Questione di vita e di morte 9788858432143

A chi appartiene la nostra vita? Detto altrimenti: sul nostro fine vita è preferibile che decidiamo noi o un estraneo ch

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Questione di vita e di morte
 9788858432143

Table of contents :
Indice......Page 98
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 94
L’autore......Page 95
1. A chi appartiene la tua vita.......Page 7
2. Un problema che non dovrebbe esistere.......Page 9
1. Come vorremmo morire.......Page 12
2. Vita biologica e vita umana.......Page 14
3. L’irriducibile autonomia.......Page 16
4. Tu sei la tua vita.......Page 17
5. L’inganno del «bene indisponibile».......Page 18
6. Non c’è Natura che tenga.......Page 20
7. Vita-e-libertà.......Page 22
8. L’improponibile argomento-Dio.......Page 25
9. Sillogismo ricapitolativo.......Page 26
1. Esecuzioni, torture, feste.......Page 28
2. Pena di morte, mai piú «crudele e inusitata».......Page 30
3. Crimini orrendi.......Page 32
4. Condannati a morte innocenti, con tortura.......Page 33
5. Ancora, condannati a morte innocenti, con tortura.......Page 35
6. Altri condannati a morte innocenti, con tortura.......Page 37
7. Condannate a soffrire “ad vitam aeternam”.......Page 39
8. Tortura fisica e tortura psicologica.......Page 41
9. Giovanni Nuvoli e la tortura di Stato e di Chiesa.......Page 43
10. Francesco, il lettore e l’empatia.......Page 45
11. Umanità delle giurie popolari.......Page 47
12. Suicidio, eroismo e martiri cristiani.......Page 49
13. Suicidio e paradiso, Jihad e urí.......Page 51
1. La vita degna: Sofocle, Montaigne, Kant, Leopardi.......Page 54
2. Un circolo vizioso e la risposta di Hume.......Page 56
1. Sedazione profonda permanente.......Page 59
2. China pericolosa e casi di confine.......Page 61
3. Eutanasia neonatale.......Page 62
4. Il caso Lucio Magri.......Page 63
1. Promessa di laicità di due cardinali e un arcivescovo.......Page 66
2. Una canagliesca amalgama ecclesiastica.......Page 67
3. Chi chiede l’eutanasia non sa quello che vuole?......Page 69
4. Welby, Montanelli e la dignità.......Page 71
5. L’ovvietà della «relazionalità».......Page 73
6. Solitudine, amore, carità.......Page 75
7. L’alleanza terapeutica e il medico che vorremmo.......Page 77
8. Altri «non sequitur» ecclesiastici.......Page 78
9. Tettamanzi ammette che solo la fede giustifica il no assoluto all’eutanasia.......Page 81
10. Lo confessa anche il Papa.......Page 82
11. Cattolici per il diritto all’eutanasia: Küng, Franzoni e san Filippo Neri.......Page 84
12. Già Pio XII…......Page 86
1. La vita è un dono. La vita è sacra. Appunto!......Page 91
2. Contro i «piú eguali», ribellati!......Page 92

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Sommario

Copertina Frontespizio Questioni di vita e di morte Prologo 1. A chi appartiene la tua vita. 2. Un problema che non dovrebbe esistere. I. Logicamente 1. Come vorremmo morire. 2. Vita biologica e vita umana. 3. L’irriducibile autonomia. 4. Tu sei la tua vita. 5. L’inganno del «bene indisponibile». 6. Non c’è Natura che tenga. 7. Vita-e-libertà. 8. L’improponibile argomento-Dio. 9. Sillogismo ricapitolativo. II. Esistenzialmente 1. Esecuzioni, torture, feste. 2. Pena di morte, mai piú «crudele e inusitata». 3. Crimini orrendi. 4. Condannati a morte innocenti, con tortura. 5. Ancora, condannati a morte innocenti, con tortura. 6. Altri condannati a morte innocenti, con tortura. 7. Condannate a soffrire “ad vitam aeternam”. 8. Tortura fisica e tortura psicologica. 9. Giovanni Nuvoli e la tortura di Stato e di Chiesa. 10. Francesco, il lettore e l’empatia. 11. Umanità delle giurie popolari. 12. Suicidio, eroismo e martiri cristiani. 13. Suicidio e paradiso, Jihad e urí. III. Filosoficamente 1. La vita degna: Sofocle, Montaigne, Kant, Leopardi. 2. Un circolo vizioso e la risposta di Hume. IV. Giuridicamente 1. Sedazione profonda permanente. 2. China pericolosa e casi di confine. 3. Eutanasia neonatale. 4. Il caso Lucio Magri. V. Cattolicamente 1. Promessa di laicità di due cardinali e un arcivescovo.

2. Una canagliesca amalgama ecclesiastica. 3. Chi chiede l’eutanasia non sa quello che vuole? 4. Welby, Montanelli e la dignità. 5. L’ovvietà della «relazionalità». 6. Solitudine, amore, carità. 7. L’alleanza terapeutica e il medico che vorremmo. 8. Altri «non sequitur» ecclesiastici. 9. Tettamanzi ammette che solo la fede giustifica il no assoluto all’eutanasia. 10. Lo confessa anche il Papa. 11. Cattolici per il diritto all’eutanasia: Küng, Franzoni e san Filippo Neri. 12. Già Pio XII… VI. Commiato, ovvero perché la tua vita sia tua, occorre lottare 1. La vita è un dono. La vita è sacra. Appunto! 2. Contro i «piú eguali», ribellati! Il libro L’autore Dello stesso autore Copyright

Paolo Flores d’Arcais

Questioni di vita e di morte

Questioni di vita e di morte

Prologo

1. A chi appartiene la tua vita. A chi appartiene la tua vita, amico lettore, a te o a me? Detto altrimenti: sul tuo fine vita preferisci decidere tu, o preferisci che decida un estraneo, qualcuno che tu non conosci, scelto dal caso o dai rapporti di forza, che potrebbe essere anche un tuo nemico? Questo è l’unico interrogativo intellettualmente onesto, logicamente e moralmente onesto, con cui affrontare il tema del fine vita, del suicidio assistito, dell’eutanasia. Ovvia la risposta, preferisci decidere tu. È il tuo fine vita, la tua vita. Perché mai dovresti sottometterti a un altro? Tutti e ciascuno, senza eccezioni, preferiremmo essere noi a scegliere. A essere logicamente e moralmente onesti, perciò, la questione del fine vita non costituisce un problema, non dovrebbe, almeno. Ha in sé la sua risposta: nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro. Ciascuno decide liberamente sul proprio fine vita come su ogni fase della vita che l’ha preceduto. Risposta ovvia, di libertà, eguaglianza, dignità. Altra risposta non è proprio possibile, logicamente parlando: anche chi preferisse affidare la decisione sul proprio fine vita alla volontà di un altro, qualsiasi altro – familiare, amico, nemico, medico, vescovo, mullah, santone, veggente, cartomante, Papa, philosophical counsellor, maggioranza parlamentare – potrà farlo tranquillamente se avrà scelto di essere lui a scegliere. Non vale invece il reciproco. Se scegli di essere il sovrano del tuo fine vita puoi decidere poi di affidarlo al Fato, nelle mani di un Dio, alle vicende della Natura (di una tua idea di Natura). Se scegli che sul tuo fine vita la decisione non ti appartenga, ma appartenga ad altri, non potrai invece neppure scegliere questi altri: qualsiasi (anche chi abbia valori ostili ai tuoi). Saranno questi altri i padroni e signori del tuo fine vita. In democrazia, la maggioranza parlamentare. Che oggi si prostra al Papa nel bacio della pantofola, ma domani potrebbe essere di segno opposto e rendere obbligatoria la liberazione dalla sofferenza, dopodomani appartenere

a un governo teocratico di palandrane e turbanti o a un governo totalitario di turbocapitalismo mao-mandarino. Ognuna di queste maggioranze avrebbe il diritto di decidere sul tuo fine vita, diritto che tu stesso gli avresti consegnato nel caso non avessi stabilito che sul tuo fine vita hai diritto a decidere solo tu. Ciascun tu, ovviamente. Ciascuno sul proprio fine vita. Unicuique suum. Logicamente, perciò, il problema non c’è, non può esserci, non deve esserci. Il dilemma posto all’inizio non esiste, i suoi due corni sono assolutamente asimmetrici. Il primo contiene anche la possibilità del secondo, il secondo ti annulla, ti mette alla mercé del potere di turno. Ripetiamolo fino a che si scolpisca nei nostri neuroni: se scegli di essere il sovrano del tuo fine vita, puoi anche affidarlo poi a chi vuoi tu, al tuo medico, al tuo prete, al tuo Dio, alla tua superstizione, alla tua idea di Natura, alla tua maggioranza parlamentare. Se invece non tieni ferma, granitica e inviolabile, sacra insomma, la sovranità di ciascuno sul proprio fine vita, dovrai accettare sul tuo, aleatoriamente, secondo caso e contingenza, l’imperio di un altro medico, un altro Dio, un altro ateismo, un’altra maggioranza parlamentare, forse a te invisi e che deciderebbero contro la tua volontà. Non puoi infatti pretendere per te quello che non sei disposto a concedere ad altri. Non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te. È la regola aurea, dopo Confucio, il Levitico, i filosofi greci, la trovi anche nel Vangelo, fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te (Matteo 7,12). Caro Vincenzo (Paglia), da anni vescovo sempre piú influente, stimate Eminenze Tettamanzi e Sgreccia, non accettereste certamente che sul vostro fine vita decida io, la giudichereste aberrante pretesa di sopraffazione. Non potete perciò pretendere di decidere voi sul mio. E infatti Ella, cardinal Tettamanzi, quando era arcivescovo di Genova, riconobbe su questo tema, in una conversazione con me poi pubblicata, che «non dobbiamo essere noi a interpretare la volontà delle persone, ma dobbiamo innanzi tutto accogliere quanto le persone ci dicono, nel rispetto dell’altro e rifiutando la tentazione di imporre all’altro criteri, giudizi, sentimenti che invece sono nostri. Su questo credo ci sia un perfetto accordo» 1. C’è davvero? Perché se cosí fosse, concorderemmo serenamente, come logica impone, che ciascuno decida sul proprio fine vita. Se ciascuno può decidere sul proprio fine vita, infatti, a nessuno viene tolto nulla, nessuno viene leso in dignità, o in libertà o in eguaglianza. Altrimenti saremmo invece

tutti sottomessi, asserviti e condannati all’alea della decisione estranea. Del piú forte numericamente, se in «democrazia», o del piú forte tout court.

2. Un problema che non dovrebbe esistere. Insomma, le dispute sul fine vita, sul suicidio assistito, sull’eutanasia, non dovrebbero avere neppure luogo. Manca la materia del contendere, se si prendono sul serio eguaglianza di dignità e libertà, cioè la condizione minima del cittadino. La «scelta» sarebbe infatti fra il diritto di ciascuno a scegliere sulla propria vita e il dovere di ciascuno a subire la sopraffazione sulla propria vita da parte di qualcun altro, non importa chi, non importa quanto forte, non importa se «democraticamente» maggioranza. Ma solo nel primo caso le parole dignità e libertà hanno ancora un senso. Se sei libero di scegliere chi sposare e se fare figli, o farti prete o monaca, devi essere libero anche di decidere sul tuo fine vita, momento della tua vita cruciale non meno del matrimonio o della maternità/paternità. Se invece è un Potere, che sul tuo fine vita può rivendicare dominio, potrà farlo anche sul tuo matrimonio, sul numero dei tuoi figli, su quello che gli aggraderà. Come mai, allora, il diritto che ciascuno decida sulla propria vita non risulta affatto pacifico, ovvio, adamantino, e anzi in molti Paesi è ancora conculcato con ferocia di pene? Perché la libertà sul fine vita è ancora negata, stigmatizzata, vilipesa – fino alla galera? In nome di chi o di cosa? Logicamente e moralmente, abbiamo visto, il diritto di ciascuno sul proprio fine vita dovrebbe costituire un diritto civile inalienabile e imprescrittibile. Proprio per questo, però, la questione dell’eutanasia, del suicidio assistito, del fine vita, non viene mai affrontata dagli establishment attraverso la domanda cruciale con cui abbiamo aperto questo scritto. Perché la risposta sarebbe lampante, ineludibile, lapalissiana. E inaggirabile la decisione legislativa che ne segue. E invece accade il contrario. Accade che, contro logica e contro morale (se nella nostra convivenza assumiamo quale stella polare l’eguale dignità, come tutti diciamo di fare), la libertà di decidere sul proprio fine vita non solo non venga riconosciuta, ma su di essa venga scagliato l’anatema, armato di falsità, ingiuria, ipocrisia, carcere. Infatti per negare la tua libertà sul tuo fine vita, la mia sul mio, quella di ciascuno sul proprio, non c’è argomentazione

che logicamente e moralmente regga, ma qualcosa di assai piú cogente anche se (o perché) psichicamente torbido: c’è potere, desiderio di potere, volontà di potere, voluttà di potere. Chi ha potere, una maggioranza parlamentare, un potere tout court, soffre a riconoscere la simmetria democratica. L’esercizio del potere tende irresistibilmente all’asimmetria: posso imporre a te quello che tu non puoi imporre a me. Contro questa hybris e questa voluttà, la democrazia si è costituita – attraverso tragedie, il Terrore in primis, e dunque il fantasma ineludibile del dispotismo di maggioranza, del totalitarismo plebiscitario – come potere limitato, dove la regola della maggioranza vale solo all’interno di stringenti limiti. Per questo una democrazia nasce mettendo in Costituzione quanto sarà sottratto alla decisione a maggioranza, sia parlamentare che referendaria: i diritti inalienabili del cittadino. Contro i quali non c’è maggioranza che possa legiferare per sopprimerli o limitarli. Se avviene, ne va già della democrazia. È ammissibile che sulla tua vita una maggioranza possa decidere? La loro volontà contro la tua? Perché allora non dovrebbero poter decidere in modo altrettanto coatto della tua religione, delle tue idee politiche, del numero dei tuoi figli, della tua professione? Ci sono regimi che lo hanno fatto e lo fanno. Abbiamo già constatato, logicamente e moralmente, dunque politicamente, che se la tua vita finisce alla mercé di altri, fosse anche una maggioranza schiacciante, è la radice stessa della sovranità di tutti (di cui la tua è indisgiungibile parte) che viene avvelenata. Solo l’autonomia di ciascuno sul proprio fine vita, solennemente scolpito in Costituzione come inalienabile diritto umano e civile, scongiura questa abiezione. Ecco tutto. Sul fine vita non ci dovrebbe essere controversia possibile. Ancor meno che sul diritto alla scelta religiosa (o irreligiosa), alla preferenza sessuale (tra adulti consenzienti, ça va sans dire), all’opinione politica. A meno di non revocare in dubbio l’eguaglianza di dignità fra concittadini. Infatti la mera discussione sul diritto di ciascuno al proprio fine vita, liberamente deciso, già mette a repentaglio che tu ed io siamo eguali, che nessuno dei due può prevaricare sulla vita dell’altro. Solo discuterne dovrebbe suonare impudenza. Ciascuno sulla sua vita è sovrano, altrimenti è schiavo di qualcun altro. Chi volesse sostenere l’opposto ha l’onere della prova, il dovere di esibire l’argomentazione inoppugnabile, e introvabile, contro ciò che logicamente e

moralmente si afferma da sé. 1. Paolo Flores d’Arcais e Dionigi Tettamanzi, La bioetica tra fede e disincanto, in «MicroMega», 1 (2001), p. 54.

Capitolo primo Logicamente

1. Come vorremmo morire. Evidentemente viviamo in un mondo capovolto, se la legge nega a te la disponibilità sulla tua vita. Siamo perciò costretti a ricominciare daccapo, argomentando una volta di piú ciò che è stato già piú volte dimostrato, sistematicamente. E sistematicamente confutare la panoplia degli anatemi, dello stracciarsi di vesti, delle esclamazioni maiuscole, dei prevaricatorî spurghi emotivi che, travestiti da argomenti e talvolta in perfetta buonafede, vengono scagliati contro il diritto di ciascuno sulla propria vita, non solo ad maiorem Dei gloriam ma con altruistica e compunta generosità per il nostro bene autentico, di cui tu ed io non saremmo consapevoli, amico lettore, ma essi sí, benché siano Homo sapiens come noi, limitati e mortali, fallibili e polvere come noi. E allora. Tutti dobbiamo morire. Nulla eravamo e nulla ritorneremo. La morte è l’unica certezza della vita, nella totale incertezza del quando e del come. La morte ci fa paura e cerchiamo di rimu0verla dall’orizzonte della nostra esistenza, dovremmo invece tenerla sempre presente perché dell’esistenza è l’ineludibile. Non sappiamo il quando e il perché, ma almeno il come è sempre piú nelle nostre mani. Come vorremmo morire? Senza soffrire. Tutti vorremmo morire senza soffrire, o almeno poter decidere se e quanta sofferenza accettare. Perché mai la certezza della morte dovrebbe essere ancora accompagnata dalla possibilità di agonia di torture, fisiche e/o psicologiche, visto che l’auspicio di tutti è oggi possibile: la morte senza sofferenza? In nome di cosa? Per il potere perverso di chi? Perché? La morte è l’unica certezza della vita. Vorremmo tutti che ci fosse leggera, al culmine di una vita sazia di felicità. Poiché non è possibile, e vorremmo almeno morire senza sofferenze, e questo invero oggi è alla portata di Homo sapiens, perché non dovremmo essere garantiti dalla legge, cioè da ciò che ci tiene insieme come con-cittadini, che potremo avere una morte per il possibile buona, che significa, almeno e innanzitutto, per il possibile

secondo la nostra volontà? Sostiene Epicuro che la morte in realtà non esiste: «quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono piú» 1. Verità cristallina solo se morissi nel sonno, dopo essermi addormentato senza immaginare che non avrei conosciuto domani. Altrimenti, prima che ci sia la morte (quando non ci saremo noi) ci può essere l’angoscia della morte, per i giorni che avremmo voluto ancora vivere. Se non c’è la morte, c’è sicuramente il fine vita. E c’è soprattutto la paura della sofferenza che può accompagnarci alla morte. Tutte cose che noi viviamo. Che verrebbero meno solo se potessimo morire senza saperlo, o almeno nella certezza che potremo vivere il fine vita senza sofferenza, decidendo noi il come e il quando del basta! di fronte a un’agonia, fisica o anche solo psicologica, che ci sembrasse tortura. Insomma, tutti noi sapiens vorremmo vivere questo ineluttabile – attimo, agonia o fine vita che sia – secondo propria speranza e volontà. Non è possibile, lo sappiamo. Guerre, catastrofi, malattie, incidenti, e insomma il caso, talvolta orribile, spesso decidono altrimenti, stabiliscono una fine molto diversa da quella auspicata. Non è possibile morire come vorremmo, almeno non sempre. È però approssimabile, per quanto umanamente possibile. Basta che ti siano assicurate, amico lettore, tutte le condizioni legali e tecniche con cui ti venga risparmiato ciò che piú temi per il finale della tua vita, qualsiasi cosa sia questo tuo timore, insindacabilmente. Oggi nulla, se non una prava volontà di potere, impedisce che a ciascuno di noi sia risparmiato un fine vita colmo di dolore, di sgomento, di panico, Nulla, se non una violenta voluttà di sopraffazione, impedisce che il fine vita sia per ciascuno secondo la propria volontà, o a questa volontà quanto piú approssimato possibile. E dunque la morte, se non piú dolce, sia comunque, ed egualmente per ciascuno, meno «aspra e forte», meno angosciosa, piú «sorella morte». Per ciascuno a modo suo, poiché una sofferenza che è sgomento e insensatezza per me può essere per te benedetta occasione di espiazione, o viceversa. Purché nessuno pretenda imporre all’altro la propria scelta, il proprio vissuto. A ciascuno la sua morte, poiché il morire, il fine vita, è parte della vita. Esattamente come a ciascuno la sua vita: in eguale libertà, insindacabilmente, fino a dove ogni decisione sulla propria vita non leda analoga libertà dell’altro. Perciò, incessantemente: chi può arrogarsi il potere di decidere

sulla tua morte, visto che è tua, parte della TUA vita, parte conclusiva, decisiva, talvolta cruciale? Nessuno ha mai saputo dare una risposta, un’argomentazione, una giustificazione a questa smisurata pretesa, a questo delirio di potenza, prepotenza, onnipotenza frustrata. La piú corrente e corriva delle «ragioni» addotte è che la vita sia un bene indisponibile. Preliminarmente, però: la vita o la vita umana?

2. Vita biologica e vita umana. Vita, senza ulteriore qualificazione, è solo un termine della biologia, «essere vivente è un qualsiasi sistema autonomo con capacità evolutive di tipo aperto […] Nel caso piú semplice, un essere vivente è una cellula». Cosí la Treccani, nella Enciclopedia della scienza e della tecnica alla voce «Origine della vita». Il termine vita ha sempre bisogno di un predicato, altrimenti è inservibile, e tuttavia proprio il contrario troppo spesso accade in molte controversie bioetiche. Parlare di «vita», senza aggettivi, è sempre un abuso, quasi mai innocente. Ogni volta che in essa ci imbattiamo, massime se con la maiuscola, Vita, dovrebbe scattare il sospetto, il caveat, perché l’inganno è in agguato. La «vita» sans phrase è infatti quasi coeva al formarsi della Terra (che data circa 4,6 miliardi di anni fa). Tra i 4,4 e i 3,8 miliardi di anni fa le prime forme di vita cellulare, amminoacidi e nucleotidi, insomma «LUCA » (Last Universal Common Ancester), probabilmente un procariota, il progenitore di tutta la vita oggi nota sulla Terra. Un miliardo di anni dopo, la separazione tra due linee, eubatteri e archea, e tra i 2 e 1,5 miliardi di anni fa la comparsa di una terza linea, gli eucarioti, da cui per evoluzione circa un miliardo di anni fa le prime piante pluricellulari e un centinaio di milioni dopo i primi esseri pluricellulari del mondo animale, ancora simili alle odierne spugne, con cellule totipotenti. Infine, poco piú di mezzo miliardo di anni fa, negli oceani i primi vertebrati, antenati dei moderni pesci, e poi gli anfibi, i rettili, gli uccelli, i mammiferi, nel frattempo l’estinzione dei dinosauri… Non è evidentemente questa la vita posta in gioco nelle discussioni sull’eutanasia, bensí la vita umana, la vita della specifica forma animale

Homo sapiens. Ogni discorso sulla Vita, e piú ancora sulla Sacralità della Vita, è destituito di senso a meno che non sia riferito esclusivamente alla vita di Homo sapiens. Questo animale peculiare, che tutti noi siamo, per vivere deve anzi procedere a distruggere continuamente Vita, sia cibandosene sia difendendosene con ogni forma di -cidio per non essere sopraffatto. Gli antibiotici, che hanno segnato un imprevedibile salto di qualità nelle aspettative di vita (umana), devono il loro nome – alla lettera «contro la vita» – proprio al fatto che uccidono bios, uccidono Vita, quella dei batteri che attentano alla nostra salute. Vita umana, dunque, solo ed esclusivamente. Ma la vita umana ha come caratteristica inaggirabile di essere sempre la vita di qualcuno, una vita singolare. Con nome e cognome, inconfondibile. Ciascun essere umano è tale solo perché non è un replicante. L’esistenza è irripetibile. L’esistenza di ciascuno è unica, è quella esistenza a differenza di ogni altra. È la sua. Ontologicamente insostituibile e per questo inestimabilmente preziosa, anche se funzionalmente fungibilissima. Ogni volta che una persona muore viene meno un mondo. Nessun uomo è un’isola, va da sé, è penoso e umiliante che qualcuno creda di poter sottolineare il carattere relazionale della vita umana come «argomento» contro la libertà sul fine vita. Homo sapiens è l’animale sociale per eccellenza, questa socialità lo ha reso sapiens, solo il suo poter essere-insieme gli ha consentito di crescere, moltiplicarsi e dominare la terra. Ma è l’essere-insieme di esistenze potenzialmente irripetibili, singolari, che non replicano l’esistenza altrui. Senza questa irripetibilità, questa vita con un nome e cognome, non c’è vita umana. La vita umana non può essere «vita» anonima, vita senza un chi individuale. Quando inizi questa vita singolare, epperciò umana, non è tema che possiamo affrontare qui. Quello che conta per la discussione sul fine vita, invece, è sottolineare il carattere peculiarmente singolare della vita umana rispetto alla individualità degli animali anche piú prossimi a noi. Quella peculiarità che per millenni ha spinto appunto a distinguere e identificare l’animale Homo sapiens come unico dotato di anima, spesso immortale. Oggi sappiamo che tutto quanto è andato per millenni sotto il venerabile lemma di anima è costituito dall’insieme incredibilmente ricco e spaventosamente sontuoso delle connessioni neuronali che si stabiliscono nel cervello di Homo sapiens e in particolare nella sua neocorteccia. Approssimativamente cento miliardi di neuroni per centrotrentamila miliardi

di connessioni sinaptiche. Che danno vita a tutte le funzioni, capacità e prestazioni, percettive, motorie e mentali (sia cognitive che emotive), compresa l’ancora criptica coscienza, specifiche del cervello di Homo sapiens.

3. L’irriducibile autonomia. Il lettore faccia attenzione a questa apparente divagazione, in realtà rilevantissima, forse cruciale, nella controversia su fine vita, suicidio assistito, eutanasia. La neurobiologia chiama connettoma ciò che la religione immagina come anima. Si tratta di funzioni cerebrali sviluppate per evoluzione, dunque in un processo continuo, che come tale non ammette cesura o salti, ma la cui distanza in complessità e opulenza è tra Homo sapiens e i suoi cugini piú prossimi Pan troglodytes e Pan paniscus (scimpanzé e bonobo) talmente ciclopica da presentarsi come iato qualitativo. Differenza «abissale». Differenza che si manifesta, anche e soprattutto, come peculiarità o meno dell’individuo di una specie rispetto alla cogenza dell’istinto. Perfino le scimmie antropomorfe piú vicine a noi, gorilla, orango, scimpanzé, bonobo, manifestano ciascuno un essere-della specie che è diverso da specie a specie ma invalicabile dentro ciascuna specie. Non ci sono bonobo che si comportano come scimpanzé, non ci sono scimpanzé che si comportano come bonobo. Anche le piú enfatizzate differenze «culturali» tra gruppi geograficamente e storicamente diversi all’interno di una specie, l’uso di un ramo per invadere un formicaio, di un sasso per frantumare un carapace, preziosissimi come indizi e precursori dello squadernarsi evolutivo, restano risibili e praticamente nulle rispetto alle differenze culturali tra gruppi umani. Il comportamento di un gruppo animale resta governato dall’istinto. Il comportamento di un gruppo umano è governato dalla norma. Piú esattamente: Homo sapiens viene al mondo (si evolve) proprio attraverso il diversificarsi del dover-essere che sostituisce la perduta cogenza dell’istinto, la pluralità fino all’incompatibilità della morale, delle morali, che regolano l’organizzazione di ogni gruppo umano e ne impediscono caos ed estinzione. La biologia di Homo sapiens esige una norma, che surroghi

efficacemente, anzi piú efficacemente, l’indebolirsi della sovranità dell’istinto, ma non dice quale norma: una qualsiasi, purché funzioni. Purché garantisca coesione al gruppo, e con ciò sopravvivenza, meglio ancora se differenziale positivo di riproduzione. Infanticidio, uccisione dei vecchi, cannibalismo (dei nemici o dei propri cari), stupro di massa, strage, riduzione in schiavitú… Oppure viceversa, fino al piú sublime altruismo, alla piú traboccante generosità, alla piú accogliente fratellanza. Purché efficaci. In fatto di nascita, sesso, potere, violenza, morte, tutto e il contrario di tutto, nelle due o tre centinaia di migliaia di anni dell’avventura di Homo sapiens. Fino alla pluralità delle morali in seno alla stessa società, il politeismo dei valori, l’autonomia delle scelte etiche, che caratterizza la modernità. Proprio l’irriducibile autonomia di ciascuno, questa libertà dalla cogenza dell’istinto (per quanto parziale e comunque pulsionale) differenzia la vita umana da ogni altra forma di vita e le conferisce la sua eminente dignità. Che la vita umana sia singolare, in tutti i sensi della locuzione, sia sempre comunque e solo la vita di qualcuno, irriducibile alla «vita in generale» e anche alla vita umana in generale. La vita umana è sempre la tua o la mia vita.

4. Tu sei la tua vita. Perciò la vita umana non può essere anonima. Non può essere di nessuno e non può essere di tutti. È sempre e solo di qualcuno. Se non appartiene a te appartiene a qualcun altro (non può appartenere a Nessuno, anche «nessuno» è sempre il potere di qualcuno, un ciclope lo imparò a sue spese). A un altro Homo sapiens come te, come te limitato e mortale, che su di te si arroga però il potere di vita e di morte. Ma la tua vita, se non appartiene a te, appartenendo inevitabilmente a qualcun altro, è ridotta in schiavitú. E uno schiavo non è piú persona ma instrumentum vocale, cosa, oggetto, utensile, benché dotato di parola. A disposizione di qualcun altro. Una vita indisponibile è infatti introvabile, se non ne disponi tu ne dispone qualcun altro. Su questa terra non sussiste volontà che non sia umana, ed è sempre un uomo colui che pretende di parlare in nome della Volontà in cielo. Il verbo appartenere non rende però appieno la realtà della vita umana, ha qualcosa della metafora. La vita umana, abbiamo visto, è per definizione la

tua vita, la mia vita, la vita di un io con cui fai corpo unico, da cui sei indistinguibile. Non c’è un io il quale poi possiede la sua vita come proprietà. La tua vita è per te molto di piú che una tua proprietà, è consustanziale a te. Sei tu. Un essere-tu che è molto piú che essere tuo. Il tuo corpo può appartenerti o meno, in un certo senso. Ti appartiene come futuro cadavere, puoi infatti destinare i tuoi organi a un trapianto, a un laboratorio scientifico, alla sepoltura in terra, alla cremazione e alla dispersione delle ceneri. Non ti appartiene pienamente come corpo vivo perché non puoi venderti in schiavitú e nemmeno (in molte legislazioni) trafficare per danaro un tuo organo. Ma non perché sulla tua vita tu abbia minori diritti che su una tua proprietà, bensí solo perché ne hai incomparabilmente e ontologicamente di piú. Assolutamente di piú. Poiché tu sei la tua vita: la tua vita, la tua sovranità e la sovranità sulla tua vita sono la stessa e identica cosa. Perciò, che la tua vita ti appartenga è una forma debole di esprimersi, inadeguata e ancora negativa. Dice che essa non può appartenere ad altri, certamente, ma a te è piú di un appartenere. Tu sei la tua vita e con ciò la sovranità sulla tua vita, senza di che cessi di essere persona, esistenza irripetibile. Diventi schiavo, o comunque replicante, o nel migliore dei casi suddito. Soppresso nella dignità eguale. Questa sovranità sulla tua vita, tutta la tua vita di adulto, che ovviamente contiene in sé come suo frammento (spesso cruciale, però) la tua sovranità sul tuo fine vita, è perciò inalienabile diritto umano, imprescrittibile diritto civile. Ne va, altrimenti, dell’eguale dignità, requisito minimo della democrazia.

5. L’inganno del «bene indisponibile». Chi oggi vuole appropriarsi della tua vita / sovranità non dirà (quasi) mai, nella discussione pubblica, che la tua vita non appartiene a te ma a Dio, allo Stato, alla Natura. Dirà, cripticamente, che la vita è un bene indisponibile. Cosa intende realmente e surrettiziamente questa formula civilistica? A chi in concreto consegna la disponibilità della tua vita l’astratta indisponibilità giuridica della vita? Bene indisponibile è nell’ordinamento italiano un concetto che attiene alle questioni patrimoniali regolate dal Codice civile. Si tratta di un bene

appartenente allo Stato (o un’articolazione di esso) «destinato a un pubblico servizio» (ai sensi dell’art. 826, comma 3, cod. civ.). Bene che non può quindi essere alienato. In altri termini, è indisponibile ad alienazione verso privati perché è solo lo Stato (o una delle sue articolazioni) ad averne la disponibilità. E a doverlo utilizzare per un uso pubblico. Basta leggere il significato della dizione per avere conferma che qualsiasi bene è sempre nella disponibilità di qualcuno. E che il «bene indisponibile» di cui all’articolo citato in realtà appartiene allo Stato che ne può disporre solo per un uso pubblico. Del resto anche un bene qualificato di res nullius (e non è questo il caso) è solo un bene su cui nessuno (privato o Stato) per il momento può accampare pretese patrimoniali e che dunque potrà essere occupato e appropriato da qualcuno, lo Stato o un privato, secondo le norme vigenti. Secondo molti giureconsulti la legge italiana dichiara, agli articoli 579 e 580 del Codice penale, che la vita è un bene indisponibile. Nei due articoli l’espressione in realtà è introvabile e l’ermeneutica che la solfeggia rischia costantemente, malgrado ogni buonafede, di spiaggiare in territorio azzeccagarbugli. Leggiamo i due articoli. Articolo 579 Codice penale (R. D. 19 ottobre 1930, n. 1398), Omicidio del consenziente: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni». Articolo 580 Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398), Istigazione o aiuto al suicidio: «Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima». I due articoli non ci dicono affatto che la vita è un «bene indisponibile». Affermano anzi che, limitatamente alla decisione di farsi uccidere da un altro, o semplicemente di essere agevolato da un altro nel suicidio, la disponibilità sulla propria vita è stata sottratta a chi la vive e alienata a qualcun altro: il Parlamento (fascista) del 19 ottobre 1930, e per omissione (mancata abrogazione) i Parlamenti repubblicani che fin qui si sono susseguiti. Lo Stato totalitario si appropria della disponibilità di quella vita (e quello democratico persevera, diabolicum) al punto di punire col carcere, rispettivamente fino a quindici e a dodici anni, chi non ottemperi alla volontà

dello Stato su quella vita, ma obbedisca alla volontà della persona che quella vita vive. La vita continua ad essere nella disponibilità di qualcuno, perciò, del resto una vita veramente indisponibile, indisponibile a chicchessia, è astrazione perfino impensabile, un chi / qualcosa che svanisce nel nulla. Come può esserci vita umana senza che qualcuno ne disponga? Prova a pensarla, se ci riesci: una vita umana senza soggetto che decida, per atti o omissioni. Impossibile. In realtà cambia solo il chi della disponibilità. In questo caso il Potere, lo Stato (o la «comunità organica»). Che rifiutando il diritto di disporre sulla propria vita a chi la propria vita la vive, presuppone e impone un diritto pregiudiziale e superiore della collettività sulla vita stessa dei cittadini. In questo modo tracolla ogni diritto individuale inalienabile, svanisce l’intera costellazione dei diritti umani e civili. La democrazia si perde nel tribalismo, precipita nella statolatria, collassa nel totalitarismo. Nessun diritto individuale può restare inalienabile, se lo Stato, il Potere (fosse anche quello di una schiacciante maggioranza) può togliere al cittadino la disponibilità su ciò che contiene ogni sua altra disponibilità, la vita. Che è sempre tutta la sua vita, fine vita compreso. Se lo Stato si arroga il potere di sottrarti la decisione sul tuo fine vita potrà domani, con la stessa logica, sottrarti la libertà sulla tua vita religiosa (o irreligiosa), sulla tua vita sessuale, e su ogni altro aspetto: perché la volontà della comunità viene prima della tua e può coartarla. Dovrebbe essere ovvio, ma l’ipocrisia dominante, clericale o statolatrica, costringe invece a ribadirlo instancabilmente: la tua vita, l’intera tua vita, fine vita compreso, fa tutt’uno con il tuo essere. È indistinguibile e indisgiungibile dal tuo essere. Tu sei la tua vita, sei la tua esistenza, non c’è nulla di piú sovrano e intangibile, di piú assolutamente tuo di questo tuo essere. Indisponibile a chiunque altro (fosse anche la maggioranza piú schiacciante) perché totalmente disponibile a te.

6. Non c’è Natura che tenga. Stringendo: la tua vita è inalienabile proprio nel senso che nessun altro può averne la disponibilità se non tu. Se questa disponibilità non «appartiene» a te, appartiene a qualcun altro, individuo o collettività che sia,

sempre Homo sapiens come te, finitezza e cenere. Da dove gli potrebbe mai venire, però, una volta che siamo stabiliti eguali in dignità e libertà, questo delirante e mostruoso potere? Poiché una risposta non c’è, si ricorre all’escamotage. Si tira in ballo la Natura. La vita sarebbe un bene indisponibile nel senso che si dovrebbe – tutti, dunque egualmente, in piena ottemperanza democratica – affidare la propria vita, e la fine della propria vita, alla Natura. Scappatoia dove il risibile e l’indecente sgomitano per la pole position, però. Da quando il primo Homo sapiens ha usato la prima erba per curare una ferità, un dolore, un’anomalia del proprio stato fisico, la vita di quella specie peculiare di scimmia cui tutti apparteniamo ha smesso di essere in appalto alla Natura. Si può anzi dire che la nascita di Homo sapiens per evoluzione fa tutt’uno con l’addomesticamento della Natura, l’assoggettamento della Natura, la sussunzione della Natura nelle culture (al punto che la nostra, oggi, la sta distruggendo). Fino al moderno riconoscimento che questa maiuscola non ha senso, costituisce residuo del nostro imprinting animistico. Valga il vero. Partorirai con dolore 2 era solo un aspetto, perfino il meno feroce, della maledizione biblica. Una donna che partoriva rischiava di morire. Ancora in tempi recentissimi, poco piú di un secolo e mezzo fa, era il 1847, il dottor Ignác Semmelweis nota che, all’ospedale di Vienna, in un padiglione di ostetricia la mortalità post partum della donna per febbre puerperale è dell’11%. La sua proposta, che i medici e gli studenti si disinfettino le mani con cloruro di calcio prima di avvicinare le neomadri, viene accolta con indignazione, benché avendola sperimentata lui stesso nel suo reparto avesse fatto crollare la mortalità all’1%. I colleghi riusciranno a farlo cacciare due volte. Finirà in manicomio, fino alla morte. Ci volle Pasteur, con i suoi studi sulle infezioni da batteri, perché quasi mezzo secolo dopo la prassi proposta dal «pazzo» Semmelweis venisse accettata. Oggi le misure antisettiche sono la routine, il medico che le trascurasse sarebbe considerato un criminale. Alla stessa epoca, del resto, di chirurgia si moriva come mosche, per le infezioni e per il dolore atroce – non esisteva l’anestesia – che costringeva a operare col massimo di rapidità. Mani e bisturi diffondevano nelle piaghe germi micidiali di cui non si sospettava l’esistenza o non si conosceva il meccanismo. Ci vorranno Louis Pasteur e Robert Koch, e poi William Morton e Joseph Priestley e James Simpson per gli anestetici, e la

sterilizzazione a vapore degli strumenti medici di Ernst von Bergmann e l’autoclave di Louis-Félix Terrier, e William Stewart Halsted con l’uso dei guanti di gomma durante gli interventi chirurgici… Ogni progresso medico è contro Natura, la contrasta, rifiuta la sovranità della Natura, studia le sue leggi proprio per sottometterla alle nostre volontà. Cosí dalla prima erba officinale e dalla prima amigdala scheggiata. L’andamento è ormai diventato esponenziale. La vita e la morte di Homo sapiens hanno sempre meno a che vedere con la Natura (con i processi patologici naturali, per essere esatti, anch’essi spesso propiziati e diffusi dall’uomo, si pensi alle epidemie tra i «selvaggi»). Oggi si può tenere in vita un feto, che può essere fatto passare per neonato, per giorni e anche settimane, benché con patologie gravissime che non gli consentiranno alcuna chance di sopravvivenza, e si può tenere «in vita» ad libitum o quasi un corpo della nostra specie ma non piú umano, perché dalle funzioni cerebrali definitivamente e irreversibilmente collassate nel loro insieme. Non c’è dunque Natura che tenga, proprio perché La Natura non esiste, è un’ipostasi, non possiede volontà, è la personificazione animistica degli infiniti processi naturali che l’uomo riesce ogni giorno a signoreggiare di piú. Per quanto attiene al fine vita, poi, «lasciar fare alla natura» è un puro inganno, perché alla lettera irrealizzabile. Non solo Homo sapiens compie qualcosa rispetto alla vita e alla morte da quando per evoluzione ha iniziato la propria avventura, ma per ogni individuo, dal primo vagito (ormai anche prima) e fino all’ultimo segnale cerebrale, c’è sempre qualcuno che omette o fa qualcosa che allunga o accorcia la vita. La vita umana è sempre e ontologicamente vita che l’uomo manipola, di cui per il possibile dispone, di cui qualcuno dispone. Oggi piú che mai, domani ulteriormente.

7. Vita-e-libertà. Non si scampa: affermare che la vita è indisponibile perché nelle mani della Natura è menzogna dall’inizio alla fine. La prepotenza di chi vuole imporre anche a te la sua scelta di fine vita non si scoraggia per cosí poco, però. Se non può invocare la Natura, brandirà un’altra mistificata e mistica ipostasi: La Vita in persona. Provando a oscurare quanto già assodato: che la vita umana è tale perché sempre e solo, concretamente e irriducibilmente,

singolare. Irripetibile. Di qualcuno. Andiamo alle fonti. Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Filadelfia 4 luglio 1776: «Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità» 3. Qui si afferma solennemente che la vita è un diritto che nessun altro può toglierti, fosse anche una schiacciante maggioranza parlamentare. Ma una maggioranza che decidesse cosa tu devi fare della tua vita, dalla maggiore età fino alla morte, ti sottrarrebbe proprio questo diritto anziché rispettarlo come inalienabile. Non è un caso, infatti, che il diritto alla vita sia immediatamente seguito, quasi a sua specificazione e implementazione, dal diritto inalienabile alla libertà. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, Parigi 26 agosto 1789. Lo scopo dichiarato è «il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti. Di conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara […] i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino: Art. 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. Art. 2: Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione […] Art. 4: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri». Qui la vita non è neppure citata, perché fa tutt’uno con la libertà, senza la quale sarebbe schiavitú. Mentre è specificato con precisione quale sia l’ambito della libertà: tutto ciò che non nuoce ad altri. La Costituzione francese del 3 settembre 1791 e la Dichiarazione del 24 giugno 1793 sono sulla questione assolutamente identiche. Infine la Costituzione italiana. «Art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Art. 13: La libertà personale è inviolabile». Non si aggiunge altro. Anche nella Carta italiana verranno specificati in successivi articoli i diversi diritti, mai il diritto alla vita. Non perché essa possa essere ipotizzata alla mercé di altri, beninteso, ma proprio perché la vita implica l’insieme delle scelte che ciascuno compie. Insomma, nelle Costituzioni democratiche sarebbe piú esatto parlare di un diritto inalienabile alla vita-e-libertà. Il cittadino cui non sia riconosciuta libertà vede alienarsi con ciò la sua vita nella disponibilità di altri, taillable et

corvéable à merci. Il diritto alla vita e alla libertà costituisce in democrazia (quale che ne sia l’approssimazione) una endiadi. Diritto alla vita è diritto di farne ciò che voglio, purché non tolga eguale diritto all’altro. Ogni di piú, o di meno, toglie libertà, dunque eguale dignità. Ma piú in generale vita umana, visto che la libertà può essere apprezzata piú della vita: «Libertà va cercando ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta», padre Dante, Purgatorio 1, 71. Il diritto alla Vita, maiuscola e anonima, non può perciò conculcare il tuo diritto sulla tua vita, la vita con la minuscola, la vita mortale, l’esistenza per definizione finita, l’unica reale però, il solo tutto che potrai concretamente esperire, che immancabilmente e inevitabilmente è per ciascuno il suo. Nessuno può vivere al posto tuo la tua stessa vita, nessuno può morire al posto tuo la tua morte. La Vita non può diventare il carnefice delle vite. Se la mia vita è un diritto, inalienabile, per cui nessuno può considerare la mia vita nella sua disponibilità, la mia vita non mi può essere imposta contro la mia volontà. Contro la mia libertà. La mia vita è un diritto, ma esattamente per questo il diritto alla vita non può essere capovolto nel suo opposto, la condanna alla vita, che in condizioni vissute da chi la vive come tortura è certamente peggio della «condanna a vita», sinonimo di ergastolo. Ci torneremo. Facciamo il punto. Natura e Vita, in una loro presupposta e fatale sovranità sovrumana, sono alibi, come del resto ogni ipostasi, per fingere che su questa terra sussistano altre volontà che non siano umane, diverse da quelle di altri Homo sapiens limitati e mortali come noi. Ma dietro ogni ipostasi c’è sempre l’agire o l’omettere di qualcuno, il potere reale e concreto di qualcuno, abbiamo visto. Perciò sulla tua vita, in ogni suo momento, fine vita compreso, hai potere tu o ha potere qualcun altro. Invocare l’astrazione piú maiuscola, per rivestirla di sacralità, occulta sempre la concreta realtà di poteri empiricamente rilevabili. In fatto di fine vita abbiamo dunque a che fare solo con scelte di esseri umani in eventuale conflitto fra loro. Di potere contro potere, volontà contro volontà, libertà contro prevaricazione. È infatti libertà la tua decisione sul tuo fine vita, è prevaricazione la mia pretesa di imporre sul tuo fine vita la mia decisione. Che ciascuno decida sul proprio fine vita: con ciò, e solo con ciò, nessuno pregiudica la stessa libertà nell’altro. L’assoluta sovranità sul mio fine vita è consustanziale al mio essere persona eguale in dignità ad ogni altra. Simul stabunt, simul cadent.

8. L’improponibile argomento-Dio. A meno che non si introduca un deus ex machina, cioè che non si tiri in ballo Dio, Dio in Persona, Dio come presenza reale, effettivamente esistente, volente, operante. Dio, ecco il Sovrano che non si ha il coraggio di nominare, di fronte alla cui Maestà la nostra finita libertà deve prostrarsi. Dio onnipotente, creatore e signore del cielo e della terra, Allah al-Malik (il Sovrano) al-Khāliq (il Creatore) al-Jabbār (Colui che costringe al Suo volere), o comunque lo si preferisca chiamare o non nominare (YHVH ). Di fronte alla cui sovrana volontà ogni volontà e sovranità umana deve cedere il passo, viene meno, risulta doverosamente annichilita. Dio non viene citato perché non può essere citato, a meno di non auspicare che l’umana convivenza si realizzi nella forma e nel reggimento di una teocrazia. La presunta volontà di Dio non può essere di questo mondo, costituirne il nomos, se si tiene ferma l’adesione alla democrazia. Non a caso teologi e bioeticisti cattolici si affrettano a evidenziare e ribadire a iosa come le regole stabilite dal loro Dio per quanto attiene vita, sesso e morte, siano decifrabili e deducibili anche in modo puramente umano, secondo ragione retta (in cauda venenum, vedremo). Solo gli islamici dichiarati e fondamentalisti professi hanno oggi l’impudente coerenza di farlo, poiché esplicita e militante è la loro volontà di asservire l’umanità intera alla sharia, nella umma teocratica estesa ai confini del mondo. Dio però non viene messo in campo anche perché la circostanza, come noto, non risolverebbe il problema. Quale Dio? Chi è legittimato a parlare in Suo nome (poiché Dio non parla)? Se sulla sua esistenza vi fosse accordo, e unanime il senso che si assegna a quel nome e alla Sua Volontà, il problema di cui discutiamo sarebbe certamente risolto, ma solo perché nessun problema resterebbe in piedi. Vivremmo tutti (felicemente?) nel cosmo rotondo della Verità Una, che tutto abbraccia e a cui obbedire è l’unica libertà consentita. Piú prosaicamente, invece, e piú umanamente, viviamo in società dove diverse sono le fedi, e i surrogati delle fedi, e le critiche alle fedi, e le negazioni delle fedi. E dove questa lacerante frammentazione, incubatrice di guerra civile, è stata neutralizzata solo e perché e quando e finché saturata di

secolarizzazione. Lasciare spazio pubblico a Dio significa offrire di nuovo combustibile politico al conflitto teologico, poiché ciascuno ha il suo Dio (o la sua interpretazione del medesimo Dio). Il richiamo teocratico porta con sé quello di guerra di religione e di un’ordalia inesauribile tra gli umani per affermarsi come Vox Dei e Sua volontà. L’Europa ha vissuto questo orrore, con cui stava autodistruggendosi, fino a meno di quattro secoli fa, e oggi lo stesso spettro si aggira frammentato e diffuso a ogni latitudine dell’orbe terracqueo. Sventarlo, anziché propiziarlo, è semmai l’imperativo odierno di sopravvivenza dell’umanità. Assumendo la democrazia, perciò, e anzi quel suo presupposto minimo e condizione di possibilità costituito dall’eguale dignità e libertà di ciascuno, a nessuno è lecito usare Dio e la sua ipotetica volontà nella sfera pubblica di dia-logos per statuire la legge, visto che essa dovrà valere erga omnes, non credenti e diversamente credenti. Consentirlo significherebbe ridurre atei e agnostici alla cattività di una cittadinanza amputata, sottomessa, negata. In una convivenza che si vuole democratica, perciò, nessuno può invocare il nome di Dio, che è sempre invano. Di nessun Dio. Di modo che. La vita appartiene a Dio, dici? Sia pure. Fai pure. Se vuoi che la tua vita appartenga al tuo Dio, liberissimo. Non pretendere di imporre il tuo Dio agli altri, però, non osare in nessun modo, comunque dissimulato, mimetizzato, contrabbandato, imbellettato. Perché quando affermi che la tua vita appartiene al tuo Dio (e mai che la «vita appartiene a Dio», ognuno ha il suo) sei sempre tu che decidi della tua vita, non Lui. La volontà di Dio si esprime sempre per bocca di un uomo, è sempre e solo la volontà di un uomo, non piú Sapiens di te e di me, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère. Dire che la volontà, la sovranità, la decisione appartiene a Dio significa solo dire che appartiene a chiunque riesca a imporre il suo Dio e a imporsi come suo autorizzato ermeneuta.

9. Sillogismo ricapitolativo. Ricapitoliamo, allora, quasi sillogisticamente. La morte è la conclusione della vita, il fine vita è parte della vita, la decisione sulla morte è parte delle decisioni sulla vita. La vita come bios non è la stessa cosa della vita umana, anzi (gli

antibiotici!) La vita umana è sempre la vita di qualcuno, è sempre singolare, con nome e cognome (l’esistenza è irripetibile). La mia vita se non appartiene a me (è nella mia disponibilità) appartiene a (è nella disponibilità di) qualcun altro, Homo sapiens come me. Esattamente la definizione di schiavitú. Ma lo schiavo non è persona bensí instrumentum vocale. La vita umana, per definizione tua, mia, è piú di una proprietà, è l’io, con cui fa corpo indisgiungibile. Non è alienabile, perché tutt’uno con la tua esistenza, su di sé sovrana. La Vita e la Natura sono ipostasi che occultano la realtà effettiva: esistono solo concreti processi naturali (sempre piú controllabili dall’uomo) e concrete singolari vite umane (al plurale). Vita e Natura sono surrogati di Dio per nascondere il potere di qualcuno. L’argomento-Dio non può aver luogo nel dia-logos fra cittadini per stabilire una legge. Ergo: il mio diritto alla vita è diritto di farne ciò che voglio (fine vita compreso), purché non sopprima eguale diritto dell’altro. Ogni di piú, o di meno, toglie libertà, dunque vita umana. Il diritto inalienabile alla vita è piú esattamente il diritto di ciascuna alla vita-e-libertà. Il diritto alla vita non può essere la condanna a vita, se per me il vivere è diventato tortura. Stringiamo la silloge in una frase: sul mio fine vita ho titolo a decidere solo io, sul tuo solo tu, ciascuno sul proprio. Sovranamente. Q.E.D. 1. Epicuro, Lettera sulla felicità, Einaudi, Torino 2012, p. 5. 2. «Disse poi alla donna: “Moltiplicherò i tuoi travagli e le doglie delle tue gravidanze, nella sofferenza partorirai figliuoli; verso tuo marito ti spingerà il tuo desiderio ed egli dominerà su di te”», Genesi 3,16, in La Bibbia concordata, Mondadori, Milano 1968. 3. Non ingannino qui le maiuscole, che costituiscono solo il correlato ortografico della sovranità inalienabile dell’individuo rispetto a vita, libertà e perseguimento della felicità.

Capitolo secondo Esistenzialmente

1. Esecuzioni, torture, feste. L’argomentazione razionale ci ha portati a questo punto: il diritto sul tuo fine vita è un diritto inalienabile, da garantire in Costituzione, sottraendolo a qualsiasi decisione di maggioranza, perché diversamente alcuni possono decidere il loro fine vita, altri no, e i primi anzi imporre il loro ai secondi, non si capisce con quale superiorità sovraumana, essendo tutti eguali e trattandosi di diritto che non lede analogo diritto dell’altro. Stabiliamo comunque – concessione supererogatoria – di accantonare fra parentesi l’assunto fin qui dimostrato del diritto all’eutanasia come inalienabile diritto civile, di rango costituzionale, e ricominciamo da zero, su altri presupposti, partendo da altre circostanze. Per millenni le civiltà hanno considerato ovvia e persino doverosa non solo l’istituzione della pena di morte, ma la cerimonia di una esecuzione capitale preceduta e accompagnata da tortura. Feroce. Prolungata. Elaborata con mostruosa inventiva. Non solo. L’intero svolgimento era anche spettacolo, irrinunciabile tripudio popolare, evento mondano, festa grande, insomma. Ricordiamo un solo caso. 5 gennaio 1757, nella civilissima Francia dei Lumi, una manciata d’anni prima della distruzione della Bastiglia, Luigi XV le Bien-Aimé viene ferito superficialmente da Robert-François Damiens. Che sarà incriminato per «lese-majesté divine&humaine». Condannato ovviamente alla pena capitale, la tortura precedente l’esecuzione viene studiata perché non rischi di morirci e anzi non perda i sensi, i medici e chirurghi si pronunciano per i brodequins, assi parallele che serrate, con l’introduzione successiva di cunei, stritolano in frantumi caviglie e tibie. Il 28 marzo alle otto del mattino si comincia, otto cunei, poi basta per paura che muoia. Segue l’esecuzione vera e propria. Traduciamo dal verbale ufficiale 1. «Condotto a Place de Grève, attese a lungo accanto al patibolo perché il boia non aveva avuto cura di tener pronto tutto ciò che doveva servire al supplizio e per questo sarà punito con parecchi giorni di prigione. Verso le

cinque venne posto sul patibolo […] il corpo immobilizzato da cerchi di ferro sotto le braccia e sopra le cosce. Il primo supplizio che subí fu d’avere la mano destra bruciata con un fuoco di zolfo. Il dolore gli fece gettare un grido orribile che si poté udire fino a grande distanza. A questo primo supplizio seguí l’attanagliamento [con ferri roventi] alle braccia, alle cosce, alle mammelle. Ad ogni attanagliamento lo si sentiva urlare nello stesso modo. Su ogni piaga, a eccezione delle mammelle, si gettò olio bollente, piombo fuso e pece incandescente, producendo in tutte queste circostanze lo stesso effetto dei due primi supplizi. Infine si procedette alla legatura di braccia gambe e cosce per procedere allo squartamento. Questa preparazione fu molto lunga e molto dolorosa perché le corde, strettamente legate, poggiavano sulle piaghe recenti, il che strappò nuove urla al paziente. Una volta attaccati i cavalli, gli strappi furono reiterati a lungo con grida terribili da parte del paziente; l’allungamento delle membra fu incredibile, tuttavia niente annunciava lo smembramento. Malgrado gli sforzi dei cavalli, che erano giovani e vigorosi (forse troppo) quest’ultimo supplizio durava da piú di un’ora senza che si potesse prevederne la fine. I medici e chirurghi attestarono ai signori commissari che era quasi impossibile realizzare lo smembramento se non si facilitava l’azione dei cavalli tagliando i nervi principali che potevano allungarsi prodigiosamente ma non rompersi senza un’amputazione. Su questa testimonianza i signori commissari fecero dare ordine all’esecutore di fare questa amputazione, tanto piú che si avvicinava la notte e che sembrava loro opportuno che il supplizio finisse prima. In conseguenza di quest’ordine, furono tagliati i nervi del paziente alle giunture delle braccia e delle cosce. I cavalli furono spinti a tirare e dopo parecchie scosse si videro staccarsi un braccio e una coscia… fu solo quando fu strappato l’ultimo braccio che spirò». Il tutto era durato un’intera giornata. La tortura con brodequins, tenaglie roventi e altri marchingegni di sofferenza indicibile è prologo e accompagnamento ordinario (vi scampa, eccezionalmente, qualche privilegiato). Feste vere e proprie, popolari e mondane, abbiamo detto. A quella appena descritta assiste Casanova, che nella sua autobiografia ricorda come il 28 marzo «sono andato di buon’ora a prendere le signore che facevano colazione dalla signora Lambertini con il mio amico Tireta, e le ho portate a Place de Grève tenendo Mlle de La M-re 2 seduta sulle mie ginocchia. Si misero molto

accostate sul davanzale della finestra, piegate sui gomiti per non impedirci la visuale […] avemmo la costanza di restare quattro ore intere a questo orribile spettacolo […] ho dovuto distogliere lo sguardo quando l’ho sentito urlare, col corpo ormai ridotto a metà», le signore invece non battono ciglio e Tireta «per tutto il tempo dell’esecuzione tenne Mme xxx [donna assai devota, è la zia di Mlle de La M-re] singolarmente occupata» seguono eleganti dettagli sulle peripezie degli abiti «sollevati un po’ troppo», poi «alla fine della funzione [in italiano nel testo]» Casanova dice al suo amico che «Mme xxx è arrabbiata» ma Tireta ha buon gioco a replicare che finge, «ha accettato tranquillamente per due ore di seguito, non posso credere null’altro se non che le faceva piacere» 3.

2. Pena di morte, mai piú «crudele e inusitata». La tortura, questo contava ancor piú della morte. Da Place de Grève spostiamoci a una delle Cronache italiane, La badessa di Castro, dove Pierre Beyle, console francese a Civitavecchia, piú noto come Stendhal, riporta: «la sentenza che condannava Branciforte a essere attanagliato per due ore con ferri incandescenti in tutti i principali incroci di Roma, a essere poi bruciato a fuoco lento […] gli affreschi del chiostro di Santa Maria Novella a Firenze mostrano ancora come venivano eseguite queste crudeli sentenze […] In generale, era necessario un gran numero di guardie per impedire al popolo indignato di sostituirsi ai carnefici» 4, e in Vittoria Accoramboni un’altra esecuzione: «il capitano Splendiano e il conte Paganello furono condotti attraverso piazza e leggermente attanagliati; arrivati al luogo del supplizio furono presi a mazzate, ebbero la testa fracassata, e furono squartati mentre erano ancora pressoché vivi […] il conte Paganello, prima di ricevere il colpo mortale, fu trafitto piú volte con un coltello sotto il seno sinistro […] dal petto versava come un fiume di sangue. Rimase in vita cosí piú di mezz’ora, con grande stupore di tutti» 5. Ricordiamo infine un grande filosofo italiano, Giulio Cesare Vanini, cui, essendo eretico (in realtà ateo), il 9 febbraio 1619 a Tolosa viene prima strappata la lingua, con la quale aveva pronunciato le sue «bestemmie», tanto per contrappasso (taglione teologico, insomma), segue rogo. Non abbiamo riportato le esecuzioni piú raccapriccianti. Gli annali dei

patiboli escogitati nei secoli da Homo sapiens raccontano mostruosità piú raffinate e insostenibili da leggere. Che non bastasse la morte, ma piú irrinunciabile ancora fosse la tortura, è dimostrato dalle durissime sanzioni in cui incorrevano parenti e amici che cercassero di far pervenire al condannato un modo per morire rapidamente (in genere del veleno). In alcune legislazioni fino a una vera e propria legge del taglione: prima di essere uccisi subivano essi stessi la tortura cui avevano fatto sfuggire il congiunto. Tutto ciò ci fa orrore. Per fortuna. Oggi, almeno ufficialmente e istituzionalmente, giudichiamo quelle «feste» pura barbarie. Anche nei Paesi in cui vige la pena capitale, la condanna non può essere eseguita con procedure crudeli e inusitate, per riprendere l’espressione dell’ottavo emendamento alla Costituzione americana adottato già nel 1791. Del resto due anni prima la Rivoluzione francese, il 9 ottobre 1789, aveva posto all’ordine del giorno la necessità che la pena di morte avvenisse con modalità eguale per tutti e senza sofferenza, e il 25 aprile 1792 verrà giustiziato mediante ghigliottina Nicolas Pellettier, ladro e omicida. Con delusione della folla assembrata, sembra, visto che lo «spettacolo» si risolve in pochi secondi. Oggi procedure crudelissime tornano in auge, per tutte la lapidazione in numerosi Paesi islamici, ma l’ipocrisia occidentale, che con quei governi fa intanto affari d’oro, è costretta comunque a ribadire l’orrore e il raccapriccio per tali pratiche. L’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtú, come noto e immortalato da François de La Rochefoucauld. Teniamola stretta, in questo caso. Per il momento, e per fortuna, l’inciviltà delle legislazioni che in Occidente vogliono la pena di morte continua a considerare un abominio l’eventualità che essa avvenga non solo preceduta da tortura ma con procedure crudeli e inusitate. Resta insomma unanime il riconoscimento che la morte non è il peggiore dei mali. Lo hanno sempre saputo i suppliziati e i carnefici, il potere che non si accontentava della morte ma esigeva la sofferenza, i sudditi e il «bel mondo» che a tali spettacoli non voleva rinunciare, da ogni Colosseo a ogni Place de Gréve. La lancinante agonia della crocifissione, supplizio per schiavi e nemici, arrivava a protrarsi per giorni, ma un soldato pietoso poteva abbreviarla spezzando le gambe al moribondo («Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro [ladrone] che era stato crocifisso insieme con lui», Gv 19,33), o addirittura colpendolo al cuore con una lancia. Il

torturato invoca la morte come una liberazione. Dalle rivoluzioni americana e francese il cittadino e il potere riconoscono e assumono che la condanna a morte debba essere «umana», senza tortura, neppure soft. Anche per il peggiore criminale.

3. Crimini orrendi. Anche per Theodor Robert Bundy che prima di finire sulla sedia elettrica ha confessato una trentina di omicidi, ma erano forse il doppio, giovani donne rapite e violentate, in molti casi le violentava di nuovo già cadaveri. Anche per John Wayne Gacy, il «clown killer», giustiziato nel 1994, amabile nelle feste di vicinato col suo costume da pagliaccio «Pogo», marito esemplare, attivista del partito democratico, intanto rapiva e torturava e sodomizzava e uccideva ragazzi adolescenti o giovani adulti. Anche per Earle Nelson, un killer pio, leggeva la bibbia alle sue vittime, donne sole, spesso le sue affittacamere, le strangolava con forza inaudita (per la stampa il Killer Gorilla, perciò) e poi violentava i cadaveri, l’ultima vittima aveva quattordici anni, in un solo anno ne aveva uccise venticinque, finisce impiccato nel carcere di Winnipeg il 13 gennaio 1928. Anche per quanti sfuggono una condanna a morte, ovviamente, per Charles Manson che diresse lo sventramento di Sharon Tate, ventisei anni, incinta di otto mesi, e quattro suoi amici, e il giorno dopo l’omicidio di Reno e Rosemary LaBianca, quaranta colpi di forchetta alla testa e un forchettone nel ventre. E per Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, ragazzi ricchi e fascisti, che per oltre un giorno e una notte violentano e massacrano di botte Rosaria Lopez (diciannove anni, barista) e Donatella Colasanti (diciassette anni, studentessa), che hanno rifiutato le loro avances, le drogano e violentano e picchiano ancora, annegano Rosaria nella vasca da bagno, colpiscono Donatella con una sbarra di ferro, credono di averla uccisa, le caricano nel bagagliaio e se ne vanno a cena. Donatella si salva perché riesce a far sentire le sue grida a un metronotte. Ghira, fuggiasco, non farà un solo giorno di carcere, Izzo, cinquantenne, ottenuta la semilibertà uccide due donne e finisce all’ergastolo, Guido dopo quattordici anni di carcere e uno di servizi sociali è libero e giocondo. Giustamente, civilmente, anche per i criminali piú efferati, che magari

continuano a vantarsi dei delitti commessi, le legislazioni che prevedono la morte vietano la tortura. Giustamente, umanamente, amico lettore, da due secoli e mezzo, siamo progressivamente diventati orgogliosi di esecrare l’idea che la tortura possa essere una pena tollerabile per una coscienza civile. La sofferenza è ingiustificabile, anche qualora il reo sia il piú abietto, disumano, mostruoso. La morte sí, eventualmente. La tortura che la precede e accompagna mai, ci squalifica come esseri umani. Siamo tutti d’accordo, amico lettore, mon semblable, mon frère? Siamo davvero d’accordo?

4. Condannati a morte innocenti, con tortura. Vincent Hubert non ha assassinato nessuno. Ha ventuno anni quando il 24 settembre del 2000 è coinvolto in un incidente d’auto. Resta in coma nove mesi. Ne esce cieco, muto, tetraplegico. «Attualmente sono all’ospedale Hélio-Marins a Bercks, nel Pas-de-Calais. Tutti i miei sensi sono stati colpiti, a parte l’udito e l’intelligenza, il che mi permette d’avere un po’ di assistenza. Posso muovere appena la mano destra e fare pressione con il pollice su una lettera dell’alfabeto alla volta. Queste lettere formano delle parole e queste parole delle frasi. È il solo modo che ho per comunicare. Al mio fianco c’è un’animatrice che mi scandisce l’alfabeto separando consonanti da vocali. Usando questo sistema ho deciso di scriverle». Si sta rivolgendo al Presidente Jacques Chirac. «Lei ha il diritto di grazia, io le domando il diritto di morire» 6. Non gli viene concesso. Per la Francia che ha umanizzato la condanna a morte con la ghigliottina la tortura di Vincent deve continuare, inesorabilmente, per anni. A Vincent resta l’amore di sua madre. Il 21 settembre Marie Hubert dichiara pubblicamente che aiuterà il figlio nella decisione di porre fine al proprio supplizio. Tre giorni dopo obbedisce alla sua richiesta di iniettargli una dose massiccia di pentobarbital sodium. Un’infermiera se ne accorge prima che la morte sia sopravvenuta e Vincent in coma irreversibile è trasferito nel reparto rianimazione. Il 26 settembre, d’accordo con la famiglia, il primario dottor Frédéric Chaussoy interrompe ogni sforzo e gli inietta del cloruro di potassio, con conseguente decesso. Il giorno dopo Marie Humbert viene incriminata per «somministrazione premeditata di sostanze tossiche su persona vulnerabile» (rischia cinque anni)

e il dottor Chaussoy per «avvelenamento premeditato» (rischia l’ergastolo). Il 27 febbraio del 2007 un giudice d’istruzione coraggioso, Anne Morvant, ordina il «non luogo a procedere» per entrambi, invocando, malgrado la legge che li condannerebbe, uno «stato di necessità» indotto «dal contesto specialissimo e dalle pressioni familiari e mediatiche» 7. Ma forse ha ragione Lei, Karol Wojtyla, Sua Santità Giovanni Paolo II, «Santo subito!», ora San Karol a tutti gli effetti 8, perciò: ci stiamo abbandonando alla «malintesa pietà», alla «presunta pietà», alla «falsa pietà». Vincent Hubert, sua madre Marie, il dottor Chaussoy, Anne Morvant in realtà «guastano la civiltà umana», il loro comportamento si aggiunge alle «piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre», identico per gravità a chi diffonde «condizioni infraumane di vita, incarcerazioni arbitrarie, deportazioni, schiavitú, prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani», parole sue santo Giovanni Paolo II, diffuse urbi et orbi nella sua enciclica Evangelium vitae. Anche Dominique Velati non ha ucciso nessuno. Ha invece curato moltissimi malati. È infermiera. Ha cinquantanove anni. Ha lavorato a lungo in due piccoli ospedali a Borgomanero e Arona, per dedicarsi poi all’assistenza domiciliare. Racconta alle telecamere della trasmissione televisiva «Servizio Pubblico» 9: «I medici hanno scoperto un’occlusione al colon di destra e dopo le analisi hanno visto che era una metastasi. Poi abbiamo fatto una tac e abbiamo visto che c’è anche qualche metastasi al fegato. Ho fatto l’intervento e la risonanza magnetica. Niente da fare, metastasi dappertutto». Quanto le restava da vivere? «Con chemioterapia continua da uno a tre anni. Senza chemio da uno a tre mesi». Perché non provare una cura, perché non andare avanti qualche anno? «Pensare di prolungare la vita, con la certezza di non guarire, sapendo che comunque la malattia va avanti lo stesso… stare sempre peggio per arrivare che la chemio non fa piú effetto, o che io non la sopporto piú… no […] Sono contraria al dolore inutile. Per me questo era un dolore inutile. Cosí ho deciso per l’eutanasia». Ma non può farlo, perché «Santo subito!» ha tuonato contro gli Stati che «abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita» 10. Perciò: «Parto domattina […] Gli svizzeri possono morire anche a casa, cioè viene il medico. Noi invece dobbiamo fare tanti chilometri… e non puoi morire a casa tua […] Domani

[15 dicembre 2015] sono a Berna e comincio a pensare a me. Ma io non sono emozionata, per niente. Sono di una tranquillità e di una serenità… questa pace che ho dentro è favolosa […] Vorrei che vedendo la mia intervista a “Servizio Pubblico” la gente dicesse… Parliamone! Fate qualcosa anche voi, non pensate che siete in mano al nulla. La vostra vita vi appartiene, e quindi anche la morte. Perché averne paura?»

5. Ancora, condannati a morte innocenti, con tortura. George e Shirley non hanno ucciso nessuno e hanno avuto una bellissima vita d’amore. Si sono incontrati nel 1944, colpo di fulmine, sei giorni dopo erano fidanzati. Ora hanno novantacinque e novantaquattro anni, sono da tempo colpiti entrambi da malattie croniche incurabili, accompagnate da dolori che giudicano intollerabili, non vogliono piú soffrire e vogliono morire insieme, tenendosi per mano. Il 23 marzo 2018 potranno farlo, dopo settantatre anni d’amore. George e Shirley Brickenden vivono in Quebec, infatti, dove la volontà di Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger, Jorge Mario Bergoglio non è legge, dove è garantita l’assistenza medica a chi vuole porre fine alla «vita» quando è diventata tortura. Bevono un ultimo bicchiere insieme ai quattro figli, che hanno condiviso la loro decisione. Perché, amico Vincenzo, quella vita l’avresti voluta rovinare in un epilogo di sofferenza, di separazione, di solitudine, d’angoscia? Anche David Goodall non aveva commesso alcun crimine, nei suoi centoquattro anni di vita. Da alcuni mesi non la viveva piú come vita, però, ma come peso e sofferenza insensata. Aveva tentato il suicidio. Per riuscirci avrebbe avuto bisogno di aiuto. Avrebbe voluto morire a casa sua, voi non glielo permettete, Eminenze, e il governo australiano altrettanto. Volete tormentare una vita felice con un ultimo periodo di amarezza e disperazione. Perché? Lui rispetta il vostro diritto a decidere sul vostro fine vita, perché voi non rispettate il suo? Siete uomini superiori a lui, superuomini? In Svizzera l’associazione Eternal Spirit gli mette a disposizione un appartamento dove può morire attorniato fino all’ultimo istante dai nipoti e da un amico. Con loro intona L’inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven con i versi tedeschi di Schiller. Giovedí 10 marzo 2018 alle 12,30 può concludere una buona e lunghissima vita con una buona e serena morte.

Anche Damiana Saba non ha assassinato nessuno. Nel 2000 le viene diagnostica la sclerosi multipla. Ama la vita e i primi anni riesce a continuarla in modo quasi normale. Ma la malattia è degenerativa e nel 2012 Damiana decide che la sua non è piú vita. Impiegherà due anni per le pratiche necessarie all’eutanasia in Svizzera. Racconta tutto in una intervista a Radio Radicale, vista da milioni di persone 11. «Sono relegata a letto, ho dolori atroci alle gambe, le mie mani tremano. Non voglio aspettare di rimanere paralizzata del tutto. Questa non è vita. Ho cercato una via di scampo. Ho tentato il suicidio e purtroppo mi è andata male». Il giornalista le chiede se non basterebbe una maggiore assistenza, e la risposta è di fermissima serenità: «No, perché ciascuno ha la sua dignità personale, con vari gradi e sfumature, c’è chi accetta un’assistenza totale e chi non l’accetta, una come me che ha sempre fatto tutto da sola non l’accetta, preferisce farla finita, non puoi deglutire, non puoi andare in bagno […] poi non riuscirai a parlare, e poi quando ti prende al cervello che fai?» E alla domanda se non avrebbe preferito poter vivere questa sua scelta in Italia, risponde con uno squillante «accidenti! altroché!» e la speranza per chi vorrà farlo dopo di lei, «la possibilità di morire dolcemente a casa propria». San Karol Wojtyla avrebbe voluto invece costringerla ad altri anni di angoscia straziante, attimo dopo attimo, fino a quando la malattia «ti prende al cervello», a fin di bene, sia chiaro, per contrastare «un’atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza» 12. Susanna Zambruno Martignetti – nessun crimine – da venticinque anni «vive» nella sclerosi multipla. Ora non vuole piú. È il marzo del 2016, ha solo cinquantasei anni, «un’età nella quale si avrebbe ancora diritto di attendere la morte con stupore», come scrive il giornalista di «La Stampa» Andrea Malaguti, a cui Susanna vuole affidare il racconto delle sue ultime ore, perché le coscienze dei cittadini si scuotano contro la prepotenza di chi costringe persone come lei ad anni di sofferenza insopportabile. Facciamo parlare il suo racconto. «Dove trova la forza per andarsene in un giorno spettacolare come questo?, le avevamo chiesto poche ore prima, nella sua casa di Torino. “La trovo perché ho deciso”. Poi, dopo una lunga pausa aveva aggiunto: “L’Italia costringe chi è schiavo della malattia a scappare come un ladro se vuole farla finita. Da piú di un anno la vita mi fa orrore. L’ho fatta chiamare per offrire la

mia testimonianza estrema, anche se la politica capirà quello che dico solo tra vent’anni. Un anno fa ho cercato di suicidarmi con i farmaci. Mi hanno portato alle Molinette e lí mi hanno salvato. Un’infermiera mi ha detto: lo sa che siamo bravi. Ho capito che aveva ragione”. Cosí ha organizzato il piano B. Internet, la Svizzera, la buona morte. Tutto per conto suo. Suo marito Damiano, che sta con lei da trentasei anni, le ha detto: non lo fare. Suo figlio Davide, che ha venticinque anni e studia da grafico, le ha detto: mamma ti prego, no. Lei li ha guardati con tenerezza e ha risposto a entrambi: “Certo che lo faccio. Senza attendere che la malattia lo faccia per me, ma solo dopo avermi schiacciato dentro questo corpo che mi fa male”. La sclerosi l’ha attaccata poco prima che nascesse Davide, quando ancora sciava, giocava a tennis, andava in barca, guidava la moto. “Sono stati venticinque anni difficili. Ho guardato la mia esistenza senza poter partecipare. Come un’anziana. Mi sono indurita. E ora l’unica cosa che mi dispiace è lasciare del dolore. So che Damiano e Davide soffriranno. Ma questa è una cosa che faccio per me, non per loro. Credo che non ci sia nulla oltre la vita. E questo nulla un po’ mi dà fastidio. Ma non mi spaventa. Nessuna religione, d’altra parte, consente il suicidio, no?”» 13.

6. Altri condannati a morte innocenti, con tortura. Davvero dovremo aspettare fino al 2036? Quante altre signore Susanna dovranno andare in Svizzera, o peggio scegliere una forma di suicidio atroce, come Franco Lucentini che si è suicidato eludendo l’attenzione di moglie, amici e badante, buttandosi giú dalla tromba della scala, come Mario Monicelli, costretto a precipitare dal quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma o Carlo Lizzani, costretto a gettarsi dal terzo piano della sua casa romana in via dei Gracchi? Tre nomi noti, tra le centinaia che ogni anno in Italia sono costretti come loro. Per quanto ancora detterà legge la volontà del Pontefice che giudica «struttura di peccato» le loro scelte, perché «di questa vita Dio è l’unico signore: l’uomo non può disporne», creda o non creda nel Dio di Wojtyla, e impone a uno Stato succube «il riconoscimento di una legge morale obiettiva» 14, che guarda caso deve essere quella delle gerarchie vaticane (sulla cui morale ci asteniamo dall’infierire). Lecretia Anne Seales è un avvocato di Wellington, Nuova Zelanda, e

ormai sapete che anche lei non ha assassinato nessuno. Nel 2011, quando ha trentotto anni, le viene diagnosticato un tumore al cervello (oligoastrocitoma di grado 2), l’intervento chirurgico può rimuoverlo solo parzialmente. Nei tre anni successivi radioterapia e due cicli di chemio. Il tumore comunque avanza, non ci sono altre cure possibili. Lecretia si informa sul possibile decorso terminale: la morte può intervenire con un tracollo improvviso ma piú probabilmente con un progressivo e doloroso degenerare di tutte le sue facoltà sensoriali e mentali. Per evitare questa prospettiva che le fa orrore potrebbe suicidarsi subito, ma Lecretia vorrebbe vivere, vivere fino all’ultimo, purché sia lei stessa a decidere fino a quando le sue condizioni saranno umane, vita e non tortura. «Sono io la persona cui è stata inflitta questa malattia, non qualcun altro. È la mia vita che è stata stroncata. Perciò, chi altri se non io dovrebbe avere l’autorità di decidere se e quando la malattia e i suoi effetti diventano intollerabili al punto che preferisco morire? Non sto dicendo che sceglierò necessariamente di esercitarla, e neppure per un momento sto suggerendo che ad altri nella mia situazione dovrebbe essere chiesto di fare una tale scelta. Sto semplicemente dicendo che io, Lecretia Sales, essere umano posto di fronte alla ineludibile realtà della mia morte, e alla prospettiva di una grande sofferenza – per me e per coloro che mi amano – devo avere il diritto di stabilire il momento in cui il mio cammino è giunto alla fine. Questo diritto appartiene a me e a nessun altro» 15. Il 25 marzo 2015 tramite un suo avvocato chiede alla High Court of New Zealand di poter esercitare tale diritto senza conseguenze legali per il medico che l’assistesse. «Voglio con tutte le mie forze essere rispettata nel mio desiderio di non dover soffrire inutilmente nel fine vita. Voglio assolutamente poter dire addio serenamente». Lecretia muore il 5 giugno 2015, poche ore dopo che la sua richiesta era stata respinta. Senza bisogno di accompagnamento medico. Il suo Dio, o non-Dio, si dimostrò piú umano di quello di Sua Eminenza Sgreccia, che a suo dire condanna «l’eutanasia come fuga dal dolore e dalla agonia» 16, o quello di Sua Eminenza Tettamanzi, secondo cui «chi ricorre all’eutanasia non coglie nella malattia inguaribile o nella morte dolorosa una chiamata di Dio» 17. Perché, pietose Eminenze, volete togliere a tutte le Lecretia tempo di vita (questa sí umana, e da loro ancora riconosciuta come tale)? Riescono a volerla prolungare proprio e solo perché hanno la certezza

di poter scegliere il momento in cui dire basta. Se le violentate in questo diritto, non potranno che accorciare la loro vita, per evitare che collassi in tortura insopportabile. E sarete voi a togliere loro un pezzo di vita. Prendiamo Brittany Mainard, per esempio, anche lei non aveva ucciso nessuno. Nel gennaio 2014, quando ha ventinove anni, una laurea a Berkeley e poi un dottorato in psicologia e pedagogia, e ha insegnato negli orfanotrofi del Nepal, le viene diagnosticato un astrocitoma di grado 2, tumore cerebrale asportato con craniotomia parziale e parziale resezione del lobo temporale. Ma ad aprile il cancro si ripresenta, questa volta con grado 4 (glioblastoma) e una prognosi di sei mesi di vita. Li vivrà fino all’ultimo proprio perché sa che potrà essere lei a scegliere il momento in cui «enough is enough». Dalla California si trasferisce in Oregon, dove l’eutanasia è un diritto. «Io non voglio morire, ma sto morendo, e voglio farlo alle mie condizioni, con dignità […] Non voglio dire a nessuno di fare la mia stessa scelta ma la mia domanda è: chi ha il diritto di decidere per me, e decidere che merito di soffrire enormemente per settimane o per mesi?» Fa alcuni viaggi che desiderava moltissimo, utilizza le sue ultime giornate anche per aiutare i pazienti dell’associazione Compassion & Choices, pubblica video 18 in cui spiega la sua scelta, muore il 1 o novembre tra le braccia del marito Dan e i suoi cari. Guardi il video, Eminenza Tettamanzi, e poi provi ancora a dire senza vergogna che «non erano protagoniste d’una libera scelta» bensí «vittime d’una situazione che non sono riuscite a dominare», solo perché la loro scelta non si è piegata alla sua 19.

7. Condannate a soffrire “ad vitam aeternam”. Chantal Sébire ovviamente non ha ucciso nessuno. Nel 2000 le viene comunicata la condanna a morte per neuroblastoma olfattivo, una forma rarissima di tumore, duecento casi noti al mondo nei vent’anni precedenti. Un cancro che la sfigura orribilmente, la rende praticamente cieca, le procura dolori orribili e crescenti. Nel febbraio 2008 rivolge un appello pubblico al presidente Sarkozy 20, inascoltato, per avere il diritto di morire senza ulteriori sofferenze perché «a un animale non si consentirebbe di subire tutto quello che io ho sopportato». Anche la magistratura le nega una morte dolce a casa, tra i familiari (che appoggiano la sua scelta). Commenterà: «ora so che

otterrò da sola ciò di cui ho bisogno e se non sarà in Francia sarà altrove». Il 19 marzo 2008 viene trovata morta, l’autopsia chiarirà per una forte dose di pentobarbital, che nelle farmacie francesi non è in vendita. La sua morte porterà alla luce un caso precedente perfino piú terribile, quello di Coralie Fehlen-Le Menn (anche lei condannata a morte innocente). A rivelarlo è la madre, Silviane Le Menn. Che racconta: «all’inizio di marzo 2008, vedendo in televisione il viso sfigurato e doloroso di Chantal Sébire, si è ravvivato nella mia memoria il ricordo traumatizzante del viso della mia unica figlia, Coralie […] ho allora espresso su internet e nel mio ambiente la mia volontà di testimoniare pubblicamente l’eutanasia “fallita” di cui è morta all’età di vent’anni e dopo due anni e mezzo di malattia, colpita da un osteosarcoma maxillo-facciale raro e incurabile […] Coralie è morta di eutanasia “selvaggia” il 9 settembre 1993 […] e l’estremo del peggio è che l’eutanasia è “fallita” perché il medico non poteva disporre del “buon prodotto”. E visto che “non moriva”, come estrema risorsa è stato costretto a “finirla” strangolandola con le sue mani! Sono dunque già sedici anni che Coralie ha finito di soffrire, grazie a un’eutanasia clandestina, a casa sua». E spiega perché ha pubblicato le foto del decorso della malattia: «potrete vedere cosí a cosa può assomigliare un malato incurabile in fine vita che domanda assistenza per morire a casa propria, nel suo letto, nella dignità, la pace, l’amore, circondato dai suoi, e che rifiuta di morire da solo, in terapia intensiva o palliativa, per quanto efficaci possano essere! […] Via via che si sviluppava il suo tumore osseo resistente alla chemio e incurabile, Coralie non poteva piú masticare né mangiare, non aveva piú un naso degno del nome, non piú denti visibili, non piú bocca, il suo volto era devastato, deformato, le emorragie frequenti e i dolori pressoché permanenti, il tumore le invadeva il viso e la rendeva cieca» 21. La madre ricorda lo sgomento e l’orrore di medici e infermieri «ne ho visti che hanno dovuto riprendersi tre volte prima di riuscire a entrare nella stanza di Coralie! […] Se ne è “andata” il 9 settembre ma già da luglio avevamo affrontato insieme le questioni del suo decesso, del suicidio assistito, delle esequie, della cremazione. A settembre è stata lei a chiedere di “andarsene” e il medico ha dialogato con lei al capezzale per ore […] Coralie ha telefonato ai familiari e ai suoi amici per dire “arrivederci, vi voglio bene, domani non sarò piú qui” […] ha voluto fare la toeletta […] infine ha domandato di “andarsene” con la musica […] Nessuno ha potuto guarirla, né Dio né Gesú, né Maria-Giuseppe-Pietro-

Paolo-Giacomo, né il parroco di Nantes, esorcista ufficiale della diocesi, incaricato di procedere all’esorcismo per “cacciare il diavolo e la malattia” in nome di Dio». «Papa Benedetto XVI ha messo in guardia contro una “cultura della morte” perché “Dio dona la Vita ed è il solo autorizzato a toglierla”! Ma come si può avere fiducia in un Dio che ha un tale amore per le sue creature da infliggere loro sofferenze disumane? In virtú di quale dogma Coralie aveva l’obbligo di continuare a soffrire “ad vitam aeternam”? Con che diritto un essere umano in fin di vita deve essere condannato a sofferenze inutili e ulteriori, a raddoppiare la pena? […] se aveste potuto sentire Coralie mormorare nel mezzo della notte “è faticoso morire, mi sforzo e non ci riesco”! Coralie è andata all’altro mondo con violenza, dopo una agonia insopportabile. Se la legge fosse stata umana Coralie sarebbe morta in pace, liberata in modo dolce» 22.

8. Tortura fisica e tortura psicologica. Professor Joseph Ratzinger, oggi Papa Emerito, che quando eri papa e basta, e malgrado «l’assistenza divina data ai successori degli Apostoli, che insegnano in comunione con il Successore di Pietro, e, in modo speciale, al Vescovo di Roma, Pastore di tutta la Chiesa», come garantisce l’articolo 892 del Catechismo della Chiesa cattolica, ti sei sentito impotente a far fronte alla lobby dei pedofili dentro Santa Romana Chiesa, per cui ti sei dimesso, perché ti eri permesso – sempre con la suddetta assistenza divina – di sproloquiare che «le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto» 23, insultando tutte le Coralie del mondo e contribuendo in modo cruciale al loro calvario, ovunque arrivi l’influenza sulla legge civile degli ukase pontifici? Perché amico Vincenzo, vescovo in tante occasioni paladino dei piú deboli, vuoi che Vincent, Dominique, George e Shirley, David, Damiana, Susanna, Lecretia, Brittany, Chantal, Coralie e tanti e tante come loro, a differenza di te e me condannati a morte benché innocenti, non solo debbano morire, ma morire con il supplizio di una lunghissima tortura? Perché «non esistono piú situazioni di dolori terminali che la medicina non sia in grado di

rendere sopportabili», secondo le ineffabili parole di Francesco D’Agostino, pasdaran della bioetica cattolica, che tu riporti con approvazione in nota a p. 26 del tuo libro? 24. Perché non è paragonabile alle tenaglie roventi e allo squartamento di Damiens, insomma? Certo che non è la stessa tortura. Ma vuoi stabilire tu la soglia della sofferenza inenarrabile, del martirio insopportabile? La loro testimonianza straziante e in prima persona, la loro disperata e lucida richiesta di aiuto perché quella sofferenza possa terminare, non è conclusiva? Con che diritto vuoi negare loro che la loro tortura sia abbreviata? Basterebbe la tortura psicologica. Ascolta Piergiorgio Welby imprigionato nel suo corpo, che scrive al presidente Napolitano: «sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mount, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare […] a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e piú stanco di prima. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita […] Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire piú nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita, Presidente […] morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è piú vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è piú mio… è lí, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà» 25. Le parole di Piergiorgio Welby valgono però zero, Eminenza Tettamanzi, visto che lei stigmatizza la «cosiddetta “pietà” per le sofferenze insopportabili» 26. Cosiddetta perché? In effetti Welby non chiede pietà, rivendica un diritto, contro chi si arroga la violenza di infliggergli «questo oltraggio estremo». Lei sta dalla parte dell’oltraggio estremo, purtroppo, come Sua Eminenza Sgreccia, che si indigna perché «l’eutanasia, come fuga dal dolore e dalla agonia, avviene prima nello spirito e poi nella società e nel diritto» 27, dal momento che «la secolarizzazione del pensiero e della vita […] non consente di comprendere il significato della morte e il valore del dolore» 28.

9. Giovanni Nuvoli e la tortura di Stato e di Chiesa. Il valore del dolore, proprio cosí, dogmaticamente. Per Giovanni Nuvoli quel dolore, ogni giorno crescente, era solo dolore, invece. A cui porre fine. Si ammala di sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Seguiamo il racconto di sua moglie Maddalena. In realtà il suo racconto, che riprendo per stralci, andrebbe letto interamente, è un realistico affresco agghiacciante dell’intreccio tra malasanità, malareligione, malaideologia, malapolitica, malogiornalismo. «La Sla è una malattia terribile, con un decorso rapidissimo, molto piú rapido della sclerosi multipla. È una patologia degenerativa che colpisce un gruppo specifico di cellule del midollo spinale causando una progressiva paralisi degli arti e dei muscoli deputati alla deglutizione e alla parola. Nei successivi sei mesi Giovanni perse il controllo delle gambe, aveva bisogno di essere aiutato e sostenuto nel camminare; qualche mese ancora e non solo non camminava piú, ma non riusciva piú neppure a portare il cibo alla bocca. Perfino parlare era diventato difficile. Col progredire della malattia, perse del tutto la motilità della lingua. Per comunicare ci inventammo un cartello, una specie di primitivo precursore del My Tobii, il computer che permette con il solo movimento degli occhi di selezionare lettere o intere parole su una tastiera virtuale visualizzata sullo schermo, trasformandole in parlato attraverso un sintetizzatore vocale. Invece il nostro cartello era in plexiglas, con lettere attaccate sopra, quelle adesive che si acquistano in cartoleria, e poi anche i numeri. Il cartello era trasparente, si metteva fra lui e la persona che leggeva e si guardavano, attraverso il cartello, gli occhi suoi. E cosí si capiva quello che lui chiedeva, si diceva: stai dicendo A? E lui faceva un battito di ciglia per assentire […] Era il 2003, in tre anni la malattia gli aveva mangiato i muscoli delle gambe, delle braccia, della lingua. E quella notte toccò ai polmoni. Quella notte mi svegliai sentendo il suo respiro corto, lo pregai di andare in ospedale. Giovanni non voleva. Mi disse: “Lasciami morire qua, lasciami morire cosí”. Ma io non volevo vederlo morire soffocato, perché è terribile morire soffocati, sono terribili quei cinque, sette minuti di strazio necessari a morire. Lo ricoverarono in rianimazione e ci rimase otto mesi, sebbene dallo stato

di coma fosse uscito dopo le prime cure. Era pienamente cosciente, pienamente lucido, e convocò subito i medici, i primari, per esprimere loro la sua ferma volontà di non voler essere intubato, di non voler essere attaccato alle macchine. Poi una mattina arrivai e lo trovai tracheotomizzato. Fu agghiacciante la risposta di un primario quando chiesi che, dopo il ritorno a casa di mio marito, gli infermieri venissero a casa per tre ore al mattino e tre ora la sera: “Signora, noi le diamo un’ora dei nostri infermieri specializzati, per il resto se lo smerda lei”. E questi erano gli uomini che dicevano di volergli bene, quelli che dicevano di essere “per la vita”. Questi erano i benpensanti legati al Vaticano, quelli che dicevano che la vita è un miracolo e dev’essere vissuta, quelli che pensano che costringendo un uomo a restare attaccato a una macchina si guadagnano il paradiso. La Sla è una malattia senza ritorno, dalla Sla non si guarisce: si può solo tentare di ridurne, in maniera infinitesimale, l’implacabile avanzata. Distrugge il corpo eppure lascia il cuore sanissimo, il cervello sanissimo, e poi a un certo punto ruba anche la vista. Il nervo ottico continua a funzionare, gli occhi continuano a essere sani, ma le palpebre non si aprono piú. E lui, che ormai comunicava solo col battito delle palpebre, aveva il terrore di quel momento, del momento in cui gli sarebbero mancati anche gli occhi e, dalla clausura del proprio corpo, non avrebbe piú potuto esprimere se stesso, la sua volontà, i suoi pensieri». Gli fanno una perizia psichiatrica, che conferma che «Giovanni era lucido ed era perfettamente in grado di intendere e di volere, anche quando esprimeva la volontà di staccare il respiratore artificiale». «Il 7 luglio, il dottor Ciacca si presentò dai carabinieri di Alghero, per consegnare al procuratore capo di Sassari un’informativa su quello che aveva intenzione di fare: staccare il ventilatore martedí 10 luglio alle 23. I carabinieri lo trattennero e il capitano Francesco Novi lo interrogò fino alle 2.30 del mattino. Ma a mezzogiorno di quel 10 luglio, il medico fu richiamato dai carabinieri: la procura aveva intenzione di fare tutto quanto in suo potere per impedire al dottor Ciacca di compiere la volontà di Giovanni. Cosí ci siamo ritrovati la casa circondata dai carabinieri». L’Italia dei fautori della buona tortura applaudí, col quotidiano della Conferenza episcopale italiana in testa, amico Vincenzo. Tu tra loro e con loro. «Il lunedí seguente Giovanni decise di non alimentarsi piú. Finsero di credere che mio marito non si alimentasse piú a causa di un aggravarsi della

malattia, e che questo suo digiuno non fosse un atto, quello piú estremo, per riappropriarsi del proprio diritto di scegliere. Ecco, questo è, in fondo, quello che li spaventa di piú: che un uomo possa scegliere. E lasciarono che un uomo che aveva già subito tanto, un uomo che pesava venti chili e che la malattia aveva sfiancato, logorato, consumato, sopportasse altri sette giorni di calvario. Perché nulla fu facile, neppure quello. Nulla fu breve e senza dolore, neppure quello. Perché il dolore arrivò subito, fin dal primo giorno. Ma la sua volontà rimase sempre ferma, granitica: chiese perfino che la sedazione gli venisse somministrata senza l’aiuto della fisiologica, perché non si prolungasse neppure di un’ora, neppure di pochi minuti, la sua sofferenza. Eppure, anche per sedarlo, si aspettò il terzo giorno, quando i dolori erano ormai atroci, il colorito era terribile, la pressione aveva sbalzi continui e Giovanni aveva la tachicardia, la febbre… Neppure quando lo sedarono e, sempre per non rischiare [che morisse], non gli diedero una dose sufficiente a farlo dormire fino alla fine. Ogni tanto Giovanni si risvegliava fra dolori atroci, perché lo stomaco, divorato dagli stessi succhi gastrici, aveva emorragie terribili. Allora gli davano una nuova dose di sedazione, ma intanto quei minuti di ritorno alla lucidità comportavano un calvario atroce, sofferenze indicibili. Infine il cuore cessò di battere. Erano le dieci e mezzo della sera del 23 luglio 2007» 29.

10. Francesco, il lettore e l’empatia. Oggi Giovanni Nuvoli avrebbe diritto alla sedazione prima del distacco della macchina. Grazie a una legge che le gerarchie cattoliche hanno osteggiato in ogni modo, considerandola una forma mascherata di eutanasia. Ma quanti altri malati terminali, il cui golgota non è legato a una macchina, sono ancora costretti a subire supplizio fino all’ultima goccia, perché il Pontefice regnante intima che anche se implorano di non essere piú torturati «non si possono scartare!» 30? Scartare, manipola Francesco, qui gesuita come non mai, nel senso deplorevole che all’etichetta dava Pascal: un esorcismo delle parole, per nascondere, capovolgere e infine annientare la volontà di chi soffre la propria vita come disumana e chiede solo di potersi addormentare per sempre, subito, ora.

Vincent, Dominique, George e Shirley, David, Damiana, Susanna, Lecretia, Brittany, Chantal, Coralie e tanti e tante come loro cercano di farci almeno immaginare quanto sia disumana la loro non-piú-vita, consapevoli che il loro strazio non sarà mai davvero comunicabile, sarà comunque inenarrabile. Ma Francesco fa orecchi da mercante, a Francesco non interessa, non solo «la vita è sempre sacra» ma anche «è sempre di qualità». Eppure è la loro, non la tua, chi sei tu Francesco per giudicare, come ha ricordato il tuo Alter Ego in un ammonimento che ha fatto il giro del mondo? E alla prevaricazione aggiunge il cachinno: «non per un discorso di fede – no, no – ma di ragione, per un discorso di scienza!» 31. Ripugnante. Prova comunque un attimo, anche tu che stai leggendo, a non diventare hypocrite lecteur ma essere umano, capace di empatia. Prova ad attivare tutti i possibili neuroni specchio, e la consapevolezza che se lo farai, intensamente, profondamente, sarà comunque pallidissima eco di quanto loro hanno provato o proveranno. Concentrati su ciò che piú ti ha angosciato o ti può angosciare, al dolore piú raccapricciante, alla sofferenza da cui hai sempre distolto la mente per quanto ti agghiacciava. E ora immagina che questo stato di dolore e angoscia, terrore e paralisi, strazio e disperazione non passerà, MAI , che a quel momento già interminabile ne succederà un altro, e poi un altro, e poi un altro… E che vuoi urlare basta!, che questo basta! è l’unica brace di vita tua in cui tutto il tuo essere ormai si raccoglie e concentra. Che differenza ci sarà per chi deve vivere questa «vita» PER SEMPRE con l’inferno e la sua eternità? Sei stato condannato a morte innocente, dalla roulette del Dna e dalle contingenze dell’habitat. Non puoi farci nulla. Non possiamo farci nulla. Ma la condanna prevede che l’esecuzione sia preceduta e accompagnata da una lunghissima agonia di torture. E su questo possiamo eccome, amico lettore, perché ciascuno di noi di quelle torture è responsabile. Per atti o per omissioni. Contro quelle agonie di tortura si può scagliare l’umanità del nostro no! Se per ogni criminale efferato, da oltre due secoli abbiamo decretato quel no! anche solo per ore o minuti, con quale protervia di sadismo possiamo ora consentirla per giorni, settimane, mesi per l’innocente? La condanna a morte per malattia ci fa ammutolire per l’ingiustizia del caso, ci rivela quanto ancora resta della nostra impotenza. Impedire queste condanne forse non sarà mai nella disponibilità di Homo sapiens, malgrado

gli sforzi della ricerca scientifica che tutti a parole proclamiamo prioritari. Ma abbreviare la tortura che precede e accompagna queste esecuzioni senza colpa, capricciose e imperscrutabili, un grado di umanità appena sopra lo zero dovrebbe bastare a garantirlo, e solo una crudeltà inspiegabile, fanatica, torturatrice insomma, può volerlo impedire. Etichettare come «coscienza quasi ottenebrata» quel grido lucido e fraterno di aiuto, di personale ma generosa disperazione, che si fa speranza perché altri in futuro non debbano piú soffrire il loro attuale calvario, è vergogna irredimibile. San Giovanni Paolo II, quando ancora gli mancava il «san», scagliava l’anatema perché «la sofferenza, inevitabile peso dell’esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene “censurata”, respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque» 32. Eppure, chi chiede per ciascuno il diritto sul proprio fine vita non vuole imporlo a nessuno: libero di soffrire chi cosí preferisce, ma se con san Wojtyla si arroga di imporlo a chi lo rifiuta diventa carnefice, altro che «possibile crescita personale»!

11. Umanità delle giurie popolari. Una morte umana, o almeno non disumana. Il sentimento popolare, e le corti con giuria popolare, hanno sempre condiviso questo umanissimo doveroso sentire. Il 28 settembre 1909 la Corte d’Assise della Senna assolve Alphonse Baudin, operaio meccanico, che il 31 gennaio si era costituito: «Ho appena ucciso mia moglie con un colpo di pistola. Colpita da enfisema polmonare soffriva crudelmente e a piú riprese aveva manifestato l’intenzione di farla finita. Questa mattina ha avuto una crisi ancora piú dolorosa e si è rivolta a me supplicando “finiscimi, non lasciarmi piú soffrire cosí, abbi pietà”». Prende il revolver ma esita. La donna continua a supplicarlo, Baudin col cuore gonfio l’esaudisce, un colpo a bruciapelo «nemmeno un grido, è scivolata sul letto in cui stava seduta, ha smesso di soffrire» 33. Il 15 luglio 1924, all’ospedale Paul Brousse di Villejuif, Stanislawa Umińska, giovane attrice di ventitre anni del Teatro polacco di Varsavia, uccide con un colpo di pistola in bocca il suo amico scrittore Jean Żyznowski. Colpito da un male incurabile, si era fatto operare in Polonia.

Recatosi in Francia nel mese di giugno, aveva chiesto alla sua amica di raggiungerlo. Il 13 per le sofferenze atroci gli iniettano morfina. Mentre dorme Stanislawa gli spara in bocca. Dall’interrogatorio del 6 febbraio 1925: «mi aveva detto che le sue sofferenze diventavano intollerabili e mi aveva domandato di ucciderlo. Gli avevo risposto: no! Ha insistito ancora, e di nuovo gli ho risposto che non ne avrei mai avuto il coraggio. Ma i giorni passavano e sentendo che soffriva troppo ho preso il revolver e ho sparato». Il magistrato: «non è assolutamente permesso dare la morte a un essere umano, per questo lei è qui. Ma la giuria deve sapere che il suo atto ha avuto come unico motivo quello che ha appena riferito: risparmiare una sofferenza ulteriore all’uomo cui voleva bene». La madre: «quando mio figlio un giorno migliorò un poco, mi disse “non ho paura della morte ma non voglio soffrire. Ho già trovato il modo. Quando starò veramente male, Stasia farà quello che le ho ordinato di fare”». La giuria popolare impiega cinque minuti per decidere: assoluzione 34. Il 16 febbraio 1925 Anna-Virginie Levassor, sarta di quarant’anni, si presenta al commissariato della Madeleine a Parigi: ha ucciso sua sorella Anaïs, di ventinove anni, anche lei sarta ma da tempo colpita da tubercolosi ossea ormai in stadio terminale, che le aveva chiesto di spararle: «se mi manchi ricomincia subito», raccomandandole di sparare alla testa dietro l’orecchio sinistro. Solo alla quarta pallottola Anaïs non si muove piú. «Per essere certa della sua morte ho sparato un quinto colpo, il colpo di grazia. Poi ho tentato di suicidarmi», ma la pistola fa cilecca 35. Il 19 giugno AnnaVirginie Levassor viene condannata a due anni 36. Il 25 giugno 2014 la corte d’assise di Pau assolve Nicolas Bonnemaison, accusato di aver ucciso sette pazienti terminali, cui erano ormai state sospese le cure e che soffrivano orribilmente, ai quali somministrerà farmaci usati per la sedazione profonda, che ne accelerano la morte. L’ordine dei medici lo radia dalla professione, per la corporazione il potere deve fare aggio su tormenti e pietà. Il «parquet», grosso modo l’equivalente della procura italiana, ricorre in appello, chiedendo una sede diversa. La corte d’assise di Maine-et-Loire lo condanna a due anni con la condizionale. Non sono solo le corti francesi a giudicare con estrema compassione e comprensione quelli che Sua Santità Francesco giudica invece «sacrifici umani» 37. Quasi un secolo fa, il giurista italiano Antonio Visco «enumerava, scandalizzato, i numerosi casi deducibili dalla cronaca giudiziaria

contemporanea in cui omicidi eutanasici erano stati risolti con pene assai moderate o con assoluzioni delle corti d’assiste, auspicando il ridimensionamento dei giudici popolari nel processo penale: “Verdetti di pietà, non verdetti di giustizia! I giurati molto spesso si arrogano un diritto di grazia che nessun legislatore ha loro accordato, ma ormai anche questa istituzione tramonta, e l’applicazione della legge sarà certo piú razionale e severa» 38. Scrive nel 1929. L’anno successivo, VIII dell’era fascista, verrà accontentato con la promulgazione del nuovo Codice penale, il cui articolo 579 sanziona specificamente l’omicidio del consenziente. Insieme all’articolo 580 (fino a dodici anni per l’assistenza al suicidio), sono tutt’ora vigenti.

12. Suicidio, eroismo e martiri cristiani. Nel suo libro, qui già citato, Marco Cavina sostiene la documentatissima tesi che «a differenza di quello che si crede comunemente, culture di accettazione dell’eutanasia – piú o meno minoritarie, spesso silenziose, ma talvolta occultamente assai diffuse – rappresentano una costante nella storia europea dall’antichità ad oggi» anzi una «presenza ininterrotta e diffusa» 39. Non sarà certo un ateo come lo scrivente a utilizzare la doppia superstizione del vox populi vox Dei. Ma è difficilmente contestabile che sia stata (e sostanzialmente sia) la cultura cristiana della sofferenza come espiazione ad aver imposto la sua cappa saturante contro l’umano bisogno di morte se non buona e «sorella», almeno non torturatrice. Perfino alle bestie è concesso di non soffrire piú. Anche al cane, anche al cavallo, è concesso il colpo di grazia. Anche al gattino è concesso di «addormentarsi» per overdose di pentotal. Ci si sentirebbe crudeli e vili imponendo loro di soffrire fino all’ultimo miagolio. L’uomo invece, soprattutto innocente, avendo nell’opinione delle Eminenze reverendissime, un’anima immortale, deve per questo soffrire quello che alle bestie è risparmiato, e risparmiato ai piú efferati assassini. Eppure il suicidio per una causa nobile è considerato perfino eroismo. Dagli Stati, e financo dalla Chiesa. Chi in guerra viene lanciato dietro le linee nemiche per rischiosissime azioni di commando o di intelligence è dotato della famosa pastiglia di cianuro da spezzare perché una cattura e un interrogatorio non mettano in pericolo la missione e gli altri compagni. Il

partigiano che torturato dalla Gestapo o dalla banda Carità si sottrae con la morte al rischio di «parlare» è un eroe degno di medaglia d’oro. Mentre doverosa è l’eutanasia per pietà, l’abbiamo visto in piú di un film di guerra: un soldato ferito, con le viscere che fuoriescono e nessuna prospettiva di soccorsi, chiede al commilitone che prima di fuggire gli faccia il dono estremo del colpo di grazia. Quale spettatore non troverebbe ripugnante crudeltà, perverso egoismo, che lasciasse il suo compagno negli spasmi di ore di agonia? Salvo d’Acquisto, che cattolicamente si sacrifica per salvare i propri compagni, è già «Servo di Dio», primo gradino che, attraverso la fase intermedia del «beato», porta agli altari della santità. È vicebrigadiere dei carabinieri, ha ventidue anni, quando i nazisti compiono un rastrellamento a Torre di Palidoro, e si preparano a trucidare ventidue cittadini innocenti come rappresaglia contro un’azione della Resistenza (in realtà quasi certamente lo scoppio incidentale di munizioni). Hanno già scavato la fossa in cui li precipiterà la mitraglia nazista quando il vicebrigadiere si dichiara (falsamente) autore dell’attentato, andando a sicura morte al posto loro. La sua figura fu ricordata dal Papa Giovanni Paolo II, che in un discorso ai carabinieri del 26 febbraio 2001 ebbe a dire: «La storia dell’Arma dei carabinieri dimostra che si può raggiungere la vetta della santità nell’adempimento fedele e generoso dei doveri del proprio Stato. Penso, qui, al vostro collega, il vicebrigadiere Salvo D’Acquisto, medaglia d’oro al valore militare, del quale è in corso la causa di beatificazione». Scegliere la morte certa per una causa degna è considerato anche dalla Chiesa virtú somma. Ad esempio coloro che vogliono essere martiri, pur potendo sfuggire. Ignazio di Antiochia, uno dei Padri della Chiesa: la comunità di Roma aveva la possibilità e la «tentazione» di salvarlo, perciò scrive loro accoratamente: «muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio […] il principe di questo mondo [il demonio] vuole rovinare e distruggere il mio proposito verso Dio. Nessuno di voi qui presenti lo assecondi […] Anche se vicino a voi vi supplicassi non ubbiditemi. Obbedite a quanto vi scrivo» 40. O i martiri di cui narra Tertulliano: «Arrio Costantino in Asia, perseguitandoli con veemenza, aveva scatenato una caccia senza tregua contro i Cristiani, allora tutti i Cristiani di quella regione si radunarono

e si presentarono in gruppo davanti al suo tribunale. Egli pochi ne fece condurre al giudizio, agli altri rilasciati disse: se volete morire, andate a impiccarvi o buttatevi in qualche burrone» 41. Vi furono martiri cristiani che preferirono il suicidio anziché il supplizio. Ad Antiochia «alcuni di costoro, prima di essere catturati e di cadere nelle mani dei perfidi, preferirono gettarsi da sé dall’alto delle case, ritenendo che la morte fosse un modo per sottrarsi alla malvagità degli empi». Eusebio di Cesarea parla anche di costoro come di mirabili martiri 42. Per non parlare delle vergini che preferiscono il suicidio per non finire nella prostituzione coatta. Una madre e le sue due figlie, poiché «il consegnare le anime alla schiavitú dei demoni era peggio di qualunque morte o di qualsiasi perdita […] allorché giunsero a metà strada, dopo aver avvolto con modestia i vestiti intorno al corpo, chiesero alle guardie il permesso di fermarsi un istante per appartarsi, e si gettarono nel fiume che scorreva lí accanto. Esse quindi si diedero la morte» 43.

13. Suicidio e paradiso, Jihad e urí. Insomma: esistono forme di suicidio che vanno bene perché in nome di Dio. Ma in nome dello stesso unico Dio dei tre monoteismi, il Dio di Abramo, Maometto garantisce a chi si immola per il jihad un paradiso con settantadue vergini (se il martire è una donna gli spetterà invece un solo uomo) 44, e anche la precedente versione cristiana dell’unico Dio promette la vita eterna beata (senza le urí, beninteso) in remunerazione del «sacrificio con il quale per una causa superiore – quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli – si offre o si pone in pericolo la propria vita» 45. E perché mai per qualcuno, laicamente, la fine della propria sofferenza non dovrebbe valere come «causa superiore»? Non siete proprio voi, Eminenze reverendissime, a salmodiare «ama il prossimo tuo come te stesso»? Non piú di te stesso. Se posso sacrificare la mia vita per il bene di un altro, perché non posso porvi fine per quel mio bene che è la fine della mia sofferenza? 1. Pièces originales et procedures du procès, fait à Robert-François Damiens, Pierre-Guillaume Simon, Paris 1757, pp. XXIX-XLI .

2. La giovane, uscita dal convento appena da un mese, è «jolie à croquer» («carina da mangiarsela, da sgranocchiarsela»), Jacques Casanova, Histoire de ma vie, Gallimard Pléiade, Paris 2015, vol. II, pp. 24-25 [traduzione mia]. 3. Ibid., pp. 35-37. 4. Stendhal, Romans et Nouvelles, Gallimard Pléiade, Paris 1952, vol. II, p. 629 [traduzione mia]. 5. Ibid., pp. 666-67. 6.

[http://www.lefigaro.fr/actualite/2007/03/09/01001-20070309ARTWWW90492-

la_lettre_de_vincent_au_president_de_la_republique.php]. 7.

[https://www.lemonde.fr/societe/article/2006/02/28/non-lieu-general-dans-l-affaire-du-

tetraplegique-vincent-humbert_745970_3224.html]. 8. Canonizzato il 27 aprile 2014 insieme a papa Giovanni XXIII. 9.

[https://video.repubblica.it/cronaca/eutanasia-vado-a-morire-in-svizzera-l-intervista-a-

dominique-velati/223064/222314]. 10.

Evangelium

vitae,

Lettera

enciclica

di

Giovanni

Paolo

II,

§

4,

[http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jpii_enc_25031995_evangelium-vitae.html]. 11. [https://www.youtube.com/watch?v=d2zlJ88D1uo]. 12. Evangelium vitae, § 15. 13.

[https://www.lastampa.it/2016/03/08/italia/eutanasia-in-viaggio-con-susanna-vi-racconto-i-

miei-ultimi-istanti-di-vita-yZIlB1I1M7EgaDFFwMnotJ/pagina.html]. 14. Evangelium vitae, § 70. 15.

[https://www.lawsociety.org.nz/news-and-communications/people-in-the-

law/obituaries/obituaries-list/lecretia-anne-seales,-1973-2015]. 16. Elio Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. I, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 722. 17. Dionigi Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2000 p. 547. 18.

[https://www.youtube.com/watch?v=TGFqXN-CV9g

https://www.youtube.com/watch?

v=Mi8AP_EhM94]. 19. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 543. 20. [https://www.ina.fr/video/3565933001026; https://vimeo.com/9432244]. 21. Chi pensa di farcela, guardi la sua immagine torturata: [https://www.google.com/search? q=coralie+Le+Menn&tbm=isch&source=hp&sa=X&ved=2ahUKEwi77uKwuK_hAhVJ8OAKHc92Cd EQ7Al6BAgHEA8&biw=1902&bih=859#imgrc=YG2FJiSPi25LqM]. 22. [http://www.abadennou.fr/euthanasie/conference1_coralie.html]. 23. Sacra Congregazione per la Dottrina Della Fede. Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, cap. II. 24. Vincenzo Paglia, Sorella morte, Piemme, Milano 2016.

25. Piergiorgio Welby, Lettera al presidente Napolitano, [http://temi.repubblica.it/micromegaonline/lettera-aperta-di-piergiorgio-welby-al-presidente-della-repubblica-giorgio-napolitano/]. 26. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 532. 27. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 722. 28. Ibid., p. 720. 29. Maddalena Nuvoli, in conversazione con Vania Lucia Gaito, Quando il corpo diventa una prigione, in «MicroMega», 2 (2009), pp. 36-46. 30.

[http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2013/september/documents/papa-

francesco_20130920_associazioni-medici-cattolici.html], § 2. 31. Ibid., § 3. 32. Evangelium vitae, § 23, terzo capoverso. 33.

«L’Ouest-Eclair»,

29

settembre

1909,

[http://cpascans.canalblog.com/archives/2009/09/29/15124274.html]. 34. [https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k606020j/f1.item.r=uminska.zoom]. 35. [https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k606029z.texteImage]. 36. [https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k606152n/f2.item.r=levassor.zoom]. 37. Francesco, 18 novembre 2013, meditazione mattutina a Santa Marta. 38. Marco Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, il Mulino, Bologna 2015, p. 194, che cita Antonio Visco, L’omicidio e la lesione personale del consenziente. Saggio di una teoria generale sulla efficacia del consenso del soggetto passivo nel diritto penale, Istituto Editoriale Scientifico, Milano 1929. 39. Ibid., pp. 9, 11. 40. Ignazio di Antiochia, Ai Romani, in I padri apostolici, Città nuova, Roma 1976, pp. 122-24. 41. Tertulliano, Ad Scapulam V, 1-2, [http://www.tertullian.org/latin/ad_scapulam_app.htm]. 42. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, vol. II, Città nuova, Roma 2001, p. 166 [VIII, 12, 1]. 43. Ibid., p. 166 [12, 3]. 44. Tutti i riferimenti testuali da Corano e hadith in [https://wikiislam.net/wiki/Le_72_vergini]. 45. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 733.

Capitolo terzo Filosoficamente

1. La vita degna: Sofocle, Montaigne, Kant, Leopardi. Che la vita sia sempre un bene, come decreta Giovanni Paolo II 1, era stato contestato in radice da uno spirito di lui assai piú magno. Sofocle, in Edipo a Colono, fa dire al coro: «Non nascere: mi vince ogni pensiero | questo soltanto. O forse, – secondo bene immenso – | appena emersi a questa luce, presto | là ritornare di dove si giunse» (vv. 1565-69). Non diversamente un altro animo grandissimo, quasi due millenni e mezzo dopo: Giacomo Leopardi il 23 luglio 1820 annota nel suo Zibaldone che «tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitare a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione» 2. Il valore della vita comunque e in sé, di contro alla legittimità del suicidio, costituiscono un interrogativo che percorre tutto il pensiero occidentale: quando è stato affidato rigorosamente alla ragione, sottraendolo a ogni dogma di fede, non ha potuto che concludere con il diritto dell’uomo a disporre della propria vita. Trascuriamo pure il mondo antico, dove il suicidio è spesso atto dovuto, per onore personale o pubblico, e limitiamoci all’epoca moderna. Il piú noto anatema è quello di Immanuel Kant, che a proposito del suicidio chiarisce subito: «noi intendiamo considerare l’atto solo in se stesso, indipendentemente dall’aspetto religioso» 3. Ogni intromissione della fede annegherebbe e annullerebbe infatti la ragione nel dogma. Kant riconosce che «la vita non va stimata in sé e per sé, ma al contrario va conservata solo nella misura in cui si è degni di viverla» 4, e anzi sottolinea che «il suicidio non è abominevole e inammissibile per il fatto che la vita costituisce un bene tanto grande, perché allora dipenderebbe soltanto da ciascuno stimarla o no come il bene maggiore. Secondo la regola della prudenza, allora, sopprimersi sarebbe spesso la cosa migliore» 5, e tuttavia è illecito e anzi esecrabile, togliersi la vita per «sottrarsi alle tribolazioni, al dolore, alla vergogna» 6, al punto che «noi consideriamo un suicida alla stregua di una carogna [als ein Aas]» 7. Perché? Montaigne si meraviglierebbe. Gli aveva già risposto in anticipo che «il dono piú propizio

che ci abbia fatto la natura, e che ci toglie ogni mezzo di lamentarci della nostra condizione, è di averci lasciato la chiave della libertà […] Perché ti lamenti di questo mondo? Esso non ti trattiene. Se vivi penosamente, la tua viltà ne è causa. Per morire occorre solo volerlo» 8. Di piú. «Poiché nella vita ci sono da soffrire molti accidenti peggiori della morte stessa […] la morte è la ricetta per tutti i mali. È un porto sicurissimo, che non si deve mai temere, e che spesso si deve cercare. È lo stesso che l’uomo si dia da sé la sua fine o che la subisca. Che corra incontro al suo giorno o che l’aspetti. Da qualunque parte esso venga, è sempre il suo» 9. E con il Porfirio di Leopardi potremmo aggiungere: «ma con quale barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all’uomo non sia lecito di por fine a’ suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l’orrore della morte, e volontariamente privandosi dello spirito?» 10. Contro tutto ciò, l’argomento di Kant è uno solo, e tutto nelle righe che seguono: «[premessa maggiore] Noi possiamo disporre del nostro corpo in vista della conservazione della nostra persona; [premessa minore] chi però si toglie la vita non preserva con ciò la sua persona: egli dispone allora della sua persona e non del suo stato, cioè si priva della sua persona. [conclusione] Ciò è contrario al piú alto dei doveri verso noi stessi, perché viene soppressa la condizione di tutti gli altri doveri. Con questo si oltrepassa ogni limite dell’uso del libero arbitrio, perché tale uso è possibile solo mediante l’esistenza del soggetto» 11. L’apparente sillogismo, che abbiamo evidenziato nei suoi tre momenti tra parentesi quadre, costituisce in realtà un ragionamento circolare, una petizione di principio. Una fallacia logica delle piú diffuse. Non è affatto stabilito, infatti, ma è anzi massimamente dogmatico, che «noi possiamo disporre del nostro corpo in vista della conservazione della nostra persona», dove è sottinteso un «solo in vista …» Qui viene stabilita una contrapposizione tra corpo e persona, per cui il soggetto umano sarebbe la persona, che si presuppone possa disporre del proprio corpo ma non di se stessa. In tal modo, però, è stato presupposto quanto dovrebbe invece essere dimostrato, poiché si stabilisce apoditticamente, come un dato di fatto, che il soggetto titolare del libero arbitrio è la persona, intendendo con «persona» un chi che può bensí disporre del proprio corpo ma non della propria vita. Ma che si possa o meno disporre della propria vita era la posta del contendere, non può perciò essere introdotto surrettiziamente nelle due premesse.

2. Un circolo vizioso e la risposta di Hume. Certamente se il soggetto del libero arbitrio è la persona, e la persona può disporre solo del proprio corpo ma non del suo stato (della sua vita), allora disponendo della sua vita oltrepassa ogni limite all’uso del libero arbitrio. Ma perché mai il soggetto, la persona, il mortale Homo sapiens che tutti noi siamo, Immanuel Kant e tu e io, amico lettore, dovrebbe avere come «il piú alto di tutti gli altri doveri» il mantenimento di sé come persona? Si tratta di un presupposto apodittico, che stabilisce come accertato non l’individuo reale ma l’essere-per-il-dovere nella peculiare accezione della ragion pratica kantiana. Va da sé che se stabiliamo che il piú alto di tutti gli altri doveri è il mantenimento di sé come persona, e la persona è intesa come il crogiuolo dei doveri kantiani, il piú alto dei quali è il proprio mantenimento come persona in modo da poter adempiere a tutti gli altri, il suicidio risulta immorale, ma risulta altrettanto smaccato il carattere circolare e vizioso del ragionamento, che nelle premesse (che dovrebbero essere intersoggettivamente inoppugnabili) già contiene la conclusione (che è invece il, per sua natura controverso, demonstrandum). Del resto anche Kant aveva ammesso un’eccezione. «Il suicidio possiede un aspetto apparentemente plausibile, allorché la continuazione della vita dipende da circostanze che le tolgono ogni valore, quando cioè non si possa vivere conformemente alla virtú e alla prudenza e quindi si debba por fine alla vita per un nobile motivo» 12. Ad esempio Catone, per continuare a infondere speranza nei cittadini contro la tirannide, preferendo uccidersi anziché piegarsi a Cesare. «In un caso del genere, nel quale il suicidio è una virtú, occorre senza dubbio ammettere che le apparenze depongono fortemente in suo favore. Questo è l’unico esempio che dette al mondo la possibilità di difendere il suicidio» 13. Perché l’unico? Solo se l’unica virtú riconosciuta è quella ricordata. Ma perché non dovrebbe essere altrettanto virtuoso porre fine alla insopportabilità della mia vita se i motivi sono diversi dall’ethos repubblicano classico? Hume aveva già risposto «che spesso il suicidio possa andare d’accordo con l’interesse e col dovere che abbiamo verso noi stessi non lo può mettere in dubbio chi ammetta che l’età, la malattia o la cattiva

fortuna possono rendere la vita un peso e far sí che essa sia peggiore anche della morte» 14. E tale scelta non è neppure condannabile in base alla kantiana «Legge fondamentale della Ragion pura pratica», che recita: «opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale» 15. Infatti chi chiede il diritto di morire non sta esprimendo la volontà che chiunque nella sua situazione debba voler morire, ma che ciascuno possa, volendo, poter morire, e con ciò viene battuta in breccia l’obiezione che il diritto al suicidio, universalmente applicato, comporterebbe l’estinzione del genere umano. Lo pseudosillogismo kantiano andrebbe in realtà rovesciato. Non sono i doveri a costituire il soggetto umano. I doveri presuppongono un soggetto umano, che viene perciò prima e a prescindere dai propri doveri. E dunque è titolare del diritto insopprimibile di far venire meno se stesso e con ciò ogni suo dovere. Che siano i doveri a venire prima e fondare ciascuno di noi, il soggetto, la persona del genere Homo sapiens che tutti noi siamo, implica che venga presupposto un Dio creatore, o una Umanità quale soggetto trascendente (ipostasi animistica, in realtà), e anzi entrambi. Hume aveva già risposto: «trovo che devo la mia nascita ad una lunga catena di cause, molte ed anche le principali delle quali sono dipese da azioni volontarie degli uomini. “Ma la provvidenza ha guidato tutte queste cause e nulla avviene nell’universo senza il suo consenso e la sua cooperazione”. Se è cosí, nemmeno la mia morte, sebbene volontaria, avviene senza il suo consenso» 16. È forse eccessiva la notazione di Montaigne secondo cui «la morte piú volontaria è la piú bella» ma resta sacrosanta l’altra, che scolpisce come «vivere sia servire, se manca la libertà di morire» 17. O con le parole che Leopardi mette in bocca al suo Porfirio: «Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura vieta l’uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere» 18. In realtà anche Kant, prima delle Eminenze nostre, per tener fermo il divieto al suicidio era costretto a ricorrere a Dio, anziché restare nei limiti della ragione. Dopo aver riconosciuto che «risulta chiaro ciò che di morale vi è […] [nella] libertà di poterlo fare quando voglia [congedarsi dal mondo]» perché «non può essere assoggettato da nessuno e legato da nulla; egli può dire le piú grandi verità al peggior tiranno» 19, conclude tuttavia che l’uomo sarebbe «un ribelle contro Dio […] Dio è il nostro proprietario, noi siamo la

sua proprietà e la sua provvidenza si cura del nostro bene» 20. 1. Evangelium Vitae, § 34. 2. Giacomo Leopardi, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997, vol. I, p. 211. 3. Immanuel Kant, Lezioni di etica, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 171. 4. Ibid., p. 172. 5. Ibid., p. 174. 6. Ibid., p. 170. 7. Ibid., p. 173. 8. Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2012, p. 621 [II, 3]. 9. Ibid., p. 621. 10. Giacomo Leopardi, Dialogo di Plotino e Porfirio, in Id., Operette morali, Einaudi, Torino 1976, p. 199. 11. I. Kant, Lezioni di etica cit., p. 171. 12. Ibid. 13. Ibid. 14. David Hume, Saggi e trattati morali letterari politici e economici, Utet, Torino 1974, p. 781. 15. Emmanuele Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, p. 37. 16. D. Hume, Saggi cit., p. 778. 17. M. de Montaigne, Saggi cit., p. 621. 18. G. Leopardi, Dialogo di Plotino e Porfirio cit., p. 201. 19. I. Kant, Lezioni di etica cit., p. 175. 20. Ibid., p. 176.

Capitolo quarto Giuridicamente

1. Sedazione profonda permanente. L’articolo 32 della Costituzione italiana recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La «Convenzione sui diritti umani e la biomedicina», firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e recepita pienamente nell’ordinamento italiano con la legge n. 145 del 28 marzo 2001, all’articolo 2 stabilisce che «l’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza» e all’articolo 5 che «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato […] La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso». Un intervento, si badi, cioè qualsiasi atto che debba essere compiuto da personale infermieristico o medico. Idratazione e nutrizione artificiali comprese, perciò, ovvietà che la Chiesa gerarchica e i suoi scherani parlamentari negarono violentemente nei giorni terribili della prevaricazione, solo alla fine sconfitta, contro la volontà di Eluana Englaro difesa per anni eroicamente dal padre Beppino. Bref: il medico deve adeguarsi. Deve obbedire alla volontà del paziente. Se viola tale volontà commette un reato. Al tempo stesso il medico ha il dovere di alleviare la sofferenza del paziente. Anzi, la legge 38 del 15 marzo 2010 si intitola «Normativa sull’ospedale senza dolore», senza dolore (il dolore per la legge italiana è un male, checché Ella stigmatizzi contro «la secolarizzazione del pensiero e della vita» che rende incapaci di assaporare «il valore del dolore», Eminenza Sgreccia), all’articolo 3 sottolinea solennemente che «le cure palliative e la terapia del dolore costituiscono obiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale». Prioritari, è chiaro?, tanto che all’articolo 4 impegna governo e regioni a campagne per «promuovere la cultura della lotta contro il dolore e il superamento del pregiudizio relativo all’utilizzazione dei farmaci per il trattamento del dolore», e all’articolo 10, 3bis «in considerazione delle

prioritarie esigenze terapeutiche nei confronti del dolore severo» (prioritarie!), elenca i farmaci utilizzabili e successivamente la semplificazione delle modalità di acquisto e uso. Tra le terapie contro il dolore è ormai assodato il diritto del malato a chiedere la sedazione definitiva permanente, in altre parole il coma indotto farmacologicamente, la fine irreversibile di ogni possibilità di vita sensoriale e intellettiva cosciente. Marina Ripa di Meana diede ampia eco a questa possibilità in un videotestamento televisivo (letto da Maria Antonietta Farina Coscioni) 1 pochi giorni prima della sua morte (preceduta appunto da sedazione definitiva permanente), divenuto, come si dice, virale sul web. Non è difficile mettere questi diritti insieme, e leggere come implichino logicamente il diritto di ciascuno sul proprio fine vita, compreso il diritto ad accorciarlo se vissuto come tortura. Il diritto all’eutanasia, dunque. Infatti: se la sedazione è davvero profonda (coma indotto) e definitiva, non si capisce quale sia la differenza con la morte umana, visto che a sopravvivere è ormai solo un insieme biologico di organi, cui non sarà piú concessa coscienza, a cui non sarà somministrato nutrimento, e meno che mai le medicine che ancora tenevano l’organismo in funzione. Solo uno strazio per chi gli vuole bene, un rituale macabro. E un’ultima pozza di angoscia per chi ha ottenuto la sedazione, prima che gli venga somministrata: la paura che possa riemergere ogni tanto alla coscienza, come accaduto al torturato Giovanni Nuvoli. Del resto è una paura ricorrente in chiunque si sottoponga a un intervento chirurgico: che per una disattenzione dell’anestesista vi sia un momento di riaffiorare della coscienza, che sarebbe ovviamente terrorizzante. Una disattenzione che riportasse anche solo per un istante il moribondo a coscienza sarebbe crudeltà innominabile, quella che ci si è impegnati a scongiurare, ma che un errore umano può far accadere. Inoltre noi sappiamo che nello stato di sedazione non abbiamo coscienza, e quando ci risvegliamo non abbiamo ricordi. Ma il corpo, benché privo di coscienza, è totalmente insenziente? Di questo non possiamo sapere nulla di definitivo, benché una sensibilità senza coscienza sia per l’essere umano anche difficile da definire. Perciò: se quell’essere è umanamente morto, come in effetti è se in sedazione profonda/definitiva, cosa cambia se si accorcia il periodo in cui è comunque stabilito che non possa piú accadere neppure un barlume di coscienza nel corpo che ancora respira, nell’organismo che ancora batte, ma che non pensa e neppure sogna, poiché altrimenti sarebbe disumana ferocia?

Quale feticismo, quale superstizione, a meno di non reinserire surrettiziamente Dio, dunque spacciare in modo occulto un orizzonte di teocrazia al posto della laica eguaglianza? Quell’essere umano non è già piú, definitivamente.

2. China pericolosa e casi di confine. Il diritto a morire, come parte irrinunciabile del diritto di ciascuno alla vita, in realtà è già parte integrante del sistema giuridico italiano. Da anni ormai, e in modo costante, la Cassazione ha stabilito, incrociando dettato costituzionale e recepimento della Convenzione di Oviedo, che qualsiasi paziente possa rifiutare un trattamento terapeutico anche quando il rifiuto porta alla sua morte certa. Il diritto al suicidio assistito per omissione è già legge. 11 febbraio 2004. «Maria è morta. Non ha voluto che le amputassero la gamba devastata dalla cancrena. E malgrado gli appelli, e gli inviti a tornare sulla sua decisione, si è spenta nel luogo dov’era nata. Porto Empedocle, Agrigento, Sicilia. Se n’è andata a sessantadue anni, assistita dai suoi parenti, senza cure, proprio come aveva chiesto, ostinatamente, nonostante la mobilitazione di politici, medici, e religiosi» 2. Non era cosí fino a giorni recenti, alla fine del secolo scorso. Quando in casi analoghi si trovava sempre uno psichiatra disposto a dichiarare – contro scienza e coscienza, ma col plauso unanime e deferente di prelati e autorità – che il paziente non fosse in grado di intendere e volere, malgrado fosse lucidissimo. Non si voleva ammettere che restasse padrone della sua vita, e dunque anche di decidere quale fosse la qualità che rendeva tale vita umana, degna per lui di essere vissuta. Per la maggior parte dei pazienti vivere senza un arto è un handicap niente affatto incompatibile con la voglia e la dignità di vivere, ma la decisione è doverosamente rimessa alla soggettività sovrana del paziente, a quello che i crociati della sanità talebana scomunicano come vituperando individualismo. Se la sua vita sia o meno degna di essere vissuta può deciderlo solo chi la vive. Come ha ribadito infinite volte un clinico che ha dedicato la vita a salvare vite, soprattutto di donne, curando ogni sforzo per garantire loro la piú alta qualità della vita possibile, anche estetica, Umberto

Veronesi: «Il diritto di disporre della propria vita e della propria morte è il piú sostanziale e importante dei diritti individuali, inalienabili per definizione» 3. Non si tratta affatto di una china pericolosa, come minacciano e intimidiscono i pasdaran della proprietà clericale sulle altrui vite, ma di coerenza dei valori costituzionali democratici. Poiché però troppo spesso si equivoca volutamente sui termini, fissiamo per quanto possibile il significato di «decisione». In questo libro, salvo eccezioni esplicitate, facciamo sempre riferimento alla decisione di una persona adulta, presa in piena coscienza e conoscenza, reiterata e costante, che esprima una volontà profonda e non occasionale o legata a una situazione psicofisica transitoria. Tutte le legislazioni che stabiliscono il diritto all’eutanasia lo fanno, ponendo vincoli e controlli stringenti. Ecco perché esigere il diritto all’eutanasia non ha nulla a che fare, ad esempio, col non soccorrere chi abbia tentato senza successo il suicidio. In tal caso infatti si presume, quasi sempre a ragione, che si tratti appunto di una situazione transitoria. Ancor piú doveroso sarà l’intervento nei confronti degli adolescenti (e non solo) che ad esempio mettano a repentaglio la vita perché in preda alla sindrome anoressica, o a forme depressive. Il dovere di aiutare e proteggere ogni individuo rispetto a un suo stato transitorio patologico che alteri il suo equilibrio psicofisico non è messo minimamente in discussione dal diritto all’eutanasia. Ed è altrettanto ovvio che esisteranno i «casi di confine», non facilmente definibili e decidibili. Le legislazioni che riconoscono il diritto all’eutanasia richiedono infatti il parere di piú specialisti. Ma tali «casi di confine», per definizione non precisabili a priori, non possono diventare «argomento» per negare la decisione sul proprio fine vita a chi la esprime in piena, matura, reiterata, costante consapevolezza, che nessun evidente elemento possa far ritenere reversibile.

3. Eutanasia neonatale. In fatto di «china pericolosa», comunque, affrontiamo la questione piú delicata, cavallo di battaglia di tutti i fautori della tortura di Chiesa e di Stato. L’eutanasia dei bambini, dei neonati. Per far inorridire di tale prospettiva si scomodano naturalmente monti taigeti e rupi tarpee, e si accusano di mostruosa bestialità i genitori che la domandano. In Olanda è diventata legale

dopo una lunga battaglia, e dopo che medici agghiacciati e genitori annichiliti avevano dovuto assistere alle sofferenze raccapriccianti dei loro bambini, che la legge imponeva fino all’ultimo respiro. Nel 2005 viene pubblicato sul «New England Journal of Medicine» il «Protocollo di Groningen per l’eutanasia neonatale», il cui principale autore è il professor Eduard Verhagen. Delinea cinque criteri principali di ammissibilità dell’eutanasia: 1) diagnosi e prognosi devono essere certe, 2) devono essere presenti sofferenze incurabili e insopportabili, 3) si deve ottenere una seconda opinione di conferma da parte di un medico indipendente, 4) entrambi i genitori devono dare il consenso informato e 5) la procedura deve essere eseguita con attenzione, in ottemperanza agli standard medici. Scrive Verhagen: «L’impulso a redigere il protocollo, al tempo, ci venne dall’enorme dilemma in merito al miglior intervento da adottare per una neonata, Sanne. Le era stata diagnosticata la forma piú grave di Epidermolysis bullosa, uno stato incurabile e fatale, che progressivamente distrugge la pelle e autoamputa le estremità. La pelle sarebbe letteralmente venuta via ogni qualvolta fosse stata toccata o abbracciata, lasciando in quel punto penose lacerazione del tessuto epiteliale. Gli strati piú superficiali delle mucose della bocca e dell’esofago si staccavano ogni volta che veniva nutrita, funzione espletata per intubazione. Nel piú ottimistico dei casi, avrebbe vissuto fino al suo nono o decimo compleanno, dopodiché sarebbe morta certamente di cancro alla pelle. A giorni alterni si sarebbero dovute cambiare le bende, staccarle dagli strati meno superficiali della pelle, strappare i tessuti di pelle appena riformatisi, lasciandola in un dolore estremo malgrado le migliori cure palliative. I suoi genitori, capita la situazione, ci hanno chiesto di accorciare la vita della loro bambina. Ci hanno detto: “Non vogliamo, ma per amor suo, dobbiamo lasciarla andare”» 4. Dov’è l’amore in questi casi, Santità Giovanni Paolo II, «santo subito!», l’amore, quello che il Nuovo Testamento in italiano traduce con carità, a cui sempre aggiungete il rafforzativo cristiana? Far soffrire a Sanne quelle pene dell’inferno sarebbe amore?

4. Il caso Lucio Magri.

Si dirà, anzi si continua a dire, fin troppo spesso: ma oggi quella che tu chiami tortura è ormai abrogata, o abrogabile, dal fine vita di ognuno. Il caso di Salle è già una risposta. E ci sono sofferenze adulte del tutto analoghe, che nessuna cura palliativa riesce a impedire. Ma eviteremo al lettore la panoplia di sofferenze strazianti che la fredda descrizione clinica di numerose patologie gli sbatterebbe in viso. Perché anche qualora ogni dolore fisico fosse annullabile, nulla potrebbe questo «miracolo» rispetto all’angoscia, alla sofferenza psicologica, la sofferenza dell’anima, di dover continuare a vivere quando la vita è divenuta solo peso e orrore e condanna, da cui l’unico anelito e speranza è liberarsi al piú presto. Già per il dolore fisico non esistono parametri che possano prescindere dal vissuto individuale di ciascuno, e della soglia che lo rende insopportabile, ma per quello psicologico il carattere soggettivo è in re, per definizione. A molti è sembrato impossibile che la vita fosse davvero invivibile per Lucio Magri, che il 28 novembre 2011 ottiene l’eutanasia a Bellinzona, ma nessuno può davvero calarsi nella sua vita e il suo giudizio è l’unico giudizio imparziale possibile. «La mia morte è cominciata da tempo. Quando Mara è scomparsa ha portato via con sé tutta la mia voglia di vivere, ed ero già pronto a seguirla. Lei lo ha intuito e in extremis mi ha strappato la promessa di portare a termine il lavoro che avevo avviato negli anni della sua sofferenza […] Nel lungo e doloroso intermezzo ho avuto modo non solo di riflettere sul passato ma anche di misurare il futuro. E mi sono convinto di non avere ormai né l’età, né l’intelligenza, né il prestigio per dire o per fare qualcosa di veramente utile a sostegno delle idee e delle speranze che avevano dato un senso alla mia vita». Resta solo «il desiderio di sdraiarmi a fianco di Mara per dimostrarle che l’amo come e piú che mai, e dimostrare che la morte è stata capace di spegnerci, ma non di dividerci. Può essere solo un simbolo, ma non è poco» 5. Infine: se non è reato il suicidio, perché l’assistenza al suicidio – quando invocato con reiterata costanza come decisione irrevocabile – cioè l’aiuto a qualcosa che reato non è? Perché anche se non sanzionato, il suicidio va ribadito pubblicamente come male? E in base a quale morale? Non quella di Montaigne e Hume e Leopardi, certamente, e tante altre anime somme o Homo sapiens ordinari, come te e me, amico lettore. Perché dell’assistenza al suicidio si fa mercimonio, sfruttamento economico? Ciò avviene solo perché non se ne ammette la gratuità, cioè la liceità e il servizio sanitario nazionale

presso cui ottenerla. È la protervia di sottane gerarchiche e scranni parlamentari che la rende a pagamento, la consente di fatto all’abbiente e non a chi ha meno, che rende privilegio anche vita-e-morte, vita-e-libertà. 1.

[https://video.repubblica.it/cronaca/marina-ripa-di-meana-e-il-videotestamento-fate-sapere-ai-

malati-terminali-che-c-e-un-alternativa-al-suicidio-in-svizzera/293822/294432]. 2. [http://www.repubblica.it/2004/b/sezioni/cronaca/donnami/lutto/lutto.html?refresh_ce]. 3. Umberto Veronesi, Il diritto di non soffrire, Mondadori, Milano 2012, p. 11. 4. Eduard Verhagen, È uccidere o curare?, in «La Primavera di MicroMega», 5 (2006), [https://www.nytimes.com/2005/03/19/world/europe/a-crusade-born-of-a-suffering-infants-cry.html]. 5.

[https://www.ilcittadinodirecanati.it/notizie-recanati/12313-quna-coppia-di-innamorati-sepolti-

insiemeq-lultimo-messaggio-di-lucio-magri-sepolto-stamane].

Capitolo quinto Cattolicamente

1. Promessa di laicità di due cardinali e un arcivescovo. Ma poiché è stato detto che la filosofia origina dalla meraviglia e prende le mosse dallo stupore 1 (thauma è infatti, innanzitutto, l’angosciato stupore), procediamo a filosofare ulteriormente, meravigliandoci in modo ordinato e sistematico di tutte le obiezioni che vengono sciorinate contra quello che a ogni ragione argomentativa appare in modo adamantino, abbiamo visto, un diritto inalienabile. Scegliamo come interlocutori le personalità piú eminenti, poiché in una disputa è buona regola (raramente rispettata) scontrarsi con i migliori campioni della parte avversa, non con quelli piú confortevoli (in genere il mondo cattolico «dialoga» assai spesso con atei di comodo): Elio Sgreccia e Dionigi Tettamanzi, entrambi cardinali (il secondo con lunga carriera di pastore, arcivescovado di Genova e poi di Milano) sono gli autori dei due grandi manuali di riferimento per la bioetica cattolica; monsignor Vincenzo Paglia, cofondatore della Comunità di Sant’Egidio, già vescovo di Terni-Narni-Amelia, nel 2012 è stato nominato Presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, elevato alla dignità di arcivescovo e il 15 agosto 2016 è stato nominato presidente della Pontificia accademia per la vita. Tutti e tre tengono a ribadire che i loro argomenti non si rivolgono solo ai credenti ma a tutti gli uomini in quanto dotati di razionalità. Del resto è l’atteggiamento presente anche nell’Enciclica Evangelium vitae: «Il Vangelo della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti» (§ 100), si indirizza a «ogni uomo» (§ 2). È il punto cruciale e dirimente. Se Tettamanzi, Sgreccia e Paglia non avanzassero argomenti validi anche a prescindere dalla fede cattolica, non potrebbero pretendere che al loro punto di vista si adegui la legge civile, dovrebbero limitarsi a predicare per le pecorelle del gregge sensibili al premio del paradiso e/o alle pene dell’inferno: ogni pretesa in piú implicherebbe il ritorno dello Stato a braccio secolare della Chiesa, regressione medievale insomma. Per Tettamanzi, sul fine vita bisogna parlare a ogni uomo esattamente in quanto «essere razionale libero e responsabile». Per cui «valutazione e

soluzione del problema eutanasia» sono affidati al «discernimento richiesto» non solo «al credente» ma anche «a ogni uomo di buona volontà». E ancora: «urge una valutazione veramente e pienamente umana dell’eutanasia e dei diversi problemi connessi, primo fra tutti il senso del vivere, del soffrire e del morire. Occorre l’impegno alla razionalità» 2 (è Sua Eminenza che sottolinea). Anche Sua Eminenza Sgreccia afferma che «le ragioni offerte sono spesso valide anche per i non credenti», e andrà verificata l’incidenza di quel limitativo «spesso». Monsignor Paglia conclude il suo libro addirittura con un: «il dialogo tra il cristiano e la cultura laica deve trovare un nuovo vigore e una nuova audacia» 3.

2. Una canagliesca amalgama ecclesiastica. A contraddire questi santi propositi si ergono purtroppo le pietre d’inciampo dei canaglieschi riferimenti alle pratiche naziste. Elio Sgreccia, dopo aver richiamato l’ampiezza delle pratiche eutanasiche nella storia, aggiunge che «bisogna giungere al nazismo per vedere esplodere questa pratica in forma organizzata» 4. Assimilazione immonda, perché l’eutanasia di cui da decenni si discute è il diritto all’eutanasia, il diritto, per chi ritiene la propria vita ormai invivibile, di poter essere aiutato a porvi fine. Il nazismo non ebbe mai nulla a che fare con il riconoscimento di tale diritto, si esercitò a sopprimere, contro la loro volontà, le vite di quanti riteneva non in linea con i canoni ariani di umanità. Siamo perciò agli antipodi, e ogni amalgama tra i due fenomeni inquina fino alla distruzione ogni possibilità di «dialogo tra il cristiano e la cultura laica». Purtroppo è san Karol Wojtyła, sul soglio di Pietro come Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Evangelium vitae crea la premessa per questa oltraggiosa e diffamatoria mescolanza, quando scrive che «per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore», poiché alla parola morte manca l’aggettivo cruciale e discriminante: morte richiesta. Sua Eminenza Sgreccia aveva preferito «la soppressione indolore o per pietà di chi soffre o si ritiene che soffra e che possa soffrire nel futuro in modo insopportabile», dove campeggia anche qui l’omissione colpevole e

dirimente: «su sua richiesta». La successiva precisazione risulta velenosamente equivoca: dopo essersi soffermato sul programma nazista, e ammesso che «certamente non sono coincidenti le ragioni portate dai fautori di oggi» e proclamato che «l’analisi va fatta in senso obiettivo e spassionato» conclude con: «c’è un punto comune, però, tra le teorie naziste e l’odierna ideologia pro-eutanasia» 5. Di comune non c’è invece nulla, Eminenza, si tratta di bianco e nero, volontà del malato o volontà dello Stato (del Potere). A questa intollerabile manipolazione ti sei piegato anche tu, amico Vincenzo, perché dopo aver ammesso che «a differenza dei nazisti, oggi ci si basa sul principio dell’autodeterminazione del singolo che la chiede, non certo della imposizione dell’autorità pubblica» concludi con un incongruo, agghiacciante e disonesto «ma i confini tra le due forme non sono sempre chiari» 6. Sono chiarissimi, invece, l’uno l’opposto dell’altro, autodeterminazione e prevaricazione! Vorremmo perciò prendere sul serio Sua Eminenza Tettamanzi quando inveisce contro la «diffusione di una terminologia equivoca e confusionaria», purtroppo lo stravolgimento interessato e consapevole della terminologia è sistematico proprio da parte dell’ideologia cattolica gerarchica, se perfino Vincenzo Paglia, vescovo misericordioso e di un’istituzione misericordiosa confondatore, definisce l’eutanasia «l’atto umano che deliberatamente pone fine alla vita di una persona incurabile gravemente malata», omettendo di proposito l’aggettivo chiave e quintessenziale dell’eutanasia, persona consenziente, e che anzi quel porre fine alla propria vita ha richiesto e invocato, pregando e supplicando. Da qui il raggiro: «non ci troviamo di fronte alla scelta tra una presunta morte migliore (raggiunta con l’eutanasia) e una peggiore (lasciare il malato nel dolore), bensí tra un procurare la morte o far continuare la vita» 7, mentre il dilemma vissuto dal malato nella sua carne e nel suo spirito, quando implora che la sua vita-ormai-tortura abbia un termine, è esattamente quello che Paglia nega. Alla viscida amalgama col nazismo e alla frode per omissione nella definizione di eutanasia, aggiungiamo una terza immoralità, per fortuna sporadica ma particolarmente indecente, già richiamata: «non esistono piú situazioni di dolori terminali che la medicina non sia in grado di rendere sopportabili». Cosí parlò Francesco D’Agostino, pasdaran del dogma bioetico cattolico, in un testo nauseante che dovrebbe essere condannato a recitare di persona al capezzale di qualche morente che l’eutanasia ha disperatamente

invocato, e che invece monsignor Vincenzo Paglia riporta in nota sottoscrivendolo 8. Sarà lo stesso Paglia, proprio dopo aver citato i progressi enormi delle cure palliative, a confessare di non credere che «sia possibile eliminare del tutto il dolore e la sofferenza dalla vita umana», dunque anche dal fine vita, si presume, riconoscendo che «semmai bisogna interrogarsi se il dolore e la sofferenza abbiano senso» 9.

3. Chi chiede l’eutanasia non sa quello che vuole? Abbandoniamo il triste capitolo delle brutture e andiamo agli argomenti. Il primo recita: «Com’è possibile penetrare e scandagliare ciò che realmente passa nell’animo di una persona che chiede di essere uccisa per pietà?» 10. Ma se quello che accade «in interiore homine» è davvero indecifrabile, perché mai, Eminenza Tettamanzi, la sua interpretazione di quanto intende il malato dovrebbe essere piú vicina alla realtà rispetto alle esplicite, reiterate espressioni verbali del malato stesso, le cui condizioni di lucidità e consapevolezza sono state accertate per quanto umanamente possibile? Quale albagia di superiorità, quale tracotanza le consente di ergersi a ermeneuta di fondali psichici che dichiara insondabili? E quale comunicazione umana sarebbe in qualsiasi campo possibile, se si stabilisse la follia che solo le porpore di Santa Madre Chiesa hanno cromosomi e sinapsi atte a «penetrare e scandagliare» ciò che realmente passa nell’animo degli altri Homo sapiens ogni volta che aprono bocca? Non le sembra che si sfiori il delirio di presunzione? Tettamanzi si domanda, retoricamente, «se queste persone siano veramente protagoniste d’una libera scelta di morte, o non piuttosto vittime d’una situazione che non sono riuscite a dominare. Agiscono in libertà o sono sopraffatte da pesi insopportabili?» Retoricamente, perché Tettamanzi, citando Sua Eminenza Joseph Ratzinger, successivamente papa, lo sa: «le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto» 11. Vincent, Dominique, George e Shirley, David, Damiana, Susanna, Lecretia, Brittany, Chantal, Coralie ringrazieranno per quel «quasi sempre», che potrebbe escluderli dal novero di quanti «non sanno quello che sanno». In effetti le

loro sono «sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto», per porre fine alla tortura, però, che invece la tiara vuole imporre fino all’ultimo strazio. «Chi sta accanto ai malati terminali e li assiste con attenzione, pazienza e amore, sa bene che tanto spesso la richiesta di eutanasia non è una domanda di morte bensí una richiesta di accompagnamento, una domanda di aiuto a non soffrire» 12, scrivi anche tu, amico Vincenzo, e per fortuna attenui l’apoditticità di questa inquisitoria certezza con quel «tanto spesso». Non basterebbero gli altri casi, a rendere necessario il diritto all’eutanasia? E non era forse una «domanda di aiuto a non soffrire» quella disperata e reiterata di Coralie, e di tutti gli altri? Che avevano avuto ogni cura, attenzione, pazienza e amore, ma non ne volevano sapere oltre perché non bastava, perché era egualmente tortura, nella carne e nello spirito. Con che diritto vi arrogate di stabilire cosa pensano e sentono davvero? Avete doti sovrannaturali? Perché con queste sofisticherie si arriva, non solo a insultare la logica, esercizio oggi popolarissimo, ma a insultare la sofferenza di chi disperatamente e lucidamente chiede l’eutanasia che spegne la tortura. Monsignor Paglia si domanda se «la decisione di togliersi la vita è davvero un esercizio di libertà». Anche qui retoricamente, perché ha già la risposta: no, visto che «la libertà presuppone che non vi siano costrizioni di sorta quando una volontà viene espressa», mentre chi chiede di morire non è libero bensí «soccombe al peso di un’angoscia insopportabile». «Quanta sofferenza ha sentito chi arriva al punto di decidere di togliersi la vita?» Quanta? Indicibilmente, è l’unica risposta onesta, perché se fosse stata dicibile avrebbe forse contenuto margini per rimandare la decisione. Ma di questa decisione lucida, meditata, ostinata e ribadita, dunque per eccellenza libera, di rifiutare un ulteriore minuto di tale sofferenza indicibile, Paglia fa invece una decisione coartata perché motivata dal peso insostenibile della sofferenza. La decisione di una «deriva totalitaria» arriva a schernire e ingiuriare. Di modo che, se non stai soffrendo non hai motivo di toglierti la vita, ma se stai soffrendo non ne hai il diritto proprio perché soffrendo non sei davvero libero nella tua decisione ma coartato dalla sofferenza stessa. Il circolo vizioso di Comma 22, se non fossero tragedie disumane. In realtà Paglia confessa una riga piú avanti il segreto di questo arrampicarsi sugli specchi della illogica: la libertà «richiede anche di essere esercitata su ciò che è nella piena ed esclusiva disponibilità personale» 13. Evidentemente nega a ciascuno di noi di avere la nostra vita nella nostra disponibilità. Perché la vita

appartiene a Dio. Ma cosí, facendo intervenire il suo Dio, di una discussione che pure aveva promesso razionale, non rimane neppure un simulacro: ha sostituito la razionalità con la sua privatissima fede.

4. Welby, Montanelli e la dignità. Di naturale la morte non ha piú nulla, lo sappiamo già. Ogni gesto medico l’avvicina o l’allontana, per atto o per omissione. Accostare accanimento terapeutico ed eutanasia, come fa monsignor Paglia, costituisce perciò un’ennesima vergognosa amalgama, poiché il primo esercita una violenza sul malato, la seconda accoglie la volontà del malato. Ma la nota pastorale dei vescovi (di cui Paglia è uno degli estensori) obietta che «in ambedue i casi egli [sarebbe Homo sapiens] intende esercitare un dominio assoluto sulla vita e sulla morte» 14. Assoluto certamente no, il progresso tecnico in ambito medico, per quanto esponenziale, non consente, e penso non consentirà mai, questa hybris. Per quanto umanamente possibile, invece, certamente sí, è quello che Homo sapiens cerca di fare da quando ha masticato o decotto la prima erba a questo scopo, è quanto fa la medicina e la ricerca: cercare di esercitare il dominio sulla vita e sulla morte. E d’altronde, se non l’uomo, chi? Paglia contesta in modo risentito l’uso del termine dignità o vita degna che talvolta avanzano quanti chiedono di vedersi riconosciuto il diritto sul proprio fine vita. O dell’espressione piú recente, «qualità della vita». Anche Piergiorgio Welby rifiutava che si parlasse di morte dignitosa: «La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire» 15. Ma lo faceva per poter ritorcere contro Ratzinger, divenuto papa Benedetto XVI, l’uso spietato che della parola dignità aveva fatto quando, affermando «la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale», intendeva in realtà la condanna per i senza speranza a bere il calice della tortura fino alla feccia. E Welby dal suo letto giustamente lo esecrava: «Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il

dolore altrui. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente “biologica” – io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico» 16. Per Indro Montanelli, piú brutalmente, viene meno la dignità del vivere quando non si è piú in grado di andare in bagno da soli 17. Che apparirà provocazione di toscanaccio maledetto solo a chi questa situazione irreversibile non riesce a immaginare con partecipata empatia. Per qualcuno «vedere la degradazione del proprio corpo» 18 significa sentirsi privati della dignità in modo invivibile, e chi sei tu per stabilire qual è il grado di sofferenza che un essere umano debba essere costretto a sopportare contro la propria volontà, se è accertato che questa volontà è lucida, reiterata, fermissima? Sei limitato e mortale come lui, niente che tornerai niente, eguale in libertà: perché il suo soffrire e la sua volontà di porvi fine dovrebbe valere meno della tua ideologia? Perché in questo modo «avanza sempre piú l’idea che la dignità sia un valore totalmente soggettivo e quindi stabilito in maniera del tutto individuale». Oggettivo sarebbe invece quello decretato dai Sommi Pontefici? Perché «è in nome di una valutazione insindacabilmente individuale che l’eutanasia volontaria e il suicidio assistito diventano scelte legittime» 19. E di chi altro, scusate? Paglia si straccia le vesti, ma sempre di individui si tratta. Anche la valutazione da parte di una ideologia religiosa è la valutazione di alcuni individui, per quanto si presumano «Unti dal Signore». Non ci sono decisioni che possano essere prese da «entità» che non siano individui. Del resto l’individualismo non c’entra affatto, è a sua volta un’ideologia (o svariate ideologie), qui è questione di libertà eguale, se non si vuol parlare di eguale dignità. Eppure è proprio monsignor Paglia che abbonda nell’uso del termine: «Il diritto alla dignità comporta quello di essere ascoltati, rispettati, accuditi, nutriti, in una parola amati» 20. Verissimo. Il diritto di essere nutriti, non la condanna alla nutrizione forzata, che avviene solo nelle carceri dei regimi autoritari. Perché ascoltati e rispettati sono termini esigenti, che l’arcivescovo Paglia viola quando insieme ai suoi colleghi di gerarchia cattolica si impalca a legislatore contro chi chiede di non dover permanere nella tortura. Non lo ascolta e non lo rispetta.

5. L’ovvietà della «relazionalità». Sua Eminenza Tettamanzi preferisce giocare un’altra carta. Il ruolo del medico. «L’inaccettabilità dell’eutanasia trova una sua giustificazione razionale anche alla luce delle inevitabili e inquietanti conseguenze che deriverebbero da una sua legittimazione. In particolare si avrebbe un radicale capovolgimento del compito del medico, che si farebbe collaboratore della morte e non piú servitore della vita» 21. Ma il medico non è il «servitore della vita» come astrazione, il medico è semmai il servitore della vita tua o mia, amico lettore. Che non ha il diritto di farci «vivere», nel senso della permanenza biologica di alcune funzioni vitali, ad libitum (suo), tanto è vero che gli è proibito praticare l’accanimento terapeutico, e anzi non può agire in nessun modo senza il nostro consenso, che possiamo rifiutare anche qualora un mancato intervento possa causare con certezza la nostra morte. Monsignor Paglia sottolinea come financo la Chiesa riconosca il diritto a rifiutare mezzi diagnostico-terapeutici «sproporzionati», tali secondo il «criterio di gravosità per il paziente, per la sua famiglia o per chi lo accudisce e per l’intera società» 22. Ma se i quattro soggetti indicati – paziente, famiglia, chi lo accudisce, intera società – palesassero criteri differenti, quale dovrebbe imporsi? Il rapporto tra medico e paziente viene spesso giustamente auspicato e idealizzato come alleanza terapeutica. Ma anche qui, se dopo un dialogo di piena e mutua comprensione, i due propositi restano divergenti, si farà la volontà del medico o quella del paziente? L’ipotesi del conflitto non è infatti evitabile. Se il morente, amico Vincenzo, ha diritto «a partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà» 23, quel «partecipare», che implica ovviamente il dialogo col medico e le persone care, non può poi annullare il «rispetto della sua volontà», perché sarebbe gioco delle tre carte di singolarissima infamia. Non puoi salutare come progresso che «non è piú il tempo del paternalismo medico» e al tempo stesso insistere che «l’unico fine è rappresentato dal bene del paziente», a meno di non aggiungere che a decidere su cosa sia il suo bene sarà sempre, in ultima istanza, il paziente. Perché è certo auspicabile «pervenire a decisioni consensuali attraverso il dialogo tra le parti, libero e aperto, senza prevaricazioni e imposizioni dei propri valori», ma se a una decisione consensuale non si arriva, tra volontà del medico e volontà del paziente una dovrà imporsi sull’altra. La logica, l’umanità, e ormai anche la

legge, sono tassative: quella del paziente. La Chiesa gerarchica non ci sta: «assolutizzare l’autonomia del paziente non porta sempre e in ogni circostanza a fare il suo bene e neppure a fare ciò che desidera» 24. Vuole dunque decidere al suo posto. Al tuo posto, al mio posto, amico lettore. Sa il nostro bene meglio di noi. La libertà del paziente (ma forse la libertà in generale) resta evidentemente inverosimile e indigeribile per Santa Madre Chiesa. Sua Eminenza Tettamanzi prova a tradurre questa boria teocratica in termini laici e addirittura di buon senso: «Ma la libertà non è anche, e ultimamente, responsabilità?» 25. «Ultimamente», per dirla con Sua Eminenza, chi decide si assume sempre e ovviamente la responsabilità della sua scelta, nei confronti di tutti gli altri. Ma Sua Eminenza vuole suggerire che i doveri che ho verso gli altri mi sottraggono la libertà di scegliere sul mio fine vita. Perché sarebbe egoismo. Eppure qualcuno deve scegliere. In una scelta in cui sofferenze di persone diverse entrano in conflitto, responsabilità significa che dovrò dare preminenza alla loro sofferenza a costo dell’abisso della mia? Questo significa solo riconoscere un primato al loro egoismo. Davvero non si capisce perché quello del parente o dell’amico debba fare aggio su quello di chi quella vita la vive, e la vive ormai solo come tortura. In nome della relazionalità, spiega monsignor Paglia. Ma la «ineliminabile dimensione relazionale dell’uomo» 26 è un truismo, va da sé, Robinson è ontologicamente impossibile (e aveva comunque bisogno di Venerdí). Non è mai possibile porre «la libertà di scelta completamente fuori da un contesto relazionale e affettivo» 27. È perciò del tutto immaginario, un «individuo spinto verso una totale autodeterminazione di sé […] come se il “suolo” dove cresce l’umano venisse prosciugato delle relazioni e dei rapporti» 28. Si tratta in realtà di una comoda testa di turco polemica. «La reciprocità nelle relazioni definisce la vita dei singoli e delle società […] soprattutto nei momenti piú alti della vita» 29. Condivido toto corde, e di piú. Perché con ciò anche Paglia riconosce che il fine vita è un momento della vita, anzi uno dei piú alti. E dunque quello che vale per gli altri momenti della vita deve valere per il fine vita massimamente. Ora, quando decidi se sposarti o farti prete, e chi sposare, e quale professione fare, e se smettere di credere in Dio o convertirti a una religione, di tutto questo certamente ragioni con le persone che ti sono care e che stimi,

non sei mai «libero da ogni altro legame e progetto» 30. Ma troveresti abnorme, immagino, che potesse essere un padre a decidere se la figlia deve farsi monaca, o che deve sposare un uomo da lui scelto. Eppure accadeva fino a un recentissimo ieri, e oggi ancora spessissimo in contesto islamico e non solo, e combattiamo tali costumi come incivili perché lesivi dell’autonomia, cioè dignità, della donna che vuole scegliere diversamente. Il matrimonio (o lo sposalizio con Cristo) è un momento alto della vita, ma anche la scelta sul fine vita lo è, parole tue, amico Vincenzo. E allora su quel momento dei «piú alti» dovrebbero decidere i parenti? Il medico? Una Sua Eminenza? O quali altri, tra i tanti titolari della inaggirabile relazionalità di ciascuno di noi? Perché nella relazionalità vi è sempre una gerarchia, non tutte le relazioni sono eguali, e anche la tua religione chiede di «amare il prossimo tuo come te stesso», non piú di te stesso (questa sarebbe santità, che non è doverosa, come insegna il catechismo). E del resto, chi, tra il tuo prossimo? Sulla tua vita, se le parole dignità e libertà hanno un senso non degradato a neolingua orwelliana, in ultima istanza non puoi che decidere tu, per quanto crogiuolo di relazioni tu sia. Il resto sono giochi di parole, destrezza delle tre carte, ignominie sofistiche.

6. Solitudine, amore, carità. Saremmo per questo «tutti piú liberi ma tutti piú soli» 31, dice Paglia. Perché mai? Niente affatto. Non è certo il riconoscimento dell’autonomia di ogni persona nelle decisioni cruciali che ci condanna alla solitudine, poiché essa, se pensata e vissuta coerentemente, conduce semmai a una società di solitaire-solidaire, per dirla con Albert Camus, dove certamente «la felicità è sempre legata all’amore con gli altri» 32, non alla tirannia degli altri, però. Amore è appunto aiutare la persona amata secondo quanto ci chiede, non secondo il nostro desiderio. Perché «l’amore (e agape) è benigno […] non cerca il suo interesse» 33, quell’amore che il cattolico in genere traduce carità, con l’Apostolo aggiungendo: «la fede, la speranza, la carità; ma di tutte la piú grande è la carità». Che amore è mai quello di chi vuole costringere la persona che dice di amare a indugiare in modo interminabile in un pozzo di tortura evitabilissimo? Piú che amore sembrerebbe sadismo. Giustamente sostieni che «a volte si vuole essere rassicurati che non si

sarà soli quando arriverà l’ora» 34, che si potrà invocare la morte circondati dalle persone care, invocando «sorella morte, sii benvenuta» come Francesco d’Assisi 35. E allora perché ti sei strappato le vesti di fronte a Emiel Pauwels che il 7 gennaio alle ore 14 a Bruges ha deciso all’età di novantacinque anni di mettere fine a una vita per lui ormai priva di senso umano e «il giorno prima, lunedí 6 gennaio 2014, aveva fatto una “festa di fine vita”, con suo figlio e i suoi parenti, i vicini di casa, gli amici. C’erano anche televisione e stampa: le immagini mostrano un anziano sveglio e ben cosciente che, con un bicchiere di champagne in mano, brinda alla fine della sua vita. Pauwels era noto per essere un atleta anche novantenne, lo sport era tutta la sua vita […] I medici che gli avevano diagnosticato un cancro allo stomaco volevano continuare a curarlo […] lui fu irremovibile […] voleva evitare i dolori, la malattia e le sofferenze legate alla morte» 36. Ho riportato la vicenda con le parole di Paglia, che contengono però una menzogna e un’omissione. Dimenticano di ricordare che Pauwels era profondamente credente, profondamente cristiano, tanto è vero che ha detto «perché dovrei piangere mentre vado in paradiso a ritrovare un sacco di amici e parenti, tra cui mia moglie?» 37. E sostengono che il figlio e gli amici «avevano implorato che desistesse dal chiedere l’eutanasia», quando suo figlio Eddy ha dichiarato alla catena televisiva Vtm («Vlaamse Televisie Maatschappij», la televisione fiamminga piú importante) di «essere d’accordo al 110%» con la decisione di suo padre. Paglia stigmatizza la sua decisione come «l’amara vicenda di Emiel», ma di amaro c’è solo il caso che ha fatto impazzire le cellule del suo stomaco in proliferazione tumorale, perché per il resto Emiel ha potuto avere la buona morte che di fronte alla condanna aveva scelto, e ha spiegato (come riportato dal quotidiano «Het Laatste Nieuws») di «non aver alcun rimpianto ad andarsene» e di «non avere assolutamente paura della morte […] Chi non vorrebbe andarsene con dello champagne circondato da tutti i suoi amici? Quando il dottore arriverà con l’iniezione lascerò questo mondo con la consapevolezza di aver trascorso una vita piena». Monsignor Paglia fa sue le parole di una donna che ha scritto un libro dal titolo Nous voulons tous mourir dans la dignité: «Vorrei una morte tranquilla, nel mio letto, non all’ospedale. Vorrei che ci fosse qualcuno attorno a me e che mi dica parole d’amore» 38, e commenta: «penso sia non degno, indegno, non accorgersi del mare di solitudine e di non senso che forse accompagna

chi ritiene che non vale piú la pena di vivere» 39, perché «nessuno vuole morire da solo» 40 e «il rarefarsi della compagnia dei morenti è uno dei motivi del decadimento della dimensione umana del vivere» 41, ma poi aborrisce la scelta di Emiel Pauwels, che quanto Paglia auspica ha ottenuto e quanto condanna ha evitato. Aggiungi, amico Vincenzo, che «non si deve dimenticare il valore che trasmette chi sta terminando i suoi giorni di vita sulla terra» 42, ma getti l’anatema sui tanti che scegliendo l’eutanasia proprio questa testimonianza danno.

7. L’alleanza terapeutica e il medico che vorremmo. Il riferimento all’alleanza terapeutica esige qualche parola in piú. Ignazio Marino ricorda come, giovane chirurgo a Pittsburgh, il suo maestro in chirurgia dei trapianti lo avesse chiamato inopinatamente in sala operatoria ad assisterlo, e lí avesse osservato come «uno dei delicati strumenti che servono per chiudere le incisioni sui vasi principali e interrompere il flusso sanguigno era aperto», di conseguenza il paziente «morí dissanguato al tavolo operatorio sotto i miei occhi increduli […] Anni dopo mi capitò di riparlare dell’accaduto e chiesi a quel chirurgo qualche spiegazione. Tremai nell’intuire da parole pronunciate a metà che forse aveva fatto un patto con il paziente prima dell’intervento: se non valeva la pena andare avanti il chirurgo lo avrebbe lasciato morire piuttosto che prolungare un’agonia inutile» 43. Vorrei sempre incontrare un chirurgo cosí, e forse altri lettori con me lo vorrebbero. Un alleato, cui puoi dire prima dell’intervento le condizioni per tornare a coscienza, il quanto e soprattutto il come, la qualità di vita prevedibile a seguito dell’intervento. Il «valere la pena» deciso dopo averne parlato con tutte le persone piú care (la «relazionalità», Eminenze, va da sé), ma infine in piena coscienza e libertà, autonomamente. «Valere la pena» che per qualcuno viene meno anche solo se diventa necessario amputare una gamba o un braccio, per qualcuno continua a sussistere anche in condizioni tetraplegiche, ma non potete essere voi, Eminenze, a deciderlo, e neppure tu, amico Ignazio, perché la vita da vivere è quella del paziente, non la tua. E tu invece concludi: «Fu allora che mi arrabbiai: non si possono fare accordi con i pazienti. Il medico ha il dovere di curare, non può decidere di uccidere, nemmeno se questo è il volere del paziente». Oggi per legge già

può, anzi deve, per omissione: perfino in Italia. In altri Paesi, piú civili e logici, anche per atti, almeno in definite circostanze. Perché quell’uccidere in realtà è prendersi cura secondo le volontà del paziente, è solo porre termine alla tortura, o non consentire che si inauguri, e abbiamo convenuto da oltre un paio di secoli che la tortura è peggiore della morte e non si deve piú comminarla neppure ai piú scellerati degli assassini. Certo, il diritto all’eutanasia non implica il dovere di comportamenti come quello del maestro americano di Ignazio Marino, eppure è a medici cosí che sentiremmo davvero di poterci affidare, di averli come alleati per la cura e la guarigione della malattia, ma anche per la cura della nostra sofferenza secondo la nostra volontà, laddove tutti gli sforzi della scienza medica siano risultati impotenti per una guarigione con qualità di vita che ci sembri insindacabilmente degna. Un medico come il tuo maestro, Ignazio, o come il dottor Max Schur, il medico di Sigmund Freud, con cui Freud aveva stabilito un patto, che Schur rispettò. Cosí le piú importanti biografie di Freud: «il 21 settembre, mentre siede accanto al letto di Freud, questi gli prende la mano e gli dice: “Schur, ricorda il nostro ‘contratto’ di non lasciarmi nelle peste quando fosse giunto il momento? Adesso non è altro che tortura e non ha senso”. Schur fa cenno di non aver dimenticato. Freud emette un sospiro di sollievo, trattiene un attimo la mano di Schur e dice: “La ringrazio”» 44. Recenti ricerche, basate sulla consultazione dei «Freud Archives» alla Library of Congress di Washington, hanno rimesso in discussione questa versione, sostenendo che «l’iniezione finale che ha affrettato la morte di Freud gli fu fatta da Josephine Stross, amica da lunga data di Anna Freud, la cui presenza al capezzale di Freud morente era stata fin qui trascurata» 45, anziché da Schur personalmente: sempre sotto la sua responsabilità, però. Con medici cosí, davvero alleati, la paura di morire potrebbe collassare, e spingere a prolungare il proprio vivere di sofferenza piú oltre nella sopportazione, proprio perché nella certezza che il medico alleato rispetterà il momento in cui diremo «adesso non ha senso».

8. Altri «non sequitur» ecclesiastici. Uno degli argomenti favoriti e ricorrenti di quanti vogliono impedire al

sofferente di abbreviare con la morte la propria tortura è quello della china pericolosa (ormai sempre piú spesso slippery slope, vista la sudditanza e resa della lingua di Dante all’inglese, da cui anche la pessima traduzione a calco «china scivolosa»). Sostanzialmente: il diritto all’eutanasia sarebbe forse accettabile per i malati terminali in circostanze eccezionali di sofferenze insopportabili, ma una volta introdotto inevitabilmente trascina con sé la legittimazione di misure sempre piú ampie e immorali, fino all’omicidio di ogni vita giudicata inutile o indegna, come già nel nazismo. Abbiamo già affrontato questo argomento nel caso piú arduo, che i fautori della tortura di Chiesa e di Stato utilizzano come cavallo di battaglia, l’eutanasia neonatale. Sarebbe potuto bastare. Tuttavia affrontiamolo complessivamente. Si tratta di un non-argomento per eccellenza. Se esistono argomenti validi per il diritto all’eutanasia dei malati terminali non ne segue affatto che allora tale diritto dovrà estendersi anche a chi soffra in modo insopportabile per altri motivi (magari «solamente» psicologici). Tale diverso diritto dovrà essere argomentato indipendentemente dal primo (lo abbiamo fatto a p. 82). E cosí per l’interruzione della tortura in neonati affetti da patologie di mostruosa sofferenza (lo abbiamo fatto a p. 80). I sostenitori del diritto all’eutanasia si sono sempre attenuti a questa logica rigorosa, se qualcuno non lo ha fatto ha squalificato se stesso, non il dovere di riconoscere tale diritto. Diritto che per l’adulto capace di intendere e volere va da sé (dovrebbe, almeno), abbiamo visto. Dunque sulla propria vita – a meno di non precipitare nella giurisdizione teocratica dell’argomento-Dio – l’unico sovrano è chi questa vita vive. Per cui in realtà spetterà a chi tale diritto intende negare, portare solidissimi argomenti contra. Particolarmente offensivo verso verità e logica è il non sequitur della «china pericolosa» solennemente teorizzata da Sua Eminenza Tettamanzi: «la rivendicazione del diritto [all’eutanasia] alimenta l’idea di un dovere, un dovere a chiedere l’eutanasia quando ci si trova in determinate condizioni, in condizioni gravose per la società» 46. Si tratta di una plateale menzogna, nessuno lo ha mai sostenuto. I difensori del diritto all’eutanasia fanno riferimento alle «condizioni gravose e insopportabili per il paziente», non per la società! Monsignor Paglia dedica addirittura un intero capitolo a questa impostura, intitolato «Dal “diritto” al “dovere” di morire» 47. Cattolicamente, una menzogna tira l’altra, sembrerebbe. «Tra i motivi razionali per rifiutare la legittimazione dell’eutanasia abbiamo ricordato

questa possibile conseguenza sociale: se il malato grave, i suoi parenti, il medico potessero lecitamente decidere della morte e provocarla, perché, almeno in determinate circostanze, non dovrebbe avere il medesimo diritto anche lo Stato?» 48. Sua Eminenza c’è o ci fa? Intanto «il malato grave, i suoi parenti, il medico» son tre soggetti diversi e non assimilabili. Il diritto all’eutanasia riguarda sempre e solo il primo e le sue volontà lucide e reiterate (eventualmente anticipate). E soprattutto, cosa c’entra lo Stato? Lo Stato, cioè la sua contingente maggioranza politica, che si arroga il diritto di decidere sulla vita e sulla morte di un cittadino, è avviato sulla strada, questa sí china pericolosissima, del totalitarismo, dove il cittadino è degradato a suddito. Ma è lo Stato che si muove in questo orizzonte, quando nega il diritto di ciascuno sulla propria vita (fine vita compreso), e la Chiesa che lo incita e condiziona, volendolo braccio secolare del proprio dogma. In realtà la Chiesa, che pure in fatto di bioetica proclama di voler evangelizzare su basi non confessionali ma semplicemente umane, non è in grado di rinunciare alla volontà di potere, di proprietà, sulla vita altrui, di tutti. Cosí, Sua Eminenza Tettamanzi, nello stigmatizzare l’Associazione francese per l’eutanasia che intende «introdurre in Costituzione il principio del “diritto a disporre liberamente del proprio corpo e della propria vita, scegliendo i mezzi e il momento per porre fine ad essa”» ammette che «certo, il corpo è mio: ma di quale possesso si tratta? Quello del “proprietario” o “padrone” assoluto, oppure quello del “custode” amorevole e fedele?» 49. Mi scusi, Eminenza, ma custode per conto di chi? Ammesso che si tratta di avanzare argomenti strettamente umani, non dunque l’argomento-Dio, quale custodia piú amorevole della propria vita che decidere di essa da parte di chi la vive, compreso il «morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere», come riconosciuto anche da Papa Francesco? 50. Lei ha proclamato «il principio di autonomia, in forza del quale il paziente ha diritto di decidere liberamente su come vivere i suoi ultimi istanti di vita in conformità ai propri principî e alle verità da lui professate, senza dover quindi subire particolari condizionamenti esterni» 51, ma poi questa pretesa «pura umanità», i.e. laicità, del dialogo lascia vistosamente emergere in palinsesto la volontà di Dio, cioè la sua personale, Eminenza, di uomo che è cenere come ciascuno di noi, e della Chiesa gerarchica, visto che del vostro Dio si tratta.

9. Tettamanzi ammette che solo la fede giustifica il no assoluto all’eutanasia. Monsignor Paglia esprime la stessa contraddizione cosí: «la vita è un bene che ci accomuna, che ci unisce tutti e ci avvolge. Nessuno è padrone assoluto della vita, anche perché siamo gli uni saldamente uniti agli altri» 52. Ovviamente. Ma poi, intrecciate ed esaurite tutte le forme di relazionalità, sul proprio fine vita qualcuno decide: tu o io sul tuo, io o tu sul mio? Insomma, le promesse di dialogo puramente umano sono spesso avanzate in buonafede, ma poi non reggono le conseguenze logiche ineluttabili di un discorso privo delle incursioni della volontà di Dio, perché se teniamo fermo alla sola volontà degli uomini (e altre non ve ne sono sulla terra) è lapalissiano che in ultima istanza per ciascuno valga il «sia fatta la tua volontà» anziché quella di un altro Homo sapiens, polvere come il primo. E infatti sia le Eminenze Sgreccia e Tettamanzi sia monsignor Paglia, per uscire dal cul-de-sac delle rispettive contraddizioni, sono costretti in extremis a ricorrere all’argomento-Dio. Tutta l’arringa decisiva di monsignor Paglia che «smaschera la pretesa di compassione che giustifica la pratica eutanasica» è basata su una lunga citazione dell’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, ormai santo e che non a caso fa leva su quest’unico irrefutabile «argomento» di fede: «Dio solo ha il potere di far morire o di far vivere: “Sono io che do la morte o faccio vivere” (Dt 32,39; cfr. 2 Re 5,7; 1 Sam 2,6)» 53. Il Libro è la nostra Costituzione, amico Vincenzo? Non ti ricorda «il Corano è la nostra Costituzione»? Il cardinal Sgreccia, contro il manifesto laico piú noto per il diritto all’eutanasia 54, argomenta che «quando l’uomo non avverte piú il valore trascendente di persona, non gli resta che sentirsi una cosa», e verrebbe da replicargli: ma parla per te! Proprio perché sento tutto il mio valore non trascendente, finito, voglio vivere liberamente la mia vita fino in fondo, perché la mia finitezza è il mio tutto, tanto piú che Sua Eminenza si avventura in territorio filosofico con spericolate alchimie: «Noi dobbiamo assorbire la lezione di Heidegger che vede la morte iscritta nella vita intera come la luce disvelatrice del limite, e comporre tale lezione con la metafisica di san Tommaso, che apre l’essere personale dell’uomo alla vita ultraterrena» 55. E per chi non è né heideggeriano né tomista? È meno Homo sapiens? Ha meno diritti?

Il cardinale Tettamanzi, meno cripticamente e piú onestamente, in un dialogo col sottoscritto, riconosceva: «sono d’accordo nel dire che solo a partire da una concezione antropologica che contempli la realtà di Dio – del Dio cristiano – si può dire un “no” assoluto all’eutanasia» 56, e di nuovo: «il no assoluto all’eutanasia anche nelle situazioni piú drammatiche o si radica in una prospettiva di fede religiosa o diversamente, almeno in termini assoluti, non regge» 57. Concludendo perciò: «depenalizzare significa continuare a riconoscere che un comportamento è male, ma allo stesso tempo non ritenerlo tale da dover intervenire con una sanzione penale, senza però arrivare a una vera e propria legalizzazione, a una vera e propria autorizzazione» 58. Conclusione sorprendente per un alto esponente della gerarchia cattolica, ma logicamente conseguente, intellettualmente e moralmente onesta: riconosce che andrebbero eliminati gli articoli che sanzionano il suicidio assistito e l’uccisione del consenziente (i famigerati articoli 579 e 580, con le pene massime di dodici e quindici anni). In tal modo, si badi, il diritto all’eutanasia sarebbe piú ampio che in qualsiasi Paese dove sia stato legalizzato. Se questa divenisse la posizione della Chiesa cattolica il cittadino laico non avrebbe piú nulla da obiettare, i pastori continuerebbero a predicare alle pecorelle che l’eutanasia è un male, che si paga con l’inferno, ma su questa terra ciascuno sarebbe libero di decidere il proprio bene (o male) sul proprio fine vita, autonomamente, senza sanzione alcuna per chi lo aiutasse. Purtroppo non è cosí, e lo stesso Tettamanzi si avvita poi in un rosario di distinzioni tra «no» assoluto e non assoluto, ma l’ammissione che solo la fede è argomento che tenga contro il diritto all’eutanasia è stata comunque fatta, è l’unica logica, e mai come in questo caso «voce dal sen fuggita, piú richiamar non vale» 59.

10. Lo confessa anche il Papa. In realtà la inevitabilità della fede per poter argomentare contro il diritto all’eutanasia (dunque l’impossibilità di farlo in termini meramente umani) è la posizione ufficiale della Chiesa cattolica, confessata apertis verbis piú volte ancora di quante sia dissimulata sotto la velleità di una «fondazione razionale, laica e universale della difesa della vita umana e del rifiuto dell’eutanasia» 60. Sua Eminenza Sgreccia si avventura a dire che «la vita è un

bene e un valore laico, riconoscibile da tutti coloro che intendono ispirarsi alla retta ragione e alla verità oggettiva» 61, ma la ragione è «retta» e la verità è «oggettiva» solo quando coincidono con i dogmi di Santa Romana Chiesa, tanto è vero che poche righe sotto Sua Eminenza precisa: «rispettare la verità della persona […] vuol dire rispettare Dio […] rispettare l’incontro dell’uomo con Dio, il suo ritorno al Creatore» 62. Ukase teologico che di laico non contiene neppure un’oncia. Insomma, la promessa di un «dialogo con il mondo laico» 63, da mantenere in termini razionali e senza incursioni fideistiche, si rivela soprattutto una mossa propagandistica. Lo stesso cardinal Tettamanzi lo «confessa» con una certa ingenuità nel suo manuale, quando elenca le «considerazioni utili, se non necessarie, nel contesto di una “campagna” a favore di una legalizzazione dell’eutanasia (anche se ambiguamente introdotta come legge che regolamenta la sospensione di terapie al malato terminale). La prima riguarda le ragioni da addursi per contrastare una simile campagna: evidentemente devono essere “razionali” e “sociali”, devono appellarsi alla ragione umana e al bene comune» 64. Ragioni introvabili e che lo stesso Tettamanzi ha riconosciuto tali nel già citato dialogo con il sottoscritto. Che gli unici argomenti contro il diritto di ciascuno a decidere sul proprio fine vita siano di caratura teologica e presuppongano la fede (nell’interpretazione dogmatica della Gerarchia) è evidenziato dal ricorrente nesso istituito tra il rifiuto del diritto all’eutanasia e un possibile senso positivo della sofferenza e della morte. «La secolarizzazione del pensiero e della vita […] non consente di comprendere il significato della morte e il valore del dolore», perché «la morte ha un senso se, privando l’uomo dei beni terreni, apre alla speranza verso una vita piú piena» 65. Dunque solo se la morte è apparenza, passaggio «a miglior vita». Analogamente per la sofferenza: «nella prospettiva religiosa sofferenza e morte mantengono un loro “senso”: al di fuori possono facilmente smarrirlo. Se poi la prospettiva è di rinunciare e di rifiutare Dio stesso, l’esito ultimo non può essere che l’abdicazione a un principio fondamentale dell’esistenza personale e sociale: il principio dell’assoluta indisponibilità e inviolabilità di ogni vita umana» 66. Insomma, e di nuovo (e a smentita delle promesse cattoliche di una fondazione meramente umana e razionale): il fondamento della indisponibilità della vita per chi la vive è solo la fede in Dio (il Dio

cattolico, anzi il Dio della Gerarchia, abbiamo visto), in sua assenza tale indisponibilità non è difendibile. «Se la fede nel Crocefisso viene meno, l’uomo non riesce piú a percepire il carattere immorale dell’eutanasia» 67. Solo in una teocrazia è sostenibile la proibizione, e la proibizione si giustifica solo con la teocrazia. «La vita e la morte appartengono al signore: Lui ne è il padrone assoluto, Lui solo ne può disporre. Nessun altro ne può disporre: né il paziente, né i familiari, né il suo rappresentante legale, né il medico, né lo Stato» 68. Amen.

11. Cattolici per il diritto all’eutanasia: Küng, Franzoni e san Filippo Neri. E tuttavia, se anche si assume Dio, e anzi il Dio cristiano, quello del simbolo di Nicea, è sicuro che abbia detto no al suicidio assistito? Poco sopra abbiamo concluso che gli unici argomenti contro il diritto di ciascuno a decidere sul proprio fine vita fossero di caratura teologica e presupponessero almeno la fede. Almeno, perché in realtà non mancano gli uomini di fede cattolica che difendono cristianamente il diritto all’eutanasia. Hans Küng, probabilmente il maggior teologo cattolico vivente, va dritto al punto cruciale: «Ha l’uomo in generale, anche per la concezione cristiana, il diritto di disporre da sé dell’essere e del non essere della propria vita?» 69. Conosce la risposta gerarchica («Essi dicono che all’uomo non è moralmente lecito disporre liberamente della propria vita») 70 dal momento che «gli argomenti tradizionali della teologia mi sono familiari per cosí dire fin dalla gioventú» 71. La litania gerarchica prescrive che «l’uomo deve resistere fino alla “fine stabilita”. Ma io chiedo: quale fine è stata stabilita?» Perché «la vita è per volontà di Dio anche compito dell’uomo e perciò è rimessa alla nostra propria decisione responsabile (e a nessun’altra) in un’autonomia che si fonda sulla teonomia» e dunque non ha senso l’anatema sull’eutanasia quale «“rifiuto della signoria di Dio”… cosa significano tali altisonanti parole di fronte a una vita definitivamente distrutta e a un dolore insopportabile? […] Dietro questi argomenti sta una falsa immagine di Dio, che si basa su alcuni passi biblici scelti arbitrariamente e interpretati letteralmente» e la verità è che «ci sono addirittura dei teologi che hanno paura di una “società senza dolore”» 72.

Ragiona Küng: «Non sarebbe allora logico assumere che anche la fine della vita umana sia stata posta da Dio stesso, oggi piú che mai, sotto la responsabilità dell’uomo? Dio infatti non vuole che gli attribuiamo una responsabilità che possiamo e dobbiamo portare noi stessi. Con la libertà Dio ha dato all’uomo anche il diritto alla totale autodeterminazione, che non significa affatto arbitrio, ma libertà di coscienza» 73. Dunque, Küng fonda il diritto di ciascuno a decidere sul proprio fine vita teologicamente, oltre che logicamente, cristianamente, oltre che umanamente: «il diritto di continuare a vivere non può diventare un dovere, il diritto alla vita non equivale a una coercizione a vivere» 74. Cita anche le Scritture: «Neppure nella Bibbia – che peraltro non conosce alcuna intangibilità di principio alla vita – si può trovare un solo argomento contro il suicidio» 75. Anzi, vi è anche il suicidio assistito. Di Abimelec, che guida l’assedio alla città di Tebes: «si appressò all’ingresso della torre per bruciarla col fuoco. Ma una donna gettò un pezzo di macina sul capo di Abimelec e gli fracassò il cranio. Allora egli chiamò sollecitamente il giovane che portava le sue armi e gli disse: “Sguaina la tua spada e uccidimi, che non dicano di me: l’ha ucciso una donna”. Il suo servo lo trafisse e morí» 76. E di Saul, che ferito gravemente dai filistei «disse al suo scudiero: “Snuda la tua spada e trafiggimi con essa, che non vengano questi incirconcisi, mi trafiggano e si rallegrino di me”. Ma il suo scudiero non volle, perché aveva molto timore; allora Saul prese la propria spada e si gettò su di essa. E come lo scudiero vide che Saul era morto, si gettò anch’egli sulla propria spada e morí con lui» 77. Küng è un cattolico che si ostina ad avere «incrollabile fiducia in un Dio che non è un sadico, ma è il Misericordioso, e la cui grazia dura in eterno» 78. E dunque annienta cattolicamente tutti i topoi dell’anatema che la Chiesa gerarchica scaglia sull’eutanasia. Fino a questo: «la terapia del dolore […] non è la soluzione a tutte le richieste di morire. Non sempre è possibile togliere il dolore ai malati gravi. Inoltre bisogna aggiungere che alcuni uomini vorrebbero morire anche se non patiscono dolori incurabili» 79. Dom Giovanni Franzoni, ex abate benedettino della Basilica di San Paolo Fuori le Mura, dignità parificata a vescovo e in tale veste il piú giovane tra i «padri» partecipanti al Concilio Vaticano II, ricorda che san Tommaso Moro, «recentemente indicato come modello e patrono dei politici cattolici», nel suo Utopia, immagina che siano i sacerdoti e magistrati a esortare al suicidio

coloro per i quali «la vita non è che tormento», e giudica comunque la posizione di Moro «arretrata rispetto a quanto noi possiamo e desideriamo proporre oggi» 80, poiché non deve essere necessaria l’approvazione dei sacerdoti, basta una laica volontà del sofferente. Comunque, «le Chiese, una volta espresse le proprie raccomandazioni e rimosse le obiezioni di carattere ideologico, dovrebbero farsi da parte», e non c’è «vita come dono di Dio» che tenga, perché «il dono, di per sé, ha soprattutto il carattere della gratuità […] come si può pensare che [Dio] non lasci a colui che ha ricevuto il dono la responsabilità di fruirne liberamente e di restituirlo devotamente quando esso si fosse trasformato in un onere insopportabile?» 81. In fondo, l’eutanasia ha perfino il suo santo patrono, san Filippo Neri. È lo storico cattolico Paolo Prodi ad aver valorizzato ed evidenziato uno dei miracoli che sono alla base della canonizzazione del fondatore dell’Oratorio. «Nel luglio 1590 si ammala e agonizza tra terribili sofferenze la ricca e nobile signora Porzia Corsini degli Anguillara; Filippo va a trovarla e viene talmente coinvolto dalle sue sofferenze che, già uscito dalla casa dell’agonizzante, ritorna sui suoi passi, le mette le mani sulle guance, le alita in faccia una o due volte dicendo ad alta voce “ti comando anima che tu esca da questo corpo”; subito la donna rimase inanimata, finalmente nella pace della morte. Un taumaturgo alla rovescia», riportando le deposizioni di Marcello Vitelleschi («il padre commandò all’anima, che uscisse fuori del corpo, et cosí subito spirò») e di Beatrice Caetani Cesi («la pigliò sulla testa […] et, stringendo il capo della signora, disse: “ti commando, anima, che tu esca di questo corpo”, et la signora subito spirò»), cruciali per la santificazione 82.

12. Già Pio XII… In realtà basterebbe che la Chiesa cattolica tenesse ferma la logica, pur partendo dalle proprie premesse, perché si potesse concludere nella liceità dell’eutanasia. Valga il vero. Il 24 febbraio 1957 Pio XII, papa quanto mai conservatore, rispondeva a un congresso di anestesisti in questi termini: «Riepilogando, voi Ci chiedevate: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un’indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della

morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?” Si dovrà rispondere: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sí”» 83. In questa linea, Sua Eminenza Sgreccia sottolinea che la «terapia del dolore, può comportare l’abbreviazione indiretta della vita» 84 ma resta lecita, e che anzi «le tecniche di rianimazione consentono per molti prodigiose e totali riprese, ma spesso condannano alcuni a trattamenti di prolungamento dell’agonia piú che della vita» 85. Abbreviare la vita come effetto indiretto del sollievo contro la tortura (la sofferenza del malato), è dunque cattolicamente lecito. D’altro canto la sedazione (stato di incoscienza) che libera dalla tortura può essere anche permanente, cioè definitiva per il paziente, e restare comunque cattolicamente lecita, visto che vi ha fatto ricorso lo stesso cardinale Carlo Maria Martini come ricordato dalla sua nipote Giulia Facchini, che lo ha assistito fino all’ultimo, in una commovente «lettera allo zietto» pubblicata sul «Corriere della Sera» il 4 settembre 2012: «le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi piú a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E cosí è stato. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato […] Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta piú, hai chiesto di essere addormentato. Cosí una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato». «L’agonia non è stata né facile, né breve», aggiunge la nipote. Ma è avvenuta in sedazione profonda, altro termine per dire il coma indotto, uno stato di totale incoscienza, in cui nessuna della facoltà umane che leghiamo all’anima è piú presente. Nella sedazione profonda permanente l’uomo è un corpo e niente altro, un insieme di organi senza piú possibilità di coscienza, sensazione, percezione, senza piú nessuna delle funzioni che per un cattolico vanno sotto il nome di «anima». Senza piú nessuna delle funzioni umane. Che differenza c’è tra lasciare che tali funzioni biologiche non piú umane cessino un’ora o

un giorno o una settimana prima o dopo? Nessuna, umanamente parlando. Ma neppure cristianamente, aggiungerebbero Küng, Franzoni e tantissimi altri cristiani (quasi tutti i valdesi, ad esempio). E neppure secondo il combinato disposto di ukase pontificio + logica, a ben vedere. Pio XII ha già decretato che si può cattolicamente accorciare una vita pienamente umana pur di lenire il dolore. A maggior ragione, perciò, se un mero corpo in coma irreversibilmente indotto. Solo una forma di feticismo superstizioso, soggiogato e avvelenato dal flatus vocis «vita», può volere accanirsi cosí. Una sorta di materialismo biologistico idolatrico piú che cristiano. 1. Aristotele, Metafisica, 982b; Platone, Teeteto, 155d. 2. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 538. 3. Vincenzo Paglia, Sorella morte, Piemme, Milano 2016, p. 268. 4. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 717. 5. Ibid., p. 719. 6. V. Paglia, Sorella morte cit., pp. 19-20. 7. Ibid., p. 17. 8. Ibid., p. 26. 9. Ibid., p. 234. 10. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 542. 11. Ibid., p. 543. 12. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 28. 13. Ibid., p. 107. 14. Ibid., p. 172. 15.

Piergiorgio

Welby,

lettera

al

presidente

Giorgio

Napolitano,

[http://temi.repubblica.it/micromega-online/lettera-aperta-di-piergiorgio-welby-al-presidente-dellarepubblica-giorgio-napolitano/]. 16. Ibid. 17. «Corriere della Sera», 21 dicembre 2000. 18. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 174. 19. Ibid., p. 177. 20. Ibid., p. 184. 21. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 548. 22. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 166. 23. Ibid., p. 184. 24. Ibid., p. 200. 25. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 558.

26. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 178. 27. Ibid., p. 201. 28. Ibid., p. 135. 29. Ibid. 30. Ibid., p. 135. 31. Ibid., p. 138. 32. Ibid., p. 139. 33. San Paolo, Prima lettera ai Corinzi 13,4-5. 34. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 53. 35. Ibid., p. 72. 36. Ibid., p. 38. 37. [http://www.ilsecoloxix.it/p/sport/2014/01/07/AQQO6ySB-pauwels_eutanasia_campione.shtml http://www.scienzaevita.org/wp-content/uploads/2015/02/244cd4b28757a84c628bf85877ba15ca.pdf]. 38. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 179. 39. Ibid., p. 180. 40. Ibid., p. 263. 41. Ibid., p. 265. 42. Ibid., p. 93. 43. Ignazio Marino, Credere e curare, Einaudi, Torino 2005, pp. 66-68. 44. Peter Gay, Freud, una vita per i nostri tempi, Bompiani, Milano 1988, p. 591, analogamente in Ernst Jones, Vita e opere di Sigmund Freud, il Saggiatore, Milano 1962, vol. III, e in Max Schur, Freud in vita e in morte, Bollati Boringhieri, Torino 1976 e 2006, pp. 498-99. 45. [https://www.researchgate.net/publication/236823596_Freud’s_Death_Historical_Truth_and_Biographi cal_Fictions]. 46. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 533. 47. V. Paglia, Sorella morte cit., pp. 98-113. 48. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 550. 49. Ibid., p. 558. 50. Messaggio del Santo Padre Francesco ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical

Association

sulle

questioni

del

[http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2017/documents/papafrancesco_20171107_messaggio-monspaglia.html]. 51. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 525. 52. V. Paglia, Sorella morte cit., p. 111. 53. Ibid., p. 27; Evangelium vitae, § 66.

«fine-vita»,

54.

«The

Humanist»,

luglio-agosto

1974,

[https://www.worldrtd.net/news/plea-beneficent-

euthanasia]. 55. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 725. 56. P. Flores d’Arcais e D. Tettamanzi, La bioetica tra fede e disincanto cit., p. 56. 57. Ibid., p. 59. 58. Ibid., p. 63. 59. Metastasio, (Ipermestra, atto II, sc. 1), concetto espresso da Orazio: nescit vox missa reverti («la parola detta non sa tornare indietro») in Ars poetica, 390. 60. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 735. 61. Ibid. 62. Ibid., pp. 735-36. 63. Ibid., p. 735. 64. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 558. 65. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 721. 66. D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana cit., p. 535. 67. Ibid., pp. 547-48. 68. Ibid., p. 546. 69. Hans Küng e Walter Jens, Della dignità del morire, Rizzoli, Milano 2010, p. 57. 70. Ibid., p. 59. 71. Ibid., p. 61. 72. Ibid., pp. 61-63. 73. Ibid., p. 69. 74. Ibid., p. 71. 75. Ibid. 76. Giudici 9,52-54, in La Bibbia concordata cit. 77. I Samuele 31,4-5, ibid. 78. H. Küng e W. Jens, Della dignità del morire cit., p. 84. 79. Ibid., p. 148. 80. Giovanni Franzoni, La morte condivisa, Edup, Roma 2002, pp. 74-76. 81. Ibid., pp. 115, 116, 118. 82. Paolo Prodi, Profezia vs utopia, il Mulino, Bologna 2013, pp. 199-200. 83. Discorso del Santo Padre Pio XII ai partecipanti al IX congresso della società italiana di anestesiologia intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia, Roma, 24 febbraio 1957, [http://elsiglofuturo.blogspot.com/2007/03/discorso-di-pio-xii-intorno-tre-quesiti.html]. 84. E. Sgreccia, Manuale di bioetica cit., p. 726. 85. Ibid.

Capitolo sesto Commiato, ovvero perché la tua vita sia tua, occorre lottare

1. La vita è un dono. La vita è sacra. Appunto! Chiudiamo. L’eutanasia è un diritto di ciascuno. Non un dovere. Affermarlo come diritto, codificarlo come tale nella legge e anzi nella Costituzione, lascia ciascuno libero di fronte all’eutanasia, non impone nulla a nessuno. Chi vorrà porre fine a un fine vita di torture sarà libero di farlo, chi vorrà bere l’amaro calice fino all’estremo sarà altrettanto libero nella sua vocazione. L’eutanasia come riconosciuto diritto civile non stabilisce l’eutanasia come comportamento, smette solo di discriminare, condannare, punire quale criminale chi lo voglia agevolare per amore, pone il mio fine vita e il tuo fine vita, amico lettore, su un piano di eguaglianza. Pone ogni tu e ogni io su un piano di eguale dignità. Fin qui invece io non posso scegliere per te il tuo fine vita, amico vescovo Paglia – e ci mancherebbe!, dirai, in effetti sarebbe prevaricazione abnorme – tu in compenso puoi scegliere il mio, al punto che se io non seguo la tua volontà, chi mi aiuta a compiere la mia volontà, in genere la persona piú amata e che piú mi ama, rischia dodici o quindici anni di bagno penale. Puoi chiamarla carità cristiana questa sopraffazione, se cosí ti piace, ma qui stiamo parlando della legge, che è erga omnes, credenti o non credenti, e non si vede perché la tua carità cristiana che prevede la mia tortura debba diventare norma, e condanna e pena di galera al comportamento dei miei cari. La vita è un dono, molcisci. Come tale appartiene a chi lo riceve, allora. Un dono, sul cui uso e destinazione continuasse a decidere qualcun altro, infatti, tutto sarebbe fuorché dono. Nell’ipotesi piú favorevole sarebbe prestito, ma onerosissimo. Non dono ma debito, dunque. E per un prestito mai richiesto. In realtà sarebbe vincolo, sudditanza, corvée. In tal modo, però, il sacrosanto diritto alla vita si muterebbe in condanna, piú che in dovere. E una condanna a vita può essere piú insopportabile di una condanna a morte 1. «Io credo che nessuno abbia mai fatto rinuncia alla vita, finché essa era degna di essere vissuta» 2. La vita è sacra, perseveri. Vita senza aggettivi? Falso, lo sai tu per primo,

gli antibiotici ne distruggono a strame. Certo, replichi: volevo dire che la vita umana è sacra. Ma quando è umana, visto che non basta l’insieme biologico di alcuni nostri organi vitali funzionanti? Per essere umana deve essere tua, o mia. Personale. Irripetibile. Ma se è tua o mia, insomma imprescrittibilmente di chi la vive, il diritto alla tua, alla mia vita è anche sempre il diritto a rinunciarvi, altrimenti sarebbe costrizione e pena, non diritto. Potere di qualcun altro. «Non sono obbligato a recare un piccolo vantaggio alla società a spese di un gran danno che derivi a me stesso; perché allora dovrei prolungare un’esistenza miserabile in ragione di qualche modesto giovamento che la società potrebbe trarre dalla mia presenza?» 3. In realtà, la vita è innanzitutto un nudo fatto. Che non abbiamo scelto, ma che possiamo scegliere, a differenza dell’animale, che può solo lasciarsi morire. Siamo piú che animali anche per la libera decisione di vivere, che non è mai irreversibile, e che non dobbiamo a nessuno. Se vivere, fin quando vivere, è l’estrema e fondante libertà di ogni altra libertà. «Vivere è servire, se manca la libertà di morire» 4. La vita è sacra, in effetti, ma nel senso che tutti gli altri devono rispettarla come per loro intangibile perché tua. Inseparabile da te e dalla tua volontà. Tabú per loro, perciò sacra, perché non possono prevaricare su nessuna tua decisione, perché sarebbe sacrilegio impedirla. La sacertà della vita è la sovranità della/sulla/nella propria vita, perché fa corpo unico con il proprio esistere, con l’essere persona, di chi quella vita vive e decide, fine vita compreso. Chi vuole imporre la sua ideologia sul tuo fine vita vuole essere un Dio nei tuoi confronti, vuol coprire di orpelli spirituali e belletto celeste la sua misera, ma soprattutto frustrata, volontà e voluttà di potenza. Dietro tante venerabili maiuscole – Vita Natura Dio Sacro – una questione di mero potere. La vanità ultraumana di chi vuole tenere fuori legge il diritto di ciascuno sul proprio fine vita e punire di galera l’aiuto di chi ama «sia fatta la sua volontà», si riduce a questo: che alcuni possono morire come preferiscono e altri no, e i primi anzi possono imporre agli altri il tipo di morte che essi preferiscono e gli altri detestano. Oscenità da Superuomo.

2. Contro i «piú eguali», ribellati! Contro la sovranità di ciascuno sulla propria vita non è stata portata

nessuna obiezione argomentata. Abbiamo argomentato invece in lungo e in largo che non può essere invocato Dio, non può essere invocata la Natura, abbiamo a che fare solo tra persone eguali in dignità. E non può essere invocata la relazionalità e l’alleanza terapeutica, perché proprio la fratellanza della loro filigrana impone che in caso di contrasto sia fatta la volontà di chi quel fine vita sta vivendo. Se ci riconoscessimo eguali, confessare che ognuno sceglie il proprio fine vita andrebbe da sé. Ma abbiamo la tentazione, molti di noi, almeno ed evidentemente, di essere piú eguali, come i maiali della Fattoria degli animali di Orwell, di imporre agli altri la nostra libertà, cioè il nostro dominio, cancellando la loro. Senza rendersi conto che cosí si autorizza il reciproco, e dunque si eleva a norma delle norme il bellum omnium contra omnes, la legge del piú forte. E quello che si vuol legittimare per il fine vita, la sopraffazione della sua volontà sulla tua, per la stessa logica potrà essere applicata sulla tua e sua religione, sul tuo e suo matrimonio, sul suo e tuo abbigliamento, sul clitoride mutilato di ogni bambina, infine. Perché il potere ha vocazione a diventare assoluto, e poiché «se il corpo non è l’anima, che cosa è dunque l’anima?» 5, da sempre mira ad esercitarsi sul sesso, sulla nascita, sulla morte. Cos’altro, perciò? Contro il diritto sulla propria vita nessuno in realtà ha mai saputo argomentare, se non per teocrazia o statolatria. Eppure anche nelle democrazie la pulsione a essere «piú uguali» irresistibilmente ritorna e non ascolta ragione. Ribellati, amico lettore, democratico lettore. Alza il tuo no! a chi parla di sacralità della vita solo per imporre a te la sua volontà, togliendo dignità alla tua vita. 1. Paolo Flores d’Arcais, Il dono della vita e la decisone sulla morte, in «MicroMega», 2 (1997), p. 25, e vedi tutto lo svolgimento. 2. D. Hume, Saggi cit., p. 781. 3. Ibid. p. 780. 4. M. de Montaigne, Saggi cit., p. 621. 5. Walt Whitman, Canto il corpo elettrico, in Foglie d’erba, Einaudi, Torino 1973, p. 118.

Il libro

A

CHI APPARTIENE LA NOSTRA VITA?

DETTO ALTRIMENTI: SUL NOSTRO FINE VITA È

preferibile che decidiamo noi o un estraneo che non conosciamo, scelto dal caso o dai rapporti di forza, che potrebbe essere anche un nostro

nemico? Questo è l’unico interrogativo intellettualmente onesto, logicamente e moralmente onesto, con cui affrontare il tema del fine vita, del suicidio assistito, dell’eutanasia. Ed è l’interrogativo che Paolo Flores d’Arcais si pone in questo pamphlet, lucido, serrato e implacabile nel carattere stringente delle sue argomentazioni. La risposta ovvia è che preferiamo decidere noi. Perché mai dovremmo sottometterci a un altro, alla Chiesa, a una maggioranza politica? Tutti e ciascuno, senza eccezioni, preferiremmo essere noi a scegliere. Ad essere logicamente e moralmente onesti, perciò la questione del fine vita non costituisce un problema, non dovrebbe, almeno. Ha in sé la sua risposta: nessuno può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro.

L’autore PAOLO FLORES D’ARCAIS,

filosofo, è direttore di «MicroMega». Ha sempre unito

lavoro filosofico e impegno civile e giornalistico. È stato tra gli animatori del movimento del «Sessantotto», e piú recentemente (2002) dei «Girotondi». Per Einaudi ha pubblicato Etica senza fede (1992) e L’individuo libertario (1999). Ha inoltre pubblicato Il sovrano e il dissidente (2004), Dio esiste? (2005, in controversia con Joseph Ratzinger), Hannah Arendt (2006), Atei o credenti? (2007, in controversia con Michel Onfray e Gianni Vattimo) e La guerra del sacro (2016).

Dello stesso autore Etica senza fede L’individuo libertario

© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858432143

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Frontespizio Il libro L’autore Prologo 1. A chi appartiene la tua vita. 2. Un problema che non dovrebbe esistere. I. Logicamente 1. Come vorremmo morire. 2. Vita biologica e vita umana. 3. L’irriducibile autonomia. 4. Tu sei la tua vita. 5. L’inganno del «bene indisponibile». 6. Non c’è Natura che tenga. 7. Vita-e-libertà. 8. L’improponibile argomento-Dio. 9. Sillogismo ricapitolativo. II. Esistenzialmente 1. Esecuzioni, torture, feste. 2. Pena di morte, mai piú «crudele e inusitata». 3. Crimini orrendi. 4. Condannati a morte innocenti, con tortura. 5. Ancora, condannati a morte innocenti, con tortura. 6. Altri condannati a morte innocenti, con tortura. 7. Condannate a soffrire “ad vitam aeternam”. 8. Tortura fisica e tortura psicologica. 9. Giovanni Nuvoli e la tortura di Stato e di Chiesa. 10. Francesco, il lettore e l’empatia. 11. Umanità delle giurie popolari. 12. Suicidio, eroismo e martiri cristiani. 13. Suicidio e paradiso, Jihad e urí. III. Filosoficamente 1. La vita degna: Sofocle, Montaigne, Kant, Leopardi. 2. Un circolo vizioso e la risposta di Hume. IV. Giuridicamente 1. Sedazione profonda permanente. 2. China pericolosa e casi di confine. 3. Eutanasia neonatale. 4. Il caso Lucio Magri. V. Cattolicamente 1. Promessa di laicità di due cardinali e un arcivescovo. 2. Una canagliesca amalgama ecclesiastica. 3. Chi chiede l’eutanasia non sa quello che vuole? 4. Welby, Montanelli e la dignità. 5. L’ovvietà della «relazionalità». 6. Solitudine, amore, carità. 7. L’alleanza terapeutica e il medico che vorremmo. 8. Altri «non sequitur» ecclesiastici. 9. Tettamanzi ammette che solo la fede giustifica il no assoluto all’eutanasia. 10. Lo confessa anche il Papa. 11. Cattolici per il diritto all’eutanasia: Küng, Franzoni e san Filippo Neri. 12. Già Pio XII… VI. Commiato, ovvero perché la tua vita sia tua, occorre lottare 1. La vita è un dono. La vita è sacra. Appunto! 2. Contro i «piú eguali», ribellati!

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