L'etica di fine vita 883110165X, 9788831101653

Lo straordinario sviluppo delle tecnologie biomediche porta con sé il rischio di un approccio riduzionista, che riduce l

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L'etica di fine vita
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IDEE / filosofia nuova serie L’ETICA DI FINE VITA

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Fabrizio Turoldo

L’ETICA DI FINE VITA

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Grafica di copertina di Rossana Quarta © 2010, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0165-3 Finito di stampare nel mese di marzo 2010 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Dedico questo libro alla memoria di mio padre, Duilio Turoldo 25.09.1937 - 03.12.2004

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INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

La bioetica è percepita, presso larghi settori dell’opinione pubblica, come un’etica dei limiti e dei confini. Tale percezione è in parte giustificata, perché uno dei compiti della bioetica è anche quello di porre dei limiti e dei confini, soprattutto quando il superamento di tali limiti rischia di minacciare realtà preziose, quali la dignità umana, il mondo animale o le risorse ambientali. Tuttavia, la bioetica non può e non deve limitarsi semplicemente a porre dei confini. Warren T. Reich, uno dei pionieri di questa nuova disciplina, ha giustamente osservato che un’eccessiva ed esclusiva attenzione ai confini porta a perdere di vista il centro. Per esempio, l’attenzione ai limiti da porre alle tecnologie mediche alla fine della vita e le relative problematiche dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia non devono far perdere di vista il centro che, in questo caso, è rappresentato dal significato che assume la vita quando si trova in condizioni di sofferenza, oppure dal significato che può assumere la cura, sempre in bilico tra pura prestazione tecnica e presa in carico integrale della persona sofferente. Osserva infatti, a questo proposito, Reich: «Un bel principio a nostra disposizione dice che non siamo obbligati ad usare metodi terapeutici sproporzionati. Bene, questo è un limite, ma l’etica dei limiti presuppone qualcosa che riguarda l’etica che non è dei limiti e che fa emergere invece la domanda centrale: perché prendersi cura della vita umana? perché in particolare prendersi cura della vita degli handicappati? cos’è in definitiva che ci lega

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tanto l’uno alla vita degli altri da spingerci ad assumere responsabilità l’uno verso l’altro? Questo è quello che io chiamo “il centro”. A questo certamente dovrà porre più attenzione la bioetica nei prossimi anni» 1. Passare dalla periferia al centro significa integrare l’etica delle norme e dei principi con l’etica delle virtù e dei valori. Le due prospettive sono complementari e non si escludono a vicenda, anche se tra di loro esiste un ordine gerarchico, come mostra molto bene Paul Ricoeur nei tre capitoli di Sé come un altro, dedicati al rapporto tra la morale del dovere e l’etica delle virtù 2. Questa premessa è necessaria per presentare un volume che giunge a prendere in considerazione il tema del limite, solo dopo essere passato attraverso il “centro”, cercando di rispondere alle domande che sono state così bene formulate da Reich sopra: «perché prendersi cura della vita umana? perché in particolare prendersi cura della vita dei malati? cos’è in definitiva che ci lega tanto l’uno alla vita degli altri da spingerci ad assumere responsabilità l’uno verso l’altro?». Il libro è dedicato infatti alla critica del riduzionismo medico, ad una prospettiva culturale, figlia dell’iperspecializzazione scientifica moderna, che tende a ridurre la persona al suo organismo ed il malato alla sua malattia. Le varie riflessioni che vengono proposte al lettore mirano a mostrare come “umanizzare le cure” non significhi soltanto dare maggiore autonomia al malato né, tantomeno, avere solamente maggiore preoccupazione per il consenso informato. La prima parte del libro mette infatti in evidenza il ruolo della cura, secondo le prospettive della bioetica al femminile, con l’effettivo contributo che essa fornisce alla prassi socio-assistenziale. In seguito il volume si sofferma sul tema della sofferenza e del dolore e della crisi esistenziale che colpisce il

1 W.T. Reich, La metafora che domina la Bioetica è il dialogo: una Bioetica senza dialogo è un controsenso, in C. Viafora (a cura di), Vent’anni di Bioetica, Padova 1990, p. 133. 2 P. Ricoeur, Sé come un altro, Milano 1993, pp. 263-407.

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malato terminale il quale, come ha più volte affermato Cecily Sounders, soffre di un “dolore totale”, che non è solo un dolore fisico, ma anche una sofferenza psicologica e spirituale. A tale dolore totale deve dunque corrispondere una cura globale, che non limiti la sua attenzione solo alla malattia, ma sia capace di rivolgersi alla persona malata in quanto tale. In altri termini si potrebbe dire che alla prospettiva specialistica del “to cure”, inteso come un curare in senso tecnico-medico, occorre far subentrare la prospettiva olistica del “to care”, che è un prendersi cura globalmente della persona malata e di cui il “to cure” deve rimanere un capitolo pur sempre importantissimo, ma tuttavia solo un capitolo. Questo passaggio, così necessario per l’intera prassi medica, è tanto più urgente nel campo delle cure di fine vita, dove le possibilità di un intervento curativo con finalità guaritive sono quanto mai ristrette. Un secondo giro di riflessioni, condotte sempre nella prima parte del volume, mira ad evidenziare i limiti dell’autonomia, limiti che derivano immediatamente dalla condizione umana. La seconda parte del libro entra infine nel merito dell’attuale dibattito sul limite delle cure mediche, sull’accanimento terapeutico, sull’eutanasia e sul testamento biologico, facendo però tesoro delle riflessioni svolte nella prima parte, senza le quali, come abbiamo sottolineato sopra, si perderebbe di vista quel “centro”, senza il quale verrebbero meno i punti di riferimento e di orientamento più essenziali.

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PARTE PRIMA MALATTIA E MORTE NELL’EPOCA CONTEMPORANEA

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UMANIZZARE LA MEDICINA

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UMANIZZARE LA MEDICINA. IL PRIMO FARMACO È IL MEDICO STESSO

I principali autori della letteratura bioetica contemporanea, trattando della fine della vita, hanno sempre dato ampio spazio al problema dell’eutanasia, trascurando invece, nella maggior parte dei casi, il tema dell’accompagnamento dei morenti, quasi che la questione del “quando” morire costituisse un problema più rilevante rispetto a quello del “come” morire. Warren T. Reich ha posto con forza questo problema in un suo noto intervento: «Come mai», si chiede infatti Reich, «coloro che si interessano di bioetica pongono tanta attenzione alla questione se il suicidio assistito e l’eutanasia siano moralmente giusti o sbagliati, ma negano quasi totalmente la questione del se e come dovremmo effettivamente prenderci cura di coloro che stanno morendo?» 1. Occorre, allora, che la bioetica faccia maggiore spazio al capitolo dell’etica del morire e all’etica dell’accompagnamento dei morenti, perché affrontare l’etica di fine vita nei soli termini dell’eutanasia rischia di dare un tono troppo legalistico (nella forma di un “è lecito - non è lecito”) ad una questione i cui contorni umani sono di un’infinita ricchezza e complessità. Nel quindicesimo secolo era molto diffusa la letteratura relativa all’ars moriendi, soprattutto nel sud della Germania, dove erano comparsi molti piccoli manuali, destinati alle persone che 1 W.T. Reich, Abbattere le mura che isolano i morenti: per un’etica del prendersi cura, in M. Gensabella Furnari (a cura di), Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire, II, Soveria Mannelli 2003, p. 35.

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si preparavano a morire e che, con l’aiuto di queste piccole guide pratiche, speravano di poter morire bene 2. Forse oggi sarebbe utile riprendere quella tradizione e, accanto all’ars moriendi, sviluppare una differente, ma complementare arte, ovvero l’ars morientem curandi. Certo, una tale operazione non risulta facile, perché la nostra è una cultura che ha operato una vera e propria rimozione delle questioni relative alla morte e al morire, con il favore di una medicina altamente tecnologizzata, che ha isolato e spersonalizzato questi eventi 3. D’altronde una tale rimozione diventa, per alcuni, l’unica e disperata soluzione, di fronte alla scomparsa di quell’insieme di espressioni culturali e religiose, un tempo comunitariamente condivise, che davano al morire un significato socialmente accessibile. Per altri, invece, e noi siamo fra questi ultimi, la rimozione non può mai costituire una soluzione, ma peggio, essa cela provvisoriamente il problema, per prepararne un successivo ritorno, in termini più drammatici e virulenti.

UNA MEDICINA AL SERVIZIO DELLA PERSONA Un grave problema dell’odierna medicina tecnologica ed iperspecialistica è il suo tendenziale riduzionismo. Per essere più efficace contro la malattia la medicina ha dovuto infatti ridurre

2 Sul tema dell’ars moriendi si veda B. Copenhaver, Death: Art of Dying, I. Ars moriendi, in W.T. Reich (ed.), Encyclopedia of Bioethics, revised edition, New York 1995, pp. 549-551. Cf. anche: A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino 1957. 3 Sulla problematica della morte nell’attuale cultura si vedano J.F. Bresnahan, Death: Art of Dying, II. Contemporary Art of Dying, in W.T. Reich (ed.), Encyclopedia of Bioethics, cit., pp. 551-554; M. Callanan - P. Kelley, Final gifts: understanding the special awareness, needs, and communications of the dying, New York 1992; C. Seale, Constructing death: the sociology of dying and bereavement, New York 1998; R.J. Lifton, The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life, Washington D.C. 1996; F. Camon, Così si spegne l’uomo macchina, in «Confini. Capire la morte per crescere la vita», settembre 1996, pp. 12-43; N. Elias, La solitudine del morente, Bologna 1995.

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UMANIZZARE LA MEDICINA

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e delimitare sempre di più il suo oggetto. Lo specialista, che rispetta la divisione analitica dei compiti, che indaga la malattia attraverso la sua potente e sofisticata strumentazione tecnica, facendo ampio ricorso ad esami strumentali, si interessa ad un corpo inteso come dato biologico, come oggetto empirico, sottoposto alle leggi deterministiche della natura e, all’interno del corpo, focalizza la sua attenzione su alcuni specifici organi, che sono quelli su cui verte la sua specializzazione. A volte l’oggetto viene ridotto ancor di più, fino ad arrivare all’analisi di singoli tessuti o cellule. Questa prospettiva riduzionista è propria della scienza ed è grazie ad essa che si sono raggiunti importanti risultati nella cura delle malattie e che la medicina è diventata, in alcuni casi, così efficace. La medicina accresce infatti il suo potere sulla malattia solo a prezzo di accentuarne la rappresentazione reificante. La medicina occidentale ha assunto un tale aspetto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, periodo che ha visto un impetuoso sviluppo della ricerca medica e dell’efficacia della biomedicina, in particolare nei confronti delle malattie infettive. Tali successi hanno prodotto un’enorme fiducia ed un notevole consenso sociale nei confronti della medicina scientifica, tanto da condurre ad una progressiva centralizzazione di tutte le attività mediche sotto la sua egida, sino ad arrivare ad una emarginazione e delegittimazione, anche penale, di ogni altra residua risposta alla patologia. Persino l’antropologia medica, nata nell’Ottocento per studiare le diverse forme di risposta alla patologia che vengono offerte dai diversi contesti culturali, era vittima di un pregiudizio aprioristicamente ostile alle “medicine altre”. Le risposte offerte alla patologia da parte delle società extra-europee o riscontrate negli strati cosiddetti “folclorici” delle società europee venivano considerate manifestazioni “superstiziose” di un’umanità che, rispetto ai protagonisti egemoni della civiltà europea, si situava ad un più basso gradino bio-culturale e si fondava su di una mentalità “arcaica”. In questa prospettiva le medicine “altre” venivano interpretate come significativi documenti per lo studio dell’evoluzione umana, del nostro

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lontanissimo passato, che dovevano venire sradicate per aprire la strada alla medicina “vera”, quella fondata sui recenti e rapidissimi sviluppi della biologia, l’unica scientifica e l’unica efficace o potenzialmente efficace. A partire dagli anni ’60, però, si è verificata un’importante inversione di tendenza: l’Occidente è divenuto il teatro di una forte domanda e, contestualmente, anche di una forte offerta di modalità di cura nate in parte nello stesso Occidente e in parte in altri contesti di civiltà, estranei alla biomedicina ormai egemone. Queste medicine non convenzionali, nonostante la loro eterogeneità, convergevano verso un approccio olistico alla malattia e si opponevano all’iperspecializzazione della biomedicina. Allo stesso tempo cambiava anche l’approccio dell’antropologia medica, che superava la prospettiva biologistica ed etnocentrica di stampo positivista per porre ad oggetto della propria ricerca anche la medicina occidentale, come una delle tante medicine prodotte nel corso della storia umana, come un prodotto storico radicato in una concreta e specifica tipologia di società e di cultura. Questo mutamento di prospettiva, questa relativizzazione della medicina occidentale, consentì all’antropologia medica di esercitare la propria critica nei confronti della biomedicina, il cui limite consisteva nell’essere radicata nelle sole discipline biologiche e chiusa ad una integrazione con le scienze storico-sociali in una complessiva e sistemica “scienza dell’uomo”. La cosa ancora più interessante da notare è, infine, il fatto che la critica svolta negli anni ’60 dall’antropologia medica si incontra oggi con un’autocritica che proviene dall’interno della stessa biomedicina, o perlomeno dai suoi settori più avvertiti, che rifiutano il vecchio riduzionismo biologistico alla luce dei risultati delle ricerche sulle correlazioni tra psichismo e salute, tanto che oggi uno dei settori più avanzati della biomedicina sta diventando proprio la psiconeuroendocrinoimmunologia, con delle prospettive future che vanno, sempre di più, verso una medicina integrata. Se vogliamo affrontare lo stesso problema in termini epistemologici, possiamo dire che la prospettiva della scienza bio-

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medica è quella dello “spiegare”, che è qualcosa di essenzialmente diverso dal “comprendere”. La spiegazione implica infatti una presa di distanza dall’oggetto che si intende indagare, che viene, appunto, oggettivato. Il corpo-oggetto di cui si occupa la medicina scientifica è diverso dal corpo-soggetto, che la fenomenologia, interpretando la sensazione di appartenenza che ognuno sperimenta, definisce “corpo proprio” (il mio corpo vissuto). Quest’ultimo non si spiega, ma si comprende, perché la comprensione è un conoscere “dall’interno”, che precede qualsiasi distinzione di soggetto ed oggetto. Per spiegare scientificamente un fenomeno, osserva H.G. Gadamer in Verità e Metodo 4, occorre distanziarsene e studiarlo attraverso l’applicazione del metodo. In questo modo, però, non se ne coglie la verità più profonda 5: la malattia oggettivamente descritta dallo specialista è diversa dal modo in cui io la vivo e la percepisco soggettivamente. Una determinata patologia può avere le stesse caratteristiche oggettive in molti pazienti, ma è diverso il modo in cui ciascun paziente vive la malattia. Si può persino misurare il livello oggettivo di dolore provocato da certe disfunzioni organiche, eppure la sofferenza è diversa per ognuno, perché la sofferenza dipende dalle risonanze emotive del dolore, che sono diverse per ciascuna persona. Finché la medicina si arresta all’ottica dello “spiegare”, essa è in grado di curare (in inglese to cure), ovvero di intervenire sulla malattia tramite un approccio di tipo tecnico. A volte però il curare non consente di guarire, anzi la cura oggi spesso conduce ad un semplice allungamento della sopravvivenza di pazienti affetti da malattie inguaribili. La conseguenza paradossale di questa situazione è che mentre si accresce il potere dell’uomo sulla malattia, lievita anche il potere della malattia sull’uomo. La crescita del potere tecnico della medicina propizia 4 Cf. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960; tr. it. a cura di G. Vattimo, Verità e Metodo, Milano 19907. 5 Gadamer infatti contrappone verità e metodo.

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infatti la dipendenza del malato da un apparato medico sempre più complesso. Cresce lo spazio che la malattia occupa nella nostra vita, mentre diminuiscono le risorse di cui dispone la coscienza del singolo per vivere la malattia e per integrarla nel disegno complessivo della sua vita. Ecco perché è necessario integrare la prospettiva del curare, inteso in senso tecnico-specialistico (to cure), con il prendersi cura (in inglese to care), inteso in senso umanistico. Questa integrazione del curare con il prendersi cura è fondamentale quando la malattia diventa incurabile, anzi, in questi casi il prendersi cura può diventare l’unica cosa da fare, l’unica cosa che si può ancora fare. Ma con ciò non stiamo affatto dicendo che negli altri casi il curare possa essere scisso dal prendersi cura, perché importanti autori, quali K. Jaspers 6, M. Balint 7, G. Engel 8, hanno efficacemente dimostrato che la malattia costituisce sempre un complesso fenomeno biopsico-sociale, che va affrontato con approccio olistico. Dai loro studi si ricava l’idea di una medicina centrata sul paziente, che integra la dimensione biologica della medicina tradizionale, con una prospettiva in cui il malato diventa protagonista. Una medicina, insomma, che ascolta il paziente e non solo i suoi sintomi.

APPROCCIO OLISTICO E RISPETTO PER LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

Incentrare la medicina sul paziente e non solo sul corpo o sull’organo malato significa avere rispetto per la dignità della persona, ovvero rispettare uno dei diritti umani fondamentali. Immanuel Kant osserva infatti che la dignità esprime il valore as-

6 Cf. K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Berlin 1959. 7 Cf. M. Balint, The Doctor, his Patient and Illness, London 1957. 8 Cf. G. Engel, The need for a new medical model, a challenge for biome-

dicine, in «Science», n. 196, 1977, pp. 129-136.

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soluto dell’essere ragionevole, come fine in sé 9 e da questo ne segue che trattare un essere umano come semplice corpo-oggetto, costituisce il primo modo per negarne la dignità. Questa affermazione teorica, apparentemente astratta, è, al contrario, ricca di enormi ricadute operative, che vogliamo qui di seguito esemplificare: 1) Se quello con cui ho a che fare non è solo un corpo-oggetto, ma una persona che vive in modo personale quel corpo, allora devo rispettarne il senso del pudore. Capita invece che, in certi casi, i medici parlino tra di loro del paziente come se il paziente non fosse lì presente, oppure come se la sua presenza fosse qualcosa di analogo alla presenza di un oggetto che arreda la stanza. Una tale situazione genera il sentimento di non contare come persona, sentimento che viene rafforzato quando il medico, pur essendo di fronte al paziente, parla in modo esoterico della sua situazione ad altri sanitari. A volte capita anche che gli infermieri o gli ausiliari commentino, davanti al malato, il suo stato (ad esempio il cattivo odore o la sporcizia delle deiezioni), come se lui non fosse lì, o come se non capisse. A volte è semplicemente il modo in cui viene guardato il corpo nudo del malato a suscitare vergogna, perché si percepisce uno sguardo oggettivante, oppure perché non viene usata discrezione, non vengono prese le dovute cautele (un luogo riparato, una certa delicatezza e riservatezza). Una minaccia al pudore del paziente può venire anche «da tutte le concessioni alla familiarità, alla trivialità e alla volgarità nelle relazioni quotidiane tra membri del personale medico e persone ospedalizzate» 10. Il pudore infine può essere influenzato dalla società e dall’educazione e, per questo motivo, è richiesta ai sanitari una certa accortezza nel trattare con persone provenienti da diversi contesti culturali.

9 Vedi I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di P. Chiodi, Roma-Bari 1985, p. 68. 10 P. Ricoeur, Les trois niveaux du jugement médical, in Id., Le Juste 2, Paris 2001, p. 232.

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2) Un altro modo di oggettivare e umiliare un malato è quello di violare il segreto professionale. Attraverso la violazione del segreto il malato è infatti oggettivato, perché ridotto ad oggetto di chiacchiera. Il mondo del malato, tramite il segreto, viene mantenuto al riparo dallo sguardo impudico e dalla parola indiscreta, che ferisce la dignità personale. Il segreto consente al paziente di ritornare ad essere soggetto in sé e per sé, dopo essere passato attraverso l’espropriazione della nudità, della vergogna, dell’essere toccato, dell’essere interrogato 11. 3) Spesso l’identificazione dell’operatore sanitario con il proprio ruolo lo allontana dal malato. Occorre invece che egli si avvicini al malato grave privandosi del potere che gli viene offerto dal ruolo raggiunto. Occorre che ognuno si mostri per quello che è: un essere vulnerabile e spesso privo di risorse di fronte alle esigenze dei malati. L’onestà rende più umani, mentre il ruolo omologa ed oggettiva. Con chi si attiene rigidamente al proprio ruolo è possibile solo un rapporto di tipo strumentale, legato all’erogazione di servizi e prestazioni. Le prestazioni, però, soddisfano solo il corpo e non la persona malata, che ha bisogno soprattutto di relazioni. 4) Considerare il malato come persona può consentire anche di comprenderne gli stati d’animo, reagendo ad essi nel modo più consono. Può consentire, più in particolare, di comprendere la rabbia che spesso attanaglia il morente. La prospettiva di perdere la vita genera, infatti, dei sentimenti molto intensi, tra cui l’incredulità, la rabbia, il senso di colpa e la vergogna. Per comprenderlo basta osservare come ci comportiamo di fronte alla perdita di un qualsiasi oggetto: prima non ci crediamo (forse l’ho dimenticato), poi ci opponiamo alla realtà, cerchiamo di contrastare il senso degli eventi. Di conseguenza possiamo reagire prendendocela con chi ci capita a tiro, con la persona che ci comunica la notizia della perdita, con noi stessi. 11 Sul tema del segreto insiste in particolar modo Paul Ricoeur in Les trois niveaux du jugement médical, cit., p. 233.

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E la perdita della vita è la più grave delle perdite, perché con essa perdiamo tutto il resto. Aiutare le persone in questa fase significa accogliere e comprendere la loro rabbia anche verso di noi e non restarne offesi. 5) Rispettare la persona significa dire la verità, rispettando i tempi e la sensibilità di chi è il destinatario di una verità che può essere crudele. La verità, infatti, non deve necessariamente essere brutale e violenta. Esiste un diritto alla verità, ad essere informato, ma esiste anche un diritto a non sapere. Qualcuno ha acutamente osservato che la morte, come il sole, non può essere guardata fissamente. Ebbene, a volte, il paziente mostra con evidenza l’esigenza di questo sguardo obliquo sulla morte, ad esempio quando, anziché parlare personalmente con il medico, manda un familiare. 6) Rispettare la personalità del malato implica mantenere un atteggiamento condiviso tra familiari, medici ed infermieri, per evitare disorientamento. A volte capita infatti che il medico e l’infermiere abbiano faticosamente introdotto con il malato il discorso della prossimità del morire o della gravità della situazione e subito dopo un parente animato da buona volontà, per sdrammatizzare, dica il contrario. Il malato, in questo modo, viene frastornato. Nulla infatti è più facile che credere ad una buona notizia, illudendosi, per poi ripiombare nella disperazione. 7) Occorre infine saper comprendere le esigenze più squisitamente spirituali del malato. Il bisogno di silenzio, per fare un confronto con se stessi e con quello che si sta vivendo. Il bisogno di mettere ordine nella propria vita quando ormai si sta lasciando tutto, di lasciare le cose a posto. Il bisogno di congedarsi, di salutare le persone che si lasciano. Il bisogno di essere ricordato, di lasciare memoria. Il bisogno di essere accompagnato, di non essere lasciato solo, di capire su chi poter contare. L’operatore, in questi casi, non è chiamato a risolvere problemi esistenziali, ma a segnalare, ad indicare qualcuno (un cappellano, uno psicologo, un volontario, ecc.), che possa aiutare quel malato per certe esigenze.

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IL MITO DEL GUARITORE FERITO. L’EMPATIA QUALE ELEMENTO ESSENZIALE DEL PRENDERSI CURA Gli operatori sanitari devono dunque rispettare delle regole, ma più ancora che il rispetto delle regole è richiesto loro un certo modo di essere. Passare dal semplice to cure, al più esigente to care, significa infatti soprattutto questo: non solo rispettare delle regole, ma assumere un atteggiamento empatico nei confronti del malato. Questo aspetto è stato molto bene sottolineato dall’“etica della cura” di autori come Reich 12, Blustein 13, Mayeroff 14 e dal “pensiero al femminile” di autrici quali Gilligan 15, Held 16, Ruddick 17, Young 18, Noddings 19 e Wolf 20. Secondo questa prospettiva l’etica ha a che fare anche con il “non semplicemente razionale”, ossia con la voce delle relazioni e delle emozioni. L’altro, a cui si rivolge la regola del rispetto, spesso infatti non è un altro “astratto” a cui ci vincola un dovere esteriore di giustizia o un ruolo sociale di responsabilità, ma un altro “concreto”, a cui ci riconosciamo legati da un vincolo 12 W.T. Reich, Alle origini dell’etica medica: Mito del contratto o Mito di cura?, in P. Cattorini - R. Mordacci (a cura di), Modelli di medicina. Crisi e attualità dell’idea di professione, Milano 1993, pp. 35-59; W.T. Reich - N.S. Jecker, «Care» (History of the notion of care; Historical Dimensions of an ethics of care in health care; Contemporary ethics of care), in W.T. Reich (ed.), Encyclopedia of Bioethics, cit., pp. 319-344. 13 J. Blustein, Care and Commitment. Taking the Personal Point of View, New York 1991. 14 M. Mayeroff, On Caring, New York 1971. 15 C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Cambridge 1982 (tr. it., Con voce di donna, Milano 1987). 16 V. Held, Feminist morality: Transforming Culture, Society, and Politics, Chicago 1993 (tr. it. di L. Cornalba, Etica femminista, Milano 1993). 17 S. Ruddick, Maternal Thinking: Towards a Politics of Peace, Boston 1989. 18 I.M. Young, Justice and Politics of Difference, Princeton 1990 (tr. it., Le politiche della differenza, Milano 1996). 19 N. Noddings, Caring. A feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley 1984. 20 S. Wolf (ed.), Feminism & Bioethics, New York 1996.

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affettivo che possiede una forte valenza normativa. Per esprimere con una semplice formula questa prospettiva contestualista, ma allo stesso tempo non situazionista (perché attenta ai principi), Susan Wolf, sulla scorta delle riflessioni di Carol Gilligan, parla di un’«etica della cura dotata di principi» (principled caring) 21. La bioetica al femminile è maggiormente sensibile alla prassi di cura per via della differenza di genere e dell’esperienza del prestare le cure materne, come hanno a più riprese sottolineato le più note autrici di questa corrente. La figura della madre costituisce infatti il paradigma e l’emblema dell’etica della cura. Il rapporto tra la madre e il neonato, così come il rapporto tra medico e paziente, non è un rapporto di reciprocità, ma un rapporto tra una persona vulnerabile, che ha bisogno di essere nutrita, accudita o curata, ed un’altra persona che, in questo senso e in questo contesto, risulta assolutamente potente. Il vulnerabile, sia esso il bambino oppure il paziente, evoca, nello stesso etimo del termine, il vulnus, la ferita, quasi a dire che egli è aperto sia alla cura che alla ferita, sia alla mano che lo accudisce e lo salva, sia a quella che lo colpisce e lo distrugge. Il vulnerabile, detto in altri termini, costituisce per l’altro il luogo di un’alternativa, fra cura amorosa e tremenda violenza. L’immaginario occidentale conosce molto bene questa alternativa e la rappresenta attraverso immagini archetipiche quali quella della Madonna, madre amorosa dell’iconografia sacra, o di Medea, madre di morte della mitologia greca. L’analogia tra la figura materna e quella dell’operatore sanitario è messa in risalto anche dalla fondatrice della professione infermieristica, Florence Nightingale, che scrive: «Tutte le mamme sono infermiere. Una brava infermiera non può essere necessariamente che una brava donna». È interessante inoltre il fatto che infermiera, in inglese, si dica “nurse”, mentre il verbo “allattare”, che richiama una funzione tipica materna, sia “to nur21 S. Wolf, Gender, feminism and death: Physician-assisted suicide and eutanasia, in S. Wolf (ed.), Feminism & Bioethics, cit., p. 305.

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L’ETICA DI FINE VITA

se”. “Nursery”, infine, è la “scuola materna”, dove appunto i bambini sono accuditi come dalle proprie mamme. A queste metafore di carattere materno, però, occorre porre un argine, per poterne cogliere il limite ed insieme la validità, non incorrendo in eccessi che snaturerebbero la professione dell’operatore sanitario e il concetto stesso di cura. In questa operazione ci aiuta la bioeticista australiana Helga Kuhse, che vede il rischio, insito in una certa concezione della cura, di proporre una visione dell’attività infermieristica troppo impegnativa, che sottoporrebbe il personale infermieristico ad evidenti rischi di burn out e alla sensazione di fallimento, qualora non si realizzasse compiutamente un rapporto empatico con il paziente. Inoltre, scrive Kuhse, i pazienti stessi non vogliono essere trattati in tale modo: la loro preoccupazione principale è di ricevere cure adeguate e competenti e di non essere trattati come un “oggetto” o come “un’appendicite in sala cinque”. «Se intendiamo il prendersi cura in generale come senso di disponibilità e apertura a conoscere la realtà connessa alla salute dell’altro», continua ancora la nostra autrice, «abbiamo colto ciò che chiamerò una “nozione disposizionale del prendersi cura”» 22. A questa capacità di “prendersi cura” alludeva anche Balint quando osservava, molto acutamente, che la prima medicina è il medico stesso e che, al di là dei farmaci prescritti, della terapia intensiva, la qualità della relazione tra medico e paziente assume un rilievo in nessun modo trascurabile in ordine alla terapia 23. Tuttavia, osservava ancora Balint, con amarezza, «la scarsità di informazioni su questo farmaco lascia stupefatti ed impauriti» 24. Per questo motivo la ricerca di Balint mirava soprattutto a propiziare nei medici l’abilità di cura. La via segui22 H. Kuhse, Prendersi cura. L’etica e la professione di infermiera, Torino 2000, p. 209. 23 «Il farmaco di gran lunga più usato in medicina generale è il medico stesso», M. Balint, Medico, paziente e malattia, Milano 1988 (1ª ed., 1957), p. 7. 24 Ibid.

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ta da Balint era quella della comunicazione e del confronto argomentato tra medici, perché non esiste, secondo questo autore, un sapere scientifico relativo all’abilità di cura. L’abilità di cura si costruisce attraverso un’attenzione riflessa a ciò che di fatto già accade nella relazione medico/paziente. In questo senso possiamo dire che le analisi di Balint si incontrano felicemente con l’idea aristotelica della saggezza pratica (phronesis) e del saggio (phronimos). Aristotele sosteneva infatti che sulla prassi buona noi siamo informati prima di tutto e soprattutto attraverso la prassi stessa. Allo stesso modo anche Jaspers sosteneva che le competenze umanistiche dei medici non costituiscono e non possono costituire una specializzazione aggiuntiva e tanto meno una radicale rivoluzione dei canoni convenzionali della medicina 25. Volendo tradurre le riflessioni di Balint in indicazioni operative, si deve rilevare che, se da un lato è essenziale curare la formazione umanistica del personale sanitario, dall’altro l’unica via per poterlo fare è quella del confronto e della collaborazione all’interno dell’équipe curante. L’azienda ospedaliera dovrebbe spingere maggiormente verso una gestione della vita di reparto sempre più improntata alla nascita di un lavoro di équipe, comprendente le varie figure professionali, sempre in dialogo e confronto tra loro e con il malato, che deve sentirsi protagonista del suo percorso di salute e anche di morte. Il ruolo della formazione permanente in ambiente ospedaliero dovrebbe essere quello di consentire agli operatori sanitari di condividere le esperienze. Formare il personale non significa offrire ricette, né fornire risposte preconfezionate, ma permettere di uscire dal diniego, dal silenzio, dall’illusione di controllo e di onnipotenza in cui i sanitari si trovano relegati dall’istruzione precedente e dall’atteggiamento della società. Bisogna offrire loro la possibilità di parlare delle esperienze che stanno vivendo, di ciò che li 25 Cf. K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, München 1986 (tr. it. di U. Galimberti, Milano 1990).

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L’ETICA DI FINE VITA

colpisce e li commuove, della loro concezione della morte, delle difficoltà di fronte ai pazienti. L’obiettivo finale a cui deve mirare questo percorso di lavoro e di confronto all’interno dell’équipe è quello di formare un operatore sanitario attento ai profili psicologici della malattia, al di là di quelli fisiopatologici: l’attenzione a tali aspetti distingue infatti la medicina “umanistica”, che si occupa anche e soprattutto del malato, da una medicina che si occupa solo della malattia. L’empatia verso il malato, però, non deve essere pura identificazione, ma equilibrio tra prossimità e distanza, tra coinvolgimento e distacco. Esiste un bellissimo mito greco, che tratteggia molto bene la figura del medico saggio e capace di empatia. Si tratta del mito del centauro Chirone, inventore della medicina e maestro di Asclepio. Apollodoro racconta che Chirone divenne un grande guaritore solo dopo essere stato colpito in modo insanabile da una freccia avvelenata; questo stato cronico della malattia gli permise di possedere una grande sensibilità e capacità verso coloro che soffrivano, potenziando così le sue capacità terapeutiche. Troviamo qualcosa di analogo anche nella tradizione cristiana, dove il Cristo diviene Redentore dell’umanità e Salvatore proprio quando porta in sé e patisce tutta la sofferenza. Il Cristo è colui che redime perché soffre. Questi archetipi mitici e religiosi hanno un grande valore simbolico e sono rivelativi anche per chi non crede al loro valore rivelato. Paul Ricoeur diceva infatti, molto opportunamente, che i simboli religiosi per i credenti sono rivelati, ma sono rivelanti per tutti, perché l’essenza del simbolo consiste nel «dare a pensare» 26. Il senso simbolico e rivelativo di questi archetipi mitici e religiosi è quello di aiutare il medico ad identificarsi con la situazione vissuta dal malato, il medico deve essere capace di empatia nel senso dell’attenzione alla struttura interiore dell’altro. In tedesco empatia viene tradotto con Einfülung, che significa sentire dentro, 26 Cf. P. Ricoeur, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité. I. L’homme faillible, Paris 1960.

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UMANIZZARE LA MEDICINA

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sentire se stesso nell’esperienza dell’altro. Forse occorre recuperare, in questo contesto, anche un senso laico dell’amore, inteso come spinta oblativa, come proiezione affettiva verso l’altro, come altruismo. In questa direzione ci aiuta anche la psicanalisi che ha recentemente rivalutato l’altruismo, contro la lettura riduttiva di Anna Freud, che lo giudicava come una sorta di condotta nevrotica 27. La proiezione affettiva verso il malato può allora prendere il nome di “empatia”, avvertendo, però, come abbiamo fatto sopra, che l’empatia non deve essere pura identificazione ma, al contrario, equilibrio tra prossimità e distanza, tra coinvolgimento e distacco, tra Engagement e Distanzierung, per usare i termini resi celebri da Norbert Elias 28. Il rapporto dell’operatore sanitario con il paziente deve muoversi costantemente entro queste due polarità, concettualmente opposte e operativamente complementari, che insieme formano la capacità di passare efficacemente da un’immersione empatica nel punto di vista del paziente alla prospettiva dell’osservatore esterno. L’identificazione pura e semplice, se ripetuta in molti casi e con molti pazienti, oltre ad essere sterile e a non aiutare nessuno, condurrebbe presto l’operatore verso il burn out. Al contrario, invece, l’eccessivo distacco si tramuterebbe presto in freddezza, indifferenza, cinismo e disumanità, ossia negli atteggiamenti che più sono in contraddizione con l’essenza stessa della professione sanitaria. Ma quali condizioni soggettive dobbiamo realizzare, quale lavoro su noi stessi dobbiamo compiere, per realizzare questo delicato equilibrio tra prossimità e distanza? Per diventare osservatore esterno dell’altro, dell’altro con cui sono in grado anche di entrare in risonanza empatica, devo anzitutto saper diventare osservatore esterno di 27 Si veda, a questo proposito, B.J. Seelig - L.S. Rosof, Normal and pathological altruism, in «The Journal of the American Psychoanalytical Association», vol. 49, n. 3, 2002, pp. 933-959. 28 N. Elias, Engagement und Distanzierung, Frankfurt am Main 1983 (tr. it., Coinvolgimento e distacco. Saggio di sociologia della conoscenza, Bologna 1988).

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L’ETICA DI FINE VITA

me stesso, raggiungendo il livello dell’autocomprensione metacognitiva. Questa capacità di staccarsi da se stesso, di «se déprendre de soi même», come diceva l’ultimo Foucault 29, o di percepire «sé come un altro», come diceva Paul Ricoeur 30, è un aspetto costitutivo della cura di sé, ma è anche un’attitudine senza la quale non mi sarà possibile comprendere l’altro, prendermi cura dell’altro. Questo “guardarsi dall’esterno” dovrebbe consentire all’operatore sanitario di riconoscere i suoi limiti, che sono poi i limiti di ogni uomo, accettando la propria finitezza ed impotenza e, soprattutto, cercando di riconoscere ed abbandonare quelle pretese eccessive che allignano nel subconscio e che si esprimono attraverso il senso di colpa. Occorre riconoscere ed abbandonare l’inconscio desiderio di onnipotenza, la pretesa di avere risposte per tutto, la tentazione di essere autoreferenziali. Per raggiungere questi obiettivi è necessario, per riprendere ancora la lezione di Balint, trovare occasioni di confronto nel gruppo di lavoro, perché siamo tutti fragili ed abbiamo bisogno degli altri e perché certi pesi portati da soli sono inevitabilmente troppo pesanti.

29 Cf. 30 Cf.

M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Milano 2003. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Paris 1990.

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LA MALATTIA COME CRISI

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LA MALATTIA COME CRISI. ESSERE VIVI FINO ALLA MORTE

Vari autori, trattando della malattia, l’hanno descritta come un momento di prova, di crisi 31. In effetti la categoria della crisi è quella più efficace per descrivere il tempo della malattia, che si presenta come un tempo nel quale il progetto complessivo di vita del singolo deve essere ripreso e modificato, perché mutano gli orizzonti temporali, le possibilità, il modo stesso di guardare alla vita, di interpretare il mondo. La tradizione cristiana associa la malattia alla penitenza e alla conversione, perché la malattia, così come la penitenza, ci costringe a convertire la qualità dei desideri e delle occupazioni che polarizzano la vita, a cercare una forma del volere diversa, capace di resistere agli effetti crudamente demistificanti a cui la malattia stessa ci sottopone 32. Il tempo di malattia è un tempo di crisi, perché perdere l’oggetto in cui si investe tutto il senso della propria vita è l’essenza stessa di ciò che intendiamo con il termine “crisi”, che deriva dal greco krísis, separazione. In questo caso separazione da tutto e da tutti. David Maria Turoldo, in una poesia composta nei suoi ultimi anni di vita, dopo aver appreso di soffrire di un male incurabile, descrisse in modo estremamente efficace i contorni di

31 Sull’idea di malattia come crisi ha molto insistito J.F. Malherbe in Pour une éthique de la médecine, Parigi 1987. 32 Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere. Saggio di filosofia morale, Milano 2000, p. 21.

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L’ETICA DI FINE VITA

questa crisi, alimentata dalla sensazione di «un tempo che frana tra le mani»:

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La sentenza che ora tu sai Nulla di nuovo aggiunge a quanto già doveva esserti noto da sempre: tutto è scritto. Di nuovo è appena un fatto di calendario. Eppure è l’evento che tutto muta e di altra natura si fanno le cose e i giorni. Subito senti il tempo franarti tra le mani: l’ultimo tempo, quando non vedrai più questi colori e il sole, né con gli amici ti troverai a sera… Dunque per quanto ancora? 33 Accenti simili a quelli di Turoldo si possono trovare anche nella saggistica che ha trattato di questi temi. Rigliano 34, ad esempio, definisce la malattia come violenza, come un colpo inferto alle radici dell’esistenza, come un attacco al proprio senso della vita. Nella malattia, osserva Rigliano, si sperimenta una riduzione delle capacità vitali che ricorda, giorno per giorno, che la morte si sta avvicinando e che fa sperimentare al morente l’esperienza del lutto per la perdita di sé. L’aspetto più caratteristico di questa condizione è l’angoscia provocata dall’immi33 D.M. Turoldo, Canti Ultimi, Milano 1991, p. 59. 34 Cf. A. De Santi - M. Gallucci - P. Rigliano, Il dolce morire, Roma 1999,

pp. 63-70.

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LA MALATTIA COME CRISI

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nente separazione da tutto ciò che si ama e dall’addio a quello che si era prima di essere colpito dalla malattia. La caratteristica principale del cordoglio è costituita dal desiderio, irrealizzabile, di tornare ad essere come prima. A questo proposito si è più volte parlato del tempo di malattia come di un tempo di nostalgia. Nostalgia, infatti, significa «dolore per il ritorno» 35, per un impossibile ritorno che invece si sarebbe ormai perduto senza rimedio. Identificarsi col proprio sé perduto è uno dei modi che il malato usa per fuggire l’angoscia provocata dalla realtà. Il percorso del cordoglio, comunque, non è uguale per tutti; chi ha goduto di una vita interessante e ricca di soddisfazioni ha solitamente un cordoglio di sé meno drammatico di quanto non lo sia per una persona insoddisfatta del suo passato e che prova un senso di incompiutezza. Anche l’età è un fattore che determina in maniera significativa il modo in cui viene vissuto il lutto di sé; un giovane è di solito assolutamente impreparato ad affrontare la morte perché la considera un’evenienza che non lo riguarda. Non c’è tempo per lui, tutto assorbito dai suoi impegni, progetti e sogni, di porsi il problema della morte e di rifletterci. Diversa è la condizione dell’anziano che sperimenta, giorno per giorno, attraverso il decadimento fisico, la morte dei suoi coetanei e il restringimento delle possibilità, l’avvicinarsi della fine 36. Uno studio dettagliato sulle reazioni psicologiche di pazienti vicini alla morte è stato condotto da E. Kubler-Ross, in un testo ormai classico dal titolo La morte e il morire 37. Dal lavoro di analisi delle interviste raccolte da più di duecento ma-

35 Dal greco nóstos, “ritorno” e algia, “dolore”. 36 Sulla differenza tra la morte del giovane e dell’anziano

si è soffermato Cicerone il quale, nel De senectute, osserva che la morte è comune a tutte le età e che solo uno sciocco potrebbe essere sicuro di vivere fino a sera, solo per il fatto di essere giovane. Ciò che distingue la morte di un giovane e di un anziano è, secondo Cicerone, il fatto che per l’anziano non vi è nulla di più naturale che morire, mentre un giovane muore con l’opposizione della natura («ai giovani toglie la vita la violenza, ai vecchi la maturità»). 37 E. Kubler-Ross, La morte e il morire, Assisi 1998.

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L’ETICA DI FINE VITA

lati Kubler-Ross ha individuato quattro fasi fondamentali che il malato attraversa alla fine della vita. La prima reazione del malato, di fronte ad una diagnosi di malattia mortale, è di norma uno stato di shock, da cui, a poco a poco, riesce a riprendersi. Una volta superato il trauma c’è un iniziale rifiuto, perché il malato non può credere che ciò stia accadendo proprio a lui e non vuole ammettere il suo stato 38. La reazione di rifiuto è propria sia del malato che è stato chiaramente informato sullo stato di salute, sia di chi non viene informato esplicitamente, perché a livello inconscio il malato percepisce sempre, secondo Kubler-Ross, la prossimità del trapasso. Il rifiuto parziale è un meccanismo di difesa che il paziente usa per prendere tempo e per mobilitare tutte le sue energie e far fronte alla notizia che ha ricevuto. Il rifiuto costituisce una reazione tipica di fronte alla diagnosi infausta, che viene adottata nella fase iniziale della malattia e poi, anche se in modo intermittente, durante tutto il decorso della malattia, per il semplice fatto che è impossibile continuare a vivere tenendo sempre di fronte agli occhi l’immagine della propria morte. È necessario, di tanto in tanto, rimuovere questa consapevolezza per andare avanti. La maggior parte dei pazienti utilizza il rifiuto nella prima fase della malattia, lasciando successivamente subentrare un’accettazione, anche parziale, della malattia. Dopo la fase del rifiuto e dell’accettazione, insorgono forti sentimenti di rabbia e di risentimento 39. Si tratta di una collera rivolta in tutte le direzioni, durante la quale il malato si mostra ipercritico nei confronti di tutto ciò che lo circonda. Le infermiere vengono giudicate incapaci, i medici prescrivono terapie inutili o impongono un ricovero troppo lungo, i parenti in visita vengono trattati freddamente o aggrediti con eccessi di rabbia. La domanda che il paziente si pone ossessivamente è: “perché tutto questo a me?”. Guardandosi attorno si chiede perché la sua sorte non potesse capitare 38 Ibid., 39 Ibid.,

pp. 50-62. pp. 63-69.

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LA MALATTIA COME CRISI

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a qualcun altro che, a suo giudizio, ha una vita meno interessante e produttiva. Il malato, in questa fase, può comportarsi in maniera collusiva, per attirare l’attenzione su di sé, per non essere dimenticato. Questa fase di collera risulta particolarmente difficile da affrontare e risolvere, perché mette in crisi non solo il malato, ma anche il personale ospedaliero e la famiglia. Un familiare rifiutato o trattato freddamente può provare forti sensi di colpa o una sorta di avversione che lo portano a diminuire il numero di incontri, provocando un aumento della rabbia del malato. Se, invece, chi si occupa del malato comprende che la rabbia non è dovuta a rancori personali e non se ne risente, allora, a poco a poco, la rabbia del malato diminuisce. Alla fase della rabbia segue quella del compromesso 40, in cui l’approccio nei confronti della malattia cambia completamente. Se prima il malato reagiva con risentimento, ora si comporta nel modo più corretto possibile, sperando quasi di avere una sorta di premio in cambio di una buona condotta. Il premio anelato consiste in un prolungamento della vita o in una diminuzione del dolore. Il venire a patti non è altro che un tentativo per rimandare la fine che lo aspetta. Questo patto impone un limite di tempo e l’implicita promessa che, una volta esaudito il desiderio, non si faranno ulteriori richieste 41. In realtà, osserva Kubler-Ross, nessun malato ha mai mantenuto la promessa di non chiedere ulteriori dilazioni. La quarta fase è infine quella della 40 Ibid., pp. 97-100. 41 In un celebre film

di Ingmar Bergman intitolato Il settimo sigillo si assiste ad un suggestivo dialogo fra la morte e un cavaliere tornato in patria dopo lunghi anni di guerra in Terrasanta. La morte è pronta a prendersi la vita del cavaliere, ma questi dice di non essere ancora preparato all’idea di morire e la sfida ad una partita a scacchi; se vincerà avrà salva la vita. Il cavaliere, che non vuole morire, sa perfettamente di non avere alcuna possibilità di battere la morte, ma ha bisogno di guadagnare un po’ di tempo per sistemare le faccende che ha lasciato in sospeso. La partita a scacchi non è altro che un compromesso per rimandare nel tempo ciò che è inevitabile, per permettere al cavaliere di riflettere sulla sua esistenza e per dire addio alle persone che ama.

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L’ETICA DI FINE VITA

depressione 42, che può intervenire quando il malato è più debole e deve subire nuove operazioni o terapie intensive. Non è più il tempo del rifiuto o della rabbia, si è di fronte al rischio concreto della perdita di sé e di tutto ciò che ci circonda. Il senso di perdita, che accompagna la depressione, può avere molteplici origini: mutilazioni fisiche dovute alle operazioni, la perdita del lavoro per le troppe assenze, l’incapacità di prendersi cura dei figli e le ingenti spese mediche che si devono affrontare. Ma sopra tutti questi motivi che conducono alla depressione c’è il dolore che il malato deve affrontare per la perdita di sé e di tutte le cose e le persone che ama. Si delineano pertanto due tipi di depressione: una depressione reattiva che si presenta come risposta ad una perdita subita e una depressione preparatoria che consiste in una anticipazione del dolore per tutte le perdite che si stanno per affrontare. Bisogna distinguere attentamente questi diversi tipi di depressione, perché differenti sono i modi in cui devono essere trattati. Nel caso della depressione reattiva esistono molte strategie d’aiuto; per esempio un’assistente sociale può aiutare una madre malata a trovare una sistemazione sicura per i figli, oppure un medico può consigliare una protesi al seno per una malata colpita da cancro, attenuando il senso di inadeguatezza che accompagna la sua depressione. La depressione preparatoria è invece un fenomeno completamente diverso: è il modo in cui il malato prepara se stesso a perdere tutte le persone e le cose che ama, è una sorta di processo di accettazione di ciò che gli dovrà accadere. In questo caso non risulta proficuo spronarlo a non lasciarsi andare, a reagire, perché ciò risulta d’ostacolo alla preparazione emotiva al distacco. Spesso può crearsi una forte collusione tra un malato, che è pronto a separarsi dalla vita e i desideri e le speranze di chi gli sta vicino e lo vorrebbe ancora combattivo. Questo tipo di collusione provoca irrequietezza e agitazione nel malato, che è pronto a lasciare la vita, ma non riceve il benesta42 Ibid.,

pp. 101-127.

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LA MALATTIA COME CRISI

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re delle persone che ama. Chi sta per morire è perfettamente cosciente del dolore che provoca ai suoi cari e lo vive come un pesante senso di colpa, che gli impedisce di essere sereno negli ultimi momenti di vita. Questa sofferenza può essere alleviata solo se si riesce a parlare della morte con i propri cari, magari piangendo e soffrendo assieme. In quest’ultima fase, che precede la morte, il malato è di solito molto debole e spossato e passa gran parte del tempo dormendo. L’aumento delle ore di sonno non è determinato da una rassegnata rinuncia a lottare, o dal bisogno di evadere per qualche ora dall’angoscia e dai dolori, ma è, come dicono alcuni malati, «il riposo finale prima del lungo viaggio» 43. Questo è il momento del silenzio, in cui il malato vuole essere lasciato solo, perché ha accettato il suo destino e tutte le cose che prima lo interessavano ora non hanno più importanza.

LA PAROLA COME RIMEDIO E COME CURA La malattia, come abbiamo appena visto, è occasione di profonda crisi per il malato. Ma, allora, ci si chiede: com’è possibile uscire dalla crisi, ammesso che sia possibile? A questa domanda Jean-François Malherbe 44 risponde distinguendo tra crisi sterili e crisi feconde, crisi subite e crisi assunte, osservando che la differenza tra le prime e le seconde sta nel fatto che queste ultime riescono a venire al linguaggio, mentre le prime sono passate sotto silenzio. Perché una crisi possa aprire verso un cambiamento, perché una malattia possa diventare un’esperienza positiva, è necessario infatti che il malato giunga, con l’aiuto di un medico o di altre persone, a trovare in se stesso la forza di condividerla e comunicarla. Per superare la crisi occorre essere capaci di pensare a sé come a qualcuno che è capace 43 Ibid., p. 129. 44 Cf. J.F. Malherbe,

Pour une éthique de la médecine, cit.

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L’ETICA DI FINE VITA

di trovare un seguito alla propria storia e che è capace di raccontarla ad un altro. La condizione essenziale perché una crisi sia un’occasione di cambiamento è, precisamente, il fatto che qualcuno sia là per ascoltare l’altro che è in crisi e che si racconta. Ascoltare senza banalizzare, senza giudicare, con l’attenzione rivolta al senso profondo della storia. La crisi è un periodo drammatico: un’occasione di giudizio, di rivalutazione dei momenti cruciali della propria vita, di ristrutturazione della propria gerarchia di valori. La narrazione di questo processo di rivalutazione ha, almeno dal punto di vista soggettivo, un significato terapeutico. La capacità di portare la malattia a livello del linguaggio si contrappone all’insignificanza e all’isolamento. Parlare della malattia è senza dubbio un atto catartico. Per questo si può dire che lasciar parlare il malato costituisce uno degli elementi cruciali dell’umanizzazione del morire. La cosa più disumana sarebbe infatti l’erigere delle dighe su questo argomento, magari segnalando al malato – con grande discrezione – che un discorso tanto fastidioso e privato è meglio per tutti che non sia neppure aperto. Le barriere comunicative sono una strategia a cui i sani ricorrono per difendersi da quella sinistra risonanza che suscita, in chi è sano, il lamento del malato. Chiudere la bocca al malato, però, è vile e crudele, perché la confessione delle pene è indispensabile affinché ci si possa porre di fronte alla malattia vera e non di fronte ad una malattia soltanto immaginaria. La confessione esorcizza il processo di proliferazione semantica incontrollata della malattia. Mediante la confessione il vissuto emotivo passa alla coscienza e diventa occasione di libertà. Malherbe giunge persino ad affermare, quasi in un’iperbole, che il problema fondamentale della medicina contemporanea è il posto che essa riconosce o nega alla parola 45. Noi infatti parliamo di sintomi, di malattia, di esami clinici, di risultati delle analisi, di prescrizioni da seguire, di ticket, onorari, ecc., mentre il malato non è aiutato a parlare delle sue pre45 Cf.

ibid.

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LA MALATTIA COME CRISI

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occupazioni profonde, dei suoi desideri, dei suoi fallimenti, delle sue speranze e della sua disperazione. È molto raro che il medico lo inviti a parlare a questo livello, o che gli lasci la libertà di esprimersi in modo veramente personale. Si perderebbe troppo tempo. C’è un modo di curare o di farsi curare, che evita la parola e che riduce l’uomo ad un organismo funzionale, sordo e muto. E. Kubler-Ross, come si è visto, ha condotto la sua ricerca entrando in contatto con i malati, chiedendo loro di parlare della propria condizione e cercando di comprenderne le angosce. Nel condurre le sue interviste la studiosa non ha incontrato particolari difficoltà, perché il più delle volte il malato risultava felice di partecipare all’intervista, contento che qualcuno si interessasse a lui e ascoltasse quello che aveva da dire. Il primo motivo che induce il malato ad aprirsi è dato, secondo KublerRoss, dall’isolamento e dalla frustrazione che egli sperimenta durante la degenza ospedaliera. Si sente inutile, abbandonato e non riesce a dare un senso alla propria esistenza. Le giornate scorrono monotone e sembrano non avere nessuno scopo, il malato vive aspettando il giro del medico, sperando che qualche infermiera abbia un minuto libero per parlare un po’. Forse, osserva Kubler-Ross, le interviste fungono da momento di rottura in questa routine che scandisce ogni minuto della giornata; il malato si sente finalmente di fronte a persone che vogliono sapere di lui in quanto essere umano, che gli chiedono di esprimere i propri sentimenti, i propri dubbi. Qualcuno è finalmente disposto ad ascoltarlo, ha del tempo da dedicargli e soprattutto lo lascia esprimere senza giudicarlo o indirizzarlo. La disponibilità del paziente dipende principalmente dal fatto che egli ha la sensazione che la sua testimonianza possa avere un significato per le persone che lo ascoltano, che sia qualcosa di importante e di significativo. Il malato, che si sente inutile, ha bisogno di sapere che vale ancora qualcosa per qualcuno. Forse il motivo per cui tante persone hanno accettato di parlare della propria fine imminente è la speranza di lasciare qualco-

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sa di sé anche dopo la morte, come se le idee, i sentimenti continuassero a vivere, a essere discussi e divenissero in una certa maniera immortali. Ciascun malato ha sottolineato il fatto che l’attenzione rivoltagli è molto importante e porta nella sua vita un po’ di speranza, un po’ di luce e un po’ di senso 46. Marie de Hennezel, una psicologa e psicoanalista francese che si è dedicata per anni all’accompagnamento dei morenti presso l’unità di cure palliative dell’Ospedale della Città Universitaria di Parigi, porta una testimonianza molto simile a quella di Kubler-Ross, sottolineando l’importanza che ha per il malato la narrazione del proprio vissuto. Chi sta per morire sente l’esigenza di lasciare qualcosa a chi rimane e tenta di dire ciò che conta davvero, non accontentandosi di stare alla superficie delle cose. Anche se si è vicini alla morte c’è ancora spazio per la gioia e per creare rapporti di un’intensità e profondità mai provati prima. Morire non è un evento privo di senso, anzi, le ultime fasi della vita possono essere utili al compiersi di una persona e possono cambiare profondamente chi le sta accanto. Quando da un punto di vista medico non c’è più nulla da fare, si può ancora amare ed essere amati; questo è, secondo Marie de Hennezel, il grande insegnamento dei malati che lei ha accompagnato durante le ultime fasi della vita 47. Il moribondo è una persona ancora viva, che ha molto da dare e da insegnare, anche se sta attraversando un momento critico. Solo se si comprende che i malati terminali sono vivi fino alla fine, l’accompagnamento al morente potrà diventare un’esperienza intensa, che arricchisce chi decide di viverla. Le parole di Marie de Hennezel suonano molto simili a quelle del filosofo francese Paul Ricoeur che, ormai ultranovantenne, nel periodo immediatamente precedente alla morte sosteneva, in alcune interviste ed in alcuni scritti pubblicati po46 E. Kubler-Ross, La morte e il morire, cit., pp. 282-287. 47 M. de Hennezel, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta

per morire,

Milano 2003, pp. 16-19.

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stumi 48, di voler «être vif jusqu’à la mort» 49, dove quella che può sembrare una tautologia è, in realtà, una frase ricca di un profondo e significativo insegnamento. Una frase che ci insegna a non trascinare la vita in un inutile attesa della morte, che in realtà è già morte, morte anticipata, ma ad “essere vivi” in un senso più profondo ed autentico fino alla fine, trovando un significato anche in quell’ultima parte della vita. Ricoeur, con quelle parole, ci insegna ad esercitare la virtù della speranza fino alla fine. I malati, infatti, hanno bisogno non solo di medicine per il corpo, ma anche di speranza di cui si possa nutrire lo spirito, in modo che non si arrendano ad una prospettiva angusta, in cui il tempo di malattia viene percepito solo come tempo perso per la vita, quasi che non ci fosse altro da fare che aspettare che passi, con l’aiuto dei medici. La speranza è la strada stretta tra illusione e disperazione, essa propone degli obiettivi limitati, ragionevoli. In francese esiste il termine “espoir”, che indica una piccola e limitata speranza, che è alla portata di tutti. Essa consente di dare senso alla vita, perché ogni giorno e ogni ora possono avere un loro significato, un loro compito. La piccola speranza (“espoir”) è a disposizione anche di chi non possiede la grande speranza (in francese “espérance”), che, in questo caso, è la speranza di vivere in eterno. Occorre allora giocare al contrario il proverbio ed affermare che “finché c’è speranza c’è vita”, perché la vita senza speranza è solo un’ombra della vera vita. La vita senza speranza è pura attesa della morte e dunque morte, morte anticipata. Insomma, ciò di cui hanno bisogno i malati non è la speranza stupida delle parole di circostanza, ripetute senza crederci, ma la speranza che anche per piccoli tratti, anche per poco tempo si può continuare a vivere e a vivere significativamente, persino se il tempo è ormai alla fine.

48 P. Ricoeur, Vivo fino alla morte, 49 «Essere vivo fino alla morte».

Cantalupa 2008.

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QUANDO NON CI SONO PIÙ PAROLE Se, come abbiamo osservato sopra, la parola può essere un rimedio, occorre ora aggiungere che, a volte, nella fase terminale della malattia, viene meno anche questa preziosa risorsa. Le malattie neurodegenerative come, ad esempio, l’Alzheimer, conducono progressivamente il malato verso una condizione di totale incapacità di comunicazione verbale. Ma anche altre malattie, come ad esempio certe patologie oncologiche, sono caratterizzate, soprattutto nella fase finale, dalla perdita delle capacità comunicative. Cosa ci rimane a disposizione in questi casi? Ancora la comunicazione, anche se essa non può più essere veicolata attraverso il canale verbale. Si possono infatti creare le condizioni per mettere qualcosa in comune anche senza lo strumento della parola. Per comprendere questo occorre riprendere in considerazione il paradigma materno, che costituisce, come abbiamo precedentemente osservato, il modello della relazione di cura. La madre, infatti, comunica intensamente con il suo bambino, anche se il piccolo non è in grado di parlare. Se il bambino piange, la mamma si rattrista con lui; se il bambino ride, la mamma gioisce con lui. La mamma sa ascoltare, osservare, comunicare con le carezze, i baci, la mimica del volto. Il bambino non capisce le parole della mamma, ma la mamma gli parla, perché comunica attraverso il tono della voce, la dolcezza delle parole. Ma se la mamma fa questo con il figlio piccolo, non può fare altrettanto questo figlio quando, divenuto adulto, si trova ad accudire la madre malata? Non si tratta dello stesso tipo di comunicazione? La nostra cultura, purtroppo, ci porta ad una considerazione eccessiva per i fattori cognitivi. Sembra che, quando una persona non è più in grado di esprimere pensieri e parole (o non lo è ancora), essa non abbia lo stesso valore o non meriti lo stesso rispetto di chi è in grado di esercitare queste facoltà. Alcuni bioeticisti giustificano l’eutanasia, l’aborto e a volte persino l’infanticidio anche in base al minor valore attribuito alla vita di chi non esercita capacità cognitive e lin-

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guistiche 50. Alcuni di questi teorici dicono infatti che la vita biologica va distinta dalla vita biografica e che quando vengono meno le capacità cognitive, allora è venuta meno la vita biografica e ci si trova di fronte ad un mero dato biologico, ad un corpo oggetto che si può tranquillamente sopprimere. Tali teorizzazioni trovano sostegno in un’errata ipertrofia del cognitivo. In realtà, invece, quando ad una persona si spegne il cervello, non per questo si spegne anche il cuore, perché il cuore si perde solo con la morte 51. Se il cuore batte, allora rimane viva la nostra identità e noi continuiamo ad essere ciò che siamo. I piccoli gesti di affetto, i baci, le cure, le tenerezze che gli altri ci rivolgono non cadono nel vuoto per il semplice fatto che i nostri neuroni sono irrimediabilmente compromessi: questi gesti si depositano nel cuore e per questo non sono mai sterili, non sono mai un sovrappiù. La memoria affettiva continua ad essere viva nonostante l’assenza di pensiero razionale e di linguaggio. Si può perdere la memoria recente o remota, si può perdere la consapevolezza spazio-temporale, possono prodursi alterazioni del linguaggio, del pensiero e della personalità, si può arrivare ad una grave incapacità di parlare, sino al mutismo assoluto, all’impossibilità di conoscere o agire, ma non si perde per questo la memoria del cuore. Quando si ha a che fare con un malato che ha irrimediabilmente perduto certe funzioni cognitive e comunicative occorre adattare i propri modi di comunicare alla sua capacità di comprensione. Non è realistico e nemmeno rispettoso pretendere da

50 Sono arcinote, ad esempio, le posizioni assunte da P. Singer a questo proposito (cf. Etica pratica, Napoli 1989, oppure Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano 1996). Ma Singer è solo il più noto di una lunga schiera di teorici che affermano idee molto simili alle sue. 51 Sono debitore di questa interessante distinzione tra mente e cuore e delle considerazioni che seguono alla relazione di Angelo Brusco, tenuta il 15 ottobre 2005 al convegno sulla malattia di Alzheimer, celebrato in occasione dell’inaugurazione di «Casa Madre Teresa di Calcutta», a Sarmeola di Rubano (PD).

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lui prestazioni comunicative che egli non è in grado di fornire. Occorre parlare con chiarezza, molto lentamente, usare frasi molto brevi, semplici, concrete, comunicare un messaggio alla volta. Ascoltare con pazienza e lentamente, seguendo il ritmo del malato. Soprattutto evitare di sgridare il malato perché non risponde alle proprie attese, tenendo presente che il nostro linguaggio, verbale e non verbale, non veicola solo informazioni, ma anche sentimenti, emozioni. È bene stare vicino al malato, chiamarlo spesso con il suo nome, toccare delicatamente il suo corpo, con i gesti di affetto ed amicizia, ma anche con quelli finalizzati alla pulizia e alla medicazione del corpo. Ci si può mettere di fronte al malato, alla sua altezza, si può stabilire un contatto con lo sguardo. Più la malattia progredisce e maggiore peso acquistano queste modalità non verbali della comunicazione. Verso la metà del secolo scorso un medico olandese, Frans Veldman, ha ideato una pratica di approccio psicotattile a cui ha dato il nome di “aptonomia”, cioè “scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto” (dal greco hapsis, “tocco” e nomos, “regola”). Veldman utilizzava questo tipo di approccio per favorire le relazioni tra i genitori ed il loro bambino, dal concepimento alla nascita, sino al periodo post-natale. Da circa vent’anni la disciplina ideata da Veldman è stata applicata con successo anche alla fase finale della vita. Una delle più strenue sostenitrici dell’utilità dell’approccio aptonomico anche alle fasi finali della vita è Marie de Hennezel, a cui abbiamo già fatto precedentemente riferimento. Le analogie tra la fase finale e quella iniziale della vita sono infatti evidenti: sono questi i momenti in cui si è più fragili e vulnerabili, in cui la comunicazione e le relazioni con gli altri avvengono prevalentemente o esclusivamente attraverso il canale non verbale, in cui si ha più bisogno della cura e della presenza attenta ed amorosa degli altri. Le percezioni sensoriali sono al centro dell’affettività e l’affettività è amplificata nei momenti della vita in cui si è più vulnerabili. Nelle persone allettate le capacità percettive si acuiscono in modo del tutto particolare. Il contatto aptonomico, offrendo una conferma affettiva al

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soggetto, gli consente di acquisire una “sicurezza di base”, che mette in moto una serie di fenomeni psicofisici positivi, che possono modificare anche la capacità di rispondere alle malattie e di vivere il tempo del morire. Occorre infine aggiungere che, oltre alla comunicazione non verbale, esiste anche la comunicazione data dalla nostra semplice presenza. Per l’operatore sanitario, per il familiare, o per il volontario, chiunque esso sia, lo stare vicino al malato in fase terminale (nel silenzio, tenendogli la mano, parlandogli…) può rappresentare la via migliore per accompagnarlo verso la morte. Questo è l’unico modo per accettare e superare il senso di impotenza e sconfitta che nasce di fronte ad un evento così drammatico e coinvolgente e, non a caso, il motto dei volontari americani che si dedicano all’accompagnamento dei morenti è «resta sveglio con me». «Resta sveglio con me», come chiedeva Gesù agli apostoli prima di affrontare la morte. Lo stare sveglio al capezzale del malato richiama, inoltre, ancora una volta, una figura materna, quella della Madonna ai piedi della croce. Lo Stabat Mater è infatti una delle rappresentazioni plasticamente più efficaci della categoria etica della cura, che, come abbiamo più volte sottolineato nel corso della nostra riflessione (e come giustamente afferma la bioetica al femminile), costituisce innanzitutto una naturale prerogativa materna.

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PARTE SECONDA LE DECISIONI DI FINE VITA

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VALORE E LIMITI DEL MODELLO DELL’AUTONOMIA DECISIONALE

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VALORE E LIMITI DEL MODELLO DELL’AUTONOMIA DECISIONALE IN SANITÀ. UNA PROSPETTIVA FILOSOFICA

LA MODERNITÀ E IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA La progressiva emergenza del valore dell’autonomia costituisce una delle caratteristiche fondamentali della modernità. Se la cultura medievale era centrata sull’idea di una fondamentale unità dei saperi, al contrario la cultura moderna fa dell’autonomia dei saperi il proprio vessillo. Niccolò Machiavelli nel ’500 e Galileo Galilei nel ’600 ne sono tra i maggiori interpreti: il primo perché rende autonoma la politica dalla teologia e dalla morale, il secondo perché fa lo stesso con la scienza. Ma lo stesso spirito permea l’opera di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, nel ’300, i quali propongono al pubblico una poesia ed una prosa di carattere profano, autonoma dalla teologia, e dunque profondamente diverse da opere precedenti, quali la Divina Commedia di Dante Alighieri. Un’analoga osservazione potrebbe essere fatta a proposito della pittura e della scultura che, essendo ormai commissionate anche da mecenati laici e non solo dalla Chiesa, iniziano a rappresentare soggetti profani e ad affrancarsi dalla religione. Infine è il XVIII secolo che può essere definito come il secolo del trionfo dell’autonomia, trionfo condotto attraverso l’Illuminismo e le grandi rivoluzioni politiche settecentesche. Lo stesso Immanuel Kant, dovendo caratterizzare l’Illuminismo, non trova definizione migliore che quella basata sull’autonomia. Scrive infatti Kant: «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui

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stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di servirsi del proprio intelletto senza servirsi di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo» 1. Una tale uscita dallo stato di minorità caratterizza una serie molteplice di ambiti sociali: 1) Nel campo politico l’autonomia si esprime attraverso l’introduzione della democrazia e del principio della sovranità popolare. I cittadini che prima subivano le scelte dei sovrani assoluti, ora pretendono l’autonomia nelle scelte politiche, attraverso lo strumento delle assemblee legislative elette dal basso; 2) Nel campo familiare le donne ed i figli rivendicano l’autonomia rispetto all’autorità del pater familias. Questa autonomia riguarda molti ambiti, dalla gestione del patrimonio, alla libera scelta del partner. La letteratura settecentesca ed il teatro contribuiscono notevolmente alla formazione di questa nuova cultura familiare. Si pensi a La Nouvelle Eloise di Jean Jacques Rousseau, oppure ad alcune opere magistrali di Carlo Goldoni, quali La locandiera, Sior Todero Brontolon e I Rusteghi; 3) Nel campo culturale si lavora soprattutto alla diffusione della conoscenza, nella consapevolezza che l’elevazione del livello culturale conduce ad un progresso anche sul piano dell’autonomia individuale. L’ignorante, secondo gli illuministi, non può essere mai veramente autonomo, dovrà sempre appoggiarsi a qualcuno. Per questo si trovano nuovi strumenti di diffusione della cultura, quali le gazzette, il teatro, i romanzi a sfondo morale, gli epistolari, ecc. La cultura, inoltre, inizia ad essere veicolata dalle lingue volgari e non più solo dal latino, conosciuto esclusivamente dai nobili e dal clero; 4) Nel campo della giustizia, la fiducia nell’autonomia individuale porta ad abbracciare teorie rieducative della pena, al po1 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Che cos’è l’illuminismo?, a cura di N. Merker, Roma 1987, p. 35.

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sto delle vecchie concezioni retributive. Vengono criticate la pena di morte e la tortura, che presuppongono che il reo abbia definitivamente perduto la capacità di esercitare ancora l’autonomia, quell’autonomia che lo potrebbe condurre verso la redenzione. Esemplare, in questo campo, l’opera di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene; 5) Nel campo economico l’autonomia viene esaltata attraverso la promozione dell’iniziativa e della proprietà privata, che costituisce uno dei diritti umani fondamentali presenti in tutte le Dichiarazioni del ’700. In questo secolo vede la luce La ricchezza delle nazioni, l’opera in cui Adam Smith teorizza il liberismo economico, che celebra appunto la libera iniziativa dei privati, ovvero l’autonomia in campo economico; 6) Nel campo religioso, si afferma il protestantesimo, che predica l’autonomia del singolo fedele, per quanto riguarda l’interpretazione della Bibbia e la confessione dei peccati; 7) In filosofia si passa da un pensiero collettivo, di scuola (la scuola aristotelico-tomista, la scuola platonico-agostiniana), ad una produzione di pensiero che mira all’originalità, alla valorizzazione del singolo genio e, soprattutto, all’autonomia rispetto alla tradizione. È tipicamente moderno il tentativo cartesiano di abbattere la tradizione per ricostruire la cultura dalle fondamenta. Sono tipicamente moderni autori come Kierkegaard e Stirner, che pongono al centro del loro pensiero categorie come quella del “singolo” o dell’“unico”; 8) Per quanto riguarda infine la struttura complessiva dei saperi si assiste ad una rivendicazione di autonomia da parte delle singole discipline. Si pensi ad esempio alla politica che rivendica la propria autonomia dall’etica; oppure alla scienza sperimentale che rivendica la propria autonomia dalla teologia. Questo processo di autonomizzazione dei saperi vede il passaggio da una strutturazione “piramidale” dei rapporti tra le discipline, in cui ciascuna risulta legata alle altre in un rapporto gerarchico che ha al suo vertice la teologia, ad una strutturazione “a rete”, dove ciascun sapere interagisce con gli altri senza rapporti di subordinazione.

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Hegel aveva colto molto bene questa caratteristica fondamentale della modernità ed aveva utilizzato, per descriverla, la figura dell’“intelletto astratto”, ovvero dell’intelletto che divide e separa, perché l’autonomizzazione costituisce, appunto, la separazione della parte dal tutto.

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IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA IN MEDICINA Tra le varie discipline che in epoca moderna hanno accolto il principio di autonomia, la medicina è stata senza dubbio una delle ultime. Il principio di autonomia, fino alla fine dell’Ottocento, era del tutto estraneo all’etica medica, che si caratterizzava per i suoi forti connotati paternalistici. I medici, infatti, erano preoccupati soprattutto di fare il bene dei loro pazienti, talvolta senza troppo domandarsi se quel bene, che essi ritenevano tale, fosse veramente considerato un bene anche dai loro pazienti. L’etica medica, infatti, era intesa soprattutto come un’etica dei medici ed il principio etico che la informava era il principio di beneficenza. Quando i pazienti hanno cominciato a rivendicare il loro diritto a decidere che cosa fosse bene per loro, anche in contrasto con il presunto bene dei medici, è nata una nuova etica medica, non più intesa solo come un’etica dei medici. Questo passaggio dall’etica dei medici all’etica medica in senso proprio è stato reso possibile grazie alla mediazione del diritto, che aveva fatto proprio, molto prima della medicina, il principio di autonomia. Alla fine dell’Ottocento, infatti, era stata introdotta nella pratica clinica l’anestesia chirurgica, la quale, oltre ad essere utilizzata per vincere il dolore intraoperatorio, veniva talvolta utilizzata anche per superare la resistenza di alcuni pazienti ad operazioni che i medici ritenevano necessarie per salvaguardare la salute o per salvare la vita di quegli stessi pazienti. Un caso frequente era quello della cancrena ad un arto che, in caso di mancata amputazione, avrebbe necessariamente portato alla morte del paziente. Ebbene, di fronte ad

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un rifiuto di amputazione, i medici concludevano che il paziente, avendo rifiutato una cura efficace, con quello stesso rifiuto avesse dimostrato la sua palese incompetenza, autorizzando di conseguenza i medici a procedere in modo coatto. Tuttavia i giudici, in casi del genere, non esitavano a dare ragione ai pazienti, accusando i medici di aggressione. Oltre all’anestesia chirurgica, all’inizio del Novecento sollevarono enormi problemi di consenso informato anche le vaccinazioni obbligatorie. I vaccini venivano somministrati ad individui sani, per proteggerli da futuri eventuali rischi e, per di più, talvolta erano essi stessi a determinare delle patologie. I primi vaccini infatti venivano prelevati da soggetti malati, talvolta persino da animali (vaccino deriva appunto da vacca), con la conseguenza che, assieme al virus necessario alla vaccinazione, potevano essere trasmessi anche altri virus o batteri. Inoltre, sempre all’inizio del Novecento, alcuni stati americani ed europei avevano introdotto pratiche di sterilizzazione di alcune categorie di soggetti, quali ritardati mentali, criminali recidivi, ecc., creando un dibattito ancora più accesso intorno alla questione del consenso informato. Infine, al termine della seconda guerra mondiale, si verificò un fatto imprevedibile, che determinò la svolta definitiva dell’etica medica dal paternalismo all’autonomia. Vennero scoperti gli abusi perpetrati dai medici nazisti ai danni degli internati nei campi di concentramento, abusi spesso finalizzati a sperimentazioni di carattere medico. Tali abusi vennero portati alla conoscenza dell’opinione pubblica nel 1946, in occasione del processo di Norimberga, durante il quale venne stilato un codice, che prese appunto il nome di Codice di Norimberga, al cui primo punto si stabiliva che, nelle sperimentazioni scientifiche, «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente imprescindibile». Il valore dell’autonomia, definitivamente suggellato dal Codice di Norimberga, trovò importanti conferme negli anni successivi, in particolare in occasione delle battaglie civili degli

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anni ’60 e ’70. Alla fine degli anni ’60 gli Stati Uniti raggiunsero il più alto livello di impegno militare nella guerra del Vietnam e furono costretti a reintrodurre la leva militare obbligatoria, spedendo così al fronte molti giovani che giudicavano quella guerra una guerra ingiusta e di carattere imperialistico. Fu proprio allora che, di fronte ad uno stato reputato autoritario, molti giovani rivendicarono la propria autonomia di decisione, facendo obiezione di coscienza al servizio militare. Uno dei casi più noti fu quello del pugile Cassius Clay, in seguito convertitosi all’islamismo con il nome di Muhammad Ali. La protesta dei giovani presto infiammò le università, diffondendosi anche all’Europa. Il tema dell’autonomia risuonava fortemente anche all’interno delle proteste universitarie, durante le quali i giovani criticavano l’autoritarismo di una classe docente ormai incapace di confrontarsi realmente con i giovani, poco disponibile ad accogliere un pensiero divergente. In questo clima nacquero e si diffusero altri movimenti, spesso con il minimo comun denominatore dell’antiautoritarismo e della rivendicazione dell’autonomia. Il movimento femminista, ad esempio, rivendicava l’autonomia femminile, contro un modello patriarcale ed autoritario di famiglia.

IL VALORE DELL’AUTONOMIA 1. L’autonomia è necessaria all’umanizzazione della medicina Oggi si fa un gran parlare di “umanizzazione” delle cure mediche. Una delle ragioni per cui il tema dell’umanizzazione è così in voga è dovuto in buona parte, come abbiamo visto, al processo di disumanizzazione che ha caratterizzato il procedere della medicina scientifica. La medicina infatti è stata in grado di progredire ininterrottamente riducendo sempre di più il suo sguardo: dalla persona nella sua globalità al suo corpo, dal suo corpo ai suoi organi, dai suoi organi alle sue cellule. I me-

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dici iperspecializzati si sono sempre più concentrati su aspetti molto settoriali e hanno spesso perso di vista la persona nella sua interezza. Umanizzare la medicina significa allora riacquisire questo sguardo globale, questa prospettiva olistica sulla persona. Se si fa questo non ci si trova più solo di fronte ad un semplice corpo malato, ma ad una persona con certi valori, con una certa idea della vita, che pretende anche di fare delle scelte in relazione appunto a questa sua concezione esistenziale complessiva. Non si può, in altri termini, pretendere di umanizzare la medicina senza accogliere le istanze che provengono dall’esercizio individuale dell’autonomia. Il paziente che, come dice il nome stesso, semplicemente subisce una cura, alla fine è ridotto ancora una volta ad un corpo da riparare. Ascoltare il paziente significa non renderlo oggetto di un anonimo e impersonale trattamento medico. Il paziente che viene ascoltato dal suo medico ha la sensazione di non essere solo un corpo-oggetto che deve essere curato (in inglese to cure), ma una persona, intesa nella sua globalità, di cui ci si deve prendere cura (in inglese to care). Da questo punto di vista si deve dire che la valorizzazione dell’autonomia del paziente costituisce uno degli elementi indispensabili nel processo di umanizzazione della medicina.

2. Il principio di autonomia è coerente con l’odierna epistemologia medica Il mutamento nell’impostazione delle basi logiche della medicina, verificatosi nel secolo scorso, costituisce un altro elemento fondamentale a favore dell’autonomia. Oggi è del tutto superata l’idea che esista una relazione necessaria tra eziologia, specie morbosa e cura della malattia. Molte sintomatologie complesse sono infatti difficili da interpretare, la diagnosi spesso è probabilistica e la terapia a volte serve per confermare o smentire una determinata diagnosi. Inoltre, una volta diagno-

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sticata la malattia molte sono le possibilità terapeutiche e, spesso, ciò che va bene per un paziente con una determinata malattia non va bene per un secondo paziente con la stessa malattia del primo. Nonostante esista un modello di “evidence based medicine”, l’esperienza frequente che fanno i pazienti è quella della diversità degli approcci tra i vari medici: c’è chi è più interventista rispetto ad una determinata patologia e non esita a somministrare farmaci e chi, al contrario, si mostra più attendista. Nessuno dei due, in fondo, ha torto, perché si tratta sempre di bilanciare rischi e benefici in un calcolo difficilissimo, basato per lo più sulla prospettiva di scenari soltanto probabili. È meglio somministrare un antibiotico, dati i possibili effetti collaterali, oppure è meglio lasciare che il sistema immunitario affronti da solo l’infezione, con il rischio di dover intervenire più pesantemente in seguito? Tre diversi medici potrebbero prospettare tre differenti approcci alla tonsillite: tonsillectomia, somministrazione di farmaci, oppure ancora una semplice attesa dell’evoluzione della patologia. Si pensi inoltre al campo dell’oncologia, dove gli effetti collaterali della chemioterapia sono molto pesanti, a fronte di una percentuale di successi estremamente variabili e molto difficili da pronosticare. Se il tipo di cancro da cui è affetto un determinato paziente è chemiosensibile nel 5% dei casi, come può il suo medico sapere in anticipo se egli cadrà nel 5% dei fortunati o nel 95% degli sfortunati? E come potrà dunque decidere se infliggere o meno al paziente una chemioterapia che avrà degli effetti collaterali sicuri a fronte di effetti benefici soltanto probabili? A volte il conflitto di prospettive terapeutiche può sorgere tra diversi specialisti, le cui competenze sono diversamente implicate nel tentativo di soluzione di una determinata patologia: un chirurgo può ritenere opportuna l’immediata asportazione di una determinata massa tumorale, prima ancora dell’intervento chemioterapico, mentre l’oncologo può avere la convinzione opposta, perché ritiene opportuno ridurre la massa prima di procedere all’asportazione.

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Tutti questi esempi, e molti altri che si potrebbero fare, conducono verso un’unica conclusione: la formulazione di una diagnosi è spesso semplicemente probabile e l’indicazione della terapia adeguata è frequentemente una scelta rischiosa, basata su elementi statistici. Visto allora che il medico spesso rischia sulla pelle del paziente, è dunque necessario che, nella scelta rischiosa, venga coinvolto lo stesso paziente, che in fondo è quello che rischia più di tutti. Detto in altri termini: una epistemologia non ingenua della medicina non può che rinforzare l’appello al principio dell’autonomia e del consenso informato.

3. L’autonomia costituisce il fine stesso della medicina Gli esseri umani non nascono autonomi, ma lo diventano, attraverso un processo in cui hanno un ruolo fondamentale le relazioni con gli altri. Sono gli altri che ci aiutano ad acquisire autonomia. Questo è particolarmente evidente nell’educazione dei figli: gli si insegna a mangiare da soli, a camminare, a parlare, a riconoscere i pericoli del mondo esterno, perché, ad un certo momento, possano rendersi autonomi e farsi la loro vita. Gli psicologi insegnano infatti che è un cattivo genitore quello che impedisce ad un figlio di rendersi autonomo, creando con lui un rapporto di tipo simbiotico. Oltre alla famiglia, però, esistono anche altre istituzioni sociali deputate alla promozione dell’autonomia degli individui: lo scopo della scuola, ad esempio, è quello di formare soggetti autonomi, che siano in grado di sviluppare pienamente le loro potenzialità umane. Ma, allora, non si può dire lo stesso anche della medicina? Se la malattia è qualcosa che ci impedisce di essere autonomi, di realizzare i nostri fini e di perseguire la piena realizzazione delle nostre potenzialità umane, ne consegue che la medicina, che combatte la malattia, promuove, al tempo stesso, l’autonomia. Affermare questo significa legare l’autonomia alla medicina in una maniera più organica e significativa rispetto a quella usuale, che vede

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semplicemente l’appello all’autonomia come fondamento di vincoli esterni al modo in cui la medicina viene praticata. Noi invece continuiamo a vedere la nozione di autonomia come un fattore che si è sovrapposto dall’esterno all’impresa medica, in quanto estraneo alla sua “essenza” e persino in potenziale conflitto coi fini tradizionali della medicina, con il rischio che la nozione, e le pretese normative su di essa fondate, vengano non solo marginalizzate – come nella pratica medica spesso accade – ma anche espunte, come inutili e persino dannose, dalla relazione medico-paziente. Negli ospedali americani e, ora, anche se in misura minore, pure da noi, l’autonomia del paziente viene invocata e rispettata in funzione “difensiva”, per evitare guai con la magistratura. Il consenso informato, ad esempio, talvolta non costituisce uno strumento atto a valorizzare l’autonomia del paziente, ma un documento da firmare (qualcuno lo definisce ironicamente “consenso firmato”) per mettere al riparo il medico da eventuali ripercussioni penali.

I LIMITI DELL’AUTONOMIA 1. Primo limite: la concezione individualistica dell’autonomia presente in alcune prospettive della letteratura bioetica contemporanea L’autonomia può essere intesa in senso universalistico, oppure individualistico e relativistico. Nel primo modo la intendeva Kant, secondo il quale l’autonomia non consiste nella creazione di valori, ma nell’indipendenza dai condizionamenti sensibili. Le prime due critiche kantiane (la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica) hanno infatti una struttura diametralmente opposta. Mentre la Critica della ragion pura critica la ragione teoretica nella misura in cui essa rimane pura, cioè scissa dall’esperienza, producendo così i “fantasmi della metafisica”; al contrario la Critica della ragion pratica critica la

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ragione pratica nella misura in cui essa non riesce ad essere pura, facendosi condizionare dalla sensibilità. Insomma: la ragione teoretica non deve essere pura, mentre la ragione pratica lo deve essere, esercitando la propria autonomia dai condizionamenti sensibili. Se io perseguo il dovere per il puro dovere e non agisco in vista del piacere o della felicità, allora il mio comportamento morale si ispira alla regola dell’autonomia. Per questo motivo l’autonomia kantiana non è relativistica o individualistica: per Kant essere autonomo significa esattamente la stessa cosa per ogni singolo individuo. L’autonomia si esercita sempre in riferimento ad una legge, che è espressione di un ordine universale, che si offre come un fatto alla ragione (Factum der Vernunft), tramite l’imperativo categorico. Questo fatto non è un prodotto o una creazione del singolo, secondo il suo capriccio, ma trova la sua ragione in un ordine universale esterno ai singoli individui empirici. Tale ordine universale ha tra i suoi capisaldi l’idea dell’uomo inteso come fine, così come si evince dalla seconda delle tre formulazioni della legge morale esposte nella Fondazione della metafisica dei costumi: “Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre e a un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo”. Nel pensiero filosofico e bioetico contemporaneo vi sono molti autori che fanno dell’autonomia il proprio vessillo, allontanandosi però da Kant e proponendo una concezione relativistica ed individualistica dell’autonomia. Alcuni epigoni dell’utilitarismo, come ad esempio il filosofo australiano di origine austriaca Peter Singer, intendono l’autonomia come un principio che protegge l’individuo dalle sofferenze inutili che altri potrebbero infliggergli. Ciascuna persona, osserva infatti Singer, conosce meglio di chiunque altra quali siano i suoi specifici interessi. Dunque, chi volesse interferire con la libertà del singolo gli causerebbe danno. In conclusione, allora, il valore che prevale, nel pensiero di Singer, è certamente quello dell’autonomia, ma si tratta qui di un’autonomia profondamente diver-

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sa da quella kantiana e che non si confronta con una legge universale. Qui l’autonomia sta ad indicare il diritto del singolo di perseguire il suo individuale interesse, a condizione soltanto che il perseguimento di tale interesse non interferisca con quello di altri individui altrettanto autonomi. Una versione diversa del principio di autonomia, ma altrettanto lontana dall’autonomia di tipo kantiano, è quella concepita dal filosofo americano Ronald Dworkin, che propone una formulazione dell’autonomia basata sul concetto di integrità. Scrive infatti Dworkin: «Il valore dell’autonomia deriva dalla capacità che viene in tal modo protetta: la capacità di esprimere il proprio carattere nella vita che si conduce (valore, impegni, convinzioni, interessi critici così come interessi di esperienza). Riconoscere un diritto individuale all’autonomia rende possibile l’autocreazione. Permette a ciascuno di noi di essere responsabile di dar forma alla propria vita secondo la propria coerente o incoerente, ma comunque peculiare, personalità. Ci permette di condurre la nostra vita, anziché essere trascinati da essa, cosicché ciascuno di noi possa essere, per quanto può renderlo possibile uno schema di diritti, ciò che ha fatto di se stesso. Permettiamo che una persona scelga la morte invece dell’amputazione totale o di una trasfusione di sangue, se questo è il suo desiderio consapevole, perché le riconosciamo il diritto a una vita strutturata sui suoi valori. La concezione dell’autonomia basata sull’integrità (…) riconosce che le persone fanno spesso scelte che riflettono debolezza, indecisione, capriccio o evidente irrazionalità» 2. Agli utilitaristi Dworkin contesta dunque il fatto che gli individui agiscano sempre in vista dei propri interessi e che, per questo motivo, debbano essere lasciati agire autonomamente. In realtà, osserva Dworkin, molti non agiscono affatto secondo i propri interessi, anzi si danneggiano palesemente tramite le 2 R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano 1994, p. 309.

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proprie azioni. La società, in alcuni casi, è portata persino a lodare i comportamenti contrari ai propri interessi, quando questi sono motivati da importanti valori, quali l’altruismo. Ecco allora che l’autonomia salvaguarderebbe non tanto i propri interessi quanto piuttosto l’autocreazione. L’autocreazione, però, è quanto di più lontano dall’idea kantiana di un ordine universale a cui l’autonomia si rapporta. Con l’idea di autocreazione, infatti, ci situiamo all’interno di una concezione individualistica e relativistica della morale. Molti sono gli autori che hanno messo in rilievo la profonda differenza tra molte delle concezioni contemporanee dell’autonomia e la concezione kantiana. Tom Beauchamp scrive, a questo proposito, che «ogni filosofia nella quale un diritto all’autonomia individuale può legittimamente superare i dettami dei principi morali oggettivi del dovere è aliena dalla teoria morale di Kant» 3. La concezione individualistica dell’autonomia, secondo Beauchamp, «non è quella di Kant. È attribuita a Kant in letteratura solo attraverso l’acritica confusione di un’ampia famiglia di idee associate all’autonomia nella contemporanea filosofia morale e del diritto: i diritti di libertà individuale e di privacy, la libera scelta, lo scegliere per sé, l’essere una persona unica, creare una propria posizione morale, assumere la responsabilità finale per le proprie idee morali, e simili» 4. Anche secondo Massimo Reichlin, «la nozione contemporanea di autonomia ha (…) radici individualistiche, rintracciabili in Hume, nella filosofia libertina e nella concezione milliana della libertà» 5.

3 T. Beauchamp, Suicide and Eutanasia. Historical and Contemporary Themes, Dordrecht 1989, p. 214. 4 Ibid., p. 212. 5 M. Reichlin, Autonomia e responsabilità nella sfera procreativa, in Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana e l’autonomia degli individui, Milano 1999, p. 182.

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2. Un secondo limite: l’ipertrofia cognitiva della nozione moderna di autonomia L’autonomia a cui pensano i moderni è un’autonomia intesa in senso cognitivo: è l’autonomia di un soggetto adulto, sano, perfettamente in grado di intendere e di volere. Questa autonomia, così sbilanciata sul piano cognitivo, fonda, secondo alcuni, lo stesso concetto di dignità umana, quasi che non avesse più dignità chi, a causa di qualche malattia psicoinvalidante, non fosse più in grado di garantire un tale tipo di autonomia. Ecco che allora uno dei compiti più importanti per la bioetica, oggi, consiste proprio nel mettere in discussione un’autonomia viziata da una forte ipertrofia cognitiva, a partire dalla sfida lanciata al pensiero dalle malattie neurodegenerative. I malati terminali, i malati affetti da malattie neurodegenerative, come ad esempio l’Alzheimer, esprimono infatti un’autonomia non lineare, ma puntuale, un’autonomia del momento, un’autonomia residuale. L’attenzione a questo tipo di autonomia sviluppa in chi sta di fronte al malato una capacità di entrare responsabilmente all’interno di sistemi di comunicazione differenziati, che permettono di entrare in dialogo con il malato. Ma come si fa, nel concreto, ad entrare in dialogo con chi non può più parlare, per cogliere questa forma residuale di autonomia? Quali modalità comunicative ci rimangono a disposizione in questi casi? 1) Una prima risposta, come detto in precedenza, ce la potrebbe dare una qualsiasi madre, perché la comunicazione tra madre e bambino è tra le più intense che esistano e, tuttavia, essa non avviene mai attraverso canali di tipo verbale. Il bambino non comprende, su di un piano cognitivo, il senso delle parole materne, eppure queste parole gli dicono molto: il bambino ne coglie il tono, oppure apprezza la mimica del volto che le accompagna. A sua volta il bambino, con i suoi sorrisi, i suoi pianti, i vari suoni che emette, comunica intensamente con la sua mamma. L’atto di allattare costituisce una forma di comu-

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nicazione, così come si comunicano al bambino molte cose attraverso il modo in cui lo si lava, lo si cambia d’abito, lo si addormenta, e così via. Talvolta può capitare che il bambino interrompa un dialogo tra adulti, inframmezzando ad esso alcuni suoi suoni disarticolati. Egli fa questo perché percepisce l’esistenza di un canale comunicativo di cui vuole entrare a far parte e, per far ciò, diventa persino capace di usare la sua voce in funzione non verbale. 2) Una risposta più articolata ed approfondita potrebbe venire dai testi di alcuni medici e psicologi che hanno studiato approfonditamente le modalità di comunicazione non verbale con soggetti che si trovano all’inizio o alla fine della vita. Penso, ad esempio, al già ricordato medico olandese Frans Veldman e alla sua “aptonomia”. La cosa interessante, ai fini della nostra riflessione, sta nel fatto che la tecnica di Veldman, ideata per comunicare con i bambini, è stata in seguito utilizzata anche per la comunicazione con i malati gravi. Un fenomeno testimoniato da alcune persone che hanno assistito per lungo tempo malati affetti da malattie neurodegenerative è alquanto curioso e conferma quanto stiamo sostenendo. Capita infatti che i malati non riconoscano le persone che vengono annunciate tramite il nome (“questo è Mario!”) e che, invece, riconoscano molto più facilmente persone che, pur non essendo annunciate, si accostano semplicemente al letto, prendendo loro la mano, oppure sussurrando loro qualcosa. Chi si pone al livello del malato è in grado di cogliere anche la sua autonomia residuale, autonomia che il malato comunica essenzialmente attraverso il linguaggio non verbale. Nella lingua tedesca esiste un’espressione molto interessante e ricca, che definisce molto bene questo tipo di autonomia: “Die autonomie des Augenblicks” (l’autonomia del momento, dell’istante; l’autonomia che si offre a tratti, in modo puntuale). Augenblick (momento, istante, attimo) contiene in sé il termine “Blick”, ovvero sguardo, occhiata. Augenblick, dunque, è il momento che gli altri possono cogliere con lo sguardo, ma solo se il loro sguar-

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do è allenato. Merleau-Ponty parla di una sorgente di autonomia che non emerge da ciò che io sono capace di percepire, ma dalla capacità che io ho di essere percepito. Allo stesso modo Paul Ricoeur parla di una “attestazione”, di una fiducia, nel nostro poter fare, che consiste nel riconoscimento e nell’approvazione che ciascuno di noi riceve da se stesso e dagli altri. Dunque, esiste una duplice fonte dell’autonomia: c’è l’autonomia che io riesco ad esercitare e c’è l’autonomia che gli altri mi riconoscono. Questo discorso raffinato dei filosofi trova riscontri nella pratica quotidiana e anche nelle vicende di cronaca. Il caso Terry Schiavo, ad esempio, è il classico caso in cui si confrontano e si scontrano tra di loro due diverse concezioni dell’autonomia. Da un lato l’ex marito faceva riferimento ad una volontà espressa in un lontano passato, quando Terry era nel pieno delle sue capacità cognitive. Dall’altro lato c’erano i genitori, che facevano appello ad una diversa autonomia, che Terry esprimeva attraverso lo sguardo, il contatto fisico. Attraverso questa autonomia residuale Terry diceva di voler rimanere in vita, protraendo quel rapporto così intenso con i genitori che la accudivano. E allora a quale autonomia occorre dare ascolto, a quella in cui si esprime l’identità personale attuale, o a quella espressa da una identità personale che non appartiene più a quella persona? È possibile che una persona venga condannata a morte per una sentenza emessa da un’altra persona che non è più lei, e con cui lei non è più d’accordo? La conclusione di quanto osservato sopra è che il malato apparentemente privo di autonomia non è un problema per se stesso, ma sono gli altri, che gli stanno accanto, che possono diventare un problema per lui, nella misura in cui non lo considerano più come una persona in grado di esprimere un’autonomia residuale e come una persona meritevole di rispetto, anche quando non dovesse essere più in grado di percepire le ferite inferte alla sua autostima.

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L’uomo, finché vive, è sempre unità di anima e corpo. Noi siamo abituati a una rappresentazione sempre contemporanea di tutto il corpo in tutta l’anima, ma ci sono invece degli stadi di oblio dell’anima, in cui l’anima resta sullo sfondo e il corpo rinuncia a parlare dei linguaggi, perché l’anima non gli è totalmente presente. Eppure anche questa è unità di corpo e anima.

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La medicina, dalle sue origini sino alla fine dell’Ottocento, ha fatto enormi progressi e ha consentito di orientare e gestire la pratica medica in base a principi e valori etici fortemente consolidati. Nel Novecento, invece, il progresso medico ha subito una forte accelerazione, che si è ulteriormente accentuata nella seconda metà del secolo. Tale processo ha portato a percepire come arretrati principi morali e norme di carattere giuridico tradizionalmente consolidati. Martin Heidegger, descrivendo molto bene tale sensazione di smarrimento dell’uomo contemporaneo di fronte ai progressi della tecnica, faceva – nel 1959 – queste considerazioni: «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca» 6. Pochi anni prima, il 6 maggio del 1953, John Heysham Gibbon utilizzò per la prima volta, a Philadelphia, una macchina cuore-polmone, che consentiva di mantenere in vita un paziente senza il suo cuore, ossigenando meccanicamente il suo sangue. Da quel momento l’interruzione del battito cardiaco 6 M.

Heidegger, L’abbandono, tr. it. di A. Fabris, Genova 1989, p. 36.

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non poteva più essere fatta equivalere alla fine della vita. Allo stesso modo i respiratori artificiali consentivano di vicariare le funzioni respiratorie, mentre l’alimentazione e l’idratazione artificiale permettevano di nutrire chi non era più in grado di farlo autonomamente. Nel 1963 venne introdotta l’emodialisi, che consentiva di sostituire le funzioni renali in pazienti a rischio di coma uremico. In tale contesto cominciava dunque a diventare obsoleto un concetto importante: quello di “morte naturale”. Ci si chiedeva infatti quale potesse essere il confine tra una morte che si poteva ancora definire “naturale” e un prolungamento dell’agonia che, in alcuni casi, poteva sembrare eccessivo e che rischiava di sconfinare nel cosiddetto “accanimento terapeutico”. La paura dell’eccesso di artificialità, che caratterizza la morte ai tempi della tecnica, viene così descritta da Ferdinando Camon: «Oggi si muore con cuore e cervello innestato ai fili, che finiscono in uno strumento registratore. E il personale curante è ormai un’équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l’ossigeno arrivi. È la morte “intubata”, segno e deriva dell’impoverimento che il morire oggi subisce» 7. Le problematiche relative alla medicalizzazione del morire non possono essere risolte attraverso una banale e ingenua demonizzazione di tutto ciò che è artificiale, perché non tutto ciò che è innaturale è di per sé cattivo, così come non tutto ciò che è naturale è di per sé buono. Anzi, in medicina si ottengono risultati molto buoni e auspicabili proprio attraverso degli artifici quali, ad esempio, pace maker, bypass, respiratori automatici, antibiotici, ecc. Viceversa, l’eccessivo impiego di artifici non sempre risulta necessariamente buono, visto che può condurre a una vera e propria ideologia della macchina, che obbliga a usare coattivamente tutto ciò che la tecnica rende disponibile. Una tale deriva risulta molto pericolosa, perché in questo mo7 F.

Camon, Così si spegne l’uomo macchina, cit., p. 12.

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do la macchina – un mezzo – diventa anche il designatore dei fini. Il fine della macchina è funzionare e l’operatore sanitario viene così ridotto a un meccanico che ha il mero compito di fare i giusti collegamenti per effettuare la connessione uomomacchina. Secondo questa logica, se le macchine ci sono, vanno usate. Questa prospettiva però ritorce la tecnologia contro l’uomo stesso, che diventa una semplice propaggine della macchina. Per questo motivo oggi, il problema non è solo comprendere “che cosa possiamo fare noi con la tecnica”, ma anche (e soprattutto) “che cosa la tecnica può fare di noi”.

PER UNA MORTE UMANA Dunque, il concetto di “morte naturale” non ci permette di venire a capo del problema e di individuare un limite all’uso dell’apparato tecnologico. Forse può risultare più appropriato e più funzionale il concetto di “morte umana”, dove con l’aggettivo “umana” non si vuole fare riferimento alla rinuncia ai mezzi artificiali, così come quando si usa il termine “naturale”, ma si vuole fare riferimento a una morte in cui l’eventuale uso di mezzi artificiali non va a scapito del bene complessivo del malato, ossia della sua più profonda umanità. Con quali criteri si può distinguere l’uso buono degli strumenti tecnici della biomedicina da un uso eccessivo e inappropriato? In passato si utilizzava la distinzione tra “mezzi ordinari” e “mezzi straordinari”. Ordinario è un mezzo non sperimentale, che non provoca eccessive lesioni o mutilazioni, non eccessivamente gravoso, che dà ragionevoli speranze di beneficio e i cui costi non si scostano eccessivamente dalla media 8.

8 I costi non vanno intesi in meri termini finanziari, ma anche in termini di risorse disponibili (si pensi, ad esempio, all’utilizzo di sangue – disponibile in quantità limitata – per trasfondere un paziente che non ne può beneficiare quanto un altro).

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Tale distinzione implica un certo margine di arbitrarietà. Un medicinale sperimentale può infatti essere già stato testato su di un campione più o meno grande di pazienti, può non essere più considerato sperimentale in altri Paesi, o può persino venire utilizzato per la prima volta su quel paziente. Anche le mutilazioni arrecate, oppure la gravosità della cura possono andare da un minimo a un massimo, così come i costi. Infine, le speranze di beneficio sono descrivibili solo in termini statistici e probabilistici: un certo tumore, ad esempio, può risultare chemiosensibile nel 50% dei casi, altre cure possono avere una possibilità di riuscita nel 20% o nell’80% dei casi. Inoltre, la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari è ulteriormente complicata dal fatto che i criteri di distinzione sono molti, oltre che essere graduati al loro interno. Perché si dia accanimento terapeutico quanti criteri devono essere presenti? Ne basta uno? Devono essere presenti tutti? E a quale grado? La distinzione tra mezzi ordinari e straordinari è stata poi giustamente contestata, perché fa riferimento solo ai mezzi, oggettivamente intesi, e pretende di valere per tutti i pazienti, senza un’attenta considerazione delle loro diverse situazioni e condizioni. Oggi si preferisce parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”, intendendo che il carattere più o meno gravoso di una cura deve essere sempre valutato dal paziente stesso. Ciò che per qualcuno è gravoso, può non esserlo per qualcun altro. Speranze di beneficio del 10% possono essere insignificanti per un paziente e non meritevoli di essere perseguite a fronte di cure molto gravose, mentre per un altro paziente, che si sta aggrappando alla vita con tutte le sue forze, possono risultare promettenti. Per questo la definizione di accanimento terapeutico è sempre approssimativa e non può mai essere oggettiva, perché dipende anche dalla valutazione del paziente. Il cardinale Carlo Maria Martini, in un’intervista, sostiene che «per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il com-

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portamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le condizioni dei soggetti coinvolti. In particolare, non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente sproporzionate» 9. Si potrebbe ben dire che l’accanimento terapeutico (o diagnostico) consiste nell’«ostinata rincorsa verso risultati parziali a scapito del bene complessivo del malato» 10. Tale bene complessivo del malato può essere valutato a un duplice livello: il livello organico e il livello esistenziale. A livello organico non si presta attenzione al bene complessivo del malato quando si rincorrono risultati parziali che, singolarmente considerati, paiono giustificati, anche se, a uno sguardo più allargato, sembrano non considerare la situazione complessiva del paziente. In questo contesto possiamo inserire certi eccessi diagnostici, che non consentono di migliorare la terapia in un malato terminale, ma solo di precisare meglio la sede di qualche lesione, oppure la definizione più esatta di certi parametri. Allo stesso modo certi interventi chirurgici, chemioterapici o radioterapici, effettuati su organi affetti da metastasi, in pazienti terminali possono configurare, in certi casi (ma non sempre), una tale sorta di eccesso. «La logica che sta dietro a tali interventi» – scrive Paolo Cattorini – «è più o meno la seguente: c’è una lesione o anomalia di tessuto di organo o apparato che secondo il Trattato di Patologia medica è patologica? Se sì, è sempre doveroso attuare questa cura. Come si vede questo sillogismo conduce a prendere decisioni che prescindono dalla valutazione del bene complessivo della persona» 11. 9 C.M. Martini, Io, Welby e la morte, in «Il Sole 24 Ore», domenica 21 gennaio 2007, p. 31. 10 P. Cattorini, Tra resistenza e accettazione: indicazioni etiche per superare accanimento vitalistico ed eutanasia, in «Quaderni di etica e medicina», 1998 (IV), p. 81. 11 Ibid.

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A livello esistenziale, invece, si presta attenzione al bene complessivo del paziente quando si prende in considerazione la sua idea di vita buona. Tale idea di vita buona può portare un malato a preferire una vita che non lo costringa a una prolungata dipendenza da macchine all’interno di qualche ospedale, anche se più breve, perché ritiene di avere incombenze più importanti o eticamente più significative. Così come un malato di cancro, a un certo punto, può decidere di non intraprendere l’ennesimo ciclo di chemioterapia, che potrebbe forse rallentare l’evoluzione del suo male, costringendolo però a una situazione di debilitazione e di dipendenza. Perché queste scelte sono eticamente legittime? Perché nessuno ha l’obbligo di vivere in un modo che miri ad assicurare la vita più lunga possibile. Se questo ideale vitalistico costituisse un obbligo morale, molte tipologie di lavoro, di hobby, di sport, sarebbero proibite. Non sarebbe moralmente lecito sottoporsi a un forte stress, nemmeno per realizzare qualche fine nobile. Non sarebbe lecito nutrirsi in un modo che non fosse del tutto salutare. Non sarebbe lecito fumare nemmeno all’aperto e in solitudine. Forse, non sarebbe lecito nemmeno mettersi in strada, esponendosi al rischio di un incidente. Noi, invece, facciamo tranquillamente tutte queste cose e non abbiamo la sensazione, facendole, di avere come obiettivo la morte. Perché? Semplicemente perché è diverso formulare un piano d’azione che abbia come obiettivo la morte e formulare un piano d’azione che abbia un obiettivo vitale, ma che accetta il rischio, non voluto ma previsto, di abbreviare la vita stessa. Il missionario che si avventura in terre lontane, dove sono diffuse molte malattie virali, senza che ci siano strutture sanitarie adeguate e medici pronti a intervenire, non sta scegliendo la morte, ma un tipo di vita improntato a certi valori, essendo disposto, pur di realizzare questi valori, ad accettare il rischio, previsto ma non voluto, di ammalarsi. La stessa cosa si può dire di chi lavora a stretto contatto con persone affette da malattie contagiose. Nessuna di queste persone formula un piano

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d’azione che deliberatamente abbraccia la morte come un bene. Questo vale anche per le decisioni relative a un determinato trattamento medico. In questi casi noi possiamo rifiutare trattamenti che sono inutili o eccessivamente gravosi, senza rifiutare la vita, se nel fare questo noi non scegliamo la morte, ma solo una delle molte vite possibili. Noi, in questo caso, scegliamo solo come vivere, persino se lo facciamo quando stiamo per morire, anche se scegliamo la vita più breve. Questo è ancor più vero quando un paziente si trova irreversibilmente inserito nel processo di morte e quando quasi tutti i trattamenti sono diventati inutili. Nel rifiutare questi trattamenti un paziente non sceglie la morte, ma la vita. Inoltre, è legittimo che non solo i pazienti terminali, ma anche i pazienti che possono vivere per un tempo considerevolmente più lungo, possano rifiutare trattamenti eccessivamente gravosi. Ciò che si rifiuta è il trattamento gravoso e non la vita. Una persona può scegliere una vita più lunga e un trattamento gravoso, un’altra invece sceglie una vita più breve e un trattamento meno gravoso, ma entrambe scelgono la vita. Esaminiamo due casi noti di persone che hanno fatto scelte opposte: il primo, un paziente che si è sottoposto alla quinta operazione chirurgica nel giro di un anno, con il semplice fine di asportare una metastasi, sapendo bene di lasciarne in corpo altre; il secondo espone la vicenda di un paziente che, di fronte alla diagnosi di un cancro alla prostata in stato avanzato, rinuncia all’asportazione della vescica e alla radioterapia.

LA SCELTA DI SANDRO BARTOCCIONI Sandro Bartoccioni, primario cardiochirurgo di Perugia, trovandosi a combattere contro un cancro allo stomaco diagnosticato troppo tardi, ha fatto delle scelte che potrebbero configurare una forma di accanimento terapeutico e che egli non avrebbe mai consigliato ad alcuno dei suoi pazienti. Eppure, il

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suo profondo desiderio di guadagnare un po’ di tempo in più, la sua tenacia e il suo amore per la vita, facevano sì che quello che in altri casi si sarebbe configurato come accanimento terapeutico, non fosse più tale nel suo caso. Bartoccioni aveva subito già quattro interventi chirurgici dal momento in cui gli era stato diagnosticato il cancro, ma le sue condizioni continuavano a peggiorare, le analisi evidenziavano rigonfiamenti sospetti di alcuni linfonodi e i valori dei marker tumorali continuavano a crescere. Un amico e collega chirurgo, dopo essersi consultato con l’oncologo e aver valutato attentamente la situazione, gli disse: «Sandro, ci sono diversi linfonodi nel tuo addome, ti sei operato solo quattro mesi fa e non hai risolto nulla. Un intervento, il quinto, in queste condizioni è molto rischioso con poche possibilità di risultare utile» 12. Eppure Bartoccioni si era convinto che un linfonodo, cresciuto molto più velocemente degli altri, andasse assolutamente tolto, perché costituiva, in quel momento, la maggiore minaccia. L’idea, però, non convinceva i suoi colleghi, che ritenevano inutilmente gravosa un’operazione che avesse tolto una o due metastasi, lasciandone altre. Ma Bartoccioni continuava a insistere: «Le metastasi sono come le persone, non sono tutte uguali». E a distanza di qualche tempo dall’operazione, Bartoccioni annotava queste parole nel suo diario: «Tutto fila liscio. In cinque giorni esco dall’ospedale. A distanza di un mese ripeto l’eco; gli altri linfonodi sono cresciuti poco. I marker sono scesi da 500 a 40, non c’è spiegazione scientifica, ma avevo ragione. Non ho risolto tutto, ma certamente ho guadagnato qualche mese» 13.

12 S. Bartoccioni - G. Bonadonna - F. Sartori, Dall’altra parte, Milano 2006, p. 100. 13 Ibid., p. 101.

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LA SCELTA DI PETER NOLL A Peter Noll, docente di diritto privato all’Università di Zurigo, viene diagnosticato, all’età di 56 anni, un cancro alla vescica. Il suo ultimo anno di vita è descritto dettagliatamente in un libro-diario dal titolo Sul morire e la morte 14, dove Noll annota le sue riflessioni, i suoi dubbi di fronte alle scelte che si trova costretto a fare. Innanzitutto, Noll deve scegliere se farsi asportare la vescica, facendosi costruire uno scarico artificiale, collegato a un sacchetto di plastica esterno da portare addosso e da vuotare periodicamente. Deve scegliere poi se combinare l’intervento con delle irradiazioni. Tali scelte, però, implicano delle conseguenze, come, ad esempio, rinunciare a una normale vita sessuale, perdere la propria libertà. E ciò che disturba maggiormente Noll è proprio la perdita della libertà, l’idea che gli altri possano disporre di lui, una volta intrappolato in quella che egli definisce la «macchina chirurgico-urologico-radiografica». La maggior parte delle persone – osserva Noll – si consegna semplicemente all’ospedale e accetta di sottoporsi a operazioni anche quando l’operazione non ha alcuna possibilità di successo, perché siano gli altri a occuparsi di loro e per ritornare così bambini. Questa, però, secondo Noll è un’illusione, perché il malato che si consegna all’ospedale riceve aiuto, ma questo aiuto è freddo. Il malato si abbandona come un bambino, ma non trova il calore della madre. Per queste ragioni Noll decide di rinunciare all’intervento, alla chemioterapia e all’ospedalizzazione e sceglie di trascorrere a casa l’ultimo anno della sua vita. Noll fa questa scelta in nome di una speranza diversa da quella dei medici, per i quali speranza pare essere qualsiasi possibilità di prolungamento della vita, mentre per Noll significa la possibilità di vivere più consapevolmente la parte finale della vita. Noll non sceglie la morte, ma proprio perché ama profondamente la vita – di fronte a una diagnosi che non lascia speranze – sceglie un certo tipo di vita. 14 P.

Noll, Sul morire e la morte, Milano 1985.

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NÉ EUTANASIA, NÉ ACCANIMENTO

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L’EUTANASIA L’eutanasia, attiva o passiva, è qualcosa di molto diverso da tutto questo. L’eutanasia attiva e passiva costituiscono piani d’azione che hanno come principale obiettivo la morte, abbracciata come un bene. Nell’eutanasia attiva la morte viene provocata dal medico attraverso un intervento (p. es., un’iniezione letale) che mira direttamente alla morte del paziente. Simile è anche il caso dell’eutanasia passiva, in cui si rinuncia a curare una malattia, con lo scopo deliberato di provocare la morte. Da questo punto di vista non esiste differenza, sul piano etico, tra eutanasia passiva e attiva (dare la morte e lasciar morire); anzi, in alcuni casi l’eutanasia passiva può essere persino peggiore dell’eutanasia attiva. Si pensi, ad esempio, a certi casi di bambini malformati, oppure affetti da sindrome di Down, oppure ancora da spina bifida, che in alcuni ospedali inglesi vengono lasciati deliberatamente morire, non curando qualche infezione facilmente curabile, oppure trascurando una broncopolmonite. In alcuni casi i bambini con sindrome di Down sono affetti da una caratteristica occlusione tra gola e stomaco (atresia esofagea), risolvibile attraverso una banale operazione chirurgica, che non viene effettuata allo scopo deliberato di lasciarli morire. In questo caso la morte sopraggiunge lenta, dopo molte sofferenze, attraverso una forma di eutanasia passiva che è ben peggiore, per gli effetti che produce, rispetto a quella attiva. In tutti questi casi non si interviene perché si ritiene inutile, gravosa o sbagliata una vita e si rinuncia al trattamento con lo scopo deliberato di sopprimerla. Diverso è invece il caso in cui si rinuncia a una determinata terapia perché la terapia (e non la vita) risulta, per quella particolare persona, troppo gravosa, oppure inutile.

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IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Un ulteriore dilemma è creato da quelle situazioni in cui il paziente non oppone un rifiuto attuale a una determinata cura, ma lascia delle disposizioni anticipate a cui i sanitari dovrebbero poi dare seguito in un tempo successivo. Il dibattito su tali disposizioni anticipate di trattamento si è, da qualche tempo, particolarmente intensificato. Le ragioni della particolare attenzione che questo tema va riscuotendo sono molteplici e vorrei brevemente richiamarle: 1. Il 4 aprile del 1997 i Paesi membri del Consiglio d’Europa hanno firmato ad Oviedo la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo le applicazioni della biologia e della medicina. L’art. 9 di tale convenzione stabilisce che «i desideri precedentemente espressi da un paziente riguardo ad un intervento medico devono essere tenuti in considerazione, anche se il paziente, al momento dell’intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà». 2. Le linee guida della Convenzione di Oviedo si sono concretizzate attraverso provvedimenti legislativi che, in alcuni paesi europei, hanno legalizzato i testamenti biologici. 3. Nel 2001 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Oviedo, attraverso la legge 145/2001. Ora dunque si attende solamente il deposito dello strumento di ratifica presso il Consiglio d’Europa, affinché tale Convenzione abbia tutti i suoi effetti anche nell’ordinamento giuridico italiano. L’inusuale ri-

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tardo nel deposito dello strumento di ratifica, a 13 anni dalla firma della Convenzione e a 9 anni dalla sua ratifica da parte del Parlamento, è la conseguenza delle diatribe interne ai vari schieramenti politici sui temi eticamente sensibili. Va infatti rilevato che il mancato deposito dello strumento di ratifica è imputabile sia ai governi di centrodestra che a quello di centrosinistra, che si sono alternati alla guida del Paese dal 2001 ad oggi. 4. Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha approvato, il 18 dicembre 2003, un apposito Documento su Le dichiarazioni anticipate di trattamento. Il documento del CNB, come si vedrà, si conclude con l’auspicio dell’approvazione di una legge in materia. Una tale legge, osserva il CNB, «servirebbe a dare sostegno giuridico alla pratica delle dichiarazioni anticipate, aiuto ai medici e certezze ai pazienti». 5. Il Codice di Deontologia Medica, già nella precedente edizione, approvata nel 1998, all’art. 32 affermava che «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente» e, al successivo art. 34, sosteneva che «il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso». Il nuovo Codice, approvato il 15 dicembre 2006, inoltre, arriva persino a dedicare un intero articolo, il n. 38, al seguente tema: «diritti del cittadino e direttive anticipate», compiendo, secondo alcuni commentatori, una vera e propria fuga in avanti rispetto alla legislazione attualmente in vigore. L’ultimo comma di questo articolo obbliga il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la sua volontà, a «tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato». 6. La Costituzione italiana riconosce, all’art. 32, il diritto al rifiuto delle cure. La mancanza di una legge sulle direttive anticipate, però, fa sì che questo diritto costituzionale risulti solo parzialmente garantito. Due casi di cronaca, verificatisi a breve distanza di tempo, hanno messo bene in luce, agli occhi del-

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l’opinione pubblica, tale contraddizione. Il primo caso riguardava una signora che aveva rifiutato l’amputazione di una gamba affetta da cancrena, andando in questo modo incontro alla morte 15. Il secondo caso riguardava invece un testimone di Geova condotto urgentemente in ospedale in stato di incoscienza. Le sue condizioni richiedevano un’immediata trasfusione di sangue, ma l’uomo teneva in tasca un foglietto in cui chiedeva di non essere sottoposto a trasfusioni di sangue, perché tale pratica non era consentita dalla sua religione. I medici si trovarono così di fronte ad un grave dilemma: il foglietto era privo di qualsiasi valore legale e, tuttavia, testimoniava in modo incontrovertibile la volontà dell’uomo. Alla fine i medici dovettero praticare la trasfusione, per non rischiare di essere incriminati per omissione di soccorso 16. L’opinione pubblica, però, si chiedeva: «perché ad un paziente in stato di incoscienza non è concesso il diritto costituzionale di rifiutare le cure che egli ha diritto di rifiutare se è cosciente?». Una tale contraddizione potrà essere risolta solo con l’approvazione di una legge sulle direttive anticipate, legge che consentirà la piena realizzazione del dettato costituzionale su tale tema.

LA FILOSOFIA DELLE DIRETTIVE ANTICIPATE DI TRATTAMENTO: TRA AUTONOMIA E RELAZIONE

La questione delle direttive anticipate di trattamento si inserisce all’interno del tema più generale dell’autonomia del paziente. Autonomia che, come abbiamo visto in precedenza, costituisce una conquista molto recente, contro un atteggiamento 15 Cf. G. Guastella - B. Verga, È morta Maria, la donna che rifiutò l’amputazione, in «Corriere della Sera», giovedì 19 febbraio 2004, p. 9. 16 Sulla vicenda si è espressa la Corte di cassazione, III Sezione civile, con la sentenza n. 4211 del 23/02/2007, che ha confermato le precedenti sentenze del Tribunale di primo grado e della Corte d’Appello competente, che avevano giudicato lecita la condotta dei sanitari.

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paternalistico che ha caratterizzato per molti secoli la professione medica. Il tema dell’autonomia inoltre è particolarmente complesso, perché non è vero che le persone nascono già formate ed autonome, esse, al contrario, emergono da un complesso di interazioni con i loro simili. L’autonomia, allora, andrebbe concepita in termini relazionali e sarebbe oltremodo necessario iniziare a discutere di “educazione all’autonomia” e di autonomia relazionale. Il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (18 dicembre 2003) esprime infatti in modo molto efficace questa logica della reciprocità. «Le dichiarazioni anticipate di trattamento», osserva infatti il CNB, «tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che l’eventuale incapacità del malato possa indurre i medici a considerarlo, magari inconsapevolmente e contro le loro migliori intenzioni, non più come una persona con cui concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un corpo, da sottoporre ad anonimo trattamento». Le dichiarazioni anticipate, continua ancora il documento del CNB, «mirano a rendere possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere». «È come se», conclude infine il CNB, «grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte». Le dichiarazioni costituiscono un ponte umano gettato tra le due solitudini. Il malato può compilare le direttive con l’aiuto di qualche familiare, di un volontario o del personale sanitario e questo può favorire nel malato la narrazione del proprio vissuto, narrazione di cui il malato ha estremo bisogno e che non viene certo favorita nelle attuali condizioni del nostro sistema sanitario. La narrazione del paziente ha, almeno dal punto di vista soggettivo, un

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significato terapeutico. Come detto, la capacità di portare la malattia a livello del linguaggio si contrappone all’insignificanza e all’isolamento. Parlare della malattia è un atto catartico.

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COME REALIZZARE OPERATIVAMENTE QUESTA FILOSOFIA? Thomas Prendergast, in un articolo pubblicato nel 2001 in «Critical Care Medicine» 17, riporta il caso di un tentativo riuscito, tra tanti altri meno fortunati, di introdurre le direttive anticipate nella pratica medica. Il caso in questione è quello della contea di La Crosse, nel Wisconsin, dove, nel periodo oggetto di osservazione, l’85% dei pazienti risultavano aver stilato delle dichiarazioni 1 o 2 anni prima della morte (i decessi presi in esame erano 540). Inoltre, il 95% di queste dichiarazioni risultavano presenti nelle cartelle cliniche e il 98% delle morti erano state precedute da qualche limitazione terapeutica, secondo le indicazioni dei pazienti. Com’è stato possibile ottenere un tale successo? Innanzitutto si trattava di una piccola comunità, omogenea, dove i rapporti tra i 4 ospedali e tra gli ospedali e il territorio risultavano molto buoni. Ma il fattore che ha più inciso è rappresentato senza dubbio dalla modalità attraverso cui le dichiarazioni sono state presentate e sottoposte alla popolazione. I promotori della pianificazione della cura intendevano le direttive come uno strumento per favorire e facilitare le discussioni relative ai valori e alle preferenze. Il luogo della discussione veniva spostato dall’ospedale alla comunità e alla famiglia, con l’aiuto di volontari adeguatamente formati a questo compito. Non era il medico a chiedere: «che cosa vuoi che ti faccia e cosa preferisci che io eviti di fare?», 17 T.J. Prendergast, Advance care planning: Pitfalls, progress, promise, in «Critical Care Medicine», February 2001, 29(2), Supplement: N34-N39. Prendergast, in questo articolo, riporta e commenta dati comparsi precedentemente in B.J. Hammes - B.L. Rooney, Death and end-of-life Planning in one Midwestern Community, in «Arch. Intern. Med.» 105: 383-390, 1998.

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ma erano dei volontari, non medici, a chiedere: «come puoi aiutare i tuoi familiari, i tuoi cari, quelli che ti vogliono bene, a prendere le decisioni migliori per te?». Ciò su cui si faceva leva non era tanto il principio di autonomia, quanto piuttosto il tema delle buone relazioni personali. I volontari, poi, lavoravano in stretto contatto con i medici e con gli ospedali, allo scopo di garantire la presenza delle direttive anticipate nelle cartelle cliniche dei pazienti. L’aver lavorato nelle comunità e nelle famiglie aveva comunque garantito un risultato eccezionale: l’85% dei pazienti avevano stilato delle dichiarazioni, contro una media del 25-30% ottenuta nel corso di altri tentativi analoghi.

LA CONTROVERSA QUESTIONE RELATIVA ALLA SOSPENSIONE DELL’ALIMENTAZIONE E DELL’IDRATAZIONE ARTIFICIALE Il documento del CNB sulle dichiarazioni anticipate di trattamento costituisce una sintesi equilibrata delle diverse posizioni dei suoi membri ed un ottimo esempio di mediazione, che ha prodotto il risultato di far parlare il comitato con una voce che è al tempo stesso unica e rispettosa delle differenze. C’è un solo punto su cui il documento registra una divergenza incomponibile di posizioni tra due schieramenti contrapposti, questo punto riguarda l’ammissibilità di dichiarazioni relative alla sospensione di trattamenti di sostegno vitale, quali l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Tale questione risulta particolarmente delicata perché il documento del CNB esclude l’eutanasia e distingue con molta cura il campo delle dichiarazioni anticipate dalla controversa questione dell’eutanasia. Allo stesso tempo in Parlamento è presente un ampio accordo tra le forze politiche relativamente alle dichiarazioni anticipate, mentre c’è grande disaccordo a proposito di eutanasia. Per questo, se una legge ci sarà, essa riguarderà solo le dichiarazioni anticipate e non l’eutanasia. Il grosso problema, dunque, è proprio quello dei trattamenti di sostegno vitale perché, secondo alcu-

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ni, la possibilità di stilare dichiarazioni anticipate relative alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale introduce l’eutanasia all’interno delle dichiarazioni anticipate, dato che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscono trattamenti sanitari. Insomma, una “piccola eutanasia”, introdotta surrettiziamente, come Cavallo di Troia, all’interno della legge sulle direttive anticipate. Esaminiamo, allora, più da vicino la questione. Chi è contrario a direttive che possano richiedere anche la sospensione dei trattamenti osserva che: 1. L’alimentazione e l’idratazione artificiale non richiedono l’impiego di sofisticati sistemi tecnologici e, dunque, non costituiscono mezzi straordinari, bensì mezzi del tutto ordinari. 2. Questi mezzi di sostegno vitale non sono eccessivamente invasivi e non procurano particolari disagi o sofferenze. 3. Il nutrire non costituisce un trattamento medico, ma un normale trattamento infermieristico, equivalente a girare regolarmente un paziente o fornirgli delle frizioni con l’alcool. Un trattamento medico, infatti, è un trattamento mirato a debellare o a contenere una patologia, ma non si può dire che la fame sia una patologia, di conseguenza il cibo non è una cura. Inoltre, il valore simbolico del nutrire è di gran lunga superiore a quello di altri trattamenti infermieristici. 4. Se i trattamenti di sostegno vitale non sono cure mediche, allora ad essi non può venire applicato il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione italiana, che stabilisce che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». L’articolo 32, infatti, fa riferimento solo a «trattamenti sanitari». 5. I pazienti in stato vegetativo permanente a cui, secondo alcuni, potrebbero essere sospesi i trattamenti di sostegno vitale, non sono pazienti morenti. Essi infatti sono in grado di sopravvivere anche per molti anni, grazie proprio all’alimentazione e all’idratazione artificiale.

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Queste osservazioni risultano in parte condivisibili, anche se la questione, ad uno sguardo più approfondito, sembra più complessa. Vediamo perché: 1) L’idratazione e l’alimentazione artificiale risultano, in certi casi, inutili o eccessivamente gravose: in queste situazioni è bene che esse vadano sospese. È questo il caso, ad esempio, dello stadio finale dell’Alzheimer, quando l’uso dell’alimentazione risulta inutile e, a volte, può anche provocare delle sofferenze. Uno studio apparso sul «Journal of the American Medical Association» del 1999 dimostra infatti che in questi casi l’uso dell’alimentazione artificiale tramite sondino nasogastrico non prolunga la vita e non evita complicazioni come, ad esempio, l’ab-ingestis 18. In molti altri casi, inoltre, l’alimentazione fornita non viene assunta dall’organismo, che la rifiuta perché non è più capace di assorbirla: è questo il caso, solo per fare un esempio, di alcuni malati oncologici terminali. In questi casi, se si sospendessero l’alimentazione e l’idratazione, non lo si farebbe perché si considera inutile la vita della persona malata, ma perché si considerano inutili i trattamenti di sostegno vitale. 2) Quando, invece, il paziente rifiuta esplicitamente l’alimentazione e l’idratazione, in casi in cui tali trattamenti risultano efficaci (come, ad esempio, nello stato vegetativo), si crea immediatamente un grave conflitto di valori: da un lato il valore della vita, dall’altro lato il valore del rispetto per la libertà e la dignità altrui, che ci porta a rifiutare l’uso della violenza e della coercizione.

18 In questo senso si sono espressi anche il gruppo di studio della Società Italiana di Neurologia (cf. The Discontinuation of Life Support Measures in Patients in a Permanent Vegetative State, in «Neurological Sciences», 23: 131139, 2002) e il Comitato Nazionale per la Bioetica (si veda il Documento approvato il 30 settembre 2005 su L’alimentazione e l’idratazione artificiale nei pazienti in stato vegetativo permanente).

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Il fatto che noi possiamo ritenere moralmente sbagliata, in certi casi, la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, non significa infatti che questa considerazione morale possa essere tradotta, eo ipso, in un obbligo giuridico. Imporre un trattamento in modo coatto costituisce infatti una violenza ed un’invasione della sfera personale, anche quando questo trattamento non fosse tecnicamente configurabile come una terapia medica. Esiste infatti un diritto fondamentale dei cittadini a disporre del proprio corpo, che è diventato uno dei capisaldi delle costituzioni liberali e che risale all’«Habeas corpus», un privilegio che i baroni inglesi sono riusciti a strappare a Giovanni Senzaterra nel 1215, quando hanno ottenuto la Magna Charta Libertatum. «Habeas corpus» significa «che tu abbia diritto a disporre del tuo corpo». Questo diritto veniva inizialmente invocato contro le incarcerazioni arbitrarie volute dal Re e stabiliva che nessuno, salvo un giudice in caso di violazione della legge, potesse privare un cittadino della disponibilità del suo corpo. In virtù dell’«Habeas corpus» oggi si può dunque affermare che qualsiasi autorità che, in assenza di reato, volesse esercitare un potere sul nostro corpo senza il nostro consenso, uscirebbe dallo stato di diritto per diventare tirannia. Ecco il motivo per cui, in fondo, non ha nemmeno importanza stabilire se alimentazione ed idratazione siano o meno cure mediche, perché ciò che risulta inaccettabile è l’invasione della sfera personalissima della soggettività e della corporeità altrui, sia che l’invasione avvenga tramite cure mediche, sia che avvenga tramite altri strumenti. Qui non è solo in gioco l’articolo 32 della Costituzione, ma anche lo stesso articolo 13, che richiama l’«Habeas corpus» e che afferma che «la libertà personale è inviolabile» e che «non è ammessa forma alcuna di detenzione, ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e solo nei casi e modi previsti dalla legge». Insomma, si può obiettare, sul piano morale, alla rinuncia ad una terapia salvavita e, tuttavia, si può riconoscere, al tempo

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stesso, che non è lecito imporre quella terapia in modo coatto usando la forza della legge. L’articolo 32 della nostra Costituzione, considerato nella sua interezza, risulta, da questo punto di vista, un piccolo capolavoro. Il primo comma riconosce che la salute di ogni cittadino è un valore che va protetto, perché essa costituisce un «interesse della collettività». In questo modo, la Costituzione riconosce implicitamente che il rifiuto delle cure non è un bene né per la persona malata, né per la società nel suo complesso. Tuttavia, al secondo comma, l’articolo 32 nega che le cure possano essere imposte in modo coercitivo, perché ciò sarebbe lesivo della dignità della persona. Dall’insieme dei due commi dell’articolo, di conseguenza, ricaviamo la seguente prospettiva: non esiste un diritto di morire, a cui la collettività debba rispondere con un corrispettivo dovere di far morire chi lo richiede, visto che il rifiuto delle cure, in sé, non è considerato un bene; tuttavia la collettività non può nemmeno imporre in modo coercitivo il valore della salute da essa riconosciuto, perché ciò sarebbe lesivo di altri fondamentali diritti. 3) Diverso, infine, è il caso in cui sono i medici o i parenti a decidere per la sospensione di cure salvavita, giudicando “priva di valore” la vita del loro paziente o del loro congiunto. In questo caso si sarebbe infatti di fronte non solo ad un grave caso di discriminazione nei confronti di un soggetto profondamente vulnerabile e affetto da gravi menomazioni, ma anche ad un vero caso di eutanasia, per di più involontaria. Insomma, il rispetto per la volontà del paziente, anche quando essa non fosse da noi condivisibile, è profondamente diverso dal giudizio di valore sulla sua vita. Per questo motivo, quando non ci fossero indicazioni precise da parte del paziente, lo stato dovrebbe sempre optare per il mantenimento delle terapie di sostegno vitale, piuttosto che per la loro sospensione (in dubio pro vita).

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PROBLEMI APERTI Come abbiamo più volte sostenuto il testamento biologico è uno strumento sicuramente molto utile, perché consente di valorizzare le scelte personali anche oltre il tempo in cui possono essere manifestate coscientemente e offre ai sanitari un criterio di scelta in momenti estremamente drammatici. Un tale strumento, però, per quanto utile e importante, porta con sé dei limiti, che sono costitutivi e ineliminabili. La situazione di chi lascia delle dichiarazioni anticipate è diversa da quelle citate sopra. Noll e Bartoccioni, infatti, avevano discusso a lungo con i medici della loro situazione, dopo aver ricevuto un’informazione quanto più precisa e completa. Al contrario, chi lascia delle dichiarazioni anticipate non necessariamente è adeguatamente informato, anche perché, quando si è sani, difficilmente si riesce a essere informati su tutte le malattie che potrebbero capitare. Inoltre, nei casi di Noll e Bartoccioni, citati sopra, le decisioni venivano approfonditamente discusse con i medici. Le loro decisioni, certo, andavano in entrambi i casi contro le indicazioni dei medici, ma dopo essere state discusse. Nel caso di una dichiarazione anticipata, invece, il medico potrebbe avere il legittimo dubbio che il paziente non sia stato bene informato di tutte le conseguenze della sua decisione, oppure potrebbe sospettare che, attraverso un dialogo approfondito, il paziente avrebbe potuto cambiare opinione. In altri termini, il medico non ha modo di verificare se una informazione scorretta abbia viziato una volontà che, basandosi su un’errata informazione, non risulta del tutto libera. Inoltre, tra il momento in cui il testamento biologico viene stilato e quello in cui esso viene applicato, possono intervenire dei progressi scientifici, che cambiano di molto il quadro della situazione. Supponiamo, ad esempio, che un paziente, nel 1963, prima che venisse introdotta l’emodialisi, avesse lasciato delle disposizioni anticipate, con la richiesta della sospensione di tutte le terapie in caso di una mancata funzionalità renale che

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prefigurasse un coma uremico. Supponiamo anche che la situazione prevista si fosse realmente verificata l’anno successivo, quando era ormai disponibile l’emodialisi, che consente alle persone che hanno perduto la funzionalità renale di vivere in condizioni dignitose, sottoponendosi a una terapia non gravosa un paio di volte alla settimana. Evidentemente, in un caso come questo, le disposizioni anticipate avrebbero dovuto essere reinterpretate alla luce del nuovo scenario, visto che il paziente, al momento della stesura del testamento biologico, non poteva avere di fronte lo stesso ventaglio di possibilità disponibile ai parenti o al fiduciario al momento della scelta. Un altro problema è costituito dal fatto che molti confini sono labili e il medico si trova spesso costretto ad interpretare con difficoltà i documenti scritti dal malato, perché la medicina è una disciplina probabilistica. Alcuni modelli di testamento biologico prevedono, ad esempio, la richiesta di sospensione dei trattamenti quando il loro effetto è soltanto quello di mantenere il paziente in uno stato di incoscienza senza possibilità di recupero. Ma, ci si può chiedere: come fa un medico a stabilire questo con certezza? Wade, in un articolo pubblicato sul «British Medical Journal» del 2001 19, sostiene che la diagnosi dello stato di incoscienza permanente è probabilistica, perché a volte c’è la possibilità che il paziente possa riprendere coscienza. Oltre agli errori di prognosi, ci sono poi gli errori di diagnosi. Di fronte a questi dilemmi si può forse dire che l’incertezza di certe prognosi e l’impossibilità di evitare del tutto l’astrattezza dei documenti costituisce un argomento contro il carattere vincolante e a favore del carattere orientativo dei documenti o, perlomeno, di alcune loro parti. Importante, infine, è il ruolo del fiduciario, che può aiutare a superare l’astrattezza dei documenti, esplicitando il pensiero del paziente, e che può anche rappresentare i suoi interessi di fronte al medico. 19 D.T. Wade, Ethical issues in diagnosis and management of patients in the permanent vegetative state, in «British Medical Journal», 322, February 2001, pp. 352-354.

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INDICE DEI NOMI

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INDICE DEI NOMI

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INDICE DEI NOMI

Alighieri D.: 47 Angelini G.: 29 Apollodoro: 26 Asclepio: 26 Balint M.: 18, 24, 25 Bartoccioni S.: 70, 71, 84 Beauchamp T.: 59 Beccaria C.: 49 Bergman I.: 33 Blustein J.: 22 Boccaccio G.: 47 Bonadonna G.: 71 Bresnahan J.F.: 14 Brusco A.: 41 Callanan M.: 14 Camon F.: 14, 65 Cattorini P.: 22, 68 Chiodi P.: 19 Cicerone: 31 Clay C. (Ali M.:): 52 Copenhaver B.: 14 De Santi A.: 30 Dworkin R.: 58 Elias N.: 14, 27 Engel G.: 18

Fabris A.: 64 Foucault M.: 28 Freud A.: 27 Gadamer H.G.: 17 Galilei G.: 47 Galimberti U.: 25 Gallucci M.: 30 Gensabella Furnari M.: 13 Gilligan C.: 22, 23 Giovanni Senzaterra: 82 Goldoni C.: 48 Guastella G.: 76 Hammes B.J.: 78 Hegel G.W.F.: 50 Heidegger M.: 64 Held V.: 22 Hennezel M. (de): 38, 42 Heysham Gibbon J.: 64 Hume D.: 59 Jaspers K.: 18, 25 Jecker N.S.: 22 Kant I.: 18, 19, 47, 48, 56, 57, 59 Kelley P.: 14 Kierkegaard S.: 49

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INDICE DEI NOMI

Kubler-Ross E.: 31, 32, 33, 36, 38 Kuhse H.: 24

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Lifton R.J.: 14 Machiavelli N.: 47 Malherbe J.F.: 29, 35, 36 Martini C.M.: 67, 68 Mayeroff M.: 22 Merker N.: 48 Merleu-Ponty M.: 62 Mordacci R.: 22 Nightingale F.: 23 Noddings N.: 22 Noll P.: 72, 84 Petrarca F.: 47 Prendergast T.: 78 Reich W.T.: 7, 8, 13, 14, 22 Reichlin M.: 59 Ricoeur P.: 8, 19, 20, 26, 28, 38, 39, 62 Rigliano P.: 30

Rooney B.L.: 78 Rosof L.S.: 27 Rousseau J.J.: 48 Ruddick S.: 22 Sartori F.: 71 Schiavo T.: 62 Seale C.: 14 Seelig B.J.: 27 Singer P.: 41, 57 Smith A.: 49 Sounders C.: 9 Stirner M.: 49 Tenenti A.: 14 Turoldo D.M.: 29, 30 Vattimo G.: 17 Veldman F.: 42, 61 Verga R.: 76 Wade D.T.: 85 Wolf S.: 22, 23 Young I.M.: 22

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INDICE GENERALE

INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.

7

PARTE PRIMA MALATTIA E MORTE NELL’EPOCA CONTEMPORANEA UMANIZZARE

LA MEDICINA. IL PRIMO FARMACO È IL

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una medicina al servizio della persona . . . . . . Approccio olistico e rispetto per la dignità della persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il mito del guaritore ferito. L’empatia quale elemento essenziale del prendersi cura . . . . . . . .

MEDICO STESSO

LA

ESSERE VIVI FINO ALLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La parola come rimedio e come cura . . . . . . . Quando non ci sono più parole . . . . . . . . . .

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MALATTIA COME CRISI.

MORTE

PARTE SECONDA LE DECISIONI DI FINE VITA VALORE E LIMITI DEL MODELLO DELL’AUTONOMIA DEUNA PROSPETTIVA FILOSOFICA . La modernità e il principio di autonomia . . . . .

CISIONALE IN SANITÀ.

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90

INDICE GENERALE

Il principio di autonomia in medicina . . . . . . . pag. 50 Il valore dell’autonomia . . . . . . . . . . . . . . » 52 1. L’autonomia è necessaria all’umanizzazione della medicina . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52 2. Il principio di autonomia è coerente con l’odierna epistemologia medica . . . . . . . . . . . . . » 53 3. L’autonomia costituisce il fine stesso della medicina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 55 I limiti dell’autonomia . . . . . . . . . . . . . . . » 56 1. Primo limite: la concezione individualistica dell’autonomia presente in alcune prospettive della letteratura bioetica contemporanea . . . . » 56 2. Un secondo limite: l’ipertrofia cognitiva della nozione moderna di autonomia . . . . . . . . . » 60 NÉ EUTANASIA, NÉ ACCANIMENTO . Per una morte umana . . . . . La scelta di Sandro Bartoccioni La scelta di Peter Noll . . . . . L’eutanasia . . . . . . . . . . .

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IL TESTAMENTO BIOLOGICO . . . . . . . . . . . . . . La filosofia delle direttive anticipate di trattamento: tra autonomia e relazione. . . . . . . . . . . . Come realizzare operativamente questa filosofia? La controversa questione relativa alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale . . Problemi aperti . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE DEI NOMI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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RIEPILOGO DI COLLANA

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IDEE / filosofia nuova serie

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Marco Vannini Meister Eckhart e «il fondo dell’anima» Edith Stein La ricerca della verità dalla fenomenologia alla filosofia cristiana a cura di A. Ales Bello Christos Yannaràs Heidegger e Dionigi Areopagita assenza e ignoranza di Dio a cura di A. Fyrigos Martin Buber Profezia e politica sette saggi a cura di G. Morra trad. di L, Velardi Jean Brun Attesa di verità il destino della filosofia nella modernità pres. di M. Malaguti trad. di F. Polato Angela Ales Bello Culture e religioni una lettura fenomenologica

Francesco Tomatis L’argomento ontologico l’esistenza di Dio da Anselmo a Schelling Gaspare Mura Ermeneutica e verità storia e problemi della filosofia dell’interpretazione Angela Michelis Carlo Michelstaedter il coraggio dell’impossibile pref. di N. Bosco Max Scheler Lavoro ed etica saggio di filosofia pratica a cura di D. Verducci Pier Paolo Ottonello Rosmini: l’ordine del sapere e della società Martin Buber Incontro frammenti autobiografici a cura di D. Bidussa trad. di A. Franceschini Dario Antiseri Massimo Baldini (edd.) La rosa è senza perché

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RIEPILOGO DI COLLANA

pensieri sulla fede testi di: Buber, Ebner, Galilei, Heidegger, Jaspers, Kierkegaard, Marcel, Pareyson, Pascal, Rosenzweig, Silesio, Wittgenstein

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Francesco Tomatis Escatologia della negazione Patrizia Manganaro Wittgenstein e il Dio inesprimibile Vittorio Possenti Filosofia e rivelazione un contributo al dibattito su ragione e fede Rosanna Finamore Arte e formatività l’estetica di L. Pareyson Maurizio Schoepflin (ed.) L’amore secondo i filosofi testi di: Platone, Plotino, Agostino, Bonaventura, Tommaso d’Aquino, Ficino, Spinoza, Rousseau, Schleiermacher, Rosmini, Feuerbach, Kierkegaard, Scheler, Buber, Maritain, Stein, Sartre, Lévinas

Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato linee di antropologia in Pascal e Kierkegaard

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Franco Percivale L’ascesa naturale a Dio nella filosofia di Antonio Rosmini Roberto Gatti (ed.) Il male politico la riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento contributi di: A. Ales Bello, L. Alici, M. Gnocchini, F. Miano, M. Pastrello, A. Pieretti, I. Poma, A. Rizzacasa, V. Sorrentino

Giuseppe Riconda Xavier Tilliette Del male e del bene Bruno Forte Vincenzo Vitiello La vita e il suo oltre dialogo sulla morte Aurelio Rizzacasa L’eclisse del tempo il fine e “la fine” della storia pref. di A. Ales Bello Leonardo Messinese Un passo oltre la scienza filosofia e trascendenza in Karl Jaspers pres. di A. Ales Bello pref. di G. Penzo Massimo Donà Aporie platoniche saggio sul Parmenide

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RIEPILOGO DI COLLANA

Anita Bertoldi Il pensatore della parola Ferdinand Ebner, filosofo dell’incontro Maurizio Schoepflin (ed.) La felicità secondo i filosofi

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Aniceto Molinaro Tra filosofia e mistica Anna Maria Pezzella L’antropologia filosofica di Edith Stein

Bruno Forte Vincenzo Vitiello Dialoghi sulla fede e la ricerca di Dio intr. di O. Di Grazia a cura di L. Bove Angela Ales Bello Philippe Chenaux (edd.) Edith Stein e il nazismo in appendice la lettera di Edith Stein a Pio XI

Vittorio Possenti L’azione umana morale, politica e Stato in Jacques Maritain

Nicola Ricci In trasparenza ontologia e dinamica dell’atto creativo in Antonio Rosmini pref. di M. Malaguti

Isabella Adinolfi Diritti umani realtà e utopia

Giovanni Zuanazzi Pensare l’assente realtà e utopia

Paolo Diego Bubbio Il sacrificio la ragione e il suo altrove Silvio Spiri Essere e sentimento la persona nella filosofia di Antonio Rosmini pref. di E. Baccarini Angela Ales Bello Anna Maria Pezzella Il femminile tra Oriente e Occidente religioni letteratura storia cultura

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Angelo Capecci Il pregiudizio storico il problema della storiografia filosofica Mauro Grosso Alla ricerca della verità la filosofia cristiana in E. Gilson e J. Maritain pref. di P. Viotto Angela Michelis Libertà e responsabilità la filosofia di Hans Jonas

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RIEPILOGO DI COLLANA

Marcello Acquaviva Il concreto vivente l’antropologia filosofica e religiosa di Romano Guardini

Philippe Nemo Giobbe e l’eccesso del male con un contributo di Emmanuel Levinas

Paolo Diego Bubbio Piero Coda (edd.) L’esistenza e il logos filosofia, esperienza religiosa, Rivelazione

Angela Ales Bello Fenomenologia dell’essere umano lineamenti di una filosofia al femminile

Massimiliano Marianelli Ontologia della relazione la “convenientia” in figure e momenti del pensiero filosofico

Luciana Vigone Introduzione al pensiero filosofico di Edith Stein pres. di C. Sini

Gianluca Falconi Metafisica della soglia sguardo sulla filosofia di Hans Urs von Balthasar

Gennaro Cicchese Incontro a te antropologia del dialogo

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IL TESTAMENTO INDICEBIOLOGICO

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L’ETICA DI FINE VITA

2958

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