti al cambiamento e pronti a cogliere ogni proficuo collegamento con l’ordinamento globale17. L’art. 151 Tfue apre il titolo X dedicato alla Politica sociale e ne segna il percorso applicativo. Nella parte in cui descrive fra gli obiettivi dell’Unione e degli Stati membri la «promozione dell’occupazione» e «il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro», la norma deve essere interpretata in collegamento con i vincoli posti dalla Carta di Nizza, nel rispetto dei diritti sociali fondamentali in essa sanciti. Nell’adozione e nel perfezionamento delle politiche sociali, le clausole orizzontali di cui agli artt. 8 e 9 Tfue, prima richiamate, rappresentano un terreno di sperimentazione per gli interpreti e per le istituzioni europee, nel quadro generale di un bilanciamento fra diritti sociali e libertà economiche da esercitarsi in un mercato sempre più integrato. Resta da vedere se la stessa sperimentazione possa essere proposta parallelamente all’attuazione delle politiche di austerità, approvate a ridosso della crisi economica e finanziaria18. L’art. 152 Tfue – una novità introdotta con il Trattato di Lisbona – raccoglie la preziosa eredità del «dialogo sociale europeo»19. Con questa espressione, coniata da Jacques Delors nel 1985, si è soliti definire i rapporti di reciproca consultazione fra le organizzazioni europee dei datori di lavoro e dei lavoratori, talvolta sfociati nella condivisione di intenti e nell’adozione di pareri comuni.

  Infra, capitolo IV.   Il riferimento è al cosiddetto Fiscal compact, su cui vedi infra, paragrafo 3. Sul punto si esprime scetticamente A. Lo Faro, Social Europe: where do we go from the ‘Fiscal Compact Treaty’?, in «European Journal of Social Law», 2012, 1, pp. 2-3. 19  U. Villani, La politica sociale nel Trattato di Lisbona, in «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», LXIII, 2012, 1, pp. 39 sgg. 17 18

­­­­­11

L’art. 152 istituisce il «vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione» che si riunisce prima del cosiddetto Consiglio di primavera e nuovamente in autunno. All’enfasi posta sulla diversità dei sistemi nazionali e sull’autonomia delle parti sociali, nel rispetto del principio di sussidiarietà, fa riscontro un ruolo quasi pubblico delle organizzazioni che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro a livello europeo. Queste ultime, dotate soltanto di poteri consultivi nei vertici trilaterali, non sono a pieno titolo inserite nei processi decisionali, perché non pienamente legittimate nell’assumere decisioni finali. Nonostante le critiche di alcuni commentatori circa la scarsa rilevanza delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, da queste si deve partire per costruire un’interpretazione delle tendenze in atto nelle politiche sociali e per valutare i vincoli di sistema che il Trattato impone ai legislatori nazionali. La via da seguire è quella di una regia coerente, che deve guidare tutti gli attori in movimento sul palcoscenico di una rappresentazione, già prima evocata come immaginario luogo pubblico delle deliberazioni e del confronto. Tuttavia, questo messaggio mediatico non sempre raggiunge gli spettatori in modo uniforme e consolatorio. Così è successo nella rappresentazione di una crisi economica e finanziaria di dimensioni inusitate che, per restare nella metafora teatrale, ha comportato rapidi cambiamenti delle quinte sulla scena europea, nella faticosa ricerca di misure adatte a fronteggiarla. Le politiche sociali e occupazionali sono, non certo inaspettatamente, parte integrante delle strategie di risanamento. Il clima è tale da contribuire ad accrescere fra i cittadini la paura dell’Europa, paura incalzata dai richiami, talvolta strumentali, ai vincoli imposti dalle istituzioni sopranazionali. 2.1. Il semestre europeo Le risposte che i governi devono fornire alla crisi richiedono, per la comune adesione all’Ue, l’adozione di misure coordinate di politica economica tali da assicurare stabilità e rilanciare la crescita e l’occupazione. Nell’arco del cosiddetto semestre europeo, avviato su impulso della Commissione il 23 novembre del 2011, si chiedono adempimenti circostanziati agli Stati membri, circa le politiche fiscali e i piani di consolidamento del debito pubblico. Il semestre europeo parte in gennaio con una ricognizione programmatica della Commissione e si sposta poi verso la già ricordata ­­­­­12

tappa del Consiglio di primavera, in cui si valutano i Programmi nazionali di riforma (Pnr) presentati dagli Stati membri nel mese di aprile, che includono riferimenti alle politiche del lavoro. Questi documenti, che dovrebbero assumere connotati non solo declamatori – come accaduto nella precedente versione del cosiddetto Metodo aperto di coordinamento (Mac), ideato nel 2000 nell’ambito della strategia lanciata a Lisbona –, sono oggetto di verifica e di valutazione da parte della Commissione e poi del Consiglio nel mese di giugno. Il semestre si conclude con specifiche raccomandazioni del Consiglio indirizzate agli Stati membri per la definizione delle politiche di bilancio, nel rispetto della sovranità dei parlamenti nazionali20. Si noti che il Trattato di Lisbona (art. 16 comma 6 Tue) prevede espressamente che il Consiglio si riunisca in varie formazioni21. Il Consiglio acquista in tal modo uno status istituzionale ben preciso entro i limiti del diritto europeo (artt. 235 e 236 Tfue), pur senza sacrificare alcuni elementi di informalità, che da sempre ne hanno caratterizzato il funzionamento. Non a caso, il coinvolgimento delle parti sociali, garantito attraverso la consultazione delle stesse prima del già citato vertice sociale trilaterale, si svolge in una sede poco formale, certamente non coincidente con le riunioni del Consiglio in cui le decisioni economiche più rilevanti sono assunte. Si deve notare, tuttavia, che questa prassi sta cambiando, poiché, nell’urgenza di adottare misure più incisive, la Commissione propone ora di consultare le parti sociali anche prima dei Consigli economici e finanziari.

20   Per un esempio, cfr. Raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2011 sul programma nazionale di riforma 2011 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità aggiornato dell’Italia, 2011-2014 (2011/C 215/02). Il Pnr presentato dal governo italiano nel 2012, inserito nella sez. III del Documento di economia e finanza (www.dt.tesoro.it), risponde puntigliosamente alle sollecitazioni del Consiglio per illustrare il corso delle riforme intraprese e in corso di esecuzione. Tuttavia, è ancora ricca di sollecitazioni critiche la Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2012 dell’Italia, Com (2012) 318 final/2 del 5 giugno 2012. 21   Le formazioni sono esemplificate nella Decisione del Consiglio europeo del 16 settembre 2010 recante modifica dell’elenco delle formazioni del Consiglio, 2010/594/Ue, secondo la previsione dell’art. 236 Tfue.

­­­­­13

2.2. Il Patto Euro Plus e le politiche salariali Il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 201122 sarà ricordato per aver segnato una svolta nella governance economica dell’Ue, con l’adozione del Patto Euro Plus, vincolante per gli Stati – quelli della zona euro e alcuni altri – che ad esso aderiscono, quanto alle azioni concrete da adottare nell’arco di un anno, nel contesto di un più forte coordinamento. Anche se il mix di tali azioni resta nell’esclusiva discrezionalità dei parlamenti nazionali, la verifica sopranazionale con cadenza annuale non dovrebbe dare tregua agli Stati inadempienti23. Guardiamo, in particolare, le Conclusioni adottate il 24 e 25 marzo 2011, nella parte (Allegato I) che attiene alle politiche salariali e alla produttività. La scrupolosità del Consiglio si spinge, in maniera inusitata, a suggerire un controllo periodico del costo unitario del lavoro per le economie nazionali nel loro complesso e per vasti settori merceologici. La crescita della competitività non può essere disgiunta, secondo le indicazioni del Consiglio, da una revisione dei sistemi di fissazione dei salari, ad esempio evitando una eccessiva centralizzazione della contrattazione collettiva ed escludendo meccanismi di indicizzazione. Queste cautele riguardano, come è facile immaginare, anche il settore pubblico. La crisi greca dell’estate 2011 non è altro che un drammatico segnale di una prudenza tardivamente evocata. Quanto all’Italia, l’invito ad accrescere la competitività e a decentrare la contrattazione sui salari, nei settori pubblico e privato, si trova in una lettera inviata dalla Bce al governo italiano nell’agosto del 201124, nella fase in cui più acutamente si è fatto sentire il richiamo dell’Europa nel fronteggiare gli equilibri instabili dei mercati. Non è chiaro quali sanzioni si prospettino a fronte delle nuove pressanti indicazioni provenienti dal Consiglio europeo. Il richiamo al rispetto delle tradizioni nazionali e all’autonomia della contrattazione collettiva25, se non compensato da altre e più visibili misure

22   Conclusioni del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, Euco 10/1/11 Rev 1, 20 aprile 2011. 23   Sul Patto Euro Plus cfr. G. Napolitano, La crisi del debito sovrano e il rafforzamento della governance economica europea, in Id. (a cura di), Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, il Mulino, Bologna 2012, pp. 413-416. 24   http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governoitaliano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D. 25  Conclusioni del Consiglio europeo, Euco 10/1/11, cit., Allegato I, p. 16.

­­­­­14

di sostegno alle azioni delle parti sociali, appare insufficiente. Per il momento, l’enfasi posta sulle politiche di moderazione salariale e dunque sulla responsabilità delle parti sociali potrebbe alimentare ancor più la paura dell’Europa, in assenza di piani strategici più chiari sulla crescita e sulle politiche occupazionali. Tanto più quella paura circola fra i cittadini se i richiami sono contenuti in una lettera della Bce, una fonte a dir poco anomala nel quadro istituzionale europeo, che si è prestata a forti strumentalizzazioni nel dibattito italiano sulla riforma del mercato del lavoro, per via di un’enfasi eccessiva posta sull’urgenza di riformare la disciplina dei licenziamenti. In quel documento irrituale indirizzato all’Italia – da ritenersi moralmente, se non giuridicamente, vincolante nell’equilibrio delicato di poteri che la crisi economica e finanziaria ha innescato – la Bce ha adombrato una serie di misure, senza preferirne alcuna, anzi esprimendo l’opportunità di combinare interventi su vari fronti. Alla luce del Patto Euro Plus, si può sostenere che fra le misure urgenti da adottare avrebbero dovuto esserci indicazioni più stringenti circa le politiche salariali, per semplificarle e orientarle a valorizzare la produttività26. Altrettanto prioritaria avrebbe dovuto essere un’azione coerente per avviare politiche attive del lavoro, come confermato da successive prese di posizione del Consiglio27, seguite da un’articolata Comunicazione della Commissione28. Se si guarda agli esempi citati, sembra, ancora una volta, perpetrarsi un distacco fra politiche economiche e monetarie da un lato e politiche sociali dall’altro, proprio nel momento in cui i cittadini

Analoghe le indicazioni che provengono dall’Oecd, Economic Policy Reforms 2012: Going for Growth, Oecd Publishing, Paris 2012. 26   Il governo Monti ha ridotto la detassazione sul salario di produttività, introdotto con una misura del precedente governo (Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 23 marzo 2012, Individuazione dell’importo massimo assoggettabile all’imposta sostitutiva prevista dall’articolo 2, comma 1, lettera c), del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, nonché del limite massimo di reddito annuo oltre il quale il titolare non può usufruire della tassazione sostitutiva, Gazzetta Ufficiale n. 125 del 30 maggio 2012). Il 21 novembre 2012 è stata raggiunta un’intesa fra governo e parti sociali – senza la firma della Cgil – che prevede, tra l’altro, l’attuazione di misure sulla detassazione dei salari di produttività e valorizza a tal fine la contrattazione di secondo livello. 27   Conclusioni del Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012, Euco 4/1/12 Rev 1, 28 marzo 2012. 28  Comunicazione della Commissione, Verso una ripresa fonte di occupazione, cit.

­­­­­15

europei avvertono drammaticamente l’assenza di un sostegno finanziario, oltre che politico, a favore della crescita e dell’occupazione. In altre parole, la crisi sembra esasperare un’asimmetria che fin dalle origini ha caratterizzato le scelte dei padri fondatori dell’Europa, poco propensi ad aprire specifiche linee di bilancio per le politiche sociali, se non attraverso l’erogazione del Fondo sociale europeo (Fse) e degli altri fondi strutturali. Su questo aspetto, di grande rilievo nel dibattito corrente, si tornerà in seguito. Serve intanto completare, sia pure nelle grandi linee, il quadro di riferimento delle misure adottate dall’Ue nell’incalzare della crisi. 3. Le prime risposte alla crisi economica e finanziaria Le misure temporanee di sostegno agli Stati, varate a ridosso della crisi, sono destinate a convergere nel Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Questo passaggio, non secondario sul piano degli equilibri generali fra Stati membri e istituzioni europee, ha richiesto una modifica dell’art. 136 Tfue, norma che attiene alle misure volte a migliorare il funzionamento dell’unione economica e monetaria. Il Consiglio europeo ha deliberato su questa modifica, consistente nell’aggiunta di un nuovo paragrafo, da attuarsi attraverso la sottoscrizione di un Trattato29. Nel frattempo, l’aggravarsi della crisi greca, durante l’estate del 2011, ha reso sempre più incalzante il ricorso al Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf). Incardinato nell’ordinamento lussemburghese e istituito il 7 giugno del 2010 con Decisione dei sedici Stati membri dell’Eurogruppo – poi seguita dalla firma dell’European financial stability facility framework agreement il 7 giugno 2010, poi modificato il 21 luglio 2011 –, il Fesf ha agito nella fase transitoria, ovvero nell’attesa di una piena operatività del Mes, in accordo con gli Stati della zona euro, per sanare la crisi attraverso misure precauzionali, prestiti o altre forme di sostegno30. Il Consiglio europeo del 9 29  Conclusioni del Consiglio europeo, Euco 10/1/11, cit., Allegato II. In tema A. Viterbo, R. Cisotta, La crisi del debito sovrano e gli interventi dell’Ue: dai primi strumenti finanziari al fiscal compact, in «Il diritto dell’Unione europea», 2012, pp. 335 sgg. 30  Consiglio europeo, Dichiarazione dei capi di stato o di governo della zona euro e delle istituzioni dell’Ue, Bruxelles, 21 luglio 2011. Nel vertice del Consiglio

­­­­­16

dicembre 2011, nell’auspicare un anticipo al luglio del 2012 dell’entrata in vigore del Mes – inizialmente programmata per il 2013 – ha contestualmente deliberato sul «patto di bilancio», chiedendo agli Stati membri di apportare modifiche alle Costituzioni nazionali e riservando alla Cgue la competenza nel valutare il corretto recepimento di questa nuova regola sopranazionale31. Il 2 febbraio 2012 è stato firmato il «Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità»32. L’art. 3 prevede espressamente che compito del Mes è «mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità». In un’incalzante serie di innovazioni, il 2 marzo 2012, facendo seguito al già citato «patto di bilancio», è stato firmato, con l’astensione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, il «Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria», noto come Fiscal compact, che punta a un più forte coordinamento preventivo delle politiche economiche nella zona euro, anche al fine di conseguire gli obiettivi dell’Ue, fra cui la crescita sostenibile, l’occupazione, la competitività e la coesione sociale. Il 9 agosto 2012 il Conseil Constitutionnel francese si è espresso a favore della ratifica del Fiscal compact, senza una preventiva modifica della Costituzione, poiché esso pone vincoli di bilancio non diversi da quelli introdotti con il Trattato di Maastricht. In attesa della pronuncia di merito che stabilirà se sono state violate le competenze definite nei Trattati, la Corte costituzionale tedesca, con la sentenza del 12 settembre 2012 (2BvR 1390/12), ha dato il via libera all’introduzione del Mes e alla ratifica del Fiscal compact. La Corte specifica, tuttavia, che non dovranno essere predell’Unione europea del 30 marzo 2012 è stato concluso l’accordo sul fondo di salvataggio per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro, con dotazione di oltre 800 miliardi di euro; si veda la Dichiarazione dell’Eurogruppo, http://www. consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ecofin/129381.pdf. In tema A. Viterbo, R. Cisotta, La crisi della Grecia, l’attacco speculativo all’euro e le risposte dell’Unione europea, in «Il diritto dell’Unione europea», 2010, pp. 961-994. 31   Consiglio europeo, Dichiarazione dei capi di stato o di governo della zona euro, Bruxelles, 9 dicembre 2011, punto 13. La legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, recante l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 23 aprile 2012. 32  Per la ratifica e l’esecuzione del trattato che istituisce il Mes si veda la legge 23 luglio 2012, n. 116, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 28 luglio 2012.

­­­­­17

visti impegni aggiuntivi di spesa per la Germania, senza un consenso espresso da parte dei rappresentanti tedeschi nelle sedi istituzionali competenti. È superfluo porre l’accento sull’estrema complessità delle strategie intraprese dall’Europa a causa della crisi. Mentre l’Unione monetaria non è stata ancora completata e si lavora alla costruzione di un’Europa integrata nelle politiche fiscali, gli strumenti che sono stati generati dalla crisi sono di natura intergovernativa e si allontanano da un metodo europeo classico33. Questa scelta – è stato sostenuto – potrebbe tendere a marginalizzare ulteriormente il Parlamento europeo e, nel lungo periodo, delegittimare le istituzioni europee34. Si discute criticamente anche sui meccanismi decisionali prescelti nell’adozione delle misure di governance. Scegliendo lo strumento del Trattato, la sostanza delle decisioni si separa in modo significativo dal metodo europeo35, in un aggrovigliarsi di complicazioni che certo non aiuta i cittadini a comprendere il funzionamento delle istituzioni europee e a credere in esse. Il confronto è ora aperto su come correggere il Fiscal compact, al fine di fare spazio a misure per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale. Chi sostiene di aggiungere al Trattato un Protocollo36 ha in mente una riapertura delle trattative, fino al 1° gennaio 2013, data presunta entro cui il Trattato entrerà in vigore, se almeno dodici dei venticinque Stati firmatari avranno provveduto alla ratifica. Questa strategia presupporrebbe una forte mobilitazione delle grandi organizzazioni di interessi, oltre che dei principali governi nazionali più sensibili a correggere la marginalità delle politiche sociali. Una risoluzione intitolata Un patto sociale per l’Europa è stata adottata dal comitato esecutivo della Confederazione europea dei sindacati il 5-6 giugno 2012. In questo documento critico e allarmato 33   B. Marzinotto, A. Sapir, G.B. Wolff, What kind of fiscal union?, in «Bruegel Policy Brief», 6, November 2011. Critico anche G. Napolitano, La crisi del debito sovrano e il rafforzamento della governance economica europea, in Id. (a cura di), Uscire dalla crisi, cit., pp. 418 sgg. 34   V. Schmidt, Democratizing the Eurozone, in «Social Europe Journal», 15 May 2012. 35   K.A. Armstrong, Stability, coordination and governance: was a treaty such a good idea?, http://eutopialaw.com, 8 March 2012. 36  B. Hacker, The Fiscal Treaty Needs a Protocol, Friedrich-Ebert-Stiftung, June 2012, http://library.fes.de/pdf-files/id/ipa/09202.pdf.

­­­­­18

l’enfasi è posta sulla contrattazione collettiva e sul dialogo sociale, strumenti indispensabili a redistribuire gli oneri nella fase attuativa della nuova governance economica. Questa scelta è condivisibile, ma la riapertura di un confronto costruttivo non sembra facile. È intanto stato varato nel Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012 un Patto per la crescita e l’occupazione definito anche Growth compact37, che riorganizza una serie di proposte circolanti da tempo ed enfatizza il ricorso al finanziamento temporaneo delle nuove più urgenti misure – fra tutte quelle a favore dell’occupazione giovanile – con il ricorso al Fondo sociale europeo. Su quest’ultimo punto si deve segnalare l’impegno del Ministero per la coesione territoriale, guidato da Fabrizio Barca, nella riprogrammazione dei fondi europei. Avviato, fin dal dicembre 2011, in collaborazione con le regioni, questo intervento è giunto nell’ottobre 2012 in una fase operativa, con particolare riferimento alle regioni del Sud. Oltre a promuovere l’apprendistato su tutto il territorio nazionale, anche per mestieri a vocazione artigianale, i fondi serviranno a favorire l’uscita dalla condizione giovanile «né allo studio né al lavoro», divenuta nota con l’acronimo inglese Neet (not in education, employment, training). Il Piano d’azione coesione, frutto di accordi con la Commissione europea, consente di ridurre il tasso di co-finanziamento richiesto all’Italia, per avviare progetti concreti, ben circoscritti e costantemente monitorati. Il perdurare della crisi dovrebbe indurre le istituzioni europee a proporre nuovamente questo meccanismo anche oltre il 2013, soprattutto nelle regioni europee più svantaggiate. Una traccia di questo importante innesto fra politiche pubbliche nazionali e sopranazionali si intravvede nell’art. 4 comma 34 della recente riforma del mercato del lavoro (L. 28 giugno 2012, n. 92). Nella norma si prefigura un «sistema di premialità» per la ripartizione delle risorse provenienti dal Fondo sociale europeo, al fine di valorizzare le politiche attive del lavoro e i servizi per l’impiego.

37  Conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012, Euco 76/12, 29 giugno 2012.

­­­­­19

3.1. Un federalismo cooperativo Nel tentativo di combinare rigore ed efficienza, si avverte l’esigenza che le istituzioni europee predispongano sanzioni più incisive, oltre che meccanismi di verifica ex ante delle azioni intraprese dagli Stati. Esse dovrebbero favorire nuove forme di partecipazione e più agili sinergie fra le amministrazioni centrali e periferiche, per un pieno ritorno al metodo europeo. Il quadro istituzionale è adatto a questo rinnovamento. Il Trattato di Lisbona promuove, infatti, un federalismo cooperativo che dovrebbe tendere a una sorta di amministrazione mista nell’attuazione del diritto europeo, valorizzando la responsabilità degli Stati. Da un lato, l’art. 4 comma 3 Tue richiama il principio di «leale cooperazione» fra Unione e Stati membri nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati; dall’altro, l’art. 291 comma 3 Tfue prevede che siano adottati regolamenti, al fine di indicare in via preventiva le modalità del controllo esercitato dagli Stati membri sulle competenze della Commissione38. Sia pure in un quadro di accentuata collaborazione fra amministrazioni nazionali e istituzioni europee, le prerogative dell’ordinamento europeo sono tali da non trascurare la difesa delle sovranità nazionali. È sintomatica, a questo riguardo, la posizione assunta in alcune recenti decisioni dalla Corte costituzionale tedesca, attenta, non da ora, a difendere le proprie prerogative e con esse quelle dell’ordinamento nazionale. Sollecitata da ricorsi per violazione della legge fondamentale, presentati da alcuni accademici ostili alla moneta unica e da un parlamentare della Csu, la Corte costituzionale tedesca si è espressa nel settembre 2011 per confermare che le deliberazioni assunte in sede europea per fornire aiuti alla Grecia, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non minano l’autonomia del parlamento nella fissazione delle leggi di bilancio dello Stato. Chiamata nuovamente a esprimersi sul ricorso di due parlamentari socialdemocratici, la Corte costituzionale ha confermato nell’ottobre 2011 la centralità del parlamento tedesco nella sua interezza, per l’approvazione delle misure finanziarie di sostegno agli Stati e ha ritenuto illegittima, nonostante gli addotti motivi di urgenza e di 38  R. Schütze, From Rome to Lisbon: “Executive Federalism” in the (new) European Union, in «Common Market Law Review», XLVII, 2010, 5, pp. 1385-1427.

­­­­­20

semplificazione delle procedure decisionali, una commissione ad hoc composta di soli nove parlamentari. La misura cautelare adottata dalla Corte è stata confermata nel merito in una sentenza del 28 febbraio 2012. Queste recenti prese di posizione confermano il messaggio lanciato dalla Corte tedesca in altre occasioni, a proposito di temi diversi da quelli economici. Nel caso Honeywell39 essa si è confrontata con la Cgue, per affermare in termini nuovi la regola della cooperazione tra corti. A tal fine ha adottato un principio di “favore” verso l’Ue, ma, per valutare profili di controllo ultra vires esercitati dalla Corte di Lussemburgo, ha difeso l’identità dei principi costituzionali tedeschi, affermando che un principio generale di discriminazione per ragioni di età – era questo l’oggetto del caso in discussione – non può sconfinare in una violazione del sistema delle competenze, salvo che essa non sia «sufficientemente qualificata»40. Tali richiami, riferiti non a caso a un paese protagonista nella definizione delle misure di emergenza da adottare nella crisi, sono rappresentativi delle tensioni in atto fra parlamenti nazionali e istituzioni europee e servono a confermare da un lato l’origine delle paure che si diffondono fra i cittadini, dall’altro la centralità dei parlamenti nazionali nel creare reti di salvataggio adeguate. Non è sorprendente che le parti sociali stentino a trovare un proprio ruolo nel vortice di strategie determinate da potenti istituzioni sopranazionali. Ecco perché una linea critica di riflessione dovrebbe prendere corpo per affermare una rinnovata visibilità di quanti rappresentano gli interessi organizzati dei lavoratori e dei datori di lavoro. L’attenzione rivolta alle politiche sociali, spesso percepita come strumentale rispetto alle politiche di bilancio e di controllo della spesa pubblica, dovrebbe acquistare una sua dimensione progettuale nella definizione di piani di crescita e di sviluppo occupazionale, 39   La sentenza del 6 luglio 2010, pubblicata il 26 agosto 2010, è commentata da R. Caponi, Karlsruhe europeista (appunti a prima lettura del Mangold-Beschluss della Corte costituzionale tedesca), in «Rivista italiana di diritto pubblico comunitario», XX, 2010, pp. 1103 sgg. e da M. Fuchs, La lunga storia del caso Mangold, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2011, 129, pp. 87 sgg. 40   M. Mahlmann, The politics of constitutional identity and its legal frame. The ultra vires decision of the German Federal Constitutional Court, in «German Law Journal», XI, 2010, 12, p. 1415.

­­­­­21

soprattutto ai livelli sub-nazionali, dove più forte dovrebbe essere l’afflusso di nuovi finanziamenti. In altre parole, le organizzazioni che rappresentano le imprese e i lavoratori dovrebbero essere più attivamente incluse in una nuova dimensione concertativa e contribuire alla gestione trasparente delle risorse. In questo quadro di riferimento, le clausole sociali orizzontali – i già citati artt. 8 e 9 Tfue –, se opportunamente valorizzate quali norme vincolanti nell’avvio di strategie interpretative, potrebbero incidere significativamente nella definizione delle azioni da intraprendere. Si può ragionevolmente ritenere che, per la piena attuazione degli obiettivi programmatici che quelle norme pongono, si dovrebbero adottare misure incentivanti e premiali, da destinare agli Stati membri virtuosi. Su questi aspetti si avrà modo di ritornare in seguito, nel valutare lo stato delle politiche occupazionali europee, in vista della «piena occupazione» evocata dall’art. 3 comma 3 Tue come fattore di equilibrio nell’economia sociale di mercato. Guardiamo intanto quali vie potrebbe imboccare una auspicata nuova concertazione, a completamento di un ordinamento multilivello che valorizzi le sedi decisionali nazionali e sub-nazionali. 4. Le intuizioni del Rapporto Barca: coesione sociale e accordi di partenariato Si è già detto dell’urgenza di affiancare alle misure di austerità, imposte dalle strategie europee anticrisi, scelte più attente e incisive sul fronte delle politiche sociali e occupazionali. A tale riguardo, i primi interventi della Commissione appaiono, a distanza di tempo, guidati dall’emergenza, piuttosto che orientati ad attuare programmi di lungo periodo. Il piano anticrisi presentato nel 2008 consisteva, da un lato, nel rilanciare la domanda, attraverso incentivi finanziari, nel rispetto del patto di stabilità e di crescita. Dall’altro, esso prospettava iniziative strutturali a sostegno dell’occupazione, anche attraverso una semplificazione dei criteri per accedere ai finanziamenti provenienti dal Fse, ad esempio aumentando le quote da anticipare agli Stati41. 41  Comunicazione della Commissione al Consiglio europeo, Un piano europeo di ripresa economica, Com (2008) 800 definitivo, 26 novembre 2008.

­­­­­22

Una iniziativa parallela, ribadita in seguito nella Legge sulla piccola impresa42, prevedeva facilitazioni nell’accesso al credito delle piccole e medie imprese, in continuità con gli interventi emergenziali che hanno previsto misure temporanee di sostegno alle imprese, in deroga alle norme in materia di aiuti di Stato43. Come si vede, tutte queste prime iniziative, ispirate a criteri di eccezionalità e di urgenza, confermano le criticità del modello sociale europeo, già evidenziate in precedenza. Esse discendono, da un lato, dalla necessità di non distorcere la concorrenza nel mercato attraverso gli aiuti economici alle imprese, dall’altro dall’esiguità di linee di bilancio a sostegno delle politiche del lavoro, se si esclude il ricorso al Fse e agli altri fondi strutturali. Nel regime di federalismo cooperativo prima tratteggiato, l’uso di queste risorse dovrebbe essere governato da disposizioni comuni che consentano di aggregare i soggetti pubblici e privati di volta in volta interessati, secondo un principio di sussidiarietà. Per coinvolgere i governi locali e la società civile nell’attuazione dei programmi e nella gestione dei finanziamenti è in corso una riflessione all’interno della Commissione. Nel 2009 un segnale di forte razionalizzazione nell’uso delle risorse è venuto dal Rapporto Barca, un documento articolato che, sulla scorta di un’indagine accurata, ha individuato le molte inadempienze degli Stati membri nell’impiego dei fondi strutturali e l’esigenza di definire in modo chiaro i nessi fra i livelli delle amministrazioni interessate44. La traduzione in termini operativi dei principi enunciati nel Rapporto si ritrova ora nel pacchetto di proposte presentato dalla

42   Prevista dall’Atto per il mercato unico, già citato nella Premessa (cfr. supra, p. vii, nota 2). 43   Comunicazione della Commissione, Quadro di riferimento temporaneo comunitario per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria ed economica, 2009/C 83/01, successivamente aggiornato negli anni seguenti. In tema, A. Tonetti, Gli aiuti alle imprese e il rilancio dell’economia, in Napolitano (a cura di), Uscire dalla crisi, cit., pp. 214 sgg. 44   F. Barca, An Agenda for a Reformed Cohesion Policy, aprile 2009, un rapporto indipendente preparato su richiesta del commissario per le Politiche regionali. L’autore del rapporto è poi divenuto ministro per la Coesione territoriale nel governo presieduto da Mario Monti.

­­­­­23

Commissione il 6 ottobre 201145, volto all’emanazione di misure legislative che in modo stringente colleghino il sostegno finanziario alle priorità indicate nella strategia Europa 2020, di cui si dirà in seguito. Le politiche di coesione sociale dovrebbero, nell’immediato futuro, intersecare le politiche occupazionali attraverso un nuovo protagonismo di entità sub-nazionali. I cosiddetti contratti di partenariato, da stipulare fra Commissione e Stati membri, dovrebbero essere costruiti intorno a precisi adempimenti, in modo tale da condizionare l’assegnazione dei fondi strutturali a valutazioni ex ante e misurare ex post i risultati nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Devono essere previste sanzioni per gli Stati inadempienti che, dalla sospensione dei finanziamenti, si spingano fino a prevederne la cancellazione. La Commissione suggerisce ora che si adotti un codice di condotta per la definizione degli obblighi di ciascun partner, in modo da giungere alla formale sottoscrizione di accordi assimilabili a patti territoriali, verso cui i finanziamenti dovranno essere erogati. A seguito dell’entrata in vigore di un Regolamento sulle disposizioni comuni, il codice di condotta dovrebbe essere adottato dalla Commissione quale “atto delegato” che serva a facilitare il coordinamento delle politiche pubbliche46. Gli accordi di partenariato non dovrebbero, infatti, riguardare singole imprese, ma più ampie comunità di stakeholders, investite di responsabilità comuni. Mentre è da intendersi obbligatorio il ricorso ai contratti di partenariato per il periodo 2014-2020, le modalità per la stipulazione e per la selezione dei partner sono lasciate alla discrezionalità degli Stati membri. La nomina di comitati di sorveglianza, preposti alla preparazione e al monitoraggio dei progetti e rappresentativi dei soggetti coinvolti, rende sempre più composito l’impianto su cui dovrebbero poggiare le nuove intese territoriali. Si suggerisce che i soggetti che partecipano, incluse le parti sociali, siano destinatari di un sostegno

45   Commissione europea, Politica di coesione 2014-2020. Investire nella crescita e nell’occupazione, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, Lussemburgo 2011. 46   Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Il principio di partenariato nell’attuazione dei Fondi del quadro strategico comune: elementi per un codice di condotta europeo sul partenariato, Swd (2012) 106 definitivo, Bruxelles, 24 aprile 2012, p. 5.

­­­­­24

formativo per apprendere le tecniche di una gestione finanziaria sana ed efficiente e per metterle in atto. Ancora una volta, l’ordinamento multilivello non smette di sorprenderci quanto alla rivisitazione del sistema delle fonti. Una fonte volontaria – il codice di condotta – se adottata come atto delegato darebbe vita a intese vincolanti, costruite intorno a obblighi stringenti dei partner, responsabili, come si è visto, della gestione finanziaria oltre che operativa dei programmi. La formula è interessante, perché ripresenta una commistione di tecniche regolative, non nuova nella tradizione delle politiche sociali europee e tuttavia rivisitata e adattata, in modo da soddisfare le aspettative di soggetti dislocati a livelli nazionali e sub-nazionali. Per le organizzazioni che rappresentano datori di lavoro e lavoratori il codice di condotta dovrebbe precisare i criteri di rappresentatività settoriale e intersettoriale, a ulteriore garanzia della vincolatività delle intese raggiunte. Alla luce di queste novità, è opportuno entrare nel merito delle proposte che più da vicino attengono alle politiche occupazionali europee. Una prima conclusione si può trarre da quanto detto. L’integrazione, specialmente in periodi di crisi, si rafforza mettendo in campo strumenti che incoraggino la cooperazione. Questo principio vale per le diverse aree geografiche dell’Europa, come pure per le amministrazioni nazionali e sopranazionali e, a maggior ragione, per le parti sociali. Le sfide lanciate da un processo di integrazione sempre aperto, come quello in atto nell’Ue, sono molteplici, proprio perché prefigurano soluzioni adattabili. Il ricorso a incentivi economici premiali, conferiti secondo i criteri chiariti dal Rapporto Barca e ora indicati dalle Conclusioni del Consiglio del 30 gennaio 201247 e da successive prese di posizione delle istituzioni europee, potrebbe aprire la strada a nuove sinergie e individuare percorsi realistici di crescita occupazionale. Questa complessa manovra non basterebbe certo da sola a innescare la crescita, ma diventerebbe una importante premessa, soprattutto perché adatta a sostenere regimi di solidarietà caratterizzati da punti di partenza disomogenei. 47   Consiglio europeo, Dichiarazione dei membri del Consiglio europeo. Verso un risanamento favorevole alla crescita e una crescita favorevole alla creazione di posti di lavoro, Bruxelles, 30 gennaio 2012.

­­­­­25

Quel che è certo è che la lentezza dei processi di riforma si fa sentire più che mai, proprio quando si avvertono nella loro gravità gli effetti della crisi. La riforma del bilancio europeo, prevista per il 2014-2020, si prefigge di aprire percorsi nuovi di intervento, strutturalmente collegati ai nuovi obiettivi che l’Ue si è posta. Le speranze, in questa fase, non possono che essere riposte nella creazione di nessi più stretti fra le politiche di coesione sociale e territoriale, da un lato, e l’attuazione della strategia Europa 2020, dall’altro. L’obiettivo da raggiungere, al di fuori di una logica meramente burocratica di coordinamento fra amministrazioni, è la crescita degli Stati membri economicamente meno sviluppati e la valorizzazione di aree geografiche economicamente svantaggiate, in cui più preoccupanti appaiono i dati della disoccupazione48. I regimi nazionali di solidarietà non possono non aprirsi alla comprensione di questa novità. Il protezionismo, anche se esercitato nei confronti dei sistemi nazionali di contrattazione collettiva e delle tutele che da essi emergono, non è una carta vincente, proprio perché si pone in controtendenza rispetto all’integrazione del mercato unico europeo. Un antidoto è dunque da ricercare in più strette sinergie all’interno dell’ordinamento multilivello, con l’apertura di nuove sedi negoziali e concertative che sfruttino in modo virtuoso le risorse finanziarie erogate dall’Ue e che assegnino nuove responsabilità alle parti sociali. 48   A fronte di un calo del Pil, già grave nel 2009 per i paesi baltici (Estonia -13,9%, Lituania -14,7%, Lettonia -18%), i paesi del Nord Europa si collocano ai primi posti nel mondo per competitività negli anni 2010-2011. Cfr. il contributo di sedici think tank europei, coordinati da Notre Europe, in E. Fabry (a cura di), Think Global - Act European, Notre Europe, Paris 2011, p. 20.

Capitolo II

La strategia «Europa 2020» e le politiche di «flexicurity»

1. Alle origini del Metodo aperto di coordinamento Il documento programmatico posto al centro del dibattito più recente, per favorire una crescita «intelligente, sostenibile e inclusiva», è Europa 20201. Le proposte avanzate rappresentano l’ultimo anello di una lunga catena di iniziative intraprese dalle istituzioni europee per colmare le lacune del diritto sociale europeo nel campo delle politiche attive del lavoro e della lotta alla disoccupazione. Nel 2000 si svolse a Lisbona uno storico vertice europeo, durante la presidenza portoghese del Consiglio2. Quel vertice è stato, tra l’altro, ricordato per aver lanciato la “strategia di Lisbona”, orientata a valorizzare le politiche occupazionali anche attraverso un migliore coordinamento dei processi esistenti, in particolare il coordinamento delle politiche economiche, strutturali e di coesione sociale e il potenziamento di una economia della conoscenza. Le scelte istituzionali più risalenti nel tempo – le modifiche apportate con il Trattato di Amsterdam e le prese di posizione assai nette dei Consigli europei di Lussemburgo nel 1997 e di Colonia nel 1999 –

1   Comunicazione della Commissione, Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, Com (2010) 2020 definitivo, 3 marzo 2010. In tema A. Alaimo, Da ‘Lisbona 2000’ a ‘Europa 2020’. Il ‘Modello sociale europeo’ al tempo della crisi: bilanci e prospettive, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», 2012, III, pp. 219 sgg.; S. Borelli, Le politiche del lavoro nazionali nell’ambito della strategia Europa 2020 e della governance economica europea, in «Lavoro e diritto», XXVI, 2012, pp. 465 sgg. 2  Consiglio europeo straordinario del 23-24 marzo 2000.

­­­­­27

avevano messo in luce la debolezza degli impegni assunti per tentare di invertire la rotta negativa delle politiche occupazionali. Per rafforzare l’operatività di un’agenda così densa di punti programmatici si decise di dotare il Consiglio di più forti poteri di coordinamento, attraverso l’emanazione di linee guida indirizzate agli Stati membri, da intendersi quali indicazioni coerenti e autorevoli circa le politiche nazionali da adottare. Nell’ambiente propositivo creatosi intorno al vertice di quella presidenza portoghese fu coniata la formula, divenuta poi molto fortunata, del Metodo aperto di coordinamento (Mac)3. Sul piano pratico le linee guida del Consiglio avrebbero dovuto innescare comportamenti virtuosi dei governi, all’interno di un processo di reciproca emulazione, per promuovere le politiche occupazionali, appartenenti a una sfera non secondaria di manifestazione della sovranità nazionale. Il Trattato, a ragione, non indica tale materia fra quelle da “armonizzare”, ma preferisce governarla attraverso il coordinamento, che è per definizione una tecnica regolativa non vincolante. L’istituzione del cosiddetto Consiglio di primavera, dedicato a trattare ogni anno temi economici, sociali e legati all’occupazione, si deve alla fervida volontà comunicativa delle istituzioni europee in quello storico vertice portoghese, quasi a voler contrastare la scarsa visibilità delle politiche sociali e invertire una rotta non favorevole. Come si è detto, il Trattato di Lisbona conferma l’operatività del vertice trilaterale, menzionandolo all’art. 152 Tfue. Sul piano teorico il Mac ha risvegliato un forte interesse fra i cultori della democrazia deliberativa, nella stagione di maggior fulgore della governance europea avviata con la pubblicazione di un Libro bianco della Commissione4. L’apertura degli apparati istituzionali all’apporto della società civile e di numerosi stakeholders, portatori di interessi diffusi, serviva, in quegli anni, a garantire una maggiore trasparenza dei processi decisionali. Era questo un modo per rispon3   Cfr. E. Ales, M. Barbera, F. Guarriello (a cura di), Lavoro, welfare e democrazia deliberativa, Giuffrè, Milano 2010; M. Barbera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffrè, Milano 2006; D. Ashiagbor, The European Employment Strategy: Labour Market Regulation and New Governance, Oxford University Press, Oxford 2005. 4  Commissione europea, La governance europea. Un libro bianco, Com (2001) 428 definitivo, 5 agosto 2001.

­­­­­28

dere a una crisi di affidabilità, dopo la squalificata performance della Commissione presieduta da Jacques Santer e le dimissioni consegnate prima della fine del mandato nel marzo del 1999. Nata come soluzione regolativa leggera, proprio perché legata a una fase di transizione e di riassestamento delle istituzioni europee, la governance è stata coltivata come teoria onnicomprensiva all’interno di importanti circoli accademici5, anche se talvolta caricata di contenuti esorbitanti rispetto agli obiettivi più immediati da raggiungere. Apprendimento reciproco e benchmarking sono state alcune delle parole chiave adoperate per stimolare da parte degli Stati membri risposte in qualche modo coordinabili e attinenti alle linee guida del Consiglio. Nel valutare i piani nazionali presentati dai governi, in assenza di un regime chiaro di sanzioni, il Consiglio ha fatto ricorso alla sua forza persuasiva, affiancato in questo dall’opera della Commissione, incaricata di definire un sistema di «indicatori sociali» al fine di misurare le politiche occupazionali nazionali e procedere al loro coordinamento6. L’impianto intergovernativo su cui questo metodo comunitario poggiava non sempre è stato assistito da apparati amministrativi qualificati e stabili a livello nazionale, tali da dare seguito e concretezza alle indicazioni provenienti dal centro7. La natura quasi esclusivamente declamatoria dei piani nazionali proposti dai governi ha finito con il marginalizzare i parlamenti nazionali, senza peraltro valorizzare appieno le sedi decisionali sub-nazionali e il ruolo delle parti sociali. Tuttavia, alcune sinergie sono state create e alcuni “ponti” costruiti fra le varie anime delle politiche sociali, dando luogo a interessanti ibridazioni fra fonti di diritto vincolante e soft law8. 5   O. De Schutter, N. Lebessis, J. Paterson (a cura di), Governance in the European Union, Forward Studies Series, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2001. 6   A. Atkinson, B. Cantillon, E. Marlier, B. Nolan, Social Indicators: the EU Social Inclusion, Oxford University Press, Oxford 2002. 7   Riferimenti all’Italia in M. Ferrera, E. Gualmini, Salvati dall’Europa?, il Mulino, Bologna 1999. Cfr. anche M. Ferrera, M. Giuliani (a cura di), Governance e politiche nell’Unione europea, il Mulino, Bologna 2008. 8   C. Kilpatrick, New Eu employment governance and constitutionalism, in G. de Búrca, J. Scott (a cura di), Law and new governance in the Eu and the Us, Hart Publishing, Oxford 2006, pp. 131 sgg.

­­­­­29

Una prima valutazione critica della strategia di Lisbona si trova nel Rapporto redatto dalla task force nominata dai capi di Stato e di governo e presieduta da Wim Kok, un ex primo ministro olandese9. Alcuni spunti propositivi contenuti in quella ricostruzione non hanno perso di attualità ed è dunque utile ricordarli. L’esito più preoccupante di cattive politiche occupazionali – si sostiene nel Rapporto – è la divisione del mercato del lavoro fra insiders e outsiders, poiché questo dato compromette un bilanciamento equilibrato fra flessibilità e sicurezza. Il lavoro dovrebbe essere «una vera opzione per tutti» e dunque garantire sia la parte della popolazione che invecchia, sia i giovani in cerca di lavoro. Una grande risorsa è costituita dalla formazione, specialmente per i lavoratori più anziani e per quelli meno qualificati. Serve inoltre intrecciare in modo efficiente la domanda e l’offerta di lavoro, anticipando i bisogni delle imprese che chiedono competenze specifiche. Si deve rompere il circolo improduttivo del basso investimento nella formazione, attraverso una condivisione dei costi, con il coinvolgimento del livello regionale e locale10. La formazione diviene la risorsa vincente, se si considera che il declino nella crescita della produttività fu, già all’inizio degli anni 2000, attribuito da taluni alla riduzione dell’orario medio di ore lavorate, dovuta all’espansione del lavoro part-time. Ugualmente vincente avrebbe dovuto essere la crescita dell’imprenditorialità, attraverso una formazione mirata dei giovani manager e uno stimolo propulsivo all’innovazione. Ecco perché il Rapporto Kok punta sul controllo circa l’attuazione dei programmi nazionali e non più sulla presa d’atto delle promesse dei governi. Di questo – ovvero del permanere di uno iato incolmabile fra programmi presentati dai governi e loro pratica attuazione – si discute ancora oggi, con drammatico ritardo. La critica circostanziata alla strategia di Lisbona, presentata dalla task force guidata da Kok, consentì una rivisitazione del Mac, molto auspicata dal presidente della Commissione Barroso nel 2005, all’inizio del suo primo mandato. Il fallimento di quella formula è certo attribuibile alla debolezza della soft law e alla mancanza di 9   Jobs, jobs, jobs. Creating more employment in Europe, Rapporto della task force per l’occupazione presieduta da Wim Kok, novembre 2003, Office for official publications of the EC, Luxembourg 2004. 10  Ivi, p. 10.

­­­­­30

un regime sanzionatorio incisivo. Altrettanto grave fu l’assenza di una reale condivisione nelle priorità da perseguire, consentita dalla pratica di un metodo intergovernativo tanto incerto nei presupposti istituzionali, quanto fluttuante rispetto ai risultati. La de-politicizzazione dei processi deliberativi, senza la guida certa delle istituzioni europee, non segnò il successo di una burocrazia illuminata, quanto piuttosto il declino degli stati regolatori, essenziali nella definizione delle politiche occupazionali e nel reperimento delle risorse per attuarle. Si può dire, a distanza di tempo, che in un sistema che ambisce a divenire più integrato, l’assenza di sanzioni nei confronti degli Stati membri inadempienti o inefficienti contribuisce a deresponsabilizzare le amministrazioni nazionali e dunque ad affondare la tecnica del coordinamento. Per questo motivo e per la lungimiranza dell’analisi svolta, il Rapporto Kok, anche dopo alcuni anni, deve essere segnalato fra i documenti più rilevanti nel dibattito sulle politiche occupazionali. Le scelte rese necessarie dalla crisi sono tali da confermare alcune delle priorità fin da allora individuate e l’indifferibilità di finanziamenti europei a sostegno delle stesse. Appare sempre più chiaro che le politiche occupazionali promosse all’interno dei singoli ordinamenti nazionali non possono essere disgiunte dalle politiche di coesione sociale, proprio perché solo in questo modo si accorciano le distanze fra insiders e outsiders nel mercato del lavoro. Per raggiungere questi obiettivi è essenziale una forte unità politica all’interno delle istituzioni europee e una conseguente determinazione nelle scelte operative. Un giudizio critico sul ruolo svolto dal Consiglio non è solo riconducibile alla mutevolezza delle maggioranze politiche che in esso si formano. Una critica più specifica, già proposta in precedenza, attiene all’estrema informalità del vertice sociale trilaterale (art. 152 Tfue). Strutturalmente sconnesso rispetto alle procedure del coordinamento aperto, anche nella versione rivisitata dalla Commissione nella prima presidenza di Barroso e confermata durante il suo secondo mandato, quel Consiglio si riunisce in una formazione allargata alla partecipazione delle parti sociali, senza che queste possano incidere in modo penetrante nella fase decisionale vera e propria. Sono calzanti, a questo riguardo, le proposte, formulate a proposito di riforme da imprimere ai Trattati, che auspicano l’unificazione in una sola persona del presidente del Consiglio e della Commissio­­­­­31

ne, per accrescere «l’unità di guida» propria dei regimi democratici11. Una più forte personalizzazione di chi esercita allo stesso tempo poteri di indirizzo e di comando renderebbe, forse, meno fragile l’impianto non vincolante su cui poggiano le politiche occupazionali europee. A questo si aggiunge un’altra critica, niente affatto marginale, che riguarda l’esclusione del controllo di legittimità da parte della Cgue su raccomandazioni o pareri del Consiglio (art. 263 comma 1 Tfue). Tali sono da intendere gli «orientamenti di cui devono tener conto gli Stati membri nelle rispettive politiche in materia di occupazione» (art. 148 comma 2 Tfue)12. Le politiche occupazionali, prive di una propria giustiziabilità, si muovono su un terreno istituzionalmente debole, tenuto insieme da flebili vincoli intergovernativi. Tanto più si accentua questa debolezza, quanto più si affastellano le misure urgenti da adottare per contrastare la crisi e i suoi devastanti effetti. 2. Alcuni contenuti di «Europa 2020». L’incerto ruolo del Consiglio europeo Per contrastare il fallimento della strategia di Lisbona, gli instancabili tessitori delle politiche occupazionali hanno incrociato un nuovo ordito, su una trama non troppo diversa dalla precedente. L’agenda di Europa 2020 è densa di proposte, nello spirito dell’integrazione delle politiche e dunque di una maggiore sinergia nelle misure da adottare. Si noti che, secondo il Trattato di Lisbona (artt. 121 e 146 Tfue), gli Stati membri devono considerare le proprie politiche economiche e occupazionali come materie di «interesse comune», pertanto oggetto di coordinamento. Siamo ancora nel cuore dell’ormai sperimentata tecnica regolativa, il Mac, opportunamente rivisitato durante la prima presidenza Barroso della Commissione al fine di richiedere agli Stati membri adempimenti più precisi, contenuti nei Pnr. Gli orientamenti del Consiglio sono ora più essenziali e strettamente interconnessi. Essi includono pressanti inviti ai par11  A. Padoa-Schioppa, Linee di riforma per la nostra Europa, in «il Mulino», 2012, 3, p. 501. 12  Su questo aspetto si sofferma C. Barnard, The Shaky Legal Foundations for Institutional Action Under the Employment, Lisbon and EU 2020 Strategies, in C. Barnard, O. Odudu (a cura di), The Cambridge Yearbook of European Legal Studies, vol. 12, 2009-2010, Hart Publishing, Oxford 2010, p. 16.

­­­­­32

lamenti nazionali affinché adottino politiche di flexicurity, cioè di accentuazione della flessibilità nei mercati del lavoro nazionali, non disgiunte dall’introduzione di tutele per i lavoratori13. L’espressione flexicurity è ricorrente nei dibattiti nazionali e si presta a molte semplificazioni. Di là dall’opportunismo che talvolta si nasconde nell’uso di questa espressione accattivante, l’accento andrebbe posto sulle proposte concrete che dovrebbero essere presentate, per raggiungere gli obiettivi indicati in Europa 2020. Nel fare solo qualche cenno ai contenuti programmatici della nuova strategia per la crescita e l’occupazione, è utile rilevare che il 3% del Pil dovrebbe essere accantonato per finanziare la ricerca e lo sviluppo. Il 75% della popolazione attiva fra i 20 e i 64 anni dovrebbe avere un lavoro, mentre interventi legislativi in materia di clima, energia e riduzione delle emissioni, in vista dello sviluppo di fonti di energia rinnovabile, dovrebbero funzionare come volano dell’economia. Il tasso di abbandono scolastico dovrebbe essere ridotto, così come dovrebbe crescere la percentuale dei laureati ed essere ridimensionato drasticamente il numero di quanti rischiano di entrare nella soglia di povertà. Questi obiettivi appaiono, ora più che mai, smisurati, a fronte dell’aggravarsi della crisi. Sia la Commissione14, sia il Consiglio15 hanno da tempo preso atto della impossibilità di rispettare gli impegni assunti e hanno reiterato le indicazioni agli Stati membri, affinché rimuovano gli ostacoli, anche di natura fiscale, che costringono i soggetti più deboli nelle “trappole” della disoccupazione. È stata necessaria – ed è ancora in corso con la riforma del bilancio europeo per gli anni 2014-2020 – una nuova programmazione per il ricorso ai fondi strutturali europei, ad esempio attraverso aiuti 13   Per una prima ricognizione, cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Verso principi comuni di flessicurezza: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza, Com (2007) 359 definitivo, 27 giugno 2007; S. Sciarra, Is Flexicurity a European Policy?, Urge Working Paper 4/2008, http://www. urge.it/files/papers/2_wpurge4_2008.pdf; F. Berton, M. Richiardi, S. Sacchi, Flexinsecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, il Mulino, Bologna 2009. 14   Comunicazione della Commissione, Analisi annuale della crescita per il 2012, Com (2011) 815 definitivo, 23 novembre 2011. 15  Conclusioni del Consiglio europeo dell’1-2 dicembre 2011, Euco 139/1/11 Rev 1, 25 gennaio 2012.

­­­­­33

mirati alle piccole e medie imprese, particolarmente svantaggiate nell’accesso al credito, o con l’avvio di nuovi investimenti nei settori del risparmio energetico e delle energie rinnovabili, ovvero nella predisposizione di programmi a sostegno dei disoccupati di lunga durata e dei giovani in cerca di occupazione. Indagini recenti dimostrano che già dal 2008, a seguito dei molti licenziamenti intervenuti a causa della crisi, la matrice della flexicurity è cambiata. Le strategie nazionali dovrebbero tendere a valorizzare di più la sicurezza del posto di lavoro e fornire strumenti di sostegno ai gruppi di lavoratori vulnerabili, rispetto all’iniziale obiettivo della sicurezza nell’occupazione. Quest’ultima opzione, da molti osservatori a lungo auspicata, avrebbe dovuto prevedere un agile passaggio attraverso vari lavori e dunque rafforzare le tutele nel mercato16. Si potrebbe scetticamente osservare che la crisi non consente di volare troppo alto nei cieli della politica. Per questo, con un’impostazione molto pragmatica, gli attori istituzionali ai vari livelli di competenza sembrano interessati a sfruttare tutte le sinergie esistenti, mettendo insieme politiche e risorse. Ad esempio, si è levata criticamente la voce del Comitato economico e sociale – un organo consultivo previsto dal Trattato, che rappresenta le parti sociali e altri gruppi di interessi organizzati (artt. 301-304 Tfue) – nel valutare il collegamento con le realtà territoriali per l’attuazione dell’agenda di Europa 202017. La crescita intelligente dovrebbe, infatti, essere meglio collegata all’utilizzo dei fondi di coesione sociale, per favorire una forte specializzazione degli interventi e una valorizzazione della ricerca, proiettata sulle esigenze locali. Sulla stessa lunghezza d’onda si sono mossi, come abbiamo visto, il Rapporto Barca e le proposte della Commissione che a esso si ispirano. Il pacchetto per gli anni 2014-2020 presentato dalla Commissione è ora inequivocabilmente orientato a concedere finanziamenti solo per obiettivi prioritari e ben identificati. Il Fse, ad esempio, dovrà essere finalizzato al raggiungimento degli obiettivi indicati in Europa 16   Eurofound, Flexicurity: perspectives and practice, Foundation Findings, Dublin 2010, pp. 8 sgg. A questo riguardo la recente riforma italiana del mercato del lavoro sembra, invece, aver enfatizzato eccessivamente le misure sulla flessibilità in uscita. 17   Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema «Il contributo della politica regionale alla crescita intelligente nell’ambito di Europa 2020», Com (2010) 553 definitivo, 2011/C 318/13, 14 luglio 2011.

­­­­­34

2020, in modo da rendere efficace il suo impatto sulle realtà nazionali18. Nel Patto per la crescita e l’occupazione il Consiglio dichiara che per raggiungere gli obiettivi dettati nella strategia di Europa 2020 gli Stati devono fare ricorso al Fse per programmare le misure più urgenti, fra cui il sostegno all’occupazione giovanile attraverso tirocini e formazione subito dopo il completamento degli studi e con il ricorso a incentivi temporanei per le assunzioni19. Il ricorso a «indicatori compositi», ovvero a una tecnica statistica sofisticata in grado di misurare dettagliatamente i singoli interventi nelle politiche di flexicurity, dovrebbe servire da guida nell’assegnare le risorse in modo virtuoso, oltre che efficiente20. Ad esempio, l’indicatore che si riferisce alla «formazione lungo l’arco della vita» serve a misurare non solo la partecipazione a programmi formativi, ma anche l’intensità dell’attività, in termini di ore e costi. L’indicatore concernente i contratti flessibili non si ferma a cogliere il dato della flessibilità in uscita, ma misura parallelamente la flessibilità interna e tiene conto della segmentazione dei mercati del lavoro. L’indicatore sulle politiche attive del lavoro non guarda solo alla spesa complessiva rispetto al Pil, ma esamina i programmi e la loro attuazione, valutando la spesa per ciascuna persona che ha partecipato e che intende lavorare. Gli indicatori dovrebbero cogliere, in altre parole, il punto di equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza al fine di premiare quanti raggiungono quell’obiettivo. Il ricorso al metodo statistico non è infrequente nella pratica del Mac. Riferiti alle politiche sociali, gli indicatori hanno il merito di offrire parametri oggettivi, cui ancorare le scelte dei governi, in modo tale da rendere comparabili le loro performance e facilitarne la 18   Commissione europea, Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca compresi nel quadro strategico comune e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione, e che abroga il regolamento (CE) n. 1083/2006, Com (2011) 615 definitivo, 6 ottobre 2011. 19   Conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012, Euco 76/12, 29 giugno 2012, p. 12. 20   A. Manca, M. Governatori, M. Mascherini, Towards a Set of Composite Indicators on Flexicurity: a Comprehensive Approach, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2010, http://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/ handle/111111111/13518.

­­­­­35

verifica da parte delle istituzioni europee. Tuttavia, nell’ambito della soft law europea, per definizione alternativa alla tecnica regolativa dell’armonizzazione, gli indicatori rischiano di essere sovrastimati, se intesi quali unici strumenti di misurazione. Nel tentativo di specificare i metodi di valutazione delle politiche legislative è stata studiata in termini comparativi anche la “percezione” della sicurezza che i lavoratori hanno, riguardo alla possibile perdita di lavoro e alla riduzione della retribuzione. Gli esiti dell’indagine comparata, svolta sui dati dello European Social Survey, sono rivelatori, poiché mostrano che le maggiori rassicurazioni provengono per i lavoratori dalla combinazione delle quattro principali misure legate alla flexicurity, ovvero formazione lungo l’arco della vita, politiche attive del lavoro, sistemi moderni di sicurezza sociale e contratti di lavoro flessibili, ma affidabili21. I percorsi di flexicurity indicati dalla Commissione e progressivamente incorporati nelle linee guida del Consiglio, sono stati, non a caso, ispirati da un gruppo di esperti guidato da un sociologo olandese22. L’Olanda si distingue nel panorama comparato per aver sperimentato riforme legislative che intrecciano la flessibilità con la sicurezza in modo virtuoso, specialmente nelle leggi del 1998 e del 1999 (Allocation of Workers by Intermediates Act, 1998, e Flexibility and Security Act, 1999) che regolamentano il rapporto dei lavoratori dipendenti da agenzie di lavoro temporaneo23. Si deve, tuttavia, ricordare che il buon esito delle riforme adottate dipende spesso da fattori che sfuggono alla rilevazione statistica e rispondono piuttosto alle tradizioni sindacali, al ruolo riservato alle parti sociali e al funzionamento delle istituzioni nel mercato del lavoro, al tasso di sindacalizzazione o alla diffusione della contrattazione 21   W. van Oorschot, H. Chung, Feelings of Insecurity Among European Workers in the Context of Flexicurity Policies and Socio-Economics Conditions, Reflect Research Paper 11/001, February 2011, p. 16, http://papers.ssrn.com/sol3/papers. cfm?abstract_id=1769769. 22   Il gruppo di esperti, presieduto dal sociologo olandese T. Wilthagen, ha prodotto il Rapporto Flexicurity Pathways. Turning hurdles into stepping stones, Bruxelles, giugno 2007, documento influente nella definizione dei successivi orientamenti della Commissione. 23   The evolution of labour law in the Netherlands, in S. Sciarra (a cura di), The evolution of labour law (1992-2003), vol. 2, National Reports, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2005, pp. 429 sgg.

­­­­­36

collettiva. Il successo del modello olandese deriva, non a caso, da una buona combinazione di questi fattori. Altro dato da non sottovalutare è la litigiosità fra le parti, che lascia importanti spazi per l’intervento dei giudici nazionali e segnala orientamenti interpretativi diversi, spesso mutevoli. Vi è inoltre da considerare che, attraverso il rinvio pregiudiziale alla Cgue, i giudici nazionali possono, nell’ambito di controversie nazionali, avviare una verifica circa la perfetta aderenza del diritto interno alle norme europee. Anche questo canale di comunicazione fra corti può divenire un’utile spia per misurare l’adeguatezza e l’efficienza delle scelte compiute dai legislatori nazionali. Le procedure e gli atti che rientrano nel Mac sono, invece, sottratti alla competenza della Cgue. Si conferma dunque una separazione fra politiche occupazionali, sospese nelle zone interstiziali di altre politiche europee non giustiziabili, e diritti individuali azionabili nelle corti nazionali. Quest’ultima via è stata praticata per le materie – ad esempio i contratti di lavoro a tempo determinato e part-time – regolamentate da Direttive, ovvero da fonti vincolanti. Vi è dunque motivo di ritenere che, nel quadro variegato delle soluzioni regolative proposte a livello dell’Ue, la presenza di fonti di diritto europeo primario serva a costruire un più solido edificio di diritti. La tecnica dell’armonizzazione non cessa di esercitare il suo fascino in un mercato interno non ancora pienamente integrato. Essa potrebbe, proprio in tempi di crisi, sprigionare nuove energie e consolidare nuovi principi di diritto sociale europeo. 3. Sperimentazione e monitoraggio. Il ruolo della Commissione Come si è visto, il perfezionamento delle tecniche regolative attraverso cui sospingere le politiche occupazionali verso traguardi sempre più avanzati non sembra ancora del tutto avviato. Vi sono, tuttavia, alcuni segnali da cogliere nelle molte attività di monitoraggio che la Commissione promuove, quasi a voler riempire di dati qualitativi, oltre che quantitativi, il paniere delle risorse e predisporre informazioni utili per comprendere le debolezze dei sistemi normativi, nel tentativo di correggerle. Uno di questi è il monitoraggio incentrato sulle ristrutturazioni aziendali, che si basa su informazioni raccolte a livello nazionale, attraverso corrispondenti che usano come fonti i principali organi ­­­­­37

di stampa24. L’esito atteso è la conoscenza delle strategie imprenditoriali che implicano riduzione della forza lavoro e licenziamenti collettivi. Lo studio sulle risorse messe in campo e sui soggetti coinvolti dovrebbe consentire di «anticipare il cambiamento», il che vuol dire prevedere situazioni di forte rischio occupazionale per intervenire, spesso attraverso la contrattazione collettiva o il coinvolgimento di soggetti pubblici. Nelle imprese europee o nei gruppi di imprese europee è frequente, a tale riguardo, il coinvolgimento di organismi di rappresentanza dei lavoratori denominati Comitati aziendali europei (Cae), attivi nelle imprese e nei gruppi di imprese europei25. L’attività di monitoraggio sulle ristrutturazioni aziendali ha indotto la Commissione a redigere un Libro verde, in vista dell’adozione di una Direttiva26. Le considerazioni sono molto ampie e intersecano in parte le misure di flexicurity, divenute ancora più centrali nelle politiche occupazionali a seguito della crisi. Nella prima parte del 2009 è stato frequente il ricorso a riduzioni di orario o all’adozione di schemi flessibili nella gestione delle ore di lavoro, al fine di evitare licenziamenti. Queste soluzioni, ricercate prevalentemente attraverso la contrattazione collettiva, con l’obiettivo di fronteggiare situazioni di emergenza, abbassano nel lungo periodo il livello di produttività e non favoriscono la crescita dei salari. Per questo è auspicabile anticipare il cambiamento e formare nuove professionalità, favorire lo sviluppo delle carriere e la mobilità professionale attraverso una diretta utilizzazione del Fse. La perdita di posti di lavoro dovrebbe indurre a programmare percorsi diversificati, se non addirittura indi­ vidualizzati, per la ricollocazione dei lavoratori, anche all’interno di grandi gruppi di imprese, o nelle catene di produzione, sia in ambiti territoriali omogenei, sia a livello transnazionale. Anche a questo riguardo si dovrebbe costruire un nuovo modello di incentivazione delle politiche legislative nazionali, in modo da rafforzare con i finanziamenti del Fse il terreno, altrimenti assai debole, della flexicurity.

24   European Monitoring Centre on Change, http://www.eurofound.europa.eu/ emcc/. 25   Infra, capitolo III. 26   Libro verde della Commissione europea, Ristrutturare e anticipare i mutamenti: quali insegnamenti trarre dall’esperienza recente?, Com (2012) 7 definitivo, 17 gennaio 2012, accompagnato da Commission staff working document, Restructuring in Europe 2011, Sec (2012) 59 definitivo, 17 gennaio 2012.

­­­­­38

Un posto a sé nell’ambito dei finanziamenti europei è occupato dal Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Feag). Nato da una proposta di Barroso, il Feag cominciò ad essere operativo nel 2007, per fronteggiare situazioni di gravi crisi occupazionali nei mercati locali, causate dalla globalizzazione27. In seguito, con una modifica apportata al Regolamento che lo disciplina, il Feag è stato esteso alla tutela dei lavoratori colpiti dagli effetti della crisi economica e finanziaria28. Poiché si tratta di finanziamenti erogati su richiesta degli Stati membri, riguardo a specifiche crisi occupazionali, la riforma del bilancio europeo non fa riferimento a questo anomalo strumento, che resterà in funzione, salvo altre deroghe, fino al 2013. Come si è detto, le politiche occupazionali europee non necessariamente si trasformano in norme vincolanti. Per questo l’attività di monitoraggio sulle ristrutturazioni, tenacemente promossa dalla Commissione negli ultimi anni, vuol rappresentare una risposta interlocutoria al lungo silenzio del legislatore europeo. Essa conferma il protagonismo della Commissione nel dare avvio a procedure decisionali complesse, fondate sull’apporto di competenze esterne agli apparati istituzionali. Gli esperti di volta in volta chiamati a redigere rapporti o a raccogliere dati applicano un metodo sperimentale eclettico, utile per acquisire conoscenze, ma non sempre abbastanza influente per avviare rapidi processi di riforma. Un tale metodo, praticato all’interno di apparati tecnocratici spesso staccati dalle istituzioni, contribuisce a de-politicizzare i processi deliberativi e, nel lungo periodo, a sottrarre autorità al metodo legislativo. A conferma di una, ormai molto accentuata, propensione per il metodo sperimentale, la Commissione ha avviato recentemente un monitoraggio sull’andamento dei mercati del lavoro nazionali, per verificare ancora più da vicino i dati sulla disoccupazione ed evidenziare situazioni “a collo di bottiglia”, in cui è molto problematica la collocazione dei disoccupati nei posti di lavoro disponibili29. Que27   Regolamento 1927/2006/CE del 20 dicembre 2006, che istituisce un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione. Il finanziamento del Fondo è previsto fino al 2013. La base giuridica su cui il Regolamento è fondato è l’art. 175 comma 3 Tfue, che riguarda le azioni specifiche in materia di coesione economica e sociale. 28   Regolamento 546/2009/CE del 18 giugno 2009. 29  «European Vacancy Monitor» è una pubblicazione periodica promossa dalla Commissione, Direzione generale Occupazione, affari sociali e inclusione nel no-

­­­­­39

sta indagine è affiancata da una rilevazione capillare delle offerte di lavoro, messe a confronto con l’effettiva disponibilità di lavoratori qualificati, raccogliendo dati da istituti nazionali di statistica, centri per l’impiego, agenzie di lavoro temporaneo e offerte di lavoro on line, nei ventisette Stati membri. Secondo gli studi dell’agenzia europea che si occupa di formazione professionale, una delle anomalie della crisi occupazionale che attraversa l’Europa è la mancanza di forza lavoro sufficientemente qualificata, soprattutto in settori produttivi investiti da cambiamenti tecnologici o da progressive riconversioni, come accade nella cosiddetta economia verde30. «Nuove competenze per nuovi lavori» è, non a caso, l’accattivante denominazione di una delle principali iniziative lanciate da Europa 202031. Il network europeo dei servizi per l’impiego ha reagito con prontezza, per rivendicare il proprio insostituibile ruolo nella gestione di una nuova fase di governo del mercato del lavoro32. Anche in questo caso, alle buone intenzioni non corrispondono sempre i fatti, poiché i centri che erogano servizi all’impiego, come tutte le istituzioni attive nel mercato del lavoro, sono colpiti dalla scarsità delle risorse economiche disponibili. Inoltre, l’assenza di finanziamenti accentua la disparità nell’efficienza dei servizi resi, anche con riferimento all’area geografica in cui i centri per l’impiego operano. Si conferma dunque assai urgente l’attesa, già prima evidenziata, di un intreccio fra politiche di coesione sociale e politiche occupazionali, specialmente quando queste ultime si orientano verso aree economicamente svantaggiate. vembre del 2010. Per dati relativi al 2011 si veda http://www.newskillsnetwork.eu/ doc/848?download=false. 30   European Centre for the Development of Vocational Training (Cedefop), Identification of future skill needs for the green economy, n. 2368, 2009. Anche lo United Nations Environment Program, lanciato nel 2008 dall’Oil in collaborazione con le organizzazioni internazionali dei lavoratori (Ituc) e dei datori di lavoro (Ioe), si propone la creazione e la diffusione di «lavori verdi»: Ilo-Cedefop, Skills for green jobs 2011: A global view, Ilo, Geneva 2011. 31   Si veda la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Nuove competenze per nuovi lavori. Prevedere le esigenze del mercato del lavoro e le competenze professionali e rispondervi, Com (2008) 868 definitivo, 16 dicembre 2008. 32  Opinion from the Public Employment Services (Pes) Network to the Employment Committee, Stoccolma, 3-4 dicembre 2009.

­­­­­40

L’“anticipazione del cambiamento” – un’espressione ormai usuale per quanti sovraintendono all’avvio di nuove pratiche virtuose nel favorire crescita e occupazione – dovrebbe consistere nella rottura dell’isolamento in cui versano i sistemi scolastici o altri centri di erogazione del sapere, in modo da renderli permeabili ai reali bisogni delle imprese. Per trovare risposte alle domande di lavoro, le qualifiche non dovrebbero essere intese staticamente, quasi fossero contenitori di conoscenze acquisite in modo sporadico. Esse dovrebbero seguire un percorso dinamico, di continuo adattamento ai profili professionali richiesti. Da queste constatazioni nasce l’esigenza di nuove forme di accompagnamento nei percorsi di carriera, di counseling, di guida all’acquisizione di competenze trasversali. Il commissario europeo per l’Occupazione, gli affari sociali e l’inclusione sociale ha annunciato entro la fine del 2012 un progetto di Raccomandazione del Consiglio per i giovani che lasciano la scuola e che entro quattro mesi dovrebbero essere instradati su percorsi di tirocini e di apprendistati33. Si discute da qualche tempo circa la rimodulazione di una importante somma di Fondi strutturali europei non distribuiti nel periodo 2007-2013 e dunque da riassegnare, al fine di sostenere l’occupazione giovanile34. Si può dire, dunque, nel tirare le fila delle considerazioni svolte, che non è del tutto priva di fondamento l’inquietudine che attraversa l’Europa. Essa raccoglie le ansie di quanti sentono vacillare le certezze nazionali, senza intravvedere ancora un solido edificio sopranazionale, in grado di resistere alle tempeste della crisi economica e finanziaria. La paura dell’Europa, frutto di sottili pregiudizi e di perduranti difetti di comunicazione, può essere combattuta con tenacia attraverso politiche innovative. Queste ultime passano, senza dubbio, attraverso una più spinta integrazione del mercato e più decisi segnali di cooperazione fra le amministrazioni sopranazionali, nazionali e sub-nazionali.

33   Commissione europea, Comunicato stampa 2 luglio 2012, http://europa.eu/ rapid/press-release_IP-12-731_it.htm?locale=FR. 34   All’inizio del 2011, la disoccupazione media nell’Ue era pari al 10%, mentre quella giovanile era al 22,1%, rispetto al 14,7% del 2008. La Commissione ha scelto la strada della riassegnazione di Fondi strutturali a sostegno di azioni rivolte ai giovani negli otto Stati membri – fra cui l’Italia – in cui si registrano i più alti tassi di disoccupazione giovanile.

­­­­­41

Una novità non può essere trascurata. L’Ue dovrebbe, nell’immediato futuro e per un arco di tempo ragionevolmente lungo, aprire con più convinzione la borsa dei finanziamenti destinati alle politiche occupazionali e dovrebbe farlo in modo selettivo, sia riguardo alle diverse condizioni economiche delle regioni o di aree sub-nazionali, sia con riferimento alle specifiche misure concretamente adottate. Se l’enfasi sarà posta sulle politiche di flexicurity, come sembra probabile, le competenze degli Stati membri saranno sollecitate nella predisposizione di Pnr equilibrati, che adottino una giusta miscela di misure legislative e nell’indicazione delle risorse necessarie alla loro realizzazione. L’idea da sviluppare è la seguente: una crisi economica globale di insolita gravità esige risposte dirompenti sul piano del metodo giuridico da adottare. Il diritto del lavoro si presta a interessanti sperimentazioni, proprio per la sua vocazione pluralistica e per la sua propensione a conoscere e far sue le espressioni di altri sistemi di norme. È in atto ora una straordinaria contaminazione fra regimi regolativi e una insolita comunicazione fra organi giurisdizionali e di monitoraggio, attivi nei molti livelli dell’ordinamento globale. Su questa scia si devono collocare le idee di rinnovamento del lavoro e della protezione sociale, senza trascurare di intraprendere vie di uscita dalla crisi. Si vedrà nel capitolo seguente che la contrattazione collettiva transnazionale ha già teso le sue antenne per captare alcuni messaggi racchiusi nel linguaggio poco normativo delle politiche occupazionali europee. Si osserva dunque un fenomeno interessante. Il contrasto alla lentezza della politica si esprime attraverso nuove manifestazioni dell’autonomia privata collettiva. I nuovi governi privati transnazionali – i giganti per dirla con Colin Crouch35 – portatori di interessi economici assai diffusi, si fanno promotori di una nuova rappresentazione degli interessi collettivi. Ancora una volta è messa in gioco l’autorità dello stato regolatore. L’urgenza dettata dal cambiamento e dalla mobilità delle grandi imprese transnazionali produce una domanda di regolamentazione sui generis, incanalata su percorsi procedurali aperti, piuttosto che su schemi normativi vincolanti.

35  C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, Roma-Bari 2012.

­­­­­42

Capitolo III

Dopo la «governance» europea, dentro la crisi globale

1. “Giuridificazione transnazionale” e nuovo pluralismo delle fonti La crisi economica e finanziaria impone alle grandi organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro e i lavoratori molteplici responsabilità. Esse sono legate, da un lato, all’esigenza di gestire situazioni complesse in modo consensuale e, dall’altro, alla necessità di attenuare il rischio di una difesa protezionistica degli ordinamenti nazionali. L’obiettivo principale del Rapporto Monti, nel porre l’integrazione del mercato interno al centro di tutte le politiche di riforma, è l’abbattimento delle barriere che impediscono la ripresa economica e, nel più lungo periodo, la crescita. Tuttavia, gli accenti posti sul ruolo delle parti sociali sono flebili e piuttosto sporadici, legati soprattutto alle vicende che hanno interessato la Cgue in alcuni casi controversi, di cui si dirà in seguito, relativi al bilanciamento fra diritto di sciopero ed esercizio delle libertà economiche garantite dal Trattato1. L’apertura sempre più rapida del mercato globale non è certo frenata dall’incompiuta realizzazione del mercato interno europeo, perché segue linee di espansione dettate dai cicli economici e dall’emergere di sempre nuovi competitori. Questo rende ancora più urgente la ricerca di una precisa identità delle parti sociali europee, specialmente quando queste ultime si propongono di espandere le proprie competenze negoziali oltre i confini degli Stati e oltre l’Ue. I sindacati dei lavoratori hanno reagito con prontezza alle sfide transnazionali, se solo si considera la nascita nel 2007 di una nuova 1

  Infra, capitolo IV.

­­­­­43

organizzazione, che associa i cosiddetti sindacati globali all’interno del Council of global unions, al fine di promuovere la contrattazione collettiva a livello transnazionale e diffondere il rispetto dei diritti fondamentali. Già nel 2006 un’altra sigla sindacale globale era comparsa all’orizzonte, l’International trade union confederation, nata a seguito dello scioglimento e della successiva fusione dell’International confederation of free trade unions e del World confederation of labour. Il segnale da cogliere è interessante, poiché conferma l’incombente dimensione transnazionale delle relazioni sindacali, cui corrisponde un nuovo assetto degli interessi collettivi da rappresentare, orientato a una minore dispersione delle sigle e forse anche a un superamento di precedenti divisioni ideologiche. L’aspetto più nuovo – e proprio per questo più controverso – nell’individuazione di nuove competenze negoziali dei soggetti collettivi riguarda la loro partecipazione a trattative transnazionali, che sfociano nella firma di accordi quadro (International framework agreements). Ugualmente controversa è la questione del contrasto al dumping sociale, che vede attive organizzazioni sindacali nazionali e internazionali nella tutela di lavoratori cui sono riservate condizioni normative e salariali più sfavorevoli, a causa della loro provenienza da paesi economicamente più deboli. In questo secondo caso la transnazionalità degli accordi impone l’adozione di criteri comparativi fra standard del paese di origine e di quello ospitante. Alla luce di queste novità, è urgente individuare l’origine di poteri normativi che, nel superare le competenze degli Stati, si espandono oltre gli stessi, verso l’ordinamento globale. Il problema, non solo teorico, consiste nel verificare se e come gli Stati possano legittimare soggetti privati – le organizzazioni non governative, i gruppi portatori di interessi diffusi, le organizzazioni sindacali e quelle che rappresentano le imprese – che, nel prefiggersi obiettivi transnazionali, agiscono sfruttando una propria forza espansiva e si appropriano di una funzione regolativa, al di là di riconoscimenti formali2. La rilevanza normativa di quelle che Delmas-Marty chiama «interazioni», contrapponendole a una più tradizionale gerarchia delle fonti, serve a disegnare, con un buon grado di accuratezza, i molti 2  P. Genschel, B. Zangl, Transformations of the State: From Monopolist to Manager of Political Authority, TranState Working Papers, No. 76, Bremen 2008.

­­­­­44

fenomeni di scambio e contaminazione fra ordinamenti che oggi sono in atto3. Il diritto globale, nutrito dai tanti regimi normativi che esprimono interessi transnazionali, diviene conoscibile e, in ultima analisi, anche giustiziabile, in virtù di una sempre più stretta integrazione fra le fonti. Questo accade frequentemente con il diffondersi del dialogo fra corti nazionali e sopranazionali, come vedremo nel prossimo capitolo, attraverso alcuni esempi. I giudici nazionali, espressione di una funzione primaria degli Stati, sono impigliati in una rete sempre più fitta di norme sopranazionali. Nell’ordinamento europeo la comunità dei giudici nazionali diviene sempre più coesa con l’avanzare dell’integrazione. Si può addirittura sostenere che la comunità dei giudici – una comunità che è, al tempo stesso, nazionale ed europea – crei integrazione, sia attraverso il dialogo instaurato con la Cgue per mezzo del rinvio pregiudiziale4, sia con il diffuso ricorso all’interpretazione del diritto interno in modo conforme al diritto europeo5. Su un binario parallelo l’integrazione fra sistemi di norme è favorita da soggetti collettivi dotati di una propria giuridicità, proprio perché portatori di interessi particolarmente qualificati nella definizione dei regimi normativi. Di questo parleremo nelle pagine che seguono, con il proposito di illustrare un fenomeno che da qualche anno si impone all’attenzione dei giuristi del lavoro e che consiste nell’apertura di un nuovo livello transnazionale di contrattazione collettiva. L’impressione diffusa – che si può avallare se si osserva una prassi in via di espansione – è che un modello partecipativo, ancorché debole e indefinito sul piano dei presupposti tecnico-giuridici, stia occupando la scena delle relazioni sindacali 3   M. Delmas-Marty, Ordering Pluralism: A Conceptual Framework for Understanding the Transnational Legal World, Hart Publishing, Oxford 2009. 4   S. Sciarra (a cura di), Labour Law in the Courts: National Judges and the Ecj, Hart Publishing, Oxford 2001; H.W. Micklitz, The Politics of Judicial Co-operation in the EU: Sunday Trading, Equal Treatment and Good Faith, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2005. Di «struttura cooperativa» fra corti parlano A. Bücker, F. Dorsemont, W. Warmeck, The search for a balance: analysis and perspectives, in A. Bücker, W. Warneck (a cura di), Reconciling Fundamental Social Rights and Economic Freedoms after Viking, Laval and Rüffert, Nomos, BadenBaden 2011, p. 316. 5  V. Piccone, L’interpretazione conforme, in Ead. (a cura di), Vademecum per il giudice europeo, Aracne, Roma 2011, pp. 15 sgg.

­­­­­45

sopranazionali. Questa prassi si sta sviluppando in controtendenza rispetto alle tecniche regolative propugnate dai fautori della governance europea. Il metodo sperimentale promosso dal Mac avrebbe dovuto basarsi, come si è detto in precedenza, su uno scambio di buone pratiche fra apparati burocratici degli Stati membri, coordinati dalla Commissione e responsabili nei confronti del Consiglio, nell’ambito di una procedura non vincolante. Il prevalere di un’impostazione marcatamente tecnocratica nella gestione delle politiche occupazionali e di inclusione sociale è dunque, con molta probabilità, un esito inatteso nel funzionamento della governance europea, così come inizialmente accreditata dalla Commissione. Forte del sostegno di un’autorevole ricerca accademica6, interessata a valorizzare il ruolo della società civile nelle procedure decisionali, la Commissione ha inteso favorire l’apertura e la fluidità dei processi deliberativi, senza perdere di vista la funzione più politica del coordinamento, istituzionalmente riservata al Consiglio. Sta di fatto che le formule di natura procedurale su cui la governance si è fondata sono divenute, con il passare del tempo, strumenti comunicativi, piuttosto che regolativi, destinati a confluire in decisioni provvisorie e mutevoli – si pensi alle procedure di valutazione e peer review cui sono sottoposti i Pnr – e pertanto non facilmente riconducibili a una tipologia di atti giuridicamente rilevanti. La marginalizzazione del metodo giuridico, a favore di scelte operative sottratte alla competenza dei parlamenti nazionali, può essere osservata anche nei suoi effetti riflessi, che consistono nell’attenuare la voce di soggetti formalmente investiti di poteri, quali sono certamente le organizzazioni sindacali e quelle dei datori di lavoro. Nelle sue molteplici funzioni, la governance dovrebbe tendere a favorire una commistione di ruoli fra attori pubblici e privati, con la conseguenza di instaurare una permanente ibridazione fra fonti, in uno scenario affascinante, proprio perché aperto a molti esiti7.

6   In una letteratura sterminata si veda J. Zeitlin, Social Europe and experimentalist governance: towards a new constitutional compromise?, in «European Governance Papers», C-05-04, 2005, http://www.mzes.uni-mannheim.de/projekte/typo3/site/ fileadmin/wp/pdf/egp-connex-C-05-04.pdf; G. De Búrca, J. Scott (a cura di), Law and New Governance in the EU and the US, Hart Publishing, Oxford 2006. 7  M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna 2010.

­­­­­46

Tuttavia, se adattato alla contrattazione collettiva, questo scenario potrebbe rivelarsi non privo di rischi, soprattutto nella fase di crisi che attraversiamo. Per questo, il dibattito in corso nell’Ue deve essere affrontato con occhi disincantati, che guardino oltre la governance e prefigurino tecniche regolative aperte alla comunicazione con l’ordinamento globale. Dentro la crisi globale è opportuno mettere in atto procedure decisionali rapide, in grado di anticipare i cambiamenti e di fornire risposte alle domande mutevoli del mercato del lavoro. In questa direzione si muove la Commissione, con la sua attività di monitoraggio8, utile a reperire informazioni sulle grandi ristrutturazioni delle imprese in crisi e sull’ancora impreciso sistema dei servizi per l’impiego, che dovrebbero essere molto più valorizzati nel facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Una tale attività di ricognizione, svolta a livello sopranazionale, dovrebbe anche fornire un indirizzo agli Stati membri. Tuttavia, proprio questo anello della catena resta debole. La mancanza di un atto legislativo vincolante, quale potrebbe essere una Direttiva sulle ristrutturazioni o, più in generale, una fonte che intervenga a sostegno della contrattazione transnazionale, indebolisce il monitoraggio e rende meno efficaci le azioni da intraprendere per rispondere agli effetti della crisi. Su questo fronte si fa sentire la debolezza delle politiche sociali europee, quale effetto di un più generale declino del consenso all’interno delle istituzioni europee. Il silenzio del legislatore è dunque un segnale preoccupante, e lo diventa ancora di più se celato dietro l’incombenza della crisi economica e finanziaria. Fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, l’enfasi posta sulla soft law, ovvero su norme non vincolanti nella gestione delle politiche occupazionali, ha finito con l’indebolire l’autorità degli stati regolatori, ma non ha impedito ai soggetti collettivi che rappresentano imprese e lavoratori di rafforzare sul campo i propri poteri normativi. Ha così preso corpo una contrattazione collettiva transnazionale che sostituisce ai codici di condotta, un tempo unilateralmente adottati dalle imprese, testi propriamente negoziati con i Cae e con le organizzazioni sindacali internazionali. Inizialmente considerati con un certo sospetto, questi testi hanno attratto in se-

8

  Supra, capitolo II, paragrafo 3.

­­­­­47

guito molta attenzione, sia nelle ricerche promosse dall’Oil9, sia nelle indagini della Commissione europea10. Un aspetto peculiare deve essere evidenziato. I nuovi accordi transnazionali assorbono, all’interno di un regime normativo ancora non ben tracciato, alcuni dei temi posti al centro del dibattito politicoistituzionale, affrontati nei più recenti documenti programmatici elaborati dalle istituzioni europee, di cui si è dato conto nei capitoli precedenti. Sembra quasi che i grandi gruppi di imprese transnazionali intendano appropriarsi di alcune politiche tratteggiate nei documenti e nelle proposte della Commissione, attraendole nella sfera di una inusitata autonomia negoziale, per sfidare i tempi lunghi della politica e preannunciarne alcuni possibili esiti. Colpisce, fra tutti, il tema della cosiddetta anticipazione del cambiamento, tema molto praticato dalla Commissione europea nelle attività di monitoraggio circa la perdita di posti di lavoro nelle imprese soggette a ristrutturazioni. Gli accordi quadro internazionali riescono a inglobare in testi negoziati fra grandi imprese, Cae e sindacati internazionali misure insolite di tutela dei lavoratori, combinate con soluzioni flessibili nell’organizzazione del lavoro, essenziali a garantire rapidità nelle trasformazioni delle imprese. Per ora si deve porre l’accento sulla novità di accordi che ambiscono a divenire fonti dell’ordinamento globale, attraverso quella che si propone di definire “giuridificazione transnazionale”. La creazione di sedi negoziali in cui si vincolano i soggetti firmatari a regimi transnazionali di norme e si definiscono nuovi standard di tutela, da modulare secondo lo svolgersi delle vicende societarie e della mobilità dei lavoratori, è di grande interesse sul piano teorico, oltre che pratico. Non a caso si è utilizzata l’espressione “giuridificazione transnazionale”. L’intento è evocare un dibattito dottrinale, stimolato da Gunther Teubner verso la fine degli anni Ottanta dello 9   K. Papadakis (a cura di), Cross-Border Social Dialogue and Agreements: An Emerging Global Industrial Relations Framework?, International Institute for Labour Studies, Geneva 2008. 10   La banca dati degli accordi transnazionali è consultabile sul sito della Commissione, Direzione generale Occupazione, affari sociali e inclusione, http:// ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=978&langId=en. Una dettagliata informazione è diffusa dal network dei Cae, http://www.ewc-news.com. Vedi anche Commission Staff Working Document, Transnational company agreements: realising the potential of social dialogue, SWD(2012) 264 final, Brussels, 10.9.2012.

­­­­­48

scorso secolo, per scandagliare le molte “sfere sociali” in cui il diritto si forma11. In una fase critica di evoluzione della materia, quando si toccò con mano la scarsità delle risorse da redistribuire, a fronte della crisi degli stati sociali, i giuristi del lavoro diedero un contributo di alto livello nella definizione di un diverso rapporto tra le fonti, anche al fine di ripensare le tutele dei lavoratori12. Le “sfere sociali” da osservare sono oggi molteplici e forse ancora più complesse di quanto già non apparissero nell’ultimo ventennio dello scorso secolo. Esse si pongono in comunicazione con un ordinamento de-territorializzato, che muta costantemente la definizione dei suoi confini normativi13. Pertanto, la ricerca deve spostarsi verso nuovi processi di costituzionalizzazione, che servano a conferire legittimità ai soggetti portatori di interessi e, nel contempo, a facilitare l’emersione di fonti transnazionali adatte a regolamentare gli scambi e le negoziazioni. Dalla lettura degli accordi quadro internazionali si ricava l’impressione di una notevole vitalità dei soggetti firmatari. Nell’assenza di uno Stato globale, che si adoperi per la costituzionalizzazione di diritti e principi regolatori, proliferano i centri periferici degli ordinamenti, in cui il diritto si forma, attingendo direttamente alle “sfere sociali”14. A questa cornice teorica si può fare riferimento, per interpretare l’emersione di “sfere sociali” transnazionali che siano diretta espressione di nuovi interessi collettivi. La legittimazione dei soggetti collettivi oltre lo Stato corre parallela alla definizione di nuove finalità della contrattazione collettiva, da intendersi quale sede privilegiata per la fissazione di standard e per la definizione di tutele. 11   G. Teubner (a cura di), Juridification of Social Spheres, De Gruyter, BerlinNew York 1987. 12   I contributi dei giuslavoristi – Simitis, Clark e Lord Wedderburn, Giugni – sono anche pubblicati in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1986, 30. Si vedano S. Simitis, La giuridificazione dei rapporti di lavoro, pp. 236 sgg.; J. Clark, K.W. Lord Wedderburn, La giuridificazione nel diritto del lavoro britannico, pp. 277 sgg.; G. Giugni, Giuridificazione e deregolazione nel diritto del lavoro italiano, pp. 316 sgg. 13   G. Della Cananea, Al di là dei confini statuali. Principi generali del diritto pubblico globale, il Mulino, Bologna 2009. 14   G. Teubner, Societal Constitutionalism: Alternatives to State-Centred Constitutional Theory?, in C. Joerges et al. (a cura di), Transnational Governance and Constitutionalism, Hart Publishing, Oxford 2004, p. 17.

­­­­­49

La giuridificazione transnazionale che investe il diritto del lavoro ha caratteristiche peculiari, perché si connette a sistemi di norme nazionali e sopranazionali che si fondano sul rispetto dei diritti fondamentali. Essa potrebbe dunque rappresentare un’occasione vitale per re-politicizzare i processi decisionali, ancorandoli a parametri di vera e propria costituzionalizzazione del diritto transnazionale. L’Ue potrebbe offrire un ottimo esempio a questo riguardo, poiché si fonda su un sistema intercomunicante di norme, che intreccia le tradizioni costituzionali degli Stati membri con la Carta dei diritti fondamentali, dotata ora dello stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 Tue), e con l’adesione alla Cedu. Tuttavia, questi nessi ordinamentali non sono del tutto chiari quando si osserva l’andamento di una sfera sociale assai ampia, quale è la contrattazione collettiva transnazionale, dotata di una propria giuridicità spontanea, ma ancora priva di una piena legittimazione, quanto agli effetti dei processi deliberativi che intraprende e alla vincolatività degli stessi. Questo snodo interpretativo non è, per ora, risolto, se non attraverso le scelte dei sindacati internazionali che chiedono formalmente di prendere parte alle trattative avviate dai gruppi multinazionali e di apporre la propria firma agli accordi, se necessario in affiancamento ai Cae. La giuridificazione transnazionale del diritto del lavoro si nutre anche di questi elementi fattuali, in continuità con la migliore tradizione europea, che ha riconosciuto rilevanza alle manifestazioni dell’autonomia collettiva, espresse dai gruppi organizzati. Tuttavia, la richiesta di certezze più solide, che diano sostegno legislativo ai fatti in via di espansione, non dovrebbe essere ulteriormente elusa. 2. Norme procedurali e tutele: uno sguardo agli accordi transnazionali Il dibattito sulla democrazia industriale, che si sviluppò in Europa negli anni Settanta dello scorso secolo, non trovò, sul piano istituzionale, l’esito atteso. Si lavorò a lungo sui temi della partecipazione dei lavoratori agli organi decisionali dell’impresa e sull’adozione di una Direttiva, che non vide mai la luce. Con un’inversione di tendenza, che riflette un mutato clima culturale oltre che istituzionale, fu adot­­­­­50

tata nel 1994 una Direttiva sulla disciplina dei diritti di informazione e consultazione all’interno delle grandi imprese europee e dei gruppi di imprese europee, diritti esercitati da un organo unitario di rappresentanza, il Cae. La Direttiva del 1994 sui Cae è stata oggetto di rifusione nel 200915 e rappresenta oggi un utile strumento di sostegno indiretto a prassi innovative, che travalicano il mero esercizio dei diritti di informazione e consultazione. Oltre a fornire una più chiara specificazione delle nozioni di informazione e consultazione (art. 2 lett. f e g), la Direttiva sottolinea ora la pertinenza delle stesse rispetto al «livello» decisionale delle questioni transnazionali trattate (art. 1 comma 3). Si noti che questo passaggio serve a valorizzare i diritti dei Cae, a fronte di complesse riorganizzazioni delle grandi imprese europee, le cui ricadute possono essere rilevanti a livello nazionale, oltre che transnazionale. Vi è, inoltre, una più decisa indicazione circa il potere di rappresentanza collettiva dei Cae nei confronti «dei lavoratori dell’impresa o del gruppo di imprese di dimensioni comunitarie» (art. 10 comma 1). A voler fare una dichiarazione di ottimismo, sembra che nella nuova Direttiva il Cae acquisti maggiore rilevanza per le tutele indirizzate ai rappresentanti dei lavoratori, equiparati nell’esercizio delle loro funzioni ad altri rappresentanti attivi nei luoghi di lavoro, secondo le diverse legislazioni nazionali (art. 10 comma 3). Ai componenti del Cae si riconosce anche un innovativo diritto alla formazione senza perdita di retribuzione, qualora «ciò sia necessario all’esercizio delle loro funzioni» (art. 10 comma 4). Tuttavia, non mancano voci più critiche, che sottolineano l’inadeguatezza di una formula troppo generica circa la rappresentanza collettiva, non espressamente estesa alla capacità di stare in giudizio, nei casi 15   La Direttiva 94/45/Ce del Consiglio, del 22 settembre 1994, riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie è stata oggetto di rifusione ad opera della Direttiva 2009/38/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009. Primi commenti in A. Alaimo, La nuova direttiva sui comitati aziendali europei: un’occasione per ripensare la partecipazione dei lavoratori in Italia?, Working Paper Csdle “Massimo D’Antona”, Int - 69/2009, Università degli Studi di Catania, http://www.lex.unict.it/eurolabor/ ricerca/wp/int/alaimo_n69-2009int.pdf; F. Dorssemont, La rifusione della direttiva sui Comitati Aziendali Europei (CAE), in «Bollettino Adapt», 2010, 25.

­­­­­51

di violazione dei diritti di informazione e consultazione16. Il fronte sanzionatorio si rivela incerto, in questo come in altri casi di diritti azionati a livello transnazionale. La Direttiva sui Cae, operativa anche nello Spazio economico europeo (See) e dunque vincolante per trenta paesi, ha espresso le sue potenzialità in molte direzioni, ad esempio nel consentire l’avvio di una diffusa prassi di negoziazione transnazionale, soprattutto sui temi delle ristrutturazioni aziendali. Non inclusa nelle finalità della Direttiva e tuttavia gradita alle grandi imprese europee, questa prassi è lentamente confluita nell’apertura di più ampi confronti negoziali, allargati a rappresentanti dei lavoratori occupati in imprese collocate fuori dall’Ue e dallo See. I Cae si sono così tramutati in “Comitati aziendali globali” e hanno provveduto alla ridefinizione dei criteri di rappresentanza, consentendo, ad esempio, a lavoratori occupati in aziende non europee di eleggere rappresentanti senza diritto di voto17. Sulla Direttiva, dotata, come si vede, di una forza espansiva che si spinge ben oltre l’ambito formale della sua efficacia, si innesta la scelta di grandi gruppi multinazionali decisi a migliorare la propria cultura d’impresa, sostituendo ai codici di condotta, unilateralmente adottati, testi propriamente negoziati con i rappresentanti dei lavoratori. Questa scelta è facilitata, se non addirittura indotta, dalla comparsa sulla scena dei nuovi soggetti sindacali globali, di cui si è detto. Gli esiti delle prime ricerche svolte rivelano che il tema prevalente negli accordi in questione riguarda il rispetto dei diritti fondamentali – la libertà sindacale e i core labour standards dell’Oil – anche all’interno di catene produttive transnazionali, in cui un soggetto economicamente più forte vincola a sé soggetti più deboli, posti in situazione di dipendenza economica. Inoltre, i primi accordi quadro internazionali si arricchiscono di un maggior numero di materie, rispetto ai codici di condotta, con un interesse sempre più accentuato 16  European Commission, Implementation of recast directive 2009/38/EC on Europeans Works Council, Report of the group of experts, December 2010, p. 38. 17  Il gruppo Donnelley, attivo in oltre quaranta paesi, con sede principale a Chicago, ha firmato il 14 gennaio 2010 un accordo per la costituzione di un Cae, scegliendo quello del Regno Unito come ordinamento europeo di riferimento. Un’impresa multinazionale norvegese ha negoziato la costituzione di un Cae (Accordo Dnv del 2009) che comprende lavoratori provenienti da regioni asiatiche, americane e africane, secondo un criterio di proporzionalità numerica (un rappresentante ogni mille lavoratori).

­­­­­52

nella standardizzazione delle tutele, ad esempio in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro18. È fragile il sistema di monitoraggio circa l’effettiva osservanza degli standard concordati, specialmente nelle catene produttive in cui si esercita il potere unilaterale di un’impresa capofila nei confronti di soggetti per così dire cooptati dentro una negoziazione transnazionale. Gli studiosi di relazioni umane e di comportamenti delle imprese dedicano spazio a queste nuove esperienze di contrattazione e riconoscono ai sindacati globali la capacità, proprio perché “attori esterni”, di modificare le “pratiche manageriali”, nonostante resti debole il sistema sanzionatorio19. I sindacati globali intendono riconquistare la scena della contrattazione e lo fanno imponendosi quali unici interlocutori delle grandi imprese, cui offrono la garanzia di una struttura negoziale più stabile e duratura, attraverso la formalizzazione di accordi bilaterali e vincolanti. La Federazione internazionale dei metalmeccanici (Imf) ha sempre dimostrato una spiccata sensibilità per i temi della contrattazione transnazionale. In un “piano di azione”, confermato per gli anni 2009-2013, l’Imf vincola le federazioni nazionali associate al rispetto di precise linee guida. Per la stipulazione di accordi transnazionali, è necessario che essi siano applicati in tutte le imprese del gruppo firmatario e che vi sia sempre il coinvolgimento e la firma del sindacato. Fra gli accordi transnazionali più interessanti, ispirati dalla Direttiva sui Cae, si segnalano quelli firmati nel 2010 dal gruppo multinazionale Gdf Suez, che opera nel settore dell’energia. In particolare, l’accordo che riguarda le imprese europee del gruppo, parte integrante dell’accordo globale, si indirizza anche alle imprese controllate da Gdf – con una partecipazione che varia dal 10 al 50% – in base alla legge di recepimento francese. Lo stesso gruppo ha firmato nel febbraio 2010 un Accordo di gruppo europeo relativo alla gestione previsionale degli impieghi e delle competenze. In casi di crisi occupazionali, si prevede di garantire percorsi di mobilità all’interno 18   I. Schömann, A. Sobczak, E. Voss, P. Wilke, Codes of conduct and international framework agreements: New forms of governance at company level, Eurofound, Luxembourg 2008, pp. 30 sgg. 19   M. Fichter, M. Helfen, J. Sydow, Employment relations in global production networks: Initiating transfer of practices via union involvement, in «Human Relations», 64, 2011, pp. 599 sgg.

­­­­­53

del gruppo, seguendo la Guida dei mestieri Gdf Suez. Le formule adottate sono volutamente programmatiche e si limitano a indicare percorsi strategici, che il gruppo intende favorire con l’individuazione di professionalità in espansione, in modo da controbilanciare le professionalità meno richieste sul mercato. L’accordo si addentra nella specificazione delle misure di sostegno per i lavoratori in mobilità, ad esempio viaggi di ricognizione nella sede di destinazione, contributi per le spese di viaggio e indennizzi per la mobilità. Una soluzione simile si rinviene nell’accordo Alstom, firmato a Parigi dalla Federazione europea dei metalmeccanici nel febbraio 2011, significativamente intitolato Anticipazione del cambiamento o sviluppi in Alstom. Esso offre soluzioni alla crisi prevedendo “piani di adattamento” e mobilità interna, aiuti per la riqualificazione, passaggio al lavoro part-time, aiuti per l’avvio di attività di lavoro autonomo e per la ricerca di lavoro all’interno del gruppo o in imprese della stessa area geografica. L’Accordo si avventura anche nell’individuazione di misure personalizzate di sostegno ai lavoratori, offrendo l’opportunità di colloqui individuali con il management e di mentoring, per mettere a fuoco le capacità professionali dei singoli. Vi è inoltre la previsione di indicatori – ore di attività formative, numero dei tutor, numero dei colloqui individuali – utili a garantire un monitoraggio degli impegni assunti. La Federazione europea dei tessili e il Cae hanno firmato nel dicembre 2010 l’accordo DB Apparel. Anch’esso ispirato alla formula dell’anticipazione del cambiamento, l’accordo prevede che due volte l’anno si riunisca la task force incaricata di gestire strategicamente una banca dati delle professioni e dei posti di lavoro all’interno del gruppo. Si profilano soluzioni analoghe a quelle prima citate, con sostegno nell’outplacement e nella ricerca di nuovo lavoro o sviluppo di nuovi percorsi professionali all’interno del gruppo, da decidere e programmare in colloqui annuali con il manager di riferimento. Sono molto numerosi gli accordi che si soffermano sul rispetto dei diritti fondamentali e su comportamenti eticamente apprezzabili dei grandi gruppi. Sempre nel gruppo Gdf Suez, riguardo a un accordo globale sul rispetto dei diritti fondamentali, il dialogo sociale e lo sviluppo sostenibile, firmato nel novembre 2010, si segnala una clamorosa presa di posizione del Cae, da interpretare non solo come atto dimostrativo. A seguito della consultazione da parte dell’impresa, il Cae ha espresso parere negativo circa la partecipazione finan­­­­­54

ziaria di un fondo sovrano cinese, per una carente garanzia da parte del governo di quel paese dei principi di responsabilità sociale delle imprese e, più in generale, per il mancato rispetto dei diritti umani20. Non mancano esempi analoghi nel settore automotive. La allora Daimler-Chrysler assicurò, dopo la fusione avvenuta nel 1998, che fosse garantita la rappresentanza di lavoratori brasiliani e sudafricani in una struttura internazionale, convertitasi in seguito in uno dei primi Cae globali. Quel gruppo multinazionale estese anche alle imprese sub-fornitrici l’obbligo di rispettare i diritti sindacali sanciti da fonti internazionali, da ritenersi parte integrante degli accordi transnazionali sottoscritti dai sindacati, e si spinse fino a recedere da rapporti di fornitura con quanti non fossero pienamente rispettosi degli obblighi assunti21. D’altro canto, nelle note vicende che hanno riguardato la Fiat, con riferimento agli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori, il Cae è stato emarginato e privato dei diritti di informazione e consultazione, nonostante fosse in vigore l’accordo del giugno 2005, firmato dalla Fiat e dalla Federazione europea dei metalmeccanici. In seguito, nei giorni 21 e 22 giugno 2011 si svolse a Torino, presso la sede dell’Oil, una riunione del sindacato internazionale dei metalmeccanici, con rappresentanti provenienti da vari paesi europei in cui la Fiat è presente, oltre che dagli Stati Uniti e dal Brasile. La prospettiva auspicata dovrebbe essere quella di un coordinamento globale e di un confronto con i vertici decisionali dell’impresa su tutti i temi strategici, in sintonia con quanto accade, con formule e modalità diverse, in una larga parte di imprese transnazionali nel settore automotive22.   http://www.epsu.org/a/8056.   J. Holdcroft, International Framework Agreements: A Progress Report, Imf Special Report, 3/2006, http://www.imfmetal.org/files/06091210511779/WEB_ sp_report_3-06.pdf. In tema S. Scarponi, La “privatizzazione” delle norme internazionali: codici etici di responsabilità sociale, accordi sindacali internazionali, in «Lavoro e diritto», XXIII, 2009, 3, p. 403; Ead., Gli accordi transnazionali a livello di impresa: uno strumento per contrastare il social dumping?, in «Lavoro e diritto», XXV, 2011, 1, p. 119. 22   S. Sciarra, Automotive e altro: cosa sta cambiando nella contrattazione collettiva nazionale e transnazionale, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2011, 130, pp. 345-359; M. Faioli, Detroit non è Pomigliano. Il diritto sindacale nordamericano e il caso Chrysler-Fiat, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», XXIX, 2010, 4, pp. 387-421. 20 21

­­­­­55

L’entusiasmo che si è inclini a dimostrare nei confronti delle novità appena descritte non può non tenere conto delle debolezze che i nuovi testi transnazionali rivelano, al di là delle importanti prese di posizione, come quelle citate, che investono le scelte etiche delle imprese. Poiché le formule adottate descrivono prevalentemente alcune opzioni strategiche e organizzative dei grandi gruppi multinazionali, sarà difficile attribuire alle stesse una funzione normativa in senso stretto, che si rifletta sulla loro vincolatività nei confronti dei contraenti individuali, come accade nel definire l’efficacia dei contratti collettivi nazionali. Sarà altrettanto difficile ipotizzare che i singoli lavoratori possano vantare di aver acquisito diritti, ad esempio alla conservazione del posto, anche in caso di mancato esito della mobilità interna al gruppo o di fallimento delle procedure per la riqualificazione professionale. In modo simile a quanto si va delineando nel programma di Europa 2020, la scelta delle imprese è di anticipare la propria domanda di nuove professionalità, con un intreccio fra etica ed efficienza, poiché alla promessa di salvare posti di lavoro si affianca l’interesse a mantenere all’interno del gruppo le risorse formative e gli individui che ne hanno beneficiato. Si tratta dunque di profili di mobilità aperti, che si propongono di modificare e arricchire le professionalità dei lavoratori, per la conservazione del posto di lavoro. In circostanze simili la formazione dovrebbe divenire uno strumento fruibile lungo l’arco dell’intera vita lavorativa, come da qualche tempo si promette di fare nelle politiche europee di flexicurity. Il percorso individuato dalle parti firmatarie negli accordi citati prende le mosse da una costruzione consensuale di alcune scelte organizzative, con una forte enfasi sull’individualizzazione di opportunità da offrire nell’arco del rapporto di lavoro, piuttosto che sulla standardizzazione delle tutele. Facile immaginare che questo percorso si presenti alternativo al conflitto, per lo meno nella sua declinazione più tradizionale, che consiste in azioni di lotta orientate a ottenere migliori condizioni normative. Né si può sottacere che esula completamente dai contenuti degli accordi transnazionali la materia salariale23, peraltro non sottratta dalle competenze della contrattazione nazionale e monitorata a livello internazionale. 23  S. Uccello, Così l’Europa azzera il conflitto, in «Il Sole 24 Ore», 25 giugno 2011. Un accordo transnazionale sulla parità di trattamento retributivo fra uomini

­­­­­56

L’analisi statistica prodotta dall’Oil dimostra che le politiche salariali condotte a livello nazionale, attraverso la contrattazione collettiva, contribuiscono ad abbassare le disuguaglianze sociali e a creare un miglior collegamento fra crescita economica e salari medi, garantendo, tra l’altro, sufficiente elasticità nell’andamento dei salari. Nei paesi in cui i contratti collettivi sono vincolanti e coprono ampi settori di attività produttive, si riscontrano minori disuguaglianze nei trattamenti retributivi. Ciò conferma la funzione equilibratrice che fa capo a sfere sociali caratterizzate da stabilità, quali sono quelle in cui operano le grandi organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro24. Questi dati, niente affatto scontati in un confronto internazionale che coinvolge paesi a reddito medio-alto e medio-basso, confermano che la contrattazione collettiva è una risorsa, anche in presenza di mobilità della forza lavoro da regimi deboli a regimi forti, come accade, ad esempio, nei casi di distacco transfrontaliero di lavoratori all’interno dell’Ue. 3. Solidarietà, «dumping» sociale, catene produttive. Alla ricerca dei diritti fondamentali La – più volte evocata – mobilità delle imprese e dei lavoratori, affiancata agli effetti destabilizzanti della crisi, può dare luogo a una differenziazione nei regimi di solidarietà, se le imprese decidono di sfruttare in modo competitivo il minor costo del lavoro, attraverso il ricorso al dumping sociale. Questa pratica, dapprima ignota all’interno dell’Ue, è divenuta ora nota a seguito di alcune decisioni rese dalla Cgue, di cui si dirà in seguito. Nei casi da cui sono scaturite le controversie, poi sfociate nelle sentenze della Cgue, i regimi di solidarietà sono entrati in collisione, proprio perché è mancata una sede negoziale di compensazione delle differenze. Le occasioni per superare questi ostacoli non mancano. In Norvegia è in vigore un piano governativo per la lotta al dumping sociale,

e donne è stato firmato il 5 giugno 2012 dalla Gdf Suez; prevede l’obbligo di un “piano annuale sulla parità” nelle imprese che occupano più di 150 lavoratori. 24   Ilo, Global Wage Report 2008/09, Geneva 2008, pp. 41-43, http://www.ilo. org/wcmsp5/groups/public/@dgreports/@dcomm/documents/publication/wcms _100786.pdf.

­­­­­57

per ovviare a un fenomeno ricorrente soprattutto nel settore dell’edilizia, dove è diffuso il ricorso ad agenzie di lavoro temporaneo che distaccano lavoratori transfrontalieri. Il piano prevede che ai lavoratori stranieri siano applicati gli stessi standard normativi e salariali previsti per i lavoratori norvegesi e che il rispetto degli standard sia garantito da autorità nazionali – la Labour Inspection Authority e la Petroleum Safety Authority Norway – dotate di poteri ispettivi25. È anche stato istituito un registro per l’iscrizione delle agenzie di lavoro temporaneo che operano in Norvegia, al fine di controllare eventuali pratiche elusive della normativa in vigore26. In Danimarca è in vigore dal marzo 2011 un accordo anti-dumping, firmato dalla grande federazione dei lavoratori 3F e dalle organizzazioni delle piccole e medie imprese nel settore edile, che impone l’obbligo di appaltare attività solo a imprese che applichino i contratti collettivi, obbligo sanzionabile con ricorso al giudice. È stato inoltre creato un fondo speciale, in cui confluiscono quote percentuali della retribuzione oraria, versate al fine di sviluppare forme di cooperazione nella lotta al dumping sociale27. Questo primo tentativo dovrebbe servire a stimolare più corpose intese, volte a introdurre vincoli di responsabilità condivisa all’interno delle catene produttive. In Finlandia il distacco di lavoratori attraverso catene di appalti o sub-appalti interessa soprattutto il settore edile e quello dei cantieri navali, dove si tocca con mano una segmentazione del mercato del lavoro dovuta alla competizione fra regimi normativi e salariali. La sfida per i sindacati finlandesi consiste nel non deludere i propri iscritti, che vedono messa a rischio la solidità delle tutele, e nello stesso tempo nel non lasciare i lavoratori più deboli, in prevalenza provenienti dai paesi baltici, senza rappresentanza28. 25   http://www.regjeringen.no/en/dep/ad/topics/The-working-environmentand-safety/social-dumping.html?id=9381. 26   A.M. Ødegård, Ø. Berge, K. Alsos, New regulations for temporary work agencies: can a growing informal market be subdued? A case study of the Norwegian construction sector, paper presentato al congresso dell’International Industrial Relations Association (Iira), Copenhagen, 28 giugno-1° luglio 2010, http://faos. ku.dk/pdf/iirakongres2010/track1/86.pdf. 27   K. Pedersen, New agreement to combat social dumping, in «Eironline», 10 June 2011, http://www.eurofound.europa.eu/eiro/2011/03/articles/dk1103019i.htm. 28  N. Lillie, Subcontracting, posted migrants and labour market segmentation in Finland, in «British Journal of Industrial Relations», L, 1, 2012, pp. 148-167.

­­­­­58

La contraddizione più stridente nel confronto fra regimi di solidarietà, come nel caso finlandese e in altri paesi scandinavi, deriva dall’assenza di una chiara definizione di temporaneità nel distacco transfrontaliero, che rende imprevedibili i tempi di permanenza dei lavoratori nel paese ospitante. Il più volte citato Rapporto Monti è consapevole di queste storture. In esso si segnala che pratiche di dubbia legittimità si nascondono dietro il distacco di lavoratori, se la prestazione di servizi è offerta da soggetti di incerta solidità economica e organizzativa, come accade per le cosiddette letter box companies, di cui si conosce nient’altro che un indirizzo postale29. Le agenzie di lavoro temporaneo sono oggetto di particolare attenzione in molti ordinamenti, quando esse si trovano a operare per garantire una prestazione transnazionale di servizi. Nella somministrazione di lavoratori che si sostanzia nel distacco presso imprese utilizzatrici collocate in paesi diversi da quello dell’agenzia, deve essere garantita la parità di trattamento dei lavoratori distaccati. Alla – per la verità inspiegabile – assenza di dati certi sui flussi e sui numeri che interessano la mobilità transnazionale di lavoratori, non sempre destinatari di forti tutele nel rapporto di lavoro, ha fatto riscontro l’iniziativa di Eurociett, l’organizzazione europea che rappresenta le agenzie di lavoro temporaneo, e del sindacato globale Uni Europa, rivolta alla costituzione di un Osservatorio per monitorare le attività transnazionali delle agenzie30. Si noti che l’accordo europeo di settore, su cui l’Osservatorio si fonda, rappresenta per la Commissione europea un canale privilegiato di raccolta di informazioni e buone pratiche, ma anche una sorta di delega, o se si vuole di rinvio, alle parti sociali, per ovviare alle carenze delle amministrazioni nazionali, che dovrebbero essere in prima persona responsabili del coordinamento e del buon funzionamento della mobilità transfrontaliera. Un altro esempio innovativo, questa volta tratto da un’esperienza nazionale, si trova nel contratto collettivo olandese delle agenzie di 29   Questo fenomeno è stigmatizzato da M. Monti, Una nuova strategia per il mercato unico. Al servizio dell’economia e della società europea, Rapporto al presidente della Commissione europea J.M. Barroso, 9 maggio 2010, p. 75. 30   http://www.eurociett.eu/index.php?id=172. L’Osservatorio è previsto in un accordo firmato il 3 dicembre 2009 a Bruxelles dalle due organizzazioni, nell’ambito del dialogo sociale di settore.

­­­­­59

lavoro temporaneo (Abu Cau 2009-2014), che include in una sezione specifica le norme destinate ai lavoratori non permanentemente residenti in Olanda. Per questi ultimi è previsto che si possa derogare da norme imperative – ad esempio in materia di ferie e orario di lavoro – compensando il trattamento difforme con retribuzione aggiuntiva, in modo tale che il trattamento complessivo dei lavoratori in mobilità transfrontaliera non risulti peggiorativo. Il contratto offre, inoltre, una precisa e dettagliata informazione circa le disposizioni di diritto interno applicabili anche a lavoratori il cui contratto di lavoro con l’agenzia è governato dal diritto di uno Stato diverso. In altre parole, una fonte volontaria, frutto della negoziazione fra soggetti privati, diviene la sede privilegiata per la soluzione di un potenziale conflitto circa il diritto applicabile. La sfera sociale, in questo caso, sembra quasi voler anticipare eventuali controversie, offrendo a lavoratori che non sono parte della trattativa, né rientrano nella sfera di applicazione del contratto collettivo, una soluzione ragionevole, proprio perché concordata. Gli esempi selezionati confermano che sono molteplici le possibilità di scelta, se si accoglie il quadro teorico della giuridificazione transnazionale. Molti regimi di solidarietà emergono da sfere sociali che sono diretta espressione di interessi collettivi, quasi a voler inseguire la mobilità dei lavoratori e delle imprese, per poi cristallizzarne alcuni effetti e tradurli in norme. Una declinazione al plurale della solidarietà si fa strada attraverso il monitoraggio delle molte ristrutturazioni e delocalizzazioni in atto, dentro e fuori l’Ue. Emergono tutele diverse, indirizzate ai soggetti più deboli, o a quelli non ancora raggiunti dagli effetti normativi della contrattazione collettiva o di altri sistemi di protezione sociale. La standardizzazione delle tutele si piega a esigenze mutevoli e talvolta solo temporanee, avendo come obiettivo una reinterpretazione del principio di parità di trattamento, un suo adattamento a situazioni oggettivamente non comparabili, proprio perché originate dalla competizione fra sistemi di protezione sociale31. In conclusione, per tracciare i passaggi che convergono verso una giuridificazione transnazionale del diritto del lavoro, si deve pren31  S. Sciarra, Notions of solidarity in times of economic uncertainty, in «Industrial Law Journal», XXXIX, 2010, 3, pp. 223 sgg.

­­­­­60

dere atto che esistono nuove aggregazioni di interessi, la cui forza propulsiva può essere misurata in relazione alla effettiva produzione di norme che da esse deriva. Si prenda l’esempio delle catene transnazionali di produzione, in cui l’aggregazione fra imprese assume connotati più o meno formalizzati, a seconda delle sfide lanciate dal mercato. Nei rapporti di lunga durata fra imprese, come pure nei gruppi multinazionali, si introducono, attraverso la contrattazione transnazionale, standard organizzativi – più che normativi in senso stretto – che si insinuano in modo nuovo nella gestione dei rapporti di lavoro. La competitività nel mercato globale spinge a favorire soluzioni comuni in materia di formazione, di organizzazione del lavoro, di mobilità dei lavoratori fra le imprese tenute insieme da vincoli di lunga durata. Specialmente nel perdurare della crisi, le imprese si collegano fra loro anche al fine di intensificare i ritmi produttivi, quando serve rispondere a domande pressanti provenienti dal mercato. Questo impegno condiviso può creare condizioni di maggiore stabilità per i lavoratori e forse anche dare luogo a una diversificazione nelle opportunità di lavoro. Al contrario, nelle reti di imprese che creano vincoli meno forti di collaborazione, le ricadute sui temi del lavoro e dell’occupazione sono meno visibili. Soprattutto nei clusters che aggregano piccole e medie imprese, appare improbabile che si attivino le parti sociali e che si creino legami adatti a favorire la contrattazione collettiva32. Si dovrebbe invece tendere a governare le reti e inserire i temi del lavoro in una gestione negoziata delle chance e delle tutele. Le catene produttive presentano criticità ancora più particolari, quando al dato della dipendenza nei confronti dell’impresa capofila si aggiunge quello della transnazionalità, come accade molto frequentemente nel settore delle costruzioni. Ecco perché sarebbe opportuno sostenere, se necessario anche per via legislativa, le alleanze strategiche fra imprese, in modo da rafforzare percorsi di giuridificazione attenti al consolidamento di diritti fondamentali, inclusa la libertà sindacale e la contrattazione collettiva. Una tale strategia di sostegno per via legislativa dovrebbe 32   Eurofound, Impact of interfirm relationships: Employment and working conditions, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2011, pp. 55-56, http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2011/01/en/1/EF1101EN.pdf.

­­­­­61

essere perseguita ancor più tenacemente nel caso di catene produttive transnazionali o transfrontaliere. Il sostegno alle imprese collocate in contesti economici in rapido mutamento e ai clusters di innovazione, sovente caratterizzati da una identità geografica, oltre che da una competenza specifica, figura in un capitolo meno conosciuto, ma non per questo meno strategico, delle politiche di flexicurity33. I processi di ristrutturazione che investono le imprese in modo diverso, secondo le loro dimensioni, la loro differenziazione produttiva e la collocazione geografica, intersecano politiche sociali innovative, che dovrebbero essere inquadrate in un regime di sostegno mirato e selettivo. Può essere utile ricordare che in Italia si assiste a una rapida diffusione del contratto di rete, da poco introdotto nell’ordinamento34, con finalità che rispondono, tra l’altro, alle molte emergenze sorte nella crisi. L’assenza, per ora, di un riferimento ai rapporti di lavoro e alle norme che attengono alle tutele individuali e collettive non esclude che si possa in futuro prefigurare una ricognizione di interessi collettivi condivisi dai lavoratori occupati nella rete, anche se non dalla rete. Si tratterebbe, in questo caso, di favorire la devoluzione alla contrattazione collettiva di temi trasversali, fino a prefigurare, ad esempio, la standardizzazione di istituti retributivi incentivanti in vista di una maggiore produttività, ovvero la fruibilità di distacchi temporanei all’interno della rete, per rispondere efficientemente alla domanda proveniente dal mercato. In un contesto dinamico, come quello che si va profilando, potrebbe perfino acquisire rilevanza la contrattazione collettiva territoriale, fumosamente indicata dal legislatore italiano in un recente – e assai controverso – intervento35. 33   Libro verde della Commissione europea, Ristrutturare e anticipare i mutamenti: quali insegnamenti trarre dall’esperienza recente?, Com (2012) 7 definitivo, 17 gennaio 2012, p. 5. 34   Decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, con successive modifiche. 35   Art. 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo; D. Garofalo, Gli accordi territoriali, in «Massimario di Giurisprudenza del Lavoro», marzo 2012, n. 3, pp. 171 sgg.; M. Marazza, La contrattazione di prossimità nell’articolo 8 della manovra 2011: i primi passi della dottrina giuslavoristica, in «Diritto delle relazioni industriali», XXII, 2012, 1, pp. 41 sgg.

­­­­­62

Nel tentativo di inquadrare metodologicamente le molte vicende che riempiono di contenuti la giuridificazione transnazionale si può osservare un doppio movimento dei gruppi organizzati: centrifugo, verso l’ordinamento globale, e al tempo stesso centripeto, verso assetti territoriali degli interessi collettivi. Tanto più questo doppio movimento si carica di significato, quanto più esso si colloca dentro un quadro economico di estrema volatilità, che rende provvisoria qualunque soluzione, anche a causa di un imprevedibile andamento della crisi e delle altrettanto imprevedibili risposte che provengono dai mercati del lavoro. La globalizzazione, se intesa come risorsa, favorisce una nuova organizzazione delle procedure di formazione del consenso e chiede di assegnare nuovo peso alla presenza di agenti negoziali transnazionali. La transnazionalizzazione dei rapporti collettivi che intercorrono fra gruppi organizzati non è altro che una parziale risposta alla nuova domanda di regolamentazione proveniente dall’interno dei sistemi sociali, colpiti dalle drammatiche conseguenze della crisi. Le grandi organizzazioni che rappresentano datori di lavoro e lavoratori sono guidate da una doppia lealtà, l’una orientata verso gli Stati in cui operano, l’altra protesa fuori dagli Stati, in funzione degli obiettivi transnazionali da perseguire. La ricerca di indipendenza dagli ordinamenti nazionali non libera le grandi organizzazioni transnazionali da un legame con le norme che tali ordinamenti producono, ad esempio attraverso collegamenti da stabilire con i soggetti rappresentati, o nell’aprire nuove sedi negoziali e nuovi livelli di contrattazione, sulla scorta di un esercizio attivo dei diritti di informazione e consultazione. La nozione di linkages, utile per la comprensione dei collegamenti che intersecano l’ordinamento globale36, appare quanto mai evocativa, se riferita ai rapporti fra sfere sociali sopranazionali e nazionali. A entrambi i livelli, l’attribuzione di poteri normativi e procedurali in capo alle grandi organizzazioni che rappresentano i lavoratori e alle grandi imprese transnazionali è un segnale che esistono linkages globali fra gli ordinamenti nazionali e le sfere sociali che in essi operano. 36  S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino 2009.

­­­­­63

Questo doppio movimento – centrifugo e centripeto – rivela, tuttavia, un processo incompleto di costituzionalizzazione, che interessa in primo luogo i diritti a esercizio collettivo, quali la contrattazione collettiva, il diritto a essere informati e consultati, il diritto di sciopero. In attesa di essere re-istituzionalizzati nel più ampio quadro del diritto del lavoro transnazionale, questi diritti non sono ancora, malauguratamente, sostenuti da una cultura condivisa37. Si vorrebbe assistere a un ritorno della legislazione di sostegno – diffusa nella tradizione europea come legislazione ausiliaria della libertà e attività sindacale – che ora dovrebbe essere ispirata da un principio di sussidiarietà verso le sfere sociali transnazionali e declinata a livello dell’Ue38. L’obiettivo è dare fondamento giuridico alle espressioni dell’autonomia collettiva transnazionale e alle sue potenzialità nella fissazione di standard adattabili e talvolta temporanei. Il sostegno legislativo rafforzerebbe, senza limitarla, la funzione procedurale degli accordi transnazionali, affermando una loro fruibilità da parte di molteplici soggetti, dislocati in territori distinti dell’Ue e perfino fuori dai suoi confini. In questa prospettiva è molto rilevante osservare cosa accade nell’ordinamento globale. Il programma delle Nazioni Unite Global compact ha affiancato per lungo tempo le tendenze spontanee delle grandi imprese. Nell’intento di formalizzare alcuni aspetti delle loro molteplici attività in tema di responsabilità sociale, ha avviato un impegnativo programma di ricerca empirica e di consultazione, sfociato in un Rapporto, redatto da John Ruggie, rappresentante speciale del segretario delle Nazioni Unite per le questioni relative al rispetto dei diritti umani nelle imprese transnazionali, al fine di indirizzare specifici principi guida alle imprese e agli Stati39.

37   F. Snyder, The Unfinished Constitution of the European Union: Principles, Processes and Culture, in J.H.H. Weiler, M. Wind (a cura di), European Constitutionalism Beyond the State, Cambridge University Press, Cambridge 2003, p. 65. 38   Le posizioni delle parti sociali europee sono ancora molto distanti. Alla reticenza dell’organizzazione padronale fa riscontro un documento della Confederazione europea dei sindacati (Ces) sulla natura giuridica e la vincolatività degli accordi transnazionali, sottoposto il 5 giugno 2012 al Comitato esecutivo. Vedi anche Commission Staff Working Document, Transnational company agreements, cit. supra, nota 10. 39  J. Ruggie, Guiding Principles on Business and Human Rights: Implementing the United Nations «Protect, Respect and Remedy» Framework, Report of the

­­­­­64

La caratteristica del Rapporto Ruggie è l’universalità, poiché esso si propone di far rispettare i principi enunciati da tutti gli Stati e da tutte le imprese, indipendentemente dalla loro posizione geografica o dalla loro dimensione. I principi sono ordinati secondo una intelligente combinazione di misure nazionali e internazionali, vincolanti e volontarie, che dovrebbero convergere verso un insieme coerente di regole. Le imprese divengono soggetti eticamente, oltre che giuridicamente, responsabili nei confronti dei destinatari dei loro comportamenti, in particolar modo se sono capofila di catene produttive, collegate principalmente da vincoli economici e organizzativi. Nel Principio n. 12, ad esempio, si fa espresso riferimento ai due Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali40, nonché alle otto principali Convenzioni Oil, indicate nella Dichiarazione sui principi e diritti fondamentali del 1998, che hanno importanti riflessi sui rapporti di lavoro41. Poiché la responsabilità delle imprese si ispira al principio guida della normale diligenza, nel Principio n. 17 del Rapporto si precisa che devono essere individuati i soggetti responsabili all’interno di catene produttive molto ampie e disseminate nel territorio globale. La catena di valori, in questi casi, rischia di spezzarsi, se non si procede alla segnalazione di aree di attività potenzialmente più esposte, come può accadere nelle catene di sub-fornitura. I criteri individuati dal Rapporto sono, da un lato, la prevenzione, dall’altro, la tracciabilità delle misure adottate, anche attraverso il ricorso a indicatori (Principi nn. 19 e 20).

Special Representative of the Secretary-General on the issue of human rights and transnational corporations and other business enterprises, del 21 marzo 2011, indirizzato allo Human Rights Council. 40   Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976 e Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 3 gennaio 1976. 41   Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e diritti fondamentali nel lavoro e suoi seguiti, adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro nella sua ottantaseiesima sessione, Ginevra, 18 giugno 1998. L’adozione della Dichiarazione segnò una nuova fase nel confronto fra Oil e Organizzazione mondiale del commercio (Omc), nel tentativo di bilanciare le sfere di intervento delle due organizzazioni globali. In tema J.M. Servais, International Labour Law, Kluwer Law International, Alphen aan den Rijn 2009, e B. Hepple, Labour Laws and Global Trade, Hart Publishing, Oxford 2005, p. 56.

­­­­­65

Il linguaggio adottato nel Rapporto Ruggie non è lontano da quello che segna l’evoluzione recente del diritto del lavoro transnazionale, arricchito, come si è visto, dal riferimento a fonti collettive nazionali e sopranazionali, che si sviluppano su piani paralleli, in un processo sempre aperto di rivisitazione e riscrittura dei diritti sociali fondamentali a esercizio collettivo. I diritti di informazione e consultazione, ultimi nati fra i diritti sociali fondamentali, possono divenire il volano di una gestione consensuale della contrattazione collettiva transnazionale all’interno di grandi gruppi di imprese. Nell’ordinamento dell’Ue è in atto una sfida sempre più pressante rivolta ai sistemi nazionali di relazioni industriali, esposti al confronto con norme sopranazionali. Per il diritto del lavoro e per le politiche sociali europee questa sfida si colora di toni intensi. Affermare il ruolo non subordinato delle norme sociali rispetto alle libertà economiche è dunque un esercizio tutt’altro che accademico, che si presta a costruire un nesso originale fra solidarietà e concorrenza. Vedremo che in questo scambio comunicativo si fanno sentire con autorevolezza le voci della Corte europea dei diritti dell’uomo (CtEdu) e dell’Oil, con una forte eco globale, ogniqualvolta si evochi il rispetto di diritti fondamentali, primo fra tutti la libertà sindacale. Anche se l’art. 153 comma 5 Tfue esclude espressamente il diritto di associazione e il diritto di sciopero dalle competenze dell’Ue, altri e diversi vincoli dettati dall’ordinamento multilivello sono presenti. L’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali, dotata ora dello stesso valore giuridico dei Trattati, prevede «il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive». Si tratta di una risorsa tutt’altro che trascurabile, da utilizzare a fondo per aprire, anche in questa materia, una nuova fase dell’«integrazione attraverso i diritti»42.

42  N. Trocker, L’Europa delle corti sovranazionali: una storia di judicial activism tra tutela dei singoli ed integrazione degli ordinamenti giuridici, in V. Barsotti, V. Varano (a cura di), Annuario di diritto comparato e studi legislativi, Giuffrè, Milano 2011, pp. 115, 123.

Capitolo IV

Solidarietà transnazionale e conflitto

1. Diritti sociali e libertà economiche Nell’inventario delle questioni che rallentano l’integrazione del mercato e creano “stanchezza” fra i cittadini europei, il Rapporto Monti cita una controversa giurisprudenza della Cgue in materia di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi. Il bilanciamento fra queste libertà economiche e l’esercizio del diritto di sciopero e di contrattazione collettiva ha aperto fra i giuristi del lavoro, anche al di fuori dell’Ue, un confronto molto intenso. Emesse prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dunque prima della piena vincolatività della Carta dei diritti fondamentali, che quei diritti riconosce appieno, le sentenze Viking1 e Laval2 sono ancora al centro dell’attenzione di un’opinione pubblica allargata, per le conseguenze che hanno indotto sul piano istituzionale, oltre che giurisprudenziale. Come si vedrà, il dibattito europeo è ora nuovamente mosso da forti disaccordi, a seguito della presentazione da parte della Commissione di una Proposta di Regolamento – denominata Monti II, perché ispirata da un’analoga fonte emanata quando Monti ricopriva la carica di commissario europeo – che riguarda l’esercizio del diritto di sciopero e delle libertà economiche3, di cui si dirà in seguito. 1   Corte di giustizia, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union c. Viking Line ABP e OÜ Viking Line Eesti, 11 dicembre 2007, C-438/05. 2   Corte di giustizia, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avdelning 1, Byggettan e Svenska Elektrikerförbundet, 18 dicembre 2007, C-341/05. 3  Commissione europea, Proposta di Regolamento del Consiglio sull’esercizio del

­­­­­67

Per adesso si deve osservare che se, da un lato, i diritti sociali affondano le proprie radici nelle Costituzioni e nelle leggi nazionali, dall’altro le grandi organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro e i lavoratori si adoperano per adeguare rapidamente le proprie strutture alla dimensione transnazionale degli interessi da tutelare, anche al fine di acquisire una più forte legittimazione per intervenire nelle complesse vicende che intersecano la mobilità delle imprese. Ugualmente essenziale è valutare la natura giuridica dei contratti collettivi, non sempre dotati di un’efficacia generalizzata erga omnes, ovvero non sempre vincolanti nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Questo dato tecnico, che è il riflesso di soluzioni diverse adottate negli ordinamenti nazionali, è molto rilevante nelle valutazioni della Cgue, attenta a verificare se i vincoli di solidarietà instaurati attraverso il contratto collettivo possano entrare in contrasto con il buon funzionamento del mercato. In quella che a molti appare una vera e propria asimmetria fra diritti sociali a esercizio collettivo e libertà economiche si è più volte inserita la Cgue, elaborando una giurisprudenza talvolta oscillante. La sentenza da richiamare, per i riferimenti alla contrattazione collettiva e alla sua funzione solidaristica, è Albany4. In essa si discute di un fondo pensione integrativo, con iscrizione obbligatoria per i lavoratori del settore tessile, in forza di un decreto ministeriale di recepimento del contratto collettivo, istitutivo del fondo stesso, che lo rende vincolante. La Corte ha dovuto dunque accertarsi che non vi fosse, secondo la terminologia del diritto europeo, un «accordo fra imprese» o «associazioni di imprese» tale da falsare o impedire la concorrenza5. Ha diritto di promuovere azioni collettive nel quadro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, Com (2012) 130 definitivo, 21 marzo 2012. Si veda anche l’altra misura parallela in discussione, anch’essa auspicata dal Rapporto Monti, Commissione europea, Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente l’applicazione della Direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, Com (2012) 131 definitivo, 21 marzo 2012. 4   Corte di giustizia, Albany International BV c. Stichting Bedrijfspensioenfonds Textielindustrie, 21 settembre 1999, C-67/96. 5   Come si evince dall’art. 101 Tfue. In tema G. Ricci, L. Di Via, Monopoli previdenziali e diritto comune antitrust, in S. Sciarra (a cura di), Solidarietà, mercato e concorrenza nel welfare italiano. Profili di diritto interno e comunitario, il Mulino, Bologna 2007, pp. 52-55.

­­­­­68

dovuto anche valutare se le finalità sociali perseguite dall’accordo collettivo entrassero in collisione con le regole del mercato. In Albany la Corte non ha inteso lanciare un messaggio univoco e rassicurante, rivolto all’interpretazione di qualunque contratto collettivo, quanto piuttosto promuovere un metodo interpretativo in grado di distinguere le funzioni delle fonti collettive. La funzione solidaristica, tipicamente perseguita dalla contrattazione collettiva, non rende i contratti collettivi automaticamente immuni dalle regole della concorrenza. Su questo fondale, arricchito da molte altre pronunce della Cgue, si muovono gli attori di due casi complessi, sfociati nel 2007 in due decisioni molto controverse. Esse hanno causato un vero e proprio effetto sismico, sia nella successiva evoluzione della giurisprudenza, sia nel dibattito teorico che le ha accompagnate. Gli effetti del sisma sono ancora visibili, tanto è vero che il Rapporto Monti se n’è occupato e ha proposto alcune soluzioni, su cui si avrà modo di tornare in seguito. Prima di imboccare un percorso graduale di comprensione dei fatti che sono all’origine delle controversie in Viking e Laval, si può anticipare che questa giurisprudenza, divenuta l’emblema di un diritto transnazionale in formazione, ha profondamente diviso i commentatori6. Quanti ritengono che il conflitto rischi inevitabilmente di essere oscurato dalla mobilità transfrontaliera degli attori economici, tendono a ripiegarsi in una critica distruttiva, senza via d’uscita. Al contrario, quanti interpretano i nuovi vincoli sopranazionali in termini evolutivi, all’interno di un sistema ordinamentale aperto, sono costretti a prendere atto di un assetto mutevole degli interessi collettivi da tutelare. Pertanto, seguendo questa seconda direzione, anche il diritto di sciopero potrebbe collocarsi in un sistema integrato di tu6   La letteratura, anche italiana, su questi temi è ormai sterminata. Si veda per tutti S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, il Mulino, Bologna 2012, pp. 50 sgg.; D. Gottardi, Tutela del lavoro e concorrenza tra imprese nell’ordinamento dell’Unione europea, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2010, 128, pp. 509-569; F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del lavoro dell’Unione europea, cap. VII, in Diritto del lavoro, IX, Utet, Torino 2010; U. Carabelli, Europa dei mercati e conflitto sociale, Cacucci, Bari 2009; A. Vimercati (a cura di), Il conflitto sbilanciato. Libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, Cacucci, Bari 2009.

­­­­­69

tele transnazionali, lontano dai rischi di un protezionismo sindacale racchiuso dentro i confini nazionali. In tal modo, anche per il diritto del lavoro si verrebbero a creare collegamenti – i linkages prima evocati – nel cammino che conduce all’ordinamento globale7. La constatata inadeguatezza di mezzi nazionali di autotutela costringe lo Stato, e i soggetti collettivi che in esso operano quali rappresentanti delle parti sociali, a cercare oltre lo Stato sanzioni diverse, in parallelo con l’emersione di nuovi interessi collettivi e di nuove coalizioni transnazionali. Per il diritto del lavoro, tuttavia, la creazione di linkages globali è turbata dal confronto fra diverse nozioni di solidarietà. Una si sviluppa intorno a diritti e principi elaborati all’interno degli ordinamenti nazionali, anche attraverso la pratica della contrattazione collettiva. L’altra emerge quale risultato di un’aspra competizione fra sistemi normativi e regimi salariali, quando sono in discussione interessi transnazionali8. Il confronto, in sé complesso se analizzato dal punto di vista della convergenza o divergenza fra fonti legali e volontarie che regolano la materia, fa anche riflettere circa la definizione dei poteri attribuiti ai soggetti collettivi ed espone le regole della rappresentanza a nuove sfide. In una tradizionale nozione di azione sindacale è implicita l’ancor più tradizionale finalità di perseguire la parità di trattamento fra lavoratori comparabili. Un tale assetto solidaristico è scosso violentemente quando le regole collettivamente concordate si devono misurare con l’ingresso nel territorio nazionale di lavoratori provenienti da altri regimi di solidarietà, spesso più deboli. La questione del potere di rappresentanza delle organizzazioni sindacali è dunque centrale nell’analizzare le cause e gli effetti della concorrenza fra diversi regimi nazionali di solidarietà, poiché la transnazionalità degli interessi da tutelare richiede nuove forme di legittimazione degli agenti negoziali.

7   S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino 2009, p. 12. Per un quadro d’insieme, A. Perulli, Globalisation and Social Rights, in W. Benedek, K. De Feyter, F. Marrella (a cura di), Economic Globalisation and Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 93 sgg. 8  Si rinvia per questo al capitolo III.

­­­­­70

2. Il conflitto nei mari. Il caso «Viking» In Viking la Corte si avventura in un bilanciamento del diritto di sciopero, riconosciuto dalla Costituzione finlandese, con la libertà di stabilimento, garantita dall’art. 43 Tce (ora art. 49 Tfue). La descrizione dei fatti ci porta a scoprire l’affascinante e complessa dimensione transnazionale del lavoro marittimo, prepotentemente posto al centro di un confronto dottrinale e giurisprudenziale di grande rilievo. Un operatore finlandese gestisce una linea di traghetti – la Viking line – che collega la Finlandia all’Estonia. Sottoposto a forte pressione da competitori estoni, decide di issare sul traghetto Rosella una bandiera di convenienza, al fine di applicare all’equipaggio una retribuzione più bassa di quella prevista dai contratti collettivi finlandesi. Nel dissociare la bandiera della nave dalla nazionalità del proprietario, attraverso una nuova registrazione detta appunto di convenienza9, l’operatore esercita la libertà di stabilimento. Il cambio di bandiera è una manifestazione di questa libertà, indipendentemente dai fini che si prefigge chi la esercita. Il diritto sindacale finlandese, d’altro canto, contempla l’esercizio del diritto di sciopero come ultima ratio, poiché prevede la cosiddetta clausola di pace, sottoscritta dalle parti firmatarie dei contratti collettivi e riferita alle sole materie incluse negli stessi contratti. La clausola di pace è valida e vincolante fino alla scadenza dei contratti e dunque ha la funzione di limitare il ricorso al conflitto durante la vigenza del contratto. La Viking rifiuta di avviare nuove trattative con la federazione nazionale del settore, affiancata dalla potente organizzazione internazionale dei lavoratori dei trasporti, poiché non intende continuare ad applicare i livelli salariali finlandesi, anche a seguito del cambio di bandiera. Un tale rifiuto rende inevitabile la proclamazione dello sciopero, da ritenersi legittimo poiché, nelle more della controversia, il contratto collettivo era venuto a scadenza e dunque la clausola di pace sindacale non era più vincolante fra le parti. 9   S. Migliorini, Delocalizzazioni di imprese e azioni sindacali secondo la sentenza Viking, in «Rivista di diritto internazionale», XCI, 2008, 3, pp. 779 sgg. Si noti il principio del «nesso autentico» fra nave e Stato di immatricolazione, che consente a quest’ultimo di esercitare controlli a bordo della nave.

­­­­­71

È opportuno ricordare che, fin dal 1948, anno della sua fondazione a Oslo, l’International Transport Workers’ Federation (Itf) incluse la lotta contro le bandiere di convenienza fra le finalità prioritarie da perseguire. Questa campagna è, ancora oggi, resa possibile dalla presenza nei porti di tutto il mondo di una diffusa rete di ispettori affiliati al sindacato internazionale, che hanno il compito di verificare e promuovere l’osservanza dei contratti collettivi a bordo delle imbarcazioni10. «Le navi che battono bandiere di convenienza – scrisse tempo addietro un appassionato osservatore di queste vicende, il giurista del lavoro svedese Folke Schmidt – rappresentano una forma di capitale non soggetta a controllo sociale»11. Proprio per questi motivi nella storia del sindacato internazionale dei trasporti si riscontra un impegno costante verso l’osservanza dei contratti collettivi, anche a seguito del cambio di bandiera. Pertanto, è tradizionalmente ritenuto legittimo il ricorso a scioperi di solidarietà – ad esempio dei lavoratori portuali in affiancamento ai marittimi – al fine di raggiungere un tale obiettivo. Ugualmente legittimo è il ricorso a forme di boicottaggio nei confronti di armatori reticenti a sottoscrivere i contratti collettivi. Nelle strategie globali del sindacato dei trasporti l’esercizio dell’autotutela sindacale si è rivelato incisivo nel perseguire finalità transnazionali di tutela dei lavoratori e nel contribuire a perfezionare ulteriormente le fonti internazionali che regolano questo settore. Soprattutto nei paesi scandinavi, è buona pratica osservare gli standard di tutela che si ricavano dalle fonti Oil e pretenderne l’applicazione nei confronti del personale navigante. Il caso Viking ci riporta al cuore di vicende che, nel celebrare la libertà di movimento degli operatori economici, favoriscono la pratica del dumping salariale, surrettiziamente giustificata dal cambio di bandiera. La reazione del sindacato finlandese, che tutela, tra l’altro, posti di lavoro potenzialmente a rischio, a seguito della registrazione del traghetto in Estonia, contrasta, secondo Viking, con una libertà economica fondamentale. Il contrasto è reso più acuto dal vincolo 10   N. Lillie, Union networks and global unionism in maritime shipping, in «Relations industrielles/Industrial Relations», LX, 2005, 1, pp. 88-111 e Id., A Global Union for Global Workers: Collective Bargaining and Regulatory Politics in Maritime Shipping, Routledge, New York 2006. 11  F. Schmidt, Ships flying flags of convenience, in «Journal of Maritime Law», 12, 1972, p. 77.

­­­­­72

di solidarietà che lega inscindibilmente il sindacato nazionale alla federazione internazionale, tenuta, per il suo ruolo di coordinamento, a pretendere un rispetto uniforme delle norme applicabili ai lavoratori. Dalle scelte del sindacato internazionale si fa derivare il reale impedimento all’esercizio della libertà di stabilimento, tanto è vero che il ricorso è presentato dinanzi alla High Court of Justice inglese, poiché in quel paese è ubicata la sede centrale della Federazione internazionale. La Corte non può omettere di evidenziare che le azioni di autotutela intraprese dai sindacati sono «inscindibilmente connesse al contratto collettivo» che si vorrebbe far sottoscrivere al datore di lavoro. Da ciò si fa derivare il contrasto con fonti primarie di diritto europeo, dotate, secondo la Corte, di efficacia diretta anche nei confronti di associazioni private, quali sono, a tutti gli effetti, le organizzazioni sindacali dei lavoratori12. I valori costituzionali che sorreggono le relazioni sindacali in Finlandia – e che si sostanziano in diritti a esercizio collettivo quali la contrattazione e lo sciopero – non sono automaticamente ascrivibili a ragioni imperative di interesse generale, le sole che giustificherebbero una restrizione della libertà di stabilimento. Anche se il giudizio di proporzionalità fra azioni collettive e raggiungimento dell’obiettivo di tutela dei lavoratori è rinviato al giudice nazionale13, con la sentenza Viking la Corte introduce un precedente discutibile, che invade la sfera di autonomia dei soggetti collettivi nazionali e internazionali14. Nel fare riferimento alla sentenza Albany15 la Corte sembra consapevole del fatto che, per i contratti collettivi che conseguano obiettivi sociali, si possono aprire zone di parziale immunità, rispetto al 12   Corte di giustizia, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union c. Viking Line ABP e OÜ Viking Line Eesti, cit., parr. 35-37. 13   Ivi, parr. 87, 90. 14   In Corte di giustizia, Commissione europea c. Repubblica federale di Germania, 15 luglio 2010, C-271/08, nonostante il riferimento all’art. 28 della Carta di Nizza, la Corte richiama la sentenza Viking per escludere la contrattazione collettiva da una sfera di immunità che la protegga dalle norme sulla concorrenza. In Corte di giustizia, AG2R Prévoyance c. Beaudout Père et Fils SARL, 3 marzo 2011, C-437/09, nel decidere su un contratto collettivo che prevede l’iscrizione obbligatoria a un istituto previdenziale per il rimborso di spese mediche, la Cgue segue invece la sentenza Albany. 15  Corte di giustizia, Albany International BV c. Stichting Bedrijfspensioenfonds Textielindustrie, cit.

­­­­­73

diritto della concorrenza. Questo non significa, come attentamente si precisa, che la contrattazione collettiva sia sottratta al confronto con altre norme del Trattato. Sia le norme che attengono alla libera circolazione delle persone, sia quelle riferite ai servizi, si fondano, infatti, su una propria peculiare applicazione, che vede, tra l’altro, attive le amministrazioni degli Stati membri, nello spirito di una leale cooperazione, al fine di facilitare la mobilità. Le vicende giudiziarie di cui si è detto hanno trovato, dopo la sentenza emessa a Lussemburgo, una soluzione stragiudiziale, i cui termini non sono stati resi noti dalle parti16. Sul fronte della contrattazione collettiva l’esito è stato ancora più innovativo, tanto da segnalarsi quale soluzione esemplare, anche al di là del caso specifico. Le organizzazioni europee del settore hanno raggiunto un accordo, traendo ispirazione dalla Convenzione Oil sul lavoro marittimo17. La Direttiva di recepimento dell’accordo europeo di settore non potrà essere trasposta negli ordinamenti degli Stati membri prima dell’avvenuta ratifica della Convenzione Oil. Per i cultori degli ordinamenti multilivello e per quanti auspicano soluzioni originali nei tempi della globalizzazione, questa reciproca contaminazione fra fonti è di grande interesse, specialmente perché segnala una via d’uscita consensuale da una difficile – e talvolta insanabile – competizione fra regimi salariali e normativi, acuita dall’esercizio transnazionale di libertà economiche. Il settore del lavoro marittimo, analizzato, come si è visto, dalla migliore dottrina scandinava negli anni Settanta dello scorso secolo, si offre ora all’attenzione degli osservatori più scettici per dimostrare che sono possibili soluzioni consensuali originali, nonostante l’asprezza della controversia giudiziaria. Su un piano più generale, 16   Come riferisce N. Bruun, Finland, in R. Blanpain, A.M. Swiatkowski (a cura di), The Laval and Viking Cases: Freedom of Services and Establishment v. Industrial Conflict in the European Economic Area & Russia, Kluwer Law International, Alphen aan den Rijn 2009, p. 51. 17   Ilo, Maritime Labour Convention (Mlc) (C186), adottata il 23 febbraio 2006, http://www.ilo.org/ilolex/english/convdisp1.htm. Si tratta di un testo di consolidamento delle fonti che regolano il lavoro marittimo, ancora aperto alla ratifica degli Stati. A seguito della consultazione delle parti sociali da parte della Commissione, l’accordo di settore è stato raggiunto il 12 novembre 2007. Si veda ora la Direttiva 2009/13/CE del Consiglio, del 16 febbraio 2009, recante attuazione dell’accordo concluso dall’Associazione armatori della Comunità europea (Ecsa) e dalla Federazione europea dei lavoratori dei trasporti (Etf) sulla convenzione sul lavoro marittimo del 2006.

­­­­­74

il caso Viking costringe gli interpreti a prendere atto delle concrete espansioni del diritto globale, esemplificate dalla forza propulsiva di una Convenzione Oil nei confronti dapprima di un regime privato e autonomo di regolazione – quale è l’accordo quadro europeo nel settore marittimo – e poi nei confronti di un ordinamento giuridico sui generis, quale è l’Ue. 2.1. Solidarietà e concorrenza. Il caso «3F» Nel 2009 la Cgue si è pronunciata in un altro caso18, da richiamare non tanto per entrare nel merito delle complesse questioni procedurali sollevate, quanto piuttosto per analizzare i profili che attengono al ruolo dei sindacati, soggetti collettivi legittimati a proporre ricorso a tutela del proprio ruolo di negoziatori. Al caso in questione si deve attribuire il valore di un precedente importante, che conferma l’opportunità di mantenere vivo e aperto il confronto fra solidarietà e concorrenza, ben oltre i fatti specifici da cui trae origine la controversia. Per contrastare la pratica delle bandiere di convenienza, la Danimarca ha istituito, in affiancamento al già esistente registro per l’immatricolazione delle imbarcazioni nazionali, un registro destinato agli armatori che battono bandiere di Stati terzi. Oltre a consentire a tali armatori di applicare al personale imbarcato i livelli salariali dei paesi terzi, sono state previste, solo nei loro confronti, misure di esenzione fiscale. Questa scelta del legislatore ha indotto la 3F, Federazione dei lavoratori danesi, a ricorrere al Tribunale di primo grado, per prospettare una possibile violazione delle norme in materia di aiuti di Stato, affiancata da un’eventuale omissione di indagini da parte della Commissione. La Corte si pronuncia a seguito dell’impugnazione, da parte di 3F, dell’ordinanza del Tribunale che non aveva riconosciuto al sindacato dei marittimi una posizione concorrenziale rispetto ad altri sindacati, né aveva ritenuto lesiva degli interessi di 3F l’adozione di misure fiscali rivolte ad altri soggetti, che finivano, a ben vedere, per limitare i diritti del sindacato danese quale agente negoziale. 18   Corte di giustizia, 3F, già Specialarbejderforbundet i Danmark (Sid) c. Commissione delle Comunità europee, Regno di Danimarca, Regno di Norvegia, 9 luglio 2009, C-319/07.

­­­­­75

La giurisprudenza invocata dal Tribunale per sottrarre la contrattazione collettiva alla sfera della concorrenza è, ancora una volta, Albany, interpretata, secondo il ricorrente, in modo troppo ampio, al solo fine di escludere che il sindacato fosse pregiudicato dall’aiuto di Stato consistente nelle misure fiscali in discussione. In sostanza il Tribunale avrebbe teso a sminuire il ruolo di negoziatore del sindacato, poiché l’aiuto derivante dalle misure fiscali sarebbe stato trasferito ai destinatari tramite una riduzione delle rivendicazioni salariali per i marittimi esentati dall’imposta sui redditi. La Corte ritiene inconferente questo motivo d’impugnazione e non si addentra nel merito. Tuttavia afferma – e questo è il punto che qui serve rilevare – che escludere un sindacato quale soggetto interessato ai fini del ricorso significherebbe precludere il raggiungimento degli obiettivi di politica sociale che il Trattato si prefigge. Sia pure indirettamente la Corte afferma che, nella sua qualità di agente negoziale, il sindacato si muove sul terreno delle politiche sociali, dunque opera in modo compatibile con il diritto europeo. 3F ha, infatti, chiarito in che modo le misure fiscali avrebbero inciso sul suo ruolo di negoziatore con gli armatori le cui navi fossero state immatricolate nel registro speciale, e ha dunque fatto correttamente emergere sul piano giuridico il pregiudizio degli interessi propri e dei propri iscritti19. Il percorso interpretativo è, come si vede, faticoso ma utile da seguire per arrivare a un giro di boa. Dopo la svolta si intravvede il diritto alla contrattazione collettiva e con esso un iter argomentativo che sottrae le attività collettive ad esso connesse dalle maglie del diritto della concorrenza. Mentre negli ordinamenti nazionali la contrattazione collettiva è emersa, nei fatti, quale diretta espressione della libertà sindacale, nell’ordinamento europeo essa non è ancora riuscita a correre su binari veloci, né è stata sostenuta da precise scelte regolative sopranazionali. Ciò non ha impedito alle parti sociali europee di individuare percorsi autonomi per la conclusione di accordi che, pur non trovando fondamento nei Trattati, si impongono quali fonti volontarie, vincolanti fra le parti stipulanti20. A conferma della centralità del lavoro marittimo nel dibattito europeo si segnala un recente Rapporto, redatto da un gruppo di

  Ivi, par. 104.   Supra, capitolo I, paragrafo 1.1.

19 20

­­­­­76

esperti che, su incarico della Commissione, propone soluzioni per accrescere la competitività del settore e, nello stesso tempo, allontanare il rischio, sempre in agguato, del dumping sociale21. L’attenzione della Commissione si giustifica per i tempi lunghi di ratifica della già citata Convenzione Oil sul lavoro marittimo, che blocca, come si è detto, l’entrata in vigore della Direttiva europea. Il vuoto normativo, causato da un fair play inter-istituzionale che sembra non consentire due percorsi distinti per l’attuazione di due diverse fonti sopranazionali – la Convenzione Oil e la Direttiva europea – spinge gli esperti verso soluzioni interlocutorie. Essi si limitano a suggerire una migliore raccolta di dati, per conoscere meglio il lavoro dei marittimi e garantire loro uniformità di trattamento a bordo delle imbarcazioni presenti nelle acque degli Stati membri. Serve, a questo fine, un più diffuso monitoraggio circa la comparabilità delle condizioni di lavoro e un flusso più ampio di informazioni condivise. Siamo, ancora una volta, al centro di un dilemma regolativo fra solidarietà e concorrenza, amplificato dalla mobilità delle attività economiche, oltre che dei lavoratori22. Le risposte delle istituzioni non risolvono il dilemma e si limitano per ora, attraverso misure di soft law, a tentare di accrescere la conoscenza delle materie da regolamentare. Si noti che, anche in questo caso, con la nomina di una task force, la Commissione sceglie di delegare le questioni politicamente più controverse a soggetti esterni alle istituzioni. Questa osservazione è già stata proposta nelle pagine precedenti e serve a rimarcare la de-politicizzazione dei processi deliberativi, quando subentra l’inerzia delle istituzioni e divengono lenti i processi di cambiamento. Nell’attesa che sia colmata una lacuna dell’ordinamento so­ pranazionale, le parti sociali si sforzano di offrire risposte credibili alle contraddizioni che macroscopicamente emergono dal lavoro 21  Report of the Task Force on Maritime Employment and Competitiveness and Policy Recommendations to the European Commission, 9 giugno 2011, http:// ec.europa.eu/transport/maritime/seafarers/doc/2011-06-09-tfmec.pdf. 22  Il Rapporto citato alla nota 21 riferisce del fallimento della cosiddetta Manning Directive, presentata nel 1998 dalla Commissione e poi ritirata nel 2004, che avrebbe dovuto estendere agli equipaggi non europei, occupati nelle acque europee e nei porti degli Stati membri, standard comparabili, al fine di prevenire il dumping sociale. È, inoltre, in espansione il lavoro off-shore prestato su piattaforme mobili, anch’esso esposto al rischio di dumping.

­­­­­77

marittimo23. Il sindacato internazionale che rappresenta i lavoratori di questo settore è il prototipo di un’organizzazione globale, capace di anticipare le sfide della competizione e creare vincoli sempre nuovi di solidarietà transnazionale. Le formule adottate sono mutevoli, talvolta compromissorie, proprio perché rivolte a regolamentare attività fra sé difformi. Ciò che qui preme evidenziare riguarda le strategie delle organizzazioni sindacali globali e il modo in cui esse rivisitano la nozione di tutela dei lavoratori. La tutela, specie in situazioni di mobilità dei lavoratori, tende a sganciarsi dall’imposizione di standard uniformi e a valorizzare condizioni di comparabilità fra soggetti diversi, proprio perché mobili e provenienti da distinti regimi di solidarietà. Si potrebbe dire che la tutela si ridisegna inseguendo la mobilità dei lavoratori, con l’obiettivo di adattare la contrattazione collettiva a standard non solo nazionali, specialmente per stanare il fantasma del dumping sociale. 3. Una scossa al “modello svedese”. Il caso «Laval» Nonostante il caso Laval24 tragga origine, come si vedrà fra breve, da fatti assai diversi, esso è accostato al caso Viking nella narrazione di una storia complessa, che vede la Corte di Lussemburgo cimentarsi con l’interpretazione di diritti sociali – la contrattazione collettiva e lo sciopero – rilevanti nella tradizione europea del diritto sindacale. Sullo sfondo di questo caso giudiziario si confrontano due sistemi molto distanti per storia e tradizioni. Il sistema svedese, fra i più solidi nel panorama europeo per l’alto tasso di sindacalizzazione dei lavoratori, si caratterizza per una riconosciuta e diffusa forza contrattuale dei soggetti collettivi. Poiché le politiche retributive rientrano nell’autonomia di una contrattazione collettiva a così ampia

23   Si veda, per un altro esempio, la difficile conclusione stragiudiziale della controversia sorta fra sindacati e Irish Ferries, raggiunta dopo la firma di un accordo quadro il 14 dicembre 2005. Qualche riferimento in T. Novitz, Labour Rights as Human Rights: Implications for Employers’ Free Movement in an Enlarged European Union, in C. Barnard (a cura di), The Cambridge Yearbook of European Legal Studies, vol. 9, 2006-2007, Hart Publishing, Oxford 2007, p. 359. 24   Corte di giustizia, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avd. 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet, 18 dicembre 2007, C-341/05.

­­­­­78

sfera di efficacia, in Svezia non si è fatto ricorso a una legislazione sul salario minimo. Al contrario, la Lettonia, l’altro paese coinvolto nella controversia, è stato descritto quale paese europeo dell’allargamento fra i più impoveriti, con un tasso di sindacalizzazione del 20% e con una fluttuazione al ribasso dei livelli salariali, nella transizione verso l’economia di mercato25. Il modello svedese è stato oggetto di grande attenzione da parte della dottrina giuslavorista europea e delle stesse parti sociali, soprattutto negli anni Settanta dello scorso secolo, quando in Europa si accese un dibattito vivace sulla democrazia industriale, ovvero su forme di controllo incisivo sulle scelte strategiche dell’impresa da parte delle rappresentanze dei lavoratori. In Italia si diede impulso alla contrattazione collettiva sui cosiddetti diritti di informazione e si scelse di non fare ricorso alla legge. In Svezia, al contrario, si seguì la strada di una legislazione promozionale, a sostegno delle prerogative di sindacati e associazioni dei datori di lavoro. La legge del 1976 sulla partecipazione dei lavoratori alle decisioni negoziate26 ha contribuito a rafforzare un ruolo non solo conflittuale delle organizzazioni sindacali e ha caratterizzato il “modello svedese” quale sistema efficiente, anche perché fondato su un vasto consenso sociale. Nella tradizione svedese il ricorso allo sciopero è escluso per le controversie su diritti – relative alle clausole normative dei contratti collettivi, applicate nei contratti individuali di lavoro – ma si giustifica nelle controversie su interessi, ovvero quelle che riguardano il funzionamento della contrattazione collettiva. Dopo l’entrata in vigore della legge del 1976 le controversie su interessi, estese anche ai negoziati che precedono la contrattazione collettiva vera e propria,

25   C. Woolfson, J. Sommers, Labour mobility in the construction. European implications of the Laval un Partneri dispute with Swedish labour, in «European Journal of Industrial Relations», XII, 2006, 1, pp. 49-68. 26   La traduzione inglese della legge Joint regulation of working life, entrata in vigore il 1° gennaio 1977, si trova in appendice a F. Schmidt, Law and Industrial Relations in Sweden, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 1977, p. 234. Tale legge, che incorpora e modifica precedenti leggi del 1928 e del 1936, è divenuta nella letteratura comparata un punto di riferimento nel descrivere l’efficiente “modello svedese”. Si veda, per un’analisi ancora attuale, F. Schmidt, A. Neal, Collective agreements and collective bargaining, in B. Hepple (a cura di), Labour Law, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. XV, cap. 12, J.C.B. Mohr, Tübingen 1984.

­­­­­79

si estesero fino a comprendere materie prima rientranti nelle scelte unilaterali dei datori di lavoro. Ciò servì a rafforzare il ruolo delle organizzazioni sindacali nelle procedure di co-decisione, in piena coerenza con un modello definito organico di conflitto industriale, poiché la titolarità del diritto di sciopero è riconosciuta alle organizzazioni sindacali e non ai singoli lavoratori27. Tuttavia, in linea con un fenomeno diffuso in tutto il mondo, anche nell’inattaccabile “modello svedese” i lavoratori non hanno mancato, in tempi più recenti, di manifestare segni di disaffezione nei confronti delle organizzazioni sindacali. Agli inizi degli anni Novanta, la densità sindacale si attestava intorno all’85%, per poi declinare di ben 9 punti percentuali fra il 1993 e il 2005, fino a raggiungere il 76%. Inoltre, l’impatto di alcune scelte operate dal neoeletto governo di centro-destra, dopo la sconfitta dei socialdemocratici nel 2006, ha ulteriormente accentuato il declino strutturale del tasso di sindacalizzazione, fino a toccare il 72% nel 200728. Queste anticipazioni servono a descrivere il contesto sociale e ordinamentale entro cui si colloca la controversia sorta fra l’impresa lettone Laval e i sindacati svedesi. Nel giugno del 2004 l’impresa edile Laval distacca alcuni suoi lavoratori in Svezia, per provvedere alla ricostruzione di una scuola nelle vicinanze di Stoccolma. La materia del distacco dei lavoratori nell’ambito di una libera prestazione di servizi è dettagliatamente regolata da una Direttiva29. Principalmente orientata a rafforzare il mercato interno, liberalizzando la mobilità delle imprese, essa non si prefigge espressamente finalità sociali, né prefigura l’armonizzazione delle condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori. Si prevede che lo Stato ospitante garantisca ai lavoratori distaccati il trattamento in27   Queste le conclusioni dell’analisi comparata di Lord Wedderburn, che contrappone il modello scandinavo a quello di altri ordinamenti europei, in cui è individuale la titolarità del diritto di sciopero. In tema ampiamente G. Orlandini, Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo d’integrazione europea. Uno studio di diritto comparato e comunitario, Prefazione di Lord Wedderburn, Giappichelli, Torino 2003. 28   Questi i dati forniti da C. Woolfson, C. Thörnqvist, J. Sommers, The Swedish model and the future of labour standards after Laval, in «Industrial Relations Journal», XLI, 2010, 4, p. 335. Cfr. anche http://www.eurofound.europa.eu/eiro/ country/sweden.htm. 29  Direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, sul distacco dei lavoratori effettuato nel quadro di una prestazione di servizi.

­­­­­80

dicato dalle leggi e dai contratti collettivi con efficacia generalizzata e si elencano espressamente alcune materie quali la disciplina sull’orario di lavoro e sulle ferie retribuite, la salute e sicurezza, la tutela delle lavoratrici madri e la parità fra uomo e donna. Più sfuggente è il richiamo alle «tariffe minime salariali», comprese le maggiorazioni per lavoro straordinario (art. 3 lett. c), così come definite dalle leggi o dalle prassi nazionali del paese ospitante. Non a caso quest’ultimo aspetto si è rivelato di incerta soluzione. In Svezia, in assenza di una legge sul salario minimo, si fa riferimento ai contratti collettivi, non dotati in quel paese, come del resto in Italia, di efficacia generalizzata nei confronti dei lavoratori e tuttavia apprezzati di fatto quali fonti vincolanti di regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro. Forte di una prassi fondata sulla diffusa rappresentatività delle organizzazioni sindacali, il legislatore svedese non aveva previsto, in sede di trasposizione della Direttiva, misure di estensione erga omnes dei contratti collettivi nella materia salariale, nonostante l’espressa previsione della fonte europea, preoccupata di garantire un trattamento uniforme e giuridicamente vincolante anche per i lavoratori temporaneamente distaccati sul territorio svedese. L’impresa Laval inizialmente rifiutò di utilizzare la “clausola di collegamento” che consente ai datori di lavoro anche stranieri, non associati all’organizzazione firmataria, di applicare il contratto collettivo aziendale, garantendo il rispetto della clausola di pace sindacale. Quest’ultima vieta il ricorso allo sciopero durante la vigenza del contratto collettivo. Il rifiuto fu verosimilmente indotto dalle gravose condizioni salariali che Laval avrebbe dovuto applicare ai suoi lavoratori dipendenti30. Tuttavia, non si può escludere, come sembra emergere dai fatti, che l’autorità svedese di collegamento, un ufficio previsto dalla Direttiva per facilitare i contatti con le imprese interessate a prestare servizi all’estero, fosse stata in parte responsabile, per aver rilasciato informazioni incomplete o intempestive31. 30   Il rifiuto di firmare gli accordi decentrati da parte di imprese non svedesi è, d’altronde, segnalato come un dato ricorrente nei rapporti, sovente conflittuali, fra sindacati svedesi e imprese straniere. Cfr. Woolfson, Sommers, Labour mobility, cit., p. 54. 31   Corte di giustizia, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avd. 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet, cit., parr. 9, 35.

­­­­­81

Con un tono di malcelato disappunto la Corte fa notare che, prima ancora di addentrarsi nei dettagli della trattativa sulle retribuzioni applicabili, Laval rifiutò di sottoscrivere il contratto collettivo nazionale dell’edilizia, fatto questo che contribuì al deterioramento dei rapporti negoziali, fino a indurre il sindacato del settore elettrico a proclamare uno sciopero di solidarietà. Fu, a quanto è dato intendere dalla descrizione dei fatti, quest’ultimo sciopero a bloccare le attività del cantiere e a provocare il ricorso dell’impresa alla Corte del lavoro svedese, affinché fosse accertata l’illegittimità delle azioni di autotutela e fossero quantificati i danni subiti. Il rinvio pregiudiziale alla Cgue da parte dei giudici svedesi è dunque originato dalla presa d’atto di un mancato funzionamento della macchina negoziale, che ha ingenerato l’esplosione del conflitto, seguendo modalità incompatibili con i vincoli dell’ordinamento europeo, in particolare con l’art. 56 Tfue. Il dialogo intrapreso dalla Corte del lavoro con la Cgue ha aperto un vulnus nel “modello svedese”, non ancora del tutto sanato, come si vedrà fra breve. La Corte, nonostante i richiami dell’avvocato generale al diritto di sciopero quale principio generale del diritto europeo, non è riuscita nell’intento di elaborare un criterio adatto a bilanciarlo con la libera prestazione di servizi. Essa ha lasciato pendere il piatto verso la tutela della libertà economica, poiché la disciplina del distacco dei lavoratori, geneticamente inadatta a prefiggersi un’armonizzazione delle norme di tutela dei lavoratori, deve piuttosto garantire una leale concorrenza fra le imprese che varcano il confine e quelle che operano nel paese ospitante. L’assenza di una decisione arbitrale o di altra fonte da cui far derivare la vincolatività erga omnes dei contratti collettivi, ne rende opzionale il rispetto da parte dell’impresa transfrontaliera, tenuta solo ad applicare le norme di protezione minima e, quel che più conta in questo caso, il salario minimo32. Il dumping sociale è, accertate queste premesse, molto più che un’ipotesi di scuola. Esso emerge come effetto, tanto più parados-

32   Ivi, in particolare parr. 68-76. In Corte di giustizia, Dirk Rüffert, in qualità di curatore fallimentare della Objekt und Bauregie GmbH & Co. KG c. Land Niedersachsen, 3 aprile 2008, C-346/06, un caso in cui, secondo la legge della Bassa Sassonia, per l’aggiudicazione di un appalto pubblico si richiede l’osservanza del contratto collettivo, la Corte ritiene che solo un salario minimo possa essere richiesto al prestatore di servizi, per evitare il contrasto con l’art. 56 Tfue.

­­­­­82

sale quanto più inatteso, di una contrattazione collettiva la cui forza espansiva resta conclusa dentro i confini nazionali. Poiché il diritto di sciopero acquista nel sistema svedese una funzione strumentale all’andamento della contrattazione collettiva, esso produce effetti sanzionatori misurabili solo all’interno delle procedure negoziali e, come si è detto, solo nelle controversie su interessi. Il potere di autodeterminazione dei soggetti collettivi, come quello che si è appena descritto, non è un dato ordinamentale facilmente assimilabile per una Corte sopranazionale, composta da giudici provenienti da culture giuridiche differenti, che si esprimono in lingue diverse33. La tecnica interpretativa più intuitiva – ma non per questo la più corretta in questo caso – si ritrova, secondo la Corte, nel giudizio di proporzionalità34. Le ragioni imperative di interesse generale non sono tali da giustificare una restrizione della libertà, se diviene irrealizzabile l’obiettivo perseguito dal Trattato35. L’esclusione del diritto di sciopero dalle competenze del Trattato (art. 153 comma 5 Tfue) non impedisce che esso entri in collisione con una libertà fondamentale (art. 56 Tfue), qualora sia esercitato oltre i limiti proporzionalmente compatibili con le garanzie accordate ai prestatori di servizi, temporaneamente attivi nello Stato ospitante. L’art. 56, come prima osservato per l’art. 49 Tfue, ha efficacia orizzontale anche nei confronti di soggetti privati, quali sono le organizzazioni che rappresentano le parti sociali. Il caso Laval mette, inoltre, a nudo un’anomalia dell’ordinamento svedese. La Lex Britannia, in vigore dal 1991, fu emanata, con una chiara finalità anti-dumping, a ridosso di una controversia sorta fra un armatore che batteva una bandiera di convenienza e i sinda-

33   G.F. Mancini, Language, Culture and Politics in the Life of the European Court of Justice, ora in Democracy and Constitutionalism in the European Union, Hart Publishing, Oxford 2000, p. 192. 34   Corte di giustizia, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avd. 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet, cit., soprattutto parr. 93-103, con riferimenti ai casi Schmidberger e Omega da cui peraltro la Corte si discosta. 35   Questo passaggio è amplificato in Corte di giustizia, Commissione delle Comunità europee c. Granducato del Lussemburgo, 19 giugno 2008, C-319/06 e nella decisione della Corte dell’European Free Trade Association (Efta) nel caso relativo alla legge islandese sui lavoratori distaccati, EFTA Surveillance Authority c. Islanda, 28 giugno 2011, E-12/10, par. 56.

­­­­­83

cati svedesi del settore. Essa prevedeva che non vi fosse violazione della clausola di pace sindacale – ovvero dell’obbligo assunto dalle organizzazioni sindacali di non proclamare uno sciopero durante la vigenza del contratto collettivo – e che pertanto fosse legittimo il ricorso al conflitto, quando questo fosse stato indirizzato verso un datore di lavoro straniero, solo temporaneamente attivo in territorio svedese, al fine di indurlo a firmare un contratto collettivo. La Corte ne dichiara l’incompatibilità con il diritto europeo, ritenendola discriminatoria sulla base della nazionalità36. Non è possibile in questa sede analizzare in tutti i dettagli questa complessa sentenza della Cgue, che si segnala per un intreccio inusitato fra interpretazione del diritto europeo e tentativo di comprendere le molte sfaccettature del diritto sindacale svedese37. Come già detto per il caso Viking, serve piuttosto evidenziare lo straordinario effetto valanga provocato dall’intervento di una corte sopranazionale sul pendio dei diritti sociali a esercizio collettivo. Oltre a valutare la questione tecnicamente complessa del bilanciamento fra diritti sociali e libertà economiche nell’ordinamento europeo, serve riflettere, anche in questo caso, sulla necessità di collegare un singolo episodio giurisprudenziale al più vasto universo del diritto globale. Questo collegamento sarà proposto in seguito, per segnalare una diversa giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo38. Per adesso si deve dare conto di quanto accaduto dopo Laval, sia nell’ordinamento svedese, sia in altri ordinamenti, non senza osservare che l’interdipendenza tra fonti, oltre che fra sistemi giuridici nazionali, è un dato accertato nel diritto dell’Ue e conferma una delle 36  Corte di giustizia, Laval un Partneri Ltd c. Svenska Byggnadsarbetareförbundet, Svenska Byggnadsarbetareförbundets avd. 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet, cit., parr. 116 sgg. La Lex Britannia è in corso di revisione, a seguito della pronuncia della Cgue, infra. 37  Fra i primi commenti, nell’ottica di due ordinamenti nazionali, R. Eklund, Free business movement and the right to strike in the European Community: two views: a Swedish perspective on Laval, in «Comparative Labor Law & Policy Journal», XXIX, 2008, 4, pp. 553-554 e G. Orlandini, Trade union rights and market freedoms: the European Court of Justice sets out the rules, ivi, pp. 573 sgg. Diverse le argomentazioni di N. Reich, Free movement v. social rights in an enlarged Union: the «Laval» and «Viking» cases before the European Court of Justice, parte I e II, in «German Law Journal», IX, 2008, 2, pp. 125-160, http://www.germanlawjournal. com/pdfs/Vol09No02/PDF_Vol_09_No_02_125-160_Developments_Reich.pdf. 38  Infra, capitolo V.

­­­­­84

ipotesi di lavoro qui prospettate fin dalle prime battute. L’urgenza di guardare oltre i confini degli Stati nazionali è dettata non soltanto da ragioni economiche, ma anche da nuove prospettive di integrazione dei regimi di solidarietà. 3.1. Un effetto valanga: legislatori e giudici nel dopo «Laval» Il caso Laval, come si è detto, ha indotto trasformazioni nei sistemi nazionali di diritto sindacale e potrebbe ancora rivelarsi all’origine di trasformazioni radicali nell’ordinamento dell’Ue. Guardiamo solo alcune delle vicende che confermano l’imminenza di tali trasformazioni e che, secondo alcuni commentatori, ne minacciano altre. Il governo danese, dopo la nomina di una Commissione incaricata di studiare i cambiamenti da apportare alla disciplina che regola il distacco dei lavoratori nella libera prestazione di servizi, è intervenuto con una rapida quanto previdente mossa di anticipazione, nell’intento di preservare le caratteristiche salienti del sistema nazionale di contrattazione collettiva39. La prima modifica introdotta in quel paese riguarda il diritto di sciopero, legittimo solo se esercitato per ottenere trattamenti salariali equivalenti a quelli applicati dai datori di lavoro danesi, per mansioni equivalenti, svolte da lavoratori distaccati. L’altro intervento del legislatore riguarda il principio di trasparenza richiamato in Laval. In ottemperanza a tale principio si richiede, quale condizione di legittimità nell’esercizio del diritto di sciopero, che vi sia un chiaro riferimento ai contratti collettivi firmati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative e al relativo trattamento salariale. Il legislatore danese intende, con questo richiamo, fare riferimen­ to all’art. 3 par. 8 della Direttiva n. 96/71, poiché in quell’ordinamen­ to, come già visto per l’ordinamento svedese, i contratti collettivi, privi di efficacia erga omnes, fissano i minimi salariali. Le modifiche introdotte dal legislatore danese sono entrate in vigore il 1° gennaio 2009, a conferma dell’efficienza di un ordinamento non ripiegato su se stesso, ma aperto a introdurre cambiamenti opportuni, oltre che urgenti. 39   Del Rapporto redatto dalla Commissione di nomina governativa, pubblicato nel giugno 2008, dà conto R. Nielsen, Denmark, in Blanpain, Swiatkowski (a cura di), The Laval and Viking Cases, cit., pp. 25 sgg.

­­­­­85

Anche le parti sociali danesi hanno impresso un segnale di cambiamento in modo altrettanto rapido. Nel marzo 2011 è entrato in vigore un accordo, firmato dall’associazione dei datori di lavoro Dhv e dal sindacato 3F, che prevede l’obbligo per le imprese edili affilia­te di appaltare attività solo a imprese che applicano il contratto collettivo danese del settore. Anche se manca la previsione di una responsabilità solidale, è comunque prevista una sanzione per chi viola l’accordo. La scelta della via negoziale è, ancora una volta, preferita all’intervento legislativo per combattere il dumping sociale40. Nell’aprile 2008 il governo svedese ha affidato al direttore del­ l’Ufficio nazionale di mediazione l’incarico di svolgere e coordinare un’indagine circa le modifiche da apportare alla legislazione nazionale, a seguito del caso Laval. La Commissione, costituita da tre esperti, ha pubblicato nel dicembre 2008 un Rapporto, dopo essersi avvalsa della collaborazione di un gruppo di riferimento composto dalle parti sociali e dopo aver consultato un ampio numero di docenti di diritto del lavoro dei paesi scandinavi, e aver sentito l’Autorità svedese per il controllo dell’ambiente di lavoro41. La Commissione ha affrontato tutte le questioni controverse, dalla natura discriminatoria della Lex Britannia, alle modifiche da apportare alla legge di trasposizione della Direttiva sul distacco dei lavoratori, al ruolo dei contratti collettivi non vincolanti erga omnes e più in generale al nucleo di norme inderogabili da applicare ai lavoratori distaccati, che richiama l’incerta nozione di «ordine pubblico», contenuta nell’art. 3 par. 10 della Direttiva n. 96/71. Solo le norme inderogabili che caratterizzano il nucleo centrale delle tutele possono rientrare in una tale definizione e sottrarsi al contrasto con l’art. 56 Tfue. Il Rapporto della Commissione ha spianato la strada al legislatore, che ne ha accolto, quasi integralmente, le proposte e ha adeguato l’ordinamento svedese alla sentenza della Cgue con un’invidiabile economia di tempo e di risorse. La nuova «legge Laval»42 apporta 40   K. Pedersen, New agreement to combat social dumping, in «Eironline», 10 June 2011, http://www.eurofound.europa.eu/eiro/2011/03/articles/dk1103019i. htm. 41   La Commissione di nomina governativa, presieduta da C. Stråth, ha redatto un Rapporto, qui citato nel sommario in lingua inglese, Action in response to the Laval judgment, Swedish Government Official Reports, Stockholm 2008. 42  Legge n. 228/2010, entrata in vigore il 15 aprile 2010. Si veda anche il Government Bill Prop. 2009/10:48.

­­­­­86

modifiche alla fonte di trasposizione della Direttiva e alla già citata legge del 1976 sulla partecipazione alle decisioni negoziate. L’esercizio del diritto di sciopero è sottoposto a limiti, se finalizzato a richiedere al prestatore di servizi straniero la sottoscrizione di un contratto collettivo. Le condizioni minime, anche salariali, da applicare ai lavoratori distaccati sono quelle previste dai contratti collettivi di livello centralizzato. Non si può proclamare uno sciopero, se le condizioni di lavoro applicate dal prestatore di servizi straniero sono equivalenti a quelle applicate in Svezia. L’onere di provare quali siano in concreto le condizioni applicate fa capo, in ogni caso, all’impresa che distacca i lavoratori. Quest’ultima modifica è fra le più controverse, poiché introduce un difficile confronto fra standard normativi, estrapolati dal riferimento ai sistemi nazionali di contrattazione collettiva. Anche per questo ha ingenerato nei sindacati svedesi il dubbio che possano essere fittizi i contratti collettivi esibiti dalle imprese straniere quali prove delle condizioni normative applicate43. In questo nuovo quadro normativo potrebbe divenire più visibile il ruolo dell’Autorità svedese per il controllo dell’ambiente di lavoro, ora indicata quale ufficio nazionale di collegamento, ovvero quale ufficio dell’amministrazione responsabile, secondo la Direttiva, nel rilasciare informazioni trasparenti ai prestatori di servizio interessati a operare nel territorio svedese. Ecco, dunque, un altro esempio di cooperazione fra apparati delle amministrazioni nazionali che sempre più dovrebbero facilitare l’integrazione del mercato interno. I messaggi lanciati dal legislatore svedese del dopo Laval richiamano lo Stato alla piena osservanza degli obblighi nascenti dall’appartenenza all’Ue e inducono nelle organizzazioni sindacali comportamenti responsabili, nella ricerca di standard normativi e salariali equivalenti che prevengano il dumping sociale. Su questi due versanti si è sviluppata la risposta del legislatore nazionale alla Cgue. Ma la storia non finisce qui. L’effetto valanga provocato dal caso Laval trascina a valle un ultimo macigno. Nel dicembre 2009 la Corte del lavoro svedese si è pronunciata in merito all’azione per danni intentata dall’impresa 43   N. Bruun, Sanzioni e rimedi per azioni collettive illegittime negli Stati membri del Nord Europa. Il diritto dell’Unione europea in context, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2011, 131, p. 398.

­­­­­87

edile lettone contro i sindacati svedesi44. Sul presupposto della decisione resa dalla Cgue, ma in assenza di una precisa disposizione dell’ordinamento svedese che regoli il regime delle responsabilità a seguito della violazione di una norma del Trattato, la Corte del lavoro ha condannato i sindacati al pagamento di danni «punitivi». Non essendo facile quantificare la perdita subita da Laval in termini economici, i giudici svedesi hanno deciso di infliggere ai sindacati una condanna esemplare, non tanto per l’entità della cifra da pagare, quanto piuttosto per la creazione di un ingombrante precedente giurisprudenziale45. Il caso è singolare per molti motivi. Si adopera un parametro nazionale, previsto per sanzionare scioperi illegittimi secondo il diritto svedese, nella valutazione di un’azione collettiva esercitata in contrasto con una norma sopranazionale46. Inoltre – dato questo ancora più grave dal punto di vista sistematico – si omette di fare ricorso in via pregiudiziale alla Cgue, per valutare la responsabilità dello Stato nella imprecisa trasposizione della Direttiva. In altre parole, piuttosto che risalire alla responsabilità dello Stato e misurare con effetto retroattivo l’entità dei danni causati a Laval, si opera nella sfera di responsabilità di sindacati che hanno esercitato il diritto di sciopero nel rispetto delle norme nazionali, senza l’intenzione di violare il diritto europeo47. Questa “ibridazione dei rimedi” è stata salutata da alcuni come una nuova e più efficace tutela delle libertà economiche, utile per colmare una lacuna nell’ordinamento europeo, dunque da estende-

44   Sentenza della Corte del lavoro svedese n. 89/2009. Una traduzione non ufficiale della sentenza è disponibile al sito: http://arbetsratt.juridicum.su.se/ Filer/PDF/ErikSjoedin/AD%202009%20nr%2089%20Laval%20English.pdf. La Corte del lavoro svedese è il foro di prima e ultima istanza per molte controversie in materia di diritto del lavoro, fra cui quelle in materia di sciopero. La Corte ha una struttura tripartita. 45   La somma ammonta a 550.000 corone svedesi, pari a circa 60.500 euro. 46   La Corte si basa su una norma del Co-determination Act del 1976, che prevede danni economici e «punitivi» in caso di scioperi illegittimi. Si rinvia in proposito a J. Malmberg, I rimedi nazionali contro le azioni collettive intraprese in violazione del diritto dell’Unione. Il caso svedese, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2011, 131, p. 374. 47   R. Zahn, B. de Witte, La prospettiva dell’Unione europea: dare preminenza al mercato interno o rivedere la dottrina Laval?, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2011, 131, pp. 437-439.

­­­­­88

re a casi simili, anche attraverso il ricorso all’analogia48. In realtà la Corte del lavoro svedese, nell’ansia di appropriarsi del diritto sopranazionale al solo fine di risolvere un caso nazionale, si addentra in tecniche argomentative non condivisibili, tali da configurare un vero e proprio “abuso” del diritto europeo. La sentenza propone un’impropria lettura della giurisprudenza in materia di efficacia diretta del diritto europeo primario nei confronti di soggetti estranei agli apparati dello Stato, quali sono da considerare, a tutti gli effetti, le organizzazioni sindacali49. Anche se la natura privata dei soggetti collettivi va difesa con forza, poiché serve a qualificare la loro sfera di azione in modo autonomo rispetto allo Stato, a tali soggetti va riconosciuto un posto del tutto peculiare nell’universo dei sistemi sociali che ruotano attorno allo Stato. È discutibile che si possa apprezzare l’espansione in via analogica del principio di responsabilità per atti illeciti in contrasto con il diritto europeo, così come maldestramente proposto dalla Corte del lavoro svedese50. È invece opportuno criticare a gran voce quella decisione, nella convinzione che i sindacati nazionali non vadano investiti con misure deterrenti, incompatibili con l’esercizio dei diritti sociali, quanto piuttosto incitati con misure di sostegno. L’orizzonte del dopo Laval non si profila grazie all’intervento di raffinate strategie giudiziarie. Serve piuttosto spingere lo sguardo lontano, verso strategie negoziali che individuino a livello transnazionale gli standard di tutela applicabili nei casi di mobilità delle imprese e dei lavoratori. L’idea, più volte ribadita in queste pagine, è che il dumping sociale rappresenta l’ostacolo più grande e più grave se si vogliono costruire regimi di solidarietà transnazionale. In queste circostanze il ricorso al conflitto rischia paradossalmente di accentuare le differenze fra soggetti forti e deboli, senza riuscire a svolgere una funzione di perequazione sociale. Un altro esempio può essere citato a questo riguardo. 48   U. Bernitz, N. Reich, The Labour Court, Sweden (Arbetsdomstolen) Judgment No. 89/09 of 2 December 2009, Laval un Partneri Ltd. v. Svenska, in «Common Market Law Review», XLVIII, 2011, 2, p. 615. 49   Particolarmente discutibile il riferimento a Corte di giustizia, Raccanelli c. Max-Planck-Gesellschaft, 17 luglio 2008, C-94/07, che riguarda una discriminazione sulla base della nazionalità nel trattamento economico di un dottorando di ricerca. Contra Bernitz, Reich, The Labour Court, cit., p. 609. 50  Come fanno Bernitz, Reich, The Labour Court, cit.

­­­­­89

Si guardi alla controversia sorta nel 2009 fra la Lindsey Oil Refinery e i sindacati inglesi, anch’essa originata dalle lacune della Direttiva sul distacco dei lavoratori nella libera prestazione di servizi. Un’impresa italiana, dopo essersi aggiudicata un appalto per il completamento di alcuni lavori in una raffineria di proprietà della Total, dichiara di voler utilizzare a tal fine manodopera qualificata di nazionalità italiana e portoghese. La protesta dei sindacati si fa sentire in modo clamoroso, con il ricorso a scioperi spontanei per la tutela di posti di lavoro riservati a lavoratori inglesi, che sarebbero stati garantiti da un precedente accordo. I connotati potenzialmente discriminatori di questa scelta sono posti a confronto con l’esigenza, in tempo di crisi, di salvaguardare le politiche occupazionali locali. Sta di fatto che al centro di questa vicenda si intravvede la più volte citata Direttiva sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una libera prestazione di servizi. Il riferimento ad accordi vincolanti, dotati di efficacia generalizzata, trova sguarnito l’ordinamento inglese, poiché in esso la contrattazione collettiva si muove su binari volontari, ovvero privi di un sostegno legislativo. A differenza di quanto accaduto in Danimarca, dove, come si è detto, si è pervenuti rapidamente in via preventiva a modificare la legge subito dopo la sentenza Laval, nel Regno Unito non si è vista alcuna mossa anticipatrice del legislatore in risposta alla giurisprudenza della Cgue. I progetti di legge presentati in parlamento sembrano per ora naufragati51. Il caso Lindsey è stato posto al centro di un confronto mediatico incentrato sullo slogan British jobs for British workers, gridato dai lavoratori in sciopero, ma anche estrapolato da affermazioni programmatiche dell’allora primo ministro laburista, stretto come molti leader europei fra le contraddizioni di una crisi occupazionale senza precedenti e dunque pronto a dichiarare prioritaria la difesa dei posti di lavoro per i lavoratori inglesi52. In realtà questa controversia occupa un posto a sé nella lista dei conflitti presumibilmente inibiti dalla giurisprudenza Viking e La51   Come riferisce C. Barnard, «British jobs for British workers»: the Lindsay oil refinery dispute and the future of local labour clauses in an integrated EU market, in «Industrial Law Journal», XXXVIII, 2009, 3, pp. 245-277. 52  C. Kilpatrick, British jobs for British workers? UK industrial action and free movement of services in EU law, Lse Working Paper, 16/2009.

­­­­­90

val. Innanzi tutto – fatto non trascurabile – si è scelto di non seguire la via giudiziaria, a seguito delle molte azioni di protesta che si sono succedute. A livello locale, con l’avallo dei sindacati, è stato raggiunto un accordo che ha visto Total impegnata a ritirare alcuni licenziamenti e a creare posti di lavoro aperti anche a lavoratori inglesi, senza ridurre il numero dei lavoratori distaccati53. Il caso Lindsay conferma che i diritti sociali fondamentali si collocano al centro delle grandi trasformazioni che investono l’ordinamento globale. Le vicende legate alla mobilità transnazionale delle imprese e dei lavoratori mettono in discussione punti di vista consolidati e, proprio per questo, promuovono nuove analisi e nuovi percorsi di ricerca. Occorre affermare che l’integrazione europea è incompiuta e imperfetta, anche perché è lontana l’integrazione fra regimi nazionali di solidarietà. È difficile dire a chi spetti l’iniziativa per colmare queste lacune, se agli stati regolatori o alle parti sociali o a tutti gli attori coinvolti, in uno spirito concertativo. Sta di fatto che anche su questi temi la politica europea non pronuncia ancora parole chiare.

53   T. Novitz, United Kingdom, in A. Bücker, W. Warneck (a cura di), Viking, Laval, Rüffert: Consequences and policy perspectives, Report 111, European Trade Union Institute, Bruxelles 2010, pp. 102-103.

Capitolo V

Voci dall’ordinamento globale

1. La Corte di Strasburgo e la libertà sindacale Le pronunce Viking e Laval rese dalla Cgue1 hanno scosso l’ordinamento globale e provocato un confronto a distanza con la Corte di Strasburgo, dopo le decisioni rese da quest’ultima nei casi Demir e Baykara2 e Enerji Yapi-Yol Sen3. Entrambe le sentenze ruotano intorno all’interpretazione della libertà sindacale, come sancita dall’art. 11 della Cedu4, e si segnalano per un nuovo orientamento della Corte, che rivede estensivamente la sua precedente giurisprudenza. Uno degli interpreti più disincantati dell’art. 11 è stato Lord Wedderburn, studioso appassionato del diritto del lavoro nell’arco di molti decenni. La sua attenzione alla comparazione giuridica lo ha indotto a segnalare le diverse implicazioni legate all’esercizio della “libertà

1   Ma si vedano anche Corte di giustizia, Dirk Rüffert, in qualità di curatore fallimentare della Objekt und Bauregie GmbH & Co. KG c. Land Niedersachsen, 3 aprile 2008, C-346/06; Corte di giustizia, Commissione europea c. Repubblica federale di Germania, 15 luglio 2010, C-271/08; Corte di giustizia, Commissione delle Comunità europee c. Granducato del Lussemburgo, 19 giugno 2008, C-319/06. 2   Corte europea dei diritti dell’uomo, Demir e Baykara c. Turchia, Application n. 34503/97, Grand Chamber, 12 novembre 2008. 3   Corte europea dei diritti dell’uomo, Enerji Yapi-Yol Sen c. Turchia, Application n. 68959/01, 21 aprile 2009. 4   L’art. 11 della Cedu riconosce il diritto di «partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi, per la difesa di propri interessi». Nel comma 2 si precisa che le sole restrizioni all’esercizio di tale diritto sono quelle rese necessarie «per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».

­­­­­92

sindacale” o al “diritto di organizzazione sindacale”, a fronte di una giurisprudenza della CtEdu delineatasi verso la metà degli anni Settanta dello scorso secolo e poi ripresa in alcune decisioni successive5. Poiché l’art. 11 non fa espresso riferimento alla contrattazione collettiva, la Corte ha ritenuto che essa fosse solo uno dei possibili mezzi di tutela cui accedere, con questo liberando gli Stati aderenti alla Cedu dall’obbligo di garantirne l’operatività e il funzionamento6. L’art. 11 par. 1 fu anche interpretato dalla CtEdu per valorizzare la libertà sindacale negativa, ovvero la libertà dei singoli lavoratori di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale. Si trattò di una svolta giurisprudenziale di non poco conto per gli ordinamenti – in particolare quello inglese – in cui l’accesso ai benefici derivanti dalla contrattazione collettiva transitava attraverso forme di adesione obbligatoria al sindacato, secondo le formule del closed shop7. Alla propensione della Cedu di valorizzare la dimensione individuale della libertà sindacale, Wedderburn contrappose nella sua analisi l’impostazione seguita dalle fonti Oil, storicamente molto più aperte alla tutela dei diritti collettivi. L’analisi comparata confermò, nel corso degli anni Settanta dello scorso secolo, un’attenzione crescente verso il sostegno legislativo ai diritti sindacali e rafforzò in tal modo la dimensione collettiva del diritto di organizzazione sindacale8. In Demir e Baykara, nel giudicare sul ricorso di sindacati che ritenevano violato il diritto di accedere alla contrattazione collettiva nel lavoro pubblico, la CtEdu offre un’interpretazione sistematica

5  Lord Wedderburn, Freedom of Association or Right to Organise? The Common Law and International Sources, in Employment Rights in Britain and Europe: Selected Papers in Labour Law, Lawrence and Wishart, London 1991, pp. 138 sgg. 6   Fra i casi rilevanti nella giurisprudenza della CtEdu, cfr. Swedish Engine Drivers’ Union c. Svezia, Application n. 5614/72, 6 febbraio 1976; Schmidt e Dahlström c. Svezia, Application n. 5589/72, 6 febbraio 1976; Rolf Gustafson c. Svezia, Application n. 23196/94, 1° luglio 1997; Wilson, National Union Of Journalists e altri c. Regno Unito, Applications nn. 30668/96, 30671/96 e 30678/96, 2 luglio 2002. 7   Lord Wedderburn, The Worker and the Law, Penguin Books, Harmondsworth 19863, pp. 376 sgg., critico della CtEdu in Young, James, Webster c. Regno Unito, Applications no. 7601/76, 7806/77, del 13 agosto 1981. 8   O. Kahn-Freund, Labour and the Law, Stevens & Sons, London 19772, pp. 166 sgg. Si deve allo stesso autore la valorizzazione, fra le fonti del Consiglio d’Europa, della Carta sociale europea, in cui si trova un espresso riferimento al diritto di sciopero. Cfr. O. Kahn-Freund, The European Social Charter, in F.J. Jacobs (a cura di), European Law and the Individual, North Holland Publisher, Amsterdam 1976, pp. 181 sgg.

­­­­­93

dell’art. 11, in controtendenza con la sua precedente giurisprudenza. Essa parte dal presupposto che, per assicurare la tutela dei diritti dell’uomo in modo non solo «teorico» o «illusorio», la Cedu deve essere contestualizzata nel sistema generale delle fonti internazionali, intese come diritto vivente, in costante evoluzione9. Non si pone in pericolo la certezza del diritto, né la prevedibilità dell’interpretazione se, nel tenere conto di una complessiva evoluzione dell’ordinamento globale, si afferma che la contrattazione collettiva è divenuta parte essenziale della libertà sindacale10. In Enerji Yapi-Yol Sen c. Turchia11 si discute del divieto, contenuto in una circolare della Presidenza del Consiglio indirizzata ai dipendenti, di aderire allo sciopero indetto dalla federazione sindacale dei lavoratori pubblici, al fine di affermare il diritto alla contrattazione collettiva. Tanto è palese la violazione dell’art. 11 par. 1, anche alla luce delle fonti Oil e delle fonti del Consiglio d’Europa, che la Corte non ritiene di farvi riferimento, ma si limita a citare se stessa in Demir, ritenendo che una finalità precipua del diritto di sciopero consista nell’affiancare e sostenere il diritto alla contrattazione collettiva. I limiti al diritto di sciopero si giustificano soltanto in un’interpretazione restrittiva della norma, che riguarda particolari categorie di pubblici dipendenti, le cui funzioni si identificano con le più dirette manifestazioni dei poteri degli Stati. L’interpretazione fornita dalla Corte non si ferma dunque al primo comma dell’art. 11, ma tiene conto anche del secondo comma, al fine di evidenziare che gli Stati sono tenuti a giustificare accuratamente le restrizioni di un diritto fondamentale dell’uomo, quale è il diritto di sciopero. Nel nuovo diritto vivente creato dalla Corte di Strasburgo, lontano dall’impostazione individualista della giurisprudenza più risa9   Corte europea dei diritti dell’uomo, Demir e Baykara c. Turchia, cit., parr. 66-68. Puntuali a questo riguardo le osservazioni di G. Bronzini, Diritto alla contrattazione collettiva e diritto di sciopero entrano nell’alveo protettivo della Cedu: una nuova frontiera per il garantismo sociale in Europa?, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», XXVIII, 2009, 4, p. 975. 10   Corte europea dei diritti dell’uomo, Demir e Baykara c. Turchia, cit., parr. 153-154. Nella sua cauta opinione, a margine della sentenza, il giudice Zagrebelsky, preoccupato di un effetto retroattivo della sentenza, ne critica un passaggio, il par. 154, in cui si omette di specificare da quando il diritto alla contrattazione collettiva è divenuto parte dell’art. 11. 11  Corte europea dei diritti dell’uomo, Enerji Yapi-Yol Sen c. Turchia, cit.

­­­­­94

lente, la libertà sindacale si rafforza, perché è ora con più chiarezza fondata su due elementi essenziali – la contrattazione e il conflitto – entrambi caratterizzati dalla natura collettiva degli interessi che si intende tutelare, specialmente quando si riconosce un ruolo attivo alle organizzazioni sindacali. Un tale passaggio è tutt’altro che secondario e va colto nella sua dimensione evolutiva, che travalica il caso specifico di uno o più ordinamenti, non ancora del tutto allineati nel rispetto dei diritti umani. La recente giurisprudenza della CtEdu è stata posta a confronto con le pronunce della Cgue, amplificandone le diverse impostazioni, fino a rilevare una contrapposizione così insanabile da ipotizzare il ricorso alla via giudiziaria, per fare esplodere in modo dirompente un contrasto fra corti sopranazionali12. Oltre ad essere irrealistica, questa prospettiva appare pericolosa nell’avvio di un passaggio istituzionale complesso, quale è l’adesione dell’Ue alla Cedu. L’art. 6 comma 2 Tue precisa che «tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati», a conferma di una volontà di coordinamento di canoni interpretativi che non incide sulla distinzione delle fonti su cui le due Corti esercitano la propria giurisdizione13. 2. Il conflitto nei cieli: una voce da Ginevra Nell’esaminare un caso inglese, ancora prima della decisione della CtEdu in Demir, l’Oil ha fatto sentire la sua voce attraverso la Commissione degli esperti sull’applicazione delle Convenzioni e Raccomandazioni (Ceacr), un organismo indipendente dai governi, composto da giuristi scelti sulla base della competenza e dell’esperienza. Il sindacato inglese dei piloti aerei (Balpa) proclama uno sciopero per protestare contro la decisione della British Airways di aprire una 12   Questa soluzione è adombrata da K.D. Ewing e J. Hendy, The dramatic implications of Demir and Baykara, in «Industrial Law Journal», XXXIX, 2010, 1, p. 41. Una «riconsiderazione» da parte della Corte di giustizia è auspicata da T. Novitz, Collective Action in the United Kingdom, in E. Ales, T. Novitz (a cura di), Collective Action and Fundamental Freedoms in Europe Striking the Balance, Intersentia, Mortsel 2010, pp. 173 sgg. 13   Sull’adesione dell’Ue alla Cedu si veda il Protocollo n. 8, allegato al Trattato di Lisbona, e in particolare l’art. 2, in cui si precisa che l’accordo di adesione non deve incidere sulle «attribuzioni» delle istituzioni dell’Ue.

­­­­­95

filiale denominata Open Skies, destinata a gestire le rotte da altri Stati europei verso gli Stati Uniti, decisione presa prima di valutarne l’eventuale impatto sull’occupazione in Inghilterra. British Airways si dice pronta a richiedere una injunction e a intentare un’azione per danni, sulla scorta della giurisprudenza Viking e Laval, poiché reputa illegittima la proclamazione dello sciopero da parte del sindacato dei piloti, che collide con l’esercizio delle sue libertà economiche. L’evenienza, ritenuta probabile, che la corte inglese ricorresse in via pregiudiziale alla Cgue, induce il sindacato a desistere dall’azione collettiva14. Il caso diviene dunque rappresentativo di una situazione di disparità fra i soggetti coinvolti nella controversia, poiché il datore di lavoro può, minacciando il ricorso alla Cgue, esercitare una pressione smisurata sulle organizzazioni sindacali, riducendone lo spazio di manovra. Balpa, consapevole di questa asimmetria, non trascura di far sentire la sua voce in altra sede, facendo valere la violazione della Convenzione n. 87 in un ricorso al Comitato degli esperti per l’attuazione delle Convenzioni e Raccomandazioni Oil15. Il Comitato di esperti, con una manifestazione di fair play istituzionale, non si avventura nel giudicare la correttezza delle decisioni rese dalla Cgue, ma si sofferma solo a giudicare l’eventualità di un impatto negativo sull’esercizio dei diritti sanciti dalla Convenzione n. 87. Si può scorgere una “minaccia” nell’atteggiamento assunto dalla British Airways se questo comportamento aggressivo, fondato sul richiamo alla giurisprudenza della Cgue, rende difficile il ricorso al conflitto, fino a impedirlo, ingenerando il timore di una sanzione economica insostenibile per il sindacato16. 14   Riferimenti nel Rapporto nazionale di T. Novitz, United Kingdom, in A. Bücker, W. Warneck (a cura di), Viking, Laval, Rüffert: Consequences and policy perspectives, Report 111, European Trade Union Institute, Bruxelles 2010, p. 103. 15   Application by the British Air Line Pilots Association to the International Labour Organisation Committee of Experts on the Application of Conventions and Recommendations against the United Kingdom for breach of ILO Convention No. 87, 26 gennaio 2009. 16   Ceacr, Individual Observation concerning Freedom of Association and Protection of the Right to Organize Convention, 1948 (No. 87) Uk (ratification: 1949) Submitted: 2010, Document No. (ilolex): 062010GBR087. Il caso Balpa è citato con preoccupazione dall’International Trade Union Confederation (Ituc) in un recente Rapporto sul rispetto dei diritti fondamentali: Ituc, Internationally recognised core labour standards in the European Union: Report for the Wto General Council Review, Geneva, 6-8 July 2011.

­­­­­96

Il governo britannico, intervenendo nella controversia, sottolinea la dimensione nazionale del conflitto in questione e dunque la possibilità di ricorrere soltanto a sanzioni previste dall’ordinamento interno, distanti, in quanto tali, dalla tutela delle libertà economiche garantite dal diritto europeo. Con una nota arguta il Comitato replica che, nel «contesto corrente della globalizzazione», i casi di interdipendenza degli effetti provocati da decisioni delle corti diverranno sempre più frequenti, specialmente nel settore dei trasporti17. Nel farsi portatore di una nuova saggezza globale, il Comitato sembra rivendicare un privilegio, dettato dalla sua ampia esperienza fondata su una casistica che riguarda i molti paesi del mondo aderenti all’Oil, e si spinge a consigliare di prevenire situazioni di contrasto, provando, ad esempio, a individuare servizi minimi concordati da garantire pur nel ricorso al conflitto. In un confronto serrato, il Comitato di esperti si è nuovamente occupato del caso Balpa e ha reiterato il suo invito a rivedere la legislazione nazionale. Ha, infatti, constatato l’inadeguatezza delle risposte fornite dal governo britannico circa l’impatto deterrente delle injunctions e delle azioni per danni, minacciate dal datore di lavoro sulla base della giurisprudenza Viking e Laval18. Gli esperti non apprezzano la sottile argomentazione proposta. Secondo quel governo il test di proporzionalità, forgiato dalla giurisprudenza della Cgue, si fonda sul rispetto del diritto europeo e delle norme del Trattato e non è dunque modificabile con correzioni apportate alla legislazione britannica. C’è una strisciante ipocrisia in questa impostazione, che rivendica in modo strumentale il primato del diritto europeo per conservare la controversia dentro i confini nazionali, ignorando i richiami di un’autorevole organizzazione internazionale.

17   Si veda, infatti, la lunga vertenza fra Lufthansa e l’associazione di piloti Cockpit, in cui si è discusso della legittimità di uno sciopero proclamato per estendere a una società straniera collegata, di recente costituzione, l’accordo applicato ai piloti dipendenti dalla società madre. Cenni in A. Bücker, M. Hauer, T. Walter, Workers’ rights and economic freedoms: symphony or cacophony? A critical analysis from a German perspective, in A. Bücker, W. Warneck (a cura di), Reconciling Fundamental Social Rights and Economic Freedoms after Viking, Laval and Rüffert, Nomos, Baden-Baden 2011, pp. 46 sgg. 18  Ceacr, Individual Observation concerning Freedom of Association and Protection of the Right to Organize Convention, cit.

­­­­­97

I casi giudiziari, riferiti a controversie insorte “nei cieli”, si susseguono. Nel 2009 la Corte del lavoro finlandese si è espressa in merito al ricorso di un sindacato degli assistenti di volo, a seguito della decisione di Finnair di stipulare un accordo con la compagnia spagnola Air Europe, che prevedeva, all’interno del contratto di servizio per l’uso di aeromobili, il distacco del personale di cabina. Ai lavoratori, dipendenti di Air Europe, si sarebbe applicato il diritto spagnolo e con esso i contratti collettivi di quell’ordinamento, in palese violazione del contratto collettivo finlandese, sottoscritto da Finnair, che prevede l’estensione ai lavoratori distaccati delle condizioni di lavoro vigenti in Finlandia. La Corte ha ritenuto che, per non entrare in contrasto con l’art. 56 Tfue, la Direttiva sul distacco dei lavoratori debba essere interpretata nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Cgue, con questo avallando la scelta di Finnair di non applicare il contratto collettivo finlandese19. Ma torniamo a Ginevra, dove l’ultima voce registrata nel dialogo a distanza fra istituzioni sopranazionali è quella delle associazioni dei datori di lavoro rappresentate nell’Oil. Durante i lavori della 101a Conferenza internazionale del lavo20 ro , le organizzazioni imprenditoriali, rappresentate nella Commissione tripartita incaricata di esaminare il Rapporto annuale del Ceacr,­hanno attaccato duramente gli esperti, mettendo in dubbio che la loro attività di monitoraggio circa l’applicazione delle fonti Oil possa spingersi fino a interpretarle estensivamente, soprattutto in materia di diritto di sciopero. Si tratta di un caso anomalo, a quanto consta senza precedenti, di disfunzione nel collegamento fra organismi interni all’Oil che, a vario titolo, pur nel rispetto della composizione tripartita di questa

19   Un breve cenno in N. Bruun, C.M. Jonsson, Country Report: Nordic ­Countries, in Bücker, Warneck (a cura di), Viking, Laval, Rüffert, cit., p. 24. Per ovviare a questo disordine regolativo, è stato emanato il Regolamento (Ue) N. 465/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 maggio 2012, in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in cui si introduce il criterio della “base di servizio” per gli equipaggi di condotta e di cabina nell’aviazione civile, al fine di determinare la normativa applicabile. 20  International Labour Conference, Provisional Records, 101st Session, Geneva, May-June 2012.

­­­­­98

peculiare organizzazione internazionale, sono tenuti a garantire l’osservanza delle norme da parte degli Stati aderenti21. Ciò che più colpisce è che le organizzazioni imprenditoriali intendano, con un gesto dimostrativo di inusitata gravità, sottrarre agli esperti la loro funzione peculiare, che è quella interpretativa, fondata sull’indipendenza, oltre che sull’esperienza di giuristi attivi e qualificati nei rispettivi paesi di provenienza. All’origine della presa di posizione da parte delle organizzazioni imprenditoriali vi sono i temi affrontati nelle pagine precedenti. Quelle organizzazioni sembrano turbate dal progressivo affermarsi di un sistema globale e circolare di standard di tutela, che si esprime attraverso un confronto dialettico fra organismi istituzionalmente incaricati di giudicare e monitorare. Nella poco convincente richiesta, presentata dagli imprenditori, secondo cui un confronto con le parti sociali dovrebbe sempre precedere la definizione dei parametri interpretativi verso cui gli esperti intendono orientarsi, si coglie la volontà di comprimere in partenza la potenziale forza espansiva di standard universalmente accettati. Questa scelta si pone in controtendenza rispetto a quanto sta accadendo nei grandi gruppi di imprese che stipulano accordi transnazionali e adottano quali parametri di riferimento i diritti fondamentali sanciti dalle fonti Oil, nonché, come si è visto, nel programma Global compact delle Nazioni Unite e nel Rapporto Ruggie che da esso trae origine22. 3. Voci e minacce: il conflitto in bilico Ci sono buoni motivi, come si è detto, per guardare con grande attenzione alla formazione di un consenso transnazionale, in grado di esprimersi con formule nuove, anche se non prive di complessità e di punti controversi. Questo non vuol dire oscurare il conflitto, ma comprendere le ragioni per cui il conflitto può restare in bilico ai tempi della crisi, sospeso fra limiti e aspirazioni dei soggetti che lo praticano.

21   Les travaux de l’OIT bloqués par des divergences sur le “droit de grève”, in «Le Monde», 18 giugno 2012, http://mobile.lemonde.fr/economie/article/ 2012/06/18/les-tra vaux-de-l-oit-bloques-par-des-divergences-sur-le-droit-de-greve_ 1720665_3234.html. 22  Si veda supra, capitolo III, paragrafo 3.

­­­­­99

L’ibridazione tra fonti sopranazionali sollecita metodi argomentativi assai vari, poiché ognuno dei sistemi di norme preso in considerazione poggia su presupposti diversi e si rivolge ai destinatari delle decisioni con messaggi funzionalmente differenti. Ciò non impedisce che si crei talvolta una “convergenza internazionale” di standard, che consente, ad esempio, al valore fondamentale della libertà sindacale di transitare dalla Corte Suprema del Canada23, alla Corte europea di Strasburgo, al Comitato di esperti dell’Oil. La Corte canadese ha, infatti, ribaltato una sua ventennale giurisprudenza, in cui aveva escluso la contrattazione collettiva dal raggio della libertà sindacale. Lo ha fatto in risposta ad una caparbia strategia dei sindacati, attivi nel segnalare all’Oil il mancato rispetto dei diritti sindacali da parte del governo federale e regionale. La Corte, con riferimento all’art. 2 lett. d) della Canadian Charter of Rights and Freedoms, afferma che la contrattazione collettiva è protetta in quanto procedura, indipendentemente dai suoi esiti finali. Si profila dunque una tutela della libertà sindacale nella sua fase dinamica, piuttosto che una tutela del contratto collettivo come risultato economicamente rilevante. La tutela dell’obbligo a trattare in buona fede non lascia emergere altro che un diritto “limitato”, non così ampio da includere il diritto di sciopero, ma non per questo insignificante nel disegnare i contenuti della libertà sindacale quale principio ordinatore. È pur vero che il ruolo dei sindacati, designati quali agenti negoziali nell’espressione collettiva della libertà sindacale, potrebbe essere sminuito da interventi contraddittori delle corti nazionali, come suggerisce l’esempio canadese. Da qui nasce l’aspirazione ad ascoltare espressioni sempre più chiare delle corti 23   Supreme Court of Canada, Health Services and Support – Facilities Subsector Bargaining Association v. British Columbia, 2007, 2 SCR 291 27, commentata da J. Fudge, The Supreme Court of Canada and the right to bargain collectively: the implications of the Health Services and Support case in Canada and beyond, in «Industrial Law Journal», XXXVII, 2008, 1, p. 25. Il dibattito sulla costituzionalizzazione dei diritti sociali è molto vivo in quell’ordinamento, a seguito dell’entrata in vigore nel 1982 della Charter of Rights and Freedoms. Si veda J. Fudge, Constitutionalizing Labour Rights in Europe, in T. Campbell, K.D. Ewing, A. Tomkins (a cura di), The Legal Protection of Human Rights: Sceptical Essays, Oxford University Press, Oxford 2011. Una successiva decisione della Corte (Fraser v. Ontario 2011, 2 SCR, 3) ha sollevato dubbi sulla portata innovativa della precedente giurisprudenza. Si veda A. Bogg, K. Ewing, A (muted) voice at work? Collective bargaining in the Supreme court of Canada, in «Comparative labor law and policy journal», XXXIII, 2012, pp. 379 sgg.

­­­­­100

sopranazionali nella definizione di una nozione onnicomprensiva di libertà sindacale. In un quadro con luci e ombre, come quello tratteggiato fin qui, si può trarre una prima conclusione. Non dovrebbe essere amplificata oltre misura la risonanza provocata dal metodo del bilanciamento fra diritti sociali e libertà economiche. Tale metodo, rispecchiato in modo discutibile nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, non è altro che un cattivo esempio di giurisprudenza sopranazionale. Dovrebbe dunque essere ridimensionato il timore che l’ombra scura di una giurisprudenza controversa si allunghi oltre i confini dell’Ue, se si guarda con favore agli altri percorsi interpretativi aperti a Strasburgo e a Ginevra. Non si può, tuttavia, sottacere che le pronunce della Cgue hanno ingenerato paura nelle organizzazioni sindacali. Su questi aspetti si era soffermato il Rapporto Monti, citato in apertura di questo libro, per tentare di placare le molte ansie diffuse fra i cittadini dell’Ue. Le istituzioni politiche non hanno saputo rispondere in tempi rapidi a quell’invito, anche se le proposte sono ora ufficialmente sul tavolo del Consiglio europeo, che ha avviato l’esame di una nuova Proposta di modifica della Direttiva sul distacco dei lavoratori24 e di un Regolamento sull’esercizio del diritto di sciopero nel contesto della libertà di stabilimento e della libertà di prestare servizi25. Sulla scorta delle proposte avanzate in una fonte precedente, ispirata dallo stesso Monti, allora commissario europeo, e destinata a rendere compatibile l’esercizio del diritto di sciopero con la libera circolazione delle merci26, la Commissione propone ora un analogo obiettivo di contemperamento. Affinché il diritto di sciopero non sia 24   Commissione europea, Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente l’applicazione della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, Com (2012) 131 definitivo, 21 marzo 2012. 25   Commissione europea, Proposta di Regolamento del Consiglio sull’esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel quadro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, Com (2012) 130 definitivo, 21 marzo 2012. 26   Regolamento (Ce) n. 2679/98 del Consiglio, del 7 dicembre 1998, sul funzionamento del mercato interno in relazione alla libera circolazione delle merci tra gli Stati membri, Gazzetta ufficiale L 337/8 del 12 dicembre 1998. In tema G. Orlandini, Libertà di circolazione delle merci: un limite “comunitario” al conflitto sindacale, in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 1999, 84, pp. 623-668.

­­­­­101

solo «uno slogan o una metafora giuridica» – si legge nella Relazione – ma possa anzi contribuire alla costruzione di un’economia sociale di mercato, è necessario che l’esercizio di quel diritto avvenga nel rispetto del principio di proporzionalità e nella piena osservanza delle leggi nazionali. Punto centrale della Proposta è il ricorso a soluzioni extragiudiziali del conflitto, secondo le leggi, le prassi e le tradizioni nazionali. La novità consiste nel prevedere un rinvio alle parti sociali, affinché stipulino accordi o definiscano orientamenti circa le modalità della mediazione o della conciliazione, in presenza di «situazioni transnazionali o a carattere transnazionale» (art. 3 comma 2). Una fonte direttamente vincolante, il Regolamento, opererebbe dunque quale sede di fissazione di uno standard sussidiariamente delegato all’autoregolazione delle parti sociali europee. Si tratta di una soluzione insolita, che colpisce per l’attenzione prestata alla transnazionalità degli interessi in gioco. Tuttavia, come opportunamente osservato, si tratta di «un’occasione persa per colmare le lacune che ad oggi privano la contrattazione transnazionale di una minima base giuridica sul piano dell’ordinamento dell’Ue»27. Il rinvio ad accordi europei di settore potrebbe ancora essere immaginato come soluzione non peregrina, così come si potrebbe ipotizzare che si stipulino accordi transnazionali in aree geografiche limitrofe in cui è frequente la mobilità transnazionale. Queste scelte appaiono le uniche possibili, in presenza di una perdurante esclusione del diritto di sciopero dalla competenza del Trattato (art. 153 comma 5 Tfue), che impedisce, per ora, di imboccare la strada dell’accordo quadro europeo siglato dalle parti sociali, da recepire poi in una Direttiva. Nella Proposta di Regolamento compare anche il meccanismo di allerta, che si segnala come una nuova forma di collaborazione fra amministrazioni nazionali, orientata a salvaguardare il buon funzionamento del mercato interno. La precedenza di quest’ultimo obiettivo comprime l’esercizio del diritto di sciopero, nel senso di prefigurare un legittimo ricorso a tale diritto fondamentale purché esercitato entro i limiti indicati dalle leggi e dalle altre fonti nazionali. 27   G. Orlandini, La proposta di regolamento Monti II ed il diritto di sciopero nell’Europa post-Lisbona, http://www.europeanrights.eu/public/commenti/ Monti­_II_final.pdf; A. de Salvia, La proposta di ‘Regolamento Monti II’ in materia di sciopero, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», 2012, III, pp. 247 sgg.

­­­­­102

Anche questa materia si presterebbe ad un coordinamento transnazionale, che potrebbe vedere attive le organizzazioni sindacali nazionali ed europee. 4. Voci pre-occupate e conflitto limitato È difficile negare che la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, cui si è dedicato ampio spazio nelle pagine precedenti, costituisca, anche a distanza di alcuni anni dalle pronunce rese, un ostacolo imponente nel cammino verso un rafforzamento dei diritti sociali fondamentali. L’Europa, parlando con la voce dei suoi giudici sopranazionali, ha usato toni non sempre rispettosi delle identità nazionali e delle tradizioni costituzionali. È certamente un dato rilevante che la Carta dei diritti fondamentali, dotata ora di forza vincolante, sia divenuta parte integrante dell’ordinamento globale, come appare evidente dai riferimenti della Corte di Strasburgo nella sentenza Demir, esaminata in precedenza. La Carta si è arricchita nel corso degli anni di una consistente giurisprudenza applicativa, che va apprezzata come necessario completamento di un ciclo ricostruttivo delle fonti28. La questione centrale, che in termini propositivi appassiona gli osservatori, riguarda la piena appartenenza del diritto di sciopero al sistema di norme sopranazionali che regola i rapporti di lavoro. Non interessa agli interpreti dell’ordinamento globale una sua rituale declinazione, quale espressione di un potere collettivo basato sul principio di libertà sindacale, quanto piuttosto una sua concreta azionabilità in situazioni caratterizzate dalla transnazionalità degli interessi da tutelare29. 28   B. Caruso, M. Militello (a cura di), I diritti sociali tra ordinamento comunitario e Costituzione italiana: il contributo della giurisprudenza multilivello, Working Paper Csdle “Massimo D’Antona”, Collective Volumes, 1/2011, Università degli Studi di Catania, http://www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/wp/sp/caruso_bronzini­_ n1-2011sp.pdf; G. Bronzini, Happy Birthday; il primo anno di “obbligatorietà” della Carta di Nizza nella giurisprudenza della Corte di giustizia, ivi, pp. 26 sgg. 29   Di diritto di sciopero «ininfluente» o «secondario» scrive A. Lo Faro, Diritto al conflitto e conflitto di diritti nel mercato unico: lo sciopero al tempo della libera circolazione, in «Rassegna di diritto pubblico europeo», 2010, 1, p. 245. Vedi inoltre B. Caruso, Diritti sociali e libertà economiche sono compatibili nello spazio europeo?, in A. Andreoni, B. Veneziani (a cura di), Libertà economiche e diritti sociali nell’U-

­­­­­103

Dopo le vicende giurisprudenziali descritte, si osserva il lento cambiamento di un archetipo. Le nuove espressioni del conflitto, proporzionalmente orientate a non entrare in collisione con le libertà economiche esercitate nel mercato, potrebbero celare effetti destabilizzanti per gli equilibri dei gruppi che rappresentano gli interessi collettivi. Queste valutazioni sono innanzi tutto riferite al diritto di sciopero, ma non possono non riverberarsi sul parallelo diritto di contrattazione collettiva. Le due sfere di diritti esercitati dalle organizzazioni sindacali rientrano, non a caso, con accenti diversi, nelle argomentazioni della Cgue. La perdita di centralità del diritto di sciopero, inteso come unico e peculiare strumento sanzionatorio nello svolgersi dei rapporti collettivi, è percepita da alcuni come un punto di non ritorno, o se si vuole usare una metafora tanto efficace quanto abusata, come un tunnel senza uscita. Per molte generazioni di giuristi del lavoro il conflitto ha rappresentato il perno che stabilizza e rafforza l’autonomia dei sistemi di contrattazione collettiva. Dalla sua funzione di emancipazione sociale nasce l’equilibrio dei poteri negoziali che, proprio perché contrapposti, sono forieri di soluzioni sempre più avanzate. Con il conflitto, espressione della libertà sindacale, si sviluppa in modo speculare la contrattazione collettiva, che sfocia talvolta in pratiche più allargate di concertazione sociale. Una preoccupazione ricorrente è, non a caso, suscitata dai giudici, capaci, in senso letterale, di pre-occupare il terreno sociale e fattuale su cui, senza intrusioni esterne, dovrebbe liberamente esprimersi il conflitto. Ecco perché, secondo alcuni, le sentenze innovative della Corte di Strasburgo in materia di libertà sindacale potrebbero divenire una nuova trappola argomentativa, che non concede fiducia a un’interpretazione evolutiva, ma prefigura solo future derive giurisprudenziali. Vi sarebbe, in altre parole, una reticenza nell’assorbire il messaggio delle corti sopranazionali da parte dei giudici nazionali, forse perché poco consapevoli e concentrati su una litigiosità esclusivamente nazionale30. nione Europea. Dopo le sentenze Laval, Viking, Rüffert e Lussemburgo, Ediesse, Roma 2009, pp. 101-119. 30  Ewing, Hendy, The dramatic implications of Demir and Baykara, cit., e, sempre con riferimento all’ordinamento inglese, L. Hayes, T. Novitz, H. Reed, Applying

­­­­­104

Eppure, come si è detto, all’art. 11 della Cedu e all’interpretazione che di esso la Corte di Strasburgo ha fornito è spettato un destino di graduale e sempre più ampio riconoscimento. Da un’interpretazione “individualista”, ripiegata sulla garanzia della libertà sindacale negativa, si è passati alla valorizzazione di una dimensione collettiva, che lambisce il diritto di sciopero. Entrambe le interpretazioni riflettono la funzione biunivoca della libertà sindacale, che tutela i singoli titolari della libertà positiva e negativa, mentre contemporaneamente ne apprezza l’inequivocabile vocazione collettiva, a tutela di diritti indivisibili. Le due anime della libertà sindacale sono, inoltre, valorizzate dalla Corte di Strasburgo in epoche storicamente diverse, quasi a voler segnare un percorso evolutivo che tiene conto oggi di una più forte interconnessione fra norme sopranazionali e nazionali. È basata su un’altra pre-occupazione la critica di quanti vedono nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo un effetto deterrente e a volte intimidatorio nei confronti dei sindacati nazionali che si accingono a esercitare il diritto di sciopero e poi, in modo del tutto innaturale rispetto alla loro precipua funzione, si ritraggono, per evitare il rischio di una condanna simile a quella inflitta ai sindacati svedesi dalla Corte del lavoro di Stoccolma. In altre parole, la Corte di Lussemburgo, nell’indurre i sindacati a desistere, insinua una sottile minaccia che potrebbe nel lungo periodo svuotare la funzione del conflitto. Ancora più pre-occupanti sono i casi ignoti, quelli astrattamente riconducibili a una perdita di visibilità delle organizzazioni sindacali, per una sopravvenuta ritrosia o per un eccesso di cautela nell’utilizzare la più efficace fra le risorse, il conflitto, inteso come azione collettiva di autotutela31. In questo contesto di forti tensioni si colloca l’inusitata presa di posizione delle organizzazioni dei datori di lavoro presenti nell’Oil, the Laval quartet in a UK context: chilling, ripple and disruptive effects on industrial relations, in Bücker, Warneck (a cura di), Reconciling Fundamental Social Rights and Economic Freedoms, cit., p. 220. 31   Si veda, per un esempio, B. Adell, F. Hendricks, S.L. Willborn, Three perspectives on the Viking and Laval decisions, in «Comparative Labor Law & Policy Journal», XXXII, 2011, pp. 1023 sgg. Sia pure nella consapevolezza di una comparazione impossibile con sistemi federali, gli autori studiano gli ipotetici effetti della giurisprudenza Viking e Laval sull’ordinamento del Canada e su quello degli Stati Uniti.

­­­­­105

di cui si è detto. Quel segnale lede profondamente il ruolo di un organismo collegiale super partes, chiamato a svolgere funzioni interpretative, oltre che di monitoraggio. Le organizzazioni datoriali sembrano intenzionate a fare uso di un potere di veto, strumento che di per sé snatura i difficili equilibri di un’organizzazione tripartita come l’Oil. In una fase – come quella contemporanea – difficile per l’evoluzione delle politiche sociali europee e per i più vasti orientamenti globali, è quanto mai urgente superare dispute pre-occupate e guardare invece alla naturale evoluzione del diritto di sciopero. Circola fra gli studiosi più avveduti la convinzione che, per contrastare le molte e diffuse pre-occupazioni originate dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, siano da ricercare negli ordinamenti nazionali forme di conciliazione obbligatoria, o, in alternativa, debbano essere adottate misure di sostegno alla contrattazione collettiva della crisi, quali misure parallele che indirettamente servano a introdurre limiti all’esercizio del diritto di sciopero32. Anche la Proposta di Regolamento cosiddetta Monti II, prima citata, valorizza le misure di soluzioni dei conflitti alternative allo sciopero. Si tratta di posizioni pragmatiche, che tengono conto delle nuove costrizioni economiche entro cui si sviluppa il conflitto. La dispersione in mille rivoli dei regimi di solidarietà nazionali e transnazionali ha indiscutibili effetti sul conflitto, sulla sua funzione e sulla sua incisività. La crisi tende a ridimensionare il conflitto nelle sue espressioni tradizionali, mentre accentua un confronto aspro fra gruppi di lavoratori, distanziati dalla differenza delle tutele, oltre che da posizioni di marginalità nel mercato del lavoro. La finalità di emancipazione perseguita dal conflitto è ancora impellente, così come è indilazionabile il raggiungimento di una più equa giustizia sociale. Tuttavia, il diritto di sciopero può rivelarsi 32   B. Hepple, Rethinking Laws Against Strikes, in A. Kerr (a cura di), The Industrial Relations Act 1990: 20 Years On, Thomson Reuters, Dublin 2010, p. 148. Lo stesso Comitato degli esperti Oil nel caso Balpa già citato si spinge a suggerire che il diritto di sciopero possa essere disciplinato attraverso l’apposizione di limiti. Vedi anche L. Corazza, Tregua sindacale, governo del conflitto collettivo e competitività internazionale, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», XXX, 2011, 4, pp. 638-640; Ead., In search of industrial self-regulation or efficient settlement of employment disputes? The case of Italian arbitration reform, in «Comparative Labor Law & Policy Journal», 2012, pp. 245-248.

­­­­­106

inadatto come strumento primario di interpretazione delle attese e delle pretese dei lavoratori, nei casi in cui gli interessi collettivi da rappresentare non trovino una sintesi soddisfacente entro i confini nazionali. In altre parole, non si profila ancora con chiarezza la dimensione transnazionale del conflitto, anche se la Corte di Strasburgo sta muovendo passi importanti nell’ampliare la nozione di libertà sindacale, per confermarne la natura di principio ordinatore globale. Il conflitto finisce dunque per essere limitato, proprio a causa della crisi economica e di una scomposta competizione al ribasso fra regimi di solidarietà, difficile da contrastare, e ancor più da prevenire.

Conclusioni

Integrazione e disintegrazione

Nelle pagine iniziali si è voluto evidenziare che contrattazione collettiva e conflitto sono stati, nella tradizione europea, gli strumenti utilizzati dalle organizzazioni sindacali, per creare regimi nazionali di solidarietà e per consolidare i diritti che da tali regimi sono stati generati. Per lo meno nelle intenzioni manifestate dalle istituzioni europee, tali strumenti collettivi dovrebbero essere al centro delle politiche che in vario modo riguardano il lavoro. A questo riguardo, si deve, se non altro, rimarcare una vocazione pluralista dell’ordinamento europeo e una sua propensione a conoscere e comprendere le espressioni degli ordinamenti nazionali, incluse le manifestazioni dell’autonomia collettiva. Tuttavia, la contaminazione fra regimi regolativi, proprio perché il processo di integrazione è incompiuto, potrebbe generare effetti indesiderati, fra cui una incontrollabile competizione al ribasso, specialmente fra regimi salariali in situazioni di mobilità transnazionale dei lavoratori. Questo dato avrebbe ripercussioni preoccupanti anche riguardo all’esercizio del diritto di sciopero, provocando, passo dopo passo, una disintegrazione delle regole sociali che tanto peso hanno avuto nella costruzione dell’Europa sociale. Una mancata o imperfetta integrazione del mercato genera disparità di trattamento fra i lavoratori e forti tensioni fra le imprese che operano nel mercato interno. Basti pensare al regime degli appalti pubblici transnazionali e all’urgenza di chiarire i regimi salariali applicabili. Ugualmente problematica è la circolazione transnazionale dei lavoratori attraverso agenzie di lavoro temporaneo. La questione più direttamente legata ai temi del lavoro attiene all’autonomia dei sistemi nazionali di contrattazione collettiva, af­­­­­108

fiancata, nella tradizione europea, dal riconoscimento e dalla regolamentazione del diritto di sciopero. Si è voluto evidenziare, a questo riguardo, che la mobilità delle imprese e dei lavoratori, da considerare una risorsa del mercato interno e non una minaccia, ha scosso gli equilibri delle parti sociali nazionali, costringendole in più di un caso a profonde revisioni delle prassi e delle norme che governano i rapporti collettivi. Nell’attesa che sia modificata la Direttiva sul distacco dei lavoratori nella libera prestazione di servizi, secondo le sollecitazioni del Rapporto Monti, si è potuto constatare che molto è già cambiato in alcuni ordinamenti. Non sempre questi cambiamenti sono rassicuranti. Ad esempio, la cosiddetta legge Laval approvata con rapidità in Svezia a seguito della decisione resa dalla Cgue, è ora duramente attaccata da due grandi confederazioni sindacali, che hanno presentato un ricorso al Comitato degli esperti indipendenti incaricato di monitorare la Carta sociale europea, una fonte del Consiglio d’Europa che tutela il diritto di sciopero e di contrattazione collettiva1. Il tema centrale – occorre affermare – riguarda la competizione fra regimi salariali. L’autonomia delle organizzazioni sindacali nella gestione dei contratti collettivi nazionali è limitata dal fatto che non sempre tali fonti sono applicabili a lavoratori temporaneamente presenti nei paesi ospitanti. Il risultato, per lo meno quello ora esplicitamente denunciato dai sindacati svedesi, è il progressivo radicarsi di una disparità di trattamento fra i lavoratori. Si comprende, dunque, l’insolito invito, recentemente rivolto dalla Commissione agli Stati membri, affinché affrontino il tema del salario minimo, sia con la fissazione di regole chiare per l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi, sia con il ricorso, dove possibile, all’intervento legislativo. Senza alterare i regimi nazionali di solidarietà, si potrebbe ragionevolmente ipotizzare di combattere il dumping sociale introducendo formule di adattamento del salario minimo per i lavoratori temporaneamente presenti sul territorio degli Stati ospitanti. Si è 1   Collective complaint by Swedish Trade Union Confederation (LO) and Swedish Confederation of Professional Employees (TCO) v. Sweden, on the development in Sweden of freedom of association and right to take collective action after the European Court of Justice judgement in the Laval case (case C-341/05), Ricorso n. 85/2012 del 12 luglio 2012.

­­­­­109

visto che una soluzione analoga è adottata in Olanda per i lavoratori dipendenti da agenzie di lavoro temporaneo. Le organizzazioni sindacali potrebbero promuovere iscrizioni al sindacato per la durata del distacco transnazionale e offrire ai lavoratori servizi personalizzati di assistenza. Un uguale equilibrio potrebbe essere garantito dalle imprese che distaccano i lavoratori. La loro adesione a organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro o comunque l’applicazione di contratti collettivi dovrebbe essere formalmente provata. In attesa che si crei una soluzione a livello europeo, attraverso l’adozione di una fonte che fornisca il quadro giuridico di riferimento per accordi transnazionali come quelli descritti, le organizzazioni di settore più frequentemente interessate dalla mobilità transnazionale – ad esempio il settore dell’edilizia – potrebbero elaborare soluzioni condivise e fornire a imprese e lavoratori punti di equilibrio nella fissazione delle retribuzioni applicabili. In Olanda questi esperimenti continuano, come dimostra un accordo firmato nel giugno 2012 dai sindacati degli autotrasportatori, rivolto anche a lavoratori provenienti dall’Europa centrale e orientale, al fine di applicare in modo generalizzato la stessa retribuzione per lavori equivalenti2. Come si vede, il lavoro, le tutele che lo accompagnano e le opportunità che da esso sono generate, si colloca al centro di molte strategie che attendono di essere completate e talvolta meglio coordinate. I vincoli imposti dall’Europa devono essere interpretati criticamente, cercando di evidenziare, oltre alle debolezze di talune strategie, le loro potenzialità. Cosa può concretamente fare l’Europa affinché il lavoro sia dignitosamente interpretato in tempi di crisi? Un primo segnale da cogliere nel quadro, altrimenti nebuloso, delle riforme riguarda il bilancio europeo per gli anni 2014-2020 e il ricorso ai fondi strutturali per raggiungere obiettivi mirati, il più possibile collegati alla strategia Europa 2020. Un altro segnale, connesso al precedente, riguarda la valorizzazione dei livelli sub-nazionali – territoriali, regionali – nella messa a punto dei nuovi accordi di partenariato per la realizzazione di progetti sostenuti da fondi europei. Queste misure si propongono di migliorare il coordinamento delle politiche pubbliche e di farlo con l’intervento di soggetti portatori 2

  http://www.eurofound.europa.eu/eiro/2012/09/articles/nl1209019i.htm.

­­­­­110

di interessi collettivi. Ai patti di partenariato, negoziati in ottemperanza ai codici di condotta, la Commissione affida la realizzazione di progetti vicini alle esigenze dei cittadini, secondo il principio di sussidiarietà. Non deve sorprendere che, in risposta agli effetti provocati da una crisi globale, si proponga un ritorno a livelli decisionali e gestionali decentrati. Il governo di reti di imprese o di catene produttive e il sostegno a clusters innovativi non disperde le risorse, ma ne accresce l’incisività, attraverso un riconoscimento puntuale delle diversità. Si pensi all’innovazione nel campo dell’economia verde e delle energie rinnovabili, che si presta a essere incentivata in modo diverso, a seconda delle caratteristiche del territorio e delle risorse naturali. Si pensi anche alle attività formative necessarie per adibire i lavoratori alle nuove professioni. Anche a questo riguardo i patti di partenariato potrebbero disegnare percorsi integrati di innovazione e formazione, a condizione che si chiariscano con maggiore esattezza i ruoli assegnati a ciascun soggetto portatore di interessi collettivi. In questo modo si potrebbero spogliare di retorica e riempire di contenuti le politiche del lavoro ispirate alla flexicurity, ovvero a una combinazione ottimale fra flessibilità e sicurezza nelle tutele da riservare ai lavoratori. La flexicurity indica, fra le molte priorità, la formazione lungo l’arco della vita e la riforma dei servizi per l’impiego, per facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Si tratta, come è facile intuire, di politiche costose, che meritano di essere sostenute in contesti economici e produttivi dinamici, poiché sono le uniche adatte a rompere il circolo vizioso di una crisi occupazionale dovuta, tra l’altro, al mancato aggiornamento dei mestieri e delle professioni. Queste misure potrebbero se non altro avviare meccanismi virtuosi di crescita e di sviluppo e creare ancoraggi alle realtà produttive migliori, premiando le politiche del lavoro più efficienti. Ma questo non basta. Serve guardare oltre l’Europa e sostenere nuove forme di costruzione del consenso, attraverso la contrattazione transnazionale. A ben guardare, i diritti di rango procedurale, come sono da intendere i diritti di informazione e consultazione, posti a fondamento dei nuovi accordi transnazionali, si adattano allo svolgersi dell’ordinamento europeo proprio per la loro natura espansiva, orientata a valicare i confini nazionali – e sempre più spesso europei – così da rispondere alle rapide trasformazioni delle imprese. Anche a questo riguardo serve uno sforzo teorico di non poco ­­­­­111

respiro. I diritti procedurali, che confluiscono verso l’espansione di una nuova autonomia collettiva transnazionale, non sono alternativi al conflitto, ma da questo morfologicamente diversi. Non sono dunque da temere, poiché non è a essi imputabile una marginalizzazione delle tradizionali regole attraverso cui si esprime l’autotutela sindacale. Le diverse espressioni del conflitto contemporaneo sono, al contrario, sempre più legate all’indeterminatezza degli obiettivi raggiungibili e alla dispersione dei soggetti destinatari delle tutele, verso cui la lotta sindacale si è, per così lungo tempo, indirizzata. La contrattazione transnazionale si presta inoltre a interessanti sperimentazioni, quando è rivolta alle catene produttive, come può accadere nelle imprese di rete o nei rapporti di sub-fornitura. La ricerca di soluzioni alla crisi deve muoversi contemporaneamente in molte direzioni, con la finalità prevalente di attenuare le asimmetrie e ridurre le disparità sociali. Gli accordi transnazionali si propongono, tra l’altro, di diffondere il rispetto dei diritti fondamentali, sulla falsariga del Rapporto Ruggie, presentato alle Nazioni Unite, che insegue l’universalità dei diritti e favorisce la commistione tra fonti volontarie e fonti vincolanti, proprio per agganciare in un reticolo di impegni tutti i soggetti pubblici e privati. L’etica dell’impresa deve rispondere a parametri certi di misurazione circa l’osservanza degli obblighi assunti, così come i governi devono dimostrare di applicare le fonti internazionali, di rispettare e far rispettare i diritti umani. Un ultimo tema deve essere richiamato nel trarre le conclusioni e nel riflettere sui dilemmi fra integrazione e disintegrazione. Per completare e rafforzare l’integrazione del mercato interno, l’Europa ha predisposto con gli Stati membri uno schema di amministrazione condivisa, divenuto nel tempo sempre più penetrante. Le proposte del Rapporto Monti si orientano verso un rafforzamento del principio di leale collaborazione fra amministrazioni che ispira, a voler fare un esempio, la Direttiva sui servizi, accolta in modo a dir poco riluttante dagli operatori economici3. Anche la Proposta di modifica della Direttiva sul distacco dei lavoratori – che tenta di riempire le lacune messe a nudo dal caso Laval – si sofferma in modo preciso sulla 3   Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, in GUUE 27 dicembre 2006, n. L 376/36.

­­­­­112

cooperazione fra amministrazioni nazionali del paese di origine e del paese ospitante, con un intento critico delle precedenti soluzioni. Per costruire un’amministrazione realmente condivisa dovrebbe operare un ceto di tecnocrati esperti, in grado di trasmettere efficienza e tramandare buone pratiche. Questa è una delle tante attese andate in parte deluse. Gli apparati amministrativi degli Stati non sempre hanno risposto in modo rapido ed efficiente, né è stato facile coinvolgere le parti sociali in una gestione consensuale e nella trasmissione di informazioni. La libera circolazione dei servizi, proprio perché comporta una totale permeabilità dei mercati del lavoro nazionali e l’apertura di fronti potenzialmente competitivi, non può che essere guidata da criteri di massima trasparenza. L’Europa chiede di deporre reazioni protezionistiche per rafforzare il mercato interno, ma non indica ancora misure chiare per innalzare gradualmente le condizioni salariali e normative dei lavoratori provenienti da sistemi più deboli. Questo obiettivo non è ancora vicino e certamente non è facilitato dalla crisi, che accentua il ruolo di istituzioni sopranazionali economiche e finanziarie, irraggiungibili dai gruppi che rappresentano gli interessi dei lavoratori. Inoltre, la de-politicizzazione dei processi deliberativi, che si è avuta a seguito di un ricorso disordinato alla soft law nel coordinamento delle politiche occupazionali, non ha segnato il pieno successo di una burocrazia illuminata, né tanto meno il trionfo degli stati regolatori. Si può dire che, in un sistema che ambisce a divenire più integrato, l’assenza di sanzioni nei confronti degli Stati membri inadempienti o inefficienti contribuisce a deresponsabilizzare le amministrazioni nazionali e dunque ad affondare la tecnica del coordinamento aperto. Una rinnovata visibilità delle parti sociali e una loro più spinta assunzione di responsabilità nel governare gli effetti della crisi e le misure per porvi rimedio è funzionale allo schema del dialogo sociale, una tecnica che ha ormai consolidato le sue radici nel Trattato. Si deve dunque formalizzare una concertazione multilivello che veda le parti sociali coinvolte nelle fasi decisionali cruciali per il lavoro. Si pensi all’attuazione delle misure sulla crescita e l’occupazione, il Growth compact lanciato nel Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012 per controbilanciare il Fiscal compact. Le parti sociali dovrebbero proporre, ove possibile, soluzioni differenziate per aree geo­­­­­113

grafiche, con questo anticipando talune proposte che vedono nella cooperazione rafforzata una tappa di avvicinamento all’integrazione politica4. In aree geografiche interessate dalla mobilità di imprese e lavoratori si potrebbero sperimentare formule di negoziazione transnazionale su salari e condizioni di lavoro, affiancate da clausole di pace sindacale. La lotta contro il dumping sociale sarebbe in tal modo affidata a soggetti collettivi costruttori di un nuovo consenso transnazionale. Sul piano istituzionale, le misure adottate negli ultimi tempi, durante la peggiore emergenza, danno il segnale di una strategia frammentata, che rincorre eventi improvvisi e combatte minacce di speculazione. Il lavoro è al centro di queste complesse deliberazioni, anche se talvolta la sua rilevanza appare oscurata dall’urgenza di altre decisioni. L’appello per una nuova fase costituente, che dia voce agli Stati Uniti d’Europa5, come pure l’auspicio che si dia visibilità a «sfere pubbliche europee» per affiancare regole democratiche alle misure di integrazione finanziaria e fiscale6, non possono lasciarci indifferenti. L’integrazione del mercato non può avvenire senza porre rimedio alla disintegrazione dei diritti. Il lavoro è al centro di queste profonde tensioni istituzionali. 4   Come suggerito, ad esempio, da V.A. Schmidt, Europe 2012: The devil is in the details, in «Bepa Monthly Brief», n. 52, dicembre 2011-gennaio 2012, p. 3. 5   L’appello italo-tedesco Per una convenzione costituente europea, lanciato nel marzo 2012, ha acquistato ora una dimensione più ampia, estesa ad altri Stati membri http://www.movimentoeuropeo.it/index.php?option=com_content&view=art icle&id=199:lappello-italo-tedesco. 6  J. Habermas, Bringing the integration of citizens into line with the integration of states, in «European Law Journal», 2012, pp. 485-488.

Indice

Il lavoro e il mercato nel Rapporto Monti del 2010. Una premessa

I. L’Europa in tempi di crisi

vii

3

1. Paura dall’Europa: una falsa partenza, p. 3 - 1.1. Le conquiste delle parti sociali europee, p. 5 - 2. Paura dell’Europa: il quadro istituzionale, p. 9 - 2.1. Il semestre europeo, p. 12 - 2.2. Il Patto Euro Plus e le politiche salariali, p. 14 - 3. Le prime risposte alla crisi economica e finanziaria, p. 16 - 3.1. Un federalismo cooperativo, p. 20 - 4. Le intuizioni del Rapporto Barca: coesione sociale e accordi di partenariato, p. 22

II. La strategia «Europa 2020» e le politiche di «flexicurity»

27

1. Alle origini del Metodo aperto di coordinamento, p. 27 - 2. Alcuni contenuti di «Europa 2020». L’incerto ruolo del Consiglio europeo, p. 32 - 3. Sperimentazione e monitoraggio. Il ruolo della Commissione, p. 37

III. Dopo la «governance» europea, dentro la crisi globale

43

1. “Giuridificazione transnazionale” e nuovo pluralismo delle fonti, p. 43 - 2. Norme procedurali e tutele: uno sguardo agli accordi transnazionali, p. 50 - 3. Solidarietà, «dumping» sociale, catene produttive. Alla ricerca dei diritti fondamentali, p. 57

IV. Solidarietà transnazionale e conflitto 1. Diritti sociali e libertà economiche, p. 67 - 2. Il conflitto nei mari. Il caso «Viking», p. 71 - 2.1. Solidarietà e concorrenza. Il

­­­­­115

67

caso «3F», p. 75 - 3. Una scossa al “modello svedese”. Il caso «Laval», p. 78 - 3.1. Un effetto valanga: legislatori e giudici nel dopo «Laval», p. 85

V. Voci dall’ordinamento globale

92

1. La Corte di Strasburgo e la libertà sindacale, p. 92 - 2. Il conflitto nei cieli: una voce da Ginevra, p. 95 - 3. Voci e minacce: il conflitto in bilico, p. 99 - 4. Voci pre-occupate e conflitto limitato, p. 103

Conclusioni. Integrazione e disintegrazione

108